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APPRENDIMENTO LINGUISTICO A.A.

2019/2020
Un bambino quando inizia ad imparare la sua lingua materna, per mesi e anni si confronta con adulti che
parlano quella determinata lingua. È molto comune pensare che la nostra lingua materna sia più facile
rispetto a tutte le altre. La facilità, in realtà sta solo nel fatto che è la mia lingua materna, quindi ho lavorato
anni ed anni per impararla. Quando siamo piccoli e stiamo imparando la nostra prima lingua (quella
materna) tutti gli adulti, sono concentrati su di noi e ci offrono tantissimi INPUT. Lo rendono semplice,
pronunciano in maniera accurata le parole e questo significa che stanno lavorando sul fatto che noi
dobbiamo imparare.

Abbiamo due competenze:


 Lingua orale;
 Scrittura: non è solo segni, è saper costruire testi.

Quella della scrittura è una competenza diversa dall’oralità. Ci sono persone che sanno scrivere ma non
sanno parlare, ci sono persone che non sanno fare un discorso pubblico, ci sono poi persone che sanno
mantenere benissimo un discorso davanti a 100, 1000, 10000 persone. Tutti sappiamo scrivere ma quelli
che sanno scrivere in maniera eccellente dalla lettera all’articolo di giornale sono quelli che hanno studiato
e quindi lavorato per sviluppare questa competenza. Non pensiate che la scrittura sia solo la trascrizione
del parlato, quelle sono le chat. La scrittura richiede competenza della lingua scritta, è più dell’ortografia, è
altro. Cosi anche l’oralità richiede competenze specifiche.
In questo percorso ci concentriamo sull’oralità.

Che differenza c’è tra LINGUA e LINGUE? Non è un semplice plurale.


In linguistica, con “le lingue” ci si riferisce alle lingue storiche. Quindi “le lingue” sono le varie
manifestazioni concrete di quella che definiamo “la lingua”, ovvero il sistema.
La lingua è un sistema e le lingue sono le manifestazioni.
Tutti abbiamo una lingua, un codice, che usiamo per comunicare. Questo codice è un sistema, non è un
elenco di parole, né un elenco di suoni, è un qualcosa dove tutto è collegato, tutto è connesso.

Lingua materna la si definisce anche L1


Lingua straniera la si definisce anche LS
Lingua seconda la si definisce anche L2

Qual è la differenza tra lingua straniera e lingua seconda?


Quando una lingua la stiamo impariamo in un luogo in cui tutti la parlano, la chiameremo L2.

Distinguiamo due modi di imparare la lingua:


 LS lingua imparata in un luogo dove questa lingua non si parla.
 L2 lingua imparata in un luogo dove questa lingua si parla.

Se imparo una lingua in un luogo dove nessuno la parla, quante occasioni avrò di avere INPUT?
Poche, pochissime. (La situazione dell’inglese è diversa perché è molto presente nella nostra quotidianità e
di conseguenza ci sono molti input come canzoni, testi, film e altro).

Quindi prendiamo in considerazione una lingua a noi “più lontana”, ad esempio il finlandese. In un anno di
studi di Finlandese in Italia, avrò fatto poche ore di imput.

Cosa mi posso aspettare? La quantità e la qualità degli input sono molto più limitati.

Inoltre, a scuola o all’università nel libro di lingua c’è solo “un mondo”. Non c’è tutta la realtà che si può
vivere. Ed è per questo che bisogna andare nei posti delle lingue che si studiano, ma non per una o due
settimane perché così si rischierebbe di riprodurre una situazione falsa. Bisogna avere la possibilità di
trasformare le LS in L2.
Le lingue materne possono essere più di una. Perché io potrei aver avuto subito un’esposizione non ad una
lingua ma a due, o anche tre. Questo può avvenire perché la mia famiglia è composta da persone che
parlano lingue diverse da quelle del luogo in cui viviamo, oppure, nella stessa famiglia ci sono persone che
hanno ligure materne diverse.
Es. se io sono in Italia con la mia famiglia e siamo venuti dall’Ucraina, è chiaro che abbiamo con noi un
patrimonio linguistico che sono le nostre lingue ed io che sono adulto, imparerò una L2 più o meno bene, ma
se ci saranno dei bambini nati qui, ci potrebbe essere la possibilità che sin da nati in casa abbiamo l’Ucraino,
e fuori casa l’Italiano.

Un bambino può essere esposto subito a più di una lingua, se la seconda lingua gli viene proposta entro i 3
anni viene considerato un PERFETTO BILINGUE CON DUE LINGUE MADRI. Noi, invece siamo tutti
PLURILINGUISTI.
La parola BILINGUISMO non significa due lingue materne, quello, è un bilinguismo particolare. Tutti coloro
che conosco più di una lingua sono bilingui. Al mondo, parlanti monolingui sono rarissimi. Se parlo un po’ di
italiano e il dialetto napoletano mi posso considerare bilingue.

La parola BILINGUE non ha indizi di qualità ma solo di numero.

Sappiamo bene che la lingua è un modo per conoscere il mondo, e ogni lingua vi da una conoscenza del
mondo diversa. Questo perché già dalla linguistica generale sappiamo che ogni cultura ritaglia il proprio
mondo in base alle proprie esigenze. Se io sin da piccolo sono stato esposto alla lingua x e alla lingua y e
quindi, ho due lingue materne ma in casa utilizziamo la una lingua x e fuori casa la lingua y quale sarà la
competenza che mi mancherà?
La lingua che utilizzerò all’esterno sarà dotata sicuramente di più competenze perché andrò a scuola,
scriverò, parlerò quella lingua.
Perciò un bilinguismo materno non è sempre un bilinguismo equilibrato. Potrei avere delle competenze
solo orali, o solo delle competenze di un registro molto basso.
Abbiamo tanti bilingui con due lingue materne che si iscrivono all’università per migliorare il loro registro
linguistico. Il bilinguismo potrebbe però essere il risultato di una condizione non familiare ma del paese in
cui vivo. Se io fossi di Bolzano, sarei nato e cresciuto in un contesto in cui ufficialmente ci sono 2 lingue:
 Italiano
 Tedesco
C’è una situazione ufficiale. Nonostante ciò, quando c’è un bilinguismo di stato non ci illudiamo che sia un
bilinguismo equilibrato. Non è detto.

“Più studio e più conosco le lingue”, NO, anche questo non è detto. Ci sono paesi dove il plurilinguismo è
una condizione diffusa ma queste sono conosciute solo oralmente.

Al mondo ci sono molte lingue che hanno solo l’oralità, non è vero che tutte hanno anche una lingua scritta.
Ci sono molte persone che non sono adeguatamente scolarizzate. Con l’emigrazione che abbiamo avuto sul
nostro territorio italiano abbiamo circa 190 lingue diverse.
Avere un APPRENDIMENTO SPONTANEO non comporta avere una competenza ampi di tutti i registri, anzi,
spesso ho una competenza solo parziale. Per differenziare i diversi modi di imparare la lingua noi
utilizziamo due verbi. In italiano IMPARARE, ACQUISIRE ED APPRENDERE SONO SINONIMI.
In linguistica molte parole che usiamo quotidianamente anche come sinonimi acquistano un nuovo
significato. Molti linguisti, utilizzano il termine ACQUISIRE per indicare il modo di imparare spontaneo,
naturale. APPRENDERE è un modo di imparare guidato, con un insegnante.
In una modalità di apprendimento si lavorerà su un registro formale, si lavorerà sulla grammatica. Invece, in
una modalità di acquisizione più spontanea spesso si utilizzerà un registro più colloquiale.
Esiste l’italiano NEOSTANDARD che è una varietà accettata dalle classi colte ma è semplificata rispetto
all’italiano standard. In questo caso il condizionale viene spesso sostituito con l’indicativo.
Se io imparassi l’italiano parlando con i miei amici, quindi in un ambiente colloquiale è possibile che dopo
un tot di tempo io non abbia mai sentito il congiuntivo. Se invece lo studiassi a scuola sicuramente prima o
poi lo incontrerei. Quindi non diciamo che una cosa sia migliore rispetto l’altra, sono cose DIVERSE e
portano a SVILUPPI DIVERSI.

BILINGUISMO E LINGUA MATERNA

La lingua materna è una lingua come l’indeuropeo oppure come il latino che è la lingua materna delle
lingue romanze, cioè è la lingua dalla quale la linguistica storica fa discendere altre lingue per evoluzione.
Tutti sono in possesso di una lingua materna e quasi tutti hanno una seconda lingua, che può essere un
dialetto o una vera e propria lingua, può essere conosciuta in maniera completa o anche solo parziale. Molti
di noi ne avranno anche una terza o una quarta, possono essere anche diverse per grado di completezza.
Ciò che è importante da ricordare è che le lingue sono dei sistemi dinamici, che nel tempo subiscono dei
cambiamenti così come la competenza linguistica di un individuo può cambiare.

Spesso pensare al cambiamento si associa un “miglioramento” (imparare di più, ampliare la propria


competenza), ciò che invece succede molto spesso nella realtà è la perdita. Le lingue si perdono quando
non le si parlano, quando non le si usano, dunque una delle cose importanti quando si possiede una lingua
è usarla. L’uso è la maniera per mantenerle più attive, più vive e quindi non esiste una competenza
cristallizzata nel tempo, alcune certificazioni di lingue hanno ad esempio una scadenza che bisogna
rinnovare in un tot di anni poiché la competenza non verrebbe più riconosciuta.
Sembrerebbe una cosa strana, ma non lo è. Se manca l’esercizio con gli anni ci si rende conto che anche la
semplice interazione quotidiana con un individuo diventa difficile da sostenere, poiché si è persa la
competenza di fluidità che si aveva nel passato. Ciò accade molto più facilmente con le lingue seconde,
terze… ma può accadere anche con le lingue materne. Le lingue materne non rimangono per tutta la vita,
essa deve essere utilizzata e ci sono delle condizioni in cui il parlante smette di utilizzarla perché magari vi è
un trasferimento con la famiglia in un altro paese. Cosa succede? Prima di tutto quella lingua materna non
avrà tutta la scolarizzazione, manca tutta la parte accademica per l’argomentazione, per i registri più elevati
e in secondo luogo è possibile perderla al punto da potersi ritrovare con un nativo anni dopo e faticare a
mescolare un po’ di una lingua, un po’ dell’altra lingua. Quella che prevale è la lingua più forte, quella più
presente e utilizzata, l’altra anche se può essere lingua materna/nativa piano piano si può perdere.

L’INPUT LINGUISTICO

 Definizione
 Input > Intake > Output
 Caratteristiche che permettono di rendere l’input comprensibile
1. Contestualizzazione extralinguistica
2. Strutturazione linguistica
3. Modificabilità
4. Negoziabilità

Nell’imparare un’altra lingua vi sono due modi di farlo: in modo spontaneo (acquisendo autonomamente gli
stimoli [input] della lingua) e in modo guidato (apprendendo le strutture della lingua tramite la guida di
un’altra persona). L’apprendimento spontaneo aiuta a imparare soprattutto la comunicazione, la
pragmatica mentre il guidato lavora più sulla forma, sulla grammatica, sulla struttura. L’ideale sarebbe
l’unione di questi due modi.
Nella lingua comune acquisire e apprendere sono sinonimi di imparare ma vengono usati da alcuni linguisti
per dividere uno sviluppo della lingua spontaneo da quello guidato. (Dal II capitolo “Prima capire”, di
Imparare un’altra lingua)
Quando ci avviciniamo a una lingua, anche la nostra lingua materna, durante l’infanzia, non comunichiamo
immediatamente ma iniziamo, in una prima fase, a decodificare quello che stanno dicendo gli altri. La prima
cosa è cercare di capire.
Il percorso è quello che va dall’input all’intake e poi all’output.

L’input è qualunque porzione di lingua ci venga offerta come stimolo (può essere una conferenza o una
parola o un’esclamazione, può essere anche una parte di frase). Quello che deve fare l’apprendente per
sviluppare competenza è lavorare sull’input (facendolo in maniera inconscia, automatica). Nella realtà
l’input può essere qualunque e bisogna elaborarlo. Noi utilizziamo la lingua perché siamo animali sociali,
dobbiamo vivere in gruppo e in questo gruppo dobbiamo comunicare, quindi la cosa principale è
esprimersi, comunicare; se questo manca non c’è la funzione primaria del codice (lingua).

L’input ha bisogno di essere comprensibile perché altrimenti non si potrebbe veramente decodificare e non
diventerebbe un intake, ovvero la vera acquisizione nel fondo della propria conoscenza. Solo un buon
intake permette di usare bene una lingua.
Ci sono quindi delle caratteristiche che rendono l’input comprensibile: contestualizzazione extralinguistica,
strutturazione linguistica, modificabilità e negoziazione.

La modificabilità si riferisce a ciò che si può fare con un enunciato, una parte di esso o una semplice frase
per poter rendere l’input comprensibile. Si può, ad esempio, articolare ad una differente velocità
l’informazione (iper-articolazione; differente dall’ipo-articolazione che userebbe un parlante nativo con un
altro parlante nativo o con una persona che abbia una competenza profonda della lingua) o si può usare un
lessico diverso oppure strutture grammaticali diverse, semplificando all’estremo e comunicando soltanto
con le parole necessarie e più importanti per la comprensione (es. tu mangiare, una possibile frase che si
potrebbe dire a uno straniero da parte di un nativo che sta modificando l’input e lo sta semplificando –
foreigner talk).

Modificare l’input per rendendolo più comprensibile non significa sempre offrire un input più breve. Un
input modificato qualche volta è più lungo, per dire le stesse cose devo usare più parole, magari più
semplici ma in quantità maggiore (es. per dire “l’imbrunire” a uno straniero si potrebbe utilizzare una frase
molto più lunga come “quando il sole va giù”). A volte il parlato semplice è anche sgrammaticato ma questo
modo di esprimersi e di far comprendere l’input allo straniero è inizialmente una fase di contatto che fa
parte della varietà di lingua universale conosciuta come foreigner talk (il parlato verso gli stranieri), un
nativo sfrutta la modificabilità dell’input.
Vi sono altre due varietà importanti: baby talk (il parlato degli adulti con i bambini) e teacher talk (il parlato
dell’insegnante verso gli apprendenti). Il foreigner talk è una varietà di lingua utilizzata da nativi anche non
competenti in materia di insegnamento che utilizzano un parlato molto semplificato e anche esposto a
errori del parlante madrelingua, molto sgrammaticato e con lessico spesso molto generico; al contrario il
teacher talk è un modo di parlare iperarticolato, così come i due precedenti, ma molto corretto perché
tende ad offrire un input semplificato ma ideale (es. ritornando all’esempio precedente, in questo caso
l’insegnante utilizzerebbe la parola “imbrunire” e cercherebbe di farla imparare così com’è, facendone
comprendere il significato attraverso una spiegazione).

Nel baby talk, gli adulti che parlano con i bambini non usano una forma di lingua identica a quella che usano
tra di loro però è una varietà molto corretta, dunque non sono presenti errori grammaticali. Il baby talk ha
un lessico che non esiste nella lingua degli adulti. Gli adulti di ciascuna lingua hanno la competenza di
questa varietà e la usano solo in presenza dei bambini, il lessico è sostituito da parole brevi, di solito
monosillabiche o bisillabiche (es. mangiare = pappa, cane = bao bao, carne = ciccia). Non è un caso che vi
siano le consonanti più facili (m, n, b, p, t, le occlusive bilabiali, dentali e le nasali). Questo tipo di
comunicazione si usa soltanto per un certo periodo, quando il bambino è nelle prime fasi di
apprendimento.
Quando stiamo lavorando con un apprendente o nativo o straniero adulto, scatta automaticamente la
selezione delle modificabilità dell’input e della semplificazione fonetica, lessicale, sintattica dell’input. Ciò
dura poco ma dura il tempo sufficiente alla persona che sta imparando per cominciare a cogliere degli
elementi ed avere degli intake e un suo piccolo output (quando comincerà a parlare).

Il bambino se è stato esposto ad un genitore che parlava in una sola lingua o in due lingue, riconosce e si
muove istintivamente verso lingue che hanno ritmi simili, e dopo i primi mesi entra nella fase che si chiama
“lallazione” grazie agli input esterni, in questa fase inizia a produrre i primi suoni e a riconoscere alcuni
ritmi.
I neonati (soprattutto di famiglie bilingui) hanno bisogno di input calibrati e di baby talking di quella lingua.

LA NEGOZIABILITÀ

Negoziamo quando c’è uno scambio, infatti negoziare significa trovare un compromesso e solitamente
avviene quando c’è qualcosa che non va bene e deve essere scambiata con un’altra cosa. La negoziazione è
un qualcosa che può durare per due o tre passaggi.
N.B. Negoziare non è chiedere e rispondere.
Negoziare significa dire  rispondere, ridire  rispondere, e così via fino a quando non si trova un
equilibrio, se per esempio dico ad uno straniero “imbrunire è meraviglioso” si nota l’inizio di una
negoziazione nel momento in cui lo straniero dice “eh?”.
Quando inizia la negoziazione, il nativo è costretto a scegliere un’altra forma e ad un certo punto sembra
che sia avvenuta la comprensione, anche se non ne abbiamo la certezza assoluta.

La negoziazione è reputata stressante perché richiede un impegno e se il nativo non è disposto a negoziare,
lo straniero non imparerà mai ciò che gli è stato detto.
Il quadro comune di riferimento europeo per le lingue ci presenta i vari livelli di competenza linguistica (A1,
A2, B1, etc). Questi livelli hanno dei descrittori, cioè esiste un’indicazione di ciò che sa fare una persona con
la lingua per quel determinato livello.
Negli ultimi tempi si parla anche di A0, cioè il livello pre-A1. Il livello A1 è considerato il livello degli
analfabeti, infatti a livello nazionale e straniero è presente un grado molto alto di analfabetismo.
La negoziabilità e la modificabilità avvengono solo quando il parlante mostra la propria disponibilità.

L’INPUT LINGUISTICO: CONTESTUALIZZAZIONE

 COORDINATE SOCIOLINGUISTICHE
 Ambiente culturale e coordinate spaziotemporali
 Partecipanti dell’interazione
 Lo scopo e l’argomento dello scambio comunicativo
 INCOSTANTE L’IMPORTANZA DEL CONTESTO
 Nel processo di apprendimento linguistico, l’input più facilmente decifrabile è quello in cui è maggiore
l’informazione extralinguistica (contesto) = processo di compensazione.
 Se il contesto rende ovvio quello che viene detto, l’apprendente ha maggior opportunità di
concentrarsi sulla forma.

Quando la lingua è troppo difficile, ci possono aiutare indizi del mondo esterno come per esempio se
seguissi un video di una ricetta in una lingua che non conosco, posso guardare e riconoscere gli ingredienti
e i movimenti, quindi in un contesto extralinguistico c’è tanta informazione che mi aiuta a comprendere
quello che sta succedendo (è chiaro che se ci sono ingredienti particolari, io non posso comprenderli perché
anche il mio contesto extralinguistico non può aiutarmi.
Tutta la comunicazione fortemente contestualizzata è una comunicazione più semplice da decodificare a
differenza da quella che è decontestualizzata, la quale diventa estremamente complicata perché si basa
solo e soltanto sulla conoscenza linguistica dell’ascoltatore.
Un esempio di contesto extralinguistico è rappresentato dal modello sociolinguistico di Hymes e si
denomina con l’acronimo di SPEAKING, infatti ogni lettera di questa parola è l’iniziale di un elemento di
comunicazione e del contesto.
Quando ascoltiamo qualcosa stiamo molto attenti a chi partecipa all’interazione, all’ambiente culturale, alle
coordinate spazio-temporali e allo scopo dell’interazione; tutti questi elementi ci aiutano a capire meglio
l’argomento stesso.
In una lingua seconda è rilevante avere un contesto ben chiaro e tutti gli elementi che ci aiutino a
comprendere.

Esistono delle competenze BICS (Basic Interpersonal Comunicative Skills) e CALP (Cognitive Academic
Language Proficiency) che sono differenti tra loro. Questa differenza è stata ideata da Cummins, e viene
presa in considerazione oggi nelle scuole per osservare come alcuni ragazzi non riescano a continuare ad
imparare la lingua.
BICS, il nome è interessante prima di tutto perché ci sono delle “skills”, cioè delle abilità concrete e
pratiche, quindi si ha un uso della lingua per cose concrete non di tipo alto; e poi notiamo “basic”, quindi
siamo su un livello di base; notiamo anche che sono abilità comunicative e interpersonali. Questo tipo di
abilità linguistiche si sviluppano presto, velocemente nell’arco di 2 o 3 anni e sono legati ad un tipo di lingua
molto contestualizzata.

La lingua non si ferma alle BICS, perché non si smette di migliorare e apprendere, e nel momento in cui
devo apprendere materie più complesse necessito delle competenze CALP.
La CALP sono le abilità che ci servono a: discutere, argomentare, dimostrare, esemplificare e quindi non
narrare, descrivere, chiedere (che sono competenze di base); quindi le CALP sono competenze utili a fare
compiti più cognitivamente astratti e decontestualizzati.
Infatti, quando la lingua è decontestualizzata, essa risulta più difficile e richiede impegno. Per sviluppare le
CALP ci vogliono molti più anni.

L’INPUT LINGUISTICO STRUTTURATO

 Le lingue sono organizzate in strutture (frasi e sintagmi piuttosto che parole) in parte universali e in
parte specifiche di singole lingue.
 Tutte le lingue del mondo, pur nella loro diversità strutturale, obbediscono a dei principi universali. Tali
principi sono definiti universali linguistici.
 Gli universali linguistici sono le proprietà ricorrenti nelle lingue del mondo sebbene non siano
riscontrabili in tutte le lingue.

L’input è sempre caratterizzato da elementi di una lingua e dai suoi sistemi organizzati, in quanto le lingue
sono dei sistemi, quindi anche l’input è sempre strutturato (tutte le lingue hanno caratteristiche comuni,
come le consonanti, le vocali, sillabe, etc).

UNIVERSALI LINGUISTICI E INPUT COMPRENSIBILE

 Tra gli universali linguistici particolarmente utili alla decifrazione dell’input (Kiein 1986:4)
 Un enunciato è scomponibile in parole, le parole in sillabe e le sillabe in fonemi.
 I fonemi sono divisi in consonanti e vocali.
 Le sillabe tendono ad avere un numero vocalico che è affiancato da consonanti.
 Vocali e consonanti tendono ad alternarsi nella sillaba, per cui i nessi consonantici tendono a
marcare i confini sillabici.
 Un pausa di solito ricorre al confine di parola (ma non tutti i confini di parola sono indicati da una
pausa.
L’enunciato è di grandezza variabile ed è l’unità del discorso e quindi preceduto e/o seguita dal silenzio. La
frase è diversa dell’enunciato, perché la frase è la struttura sintattica del testo, mentre l’enunciato è un
qualcosa di parlato.

VARIABILITÀ

Partiamo con un tipo di approccio che piano piano ci ha portati a quello che avviene quando un
apprendente cerca di capire e rettificare una nuova lingua quindi tutta l’importanza dell’input, dell’ascolto
e comprensione di una lingua nuova.
Poi abbiamo affrontato ciò che succede quando comincia a parlare, analizzando l’evoluzione dell’interlingua
osservando gli aspetti legati al lessico e alla morfologia, ai vari elementi dell’interlingua concentrandosi su
una prospettiva di ricerca dei meccanismi universali.
Successivamente abbiamo analizzato la variabilità quello che rende alla fine l’interlingua di ciascuno
apprendente diversa.

Le motivazioni posso essere tante, le principali sono:


 L’età dell’apprendente
 L’attitudine (un qualcosa di descrivibile in termini di caratteristiche specifiche dell’apprendente su
vari livelli).
 Stili cognitivi, motivazione vari fattori.

Oltre ai fattori interni ci sono i fattori esterni come:


Fattori di tipo colturale (analizzando nel dettaglio il modello della strutturazione di Shuman, dove si cerca di
capire come i fattori socio-linguistici non esattamente legati al singolo ma alla comunità, possono
influenzare l’esito).
Abbiamo analizzato ciò che è tendenzialmente uguale per tutti gli apprendenti fino ad arrivare a quanti
fattori possono influenzare l’esito finale.
Abbiamo parlato anche della lingua 1, quindi tanti elementi.
Sull’apprendimento di una lingua i fattori rilevanti tra coetanei possono essere: problemi cognitivi,
l’attitudine allo studio, il modo in cui vi è stato offerto l’input, problemi di memoria.
Risale agli anni 30 la teoria del contrastivismo. È stata la madre delle ipotesi forti del transfer nel periodo in
cui il contrastivismo è stato importante, il transfer costituiva uno dei motivi principale per i quali
l’apprendente commetteva errori. Tutto era colpa del transfer perché tutta la visione dell’acquisizione della
lingua si basava su un processo di contrasto tra la propria lingua materna e la lingua che si andava ad
imparare. (Di base abbiamo la linguistica strutturalista comportamentista e come quadro psicologico c’era il
comportamentismo di Skinner).
L’ipotesi comportamentista è un’ipotesi che vede la lingua con basi come una serie di abitudini e il tutto si
descrive come una catena di stimoli e risposte.
Le risposte possono essere linguistiche o non e possono esse stesse diventare stimoli linguistici per altre
risposte e quindi si creano delle catene di stimolo-risposta che sono molto meccaniche mancando di
creatività (come il camminare o il respirare).
Le cose principali sono la pratica, l’esercizio per far diventare automatiche delle reazioni linguistiche non
devo costruire o elaborare ma produrre nella maniera più spontanea possibile.
L’effetto finale della pratica è un risultato che secondo questo modello deve essere anch’esso perfetto
l’errore in questo modello (l’errore è la finestra della conoscenza reale dell’apprendente).
Errori sono forme non corrispondenti al target che però nell’interlingua noi impareremo ad analizzare,
attraverso questi cosiddetti errori cerchiamo di capire cosa sta avvenendo nella costruzione del sistema
dell’apprendente.

Nel contrastivismo se tutto deve essere meccanico io devo evitarlo appena l’errore compare devo
correggerlo, se io non lo correggo secondo questo modello, si fissa una forma sbagliata di difficile
cambiamento.
In questo modello si doveva avere una pronuncia perfetta, il più simile al nativo parlante.
Si concentravano con esercizi incentrati sulla pronuncia.
 Scomposizione: il modello di base è quello del sistema in cui ci sono elementi che si combinano e
che io devo imparare a separare e combinare.
Nella lingua materna (dove ovviamente non c’è il contrasto con nessuna lingua) loro ritenevano che si
imitava tantissimo e facevo tanta pratica (come i bambini che ricevono input dagli adulti).
In questo metodo si inizia a modificare, scomporre, manipolare la conoscenza attraverso la pratica.
La mia lingua materna è la prima prova: incomincio ad acquisire abitudini linguistiche poi quando imparo la
seconda lingua queste abitudini interferiscono con quelle che dovrei acquisire nella lingua 2 e quindi
abbiamo il transfer.
Transfer può essere:
 Positivo: non si nota, è l’apprendente che usa delle strutture della sua lingua e gli va bene, nella
seconda lingua è uguale.
 Negativo: è quello che si nota, la forma che utilizza non va bene nella seconda lingua.

