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sembrano essere concetti separati ma in realtà sono uniti, hanno molti oggetti in comune
FILOSOFIA E METAFISICA
Metafisica: ciò che va oltre l’esperienza sensibile. Dimensione da prendere in considerazione
nell’ambito conoscitivo; non possiamo dire di conoscere tutto il reale, poiché tutto necessita di una
spiegazione. Esistono però vari tipi di metafisiche
l’uomo non può fare a meno della metafisica, gli serve per dare spiegazione al problema della vita
FILOSOFIA E RELIGIONE
ENTITÀ DEL PROBLEMA, DIVERSITÀ NEL MODO DI RISOLVERLO
C’è nella storia un insieme di dottrine e convinzioni che chiamiamo religione (come un insieme di
altre convinzioni chiamiamo scienza, arte, poesia)
la filosofia e la religione condividono lo stesso oggetto: il problema della vita. La prima prova a
risolverlo tramite la ragione, la seconda tramite la fede
non si ha alcun motivo di abbandonare la religione fin quando è utile, la rivelazione ci serve per
conoscere ciò che tramite la sola ragione umana sarebbe difficile o addirittura impossibile
l’affidarsi alla rivelazione permette di compiere un tragitto in maniera più sicura e semplice, chi si
basa sul solo ragionamento deve compiere sforzi immani per avere pochi risultati
Scienza:
conoscenza dimostrata (lo è anche la filosofia)
insieme delle scienze particolari
prendiamo il secondo significato
b. per aspetti universali si intende l’essere che si trova in ogni realtà, mentre per aspetti specifici
intendiamo quelli che caratterizzano qualche realtà. Ogni realtà ha l’essere ma non ogni realtà è
detto che abbiamo tutte le caratterizzazioni specifiche (es: sia vivo, luminoso, rosso…). Le cause
prossime determinano quell’effetto lì, quelle remote invece determinano quello e tanti altri; la prima
si chiede come, mentre la seconda perché
c. ogni uomo ha la concezione di essere intrinseca in sé; tuttavia nella vita quotidiana e nella
ricerca scientifica ciò viene posto sullo sfondo. Se voglio conoscere l’essere in sé allora dovrò
procedere a priori con la deduzione, se invece voglio ragionare su casi specifici allora dovrò
indagare più approfonditamente. Nasce dunque la necessità del metodo induttivo; che va
dall'esperienza all’assioma e poi alla definizione
vi è un’ altra distinzione tra scienza moderna e filosofia: essa si esprime e da soluzioni in termini
matematici. Ovvero esprime i fenomeni fisici quantitativamente e non qualitativamente (es: il calore
viene misurato in base alla lunghezza della colonna di mercurio)
quando penso, posso considerare o ciò che è presente nel pensiero oppure il modo con cui il
pensiero si manifesta (es: “tutti gli uomini sono mortali” posso pensarla preoccupato della sorte
degli uomini oppure considerandola come una proposizione universale, affermativa ecc…) questa
seconda è campo della logica
quando studio logica considero i caratteri del pensato in quanto pensato; mentre all’essere mortale
compete all’uomo poiché uomo, l’essere proposizione universale non compete a nulla in questo
mondo
se consideriamo la logica come un'arte, dato che ogni arte presuppone una teoria, allora anche
l’arte logica presupporrà una scienza logica (es: non posso dire “l’aspirina fa passare l’influenza”
senza un minimo di conoscenza per cui so che l’aspirina fa ciò)
Un'altra distinzione è tra logica formale e logica materiale, la prima si occupa della coerenza del
discorso mentre la seconda della sua verità.
Ci sono poi due momenti nella logica: il primo studia le varie forme del discorso, il secondo si
chiede “che cos’è un discorso?”. Essi possono corrispondere, considerando al distinzione tra
scienza e filosofia
alla logica scientifica: che studia e analizza i diversi tipi di pensato
alla logica filosofica: che studia il pensato nei suoi caratteri universali
logistica= logica matematica o simbolica= un perfezionamento della logica antica alla quale è
stato aggiunto un formulario matematico che permette una maggiore esattezza e raffinatezza nei
procedimenti
la logica matematica non è divisa da quella aristotelica, è solo una sua continuazione che la
perfeziona col tempo. La logica minor aristotelica, è tuttora valida, non è stata sostituita dalla logica
simbolica moderna
LOGICA MINOR
CAP 1
IL CONCETTO IN GENERALE
si possono descrivere 3 tipi di attività conoscitiva:
la pura apprensione: ho presente un certo contenuto o oggetto senza affermare nulla (es:
cavallo, virtù, tavolo) [CAP 1]
il giudizio: l’atto col quale affermo o nego qualcosa (es: il cavallo è una bestia, la virtù
deve essere pratica, il tavolo è solido) [CAP 2]
il ragionamento: connetto insieme le enunciazioni, passando da una ad un’altra (es: la
luce era spenta quando sono uscito, ora è accesa, qualcuno è entrato durante la mia
assenza) [CAP 3]
alla logica tuttavia ciò che interessa è i tipi di pensato che corrispondono a tali attività (esse
interessano alla psicologia): il concetto, l’enunciazione e l’argomentazione
il concetto viene definito anche termine, in quanto presente nelle proposizioni, e si distingue in:
mentale: il pensiero, o concetto (la logica si occupa di questo)
orale: la parola che esprime tale concetto
scritto: il segno grafico che esprime il concetto
i termini orali e scritti sono segni, ovvero ci fanno conoscere qualcos’altro; infatti essi ci fanno
conoscere un pensiero e non sono considerati come suoni o disegni.