Secondo questa teoria io sono in grado di prevedere quanto sarà difficile imparare una lingua mettendo a
confronto le due lingue, due lingue simili non daranno molti problemi, due lingue molto diverse daranno
tanti problemi e tanti errori.
Studiando l’interlingua, quando due lingue sono molto vicine potrebbe succedere al contrario che ci sono
tanti errori perché c’è molto transfer. Es. spagnolo e italiano.
Se due lingue sono abbastanza distanti l’apprendente è più attento, trasferisce di meno, forse più lento ma
fa meno errori.
In questa teoria dicevano che la classe deve condividere una stessa lingua materna.
Oggi non si fa, quando si insegna la classe non condivide la stessa lingua materna.
Perché si prosegue con l’insegnamento della lingua seguendo un comando basato sui bisogni degli
apprendenti, la lingua materna dell’apprendente non ha importanza.
L’idea è se io ho una classe omogenea di lingua materna partiamo tutti da uno stesso livello, possiamo
imparare abitudini nuove.
Concentrandoci su tutti gli elementi che rendono diversi la L2 dalla lingua materna.
La prima operazione è tirare fuori soltanto le cose diverse nella L2 dalla Lingua 1 e su questo poi esercitarsi
e fare molta pratica.

Il contrastivismo ha dato vita un vero e proprio metodo che si chiama audio-orale è una delle poche teorie
che ha
 Teoria linguistica di base
 Teoria psicologica di base
Ha dato vita ad un’ipotesi di apprendimento della L1 e L2 e a un metodo in classe che è il metodo audio
orale.
‘’audio-orale’’: questo metodo è molto concentrato sull’oralità.
Le esercitazione per far sì che tutto diventi meccanico si svolgono ripetendo in coro le stesse cose.
Le parole all’interno dei sintagmi seguono degli schemi precisi, tutto procede per pattern (schemi).
Si compiono esercizi che meccanicamente vengono imparati pezzo per pezzo.
In primis oggi i drills sono molto rivalutati per la parte di fissazione della grammatica, quindi non sono del
tutto rifiutati. C’è a un certo punto dello studio il drill ci sta bene perché è il momento in cui tu fissi e per
fissare ci vuole una cosa un po’ noiosa, ma ripetitiva che ti faccia fissare un pattern, una forma. Se
l’esercizio varia in continuazione, non fissiamo nulla quindi i drills sono ancora abbastanza valutati.

Abbiamo dato uno sguardo ad un approccio che si presenta molto completo, perché ha una teoria
linguistica, una teoria psicologica, un modello didattico, che ha avuto il massimo della sua esplosione negli
anni ’30, ’40, ’50 e che però da noi ha continuato a generare tantissima didattica per tanto tempo proprio
perché era un metodo che ha dato vita ai primi laboratori linguistici con le audio-cassette.
Alla fase dello strutturalismo alla fine degli anni ’50 e ’60 si oppose una visione diversa della lingua che
prende il nome di generativismo. Si mette in evidenza con la visione di essere tutto troppo meccanico,
tutto troppo legato all’indicazione e quindi è creatività. I parlanti possono dire anche cose che non hanno
mai sentito, come “i rinoceronti volano sulle nuvole rosa”. È una frase che, detta da uno straniero può
risultare ambigua, detta da un madrelingua italiano può risultare come un possibilità di creatività. In realtà
quest’altra visione della lingua tende a mettere in evidenza il fatto che ci debba essere qualcosa in più della
sola imitazione. Non può essere che noi impariamo solo imitando e che la lingua è comportamento e
abitudine, perché io uso la lingua con forme, modi e possibilità che spesso sono molto più grandi di quelle
che ho avuto modo di sentire.
Nel modello generativista tutto passa ad una visione in cui si cerca quello che è già dentro e innato. Si parte
con una critica molto forte dell’approccio psicologico del comportamentismo.

Chomsky, che è il nome al quale si fa riferimento, comincia a mettere in dubbio che ci sia questa catena
stimolo-risposta e che tutto sia meccanico, mette in dubbio che l’input sia la causa di tutto, che tutto si
possa insegnare esplicitamente e comincia a riflettere su quel che forse è già dentro il parlante. Chomsky
comincia a cercare una dimensione innata.
L’innatismo è l’opposto della visione che abbiamo visto prima e dice che io parlante ho già nella mente
delle cose e l’input mi serve solo da stimolo per attivare qualcosa che è già in me e per cui sono già
predisposto.
Chomsky a partire dagli anni ’50 fino agli anni ’80 ha avuto diversi ripensamenti, ha ripreso questa teoria e
il modello grammaticale che noi andremo a vedere è quello degli anni ’80 che ha preso il nome di
Grammatica Universale (spesso porta la sigla di GU).
Grammatica universale: Il nome è un po’ ambiguo, perché ognuno potrebbe pensare che sono regole e una
grammatica come quelle che si hanno a casa di tedesco e russo. In realtà non è in questo senso e, chi ha
avuto modo di studiare con attenzione Chomsky, sa che nella sua visione la sintassi della lingua è un
elemento importantissimo. Quindi non viene data tanta importanza alla fonetica, morfologia, lessico,
perché sono elementi di una struttura superficiale. Nella profondità quello che crea veramente l’elemento
caratterizzante è l’ordine delle parole, sono questi legami logici che costituiscono la sintassi della lingua.
Detto questo, il fatto che questo che il suo modello teorico si chiami GU, non significa che dentro ci
troviamo delle regole.
La GU, all’interno della teoria innatista chomskyana, è la predisposizione genetica della mente umana ad
apprendere il linguaggio. Quindi è un sistema cognitivo che ci permette di apprendere il linguaggio,
riprodurre e comprendere un numero infinito di enunciati a partire dal numero finito di elementi. Un
parlante italiano non ha bisogno di sentire tutte le possibili frasi che si possono fare in italiano, ma le posso
produrre anche senza averle sentite e le posso capire anche ascoltandole la prima volta. C’è qualcosa di
diverso dal semplice “uno a uno”, io ti offro un input e tu lo memorizzi poi lo sai riconoscere e riprodurre.
Qui si dice qualcosa di diverso e cioè che dentro di noi c’è una predisposizione ad imparare e ad acquisire il
linguaggio.
Cos’è questa predisposizione? È un insieme di conoscenze astratte e di procedure che specificano la
particolare forma che prenderanno le regole linguistiche e quindi la forma possibile o la struttura astratta
di tutte le lingue. Un modello di questo genere non potrà mai servire a un’insegnante per lavorare in
classe, perché io non sono interessato a descrivere e osservare nessuna lingua in particolare, perché parto
dall’idea che, se sono lingue umane, hanno un’identità dal punto di vista delle strutture e delle regole, le
manifestano in maniera diversa ma sono uguali per tutte.
È bene ricordare che la GU, dice Chomsky, consiste di un sistema altamente strutturato e restrittivo di
principi, parametri, che devono essere fissati dall’esperienza. Stiamo cercando di dare un nome a queste
caratteristiche astratte, universali, generali, di tipo logico.
I principi e i parametri sono entrambi universali e quindi tutte le lingue hanno questi elementi.
 I principi sono quindi di base e sono presenti in tutte le lingue. Sono fissati sin dalla nascita e
costituiscono le caratteristiche comuni a tutte le lingue. L’esempio più semplice di principio si
chiama dipendenza dalla struttura, cioè tutte le lingue del mondo non trasmettono il significato per
una somma di parole, ma perché le parole sono legate da una struttura che determina le relazioni
fra le parti. Esempio: “La neve cade lentamente”, “Lentamente cade la neve”, “Cade lentamente la
neve”. Spostare i pezzi senza cambiare il significato letterale. Ovunque si spostino i pezzi è
indifferente, perché la struttura è quella che darà il significato. Le lingue umane funzionano
legando le parti all’interno della frase con relazioni logiche. Questo è per quanto riguarda le lingue
umane.
 I parametri sono delle proprietà che possono avere due forme, cioè essere attivati o disattivati. È
l’input a dirci se attivarli o disattivarli. I parametri saranno attivati in maniera diversa nelle diverse
lingue e renderanno le varie lingue non uguali. I parametri sono tanti. Un esempio di parametro è il
parametro del soggetto nullo. Tutte le lingue esprimono un relazione che è quella di soggetto del
verbo, ma alcune di queste hanno la possibilità di non esprimerlo (soggetto sottinteso, cioè che
esiste ma non necessita di verbalizzazione). Quando si ha questa situazione, si ha il soggetto nullo
cioè zero, che non c’è. In realtà non è che non ci sia, non c’è a livello superficiale. Quindi l’italiano
può dire “Viene stasera”, soggetto sottinteso lui/lei. L’inglese, il tedesco e il francese non possono
sottintendere il soggetto. L’italiano è una lingua che può mettere in crisi chi la impara, perché il
soggetto una volta c’è e una volta non c’è. In realtà che cosa fa l’italiano? Ha il parametro del
soggetto nullo attivato. Il parametro esiste, è una caratteristica universale, ma la lingua lo può
attivare o non attivare. Le lingue finiscono per essere tutte diverse, ma somigliarsi di più o di meno
sulla base di queste alterazioni.

Secondo questo modello tutti i principi sono già là, innati. I parametri sono una potenzialità. Dipende da
quale input viene offerto, perché dall’input si decide se attivare o disattivare i vari parametri. Il problema
c’è quando dopo aver imparato la propria lingua materna, bisogna poi imparare un’altra lingua.

(pag. 179 del libro per schemi su modelli.)


 Primo schema: ipotesi dell’inaccessibilità. Secondo questo modello la GU, quindi sia principi che
parametri, funziona solo per la lingua materna. Nel momento in cui si impara la seconda lingua,
secondo questo modello, è come se si fosse atrofizzata la capacità. Per risolvere questo problema,
si impara la lingua utilizzando dei meccanismi generali di apprendimento, quindi altre cose come
imitazione, meccanismi di tipo cognitivo, ma non più la grammatica universale.
 Secondo schema: piena accessibilità. Secondo questo modello la GU sta sempre là e non si blocca
mai. Funziona alla stessa maniera quando imparo la prima lingua, quando imparo la seconda e così
via. Significa che i principi si hanno sempre, perché innati, mentre i parametri saranno organizzati
per ogni lingua che verrà imparata.
 Terzo schema: accessibilità indiretta. Secondo questo modello la GU serve solo per la lingua
materna (L1). Però non dice che ci sono meccanismi cognitivi o di altro genere, dice solo che
quando si impara la seconda lingua, si passa sempre per la prima lingua. Tutto quello che verrà
offerto come seconda lingua viene prima elaborato secondo gli schemi della propria lingua materna
e poi viene riorganizzato. Quindi viene data una grandissima importanza agli organismo della L1.
 Quarto schema: accessibilità parziale. Questo modello differenzia i principi e i parametri. Lo
schema dice che entrambi sono attivi per la L1. Non si sa invece se entrambi sono attivi per la L2,
forse i principi sì e i parametri no, però c’è un dubbio, una via di mezzo.

Importante da sapere: si collocano temporalmente in momenti diversi del pensiero linguistico. Sicuramente
il contrastivismo (anni ’30, ’40, ’50) è più vecchio, ma generativismo e la grammatica universale, è vero che
il generativismo inizia alla fine degli anni ’50, però la grammatica universale è degli anni ’80 e in quegli anni
noi abbiamo già un’altra corrente forte che parla di apprendimento che è quella dell’interlingua, cioè la
sociolinguistica, la psicolinguistica. Ad un certo punto il generativismo si è confrontato con altre cose, non
con il contrastivismo dal quale Chomsky ha preso. L’idea interessante è il punto tra il non aver nulla e
imparare tutto per imitazione (cose concrete come abitudini linguistiche, schemi, lessico) e io sono già
pronto, ho già tutto e l’esposizione mi aiuta (organizzo una serie di regole, conoscenze e procedure di tipo
astratto che servono a far funzionare il meccanismo della lingua).
La grammatica universale NON è una grammatica, ma è una teoria sulla struttura e il consolidamento dei
meccanismi universali che rendono le lingue umane tali. Sono tutti universali di tipo logico, però la
differenza tra i principi e i parametri è che i primi sono di base e già dati nel momento in cui noi nasciamo, i
parametri invece si devono settore e organizzare.
I generativisi stanno discutendo molto su quanti e quali siano i parametri, perché c’è una discussione
ancora molto aperta su questo.

INPUT DECONTESTUALIZZATO

Quando parliamo normalmente si dicono tantissime sillabe al secondo. Il parlante quando è in un luogo in
cui non capisce la lingua la sua attenzione aumenta.
Non esiste, quando la lingua non è conosciuta, un testo difficile perché l'argomento è difficile come ad
esempio una lezione di filosofia o una cosa facile come Cappuccetto Rosso. Questo è un errore commesso
spesso da molti insegnanti quando hanno in classe bambini stranieri e non considerano la difficoltà della
lingua. La lingua, quando non è conosciuta, ha lo stesso grado di difficoltà: si sentono solo suoni. Ma non
sono suoni continui anzi ci sono pause, ha un ritmo.
Le lingue agglutinanti sono le più semplici da segmentare perché si riconoscono le parti. A differenza
dell'italiano che è una lingua flessiva dunque è più difficile perché le parole si flettono, cambiano (amico -
amici).

Il modello psicolinguistico di W. Levelt (uno dei possibili modelli che cerca di spiegare cosa succede
quando si ascolta) (1989) - Ascolto (pag.43)
 Adattato a partire dal modello per la produzione del parlato in L1
Non è un modello creato per la lingua seconda però si applica per cercare di capire quando noi ci troviamo
ad una lingua non materna (lingua seconda).
 Analizza le modalità di articolazione del processo di comprensione in L2
I linguisti descrivono delle cose ma cercano anche di interpretarle e spiegarle ricorrendo a dei modelli
teorici. Quando siamo di fronte ad una lingua per prima cosa cerchiamo di elaborare l'input. (pag.44)
Nel cerchio CONOSCENZE GENERALI / LESSICO (lemmi forme)
Nel rettangolo INTERPRETE / DECODIFICATORE / UDITORE

Sono due conoscenze diverse che ha il parlante o l'ascoltatore. Nel cerchio sono definite conoscenze
dichiarative, cioè conoscenze che si hanno, di contenuti, relative a dei contenuti. La conoscenza generale
riguarda quella conoscenza enciclopedica, tutto ciò che riguarda il mondo, la cultura. Mentre il lessico è
linguistico, fatto di unità che sono lemmi (parole) e le forme di queste parole. Entrambe sono importanti
perché per interpretare adeguatamente gli elementi del lessico occorre un inquadramento di natura più
generale. Noi spesso non interpretiamo qualcosa solo perché abbiamo capito qual è la parola che è stata
usata. Ad esempio se si dice "grazie eh" si dicono due parole. Uno straniero che bada solo al numero di
parole pensa al ringraziamento e poi c'è un'interazione. In realtà il nativo lo inquadra in un contesto più
complesso, dove c'è anche l'intonazione. E' decontestualizzato. Le conoscenze generali sono fatte dalle
nostre esperienze. E' un bagaglio quello delle conoscenze generali e del bagaglio che fa crescere e
aumentare la nostra esperienza linguistica, fa aumentare il nostro magazzino del lessico.
Quelle nel rettangolo sono procedurali, una conoscenza che riguarda il saper fare qualcosa, quindi è
un'attività. Uditore, decodificatore, interprete riguardano un'attività.
L'uditore è il primo che entra in funzione quando noi ascoltiamo un input orale. Quando arriva questo
messaggio acustico scatta un meccanismo per il quale il cervello deve cominciare ad elaborare questi suoni.
La prima cosa che fa l'uditore è quella di trovare stringhe fonetiche. Quando una lingua non è la nostra
lingua materna, noi sentiamo solo suoni continui, dunque è difficile capire dove finiscono le parole.
L'uditore cerca le stringhe fonetiche, poi bisogna elaborare la parte dei suoni e infine li passa ad un altro
componente: il decodificatore. La decodifica passa in prima istanza dal riconoscimento della componente
fonologica. L'orecchio sente una serie di suoni ma non li lascia decodificare tutti perché alcuni non si
sentono per colpa della lingua materna. Quando si impara la lingua materna, in realtà si comincia a
costruire un sistema di suoni che sono anche significativi cioè contribuiscono a differenziare i significati e
che costituiscono i fonemi della lingua. I foni sono quelli materiali, i fonemi sono questi suoni con una
funzione distintiva nella lingua. In italiano si impara a distinguere P e B (sorda e sonora) perché ci sono varie
coppie di parole dove questi suoni sono importanti. Sostituire P a B fa cambiare completamente il
significato della parola. Il fatto che il suono in una lingua svolga una funzione distintiva di significato lo
rende importante perché sono riconosciuti meglio dai parlanti. In italiano noi riconosciamo senza difficoltà
tutti questi suoni che hanno questa funzione distintiva. Anche la lunghezza consonantica fa cambiare il
significato della parola, soprattutto nella lingua italiana. Quando si ascolta CASSA CASA lo straniero sente la
stessa parola. L'uditore riconosce la stringa, poi la manda al decodificatore e questa si ferma, perché non
riesce a riconoscere sempre bene gli elementi dell’analisi fonologica.
L’italiano ha le vocali chiuse e le vocali aperte: Io dico VENTI e VεNTI, e tutti gli italiani che sono qua
sentono due parole diverse, invece la maggioranza degli stranieri sentono una sola parola, non sentono la
differenza di apertura perché non è fonologica nella loro lingua materna. Questo succede perché il
decodificatore, quello che riconosce i suoni, potrebbe avere grossi problemi a riconoscere il suono perché,
nel momento dell’ascolto, questo è l’elemento che rimane più bloccato dalla nostra lingua materna.
Anche suoni molto diversi per noi italiani, come “R” e “L”, RANA e LANA, possono essere confusi senza
problemi da parlanti di lingue dove questi due suoni sono varianti, e non fonemi.
Le orecchie degli italiani sono sorde a tanti altri suoni, per esempio la lunghezza vocalica è difficilissima da
percepire, ci si sforza poiché ci sono tantissime lingue che la usano in maniera funzionale. In italiano la
lunghezza vocalica c’è, ma non è funzionale, quindi le nostre orecchie non la classifica come una
caratteristica importante da tenere presente. Noi distinguiamo senza problemi le sorde e le sonore, ma “P”
“B” e “T” “D” per tantissime lingue sono lettere dello stesso suono, poiché la sonorità e sordità possono
non essere significative.

Quindi, tutti questi esempi servono a far capire la differenza tra ciò che io sento e ciò che io decodifico. Io
posso sentire un suono, ma non decodificarlo nella maniera corretta per una lingua che non è la mia. Questi
suoni non decodificati sono chiamati suoni indistinti.
La “A” della lingua italiana è la più avanzata delle vocali basse, però non è unica. In una stessa lingua, come
l’inglese, si usa vari suoni per la stessa vocale, come ad esempio la “A” che viene sempre scritta così, senza
accenti, ma in base alla parola, il suo suono può cambiare in diversi modi.
L’importanza della decodifica fonologica di una parola sta proprio nel saper distinguere due parole diverse
in base al suo suono, non il suo accento. Se due parole senza accento, come CASSA e CASA, RAZA e RAZZA,
non sono decodificate nel modo giusto, invece di capire il significato A di una di queste parole, io finisco per
capire il significato B, e dare un significato non adeguato a tutta la frase. RAZZA è una parola legata a una
tradizione, il colore della pelle, la provenienza di una persona; invece RAZA è un pesce, e quindi queste
sono due parole che non si possono confondere all’interno di una frase, e devono essere decodificate nel
modo giusto. Non si può comprare una RAZZA in pescheria, ad esempio.

 La decodifica fonologica non è una banalità, perché se il mio uditore mi ha mandato una stringa,
ma il mio decodificatore non lo riesce ad elaborare, io comincio ad avere dei seri problemi di
riconoscimento del lessico.

Per comunicare, dobbiamo adeguarci a vari “step”. Quello della struttura superficiale del messaggio, poi in
profondità del significato.
In superficie ci stanno proprio i suoni che io ricevo e devo riconoscere. La superficie delle lingue è solo
un’apparenza. In superficie, tutti i suoni che ricevo rendono le lingue apparentemente diverse, difficili; poi
in profondità finisco per scoprire che ci sono tantissime similitudini tra le lingue del mondo.

Dopo aver studiato la struttura grammaticale, abbiamo bisogno di:

 Andare a controllare nel nostro magazzino del lessico se ci sono delle corrispondenze a questi
suoni che ho riconosciuto ed analizzato foneticamente; mi servono parole che corrispondono a
questi fonemi per decodificare correttamente il suono.

È importante arricchire sempre il lessico della nostra lingua materna. Quando nasciamo, il nostro
“magazzino mentale” è completamente vuoto, e andare a riempirlo con nuove parole e nuovi significato è
una nostra responsabilità, dipende solo da noi. La morfologia, la grammatica in età adulta dovremmo averla
un po’ tutti, ma il lessico è qualcosa che dobbiamo sempre riempire di nuove informazioni, ma anche di
migliorare le forme che già conosciamo. Ad esempio, una delle prime parole che io imparo può essere
“CIAO”: una parola semplice, che io uso per salutare. Questa parola mi va bene una volta, ma mi va male
10, poiché “CIAO” è un saluto informale, e non posso usare questa forma se cerco lavoro, se parlo con il
professore, se vado in segreteria a chiedere informazioni. Questo “CIAO” deve diventare “SALVE”
“BUONGIORNO” “ARRIVEDERCI” e questo serve anche per aiutare uno straniero a capire che in Italia
esistono anche rapporti sociali per cui la conversazione diventerà formale o informale a seconda del
contesto, del rapporto.

 Devo capire le relazioni tra le parole. Ad esempio: “Mario ama i cani”; c’è un’azione (amare),
qualcuno che la realizza (Mario), e qualcuno che è oggetto e riceve questo amore (i cani). L’Italiano
mette queste relazione in un certo ordine, ma esistono anche lingue che dicono “Ama i cani Mario”,
o magari lingue che dicono “i cani Mario ama”. Quindi, l’ordine in cui le parole compaiono non è lo
stesso in tutte le lingue, perché questo dipende dalla sintassi, le relazioni logiche, e sono delle
regole che combinano le parole tra di loro, e le lingue del mondo hanno varie possibilità. Quindi,
per capire la relazioni tra le parti di una frase, io devo fare quella che si chiama analisi
grammaticale, quindi il mio decodificatore ha la necessità di capire: Singolare? Plurale? Chi è il
soggetto? ecc.

Quindi, abbiamo capito che il decodificatore deve fare un lavoro gigantesco, però se non ha le conoscenze
di valore fonologico, lessicale, morfologica e sintattica, non ce la fa. Quindi, deve costruire tutto questo
piano piano, per non sbagliare.
Quando ha finito l’analisi, abbiamo l’enunciato analizzato, ma manca ancora l’ultima parte, la più
importante, che è quella dell’interprete. L’interprete deve dare un significato a quello che è stato
decodificato, e può farlo solo sulla base delle sue conoscenze generali, che se non ci sono, ciò che è stato
detto non avrà mai un significato vero e proprio.
L’esperienza, la formazione, le conoscenze generali, la cultura sono ESSENZIALI per la traduzione, il
significato giusto di una parola. Servono conoscenze ampie, anche di tipo socio-linguistico, pragmatico. Non
posso salutare in una lingua che non è la mia se io non conosco le forme di saluto di quella lingua, se non so
se quella forma di saluto è giusta nel contesto in cui mi trovo, ad esempio. Usare una lingua adeguatamente
significa anche conservare il proprio lavoro, perché sapere usare parole, frasi ed espressioni nel momento
opportuno è sinonimo di sapere la propria lingua, e di sapere cosa si può dire nel contesto lavorativo.
Questa parte dell’ascolto è un modello sintetico ma che ha già presentato tanti problemi, è delicato.
Questo modello ha delle caratteristiche per le quali le conoscenze procedurali dell’uditore, del
decodificatore e dell’interprete, funzionano in modo autonomo. Ciò significa che è un meccanismo che a
volte viene in automatico, e questo comporta anche il fatto che alcune procedure possono essere saltate,
data la nostra superficialità di pensare di aver capito un concetto, o possono anche subire un cambio tra
l’ordine delle procedure, poiché penso di aver capito, salto una procedura, poi andando avanti con il
discorso mi rendo conto di non aver capito bene quello che ascolto, e sono costretto a tornare indietro e
riprendere il passaggio che manca, il decodificatore; oppure un livello di analisi può essere più importante
per me di un altro: Se io dico, “l’osso mangia i cani”, la sintassi mi dice che questo osso mangia i cani, ma il
livello semantico mi fa capire che sono i cani che mangiano l’osso.

Le procedure sono di tipo incrementale, cioè si comincia piano piano, su elementi minimi, e poi si procede
all’elaborazione, e poi diventano automatiche, ciò significa che più siamo automatici, e più siamo veloci, e
più abbiamo una competenza elevata. L’automatismo, l’incremento e l’autonomia dei livelli sono delle
caratteristiche di questo modello, che ci spiegano perché siamo più lenti o più veloci, perché a volte
saltiamo un livello, oppure perché prima di aver finito di sentire tutto già cominciamo ad elaborare.
Quando l’apprendente sta ascoltando in una lingua seconda, questo non deve soltanto capire, ma deve
anche imparare. Quindi, quando non è la nostra lingua, l’ascolto ci serve anche per imparare, per acquisire
conoscenze che non abbiamo, e naturalmente memorizzare. Quindi, è importante la capacità di conservare
nella memoria le nuove informazioni. Purtroppo la memoria non è uguale per tutti, e va esercitata.
Abbiamo però una memoria a breve termine, dove i concetti li teniamo solo per un periodo e ci serve
soltanto per lavorare al momento. Se facciamo un’attività di fissazione con questo elemento, possiamo
passare a una memoria a lungo termine, la memoria che non ci fa dimenticare, per esempio, le parole di
una lingua nuova. Quindi, l’apprendente deve trovare un equilibrio tra le nuove conoscenze e la memoria di
queste conoscenze, e poi deve anche automatizzare queste conoscenze per velocizzare l’elaborazione delle
nuove informazioni.
La qualità e la quantità dell’input sono fondamentali per la comprensione, perché un input deve essere
abbondante, frequente per quanto riguarda la quantità; invece per quanto riguarda la qualità, l’input deve
essere semplificato, negoziato, e un input dove l’apprendente riesce a mettere in moto i meccanismi di
segmentazione e di decodifica, aiutato dal parlante nativo. Il messaggio deve essere esplicito, e ci deve
essere una contestualizzazione extralinguistica. Un input contestualizzato è di grandissimo aiuto per lo
sviluppo della BICS, di ciò che serve proprio all’inizio dell’apprendimento.

INTERLINGUA

 Per imparare una lingua (L1 o L2) è necessario che l’apprendente abbia a disposizione l’input linguistico.
 Non tutto l’input diventa comprensibile: intake;
 Aiutano la decifrazione dell’input: contestualizzazione, strutturazione, modificabilità e negoziabilità.
 La lingua degli apprendenti: interlingua.

Cominciamo il capitolo dedicato al PARLARE, che è il capitolo terzo. Su alcuni concetti riprendiamo delle
cose già dette in precedenza. Abbiamo già dedicato una lezione al processo dell’ascolto e abbiamo
presentato una parte del modello psicolinguistico di Lewelt, che riguarda il processo di elaborazione
dell’input e decodifica dello stesso.
L’input di cui avevamo parlato nella lezione ancora precedente e le cui caratteristiche erano state nei
dettagli presentate: l’input è comprensibile perché contestualizzabile, negoziabile ecc.
La lingua degli apprendenti ha un nome: INTERLINGUA. Questo termine non significa che sta “tra” due
lingue: inter non significa tra la lingua materna e la lingua seconda.
Proprio il termine “interlingua”, elaborato negli anni ‘70 dallo studioso Selinker, è un po’ infelice: sarebbe
stato meglio definirlo come varietà di lingua dell’apprendente o con altre “etichette”, perché proprio
questo “inter” confonde, perché dà l’idea di qualcosa che sta in mezzo. Tuttavia, il termine interlingua ha
riscosso molto successo, per cui alla fine è risultato quello più utilizzato per indicare la varietà di lingua
dell’apprendente.
(NB: Non cercare solo su Wikipedia perché spesso lo stesso termine tecnico può riferirsi a cose diverse e
comportare errori all’esame.)

INTERLINGUA E L2

 L’interlingua è una lingua naturale dotata di coerenza interna e carattere indipendente.


 Non va sempre rapportata alla L2, ma deve essere analizzata in sé stessa.

Con il termine interlingua indichiamo una lingua naturale (il contrario è artificiale o inventata), questo
significa che ha uno sviluppo naturale e ha una sua coerenza interna.
L’interlingua è un sistema in cui tutte le parti sono collegate tra loro e sono connesse esattamente come lo
farebbero in un normale sistema linguistico. Però ha un carattere indipendente rispetto alla L1 e L2.
Dunque quella che usa l’apprendente non è la sua lingua materna, la quale al massimo può avere qualche
influenza sull’interlingua. Non è nemmeno la lingua di arrivo fino a che l’interlingua non ha raggiunto il suo
grado più alto di evoluzione, di sviluppo. Quando diciamo “Io parlo tedesco/francese”, quella per il
linguista è spesso un’interlingua di tedesco/francese, perché non è ancora il sistema del parlante nativo.
Allora cominciamo ad avere anche un atteggiamento diverso nei guardi del modo di parlare
dell’apprendente.
Stiamo dicendo che quando io ascolto parlare (NB: ci stiamo concentrando sull’oralità) e sento che il mio
apprendente usa una lingua per esprimersi (che può aver imparato in maniera spontanea ascoltando i
nativi, oppure guidata in classe), quello che usa l’apprendente in realtà può essere etichettato come
interlingua. Questa ha vari stadi, lo stadio iniziale, addirittura quello pre-basico (quello degli inizi assoluti),
che può essere totalmente sgrammaticato, contenere pochissime parole, contenere soltanto delle …e
formule fisse.
Piano piano l’interlingua si evolve e si avvicina sempre di più al sistema del parlante nativo.
Dunque apprendente e parlante nativo è come se utilizzassero due sistemi non perfettamente
sovrapponibili. Una cosa importante per chi studia le interlingue degli apprendenti è ricordarsi sempre che
l’interlingua non deve essere sempre riportata alla lingua obiettivo per essere descritta, ma può essere
anche descritta rimanendo dentro l’interlingua stessa. Se io descrivo il modo di parlare di un apprendente
solo per un confronto con la lingua target, spesso commetto l’errore di dire “Sbagliato! Sbagliato! Errore!
Errore di lessico, errore di morfologia, di sintassi” vado a guardare tutti i punti in cui l’apprendente non si
comporta linguisticamente come un parlante nativo.
Chi studia l’interlingua si mette in una posizione diversa, e dice: “Come parla l’apprendente?”; descrive il
modo di parlare dell’apprendente e cerca di spiegare il perché l’apprendente parla così. La cosa più
interessante, venuta fuori negli anni ’70, quando hanno iniziato a studiare l’interlingua, è stata notare che ci
sono molti comportamenti degli apprendenti, universali (indipendentemente dalla lingua materna e dalla
lingua di arrivo/lingua obiettivo): dunque hanno notato regolarità. Quelli che noi chiamiamo errori è come
se fossero caratteristiche che inevitabilmente gli apprendenti condividono. Si mettono in evidenza le
regolarità, l’interlingua viene quindi descritta quasi come se fosse una lingua a sé stante, quindi merita di
essere descritta come una lingua.

COSTANTI E VARIABILI DELL’INTERLINGUA

 La IL presenta delle tappe evolutive comuni a tutti gli apprendenti (elemento costante);
 Il risultato o la velocità d’apprendimento (elementi variabili), in quanto dati soggettivi, le devianze
linguistico-culturali nella produzione degli apprendenti si possono considerare come segnali di una
competenza provvisoria, in fieri.

L’interlingua (IL) presenta quelle che vengono definite tappe evolutive, o stadi evolutivi, e sono comuni a
tutti gli apprendenti.
Invece cambia molto sia il risultato finale, sia la velocità con la quale io passo da un livello all’altro, perché
questo dipende da fatti soggettivi, legati all’apprendente: la sua motivazione, la sua personalità, la quantità
e qualità di input che gli viene offerta, anche la minore o maggiore capacità di memorizzare, da quanto
sono distanti le due lingue tra di loro, fattori interni come il mio essere più o meno estroverso ecc.
L’insegnante è un grande aiuto, perché aiuta fornendo un input semplificato in maniera accurata e
graduato, però se “io” non sono pronto come soggetto ad assorbire una struttura perché non sono nello
stadio dell’interlingua giusto per quel miglioramento, il lavoro dell’insegnante è inutile. Molto spesso
l’insegnante corre, perché ha poche ore e poco tempo; può correre per un alunno su 100, che per suoi
fattori individuali riesce a mantenere la velocità di sviluppo dell’interlingua (ma è qualcosa di inconscio) e
riesce quindi a stare dietro all’insegnante, mentre gli altri 99 arrancano (o meglio, hanno altri tempi,
necessitano una velocità diversa).

Aneddoto: Il Governo italiano ha fatto un accordo (Progetto Marco Polo-Turandot) con la Cina: per il
ragazzo cinese, un anno prima dell’inizio dell’università italiana, è previsto un anno di studio dell’italiano
(100h al mese per 10-11 mesi) per arrivare al livello di competenza B1. L’input è tanto, il lavoro è molto, ma
la velocità è molto rallentata, perché bisogna dare il tempo all’interlingua di questi apprendenti di
sviluppare il sistema (che partono da una lingua materna tipologicamente molto diversa dall’italiano). Se
invece di essere cinesi fossero stati parlanti di tedesco o un’altra lingua europea, con tutte queste ore altro
che B1, saremmo arrivati molto più su. Non è che uno è più intelligente di un altro, è che la velocità è
diversa. Questo va tenuto in conto.

Questa è velocità in rapporto alla lingua materna, però c’è anche la velocità cambia anche per rapporto ai
soggetti (chi ha una personalità adeguata, un’intelligenza adeguata, una capacità di decodificare i suoi
adeguata, una capacità di memorizzazione adeguata, risulta più bravo nelle lingue).
La cosa interessante che è venuta fuori negli studi sull’interlingua è stato proprio questo: capire che se io
ho un gruppo di 10 persone potrei avere 10 stadi diversi della stessa interlingua. L’insegnante che sia anche
un linguista, quando guarda la produzione dei propri apprendenti, in realtà cerca - attraverso la loro
interlingua - di capire lo stadio al quale è il loro sistema linguistico.

PRIME PRODUZIONI DEL PARLATO IN L2

In tutte le interlingue iniziali compaiono forme della negazione, forme di saluto e di commiato, di
ringraziamento e altre espressioni frequenti e comunicativamente rilevanti di solito apprese come formule
non analizzate o routine, e naturalmente nomi di persone e di luogo. (Giacalone Ramat 1993: 395)

Quando si comincia a parlare una lingua, una prima produzione (quindi abbiamo le cosiddette interlingue
iniziali) cosa ci troviamo dentro? Nelle IL iniziali indipendentemente dal fatto che il mio insegnante mi
possa insegnare i modi e i tempi del congiuntivo o dell’indicativo, presentare liste di parole, non ha alcun
effetto su di me.
Presenta sempre la negazione (una delle primissime cose; parliamo per comunicare, la comunicazione è il
nostro obiettivo; dire non voglio, non faccio, non vado, ci serve; la negazione è funzionale), i saluti (le prime
cose di cui abbiamo bisogno per interagire con i nativi, sia quando arriviamo sia quando ci congediamo,
diversi in base alle circostanze); poi ci sono i ringraziamenti e altre espressioni.
Importante ricordare: queste espressioni vengono imparate come fossero formule fisse (es. Buonasera,
arrivederci, come stai? Tutto bene?); le impara perché le sente.
Linguisticamente parlando, le routine sono degli schemi fissi (come va? – tutto bene. Buongiorno –
buongiorno. Grazie – prego), e a queste si aggiungono vari nomi di persona, di luogo, che si apprendono.
Quando impariamo una lingua in classe, spesso l’insegnante fa subito ricorso alla lettura e alla scrittura
(dunque subito tutto è analizzato), mentre l’apprendente avrebbe molto bisogno di una fase in cui usa un
po’ di lingua solo oralmente, perché gli farebbe bene adattarsi anche al ritmo e ai suoni della lingua
(quando l’insegnante scrive delle parole alla lavagna, possiamo subito dimenticare la pronuncia, perché
convertiamo i segni scritti in suoni della nostra lingua). Se ci offre dei pezzi, o “chunks” (all’inglese),
imitiamo, e nell’imitare, impariamo i suoni.

PRIME PRODUZIONI DEL PARLATO IN L2: FORMULE FISSE

 Le FORMULE sono brevi pezzi di lingua memorizzati e non analizzati tali e quali senza che vengano
scomposti nelle parti che li compongono;
 VANAGGIO: l’apprendente usa strutture complesse prima di capirne il funzionamento, massimizzando il
rendimento comunicativo.
– Espletano alcune funzioni vitali: salutare, attirare l’attenzione, chiedere, ecc.
 SVANTAGGIO: possono dare la falsa impressione del livello effettivamente posseduto dall’apprendente,
con conseguenze anche sul tipo di input ricevuto.
– Es. Come si chiama? - Io vuoi
– I dont’t know – No like this
 Le formule non sono produttive sebbene si possa assistere a una evoluzione delle stesse
(Ellis, 1984: 87):
– I don’t know
– That one I don’t know
– I don’t know what’s this
– I don’t understand
– I don’t like
– I know this
– You don’t know where it is
 Questo meccanismo spiega anche certi percorsi di apprendimento a “U”, in cui inizialmente vengono
prodotte forme più corrette che in seguito:
– Do you know? How do you do it? (primi mesi di analisi)
– What do you drinking, her? (mesi dopo)
• La bambina mostra mostra di non aver padroneggiato ancora il sistema delle interrogative inglesi e di
usare “do you” come una semplice particella interrogativa invariabile.
Il vantaggio di questi “pezzi” che chiamiamo “formule” è quindi che l’apprendente all’inizio può usare delle
parti di lingua apparentemente molto grandi (es. “Tutto bene a casa?”). L’apprendente incomincia così a
salutare, ad attirare l’attenzione del nativo su di sé (ricordiamo l’importanza della disponibilità del nativo a
semplificare e a negoziare), a chiedere. L’apprendente cerca di comunicare, e con queste formule gli riesce
spesso. Si mostra come elemento comunicativamente competente.
L’unico svantaggio è che qualche volta le formule sono imparate così bene, come blocchi, che
l’apprendente viene confuso come un parlante più competente e di conseguenza non riesce, da
un’impressione di sapere più di quello che sa.

PER RIASSUMERE

 L’uso delle formule è un fenomeno comune a tutti gli apprendenti


– Alcuni ne fanno ricorso in maniera più frequente
 Alcune lingue si prestano maggiormente all’uso delle formule
 L’uso delle formule non si riscontra solo nelle prime fasi dell’interlingua
– Formule vs. idiomaticità

Le formule sono come blocchi: non rimangono immobili ma diventano produttive (ma non come le parole,
che generano altre cose, es.; casa-casetta-rincasare); questi blocchi, nel tempo, con lo svilupparsi
dell’apprendimento, si sgretolano, e l’apprendente riesce ad utilizzare porzioni di questo enunciato
unendole alle altre cose (mettendo qualcosa prima o dopo).
Esempio tratto da Ellis: I don’t know  That one I don’t know  I don’t know what’s this (tralasciando gli
errori di grammatica; ci sono dei pezzi che vengono combinati)  Passo ancora più interessante, inizia a
togliere il “no”: I don’t want, I don’t like  Inizia a comparire il “no” in altre frasi: You don’t know where it
is

Tutto ciò vuole dimostrare come un blocco di lingua che io posso imparare e usare all’inizio senza capire da
quali elementi è veramente composto, quindi se io voglio dire che non sono d’accordo/non ho capito/non
mi piace, dico “I don’t know”. In italiano spesso dicono “no buono”, che è una sorta di negazione.
All’inizio la formula ci aiuta a comunicare, però piano piano diventa la base per un’evoluzione, perché io la
spezzerò questa formula mano a mano che imparo la lingua e inizierò ad usare i pezzi in maniera diversa.
Tutti gli apprendenti sicuramente usano le formule; alcuni le usano più frequentemente di altri, alcune
lingue sembrano essere più adatte all’uso di formule, ci sono più frasi fisse, più espressioni/blocchi che si
ripetono identiche (es. l’inglese).
Possiamo trovare le formule anche più avanti, non solo nei primissimi stadi, ma sicuramente le espressioni
idiomatiche che poi l’apprendente imparerà quando sarà a uno stadio evoluto non sono esattamente uguali
alle formule. Le formule sono questi blocchi fissi che servono per la comunicazione quotidiana, le
espressioni idiomatiche hanno una certa rigidità ma fanno parte di un altro livello di comunicazione (es.
“Ho un diavolo per capello” non viene certo insegnato assieme a “ciao, come stai?” per la frequenza con cui
compaiono).

PRIME PRODUZIONI DEL PARLATO IN L2: Brevi pezzi analizzati – LESSEMI

 È un’analisi che non è regolata da principi sintattici:


– Non sono assegnabili immediatamente a una classe morfologica
 Non hai lavora (= non ha lavoro)
 Bicicletta su montagne (=andavo in bicicletta sulle montagne)
 È un’analisi che non è regolata da principi sintattici:
– Seguono un ordine pragmatico-discorsivo piuttosto che sintattico
– Presentano minima o nulla flessione morfologica
 Non hai lavora (= non ha lavoro)
 Bicicletta su montagne (=andavo in bicicletta sulle montagne)
Solo se queste forme compaiono legate all’interno del paradigma del nome (es. bicicletta > biciclette) sono
effettivamente analizzate, altrimenti sono usate nella loro forma basica.
Il libro propone di utilizzare il termine “lessema” per essere un po’ più generico rispetto a “parola”, perché
le prime parole che l’apprendente utilizza, in realtà è come se non fossero nomi, o verbi, o aggettivi, ma
qualcosa di indistinto rispetto a questo.
Se io dico “non hai lavora” questo può essere considerato come un enunciato di un interlingua basica,
infatti ci sono già degli elementi, non sono solo formule fisse, vedete che qui ci sono delle parole. Abbiamo
una negazione “non”, poi “hai” e “lavora” a parte il fatto che forse “non ho lavora”, “non ha lavoro” non si
sa, ma abbiamo capito cosa volesse dire. Questo “lavora” può essere “lavoro” inteso come sostantivo,
oppure “lavora” come voce del verbo lavorare, che cos’è quindi? In realtà né uno né l’altro.
All’inizio quando l’apprendente comincia ad utilizzare queste prime parole non è sempre facile capire se sta
usando quella forma per indicare un nome o un verbo; se vuole dire “io non lavoro” o se vuole dire “io non
ho lavoro” questa è un’interpretazione che faccio io, il risultato è sempre che quella persona ha un
problema. Però se io volessi interpretare un enunciato dell’interlingua basica come questo (“non hai
lavora”) mi troverei in difficoltà perché ho una negazione e poi ho degli elementi che potrei considerare:
tutti e due come verbi, oppure considerare il secondo come un sostantivo sbagliato con la morfologia
sbagliata.
Stiamo cominciando a vedere un’altra cosa: l’interlingua di base è grammaticalmente adeguata? Quando
l’apprendente comincia a parlare in realtà non c’è una vera grammatica, la grammatica si sviluppa
lentamente anche l’ordine delle parole non c’è come sintassi, l’ordine delle parole nei primi enunciati
dell’interlingua è in realtà un ordine di tipo pragmatico-semantico, ciò cosa significa? Che è un ordine
basato sul significato o sulla funzione comunicativa.

Se io dico “bicicletta su montagne”, che sarà mai? “Bicicletta” soggetto, verbo sottinteso e poi un
complemento di luogo e quindi “la bicicletta va sulla montagna”? O “io in bicicletta vado in montagna”? O
altre interpretazioni ancora? Questo noi non lo sapremo mai, nel senso che noi nativi o il nativo quando
interpreta l’enunciato di interlingua si basa molto sul contesto, si basa molto su quello che pensa stia
dicendo l’apprendente. Se non ha capito cosa fa poi il nativo? Inizia una negoziazione del significato.
Però se ho un apprendente che dice “bicicletta su montagne” io non posso dire “il mio apprendente ha
utilizzato due sostantivi e una preposizione”, ma “il mio apprendente ha utilizzato due lessemi
combinandoli in maniera tale che il primo sia il topic (l’elemento principale) e il secondo sia il comment
(l’elemento di aggiunta)”. L’ordine iniziale è sempre topic-comment ossia prima il tema di cui voglio parlare
(quindi qui sicuramente “bicicletta” e qualcosa come “avevo una bicicletta”, “andavo in bicicletta” ecc.) e
poi si aggiunge il comment (“che faccio di questa bicicletta?”).
Stiamo dicendo una cosa interessante che quando iniziamo a parlare in una lingua che non è la nostra
lingua materna, non ha importanza se io sia madrelingua italiano e parli tedesco, o madrelingua cinese e
impari il russo, non è tanto questo; tutti gli apprendenti in una fase iniziale usano le stesse strategie e
questa cosa prima non veniva detta, perché non si guardava questi elementi comuni degli apprendenti, si
guardava piuttosto a “quali errori fanno i cinesi che parlano l’italiano?”; invece ora si dice “come si
comporta l’apprendente?”, perché tutti gli apprendenti all’inizio hanno le formule, poi hanno dei lessemi
non sempre facilmente classificabili e l’ordine che utilizzano è quello pragmatico-discorsivo non sintattico,
quindi è importante quello che viene prima e quello che viene dopo perché prima c’è il topic poi c’è il
comment.

PRIME PRODUZIONI DEL PARLATO IN L2: FORMA BASICA

L’apprendente seleziona, tra le varie forme flesse di un lessema, quella che gli appare più neutra o
rappresentativa di tutte le altre:
• La frequenza con cui una forma ricorre nell’input:
 es. Chilometri vs. chilometro
• La facilità articolatoria:
 es. la vs. gli e lo
• La lunghezza
 es. mangia vs. mangiavate
• La specificità
 -ing

Dal punto di vista della morfologia in realtà all’inizio la morfologia è molto molto limitata, quindi le forme
sono utilizzate in una maniera che viene definita forma basica.
La forma basica è la forma di partenza per l’apprendente. Solo se io trovo che il mio apprendete dice
“bicicletta”>”biciclette”, “casa”>”case”, “libro”>“libri”, insomma le trovo tutte e due, quindi posso dire che
lui ha imparato che esiste un paradigma in italiano che presenta un singolare e un plurale; ma se il mio
apprendete le usa a caso, oppure usa solo una forma in realtà non sta usando il paradigma che la lingua
prevede, ma sta usando una forma “jolly” che è una forma basica.
Una forma basica può essere il singolare, ma può essere anche il plurale, può essere il singolare se lui sente
sempre quella parola al singolare, ma potrebbe essere il plurale se la sente sempre al plurale. Se ad
esempio lui sente sempre la parola “studenti” dirà “studenti” anche quando ce n’è uno; se invece sente
sempre la parola “libro” al singolare dirà “libro” anche quando sono tanti. Tutto ciò significa che in realtà
all’inizio non c’è nemmeno una morfologia (come non c’è una sintassi, ma esiste un ordine pragmatico) e
quelle forme che sembrano avere un plurale, un femminile, un presente, un passato sono forme basiche
che lui ha imparato così.
L’apprendente all’inizio dice “mangiato”, ma non dice “mangiato” perché il participio passato è più facile di
un’altra forma, ma perché il participio passato compare subito, la terza persona singolare appare prima
della prima persona singolare, ciò è normale perché quando parliamo chi dice “io mangio”, “io parlo”, “io
leggo”? nessuno, perché nessuno parla sempre utilizzando l’io di solito quando siamo con gli altri “tu”,
“lui”, “loro” è difficile che si utilizzi l’io e proprio per questo la forma della prima persona è l’ultima che
finisce per essere appresa, perché impariamo quelle forme che sentiamo spesso, ci può capitare la terza
persona oppure ci può capitare la seconda persona se ci troviamo in un contesto classe in cui un insegnante
dice “vieni tu”, “fai questo” ecc. Le forme quindi che il mio apprendente mi sta proponendo negli enunciati
“biciclette montagna” non sono un nome più un nome di cui uno plurale e uno singolare, ma sono due
lessemi con i quali mi vuole forse dire che ha come topic un qualcosa legato a questa “bicicletta” e come
comment la “montagna”, ad esempio “andiamo in bicicletta in montagna”, “le biciclette sono faticose per
andare in montagna”, potrebbe voler dire tante cose diverse e quindi contestualizzare è molto importante
altrimenti non riusciamo a comprendere che cosa ci vuole dire.

Quindi l’apprendente seleziona inconsciamente le forme e le impara.


Impara le forme prendendole dall’input selezionando quelle che gli sembrano più neutre. Una forma neutra
è una forma che compare sempre, molto frequente, una forma che compare poco è una forma radicata,
l’apprendente impara la forma che compare sempre. Se io sto in una classe dove siamo tutte donne,
l’insegnante di conseguenza parla sempre al femminile “le amiche”, “le studentesse” per me quella è la
forma basica perché nel mio input di partenza quella è la forma basica, questo non significa che quando
studio dico “okay, allora prima il maschile e poi il femminile”.
L’apprendente si basa molto sulla frequenza di alcune formule e quelle più frequenti sono quelle che
imparerà. Se sente ad esempio la parola “chilometri”, “chilometro” al singolare non lo imparerà mai. Tutti
dicono “10 chilometri”, “5 chilometri”, “100 chilometri” è una parola che si sente sempre al plurale.
Oppure una parola la impara prima perché è più facile da articolare, ad esempio è più facile “la” di “gli” o
rispetto a “lo”, perché la vocale “a” è una vocale molto semplice e molto presente nella lingua italiana,
infatti la si sente maggiormente, perché è una vocale molto chiara nell’articolazione, per cui la nostra “a” si
sente molto bene. Tutte le parole italiane che finiscono per “i”, “e”, “o”, hanno vocali che noi non sentiamo
quasi per niente, se andiamo ad ascoltare attentamente sono talmente brevi che molte volte sono un
accenno di vocale. La “a” è sempre più marcata, si sente meglio. Allora rispetto a “lo”, “la” è più semplice e
si sente di più rispetto anche a “gli” che è difficile da articolare (persino gli italiani in determinate zone
d’Italia non sanno pronunciare la laterale palatale e la trasformano in una semivocale).

Oppure un altro problema è quando le parole sono troppo lunghe e quindi si notano di meno le vocali ed è
per questo che è più facile che io noti, memorizzi e sappia ripetere parole più brevi, fatte di meno sillabe.
Abbiamo detto che il “baby talk” è fatto tutto di parole bisillabiche e ciò non è un caso, perché il “baby talk”
è un interessante varietà di lingua costruita (in maniera naturale), sviluppata per adattarsi ai meccanismi
con i quali noi impariamo, decodificando l’input. E quindi ai piccoli della specie gli adulti offrono un input
pronto per essere elaborato adeguatamente dopo di che li spingono verso il codice più complesso.
In alcuni casi può essere che io senta, noti, impari un elemento come può essere lo “speaking”, “drinking”
dell’inglese perché è molto specifico, frequente e molto presente e quindi sto dicendo che compare una
forma che apparentemente sembra non basica ma che invece lo è, lo è per la frequenza con la quale i nativi
la utilizzano. Tutto ciò fa sì che nella mia interlingua basica ci siano formule, lessemi non facilmente
catalogabili per categorie lessicali, poca morfologia, non ci sia una sintassi ma un ordine pragmatico-
discorsivo/ pragmatico-semantico e degli elementi che compaiono come delle forme di base che sono
ricavate dall’input sulla base della frequenza con cui compaiono, sulla base della facilità con la quale si
possono articolare, sulla base della brevità delle stesse, sulla base della specificità dell’utilità di alcune
forme; io le imparo perché mi servono e vengono usate moltissimo. Il participio passato “mangiato”,
“andato”, “comprato” compare subito per gli stranieri, però è il participio passato non è che stiamo
parlando del presente indicativo, perché? Perché gli serve, si deve dire subito qualcosa al presente e al
passato, c’è la necessità come la negazione.

PRIME PRODUZIONI DEL PARLATO IN L2: Brevi pezzi analizzati – LESSEMI

 È un’analisi che non è regolata da principi sintattici:


– La prevalenza delle parole contenuto
 La semplificazione formale elimina gli elementi comunicativamente meno importanti

L’articolo fa parte di una categoria di parole che non è quella delle parole cosiddette di contenuto. Le
parole è come se fossero due grossi blocchi, ci sono le parole funzionali, grammaticali dentro le quali ci
finisco gli articoli, le preposizioni, congiunzioni il cui significato è molto particolare, non è esattamente il
significato di un nome, di un verbo, di un aggettivo e soprattutto questi elementi di carattere funzionale
sono di un numero chiuso e ben definito, ad esempio gli articoli dell’italiano, quanti e quali sono? Essi sono
il, lo, la, i, gli e le, ma se dico “l’ape”? “L’” è un articolo e allora quando ognuno di noi parla nessuno dice “l
apostrofo ape ha punto il bambino” se voi mi dite “l’” oppure “la con la a che è caduta” voi mi state dando
una spiegazione da scuola, una spiegazione legata alla scrittura e alle regole dell’ortografia dell’italiano.
Il linguista queste cose non le accetta perché quando descrive il linguista, che si occupa di acquisizione, dice
che l’italiano ha anche un articolo “l’” che può essere maschile o femminile e che si trova davanti a delle
vocali, non è che dice che essa cade davanti alla a o alla o, queste sono tutte delle ricostruzioni della
situazione, però quando l’apprendente sente “l’uva”, “l’oca” che sente? Sente una parola sola e la impara
così; Cosa accade agli italiani poco scolarizzati? Che dicono “sagna” invece di “lasagna”, le dividono e
questo è un esempio di ipercorrettismo perché riconoscono l’articolo dove esso in realtà non c’è. Tra l’altro
il fatto che quando impariamo una lingua non sentiamo sempre i confini tra alcuni elementi come l’articolo
e il nome ce lo dice il lessico italiano di origine araba, ad esempio parole di origine araba che abbiamo nel
nostro lessico è albicocca: essa viene dall’arabo e appartiene a quel gruppo di parole come “elefante” in cui
cominciano tutte in “al”, “el”, cosa c’è quindi in queste parole? C’è l’articolo perché ci siamo presi tutto il
blocco non analizzandolo, però poi io dico “l’albicocca” e ci rimetto l’articolo perché io mi sono presa la
parola di prestito con tutto l’articolo perché io l’ho sentito, non l’ho letto. Per esempio “mongibello”,
questa parola significa “molte volte” perché già dentro “gibello” c’è “gebel” che è monte, quindi “monte
monte” due volte perché si perdono delle cose però torniamo al nostro articolo.
È interessante se andate a vedere molte parole di prestito dall’arabo ce le siamo prese con l’articolo
inglobato e questo è un fenomeno normalissimo di quello che succede quando noi impariamo ascoltando
soltanto.
Le parole di contenuto di solito sono i nomi, i verbi, gli aggettivi, sono quelli che rimandano a un referente
astratto, concreto e identificabile. Io posso dire “casa”, “bello”, “bianco”, “andato”, “fantasia” se dico
“per”, “di”, “con” è già più complessa la cosa e se dico anche “il”, “lo” è ancora più difficile spiegare che
cos’è l’articolo.
Che cos’è l’articolo? Provate a spiegare a un apprendente di una lingua di quelle che non hanno l’articolo e
li dovete convincere che esso serva e perché poi dico “il”, dico “lo” o dico “un”. Ovviamente si può spiegare,
ma sono categorie un po’ più difficili di “andare”, “venire”, “mangiare”, “bicicletta”. Allora il mio
apprendente quando comincia a parlare in realtà usa tante parole di contenuto e quasi nessuna parola di
tipo grammaticale, le preposizioni, le congiunzioni, gli articoli, spesso non ci sono, questi sono elementi che
non compaiono se poi la lingua dell’apprendente non ha l’articolo per esempio ci possono volere vari anni
perché impari ad usare l’articolo e molte volte dopo che hanno imparato ad usare l’articolo per esempio
scrivendo o quando parlano in maniera molto controllata, se sono agitati se lo dimenticano nuovamente
quindi continuano a parlare senza l’articolo oppure mettono l’articolo sempre. Come vedete quindi ogni
apprendente ha all’inizio soprattutto elementi che gli servono, gli serve “mangiare buono”, ciò basta, è
funzionale; “mangiare” topic e “buono” comment non si interessa se essi siano nomi o verbi, l’importante è
far passare il concetto cioè “io ho mangiato molto bene oggi, quello che hai cucinato era veramente
ottimo” tutto ciò può significare “mangiare buono”.