un’altra distinzione è tra signum instrumentale e signum formale: il primo è ciò che deve essere
prima conosciuto in se stesso per poi far capire di cosa è segno (es: la bandiera deve prima
essere vista come un pezzo di stoffa colorata per poi capire di che nazione è), non esaurisce la
sua realtà nel significato, ha anche una realtà in sé. Il secondo invece è il puro segno, la sua realtà
è il solo significare; esso corrisponde al puro concetto.
si distingue anche in naturale e convenzionale: è naturale ciò che per natura fa conoscere
un’altra cosa (es: il fumo per natura fa conoscere che c’è fuoco), convenzionale invece ciò che
significa una determinata cosa perché decisa dagli uomini (es: le bandiere significano la nazione
poiché è stato deciso così); anche il linguaggio è convenzionale in quanto è stato l’uomo ad
associare a quella parola quell’oggetto
i termini poi possono avere estensione e comprensione: la prima indica il numero di soggetti ai
quali esso è predicabile (es: uomo, è l’insieme dei vari uomini); la seconda invece riguarda le
caratteristiche che pensiamo quando pensiamo a quel termine (es: uomo, mortale, razionale…).
esse però sono inversamente proporzionali tra di loro, se infatti considero “animale”, termine più
esteso di uomo, esso avrà meno comprensione (non sono razionali, artistici…).
CATEGORIE: concetti universali sotto i quali si identificano i diversi aspetti della realtà, i supremi
generi dei predicati. Esse derivano dall’esperienza (es: le categorie di Ari.)
SUPPOSITIO: il domandarsi quali soggetti rappresenta il termine (es: l’uomo zappava la terra,
l’uomo è un genere animale: l’uomo che zappava la terra può essere Tizio, ma tizio non può
essere un genere animale). Essa può essere
a. materiale: quando il luogo del termine è la parola stessa (es:uomo è una parola di 4
lettere)
b. formale: il luogo del termine è nel suo significato. Si divide in
1. logica: quando il termine sta in luogo di ciò che è pensato in quanto pensato (es:
uomo è un concetto universale)
2. reale: quando il termine sta in luogo del significato (es: l’uomo è un animale
sociale). Si divide in
assoluta: se il termine sta in luogo di tutti (es: gli uomini hanno un’anima)
personale: se il termine sta in luogo solo per alcuni (es: l’uomo lavoratore).
Può essere
a. comune: se il termine sta in luogo a tutti gli individui che ai quali si
applica (es: l’uomo è socievole)
b. discreta: se sta in luogo solo ad alcuni (es: l’uomo è musicista). SI
divide in
1. determinata: se indica certi individui (es: il cibo è sul tavolo,
indica un determinato cibo). il predicato esprime un’azione o
uno stato attuale
2. confusa: se indica un individuo qualunque di una
determinata specie (es: il cibo serve per sopravvivere).
esprime una possibilità o una necessità
I termini possono avere rapporti tra loro, e possono essere di esclusione o implicazione.
Implicazione:
reciproca: se A implica B allora B implica A (es: Parigi e la capitale della Francia, sono
invertibili)
non reciproca: se A implica B ma non viceversa (es: Parigi e capitale, non tutte le capitali
sono Parigi)
Esclusione:
disparati: se indicano cose totalmente diverse (es: rosso e dolce)
contrari: se indicano gli estremi di uno stesso genere (es: luce e ombra)
contraddittori: se uno pone ciò che l’altro toglie (es: verde e non verde)
relativi: se esprimono una relazione ma in modo che uno non possa essere scambiato con
l’altro (es: padre e figlio)
DEFINIZIONE E DIVISIONE
Definizione: discorso con cui significhiamo che cosa è un oggetto
se possiamo definirlo significa che abbiamo di lui già qualche nozione; il semplice dare il nome a
ciò che abbiamo sperimentato sensibilmente significa elevare un contenuto sensibile a portatore di
significato universale (es: leone rappresenta quell’animale per tutti)
non si possono dunque definire i generi supremi, che non hanno concetto più universale di loro, e
gli individui in quanto le loro differenze non sono intuibili all’intelletto umano.