Abbiamo capito che l’interlingua evolve quindi si modifica, abbiamo capito che cosa c’è nelle fasi iniziali e
abbiamo cominciato a parlare del lessico al quale il libro dedica uno spazio specifico.

IL LESSICCO
 Analisi del lessico dal punto di vista quantitativo
 Analisi del lessico dal punto di vista qualitativo

IMPORTANZA DEL LESSICO

 Anche a livelli più avanzati, gli errori lessicali, rispetto a quelli grammaticali, sono:
 I più comuni
 Quelli che i parlanti nativi notano di più
 Quelli che recano più danno ai fini comunicativi
Gli errori lessicali sono piuttosto rilevanti per chi parla molto più di quello che gli insegnanti di lingua
vorrebbero farci credere, perché l’insegnante spesso in classe dà tantissima importanza alla forma, alla
grammatica, ma quando noi comunichiamo, parliamo con i nativi. Un errore grammaticale è meno rilevante
di un errore lessicale.
Il lessico per chi le lingue le usa veramente è l’elemento di primaria importanza quindi comprendiamo bene
come l’attenzione dell’apprendente sia concentrata sul lessico. Gli errori sul lessico sono quelli che
troviamo maggiormente, il lessico è enorme, contiene migliaia e migliaia di unità e quindi essere
competenti lessicalmente è un lavoro faticosissimo.
Il parlante nativo nota di più gli errori lessicali che quelli grammaticali, se voi sbagliate ad esempio la scelta
di un elemento lessicale e dite ad esempio “ci vediamo in libreria” e invece volevate dire “in biblioteca” la
cosa è grave, perché uno va da una parte e uno da un’altra, una stupidaggine come un errore lessicale ha
un peso maggiore rispetto dall’usare una forma verbale sbagliata, allora vediamo come la grammatica
diciamo che crea meno danni comunicativi di quanto faccia il lessico.
Come si contano le parole in una lingua? LESSICO DAL PUNTO DI VISTA QUANTITATIVO.
 Guardare al numero di parole presenti nel vocabolario.
Quante parole conosce un parlante nativo?
 Esiste una variazione quantitativa tra i vari parlanti. In media, un adulto conosce circa 20.000
famiglie di parole. Di queste, il bambino che inizia la scuola ne conosce 4.000/5.000 e ne aggiunge
circa 1.000 all’anno durante il periodo scolastico.
Dal punto di vista quantitativo, cioè del numero di parole, basta guardare un vocabolario. L’estensione
quantitativa del lessico di una lingua è rilevante, però voi potete anche avere un vocabolario di dimensioni
ridotte, questo perché ci sono vari tipi di lessico che vi possono servire, quindi pur difronte alla quantità
enorme del vocabolario, perché in media il parlante nativo continua ad imparare il lessico per tutta la vita,
però per fare questo non può soltanto chiacchierare o chattare, perché quello è un lessico di base costituito
da poche centinaia di parole, ma deve leggere, sentire conferenze, deve ampliare il lessico.
Una famiglia di parole è una cosa del tipo “casa, case, casina, casine, casetta, casaccia, rincasare, rincasato,
rincaserò ecc.
Quando cominciamo ad imparare la nostra lingua materna procediamo per step e un bambino che comincia
ad andare a scuola conosce circa 4.000/5.000 famiglie poi ogni anno ne aggiunge un migliaio, non ce ne
accorgiamo, ma negli anni della scuola primaria, scuola media e superiore abbiamo imparato migliaia di
parole, imparate nei vari ambiti settoriali (la matematica, scienze, geografia, storia ecc.).
Quante parole sono necessarie?
Lessico dal punto di vista quantitativo
Il vocabolario di base di Tullio De Mauro, Torre Annunziata (1932-2017)

De Mauro (1980) propone un vocabolario di base di 7050 parole conosciute da coloro che hanno terminato
la scuola media. Suddivide il vocabolario di base in:
 Fondamentale (2000 parole): dottore, scala, amare;
 Di alto uso (2750 parole): scalino, amoroso;
 Di alta disponibilità (2300 parole): es. forchetta, dottoressa, scalinata.
Classi più rappresentate: nome (60,6%), verbo (19,6%), aggettivo (14,9%).

Ma al parlante quante gliene servono per la sopravvivenza? De Mauro con il suo “Vocabolario di Base” del
1980 ha proposto di restringere il lessico a circa 7000 parole che sono le parole che conosce in genere una
persona che ha finito almeno la terza media.
Contengono: 2000 parole che vengono considerate fondamentali; 2700 circa 3000 di alto uso, quindi non
fondamentali, però i parlanti le usano molto; alta disponibilità e queste parole lo straniero non le imparerà
mai perché i nativi non le usano mai, ma le conoscono benissimo, perché sono parole della vita quotidiana
che non si pronunciano mai, ad esempio “forchetta”.
Ci sono delle parole alle quali saremo sicuramente molto esposti in una lingua, cioè quelle fondamentali e
di alto uso, ma quelli di alta disponibilità se non ce le insegnano probabilmente non le impareremo tra
queste la maggioranza sono nomi, i verbi sono solo il 20% e gli aggettivi ancora meno, quindi un lessico
molto concreto.

Breve Ripasso

Nel capitolo dedicato al parlare una lingua, dopo la prima fase nell’interlingua basica dove si parla
soprattutto di una forma di lingua, non ci sono formule o frasi cristallizzate.
Ci sono i cosiddetti lessemi, ossia elementi che sono di difficile catalogazione (aggettivi, nomi, verbi), si
riduce pian piano a formare il lessico della lingua.
Il lessico è la cosa più importante della fase iniziale.
Se viene commesso un errore lessicale, esso è più grave dell’errore grammaticale.
L’errore grammaticale è un problema di forma, ad esempio tra le varie forme verbali, “verrei, vengo, venissi
ecc”, il problema lessicale è se invece di usare il verbo “venire” viene utilizzato il verbo “mangiare”, cambia
completamente la frase.
Il lessico può essere studiato da due punti di vista:
•Da un punto di vista quantitativo, ovvero quante parole conosce il parlante.
•Da un punto di vista qualitativo, dunque quali parole, di quale tipologia e con quali caratteristiche.

Molto spesso si è colpiti dal problema quantitativo: nel momento di apprendimento di una lingua, il
metodo generale di insegnamento si focalizza su numero di parole da imparare. Ad esempio, funziona in
questo modo con la lingua cinese.
Quando si parla del punto di vista quantitativo, il parlante svolge il ruolo di modello.
Il parlante nativo può essere colto oppure poco scolarizzato; è chiaro che questo crea delle differenze
poiché un parlante pur essendo nativo di una lingua non vuol dire che possegga tutto il lessico della lingua.

Il lessico è una classe aperta, in continua crescita e il parlante nativo continua per tutta la vita ad accrescere
la sua competenza lessicale. Come fa? Non soltanto ascoltando gli altri parlanti nativi poiché solitamente
quando parliamo, nella comunicazione quotidiana usiamo sempre le stesse parole, vi è un lessico di base
che ritorna continuamente, e finiremo per avere un lessico molto limitato.

Il lessico di base è piccolo e limitato, seppur si contano un migliaio di parole, rispetto al lessico della lingua.
Abbiamo bisogno di un input lessicale capace di farci crescere nella nostra competenza.
Come parlanti nativi, la scuola ha avuto un ruolo determinante poiché con la scolarizzazione, affrontando lo
studio di diverse discipline (geometria, storia dell’arte, matematica, storia, filosofia, educazione fisica) che
possiedono il lessico specifico di quell’ambito, leggendo, ascoltando una lezione, una conferenza, è
possibile incontrare del lessico tecnico, argomenti che non fanno parte del quotidiano.
Inoltre chi possiede un hobby, spesso senza rendersene conto, sviluppa un lessico tecnico specifico di quel
settore che un altro parlante nativo non ha, per cui è capace di andare oltre il lessico di base di un altro
parlante nativo che non ha conoscenza di quel settore.
Oltre al dizionario della lingua per scopi generali, esiste il dizionario dell’italiano della medicina, il dizionario
dell’italiano della matematica, il dizionario dell’italiano dell’uncinetto, il dizionario dell’italiano del tè o del
caffè. Questi sono essenziali per chi svolge la carriera di traduttore poiché sbagliare la scelta del lemma
diventa problematico. Il lessico è qualcosa di quantitativamente molto consistente.

Facendo una media tra i parlanti nativi, si è notato che un adulto medio conosce circa 20.000 famiglie di
parole. Più si è colti più ci si può interfacciare con testi scritti che riportano un lessico più complesso del
parlato.
Nel momento in cui un bambino nativo inizia ad andare a scuola, compie un grosso passo poiché apprende
pian piano il lessico quotidiano, allo stesso modo di un parlante nativo adulto che si dedica
all’apprendimento di una nuova lingua ed ascolta gli altri nativi parlare.
Il bambino nativo conosce 4.000 - 5.000 famiglie di parole ed ogni anno durante la scolarizzazione ne
aggiunge circa 1000. Un adulto scarsamente scolarizzato o per niente scolarizzato, avrà un lessico
estremamente limitato perché è soltanto l’esposizione continua che ci porta ad aumentare il lessico.

VOCABOLARIO DI BASE: De Mauro (1980)

1. Un’aura ipnotica promana comunque dal talamo verso di me nell’atto solo della percezione ottica
catalizzata dall’astenia.
 Lo capiscono solo i laureati (circa il 3%) e nemmeno tutti!
2. Ad onta del suo disordine, il giaciglio mi spira sonno al solo vederlo a causa dell’affaticamento.
 Il numero di coloro che capiscono si è ristretto (diplomati ecc.)
3. Il letto è in disordine ma sono stanco e a vederlo mi viene sonno lo stesso.
 È un senso che viene compreso dal 79% degli italiani.

De Mauro parlando del lessico di base ha rimarcato che esso si divide in tre blocchi:
-Fondamentali: non sono più di 2000 parole e con queste si può interagire in maniera minima ed essenziale.
-Di alto uso: non sono fondamentali ma sono estremamente frequenti nell’uso.
-Di alta disponibilità: sono quelle parole di cui lo straniero ha più difficoltà nel doverle imparare perché
quelle fondamentali e quelle di alto uso vengono ascoltate continuamente come vengono ascoltate dal
bambino nativo.

Quando gli adulti si interfacciano con un bambino della propria comunità, gli insegnano la lingua. Essi
utilizzano una modalità comunicativa che presenta delle caratteristiche che poi scompariranno man mano
che il bambino cresce, quindi con il bambino gli adulti spesso utilizzano parole di alta disponibilità perché
sono parole di base, ma che corrispondono ad oggetti che poi difficilmente vengono nominati (es.
forchetta). Il bambino italiano sentirà la parola forchetta poiché perlomeno all’inizio i genitori interagendo,
parlano al suo posto, fanno domande, si danno risposte, nominano tutti gli oggetti nelle prossimità, queste
cose poi non verranno più ripetute.

Le parole ad alta disponibilità sono parole che il bambino conosce, ma che non userà praticamente quasi
mai, sono quelle che potrebbero dare dei problemi allo straniero che non le sentirà utilizzare nel corso delle
conversazioni.
Nelle classi di parole, il verbo è meno presentato del nome, in questo lessico di base il 60% delle parole
sono nomi, che servono per designare le cose, successivamente un 20% circa viene rappresentato dai verbi
che indicano azioni di base ed infine un 15% circa di aggettivi.

Analisi tra le tre frasi precedenti


Le tre frasi hanno esattamente lo stesso contenuto cioè un letto in disordine, una persona stanca che lo
vede ma non se ne cura e si mette a dormire ugualmente.
Tra le tre frasi è però cambiato il lessico:
- Un’aura ipnotica promana comunque dal talamo verso di me nell’atto solo della percezione ottica
catalizzata dall’astenia.
•Qui si trova la parola “talamo” e “astenia”, termine utilizzato in ambito medico. Secondo l’analisi
di De Mauro la frase è stata capita dal 3% dei laureati e nemmeno tutti.
- Ad onta del suo disordine, il giaciglio mi spira sonno al solo vederlo a causa dell’affaticamento.
•Qui si trova la parola “giaciglio” e “affaticamento”. Questa frase è stata capita dai diplomati, con
un lessico che non può essersi formato se non con un certo numero di anni di scolarizzazione.
- Il letto è in disordine ma sono stanco e a vederlo mi viene sonno lo stesso.
•Qui si trova un volgare “letto” e “stanco”.

La frase più basica è stata capita dal 79% degli italiani.


Le frasi appartengono a registri diversi, ci sono parole di uso comune, rare, arcaiche; sono tre parole che si
possono trovare nel lessico dell’italiano e tutte indicano un referente concreto, designano l’oggetto in cui
una persona dorme ovvero il letto.
Il lessico è articolato e complicato, uno stesso referente può corrispondere nel vocabolario del parlante ad
una, tre, quattro parole diverse, che non sono sinonimi perfetti (nella lingua italiana i sinonimi perfetti non
esistono).
La differenza tra i termini non è nel dato di fatto, ovvero che la persona è stanca, ma nel modo in cui è stato
linguisticamente espresso.
Se si dicesse “Il soggetto lamenta astenia”, la forma di questa comunicazione verrebbe collocata in una
dimensione tecnica, professionale e si sposterebbe di livello.

Il modo in cui io uso la lingua per comunicare la situazione genera questi tre tipi differenti di frase, dalle
parole che scelgo poiché esse non sono neutre, appartengono a vocabolari diversi, a livelli diversi di
specificità o complessità e scegliere l’una piuttosto che un’altra provoca una grossa differenza.
La parola “mota” non è una forma dialettale ma non è riconoscibile da noi parlanti nativi poiché si trova in
un’area geografica diversa dalla nostra, quella toscana.
La parola “fango” invece è una parola basica e viene riconosciuta da tutti.
La parola “rebbio” rappresenta ciascuno dei denti di utensili come la forchetta, la forca ed il pettine.
Non c’è bisogno di referenti astratti, complessi, a volte cose molto semplici hanno nel lessico della nostra
lingua materna, un nome specifico che noi possiamo non aver incontrato fino a trent’anni mentre qualcun
altro invece conosce da quando era bambino.

QUANTE PAROLE DEVE IMPARARE UN PARLANTE L2?


Lessico dal punto di vista quantitativo

 Obbiettivo primario: 3.000 parole del vocabolario di base della L2 di arrivo.

Quando siamo di fronte ad una lingua che non è la nostra lingua materna e come parlanti ci chiediamo
quante parole sono necessarie al nostro apprendimento base. Come obiettivo iniziale, dal punto di vista
quantitativo, sono sufficienti almeno 3000 parole, con esse si riescono a capire e leggere un minimo di cose
basilari. La necessità di aumentare il vocabolario diventa sempre più marcata se si ha bisogno di compiti alti
da svolgere. Quando si dice “conoscere una parola”, ci si sposta su un punto di vista qualitativo, quali
proprietà e caratteristiche della parola servono.

COSA SIGNIFICA CONOSCERE UNA PAROLA?


Lessico dal punto di vista qualitativo

Le proprietà di una parola (Laufer1997:141):


–Una forma: “lampione” [lam'pjone]
–Una struttura morfologica: “mattone”, “cane”
–Un pattern sintattico: “nevicare”, “dormire”, “abolire”, “dedicare”
–Un significato: “siepe”
–Delle relazioni lessicali: tutti i rapporti associativi possibili
–Delle collocazioni privilegiate: “a crepapelle”, “conveniente”

Le proprietà di una parola


La forma: Se la parola è quella di una lingua orale, la sua forma e la sua pronuncia, sono i suoni che la
compongono.
Se dico “fango”, significa pronunciare adeguatamente questa sequenza di suoni con una fricativa
labiodentale sorda F, una vocale bassa A, una nasale velare N, una velare G, e poi un’altra vocale O.
Quando non è la nostra lingua materna anche la forma della parola, i suoni che la compongono possono
essere un primo problema, molte volte non sentiamo dove cade l’accento, non sempre un parlante riesce
ad articolare bene tutti i suoni aumentando la velocità.
Quando una lingua ha nella forma suoni che io non ho nella mia lingua materna non è semplice, quando ha
degli elementi come dei toni invece dell’accento.
Il problema della forma non è dato solo dalle parole molto lunghe, ma anche da quelle piccole. Chi è
abituato ad analizzare la lingua dal punto di vista della scrittura, avrà meno problemi, poiché ci saranno
caratteri diversi che aiutano a distinguere le diverse parole. Infatti, la scrittura rende tutto chiaro.
Nel caso dell’oralità, in cui ci si deve basare solo sulla pronuncia, la questione è più complicata, poiché, in
cinese, ad esempio, un tono diverso indica qualcosa di completamente diverso e potremmo finire per dire
“cavallo” invece di “madre” (il suono è molto simile, si pronunciano entrambi “ma”, ma l’intonazione è
diversa ed è proprio il tono che differenzia i due termini). Per gli italiani i toni sono accessori, poiché non
sono funzionali alla lingua, e può anche succedere che il nostro orecchio, non essendo abituato, non riesca
a captare le differenze. In altre lingue, come il cinese, i toni sono fondamentali. In questo caso, diciamo che
si tratta di un problema di forma fonica.

Il secondo problema è la conoscenza della struttura morfologica della parola. Quando si impara una parola
e si è nell’interlingua basica, la conoscenza della struttura morfologica solitamente manca, perché si tende
a imparare a memoria, come se fossero delle forme di base (sentendo dire molto spesso “ragazzi”, si
imparerà questa forma e si tenderà a dire “ragazzi” anche per parlare a un ragazzo solo). All’inizio di un
processo di apprendimento, la forma la si ha, ma la struttura potrebbe mancare. Avere la struttura
morfologica significa aver capito come vengono trattate le parole in quella lingua.

Dal punto di vista della parola, le lingue si possono comportare in vari modi. Una lingua come il cinese, è
una lingua che ha le parole non modificate. Una lingua come l’italiano ha le parole che si trasformano
(quindi avremo casa, case, rincasare, casina, casetta, ecc.). Tutto questo rende le lingue diverse, non perché
il cinese non possa dire le stesse cose, lo dirà in un’altra maniera, con altre parole, mentre l’italiano lo dice
con la stessa parole, apportando solo delle modifiche. Le lingue come il cinese hanno una struttura
morfologica semplice, perché la parola rimane invariata.

 Dal punto di vista della tipologia morfologica, le lingue come il cinese, si definiscono lingue isolanti,
perché le parole sono isolate, non hanno variazioni. Per un apprendente, questo tipo di lingua è più
semplice. Dal punto di vista dei suoni, è più problematica, ma i problemi di tipo fonetico sono dei
problemi che si riscontrano in ogni lingua straniera, non importa a quale tipologia appartengono
(isolanti, agglutinanti, flessive ecc.). Dal punto di vista della forma delle parole, il cinese è più facile
dell’italiano.

 L’italiano fa parte di una tipologia più complessa, in quanto fa parte della categoria delle lingue
flessive, ossia una lingua che si piega. Con l’immagine del piegamento c’è l’idea di una parola che si
modifica e si modella. Le lingue flessive sono il grado più difficile delle parole. Tuttavia, ci sono delle
parole che sono invariabili, ma sono poche (come “ora”, “dopo”), ma il resto delle parole flettono
(a volte sentiamo “libro, altre volte sentiamo “libri”). L’apprendente di una lingua isolante, quando
inizia a imparare il lessico di una parola flessiva, considera come una parola a sé, quindi “libro e
libri” sono due parole da imparare, non una sola, come sembra a noi, perché sappiamo che le
parole si modificano, ma loro non sono impostati a pensare in questa maniera; per loro è strano,
mentre per noi è strano il contrario, che una parola rimanga bloccata. L’inglese non è difficile
perché è una finta lingua flessiva, perché la flessione l’ha persa e quella che è rimasta si è ridotta al
minimo, qualcuno ha addirittura detto che sta diventando una lingua isolante (il verbo inglese ha
pochissimi elementi morfologici, la terza persona singolare, nettamente più semplice dei verbi
tedeschi, lingua che flette anche gli articoli). Anche in italiano vi sono dei residui della flessione dei
casi, come io, me, mi. La morfologia della parola è un grosso problema perché nelle lingue flessive
la parola cambia molto ed è complesso fissare le parole.

 C’è un’altra tipologia, che potrebbe essere considerata una via di mezzo tra le lingue flessive e le
lingue isolanti: le lingue agglutinanti. In queste lingue si uniscono elementi per formare la parola,
ma l’elemento che si aggiunge rimane stabile nel suo significato, cioè il plurale è sempre dato dallo
stesso elemento, tendenzialmente. Una lingua agglutinante è più complessa di una lingua isolante,
ma è più semplice nella segmentazione delle parti. Le lingue flessive danno molte più difficoltà per
l’elaborazione degli input, anche nei bambini che apprendono la loro lingua materna. La stessa cosa
avviene quando impariamo una lingua straniera. Sul livello della struttura morfologica, la
complessità piò essere enorme.

Inoltre, se la lingua materna non ha delle categorie, esse saranno difficilissime da sviluppare nella
morfologia della lingua da imparare. Ad esempio, per quanto riguarda il genere, alcune lingue come
l’italiano hanno maschile e femminile, altre lingue hanno maschile, femminile e neutro, ma ci sono anche
delle lingue in cui il genere non esiste, di conseguenza, per loro che apprendono, il genere non è
corrispondente a nulla, se non per gli esseri viventi (bambino e bambina). Ci sono degli animali come la
tigre, che sono coniugati unicamente al femminile e altri animali come il gallo, la gallina, il pulcino, il pollo
che indicano più o meno lo stesso animale, ma in varie sfumature. Qui entra una dimensione culturale
perché alcuni animali sono più importanti e si etichettano in tutte le loro specificità.
Il discorso, però, è più complesso e non può essere ridotto al genere dell’essere vivente (il discorso fila con
gli esempi più banali, ad esempio la bambina è femmina), ma vi sono purtroppo delle eccezioni, in quanto il
soprano indica una cantante donna, ma l’articolo appropriato è al maschile. Questo fa parte del carattere
arbitrario della classificazione del lessico per genere. Ci delle parole che sono valide sia declinate al
maschile che al femminile (il tavolo, la tavola). Una persona che non conosce il genere perché non esiste
nella propria lingua, come i cinesi, dovrà imparare tutto a memoria. Il problema persiste anche se si
proviene da una lingua in cui il genere esiste, perché una cosa che è maschile in italiano potrebbe essere
femminile o neutro in un’altra lingua. Ad esempio, in tedesco “la ragazza” è neutro. La struttura
morfologica è complessa sia per la tipologia di morfologia sia per le categorie che sono espresse, perché
esse potrebbero essere non condivise e comprensibili. Abbiamo analizzato il genere, ma potremmo far lo
stesso discorso per le categorie di tempo, di modo, che potrebbero non essere chiare a un parlante la cui
lingua organizza il tempo o lo spazio in una maniera diversa.
Conoscere una parola significa conoscerne in pattern sintattico. Ciò significa sapere come quella parola si
usa in combinazione con altre parole. Quindi, la parola “nevicare” è una parola di base, in seguito si impara
“nevica, nevicava, nevicando, nevicato, nevicasse”. Si impara tutta una flessione, una morfologia. Ma il
problema è anche la modalità d’uso della parola. Per imparare ad usare una parola si deve imparare il suo
pattern sintattico. Il pattern sintattico di “nevicare” è diverso da quello di “dormire”. Possiamo dire “lui
dorme”, ma non possiamo dire “lui nevica”. Il soggetto non ci vuole, è un verbo che fa parte di una
categoria particolare. Il parlante nativo lo sa, ma uno straniero no, poiché in altre lingue il soggetto va
messo. La mancanza del soggetto è tipico del pattern sintattico dei verbi dell’italiano che indicano
particolari condizioni meteorologiche. Allo stesso modo, altri verbi richiedono delle strutture precise, come
“dedicare” che deve essere seguito da un complemento oggetto e uno di termine (dedicare qualcosa a
qualcuno). Non c’è niente di scontato in partenza, il pattern sintattico è molto importante.

Le parole hanno un significato, che non è semplicissimo da capire (per capire il significato del termine
rebbio abbiamo dovuto vedere un’immagine e leggere una definizione. Rebbio= dente di una forchetta).
Non sempre quando i nativi usano le parole danno il tempo a chi ascolta di chiederne i significati e non
sempre, chi ascolta, ha pazienza di cercare nel dizionario. I dizionari monolingue delle varie lingue
sarebbero più utili dei bilingui con le traduzioni, perché ci aiuterebbero meglio con i vari significati e i
pattern sintattici.

Per quanto riguarda le relazioni lessicali, possiamo dire che una parola non è un mondo a sé stante, ma di
solito sta in una rete di rapporti, quindi ci sono tanti rapporti possibili tra le parole. Se si dice “edificio” e poi
“villa”, tra le due parole c’è un rapporto di un certo tipo: edificio, rispetto a villa è un iperonimo, cioè è la
parola più generale. Albero è una parola e basta, ma potrebbe avere una serie di altre parole più specifiche
e diventare un iperonimo, mentre le altre parole più specifiche verranno chiamate iponimi (albero 
iperonimo; quercia  iponimo). In questo contesto, incide il parlante nativo con la sua cultura e la sua
esperienza, perché “albero” è una parola che appartiene a tutti, anche agli stranieri, ma non si sa quanti
iponimi si conoscono. Gli stessi nativi, dinanzi a una specie di albero, potrebbero non conoscerne il nome
specifico. Poi, tra le parole, ci sono dei rapporti di sinonimia, quindi hanno parzialmente una condivisione di
significato. Ci sono rapporti di antonimia (un antonimo è contrario, ad esempio buono e cattivo). Ci sono
anche i rapporti di meronimia, la parte rispetto al tutto (il sellino è una parte della bicicletta). Il parlante
queste cose le conosce, perché sa usare le relazioni tra le parole. Il problema inizia quando la lingua non è
la propria, perché queste cose si devono imparare.

Le collocazioni privilegiate sono delle combinazioni specifiche che alcune parole vogliono. Partendo da
“caffè”, possiamo specificare questa parola dicendo “caffè amaro”, e il suo contrario “caffè zuccherato”.
Abbiamo fatto una scelta, perché abbiamo usato due aggettivi come se fossero antonimi, però prendendo
la parola “amaro” singolarmente, il suo contrario generico non è “zuccherato”, ma è “dolce”. Nonostante
anche zuccherato sia un contrario valido, la forma più frequente e comune è “dolce”. Nel contesto di un
caffè, l’aggettivo da usare è zuccherato. Si tratta di una collocazione privilegiata della lingua. Invece, nel
caso di una spremuta d’arancia, non si userà l’aggettivo “amaro”, ma l’aggettivo “aspro”. Per descrivere
una ragazza, si userà ancora un altro aggettivo, si dirà “acida”. Se nel fare una passeggiata si prende un
sentiero molto comodo, esso sarà “una salita dolce”, se invece quella salita diventa meno comoda, non sarà
definita amara, come contrario di dolce, ma sarà una salita “ripida”. Quindi non basta conoscere una
parola, la sua forma, morfologia, pattern sintattico, significato e relazioni, ma bisogna stare attenti a vedere
se quella lingua abbia delle collocazioni privilegiate, ossia delle restrizioni nelle combinazioni delle parole.
Tutto questo, spesso, non lo spiega nessuno, né i libri né i professori, nemmeno i nativi, perché neanche
loro lo sanno il perché di alcuni termini che vengono preferiti ad altri in determinati contesti.

Quando diciamo di conoscere una parola è perché abbiamo tutto quello che abbiamo detto in precedenza
(forma, morfologia, pattern sintattico, significato e relazioni) tranne le collocazioni privilegiate. Quando si
traduce e non si vanno a cercare le collocazioni privilegiate, ma si traduce per singole parole, esce fuori una
traduzione pessima, perché può uscire fuori qualcosa che in quella lingua non esiste. Non è detto che il
modo in cui l’italiano esprime le collocazioni sia uguale a quello delle altre lingue. Conoscere una parola ci
richiede uno sforzo enorme.

Ci sono anche delle associazioni di tipo paradigmatico, il paradigma è la scelta (riferimento a Jakobson 
selezione e combinazione. È quello che facciamo sempre: scegliamo e combiniamo).

COSA VUOL DIRE CONOSCERE UNA PAROLA?

 Conoscere una parola implica poterla usare sia nell’ascolto che nel parlato
 Si usa distinguere tra:
- Conoscenza potenziale vs conoscenza reale del lessico
- Lessico attivo vs lessico passivo
o Conoscenza e controllo (Bialystoke Smith, 1985)

Conoscere una parola significa sia capirla quando la usano gli altri, sia usarla noi stessi. Quindi:
 si ascolta e si capisce
 poi si vuole comunicare e si usano le parole.

Dunque ci sono due competenze. Essendo due, può succedere che non si riesca a riconoscere la parola,
perché non c’è stata esercitazione a sufficienza con l’input orale, succede spesso a chi studia e quindi sa
parlare, ma non ascolta i nativi parlare, quindi non capisce. Molte persone sanno formulare dei discorsi
corretti, ma non sono in grado di comprendere le parole di un nativo. Quindi si possono separare le due
cose: si può saper usare le parole nell’ascolto e nel parlato o anche in una sola delle due attività.
Inoltre, possiamo avere una conoscenza che può essere attiva o passiva. Il termine passivo non è
completamente appropriato perché sembra che non ci sia la partecipazione del parlante.

 Attivo sta a indicare un lessico che si sa usare.


 Passivo è un lessico che si riconosce ma non si usa volentieri perché non si ha una conoscenza
sicura.

Conoscere e controllare sono due cose diverse. Come parlanti nativi abbiamo tante parole nel nostro lessico
mentale che possiamo dire di conoscere, però nella pratica non usiamo tutte le parole che conosciamo
perché abbiamo paura che il significato che conosciamo, o che crediamo di conoscere, non sia
precisamente esatto. Ne deriva che non si ha un reale controllo, poiché non c’è la certezza assoluta (alcuni
nativi confondono branca con branchia).

Quali sono i criteri che regolano le sequenze di acquisizione delle parole in L2?

CRITERI ESTERNI CRITERI INTERNI FORMALI CRITERI INTERNI SEMANTICI


Utilità Pronunciabilità Polisemia
Similarità sonora con altre
Disponibilità Omonimia
parole
Corrispondenza fra suono e Chiarezza semantica
Preferenza personale
grafia (libro vs volume)
Lunghezza delle parole Specificità
Morfologia Idiomaticità

Quando si impara una parola nuova in una lingua che non è la lingua materna ci possono essere vari criteri
che controllano: quali parole, quante parole e in che ordine. I criteri possono essere esterni, interni
semantici e interni formali.
 Un criterio esterno non è un criterio linguistico e può essere:
- L’utilità  è una parola complicata, ma è utilissima, quindi ci si sforza di impararla subito
- La disponibilità  i parlanti la usano molto frequentemente
- La preferenza personale  una parola piace particolarmente. Ognuno di noi ha un suo lessico.
Tutto questo non c’entra con la lingua, ma è esterno.

 I criteri interni più semplici sono quelli formali:


- La pronunciabilità  più un termine è difficile da pronunciare e più lo si evita
- Un termine che somiglia nel suono a altre parole è un problema  presentare parole troppo simili
significa insuccesso. All’inizio è meglio imparare parole molto diverse l’una con l’altra
- Una parola che si scrive come si pronuncia ha più facilità di essere memorizzata di una che ha una
scrittura diversa (l’inglese viene insegnato come se avesse una struttura fonetica, ma in realtà ha
una struttura come quella del cinese, si deve imparare il blocco) l’italiano su questo è più semplice
- La lunghezza  più le parole sono lunghe e più sono difficili
- La morfologia  ci sono prefissi e suffissi complessi.
 Per quanto riguarda i criteri semantici:
 Una parola che ha chiarezza semantica è più semplice una parola specifica è più immediata, al
contrario, un’espressione idiomatica dà più problemi. Infatti, le forme idiomatiche si apprendono
tardi perché sono più complesse. Se dico “gatta”, si intende il femminile di gatto, termine poco
usato nell’italiano standard, ma non è una parola difficile. Cosa diversa è dire “fare la gatta morta”,
che sicuramente non è la prima cosa che si impara in relazione al termine gatto. Questa
espressione verrà insegnata molto più avanti, perché è un’espressione in cui la parola gatta svolge
una funzione particolare e ha un significato particolare, non c’entra niente l’animale di partenza
- Problemi di omonimia, polisemia, sinonimia sono tutti aggravanti
- Più la parola è chiara, semplice e specifica e più è facile da apprendere. Curiosamente, spesso, sono
più facili da imparare i lessici tecnici che il lessico generale, perché hanno un rapporto chiaro con il
referente.

QUALI CLASSI DI PAROLE SI APPRENDONO PRIMA?

 NOMI > AGGETTIVI E VERBI > AVVERBI


 Tra i criteri che influenzano l’acquisizione delle parole in L2 ricordiamo anche la contrastivitàcon la
L1
o Sarà più facile imparare parole in L2 che assomigliano (formalmente e semanticamente)
a quelle della L1

C’è un ordine nel modo di imparare le parole che gli apprendenti preferiscono in maniera inconscia.
C’è un segno che siete abituati ad utilizzare nella matematica e noi lo utilizzeremo non per indicare
maggiore o minore ma per indicare quelle che si chiamano sequenze acquisizionali, ovvero un ordine
secondo il quale si imparano altre cose.
Lo posso leggere in due modi diversi:
- Prima si imparano i nomi, poi gli aggettivi e verbi e alla fine gli avverbi;
- Ma in realtà si legge preferibilmente secondo uno schema che richiama la parola implicazione.

Studiando gli universali, ovvero caratteristiche comuni condivise da un numero molto elevato di lingue, non
tutte, abbiamo sicuramente studiato gli universali implicazionali (ne riparleremo con la grammatica).
L’interlingua, la lingua dell’apprendente, naturale e dinamica, in acquisizione nella quale riconosciamo gli
stadi evolutivi: ovvero l’Interlingua cambia nel tempo. È interessante perché ha delle caratteristiche che
risultano universali e non dipendenti dalla lingua materna o di arrivo. La lingua materna è importante e
quindi condizionerà sicuramente (problema del transfer, quello che dalla lingua materna va nell’interlingua:
se quando imparo una lingua non riesco a pronunciare this, questo è il transfer della pronuncia italiana che
va in questa lingua.) La lingua materna ha la sua importanza ma non è tutta colpa di quest’ultima. In realtà
è venuto fuori che nell’interlingua ci sono delle strutture/step evolutivi che sono universali e che si ripetono
sempre, queste caratteristiche molte volte somigliano a quelle che abbiamo attraversato quando abbiamo
imparato la nostra lingua materna e somigliano ad alcuni degli universali statistici delle lingue europee.
Cominciamo a capire che non sono argomenti chiusi dentro capitoli diversi, in realtà ci deve essere
qualcosa che è tipico del modo in cui noi umani usiamo e apprendiamo una lingua che si presenta in
maniera costante indipendentemente dalle lingue che parliamo.
Le lingue storico naturali possono essere tante però noi abbiamo già studiato che queste sono sempre
descrivibili come sistemi. Sono infondo manifestazioni di una cosa che possiamo chiamare lingua.

Quando impariamo una lingua si presentano delle tendenze universali. Quando abbiamo studiato gli
universali abbiamo visto che ci sono 3 tipi di universali, tra cui ci sono gli universali di tipo logico cioè quelli
che sono elaborati a partire dall’idea di sistema di lingua, sono quelli di una certa linguistica come quella
generativa chomskyana.
Gli universali sono delle caratteristiche che tutte le lingue hanno e sono logici non statistici. Sono dati di
fatto perché dicono se la lingua è così ci dev’essere questa caratteristica.

Gli universali statistici sono gli universali alla Greenberg. Per universali statistici si intende verificare se una
struttura è veramente presente in un certo numero di lingue storico naturali. Non mi interessa decidere che
una caratteristica è importante/fa parte del sistema e definirla universale. Devo guardarmi tutte le lingue e
decidere se c’è qualcosa che ritorna in tutte.
Non c è niente che ritorna in tutte, per cui gli universali statistici dicono: un numero di lingue superiore al
caso nella maggioranza delle lingue del mondo. Ma cosa vanno a guardare? L’ordine delle parole, la
presenza di alcune categorie, il numero, il genere, il tempo, il modo, vanno ad indagare come alcune lingue
esprimono queste caratteristiche e poi ci dicono questa caratteristica è presente in tutte le lingue del
mondo, questa no. Gli universali non sono semplici da individuare, quelli veramente interessanti sono quelli
che mettono in rapporto due proprietà. Perché dire che il genere è presente in tutte le lingue del mondo è
una bugia clamorosa.

Hanno cominciato a notare che qualche caratteristica poteva essere messa in rapporto con un’altra e
quindi per esempio la lingua che ha la caratteristica A può avere la caratteristica B o non averla, ma se una
lingua ha B deve avere necessariamente A. Questi sono gli universali implicazionali, significa che A e B sono
due caratteristiche omonome. “Io” mi preoccupo troppo di capire se tutte le lingue hanno A o B perché è
difficile. Pero scopro che tutte le lingue che hanno B hanno A e non tutte hanno B. Questo significa aver
trovato una connessione di tipo universale implicazionale nelle lingue del mondo.

Quando l’apprendendo ha acquisito gli avverbi, dovrà già aver acquisito aggettivi e verbi e questi implicano
i nomi. Significa che c’è un ordine non casuale, ma implicazionale fra queste caratteristiche. Nell’evoluzione
dell’interlingua è venuto fuori che ci sono delle regole per le quali una cosa si impara e comprare solo se
prima ho imparato un’altra cosa. L’insegnante in classe a volte non è cosciente delle sequenze
d’acquisizione delle Interlingue e lavora seguendo dei programmi, motivo per il quale gli studenti non
sempre imparano tutto come dice l’insegnante.
Inoltre alcune cose non rimangono perché non sono state proposte come input al momento giusto. Qui noi
abbiamo un’idea del fatto che qualunque input si dia all’apprendente, inizialmente lui comincerà a fissare
solamente nomi concreti, poi dopo gli aggettivi e avverbi e poi gli avverbi (una specie di scala).
Nella parte conclusiva del paragrafo dedicata al lessico il libro si sofferma su cosa potrebbe facilitare o
rendere difficile l’apprendimento di una parola in seconda lingua. Sicuramente se ho parole che somigliano
a quelle della mia lingua, le acquisisco velocemente, per esempio “libreria” e “library”.
C’è però da dire che la somiglianza del significante ci confonde perché le parole sembrano identiche, ma
sappiamo che le parole hanno un significante e un significato e hanno un rapporto convenzionale, dipende
dalla lingua (nel nostro caso infatti non rimandano allo stesso significato).
Se la parola somiglia solo formalmente (nel suono) e non semanticamente (nel significato) bisogna fare
attenzione perché è un problema. Sono pochissimi i casi in cui ho questa somiglianza tra significante e
significato. Qui d’aiuto è il caso. (In spagnolo aceite, non vuol dire aceto ma olio).
L’apprendente spesso se la cava meglio con le lingue che sono distanti dalla sua.

SCHEMA DI APPEL (1996) (pag. 73)

Lo schema ci mostra come la parola significato e concetto non sono identiche, nel senso che concetto è un
termine tecnico che usiamo con una valenza più ampia e rimanda ad una nostra enciclopedia mentale,
mentre il significato è linguistico ed è connesso alla forma significato significante e insieme formano il
segno linguistico: la parola. Questo rimanda al lessico mentale, perché mentre un concetto e qualcosa di
più ampio e astratto nel lessico mentale troviamo le singole parole e unità di quella lingua. Parliamo di
specifici significati.

Il libro presenta anche un modello che ha teorizzato quello che può succedere quando impariamo il lessico
di una lingua e riporta i lavori di Potter e Koll e de Groot. Anni 80/90, i modelli sono tre.
Sul libro pagina 74/75 c è il grafico, queste sono alcune delle cose che descriviamo e altre cose che
cerchiamo di interpretare.
In questo capitolo, c’è una piccola riflessione teorica su questi modelli.

Potter et al. (1984)


Kroll & de Groot (1997)

 Modello dell’Associazione Lessicale


 Le parole in L2 accedono ai concetti indirettamente attraverso le parole in L1
 Modello della Mediazione Concettuale
 Le parole in L2 accedono direttamente ai concetti, come fanno le parole in L1
 Modello dell’Associazione Lessicale e Mediazione Concettuale
 I legami lessicali e concettuali sono sempre attivi, ma la loro forza si manifesta diversamente in
base alla competenza linguistica (es. connessioni L2 e L1 sono più forti nella prime fasi)

Cosa succede quando imparo il lessico di una lingua diversa dalla mia? Il primo modello si chiama modello
dell’associazione lessicale e dice: le parole nella L2 accedono ai concetti direttamente attraverso le parole
della L1, ovvero che tutto passa dalla mia lingua materna.
Secondo questo modello non imparo lessico senza che le parole non siano state associate ad una parola
della mia lingua materna e da questa vado poi al concetto astratto. Il modello di mediazione concettuale
propone una cosa diversa e dice: non è vero, quando imparo una parola di una lingua nuova vado
direttamente ai concetti, sento la parola e mi formo il concetto nuovo.
Sono un po’ estremisti questi modelli, uno dice tutto dipende dalla lingua materna e l’altro dice che la
lingua materna non serve a niente ma in realtà non è così.
Infatti è stato proposto un terzo modello, più equilibrato, modello dell’associazione lessicale e della
mediazione concettuale e ci dice: la forza di questi legami dipende dal momento in cui sto imparando le
parole, perché se sono nelle prime fasi allora è più forte la lingua materna ma man mano che le mie
competenze aumentano verso l’altra lingua io mi svincolo ed è sempre più facile che ci sia un’acquisizione
che va in L2. Si passa da un lessico di base ad un lessico più complesso e astratto.
Lo sviluppo concettuale è molto importante. Se in italiano imparo la parola riso cosa viene in mente? I tipi
di riso, come può essere fatto, insomma serve un’enciclopedia mentale. In cinese sarà diversa
l’interpretazione mentale perché hanno un uso diverso, così come lo spagnolo. Ciò dunque fa parte del
concettuale.
Quando imparo una lingua cerco di capire come va. Se dico maiale, in italiano può avere una connotazione
a tratti negativa, in cinese totalmente positiva in quanto è un segno zodiacale, inteso come un animale
molto intelligente.
Quando imparo una parola di una lingua posso anche imparare il significato, ma la parte enciclopedica
dipende solo da quello che ho, dalla cultura.

GRAMMATICA (pag. 78)

 Dopo una prima fase iniziale di formule e prime parole sistemate in ordine semantico e pragmatico,
il lessico viene grammaticalizzato ed emerge la grammatica.

Attraverso quali stadi si verifica il processo di apprendimento della grammatica?

Parlando di interlingua, stiamo sempre riflettendo su cosa fa l'apprendente quando inizia a parlare.
Avevamo detto all'inizio che nelle prime fasi la grammatica non c'è, quando l'apprendente incomincia ad
usare due parole, di solito non sono legate da una sintassi, ma c'è un ordine che abbiamo chiamato
pragmatico o semantico.

Es. Se l'apprendente dice "casa andare", casa  topic, andare  comment, cioè un ordine di tipo
pragmatico.

Se l'apprendente in classe, impara a dire "io vado a casa" non bisogna credere che dopo la lezione e dopo
aver lavorato sulla frase, ha veramente la capacità di dire "io vado a casa". Molte volte parla e dice "io
andare casa", perché la velocità con la quale si sviluppa l'interlingua non è esattamente quella con la quale
gli insegnanti vorrebbero che si sviluppasse. La vera interlingua dell'apprendente non è quella che si usa in
classe attraverso dei comandi, ma è quella che viene fuori quando parla spontaneamente. Quando parla
spontaneamente e viene fuori l'interlingua ci sono tante cose sbagliate, che in realtà non sono sbagliate
poiché si sta ancora sviluppando l'interlingua.

Dopo la prima fase in cui avevamo le forme, il lessico, parole singole (olofrasi: una sola parola che vale
un’intera frase).
Dopo questa fase comincia pian piano a emergere la grammatica e la cosa che ci interessa è quali sono gli
stadi attraverso i quali si sviluppa la grammatica. I primi errori che sono stati fatti sullo sviluppo della
grammatica, sono stati fatti sull'inglese e sulla morfologia.

Acquisizione dei morfemi grammaticali inglesi


•Roger Brown(1973): studi su bambini con inglese L1
•Dulaye Burt (1973): studi su 3 gruppi di ispanofoni con inglese L2
•Dulaye Burt (1974): studi su bambini sinofonicon inglese L2
•Bailey, Maddene Krashen(1974): studi su adulti ispanofoni e non ispanofoni con inglese L2

Gli anni "70 sono stati un periodo interessante per lo sviluppo di questo tipo di osservazione e il lavori, che
cita anche il libro, sono quelli fatti da Roger Brown su bambini americani che avevano l'inglese come L1,
quindi sviluppo della L1.
Poi Dulay e Burt, hanno analizzato l'inglese come L2 di parlanti ispanofoni oppure l'inglese di parlanti
sinofoni (cinesi) poi studi su adulti sia ispanofoni che non con l'inglese (L2).
Quindi c'è un'attenzione diversificata bambini-adulti, L1-L2, diverse lingue.
Cinese e spagnolo, perché erano interessanti? Perché il cinese è lingua isolante lo spagnolo lingua flessiva,
quindi non erano due gruppi a caso, ma erano interessanti perché le lingue materne lo erano.

Quindi le domande incominciava ad essere:


1. Cosa fanno i bambini quando imparano la loro L1?
2. Cosa fanno gli adulti quando imparano quella stessa lingua come L2?
3. C'è una differenza, tra adulti sulla base della loro L1?

Acquisizione dei morfemi grammaticali inglesi

• È il sistema della L2 piuttosto che quello della L1 a guidare il processo di acquisizione


• Krashen (1977) ipotizza la seguente sequenza acquisizionale:
1. –ing;-s plurale; be copula
2. be ausiliare (she is playing); articoli the/a
3. passato irregolare (es. ate, left, stol, ecc.)
4. passato regolare (es. they arrived); -s III pers. sing.; -’s possessivo.

SPIEGAZIONE DI TALE ORDINE


 FREQUENZA CON CUI RICORRONO NELL’INPUT
 COMPLESSITÀ SEMANTICA O SINTATTICA
 SALIENZA PERCETTIVA

Il primo elemento che compare è il morfema ING es. drinking, singing.


La forma del plurale con la nostra sibilante es. Books, cats, dogs
E poi la forma del to be usata come copula, poi in un secondo stadio gli ausiliari, gli articoli.
In un terzo, il passato dei verbi irregolari, poi il passato dei verbi regolari, la 3ª persona singolare del verbo
e la marca di possessivo.

Noi quando abbiamo parlato di acquisire il lessico, nei tre criteri formali che avevamo menzionato, abbiamo
detto che la forma della parola (es. lunga, corta, difficile) potesse influenzare. Però i morfemi grammaticali
non seguono queste regole, perché il problema è che non sono portatori, in una lingua come quella flessiva,
di un significato preciso, immediato e va compreso all'interno delle relazioni della frase.

Per esempio la –s: se io dico "he drinks" e se dico "books". Che cosa rende la -s della terza persona singolare
così difficile che devo aspettare il quarto stadio per farla comparire rispetto alla stessa cosa che infondo è lo
stesso fono, che indica il plurale? Non è una difficoltà formale, il fono è lo stesso.

Incominciamo a capire che per la morfologia grammaticale, l'ordine è dettato da un criterio, probabilmente
di difficoltà, legato a un concetto che c'è dietro.
La pluralità è un concetto basico, molto semplice, che si acquisisce molto presto. La terza persona entra già
in una rete di organizzazione della comunicazione con diverse figure: la prima, la seconda, la terza,
singolare, plurale, ci sono lingue che hanno l’inclusivo e l’esclusivo. Siamo già in un contesto diverso, quindi
incominciamo a capire che è il concetto grammaticale che è associato al morfema che può rendere più o
meno complesso l'acquisizione di quel morfema.

Perché dopo tanti anni che uno studia inglese, non sbaglia mai il plurale dei nomi e si dimentica volte la -s
della 3ª persona singolare? Perché in realtà non è vero che sono identici, perché sono brevi, piccoli, lo
stesso suono... Il loro significato grammaticale li rende molto diversi l'uno dall'altro, e il numero è
decisamente più basico e più semplice da acquisire.
Quindi c'è un ordine legato alla quantità di presenza del morfema nelle l'input all'utilità del morfema e alla
semplicità del concetto grammaticale che è connesso.
•Questi studi misuravano però solo il grado di accuratezza formale di questi morfemi, evitando di
concentrarsi sul processo che permette di arrivare a quella forma.
•Ellis (1997) ci fornisce un esempio del processo che ci porta all’acquisizione del verbo irregolare to eat:
1: EAT(FORMABASICA)
2: ATE (IRREGOLARE NON ANALIZZATA)
3: EATED (REGOLARE SOVRAESTESA)
4: ATED (IBRIDA IRREGOLARE E REGOLARE)
5: ATE (IRREGOLARE ANALIZZATA)

 Una forma corretta non significa necessariamente apprendimento completo

La cosa interessante è quella del verbo, abbiamo notato che imparano prima le forme irregolari e poi quelle
regolari. Gli inglesi fanno prima i regolari e poi gli irregolari. Com'è possibile?

Questo è un esempio di Ellis con il verbo mangiare, non è inventato ma si è trovato osservando l'evoluzione
dell'interlingua di un apprendente.
All'inizio compare negli apprendenti una forma basica EAT, l'inglese è una specie di trappola per i linguisti
poiché nella sua forma basica non ha morfologia, questo ha condizionato molti studi finché non hanno
incominciato a studiare lingue come l'italiano e hanno scoperto che la forma basica è per esempio l'infinito
o il participio passato (gli apprendenti dicono mangiare, mangiato) quindi la forma basica non è una forma
priva di morfologia, ma quella più frequente.
Poi incominciano ad usare ATE come irregolare, ad un certo punto compare EATED, che non esiste.
E uno dice: ma insomma ora avevi imparato la forma irregolare e te la sei dimenticata? NO, È NORMALE.

Studiando le sue lingue viene fuori che la prima acquisizione è mnemonica, quando compaiono queste
forme EAT, ATED, significa che l'apprendente sta imparando veramente il passato perché ha capito il
morfema e lo sta sovra-estendendo, la sovra-estensione genera forme corrette ed errori.
Gli errori sono macroscopici e sono dei passaggi normali che avvengono. E bisogna lodare l'apprendente
perché ha capito come si forma il passato con la determinata marca perché poi l'apprendente ritorna alla
forma regolare corretta e chiude il cerchio. Tutto ciò cosa significa?
Avere una forma corretta subito non significa niente, perché all'inizio l'apprendente impara a memoria e
non analizza, poi incominciano a comparire degli errori e l'insegnante anziché spaventarsi o punirli,
dovrebbe osservarli, come fa un insegnante linguista. Perché dal tipo d'errore capisce lo stadio
dell'interlingua, quindi c'è sempre un momento dove l'apprendente farà degli errori.
In quel momento se lui sovra-estende, cioè lo spalma, lo usa sempre. In realtà si è fatto una regola,
dopodiché guidato arriverà alla forma finale.

In italiano, per es. a scuola c'è stata la fase dei suffissi del diminutivo. I bambini italiani intorno ai due anni,
cominciano a capire ed analizzare le parole riconoscendo dentro -ino -ina il significato di piccolo. Come te
ne accorgi? Te ne accorgi, perché molto spesso il bambino dopo aver imparato gallina, ti dice all'improvviso
"gallA". Magari lo dice per un paio di giorni, poi scompare di nuovo perché in quel momento sta elaborando
e segmentando le parole e ha riconosciuto in -ino il significato di piccolo. Oppure per esempio per la parola
"gradini", diceva "i gradi" poiché i gradini erano alti e la bambina non li considerava piccoli.
Anche quando si vede la comparsa di queste forme fantasiose, nei bambini nella L1, in realtà dietro c'è un
lavoro di sistemazione della morfologia e in quel momento la sta imparando. Quando sbaglia, il linguista
dice: siamo arrivati alla regola. Chiaramente dovrà passare nuovamente da “galla” a “gallina”. Questo per
farvi rendere conto che tutto ciò non è una cosa strana, ma una cosa che possiamo vedere in molte
strutture della lingua che hanno una fase in cui sono presenti, scompaiono e compaiono errori sovra-estesi.
Questo è interessante, l'errore sovra-esteso perché quando sovra-estende c'è una regola. Quindi l'ordine
che abbiamo visto ha come spiegazione, la frequenza con la quale compare nell'input una certa forma, le
forme -ing in inglese compaiono molto spesso e quindi sono molto offerte al bambino che le acquisisce, poi
la complessità sintattica e semantica questo è quello di cui abbiamo parlato cioè la -s della 3ᵃ persona
singolare o per il plurale. Sono complesse in maniera diversa dal punto di vista del significato grammaticale.

Cosa si intende per salienza percettiva?


Percezione: capire, comprendere, decodificare;
Saliente: importante, rilevante;
Ci sono degli elementi che hanno una salienza percettiva poiché i suoni con cui sono espressi sono suoni
chiari, ben definiti. Per es. in italiano la vocale A è molto saliente dal punto di vista percettivo rispetto alla E
in fine di parola che non si sente per niente, per cui se io dico “casa” la A è più saliente percettivamente
rispetto alla E di “case”.
Se la salienza percettiva mi aiuta a riconoscere i morfemi, capiamo bene che i morfemi piccolissimi o i foni
che non vengono articolati in maniera chiara sono meno salienti percettivamente dei morfemi più lunghi o
che contengano suoni più lunghi o marcatamente articolati.