la definizione può essere buona o non buona, no vera o falsa; in quanto finché essa non viene
accostata al definito essa non è ancora giudizio
Divisione: mira a rendere distinti i concetti tramite la distinzione in varie parti di un oggetto o dei
suoi significati. Può essere:
a. nominale: se distinguo i vari significati di un termine
b. reale: se distinguo le varie parti di un oggetto. Si divide, in base al tipo di parti considerate,
in
1. parti soggettive: i soggetti a cui si applica la divisione (es: l’enumerazione delle
varie specie comprese in un genere)
2. parti integranti: parti la cui unione costituisce il tutto che si vuol dividere. Esse
possono essere
quantitative: possono sussistere separate dal tutto (es: 1 metro cubo
corrisponde a 1000 decimetri cubi)
essenziali: non possono sussistere separate dal tutto (es: il corpo è fatto di
materia e forma)
3. parti potenziali: esprimono le varie capacità di un tutto (es: le capacità di un
vivente sono il nutrirsi, riprodursi…)
CAP 2
Enunciazione o proposizione: è il termine logico del giudizio, ovvero esprime un affermazione o
negazione e può essere vera o falsa
L’ENUNCIAZIONE IN SE
nell’espressione mentale gli elementi dell’enunciazione sono il soggetto e il predicato, mentre
nella sua espressione verbale sono il nome e il verbo. Il nome esprime una realtà concepita come
sostanza (non il tempo, quello è la misura del divenire), il verbo esprime il divenire e perciò deve
essere determinato in base al tempo
il verbo può essere: sostantivo o attributivo; il primo corrisponde al verbo essere quando
esprime l’esistenza, il secondo corrisponde a tutti gli altri verbi che presuppongono il verbo essere
e ad esso aggiungono un altro attributo
il verbo essere ha due funzioni: predicato quando esprime l’esistenza, copula se unisce il
predicato e il soggetto senza esprimere l’esistenza
dall'estensione del soggetto dipende la sua quantità, e per la quantità l’enunciazione può
essere:
universale: quando il predicato è attribuito a tutti gli enti ai quali si estende il concetto
espresso dal soggetto (es: ogni triangolo ha tre lati)
particolare: quando il predicato è attribuito ad alcuni enti ai quali si estende il concetto
espresso dal soggetto (es: alcuni uomini sono filosofi)
singolare: quando il predicato è attribuito ad un solo individuo (es: Franco è filosofo). Essa
è un caso particolare della particolare
indefinita: quando il predicato è attribuito al soggetto, senza specificare a quanti enti si
estenda. Essa inoltre equivale ad una universale quando è necessaria o impossibile, ad
una particolare quando è contingente
vi sono 4 modi:
necessaria: il predicato deve essere attribuito al soggetto (es: è necessario che il triangolo
abbia tre lati)
impossibile: il predicato non può essere attribuito al soggetto (es: è impossibile che Dio ci
inganni)
possibile: il predicato può essere attribuito al soggetto (es: è possibile che un uomo sia
filosofo)
contingente: il predicato è attribuito al soggetto, ma poteva anche non esserlo (es: è
contingente che Aldo corra, potrebbe anche non farlo)
la forma delle proposizioni modali dipende dalla copula che unisce il modus con il dictum non il
soggetto con il predicato (es: è necessario che dio non ci inganni, è affermativa; non è necessario
che dio crei il mondo, è negativa).
La verità e la falsità delle modali dipendono dal modus e non dal dictum (es: è impossibile che un
triangolo abbia 4 lati, è vera; è possibile che un triangolo abbia 3 lati, è falsa). Bisogna poi
distinguere tra senso composto e senso diviso: il primo quando i termini del dictum si realizzano
simultaneamente, il secondo quando si realizzano successivamente (es: è possibile che un cieco
veda; è falsa in senso composto, è vera in senso diviso)
La quantità delle modali dipende dall’estensione del modo:
necessaria= universale affermativa (A)
impossibile= universale negativa (E)
possibile= particolare affermativa (I)
contingente= particolare negativa (O)
le enunciazioni possono essere semplici o composte: semplice è quella che esprime solo o
un'affermazione o una negazione, composta quella che esprime più proposizioni semplici insieme
vi sono vari gradi di opposizione: il massimo è quello della contraddittorie poiché devono essere
una per forza vera ed una falsa. Poi vi sono le contrarie che possono essere entrambe false,
ponendo vera una particolare affermativa. Infine vi sono le subcontrarie che possono invece
essere entrambe vere (mai entrambe false)
EQUIPOLLENZA
si dicono equipollenti due proposizioni che differiscono per forma ma che sono uguali per
soggetto, predicato e valore logico (es: non ogni triangolo è rettangolo, alcuni triangoli non sono
rettangoli).
Due contraddittorie diventano equipollenti quando ad una delle due si premette una negazione
(es: NON ogni triangolo è rettangolo; alcuni triangoli non sono rettangoli)
Due contrarie diventano equipollenti quando in una di esse si pone la negazione dopo il soggetto
(es: tutti gli uomini NON corrono; nessun uomo corre)
CAP 3
L’ARGOMENTAZIONE IN GENERALE
L’argomentazione è il termine logico del ragionamento; esso indica l’attività con la quale lo
spirito passa da una proposizione nota ad un’altra. Ma non basta che un giudizio segua un altro,
serve che uno sia causa dell’altro. Abbiamo dunque un antecedente, dal quale si genere il
conseguente, essi sono legati dal vincolo chiamato conseguenza.
L’argomentazione non è né vera né falsa, ciò compete i giudizi, bensì può essere buona o
cattiva dipendentemente se la conseguenza c’è veramente o meno (es: per tutti i triangoli vale il
teo di Pita., i triangoli ottusangoli sono triangoli ⇒ il teo di Pita vale per i triangoli ottusangoli; la
premessa è falsa ma comunque è una buona argomentazione)
si dice argomentazione formale quella in cui il conseguente deriva dall antecedente in virtù
della forma (questa è la vera argomentazione)
si dice argomentazione materiale quella in cui il conseguente deriva dall antecedente in virtù
della materia, ovvero delle determinate proposizioni (es: questo triangolo ha tre lati ⇒ tutti i
triangoli hanno tre lati). Non c’è nesso però tra antecedente e conseguente
dictum de omni e dictum de nullo: ciò che viene affermato universalmente deve affermarsi
anche a tutti i suoi inferiori,; quello che si nega universalmente deve negarsi anche a tutti i suoi
inferiori (applicazione del principio di convenienza e discrepanza)
essi si decifrano:
le vocali indicano la qualità e quantità delle proposizioni (AEIO)
la consonante iniziale indica a dei modi perfetti è riducibile (i primi)
METODI INDUTTIVI
J. Stuart Mill suggerisce quattro metodi:
1. metodo di concordanza: se duo o più casi hanno una sola circostanza in comune, essa
sarà il motivo del fenomeno (es: se metto tanti pezzi di carne all’aria aperta tutte
marciranno e nasceranno organismi ⇒ è l’aria che porta i germi)
2. metodo di differenza: se un caso in cui il fenomeno avviene e uno in cui non avviene,
hanno tutte le circostanze in comune eccetto una, quella sarà la ragione del fenomeno (es:
se lascio una carne all’aria mentre un’altra la sigilli, su la prima avrò nuovi organismi
mentre sull’altra no ⇒ l’aria porta i germi)
3. metodo dei residui: se elimino da un fenomeno ciò che già so, quello che rimarrà sarà ciò
che è provocato dagli antecedenti che restano (es: Nettuno fu scoperto perché il moto di
Urano era strano, tolte da questo le leggi già note dei pianeti si scoprì Nettuno)
4. metodo delle variazioni concomitanti: se un fenomeno varia in un modo, al variare di un
altro fenomeno, esso è connesso al primo (es: se espongo una carne all’aria per un ora e
un’altra per due ore e vedrò che nella prima ci sono meno organismi ⇒ l’aria porta i germi)
LOGICA MAIOR
CAP 1
ELIMINAZIONE DEI PREGIUDIZI
IL METODO CRITICO
Critico solitamente viene accostato ad un metodo che segue un giudizio ponderato e lo si
contrappone al procedimento dogmatico. Tuttavia noi intendiamo il metodo critico come
spregiudicatezza radicale nella ricerca, che non presuppone nessuna certezza su come le cose
stiano. Esso è proprio non solo della ricerca della conoscenza ma di ogni ricerca filosofica.
L’EVIDENZA
l’evidenza è il vedere che le cose stanno così, ovvero ciò che si vuole raggiungere tramite il
metodo critico; ci si domanda se è vero per vedere se è vero. Le obiezioni contro essa
presuppongono sempre un errato concetto di evidenza
LO SCETTICISMO
se uno non riesce ad arrivare ad una conclusione, e inizi a predicare l’impossibilità del conoscere,
si definirà scettico. Tuttavia questa non è una dottrina in quanto: o, arrivato a tale conclusione,
smette di essere cercatore e pone la sua conclusione come atto arbitrario; oppure la pretende
come vera ma così facendo la suppone come evidenza, contraddicendosi
lo stesso Hegel dice che prima di conoscere dobbiamo indagare la facoltà del conoscere. Ma per
conoscere il conoscere bisogna conoscere (sarebbe assurdo pensare di imparare a nuotare senza
toccare prima l'acqua)
CAP 2
FENOMENOLOGIA (intesa come studio del fenomeno) DELLA CONOSCENZA
COME CONOSCIAMO LA CONOSCENZA
non abbiamo esperienza immediata del conoscere (non vediamo il vedere), noi conosciamo per
riflessione (es: vediamo il rosso, ma non vediamo il vedere). La conoscenza spesso la si definisce
come un rapporto fra un soggetto e un oggetto, tuttavia il soggetto e l’oggetto non ci appaiono
direttamente, bisogna attuare una riflessione e capire cosa è l’uno e cosa l’altro.
fra le tante realtà alcune conosciamo, ce ne sono alcune che hanno identità reale, come quando
ho freddo, sono lieto di ascoltare musica, e sono preoccupato. Essi sono dunque modi di essere
me (potrei dire io sono infreddolito, io sono lieto…). Ma nella stessa esperienza ci sono anche
fattori come il rosso del camino che non costituiscono la mia identità (non posso dire io sono rosso
del camino), ma che sono comunque uniti al me che ha freddo, lieto e preoccupato.
noi capiamo che c’è qualcos'altro che oltre a noi, e questa presenza dell’altro la chiamiamo
conoscenza. Il soggetto e l’oggetto li capiamo perché capiamo che l’insieme di sentimenti non è
l’insieme totale di ciò che consta.
L’io si presenta come soggetto, in quanto soggetto di certe realtà che sono gli stati affettivi, non
come conoscente. La presenza di realtà che non sono me sono la conoscenza, è dunque così che
io mi definisco conoscente.
Ciò che si coglie dunque non è la conoscenza, bensì il suo oggetto (vedo il giallo non il vedere).
Ammettendo che quegli oggetti non sono me, ammetto una loro presenza a me; tale relazione la
chiamo conoscenza (Cartesio intende la stessa cosa quando parla di cogito; indica qualche cosa
che appare, che essa sia reale o meno)
nella coscienza (?intendi coscienza come conoscenza?) è contenuto in maniera differente l’atto di
conoscere dall'oggetto conosciuto; dunque è problematico parlare di contenuto della coscienza
è uno pseudo-problema anche quello di come fare a passare dalla coscienza all’essere. Tuttavia la
coscienza non è altro che la manifestazione dell’essere nella realtà
CONOSCENZA E RAPPRESENTAZIONE
la conoscenza non si esaurisce nell’avere rappresentazioni; esse ci sono, ma sono solo una parte
della conoscenza, bisogna anche essere coscienti delle rappresentazioni.