L’acquisizione della negazione in inglese

1. Negazione esterna alla frase:


 Un’unica particella negativa, in inglese no, viene preposta a tutto l’enunciato da negare: no cold, no
you playing here
2. Negazione interna, invariabile o variabile asistematica:
 L’elemento negativo viene spostato all’interno della frase, subito prima del verbo: I no can see, I
don’t can see
3. Negazione dopo gli ausiliari:
 La negazione viene messa dopo l’ausiliare: he don’t go...I no can see> I can’t see/I can not see
4. Negazione su do analizzato:
 L’ausiliare do viene analizzato come verbo e in quanto tale coniugato: It doesn’t spin, I didn’t sleep

Chi si è preoccupato dello sviluppo della grammatica, non ha studiato tutte le sequenze acquisizionali,
abbiamo visto che per l’inglese abbiamo una sequenza dei morfemi, ma per altre lingue abbiamo solo
alcuni aspetti.

Domanda tipica d’esame: Parliamo dello sviluppo della grammatica e delle sequenze acquisizionale.

La negazione è una delle strutture grammaticali che è stata studiata in varie lingue come in italiano, in
inglese, in turco, in tedesco. Sono venute fuori sempre le stesse sequenze acquisizionali, quindi ogni volta
che io imparo una nuova lingua, succede che la negazione non si forma subito in maniera completa, ma il
primo stadio ha una negazione che si dice ESTERNA (per es. No mangiare, no bello, no andare a casa). Si
vedrà come questa sia un’interlingua basica, la negazione c’è ma sta fuori. Poi nel secondo stadio la
negazione entra dentro e in qualche modo è presente ma ancora non è completamente flessa (es. Io no
mangiare), si vedrà che non è come prima, adesso la negazione sta dentro la frase ma non è ancora la
forma finale (in italiano dovrei dire: io non mangio).
In inglese che è più complicato dell’italiano si osservano gli altri due stati che c’è la negazione che viene
messa dopo gli ausiliari e poi la negazione finalmente analizzata (doesn’t, didn’t), ma bisogna arrivare alla
fine dello sviluppo.

Francese: come si fa? NE…. PAS


Ne pas è una negazione facile? Per gli apprendenti no, perché ha due elementi che si mettono prima e
dopo, in inglese prima sta fuori, poi entra dentro, poi la combino con l’ausiliare, poi la fletto.
In realtà l’apprendente non impara subito i due elementi, e a volte alcuni apprendenti dicono No manger o
qualche cosa di simile poi la comincia ad usare dentro e usa solo uno dei morfemi e solitamente il più usato
è Pas perché è il morfema più saliente rispetto a Ne che è una nasale.
Vediamo che anche nella negazione abbiamo una sequenza, solitamente con gli apprendenti bisogna avere
un po’ di pazienza (3 o 4 mesi circa prima di arrivare ad un vero intake) bisogna comunque attraversare
tutti gli stadi.

Breve Ripasso

La grammatica non compare subito nell’apprendente: dopo una prima fase iniziale di prime parole
sistemate in ordine semantico e pragmatico e formule fisse anche di una sola parola (fase di olofrasi), il
lessico poi viene grammaticalizzato ed emerge la grammatica. Nella fase iniziale, anche se si possono
notare delle forme che sembrano far parte della morfologia della lingua (plurale, diminutivo, passato) non è
detto che l’apprendente abbia appreso queste strutture poiché molto più probabilmente le ha
semplicemente memorizzate.
ESEMPIO: l’apprendente può aver appreso il termine “gallina” però a un certo punto può dire “galla”: per i
linguisti, solo quando l’apprendente fa l’errore dimostra di aver capito che in italiano “-ina” significa
piccolo. Ovviamente gallina non è una galla piccola quindi quello è un errore ma ciò significa che
l’apprendente ha capito che in italiano esiste un suffisso –ino che può fare il diminutivo.
Attraverso quali stadi si verifica il processo di apprendimento della grammatica?

I primi studi sullo sviluppo della morfologia, sono stati condotti sullo sviluppo della lingua materna in
apprendenti anglofoni come bambini inglesi o americani.
In questi studi sullo sviluppo della lingua materna è stato notato che esiste come un ordine nella comparsa
dei morfemi grammaticali. È il sistema della L2 piuttosto che quello della L1 a guidare il processo di
acquisizione. Krashen (1977) ipotizza una sequenza acquisizionale al riguardo.
In questo studio sulla lingua inglese c’è qualcosa di bizzarro: mentre il bambino inglese impara abbastanza
presto a fare il plurale, ovvero a saper dire sia “book” che “books”, conosce le due forme e ha la marca per
il plurale (in questo caso -s), si comporta in maniera diversa per quanto riguarda la -s della III persona
singolare dei verbi. Nonostante il morfema del plurale in inglese somigli foneticamente al morfema della
terza persona singolare del verbo, mentre il morfema del plurale compare subito (è uno dei primi), invece il
morfema di III persona singolare presente non compare subito, ma anzi è uno degli ultimi della scala.
Quindi non è la difficoltà nella pronuncia di questo fonema che lo rende troppo difficile da usare, ma è
legato a qualcos’altro: un rapporto di implicazione. Ovvero, nonostante gli adulti propongano un input in
cui probabilmente ci sono le III persone singolari del verbo, i bambini inglesi, quando parlano, per tanto
tempo, non le usano e le cominciano ad usare solo dopo che hanno imparato ad usare la forma del plurale:
c’è un rapporto di implicazione.

Anche i passati inglesi, nella loro forma regolare e irregolare sono interessanti: anche questi, guardando
quello che succede quando i bambini inglesi iniziano a parlare, ci mostrano delle sequenze, degli stadi.
Dunque l’adulto parla bene e propone un input corretto dove ci sono verbi al presente e al passato corretti
grammaticalmente ma il bambino, che comincia a parlare, si comporta in maniera anomala.
Prima di poter utilizzare il passato, per il bambino ci vuole una sorta di transizione di passaggio attraverso
degli stadi: prima memorizza delle forme (anche i passati irregolari sono facili perché li memorizza, come se
fossero parole nuove) e poi comincia a scoprire che esiste la particella finale –ed che forma il passato,
scopre il nuovo morfema che comincia ad usare. Quando il parlante inizia ad usare questo morfema, ovvero
quando i linguisti possono dire “il parlante ha finalmente sviluppato il morfema di passato” lo si scopre
perché il bambino fa un sacco di errori: una volta scoperto questo morfema, il bambino lo usa sempre, lo
sovra-estende pensando che è una regola che vale sempre, anche se ci sono forme irregolari di passato.
Sarà proprio la presenza nei bambini inglesi di questi strani passati (dove il passato irregolare prende la
marca di “-ed”) che faranno capire che finalmente quel bambino finalmente ha la regola del passato dei
verbi inglesi. Poi solo in fine ci sarà un altro step in cui comincerà a dividere le forme regolari da quelle
irregolari.
“Sovra-estendere” significa quindi applicare la regola a tutto.
La cosa interessante di questi primi studi sullo sviluppo delle lingue materne della grammatica, ma in
particolare della morfologia, è stato aver scoperto che ci sono stadi, sequenze che si ritroveranno
esattamente identiche anche nelle interlingue di apprendenti di inglese come lingua seconda L2. Altra cosa
interessante è che comincia a venire fuori che è come se ci fosse un comportamento universale nello
sviluppo della morfologia.
Questi studi misuravano però solo il grado di accuratezza formale di questi morfemi, evitando di
concentrarsi sul processo che permette di arrivare a quella forma. Ellis infatti ci fornisce un esempio del
processo che ci porta all’acquisizione del verbo irregolare to eat.

Tutti sembrano negare all’inizio mettendo una forma di negazione che viene detta “esterna alla frase”
perché è come se fosse separata (qualunque sia la lingua che l’apprendente sta imparando). Poi questa
forma riesce ad essere inserita nella frase, poi, se la lingua lo prevede, porterà con sé anche le marche di
flessione. Quindi, se anche l’insegnante propone subito la forma negativa (quella dell’inglese è una delle più
complesse perché varia alla terza persona, al passato, etc.), l’insegnante può spiegare la regola, far fare
degli esercizi ma deve aspettarsi che gli studenti, per un certo periodo, non la useranno nella maniera
corretta. Quando ad esempio si fanno degli esercizi scritti lo studente riesce ad usare la regola in maniera
corretta perché c’è un controllo forte ma quando parla ed è libero di fare conversazione inizia a sbagliare:
quelli però non sono sbagli, ma sono la manifestazione dell’interlingua dello stato al quale sono in quel
momento gli apprendenti. Gli stati dell’interlingua degli apprendenti in base all’acquisizione della negazione
in inglese sono 4.

STADI

La pagina 81 del libro, in riferimento al verbo e al passato del verbo, ricorda che qualche volta ci sono stati
negli stadi: ciò significa, ad esempio, che nell’inglese è venuto fuori che nel passato del verbo non compare
subito questo morfema e che in realtà c’è un comportamento differenziato a seconda del tipo di verbo. Per
esempio, per l’apprendente la marca del passato compare prima nei verbi che indicano un evento, poi
compare anche in quelli che indicano attività e dopo che è comparso in verbi che indicano eventi o attività,
compare come ultimo step anche nei verbi che indicano uno stato. Dicendo ciò sembra che il significato
che è nel verbo e il tipo di azione espressa dalla parola stessa condizioni in qualche modo anche la
tempistica della comparsa di questa marca. Quindi, tutto questo è indipendente dal fatto che l’insegnante
voglia far esercitare l’apprendente con verbi di vario genere al presente e al passato. È come se
l’apprendente fosse predisposto in maniera diversa. In questo caso, quindi si ha una sequenza, uno stadio
nello stadio, come se ci fosse un’articolazione ulteriore.

STADI NEGLI STADI:

 -ed può comparire solo con alcuni verbi


 Prima verbi che riguardano EVENTI arrive
 Poi verbi che riguardano ATTIVITÀ sleep, swim
 Ancora dopo verbi che riguardano STATI want, seem
Errori: swimming, seem

Tra le possibili spiegazioni di questi stadi ci sono:

 Alcuni pensano che ciò dipenda dalla frequenza con la quale compaiono alcuni morfemi
nell’input: un morfema molto frequente forse viene appreso prima.
 Qualcuno invece insiste sulla complessità semantica o sintattica di una struttura grammaticale:
se è più complesso l’apprendente lo acquisirà dopo.
 Altri invece pongono l’attenzione sul problema di salienza percettiva. Salienza percettiva indica
elementi chiari foneticamente: ci sono dei morfemi, delle sillabe che sono chiare perché sono
costituite da suoni che si articolano in maniera chiara. Ad esempio, in italiano tutte le parole
che terminano con la “a” sono sicuramente percettivamente molto più salienti rispetto a quelle
parole che finiscono con “e”, poiché “e”, nel parlato non è così ben articolata, è un suono che
tende ad essere mal riuscente, non si sente quasi a differenza della “a” che si sente di più.
Inoltre, anche una sillaba tonica è più saliente percettivamente di una sillaba atona: la sillaba
tonica è sentita più evidente, più marcata ed è spesso articolata anche in maniera più allungata.
La salienza percettiva è quindi quello che l’orecchio cattura più facilmente.

Anche i pronomi per esempio, il docente può andare in classe e spiegare i pronomi personali dell’italiano
con una classica lezione, enunciare quindi i pronomi io, tu, egli, ella, esso, essa, noi, voi, essi, esse e poi le
forme flesse io, mi, me (perché c’è il dativo, c’è l’accusativo) e illustrare i pronomi che si presentano con
forme toniche e quelli con forma atone. Però alla fine della spiegazione, questa ha un’utilità relativa perché
in realtà l’apprendente avrà una gradualità che farà sì che lui all’inizio come prima cosa imparerà a
distinguere il pronome io da tu o da lui. Facendo una lezione classica di italiano il pronome personale
maschile della terza persona singolare è egli mentre lui è una forma del parlato italiano neostandard
mentre come forma dell’italiano standard sono presenti alla III persona singolare egli, ella, esso, essa.

LA FREQUENZA NELL’INPUT

Quasi mai parlando si dice “esso” o “egli” (se non in un contesto formale), mentre scrivendo è più probabile
che accada ciò.
Quando lo straniero sente parlare un italiano nativo, sentirà spesso le forme “lui”, “lei” che vengono usate
moltissimo. Una delle prime cose che l’apprendente imparerà, indipendentemente dalla lezione che
l’insegnante fa in classe, è che il nativo usa spesso “io”, “tu”, “lui”.
Il primo step nei pronomi è imparare a distinguere la persona.
Nel secondo step imparare a distinguere il numero (singolare vs plurale): quando si parla di universali
implicazionali tra il genere e il numero c’è una relazione per cui nelle lingue del mondo, quello più basico e
più presente è il numero rispetto al genere. Non è strano che l’apprendente inizi da subito a distinguere il
numero perché è più concreto e cognitivamente semplice: distinguere il numero significa iniziare a dire “io”
e dire anche “noi” per esempio oppure dire “lui” e “loro” (la pluralità).
Il terzo step è il genere: si inizia a fare la differenza tra “lei”, “lui” però se compaiono subito (all’inizio)
bisogna stare un po’ attenti perché in realtà potrebbe essere anche semplicemente memorizzato e
l’apprendente potrebbe dire sempre “lei” per tutti e dare il femminile a chiunque e non è detto che abbia
imparato la differenza tra maschile e femminile.
Come quarto e ultimo step c’è il caso: è chiaro che l’italiano è una lingua che ha una presenza di morfologia
di caso minima però nei pronomi ce l’ha. Quindi, l’apprendente deve imparare a distinguere “io mangio” da
“mi piace qualcosa” da “me ne dai un po’?”. Un residuo di flessione è rimasto nei nostri pronomi (anche se
non in tutti). Un’altra sequenza e di gradualità dei pronomi è quindi questa.

Gradualità:
1. Distinguere la parola
a. Io vs tu/lui
2. Distinguere il numero
a. Es. io noi
3. Distinguere il genere
a. Lui/lei
4. Distinguere il caso  residuo di flessione.
a. Io mi me

L’ACQUISIZIONE DEL GENERE IN ITALIANO L2

 Cos’è il genere?
–È una forma di classificazione dei nomi in categorie
 In italiano quanti generi abbiamo?
 L’acquisizione del genere pone due problemi agli apprendenti:
–Devono ricostruire il genere di tutti i nomi
–Devono rispettare l’accordo tra il genere del nome e tutti gli altri elementi presenti nella frase
(articoli, aggettivi, verbi ecc.)

Il GENERE GRAMMATICALE non è assolutamente una categoria diffusa in tutte le lingue del mondo ed è
anche molto complesso. Il genere è una forma di classificazione delle parole, dei nomi in categorie. Il
genere in italiano si chiama GENERE GRAMMATICALE perché è una marca grammaticale ed è un
classificatore delle parole della lingua.
In italiano quanti generi abbiamo? La lingua italiana presenta due generi però ci sono lingue che ne hanno 3
(es. tedesco).
Il nostro classificatore (della lingua italiana) è il genere: esso classifica il lessico ed è molto complicato
perché si crede che si riferisca a una suddivisione corrispondente ai sessi dei generi animati che in realtà è
arbitraria (es. soprano è una cantante donna ma è un nome di genere maschile/ il segretario di stato
potrebbe essere sia maschio che femmina perché questo è un problema di etichette di genere per parole
che rappresentano alcuni particolari mestieri in cui la presenza femminile è stata piuttosto limitata e quindi
esiste la forma al maschile e si predilige quella/la segretaria invece è un altro lavoro rispetto al Segretario di
Stato).

ESEMPIO: Il buco/la buca: con il genere in questo caso si classifica piccolo/grande, anche se ciò non toglie
che alla parola “buco” può essere aggiunto un aggettivo come “buco enorme” per invece attribuire
caratteristiche diverse.

Spesso l’italiano usa la differenza di genere anche per attribuire un significato di negatività: per esempio,
l’articolo ha anche un femminile: l’articolessa (articolo scritto male, troppo lungo)  questo è un modo di
classificare le parole per aggiungere un significato che è diverso dalla differenza studente/studentessa.

Cosa succede quando un apprendente deve imparare il genere di una lingua? L’apprendente deve
ricostruire il genere di tutti i nomi (non è vero che c’è una regola o almeno la regola che si adotta
generalmente è comunque molto elastica) e quindi ogni volta che l’apprendente impara un nome deve
impararne il genere. Ciò l’apprendente lo capisce quando impara un'altra lingua che ha il genere perché
molte volte bisogna categorizzare il genere e vedere se una parola, ad esempio in italiano, è maschile
mentre in quest’altra lingua è femminile (es. in tedesco limone è femminile). “Limone” è categorizzato in un
modo in italiano e in tedesco in un altro: si tratta di mera classificazione.

Le lingue che non hanno il genere possono classificare le parole con altri elementi? Si, con i classificatori.
Classificare il lessico significa organizzarlo, dividerlo in gruppi e categorie. I classificatori sono delle marche
che bisogna mettere davanti o dopo le parole e sono un modo per organizzare il lessico della lingua in
modo simile a come fa il genere, con la differenza che il genere è estremamente convenzionale nel suo
modo di classificare mentre i classificatori delle lingue che li hanno di solito sono più comprensibili perché
per esempio indicano piante/animali, esseri viventi/non viventi, grande/piccolo e si mettono prima o dopo
la parola di riferimento.
I classificatori di alcune lingue dell’Australia sono stati molto studiati perché sono serviti a chi ha lavorato
sulle metafore: ci sono dei classificatori di alcune delle lingue indigene che sono apparentemente molto
strani ma hanno permesso di riflettere sul fatto che il classificatore è a volte anche il risultato delle cultura,
della storia e del modo in cui quel gruppo vive l’esistenza. Per cui, in una lingua si possono trovare
classificatori x che indicano acqua/fuoco/oggetti pericolosi/donne/uccelli/defunti (esempio): ciò può
sembrare strano perché il solo pensiero di un classificatore che possa fare tutto ciò è caos invece è
interessante perché in quella cultura ci sono dei miti e delle rappresentazioni che connettono questi
elementi tra di loro e di conseguenza visto dall’esterno, il classificatore in questi casi può sembrare anche
incomprensibile (non sono sempre semplici i classificatori come piatto/alto/basso).

L’acquisizione del genere pone due problemi agli apprendenti:


– Devono ricostruire il genere di tutti i nomi
– Devono rispettare l’accordo tra il genere del nome e tutti gli altri elementi presenti nella frase

L’accordo

Qual è il problema di fondo? Il problema di fondo è che spesso il genere coincide con una marca
morfologica che l’apprendente deve individuare es. “a”,” i”,” e”, “o” oppure “essa”, etc.
Le lingue che hanno il genere, a differenza di quelle che hanno i classificatori (individuano e classificano la
parola), hanno anche l’accordo. Le lingue che hanno il genere è come se cucissero tutte le parole che
formano la frase. Ciò per l’apprendente è molto complicato perché egli si perde il legame che deve portare
per tutta la frase.

Es. Per un apprendente, il primo problema di fronte alla parola italiana “casa” è quello di capire qual è il
genere. L’apprendente impara che casa è femminile (in altre lingue potrebbe essere maschile, neutro)
anche se non c’è niente che giustifichi il fatto che casa sia femminile: si parla di ARBITRARIETÀ E
CONVENZIONALITÀ DEL GENERE GRAMMATICALE.

Capito che il termine “casa” ad esempio è femminile, aggiungendo l’articolo il primo problema
dell’apprendente sarà l’accordo.

Es.
Casa
La casa
La mia casa
La mia piccola casa
La mia piccola casa è bianca
La mia piccola casa bianca è bruciata

Quindi, articoli, aggettivi e verbi vanno accordati: in questo caso tutti al femminile.

Il genere è complicato per l’apprendente. L’apprendente deve capire che le parole hanno un genere, come
rende la lingua quel genere.
In italiano, la maggioranza (non tutte) delle parole di genere femminile terminano con il morfema –a (che
dal punto di vista percettivo è estremamente saliente), mentre la maggioranza delle parole di genere
maschile terminano con il morfema –o (molto frequente). Il lessico italiano presenta una grande
percentuale di parole che si classificano in questi due gruppi, anche se ne esistono tanti altri (termini
femminili singolari con –o come la mano/termini femminili singolari con –e come la tigre, la madre/termini
femminili plurali con –e come le bambine/ termini maschili singolari con –e come fiore/termini maschili
singolari con –a come il teorema, il problema/termini maschili plurali con –a come uova anche se al
singolare fa uovo, lenzuola anche se al singolare è lenzuolo).
L’apprendente all’inizio è probabile che dica “il mano” perché potrebbe essere condizionato e confuso:
questo è un problema delle lingue flessive.
Nell'accordo, quando si scopre che un morfema esprime un genere ci si aggrappa ad esso e si vuole
utilizzare sempre quello ma la lingua alla fine ha le sue variazioni.
Andando a scuola, l’apprendente dirà poi “il problema”, “il teorema”, etc perché scopre che il morfema –a
è anche maschile in alcuni nomi.
Cosa è stato notato per gli apprendenti di italiano come lingua seconda e straniera? È stato notato che
attraversano degli stadi:
 Primo stadio
 Il genere non viene notato, ma memorizzato come unità opache, non analizzate.
 Compare precocemente anche la distinzione lui/lei
 Secondo e Terzo stadio
 Gli apprendenti combinano le parole in enunciati/sintagmi. L’accordo si basa su strategie di
assonanza o rima (criteri fonologici) es. la maestra, la scuola *la problema/la cinema, una
donna...
 Quarto stadio
 Accordo con l’aggettivo attributivo, es. nessuna persona
 Quinto stadio
 Accordo con l’aggettivo predicativo, es. la casa è piccola
 Sesto stadio
 Accordo tra nome e participio passato, es. Maria è partita

PRIMO STADIO: all’inizio è come se il genere non fosse notato, le parole si imparano a memoria e dunque
l’apprendente impara ed utilizza le parole che sente, le parole che sono nell'input: è come se esse fossero
opache. Però l’apprendente comincia subito a capire la prima distinzione tra lui/lei perché ciò gli serve ed è
fondamentale all'interno della comunicazione di base, è uno dei primi elementi che i nativi offrono come
input. Quindi, il genere non viene notato, ma memorizzato come unità opache, non analizzate:
l’apprendente memorizza le parole così come gli vengono date mentre l'opposizione di genere compare
precocemente nella distinzione del pronome personale.

SECONDO STADIO/TERZO STADIO: gli apprendenti combinano le parole in enunciati/sintagmi. L’accordo si


basa su strategie di assonanza o rima (criteri fonologici). Nel secondo e terzo stadio, gli apprendenti,
cominciano a combinare le parole e quando lo fanno (es. casa-bella), inizia ad uscire fuori il problema
dell'accordo e cominciano a notare che c'è un legame tra le parole. L'accordo inizia a comparire ma
all’inizio, l’accordo compare su una base fonetica, ovvero è come se l'apprendente mettesse lo stesso
suono alla fine delle parole che sono vicine (es. problema – bella). In questi stadi, iniziano a comparire
insieme forme giuste e forme sbagliate come: la maestra, la scuola e *la problema, *la cinema. Il linguista
che osserva è attratto dalla presenza di quelle che vengono considerate forme sbagliate: ci deve essere
però una certa regolarità nell’apprendente poiché se l’apprendente usa poco questi errori ciò è più casuale.
Invece, se tutte le volte l’apprendente dice la problema, c’è l’errore e allora c’è la regola poiché per il
linguista l’apprendente sta cominciando a scoprire l’accordo e lo sta cominciando ad applicare con la sovra-
estensione (a tutte le forme e lo fa sulla base della salienza percettiva di quello che sente).

QUARTO STADIO: si comincia l'accordo con l'aggettivo in funzione attributiva. Come ad esempio: nessuna
persona

QUINTO STADIO: si comincia l’accordo con l'aggettivo in funzione predicativa, es. la casa è piccola

SESTO STADIO: si arriva all’accordo tra nome e participio passato, es. Maria è partita

L’apprendente quindi ci mette tempo per fare accordi in una frase completa perché non è vero che è tutto
uguale, anzi ci sono dei gradi di difficoltà diversi legati alla posizione della parola e al tipo di significato che
ha la stessa. L’articolo è quello che si accorda prima: è più semplice. L’aggettivo invece si accorda in uno
step dopo. (Es. l’apprendente potrebbe dire “mio la casa”)

SEQUENZA DI ASSEGNAZIONE DEL GENERE DEI SOSTANTIVI

 Criteri fonologici > criteri semantici > criteri morfologici

Dunque nell'apprendimento vengono seguiti i seguenti criteri:


 CRITERI FONOLOGICI: l'apprendente all'inizio quando deve attribuire il femminile e il maschile, e il
genere grammaticale si fa guidare da alcune vocali che ha scelto come vocali guida e dal suono
della parola. Le desinenze nominali non vengono riconosciute come indizi per risalire al genere dei
sostantivi, ma contribuiscono solo a stabilire la tipica forma della parola italiana, a finale vocalica.

 CRITERI SEMANTICI: fanno riferimento alla relazione tra genere-sesso del referente e si basano su
specifiche desinenze -o; -a; -e. È un criterio importante per coloro che non hanno il genere nella
propria lingua (soprano: in realtà è una donna).

 CRITERI MORFOLOGICI: entrano in gioco quando si sviluppano i suffissi derivativi (-tore/-trice 


operatore/operatrice) e quindi l'apprendente arriva a riconoscere il genere di un certo suffisso.

LE FRASI INTERROGATIVE

Ogni lingua ha una sua struttura morfologica che utilizza per costruire le domande. Anche
nell'apprendimento delle frasi interrogative polari (con risposta sì/no) ci sono degli stadi, il primo è quello
di cambiare la curva intonativa quindi anche se all'apprendente viene spiegato la regola grammaticale egli
tenderà sempre a modificare la curva intonativa. Negli stadi successivi troviamo la costruzione della frase
interrogativa mediante l'inversione soggetto/verbo essendo più difficile per un apprendente in quanto ogni
spostamento all'interno di una frase, anche quella semplice, risulterà complicato per un linguista alle prese
con lo studio di una nuova lingua.

LA RELATIVIZZAZIONE

 Le relative sono proposizioni subordinate che modificano i nomi dei sintagmi nominali della
principale
 Le relative variano in base a:
–Punto di attacco: (1) il gatto (S) che miagola non è mio
–Elemento relativizzato: (2) il gatto (OD) che sento miagolare non è mio
–Ripresa pronominale: (3) *il gatto che lo vedo
–Forma del pronome relativo: (4) che e cui/quale
–Profondità dell’incasso: (5) questo è il gatto che ha ucciso il topo che ha mangiato il malto che
stava...

Le frasi relative sono molto studiate poiché sono presenti in tutte le lingue. La frase relativa è una frase non
principale e di conseguenza più complessa poiché una subordinata che dipende da un'altra frase. Le relative
non sono di facile apprensione e presentano varie complessità che variano in base a:

PUNTO DI ATTACCO: è l'elemento al quale la frase relativa si riferisce ed è al di fuori di essa. Possiamo
trovare frasi relative che hanno come punto di attacco un complemento oggetto e frasi relative che hanno
come punto di attacco il soggetto, ed è stato notato che il cambiamento del punto di attacco rende le prime
più semplici e le seconde cognitivamente più difficili e di conseguenza verranno imparate prima quelle che
hanno come punto di attacco il complemento oggetto e successivamente quelle che hanno il soggetto.