Nelle teorie che pongono le rappresentazioni come ciò che si conosce, tali rappresentazioni
dovrebbero essere utilizzate per conoscere gli oggetti esterni, di cui sarebbero immagini. Tuttavia
è impossibile conoscere un oggetto tramite un’immagine se io non conosco l’oggetto (es: non
posso vedere un uomo in un dipinto e dire che è un uomo se non conosco cosa sia un’uomo)
il problema allora della trascendenza della coscienza si risolve dicendo che la conoscenza non è
altro che la presenza dell’oggetto al soggetto
Galileo:
nega che le qualità secondarie esistano, o meglio, che appartengano ai corpi esterni. Pone due
ragioni:
1. mentre concepisco alcune proprietà che una figura deve avere necessariamente
(estensione, moto o quiete…) non concepisco necessarie le qualità secondarie
2. come quando una piuma ci solletica non pensiamo che il solletico sia in lei; così è per le
qualità secondarie
1. se supponiamo che le sole proprietà quantitative, ovvero le uniche pienamente intellegibili
da noi, sono le uniche esistenti; dovremmo ammettere anche che sia l’intelletto umano il
creatore della realtà
2. mentre il solletico è dato come mio, le qualità secondarie non sono dati come miei
Per Galileo dunque: il mondo fisico è pura estensione figurata in movimento, priva di qualità (è nei
viventi che si producono le qualità che poi vengono associate agli oggetti)
Cartesio:
riduce anche il corpo a pura estensione, ponendo tutto ciò che è qualitativo alla res cogitans. Il
mondo dunque è una macchina e nell’uomo vi è la res extensa e res cogitans, la sola capace di
cogliere le sensazioni.
Quando conosciamo, che sia un colore o una figura, otteniamo sempre un idea, con la distinzione
che la prima è confusa, mentre la seconda è chiara e distinta
Locke, Berkeley:
il primo nega che ci siano idee innate, tutte le idee provengono dall’esperienza; ma afferma la
distinzione tra qualità primarie e secondarie, finendo in un incoerenza.
a risolvere tale incoerenza sarà Berkeley, il quale smetterà di distinguere le varie qualità e porrà
tutto sotto il nome di idee. Non bisogna però confondere ideato e ideare (oggetto e atto della
conoscenza). L’ideare, che risiede in me, è sempre distinto dall’ideato; l’atto si distingue sempre
dall’oggetto, che esso esista all’esterno o meno.
(conoscitivamente non c’è nessuna differenza tra il conoscere il moto di un pianeta e conoscere il
proprio cervello)
CAP 3
TEORIA E CRITICA DELLA CONOSCENZA
critica della conoscenza:
dottrina che stabilisce quali sono le conoscenze vere (scienza)
dottrina che stabilisce le condizioni della verità in generale (logica filosofica)
l’idea che possa esistere una scienza unica può essere data da due motivi: 1) la difficoltà del
problema del mondo esterno 2) dall’idea che si possa determinare qualcosa senza prima
determinarne la sua natura
1. tali difficoltà sono determinate da pregiudizi soggettivistici, basta toglierli e vengono
eliminate le difficoltà
2. si dice che per dimostrare le “nature” particolari sia compito delle scienze singole, mentre
che un mondo di corpi esista è compito della gnoseologia. Tuttavia bisogna chiedersi, per
affermare se esiste, che cosa esiste? qual è il mondo?
mondo considerato come ente, che nessuno negherebbe mai, è compito
dell’ontologia
mondo considerato come ente distinto dall’atto conoscitivo, è sempre un'evidenza
immediata ⇒ non deve essere dimostrato
mondo considerato secondo le scienze fisiche e biologiche, tale dimostrazione può
essere fatta solo da quelle scienze
mondo considerato come esterno, ovvero stimolo che agisce sugli organi periferici,
viene studiato dalla psicologia
mondo considerato come l’ambiente in cui vivo, è appunto sentito, non è da
dimostrare ma da vivere(?)
dunque l’esistenza delle cose può essere data solo nel particolare
L’idealismo, in particolare quello metafisico (Hegel), pone l’Assoluto come pensiero, tutto ciò che
esiste è solo una manifestazione dell’Assoluto
CAP 4
GLI UNIVERSALI
per studiare il pensato occorre partire dal concetto base di esso per non rischiare di attribuirgli
caratteri che non lo competono (es: se voglio parlare dei viventi non posso parlare solo di un cane)
la forma base del pensato è il concetto, e il carattere che lo distingue dalla realtà e dunque
l’universalità (esso compete solo ad enti ideali in quanto tutto nella realtà è finito) (intendiamo
universale l’oggetto pensato che può esser predicato per più individui)
Quando si fa scienza si ricorre sempre agli universali (es: in chimica se parlo dell’acido solforico,
non ne parlo riferendomi a quello di uno scienziato ma in generale), così come anche nella musica
quando parlo dell’altezza di un suono o della sua intensità
Risposta: bisogna definire se quel carattere è 1) identico nei vari individui, o 2) come tanti caratteri
uguali (es: la figura triangolare è identica nei vari triangoli o quando si pensa ad un triangolo ci si
presentano tanti triangoli uguali?)
1. se è identico nei vari individui non potremmo più dire che si tratta di un carattere
particolare, esso infatti dovrebbe essere proprio di uno e non di molti
2. se è concepito come uguale, bisogna capire in che cosa sono uguali, dunque vi è
comunque un rimando all’universalizzazione
UNIVERSALE E COMUNE
Gli empiristi inoltre confondono l’universale al comune, ponendo il grigio come universale e una
tale sfumatura di grigio come particolare. Tuttavia anche la particolare sfumatura è universale,
basta solo che non sia necessariamente legata ad un posto ed un tempo
Hume dice che poiché ogni idea deriva da un’impressione, la differenza tra impressione e idea è
praticamente nulla, differiscono solo sul grado (di definitezza?). Tuttavia io posso avere idea di
3276, un poligono da cento lati o due rette parallele, senza mai aver fatto esperienza di essi
Platone stesso ammette che l’oggetto conosciuto sia diverso nella mente rispetto a come è nella
realtà, ovvero non ammette il mondo ideale; è da qui che nasce questo errore di non tener conto
della dimensione ideale.
L’essenza di un concetto prescinde dal singolare o dal molteplice (es: se dico uomo gli associo
razionale; ma senza dover pensare ad un uomo preciso). Essa è chiamata universale diretto o
metafisico, o intentio prima
Il carattere invece universale, ovvero predicabile per più individui, è detta anche universale
riflesso, o intentio secunda (es: l’uomo è bianco perché è bianco Socrate, nonostante bianco non
competa all’uomo in quanto uomo)
l’universale diretto si forma nella nostra mente per il prescindere dal singolare dell’essenza da
noi considerata (immagino un uomo → concetto di uomo puro); questo prescindere si chiama
astrazione universalizzatrice. L’universale riflesso si forma tramite la riflessione dell’universale
diretto applicata al singolo (essenza uomo + singolo uomo = umanità applicata a tanti).
L'universalità dunque consiste nella relazione tra l’essenza astratta e gli individui dalla quale è
astratta
L’ASTRAZIONE
L’universale diretto abbiamo detto usa l’astrazione, ma che cos’è? Essa significa separare, cosa
che può essere fatta dal pensiero o realmente, non esprime giudizio ma semplicemente non
considera certi aspetti della realtà
poi si può anche distinguere un aspetto individuale da un altro individuale (es: il colore di una mela
dal sapore) e tale astrazione è chiamata impropria o distinguente
ASTRAZIONE E A PRIORI
nelle cose non ci sono delle nozioni universali; l’astrazione non è che trova l’universale ma lo fa
lei stessa a priori
Essa è ciò che gli scolastici chiamavano abstractio totalis e che contrapponevano alla abstractio
formalis. La prima ci porta dal piano sensibile a quello intellegibile, considerando l’oggetto in
modo generale; la seconda invece distingue nel tutto universalizzato un aspetto, permettendoci di
perfezionare i nostri concetti (la scienza)
L’ASTRAZIONE E LA COMPOSIZIONE DI MATERIA E FORMA
non bisogna confondere la forma con l’universale, come se quando si astraesse si tenesse conto
solo della forma separandola dalla materia.
innanzitutto l’universale rappresenta anche la materia, e poi anche la forma è individua nella
realtà
conoscere significa proprio conoscere ciò che una cosa è, se noi sapessimo conoscere ogni
carattere individuale di una cosa non ci sarebbe difficile distinguerla da un’altra; tuttavia succede
costantemente (es: una penna da un’altra identica). Se inoltre conoscessimo tutto allora non
avremmo più nulla da conoscere di quella cosa, tuttavia la conoscenza umana è in costante
progredire
L’intelletto astratto invece risulta essere l’unico mezzo con cui l’uomo riesce a passare dal
significato che le cose hanno per lui (particolare) al significato delle cose in sé (universale),
riuscendo così a stabilire un sapere universale.
Ed è vero però che è tramite i sensi che noi conosciamo il singolo concreto. tuttavia senza
l’intelletto astratto non li potremmo definire
se mettiamo a confronto la conoscenza sensitiva con quella intellettiva, sarà quella sensitiva a
venire prima nonostante essa sia più nel particolare. Ma se consideriamo ciò che avviene dentro la
conoscenza intellettiva allora avremo prima il più universale, in quanto universale imperfetto
(ovvero che non si riesce a distinguere bene a chi applicarlo), e poi il meno universale, che invece
è universale perfetto (si distinguono le pluralità che contiene, specificandolo e determinandolo)
Nella conoscenza intellettiva si va dunque dal determinato all’indeterminato, dal generico allo
specifico (ciò accade anche nell’esperienza sensitiva, prima ci sono noti gli aspetti generici delle
cose)
CAP 5
LA VERITÀ
Gli universali riguardano il concetto, mentre la verità le proposizioni; finché si rimane nel
concetto non si esprime un giudizio, mentre quando passiamo alla proposizione entra in gioco la
verità
Ma è possibile che la conoscenza della verità presupponga una riflessione sulla nostra facoltà
conoscitiva? No, l’intelletto sta difatti davanti al giudicare; bisognerebbe dunque riflettere sull’atto
del giudicare l’intelletto, e poi riflettere su questa riflessione all’infinito
VERITÀ DI FATTO
LE VERITÀ DI FATTO SONO ENUNCIAZIONI SINTETICHE A POSTERIORI
Le verità di fatto presuppongono l’esistenza del soggetto e il nesso tra predicato e soggetto è dato
dall’esperienza (es: questo libro è grigio = esiste di fatto e mi è dato dall’esperienza che c’è un
nesso tra certe caratteristiche (questo libro) e altre (grigio))
Kant li definisce giudizi sintetici a posteriori. Sintetici perché il predicato aggiunge qualcosa al
soggetto, a posteriori perché tale aggiunta è fatta a seguito di un esperienza.