ESEMPIO: "io sento un cane che abbaia di notte"  un cane rappresenta il punto di attacco utilizzato per
evitare la ripetizione di un cane, il cane. In questo caso il punto di attacco è un complemento oggetto e si
trova prima del verbo ma è comunque vicino ad esso
"il cane che abbaia di notte è del mio vicino"  il punto di attacco è rappresentato da “il cane” ed è “il
soggetto”, è più lontano rispetto alla frase che regge.
Così anche nella frase: il gatto (S) che miagola non è mio.

ELEMENTO RELATIVIZZATO: l'elemento che nella frase viene trasformato in un pronome relativo.
(2) il gatto (OD) che sento miagolare non è mio
1. Il gatto che miagola non è mio (che: soggetto)
2. Il gatto che sento miagolare non è mio (che: complemento oggetto)
3. Il gatto a cui il veterinario ha fatto l’iniezione non è mio (che: complemento di termine)
4. Il gatto con cui giochi non è mio
5. Il gatto di cui parli non è mio
6. The cat that is yours is wilder than...
Tutte e tre le frasi sono modificate in modo da avere il soggetto come il punto di attacco prima del verbo.

RIPRESA PRONOMINALE: è un elemento utilizzato spesso dagli apprendenti per dare più concretezza alla
frase ed è una caratteristica morfologica che non è presente in tutte lingue. Difatti non la troviamo
nell'italiano standard, ma è utilizzato dagli apprendenti per rafforzare il valore relativo della frase come ad
esempio: “il cane con cui ci gioco”  in italiano standard la frase corretta è "il cane con cui gioco", abbiamo
un elemento in più ovvero il “ci” utilizzato come rafforzativo. (3) *il gatto che lo vedo.
Anche qui abbiamo degli stadi nella formazione corretta della frase:
- l'apprendente inizia senza pronome  ho amico parla spagnolo
- l'apprendente non percepisce abbastanza il valore del pronome relativo del che e rimarca con il pronome
personale  ho amico che lui parla spagnolo
- l'apprendente ormai riesce a costruire la relativa ed è in grado di usare solo il pronome relativo  ho
amico che parla spagnolo.
Indipendentemente dalla presenza o meno del pronome di ripresa in L1 tutti gli apprendenti la utilizzano
perché riempie il “buco” semantico lasciato dall’elemento relativizzato.

FORMA DEL PRONOME RELATIVO: La forma sotto cui il pronome si presenta (cui, il quale, la quale). Il
pronome relativo può svolgere diverse funzioni, la funzione svolta nella frase determinerà il livello di
difficoltà e di conseguenza la sequenza di apprendimento. (4) che e cui/quale

PROFONDITÀ DELL’INCASSO: le frasi relative possono essere più di una e si trovano una dentro l'altra, la
sua complessità dovuta al continuo variare del punto di attacco. In linea teorica è infinito, ma solitamente si
arriva a 3/4 e più è profondo l'incasso più è difficile l'apprensione l'apprendente difatti per non perdersi nei
vari livelli di incasso si tende a spezzare la frase per renderla di facile comprensione.
(5) questo è il gatto che ha ucciso il topo che ha mangiato il malto che stava …  frasi relative incassate,
significa che stanno una dentro l’altra. Anche nell’algebra, molto spesso vengono utilizzate per teoremi frasi
incassate esplicite ed implicite.

SOGG.>OGG. DIR.>OGG. IND.>OGG. PREP.>GEN>OGG. COMP.

Le sequenze acquisizionali le indichiamo così se hanno una natura implicazionale, può essere letta in ordine
cronologico e quindi prima troviamo il soggetto poi c'è l'oggetto diretto poi l'oggetto indiretto ecc. oppure
si può leggere dall'ultimo elemento e diciamo l'oggetto preposizionale implica la presenza dell'oggetto
indiretto che implica la presenza dell'oggetto diretto che implica la presenza del soggetto.

RELATIVE E ZISA

Il nostro libro, dopo essersi concentrato sulle frasi relative (molto studiate, in quanto tutte le lingue le
possiedono), presenta un altro tema dedicato alla sintassi e introduce un nuovo progetto. Le frasi relative
sono secondarie, non sono quindi frasi di base come le principali. La frase relativa ha delle difficoltà nella
sua costruzione, che sono legate al punto d'attacco nella frase principale, alla forma del pronome e alla
funzione del pronome relativo, oltre ovviamente ad altri elementi che possono emergere come la ripresa
pronominale che in alcune lingue c'è e che il parlante adopera.
È una frase complicata e non è così semplice spiegare la relativa in una lingua o pensare che l'apprendente
facilmente la impari, perché si è notato quanto è importante se il punto di attacco è il soggetto o l'oggetto
della principale; se la funzione del pronome relativo è quella di soggetto, di complemento oggetto, o
complemento indiretto. Non sono tutte uguali, non sono tutte cognitivamente sullo stesso livello. Tutto ciò
crea degli stadi evolutivi; ci sono prima delle forme, poi delle altre forme indipendentemente dall'input.

Questo progetto che il libro introduce si ritroverà citato anche in altri punti. È chiamato progetto ZISA, è
stato realizzato negli anni 70/80 in Germania, sull'apprendimento del tedesco “seconda lingua”, da parte di
apprendenti adulti immigrati. Non si parla di studenti, giovani, ragazzi che trascorrono tempo in classe per
studiare il tedesco, ma si tratta di un apprendimento per lo più spontaneo.
ZISA è l'acronimo di Zweitspracherwerb italienischer und spanischer il cui significato è: apprendimento della
seconda lingua da parte di lavoratori italiani e spagnoli. Inizialmente hanno iniziato con questo target di
immigrati, ma successivamente il target si è esteso anche ad altri, come ai turchi (comunità immigrate
presenti in Germania).
Questo studio si occupa di sintassi perché il tedesco come lingua è una lingua dalla sintassi complessa,
articolata (abbondanza di principali, secondarie), è una lingua che richiede spostamenti, inversioni. Richiede
uno sforzo cognitivo notevole, è una sintassi impegnativa per chi l'affronta.
Questo studio ha avuto come risultato principale che è come se ci fosse un ordine acquisizionale comune a
tutti gli apprendenti per alcune regole della sintassi, si continua, quindi, a discutere di fenomeni universali
dell'interlingua.

Nonostante questo studio abbia fatto capire che non tutte le regole della sintassi poi si allineano in questa
maniera, la cosa rilevante è che alcune regole della sintassi tedesca seguono degli stadi di sviluppo e se si
parla di stadi di sviluppo significa che la forma che coincide con quella della lingua d'arrivo è nell'ultimo
stadio. Spesso il 1°, il 2° o il 3° stadio hanno delle forme che in realtà sembrano sbagliate, ma sono
semplicemente stadi dell'interlingua con i quali l'apprendente si sta avvicinando alla lingua d'arrivo ed è
come se non potesse saltare questi stadi.
Questo modello il libro lo chiama multidimensionale in quanto è un modello che guarda sia all'evoluzione
sia alla variabilità - cioè quello che succede negli stadi e il perché qualche volta gli apprendenti assumono
comportamenti diversi.

1) Nell'evoluzione, quindi nella dimensione evolutiva, questo modello ci fornisce elementi che ci fanno
riflettere sull'esistenza di fattori cognitivi universali. Noi apprendiamo seguendo alcuni step perché è il
modo che ha il nostro cervello di elaborare le informazioni. Lo abbiamo fatto quando si è sviluppato il
linguaggio, lo facciamo quando impariamo la nostra lingua materna, e anche ogni qualvolta impariamo
una nuova lingua. È come se avessimo meccanismi già assettati di tipo cognitivo.

2) La variabilità è legata ad altro: sono i fattori sociopsicologici, in parte riguarda l'ambiente sociale,
culturale, in parte riguarda l'individuo. Ogni individuo è diverso, ha una sua personalità, ha un suo stile di
apprendimento.
Sui fattori universali incidono fattori individuali, sociali, culturali, che vanno a modificare lo sviluppo
dell'interlingua. Questi fattori determinano in particolare la velocità con la quale si sviluppa l'interlingua:
un apprendente può attraversare tutti gli stadi molto velocemente, un altro lo può fare in modo molto
lento, un altro si può fermare ad uno stadio e da lì non muoversi più. Il risultato finale può variare: può
essere eccellente, intermedio, o mediocre perché i fattori che determinano la variabilità vanno ad incidere
sugli elementi di universalità. Magari c'è la predisposizione, ma non le condizioni culturali, ambientali,
individuali giuste. Ad esempio, essere introversi è la situazione peggiore per imparare una lingua straniera
rispetto ad un soggetto estroverso. L'introverso non rischia, parla poco perché ha paura di sbagliare;
l'estroverso rischia. Chi rischia e parla, sperimenta, prova. Già da qui si evince che nonostante si tratti di
aspetti non linguistici, sono ugualmente rilevanti.
Se si prende il caso di un fattore ambientale, e si appartiene ad un gruppo linguistico e ad una minoranza
linguistica che in una certa società è considerata inferiore culturalmente, si vedrà che si avranno molti
problemi nello sviluppare la competenza dell'altra lingua. Se si fa parte di un gruppo che ha una
considerazione sociale alta, quindi in una posizione dominante del gruppo, ciò fa una grossa differenza. Se
si appartiene ad un gruppo molto ampio, la lingua seconda non si impara mai in quanto si riesce a
sopravvivere nel proprio ambito. Il gruppo è così grande che in quest'ultimo c'è tutto: il medico,
parrucchiere, il ristoratore. Se si fa parte di una comunità piccola, non si sopravvive se non ci si apre al
territorio.

(Pag 91. Esempi tratti dal libro)

Stadi Regola Esempio


die Kinder spielen mim ball
1° Ordine canonico (SVO) I bambini giocano con la palla
Die Kinder spielen mit dem ball
da Kinder spielen
2° Avverbi all’inizio (AVV) Qui i bambini giocano
Da spielen die Kinder
3° Separazione del verbo (SEP) alle Kinder muss die pause Machen
dann hat sie wieder die knocht gebringt
4° Inversione (INV) Poi ha lei di nuovo l’osso riportato
Dann hat sie wieder Deh Knochen gebrach!
er sagte dass er nach hause kommt
5° Verbo in fondo (V-FON) Lui ha detto che lui a casa viene
Er sagte dass er nach Hause gegangen sei

Il primo rigo degli esempi costituisce un’interlingua; sono esempi di parlato (per tale motivo non ci sono
maiuscole) di questo studio condotto su apprendenti italiani e spagnoli di tedesco L2 lavoratori immigrati in
Germania.
Il libro presenta cinque esempi messi in un ordine che chiama "a stadi" STADIO 1, STADIO 2, STADIO 3,
STADIO 4, STADIO 5, ma in realtà se si vanno a guardare questi stadi, essi sono da intendere come stadi
evolutivi (da 1 si passa a 2, da 2 a 3, da 3 a 4, da 4 a 5), l’apprendente può saltare da uno a tre? O da uno a
cinque? No! Se il mio insegnante di Tedesco si concentra e mi fa fare tanti esercizi, posso saltare da uno a
tre? No! Io posso memorizzare alcune regole, alcune informazioni, ma solo a livello superficiale.
Quando faccio l'esercizio di grammatica e mi concentro, e ho il monitor che mi controlla, quello mi dà un
risultato che non è la vera competenza, il vero intake. Dove si vede quello che io veramente conosco? Nel
momento in cui parlo, faccio conversazione libera; quando parlo mi ritrovo a mostrare la mia vera
interlingua, e molto spesso non è quello che l'insegnante mi ha spiegato.
Ma questo non costituisce un problema perché probabilmente ci si arriverà; probabilmente è stata
presentata una regola troppo presto rispetto alla propria interlingua.
Si può insegnare, ma l'efficacia maggiore c'è quando l'insegnante lavora con delle regole che sono solo di
un grado più complesse di quelle che già si conoscono; allora si, ce la facciamo, siamo pronti
all'apprendimento, altrimenti il tutto diventa troppo complesso.

Nello stadio 1 - quando l'apprendente comincia ad usare la sintassi quindi a combinare le parole - lo fa
seguendo un ordine canonico: soggetto, verbo, oggetto; non è topic/comment, molte volte il soggetto è il
topic.
Il libro presenta un esempio: Die kinder spielen mim ball: Sappiamo che "mim" in tedesco non esiste. La
frase corretta dovrebbe essere la seguente: Die kinder spielen mit dem Ball
Die: articolo
Kinder: sostantivo flesso al plurale
Spielen: Verbo plurale? Non si sa, potrebbe anche essere all'infinito, in quanto sappiamo che in Tedesco la
forma del plurale coincide con l'infinito.
Mim nasce dal fatto che l'apprendente sente l'accostamento di due parole, cioè mit + dem (la cui
traduzione italiana è ''con la''). Questa è una di quelle interessanti forme apprese come se fossero un unico
blocco; l'apprendente sente qualcosa e lo ripete, ma non è analizzato.
Questo è uno stadio semplice: soggetto, verbo, altro...

Nello stadio 2 - c'è la possibilità di mettere al primo posto qualcosa che non sia il soggetto: Esempio: Qui i
bambini giocano davvero bene / I bambini giocano bene
In italiano non sorgono tanti problemi; ma le lingue con rigide sintassi non accettano che ci sia qualcosa in
prima posizione senza che si modifichi quello che viene dopo.
Da kinder spielen
Da: I
Kinder: Bambini
Spielen: Giocano/giocare
Che cosa c'è di tanto entusiasmante nel fatto che l'apprendente abbia messo "Da" prima di "kinder
spielen"? In realtà è lo stadio 2, ma bisogna notare che la frase non ha la struttura che dovrebbe avere in
tedesco, perchè in tedesco quando c'è qualcosa che occupa la posizione del soggetto, il soggetto e il verbo
si invertono. L'apprendente non ce la fa ad invertire, quindi mette qualcosa all'inizio ma lascia tutto
invariato.

Nello stadio 3 - il nostro apprendente riesce a fare una cosa difficilissima cognitivamente: spezza il verbo in
quanto il verbo tedesco ha un problema: si può dividere in alcuni casi e un pezzo del verbo deve andare alla
fine della frase. Questo non è assolutamente semplice dal punto di vista cognitivo. L'apprendente riesce a
dire Alle kinder muss die pause machen.
Alle: Tutti
Kinder: Bambini
Muss: Verbo che non è flesso alla maniera giusta, in quanto dovrebbe essere "mussen"
Die pause: La pausa
Machen: Fare
Il verbo retto dal verbo modale va alla fine della frase; la traduzione italiana è " tutti i bambini devono la
pausa fare", l'italiano questo non ce l'ha, perché ''devono fare'' è un unico blocco; Tale attività è complessa
e perciò arriva solo al terzo stadio, ma è più semplice dell'inversione che arriva al quarto stadio.

Nello stadio 4 - abbiamo l'inversione:


Dann (avverbio) hat (verbo) sie (soggetto) wieder die knocht gebringt, la cui traduzione italiana è "poi ha lei
di nuovo l'osso riportato".
Quella corretta dovrebbe essere: Dann hat sie wieder den Knochen gebracht.
Spostare il verbo, spezzarlo e mandarlo alla fine della frase è cognitivamente più semplice dell'inversione.

Nello stadio 5- abbiamo la frase secondaria.


Ci troviamo nello stadio in cui si ha una costruzione con il verbo alla fine della frase, non perché è stato
spezzato il verbo, ma perché il verbo abbandona il soggetto e va a chiudere la frase. Il risultato è che
quando parla un tedesco bisogna stare in silenzio fino all'ultima parola che dice, in quanto non si sa mai
come chiude e la parola in chiusura potrebbe alterare il senso dell'intera frase.
Es: Er sagte (principale costituita da soggetto + verbo) dass (congiunzione che introduce una secondaria di
tipo oggettivo) er (soggetto) nach hause kommt - non è grammaticale però la sintassi c'è, perché il soggetto
e il verbo sono in due posti separati, lontani come devono essere.
"Lui ha detto che lui a casa viene" la frase corretta sarebbe: Er sagte, dass er nach Hause gegangen sei.

La sintassi di questa lingua è interessante perché è complessa e tale complessità ha permesso di studiare
cosa succede nell'apprendente quando si confronta con l'apprendimento della sintassi, e quindi di
evidenziare una serie di stadi:
1° stadio - L'apprendente ha il suo soggetto e il suo verbo, semplici.
2° stadio - L'apprendente può mettere qualcosa in prima posizione che non sia il soggetto, ma soggetto e
verbo restano lì senza cambiare.
3° stadio - L'apprendente riesce a spezzare eventualmente il verbo come vuole il Tedesco e a mandare una
parte alla fine della frase.
4° stadio - L'apprendente riesce ad invertire il verbo e il soggetto
5° Stadio - L'apprendente arriva alle frasi secondarie, fase complicata in quanto il soggetto e il verbo sono
lontanissimi.

Queste regole viste sono state verificate ed è stato dimostrato che c'è un ordine implicazionale, cioè che
non si saltano gli stadi.

Come si legge questa stringa? SVO > AVV > SEP > INV > V-FON
Si comincia dalla fine, quindi si leggerà: il verbo in fondo nelle frasi secondarie, implica l'inversione
soggetto/verbo, che implica la separazione del verbo, che implica la presenza di un avverbio all'inizio della
frase principale, che implica una frase di base soggetto/verbo.

Il problema dell'apprendimento si può affrontare in due modi:


- O si descrive un fenomeno
- O dopo averlo descritto si tende ad interpretarlo e a dargli una motivazione.

La seconda fase non è molto semplice in quanto si può osservare qualcosa e già per compiere quest'azione
occorre tanto tempo.
Esempio: Noi studiamo l'italiano di bambini cinesi nati a Napoli di 3, 4, e 5 anni e sono ben 3 anni che
registriamo i bambini mentre parlano, e solo per ottenere queste registrazioni fatte come si devono, senza
che ridano ecc. è abbastanza difficile. Dietro questi lavori ci sono tanti step, ma noi riusciamo con un corpus
adeguato a descrivere dei fenomeni, che poi vanno interpretati ed è qui che subentra la difficoltà. Durante
l'interpretazione bisogna porsi domande del tipo: perché? C'è qualcosa di cognitivo? Cosa? Quali elementi?

INTERPRETAZIONE (pag.92)

Le interpretazioni ovviamente rimangono sempre discutibili perché ce ne possono essere di varie, ma il


nostro libro propone - sempre con riferimento a questi cinque stadi del tedesco (pag.93) un esempio dove
ci sono stadi, regole, strategie.
Si tratta di strategie cognitive di elaborazione del parlato.

Stadi Regola Strategia


1° Ordine canonico (SVO) +SOC(+SIF)(+SPS)
2° Avverbi all’inizio (AVV) +SOC+SIF(+SPS)
3° Separazione del verbo (SEP) -SOC+SIF+SPS
4° Inversione (INV) -SOC+SIF+SPS
5° Verbo in fondo (V-FON) -SOC-SIF-SPS

Questo lavoro rimanda ad un'ipotesi di Clahsen il quale ritiene di poter individuare tre strategie cognitive:
1. Strategia dell'ordine canonico (SOC)
2. Strategia di inizializzazione e finalizzazione (SIF)
3. Strategia delle proposizioni subordinate (SPS)

Queste strategie funzionano in maniera diversa nei diversi stadi. La prima, «Strategia dell'ordine canonico
(SOC)», dice che io non riesco a muovere nulla dalla sua posizione. Tutto è bloccato: il soggetto, il verbo,
non si possono modificare. Non si possono spezzare.
Questa strategia è quella che domina all'inizio, infatti il libro inserisce ''+'' cioè che è presente quella
strategia. Le altre due sono tra due parentesi (_), cioè che potenzialmente si possiedono ma non si attivano,
è come se rimanessero inattive. Nel secondo stadio (stadio in cui l'apprendente riesce a mettere qualcosa
in prima posizione) vi è una modifica.

Non è più quella strategia dell'ordine canonico che bloccava tutto. Infatti a questo punto si aggiunge anche
la seconda strategia, quella di «Inizializzazione e finalizzazione (SIF)» l'apprendente può mettere qualcosa
prima, ma rimane comunque attiva la strategia dell'ordine canonico perché il soggetto e il verbo sono
sempre bloccati.

Nel terzo stadio, scatta la terza strategia, quella delle «Proposizioni subordinate (SPS)» che riesce ad
allontanare dal verbo un pezzo. Il verbo tedesco si può spezzare: si può avere la separazione dell'ausiliare
dal participio, del verbo modale dal participio ecc. Nel terzo stadio è attiva anche questa strategia: quella di
inizializzazione e quella delle proposizioni. Quella dell'ordine canonico ora porta un (-) vale a dire che si è
disattivata. Se fosse attiva mi impedirebbe di imparare la sintassi tedesca. Mi serve all'inizio, poi la spengo.

Nel quarto stadio in cui avviene l'inversione tra soggetto e verbo, anche la strategia SIF (inizializzazione e
finalizzazione) si disattiva. Posso spostare il soggetto e il verbo e invertirli tra loro.

Nel quinto stadio sono un uomo libero, le strategie non mi servono più e si spengono tutte.
Quest'attivazione di tipo psicolinguistico, sembra dimostrarci che noi esseri umani, è come se avessimo un
aiuto neurologicamente parlando; non si riesce a sviluppare la sintassi subito, tutta insieme, occorrono
delle strategie.

In generale, come chiusura, bisogna ricordare che la grammatica (che abbraccia morfologia e sintassi)
dell'interlingua presenta una serie di sequenze e stadi.
Per il lessico non si può parlare di stadi e sequenze in quanto quest'ultimo è un po’ a sé stante, dipende
molto dell'esposizione e l'input. Il lessico può essere molto ricco, o molto povero, tecnico o generale.
All'inizio la grammatica si presenta soprattutto nel lessico, quando si ha una forma come
mangiare/mangiato, si tratta di lessico nella forma iniziale; ci vorrà tempo prima che diventino vere forme
grammaticali. Ciò che conta è che l'apprendente deve automatizzare le procedure, cioè deve rendere tutto
inconscio e rapido, e per fare ciò occorre pratica costante. Le lingue si perdono, non si acquisiscono
solamente, e si perdono abbastanza velocemente se non c'è pratica.

LA VARIABILITÀ (Inizio del capitolo 4)

Ciò che crea la differenza nelle interlingue degli apprendenti


 Quali sono i fattori che possono creare la variabilità? Tanti. Possono essere la lingua materna,
l'ambiente linguistico, le caratteristiche individuali, caratteristiche culturali, strategie di
apprendimento. Ognuno di questi aspetti viene trattato e approfondito nel libro.

Questi elementi che effetto hanno sull'interlingua?


 Possono far sì che le forme dei singoli stadi sia diversa;
 Possono far sì che la velocità del passaggio da uno stadio all'altro sia diversa;
 Può cambiare l'esito finale dell'apprendimento: l’apprendente A può arrivare alla fine del corso con
un forte accento straniero così come l’apprendente B può non averlo e ciò non dipende da quanta
energia uno ha impiegato nello studio, bensì da fattori individuali. La capacità di sentire e imitare
suoni può aiutare ad avere un accento straniero.

La lingua materna influenza molto l'apprendimento e questo è vero; noi spesso riconosciamo senza
difficoltà la provenienza di uno straniero, quando non riusciamo è perché siamo noi a non conoscere la
lingua di quel paese. Dieci anni fa un italiano medio ascoltando la voce di un cinese che parlava italiano
raramente avrebbe riconosciuto che si trattasse di un cinese. Oggi noi italiani riconoscono molto più
facilmente gli accenti: quello cinese, quello rumeno, quello russo ecc. perché abbiamo più contatti con
parlanti di queste lingue, sentiamo le loro interlingue e ci siamo abituati.

Cosa succede quando due lingue sono vicine tipologicamente?


Sono più semplici di due lingue tipologicamente distanti (come già detto, per stabilire la tipologia di una
lingua si fa una classificazione di essa che non è evolutiva, storica e genealogia ma è una classificazione su
base magari morfologica (costruzione delle frasi) o magari sintattica. Dal punto di vista morfologico, ad
esempio, esistono lingue agglutinanti, flessive, isolanti, mentre dal punto di vista sintattico, possiamo
raggruppare tutte le lingue con ordine SVO (soggetto-verbo-oggetto) o tutte le lingue con ordine sintattico
VSO (verbo-soggetto- oggetto).

Quindi, se io voglio imparare una lingua tipologicamente affine alla mia (magari dal punto di vista
morfologico) è più semplice. Per quanto riguarda il lessico, invece, può succedere che io mi basi troppo sul
lessico della mia lingua materna e molto spesso do un’etichetta nuova ad un concetto che nella lingua che
sto studiando c’è già. Perciò la mia lingua materna, almeno all’inizio, influenza molto il mio apprendimento.
Negli anni, però, i linguisti hanno cambiato posizione relativamente all’importanza che avevano dato
all’influenza della lingua materna sull’apprendimento di una nuova lingua. Negli anni 50 qualunque
problema era responsabilità della lingua materna. Si tratta di una fase della linguistica in cui dominava il
comportamentismo e il contrastivismo infatti l’apprendimento veniva visto come fissazioni di abitudini
linguistiche.

Cosa significa che la linguistica in quegli anni aveva questa impostazione?

COMPORTAMENTISMO: la linguistica generale nasce agli inizi del 900 e con Saussure abbiamo
un’evoluzione di essa. Prima era una linguistica storica, ma poi si è sviluppata in modi diversi. Gli Americani
degli anni '30, '40 e '50 sono stati molto rilevanti in questo ambito. La linguistica in America era molto
contaminata dagli studi delle lingue indigene, era legata alla necessità di studiare lingue parlate ma prive di
traduzione scritta. Non è un caso che i due poli più importanti di quegli anni siano Sapir e Bloomfield e che
entrambi abbiano scritto libri relativi al linguaggio. Sapir è più mentalista e Bloomfield più descrittivista e
comportamentista. I due mondi rappresentavano due modi diversissimi di analizzare l’oggetto. Noi ora
parliamo di COMPORTAMENTISMO quindi ci rifacciamo a Bloomfield e ai strutturalisti descrittivisti
comportamentisti che lo seguivano.

Il comportamentismo era una teoria psicologica molto in auge in quegli anni che aveva come figura di
riferimento Skinner. Comportamentismo significava ipotizzare la lingua come uno dei comportamenti
umani, quindi come abitudini. La lingua non è tanto pensiero, concetto, riflessione, ma abitudini utili per il
vivere sociale. Io imparo la lingua perché imito altri che la usano e, nell’imitare, imito anche l’emissione dei
suoni con tutta una serie di conseguenze. Imparare a parlare significa acquisire una serie di abitudini e
fissarle in maniera automatica.
Nel comportamentismo spesso si fa l’esempio del ruolo della lingua nel contesto sociale. Bloomfield, nel
suo manuale “Language”, si serve di questa esemplificazione: Jill vede una mela su un albero, vuole
mangiare quel frutto e lo chiede a Jack che, arrampicatosi sull'albero, coglie la mela e la dà a Jill. Cioè, come
risposta allo stimolo esterno dell'aver visto la mela si ha l'atto linguistico con cui Jill chiede a Jack il frutto, e
questo atto linguistico è lo stimolo che induce Jack a soddisfare il desiderio dell'amica.
Tutto si riduce a "stimolo-risposta".