Finché non mi sono assicurato il valore di delle essenze nel mondo reale, non posso nemmeno
direle supponendole in un mondo possibile
La sintesi dei termini (es: qualcuno ci dice che Tizio è bravo a cucinare, noi comprendiamo
la frase ma non ne siamo convinti)
L’assenso dato a tale sintesi (es: riflettendo sulla frase enunciata e ci ricordiamo di quella
volta che aveva cucinato un dolce e diciamo “sì è vero”)
Il giudizio, dunque, esige una riflessione della sintesi per accertarsi che sia effettivamente vera,
dobbiamo confrontare la sintesi con la percezione iniziale
IL GIUDIZIO DI ESISTENZA
Quando devo esporre un giudizio, lo faccio sempre su qualcosa di cui esistenza non ho
esperienza. Infatti ciò che esiste realmente è sperimentato da noi subito, e ad esso astraiamo il
concetto di esistenza da applicare poi a quello di cui invece non abbiamo esperienza
Noi possediamo la capacità di cogliere l’essere delle cose (es: vedo una cosa rossa, l’occhio lo
vede rosso ma io lo percepisco come ente; quel qualcosa è)
Dunque, noi percepiamo l’esistente, per capire cosa sia dobbiamo esprimerci con concetti astratti
e dobbiamo poi vedere se tali concetti corrispondono alla verità esperita, questo è il giudizio
Per le verità necessarie basta solo sapere che al posto dell’essere percepito vi è la sua essenza
VERITÀ NECESSARIE
Come facciamo a passare dai due tipi di verità? Quando noi cogliamo, astraendo, significati che
prescindono dal loro modo di attuarsi, cogliamo la loro essenza. Dunque tutto ciò che attribuiamo
ad un’essenza deve essere universale e necessaria. Universale perché il soggetto è universale e
ovunque si attuerà quel soggetto si attuerà anche un predicato universale, necessario poiché, se il
predicato compete al soggetto dell’essenza, non ci potrà essere soggetto senza quel predicato (es:
il triangolo ha tre lati, non posso dire triangolo senza dire che ha tre lati)
Questa necessità nasce dal fatto che io prescindo da cosa che il soggetto può essere o meno
(come l’universalità che nasce dal fatto che prescindo da quello per cui il soggetto è questo cui o
quest’altro)
Ciò che un soggetto ha in quanto ha una certa essenza competerà anche a tutti gli altri individui
con la stessa essenza.
Se si pensa che alla necessità e all’universalità è stato riconosciuto l'a priori della conoscenza, si
vedrà che all’origine dell’a priori c’è l’astrazione
Dal punto di vista logico il nesso fra le essenza si manifesta come essenziale: quando la
negazione del predicato porta la negazione del soggetto si va contro ad una verità necessaria
Kant definisce tali giudizi analitici, anche se ritiene che, poiché il predicato è identico al soggetto
(triangolo=tre lati) essi non arricchiscono la nostra conoscenza. Tuttavia ad essere differenti sono
le due nozioni (la nozione di triangolo è differente da quella di tre lati, anche se ciò che poi
concepisco sì)
Il nesso che vi è tra il soggetto e il predicato è detto a priori nel senso che è indipendente
dall’esperienza (es: ogni colorato è esteso, non ho bisogno di verificarlo ogni volta, anzi so già che
in ogni esperienza deve verificarsi quella cosa)
È necessario che le verità necessarie siano a priori, una semplice ripetizione non può darmi
proposizioni universali e necessarie (es: tutti i gatti hanno una coda, solo perché ne ho solo visti
così non significa che tutti debbano averla)
Come sono allora possibili proposizioni che arricchiscono la conoscenza essendo necessarie ed
universali?
Kant definisce i giudizi matematici sintetici, e ammette che i teoremi matematici derivino dagli
assiomi per via analitica, ammettendo così che i giudizi analitici arricchiscono la conoscenza.
È vero che si parte da concetti cui si necessita prima fare esperienza (devo aver avuto esperienza
di 7 e 5 per poi dire che 7+5=12), ma una volta astratta da essa l’essenza posso procedere in base
all’essenza (posso dire, anche senza fare esperienza, che 270+130=400)
CAP 6
Mill sostiene che quando formuliamo un sillogismo poniamo nella maggiore qualcosa che
sappiamo dalla conclusione, ovvero, o so già la conclusione è allora è inutile, o non la so e allora il
procedimento è illegittimo.
Tale obiezione è tipica degli empiristi nominalisti, che non tengono conto del concetto di
universale, confondendolo con l’insieme di ciò di cui abbiamo fatto esperienza (es: ho il concetto di
uomo perché conosco tanti uomini). Allora è sensato dire che dalla maggiore io non posso arrivare
ad una conclusione utile, se essa già fa parte della maggiore
Tuttavia la maggiore deve essere un giudizio davvero universale, ovvero devo attribuire il predicato
all’essenza
Tramite il sillogismo dunque possiamo: vedere il predicato come appartenente all’essenza del
soggetto (nella maggiore) e vedere in un individuo un’essenza universale (nella conclusione). Il
sillogismo, come il giudizio analitico, è fondato dunque sulla intuizione astrattiva universale
LA DIMOSTRAZIONE DEDUTTIVA
Se le premesse sono vere lo sarà anche la conclusione, e se la verità delle premesse sarà
evidente, la conclusione sarà mediatamente evidente, ovvero sarà una conoscenza dimostrata e la
si potrà definire scienza.
La dimostrazione deduttiva deve quindi avere alla base premesse che esprimono verità
necessarie immediatamente evidenti; chiamate assiomi
Le scienze che partono da proposizioni analitiche o assiomi sono dette deduttive (matematica,
logica, filosofia)
Le scienze che invece si ottengono per induzione sono dette sperimentali o induttive (tutte le altre)
L’INDUZIONE
L’intelletto umano non intuisce le essenze della realtà naturali nei loro aspetti qualitativi più
determinanti (es: non intuisce da una pietra che cade la legge di newton)
In senso generale sarebbe ogni passaggio all’universale (anche l’astrazione) ma noi la prendiamo
come lo specifico passaggio che parte da proposizioni particolari
Ari. dice che nell’induzione si trova il medio attraverso uno degli estremi, e parla di medio per
analogia al sillogismo (es: uomo, cavallo e mulo sono longevi, sono anche privi di bile; tutti gli
animali privi di bile sono longevi)
Il medio dunque non è il ponte bensì è la conclusione, a fare da vero ponte sono invece i casi
particolari che si prendono
Essa si differenzia dall’astrazione perché non si ricerca un universale qualunque, bensì quello che
possa connettersi con un determinato predicato già dato dall’esperienza
a, b, c sono P
sono P poiché hanno M
dunque ogni M è P
Se riducessi l’induzione al sillogismo, avrei che il termine medio (a, b, c) sarebbe in entrambe le
proposizioni particolare
Nell’induzione non si vede il nesso tra l’estremo maggiore e il medio, cosa che invece accade nel
sillogismo, ma lo si suppone.
L’induzione è un'ipotesi da verificare ogni volta, quando la verifica riesce sempre tale supposizione
diventa evidente; evidenza diversa dalle proposizioni analitiche
IL FONDAMENTO DELL’INDUZIONE
L’EVIDENZA MORALE
Molte informazioni che noi abbiamo non le troviamo dall’esperienza o da altro, bensì le otteniamo
dal ragionamento sui costumi morali degli uomini (es: ogni volta che mangio non penso se ciò sia
avvelenato)
Tali premesse vengono conosciute per induzione, ma qui non si fonda sul determinismo, perché
l’uomo può anche comportarsi differentemente
Certezza metafisica, quella che si basa su proposizioni analitiche (sia che siano evidenti
sia dimostrate deduttivamente)
Certezza fisica, quella ottenuta per induzione e riguardanti il mondo fisico
Certezza morale, quella che abbiamo tramite le proposizioni universali riguardanti i costumi
degli uomini
L’EVIDENZA STORICA
Di moltissimi fatti dobbiamo ammettere l’esistenza in quanto ci sono testimoniati da altri. Esso può
essere evidente se:
Ci sono casi in cui si afferma una proposizione non perché la si veda ma perché si hanno buoni
motivi per crederla vera, questo si chiama evidenza estrinseca e la conoscenza basata su essa è
la fede
L’evidenza estrinseca è data da un’autorità che mi asserisce l’esistenza di un nesso (tra predicato
e soggetto) che io non vedo. Se a fare ciò è un uomo (es: un maestro con i suoi discepoli) si
chiama fede umana; se invece è Dio o qualcuno che parla in nome suo allora si chiama fede
divina.
LA PROBABILITÀ
Ci sono determinati dati di fatto ai quali non si può arrivare tramite una conclusione dimostrata
pienamente; e sono detti probabili
Quando procediamo per analogia è perché non sappiamo quali sono le leggi che regolano i fatti
da noi osservati e cerchiamo di enunciarne alcune che si approssimano ad esse
La seconda dice che la probabilità è determinata dall’esperienza, ovvero sulla base della
frequenza con cui un evento si avvera in più casi. La probabilità sarebbe il limite a cui tende la
frequenza di un evento in una serie
In entrambi i casi vi sono delle buone confutazioni; come si può sapere che tutti i casi siano
ugualmente possibili se non tramite l’esperienza? E se invece non lo fossero (es: se il dado fosse
truccato)? Oppure, come posso sapere che la frequenza di un evento constatata fino ad ora
continui così all’infinito?
APPENDICE
L’ERRORE
O si presenta davanti al mio spirito qualcosa che io vedo e affermò così, oppure non vedo nulla e
allora non ci sarà conoscenza e tantomeno errore. Come può accadere allora l’errore?
Tale atto può essere più o meno motivato, ma la soluzione è unica: purificazione morale, liberarsi
da ogni interesse che non sia la verità