Anche la lingua si inserisce in questo meccanismo di stimolo-risposta in quanto uno stimolo non linguistico
genera una risposta linguistica. Jill può dire ‘ho fame’ e questo enunciato linguistico diventa stimolo
linguistico per una risposta non linguistica: Jack sente, capisce e va a cogliere la mela per lei. Quindi la
lingua rappresenta uno strumento che facilita la comunicazione che è una cosa molto meccanica (stimolo-
risposta che possono essere linguistici o meno). Tutto questo nel comportamentismo significa fissare delle
abitudini, perciò quando sono piccolo ho bisogno degli adulti che mi aiutino a capire quali abitudini sono
corrette e quindi da dover fissare e quali sono errate, quindi da non dover fissare. Questo modello dice
comunque che ci sono dei fallimenti. Questi fallimenti avvengono quando non c’è la punizione: in questo
modello si possono fissare comportamenti sbagliati se chi deve insegnare ‘non punisce’, non dimostra che
c’è stato l’errore e non pretende la correzione di esso. Se ciò, appunto, non viene fatto, si fissa l’errore e
quando si fissa l’errore, secondo questo modello, non c’è più niente da fare.
Quindi, trasferendo il tutto in un contesto linguistico possiamo dire che la lingua è un sistema fatto di
regole che lo reggono, ma la comunicazione si basa su una serie di comportamenti automatizzati, ovvero
abitudini linguistiche da dover fissare, che quando non si fissano bene (perché magari non siamo stati
linguisticamente educati bene) fissano l’errore al quale non si può più rimediare.

Anche il concetto di contrastivismo (contrastare= mettere a confronto) è fondamentale in questo modello


perché è necessario che quando si insegna una lingua si metta sempre a confronto la lingua materna e
lingua seconda. In questo modello non si può prescindere dalla lingua materna perché l’apprendente ha già
fissato tutte le sue abitudini linguistiche l'insegnante deve fargliene fissare altre. Per cui, la tua lingua ti
creerà molti ostacoli e l’insegnante, come sostiene questo modello, deve premere su di essi e lavorare
molto sui punti di difficoltà. Se io, ad esempio, ho due lingue molto simili, secondo questo modello, dovrei
lavorare su poche cose che sono veramente diverse perché, in realtà, la L1 dovrebbe influenzare
positivamente la L2.

Negli anni 60 si sono accorti che ciò non era vero perché, anzi, più le lingue si somigliavano, peggiore era il
risultato. L’analisi degli errori ha dimostrato che si commettevano molti più errori se due lingue si
somigliavano. È stato proprio questo periodo a dare vita agli studi sull’interlingua. Quindi abbiamo capito
che non è vero che è tutta colpa della lingua materna, un po’ sì, ma non del tutto perché il processo non è
così meccanico come si pensava, infatti la posizione attuale dice che in realtà ci sono delle strategie
universali che noi mettiamo effettivamente in atto, ma ciò non significa disconoscere l’importanza della L1,
perché se io imparo lo spagnolo partendo dall’italiano o lo imparo partendo dal tedesco, sicuramente le
due lingue materne di partenza creano una qualche differenza durante l'apprendimento. In conclusione, la
lingua materna ha un grosso impatto, ma non è l’unico elemento ad influenzare l’apprendimento in quanto
le strategie universali sono altrettanto importanti.

Quando si parla di lingua materna la parola chiave è TRANSFER che significa trasferimento. Il transfer è
l’etichetta che noi diamo agli errori dell’interlingua dell’apprendente, che hanno come causa la lingua
materna, perché è come se, gli errori, dalla lingua materna si fossero trasferiti dentro l’interlingua. Il
transfer, però, non funziona sempre in modo massiccio (come dice il modello comportamentista
contrastivista). Oggi si dice che solo in parte la responsabilità è legata al transfer. Ciò che ci interessa capire
è, però, quando c’è il transfer? Quando ci sono limiti al transfer? Su quali livelli della lingua esso agisce
maggiormente?
A volte c’è più transfer, altre volte ce n’è di meno. Per esempio, il livello della lingua che subisce in maniera
più massiccia il transfer è il livello fonetico, quindi il livello della pronuncia è quello nel quale noi
trasferiamo la maggior parte delle abitudini linguistiche della nostra lingua materna. Il livello dove
trasferiamo meno errori è la sintassi, la morfologia. Ci sono, dunque, delle differenze e questo tranfer non
è sempre uguale.

LA VARIABILITÀ

Il capitolo sulla variabilità è organizzato in:


 L1
 Ambiente linguistico
 Caratteristiche individuali
 Caratteristiche culturali
 Strategie di apprendimento
La variabilità, ossia la diversa manifestazione dell'interlingua in apprendenti diversi, non solo dipende da
tutti quei fattori, ma si presenta con:
1. Forme diverse, forme dei singoli stadi
2. Velocità di passaggio da uno stadio all'altro
3. Esito finale dell'apprendimento diverso
Non si può mai dire che l'apprendente ha concluso, fino a che non è arrivata la competenza che possa
essere comparabile a quella del parlante nativo; quindi esistono interlingue basiche, intermedie e anche
avanzate, ma spesso non arriva mai ad avere una competenza identica e sovrapponibile a quella del
parlante nativo.
Per quanto riguarda la velocità, ci sono diversi elementi che influiscono sul tempo che serve per passare da
uno stadio all'altro dell'interlingua. Si può essere un apprendente molto rapido oppure lentissimo, che
potrebbe dipendere da fattori propri o da fattori ambientali, culturali: tutti questi fattori influenzano la
velocità.
Nella forma, l'interlingua può avere forme diverse in apprendenti diversi, perché la lingua materna è
diversa e quindi ci sono dei fenomeni in una interlingua e non in un'altra interlingua; perché la motivazione
può essere diversa, ci sono vari elementi che determinano forme, velocità ed esiti diversi (questo è inteso
come variabilità). Oltre alla variabilità, ci sono anche caratteri universali, e questi due elementi vanno di
pari passo, perché quando si impara una lingua nuova qualcosa sarà inevitabile, perché è innato proprio
negli stadi evolutivi dell'interlingua.

Cosa potrà variare l’apprendente? La velocità del passaggio da uno stadio all'altro e come può farlo, su
alcuni elementi può incidere, però alcune cose sono inevitabili: il fatto che l'apprendente per arrivare a
usare la frase relativa nella sua correttezza, debba passare attraverso una serie di stadi, è inevitabile; gli si
deve dare il tempo di attraversare tutti gli stadi previsti da quegli schemi di tipo impulsivo, quindi non si
può pretendere che subito, solo perché gli sono state spiegate determinate cose, lui le acquisisca, è un
apprendimento spesso superficiale. Questa è la prima variabile, il fattore di variazione, quello della lingua
materna.

La L1 influenza notevolmente l'apprendimento della L2:


 Si riconosce facilmente la provenienza di uno straniero
 Lingue tipologicamente affini: decifrabili e più facili da imparare
 Lessico: rietichettare concetti noti in L1
 Non sono esclusi tradizioni letterali della L1

La lingua materna è la traccia che rimane spesso nella voce della persona e lascia soprattutto tracce del
lessico.

Il ruolo della L1
 Anni 50: focus su L1
o Comportamentismo e Contrastivismo
o Apprendimento: fissazione di abitudini linguistiche
 Anni 60: focus sulle strategie universali
o Studi sull'interlingua: dimensione universale del processo di apprendimento
 Posizioni attuali:
o L1 e strategie universali

Negli anni ‘50 c'era una grande attenzione sulla lingua materna, perché la linguistica comportamentista e
contrastivista insisteva moltissimo sul contrasto tra le lingue in confronto e sul fatto che le lingue fossero
abitudini che venivano fissate. Detto questo, chiaramente, per loro era fondamentale guardare come la
lingua materna influenzasse l'abitudine della lingua seconda, quindi se si ha un'abitudine linguistica la si
trasferisce nella lingua seconda; prima di modificare le abitudini, se per esempio chiacchierare è
un’abitudine e non si riesce ad avere il silenzio, si vede se l'abitudine è più sottile, è più evanescente, a
volte dell'abitudine linguistica non si ha idea. Quindi in questo modello: lingua come comportamento,
apprendimento come acquisizioni di abitudini, si mettono a confronto le lingue: dove le lingue sono
diverse, lì ci sarà il problema.
Negli anni ‘60, invece, è venuta fuori una visione diversa, hanno cominciato a studiare le interlingue degli
apprendenti, hanno cominciato a notare che dove credevano di trovare gli errori non c'erano e invece
comparivano gli errori proprio dove non ci dovevano essere, per esempio gli spagnoli che imparavano
l'italiano facevano molti più errori dei tedeschi che imparavano l'italiano. Allora qualcosa non funzionava,
c'era qualcosa che non andava e hanno cominciato a studiare quelle che sono state chiamate interlingue e
accettare delle ragioni che fossero più universali e non legate alle lingue. Concentriamoci quindi sulla colpa
della lingua materna: la sua manifestazione si chiama transfer.

IL TRANSFER
 La manifestazione più importante dell'influenza della L1 è costituita dal fenomeno del transfer.
 Due problemi sono associati a questo termine
1. È associato alle teorie comportamentistiche dell'apprendimento
2. Implica che qualcosa da una lingua venga trasportata nell'altra

Transfer, che significa trasferimento: trasferire significa portare da una lingua all'altra lingua.
Il comportamentismo degli anni ‘50 dava tutte le giustificazioni degli errori, cioè dava al transfer la
responsabilità di tutto.
Qualunque errore, qualunque problema nell'imparare una seconda lingua era definito transfer, quindi c’era
molta responsabilità attribuita alla lingua materna. Anche chi si occupa di interlingua riconosce il transfer,
non è che non esista, però per chi sceglie un approccio che è quello di interlingua, ossia elemento
universale e variabilità, il transfer è una possibilità, mentre per i comportamentisti era tutto, cioè
qualunque cosa era etichettato come transfer.

Il linguista che ha elaborato l’idea di interlingua è Larry Selinker, che ha definito transfer così:
È meglio considerare il transfer linguistico un termine generico per un'intera classe di comportamenti,
processi e condizionamenti, ciascuno dei quali ha a che fare con l'influenza translinguistica, cioè con
l'influenza e l'uso di conoscenze linguistiche precedenti, solitamente ma non esclusivamente della lingua
materna.

Dicendo “precedenti” si passa già a un’altra cosa, per esempio se si studia la lingua materna che è l'italiano,
poi si studia una seconda lingua, per esempio inglese, se si comincia a studiare una terza lingua, come
l'olandese, il transfer è più probabile che arrivi dall'inglese e non dalla lingua materna, ovvero l'italiano,
siccome la lingua inglese è più vicina a quella olandese.

Attenzione, non è banale dire che il transfer è un trasferimento di conoscenze linguistiche da conoscenze
precedenti. Non è solo la lingua materna, sono tutte quelle che si hanno, perché se l’apprendente ha
studiato una lingua che è più affine a una lingua che conosco, ma non alla mia lingua materna, sarà lei la
colpevole del transfer e non la mia lingua materna, quindi si può dire che solitamente, ma non
esclusivamente, è colpa della lingua materna.

Questa conoscenza contribuisce alla costruzione dell'interlingua interagendo in modo selettivo con l'input
della lingua di arrivo e con proprietà universali di vario genere, quindi abbiamo l'input della lingua di arrivo,
abbiamo strategie universali che mettiamo in atto e poi le conoscenze linguistiche della lingua 1, lingua 2 e
lingua 3.

Tutto questo può provocare il transfer, ma come si rileva il transfer? Come si individua? Come si fa a capire
che un errore nell'interlingua è transfer? Come si fa a capire che non sia invece qualcosa di più universale
legato a stadi evolutivi? (Pagina 118)
Rilevare e differenziare
•L’errore di transfer è più vistoso se viola le regole della L2
•Se il transfer non produce errore, questo rimane invisibile
•Il transfer può riguardare anche elementi discrezionali anziché obbligatori e produrre forme poco
frequenti/poco appropriate
•In questo caso il transfer si rileva solo statisticamente con un confronto con la L2.

Se la L2 ha una regola morfologica oppure sintattica, e l’apprendente nella sua interlingua commette un
errore grave, perché fa il contrario di questa regola, viene subito il dubbio che possa essere transfer.

Es. Se si pone un italiano che dice in inglese "rains", questa è una violazione forte della regola dell'inglese
che vuole sempre il soggetto: "it rains"; allora ci si chiede se sarà colpa dell'italiano. Si va a vedere l’italiano
e si nota che l'apprendente dice "piove", si nota quindi una forma sbagliata in maniera marcata. Qui
potrebbe essere un problema di transfer, perché un italiano quando parla inglese, o altre lingue dove il
soggetto deve essere espresso obbligatoriamente, ha spesso difficoltà.

Se invece il transfer c’è stato, ma non ha generato errore non si saprà mai se il transfer c’è stato realmente,
perché all'inizio l'apprendente si aggrappa alla sua lingua materna e ciò gli potrebbe andare bene se
casomai le regole sono uguali. Non sapremo mai se questo è un transfer oppure l'apprendente ha usato la
sua lingua materna, in questo caso parliamo di transfer positivo. Il transfer che genera l'errore, invece si
chiama negativo.

Quindi quando è positivo, in realtà l’apprendente usa la lingua materna per esprimere qualcosa in un'altra
lingua, provando a formare una parola e ciò potrebbe andare bene, se va bene nessuno si accorge che è
stato un transfer. Esempio: l’uso di “strong” (=forte) nella frase “l’amico è forte” viene tradotta “the friend
is strong” ed è corretto, magari c’è stato un transfer, ma in questo caso non si può sapere.
Altre volte, però, la lingua ha più possibilità, non ha una regola rigida. Esempio "sit down" oppure "would
you like to sit down" e sono corrette entrambe. La differenza è un fatto di pragmatica, più gentile e più
cortese, ma sono forme che la lingua usa entrambe. L’apprendente, per transfer, potrebbe usare "sit
down", poiché in italiano c’è "si accomodi", che è molto gentile; ma in inglese la forma "sit down" può
essere anche "siediti" (ordine), in questo caso c’è un italiano che parla inglese, che per gli inglesi è un po'
rozzo/maleducato, poiché invece di dire "per favore, si vuole accomodare" dice "siediti" (ordine).

Non è scorretta grammaticalmente, perché la lingua ha tutte e due le possibilità. Allora in questo caso il
transfer si vede se si conosce la lingua, perché si potrebbe notare, appunto, che è l'influenza della lingua
materna. Questi transfer sono i più difficili da scoprire e di solito vengono fuori soltanto se statisticamente
si va a fare un confronto: quante volte in inglese compare "sit down" oppure "would you like to sit down".
Quindi probabilmente "sit down" sarà meno frequente, e quindi il fatto che l'apprendente lo usa sempre e
usa quella forma significa che sta trasferendo. Anche questo in fondo è un transfer positivo, ma positivo
non proprio corretto, cioè la forma non è sgrammaticata, ma sicuramente pragmaticamente scorretta.

Il livello pragmatico, ossia il livello illuso della lingua è un problema molto complesso, perché l'apprendente
che sbaglia la grammatica commette degli errori tollerabili, invece se sbaglia il lessico è più grave, perché
non si fa capire. Se sbaglia la forma dal punto di vista pragmatico, si tratta di errori sociali molto gravi,
perché in questo caso l'apprendente può sembrare rozzo/volgare/aggressivo, anche se in realtà non lo è e
non lo vuole essere, ma semplicemente sta usando l'intonazione sbagliata oppure non ha usato un verbo
modale, questi sono gli errori più gravi; spesso in classe questa parte della lingua si tratta pochissimo,
soltanto a livelli un po' più avanzati, quindi spesso non ci si sofferma su questo.
C’è la posizione massimalista-tutto il transfer e c’è la posizione minimalista-non c'è il transfer.
In realtà, la posizione più giusta è una via di mezzo, però gli errori di transfer di tipo grammaticale sono
quelli che noi notiamo meglio perché quelli pragmatici sono un po' più difficili da notare. Quelli
grammaticali non sono più del 3-15% di quelli che vediamo nell’interlingua.
Rivelare e differenziare
 Dopo la rilevazione, è necessario differenziare il fenomeno individuato dall'errore di sviluppo che
per caso coincide con la L1: “I no have bike”.
 Posizione minimalista e massimalista: 3-15% degli errori grammaticali dell'interlingua sono dovuti a
transfer.

Il transfer avviene a tutti i livelli:


 Fonologico
 Lessicale
 Sintattico
 Morfologico (livello meno interessato dal transfer)

Il transfer però non si presenta nella stessa maniera in tutti i livelli, perché esistono delle posizioni che
limitano il transfer e lo riducono: a livello fonologico è come se non esistessero i limiti, è il luogo dove il
transfer avviene di più; a livello lessicale, invece, è abbondante; a livello sintattico c'è qualcosa; a livello
morfologico di meno.
Il livello della lingua determina la presenza del transfer, quindi si può cercare con più sicurezza i problemi di
transfer a livello fonologico che a livello sintattico e morfologico.
Il problema dell’interlingua anche a livelli avanzati può non essere completamente superato, si sarà sempre
diversi dal livello dei parlanti nativi. Gli apprendenti più piccoli hanno, appunto, il vantaggio dell’età, che
riescono a non avere l’accento molto marcato, mentre se sono più grandi hanno più difficolta: l’età per
considerare un apprendente più grande è di circa 12 anni. Quando l’apprendente cresce, il sistema fonetico
si irrigidisce.

(Pag. 120) Il transfer può assumere l'aspetto di una sostituzione di un suo elemento con uno della L1, di una
omissione, o di una aggiunta. Quello più facile da rilevare e da correggere è quello lessicale, perché c'è
molto nella prima fase, ma poi scompare. Spesso la colpa di questo è la somiglianza tra le parole della
propria lingua e quelle della lingua d'arrivo. Es: “library”-“libreria”.
Nella sintassi, per esempio in inglese, si dice “I take always the train”: è un errore sintattico, perché le
parole sono corrette, però si nota la struttura sintattica trasferita dall'italiano "prendo sempre il treno".

Il livello morfologico è quello che viene portato di meno dal transfer, perché è difficile che io trasferisca
nella L2 la mia forma di plurale, passato o di diminutivo con una parola che non è la mia; quindi sono
situazioni molto rare.

Costrizioni che limitano il transfer


 Livelli di analisi
 Livello di competenza linguistica dell'apprendente
 La marcatezza degli elementi trasferiti
 La loro prototipicità
 La distanza tra le due lingue
 I principi naturali dello sviluppo

Guardando questi livelli dal punto di vista della costrizione, ossia ciò che limita il transfer, si può dire che il
livello di analisi è determinante, rispetto alla quantità del transfer perché è decrescente dal livello fonetico
e fonologico fino a quello morfologico. Sapendo questo, sarebbe importante nei corsi di lingua dare più
attenzione alla pronuncia, ma spesso gli apprendenti si stancano di fare attività di pronuncia della lingua ai
livelli intermedi, perché pensano di dover studiare tanta grammatica, quindi non danno importanza alla
fonetica.
(Pag. 124) Il livello di analisi è uno dei motivi della limitazione del transfer, però anche il livello di
competenza linguistica è una caratteristica che può limitare il transfer, perché il transfer avviene
soprattutto nei livelli iniziali, poi l'apprendente si stacca dalla propria lingua materna e comincia ad usare
strategie di tipo generale rispetto al transfer.

Ricapitolando. Livello di analisi: fonetica, lessico, sintassi e morfologia, quindi si va dal massimo del transfer
al minimo del transfer; livello di competenza linguistica: si va dal massimo del transfer al livello iniziale
basico, dal minimo del transfer a un livello avanzato.

LA MARCATEZZA

La marcatezza è una nozione relativa, non assoluta, ma differenziale. Un elemento non è marcato, cioè che
ha qualcosa di diverso rispetto a ciò che si considera di base. Un elemento non è marcato da solo, non
esiste qualcosa che sia marcato da solo, ma è un concetto che funziona solo se si ha un contrasto,
un'opposizione, un confronto, e infatti il concetto di marcatezza è nato in Europa, nella linguistica europea
e nel funzionalismo europeo, quando è nata la fonologia.

Esempio non linguistico: Non si può dire che i capelli rossi/neri/lisci/ricci siano marcati, i capelli non sono
marcati, sono capelli e basta, e hanno tante manifestazioni. Ma se in una classe media si va a contare il
colore dei capelli, su 100 persone facendo un confronto tra i componenti della classe, rosso è un colore che
risulta essere raro, poco frequente, mentre il colore basico è il castano. Quindi si nota che ci sono dei
concetti che non sono assoluti delle caratteristiche, ma se si fa un confronto, un'opposizione, ci può essere
uno dei due elementi che risulta meno frequente, più raro.
L'elemento meno frequente è l'elemento marcato, l'elemento più frequente è quello non marcato.

Esempio linguistico: Se si ha una categoria morfologica come quella dell'opposizione di genere, maschile o
femminile, ho un'opposizione di per sé di morfema che indica il maschile o quello che indica il femminile,
non avrebbe nulla che li rende più marcati o meno marcati, ma nel sistema della lingua italiana sono in
opposizione.

Come si fa a dire qual è marcato dei due? Perché ogni volta che c'è una posizione, uno dei due è marcato, si
deve vedere la frequenza nei contesti di opposizione. Esempio. I ragazzi sono entrati in classe/le ragazze
sono entrate in classe. In un caso si indica che sono entrati sia i ragazzi che le ragazze, nel secondo caso si
indica che sono entrate solo le ragazze. Se si vede una posizione grammaticale nella lingua italiana, si sa che
il femminile si userà solo nella metà dei casi in cui si può usare la forma maschile oppure meno della metà,
perché è come se si dividessero in 3 gruppi: si ha il maschile che si usa anche quando non si vuole indicare il
genere delle persone che sono entrate in classe.
Quindi in italiano il femminile grammaticale indica, in questo caso, le ragazze e basta; se non si vuole
indicare maschi e femmine si deve usare il genere grammaticale maschile. Nell'opposizione morfologica di
genere si hanno due generi, ovvero maschile e femminile, marcati morfologicamente, dei due il marcato è il
femminile perché è quello che non compare nei contesti di neutralizzazione, cioè nei contesti in cui non si
vuole indicare una caratteristica. La forma più semplice è quella non marcata, perché è quella più
frequente. La forma non marcata compare nei contesti di neutralizzazione, l'altra compare solo quando
deve comparire.

Dal punto di vista lessicale si possono avere forme marcate e non marcate.
Esempio. Se diciamo fanciullo o bambino, fondamentalmente il referente è lo stesso, però quella usata
sempre è bambino; se invece si decide di usare fanciullo, si usa la forma marcata, perché si vuole
sottolineare che si stia usando la forma rara, una forma stilisticamente più antica.

Es. Spesseggiare = comparire spesso. Questa forma lessicale è stata scelta dall'oratore per dare
immediatamente a chi ascoltava una forma marcata. A livello lessicale, le forme marcate possono essere
tante: quando trasferiamo, quando facciamo un transfer, non è la forma marcata della mia lingua che si
trasferisce, ma è la forma non marcata. Questo vale per la sintassi, morfologia e il lessico.
Quindi la marcatezza fa sì che io non lo trasferisca nella L2. Se si dovesse dire in inglese qualcosa per
indicare una certa frequenza, è molto improbabile che ci venga in mente la parola "spesseggia", perché fa
parte di un contesto marcato che non si presta al transfer.

I primi studi sulla marcatezza sono nati sullo studio dei suoni della fonetica, perché non esiste un fono che
non può essere marcato perché è difficile, è marcato solo se nella lingua si oppone a un altro suono che è
molto più frequente e che compare anche nei contesti di neutralizzazione. Un altro concetto relativo è
l'apertura vocalica, le lingue come la nostra hanno la caratteristica di avere vocali aperte e chiuse.
ESEMPIO. Venti = numero, venti = vento. Il sistema della lingua italiana usa un’apertura vocalica funzionale,
quindi per gli italiani questa opposizione è molto importante. Se c’è un’opposizione ed è funzionale,
sicuramente uno dei due è marcato, rispetto all’altro. Non si può inventare quale sia delle due, ma bisogna
provarlo andando a vedere cosa succede nei contesti di neutralizzazione.

In questo caso, i contesti di neutralizzazione sono dati dallo spostamento dell’accento, poiché queste
opposizioni sono dati solo nelle sillabe toniche. Nell’esempio di prima, entrambe hanno sillabe toniche,
quindi si deve attuare un altro mezzo, quello del derivato. Con “venti” (numero) si può creare “ventina” e
l’accento si sposta in un’altra sillaba, quindi la “e” di “venti” si trova ora in una sillaba atona, che è contesto
di neutralizzazione in questa opposizione. Con “venti” (vento) si può creare “ventoso”, spostando l’accento.
Quindi la “e” in entrambe le parole sarà chiusa. Allora se compare la “e” chiusa dove prima c’era una volta
la chiusa e una volta l’aperta, sarà marcata la vocale aperta. Quindi in italiano, nell’opposizione vocalica
aperta-chiusa, la vocale marcata è l’aperta.

La marcatezza quindi è semplicemente un concetto differenziale, in cui, in opposizione, uno dei due
elementi risulta più frequente perché compare anche nei contesti di neutralizzazione. Si può trovare a
livello fonetico, morfologico, lessicale e sintattico. È più facile che si trasferisca un elemento non marcato,
rispetto a un elemento marcato.

LA PROTOTIPICITÀ (Pag. 128)

La prototipicità è un concetto che deriva dagli studi di psicolinguistica. Il prototipo rappresenta, in una
categoria, l'esemplare migliore nella categoria. Per essere l'esemplare migliore, significa che ha tutte le
caratteristiche necessarie per definire quella categoria. Il prototipo è culturalmente determinato.
Es. Considerando i recipienti che contengono del liquido da bere, se questo liquido è caldo, al centro di
questa categoria (categoria di contenitori di liquidi caldi da bere) poniamo una tazza, ma può esserci anche
un bicchiere, che però non è al centro della categoria, ma verso la periferia.

Il prototipo non è mutabile nei secoli dei secoli, dipende dal contesto culturale del momento, quindi la
categoria può avere anche prototipi che cambiano. Ogni volta che si parla di prototipi, si immagina
un'organizzazione del lessico, e dunque dei concetti di una lingua in insiemi, in cui c'è al centro il
rappresentate migliore, quello che ha tutte le caratteristiche per essere il rappresentante della categoria, e
poi, a distanze variabili dal centro, altri elementi che condividono una o più proprietà con il prototipo; a
volte finiscono per essere esemplari di un'altra categoria.
Quando abbiamo un transfer dalla nostra lingua materna a un'altra lingua materna, sono i prototipi che
vanno, non sono gli elementi marginali della categoria. ESEMPIO. È probabile che io trasferisca tazza e non
ciotola, zuppiera, piatto, perché al centro della categoria c'è tazza.

La distanza tra le due lingue

La tipologia non c’entra con la parentela, le lingue possono essere imparentate, ma distanti; non parenti,
ma vicine tipologicamente. La tipologia morfologica è quella più diffusa, le lingue più distanti non si
prestano al transfer. Per esempio, tra l'italiano e il cinese ci saranno pochissimi transfer, al massimo solo
fonetici, ma non gli altri livelli, come quello lessicale o sintattico.
È molto difficile che arrivi un transfer lessicale dal cinese all'italiano, quindi la distanza tipologica limita il
transfer e poi c’è una serie di principi naturali. Le sequenze acquisizionali sono un freno al fatto che ci sia un
transfer, per esempio la negazione che prevede degli step, delle sequenze acquisizionali da esterna, interna
e poi flessa. Non importa se la lingua ha la negazione fatta in un modo o in un altro modo, è improbabile
che avverrà il transfer perché sulla negazione agisce una sequenza acquisizionale che è legata a un principio
universale, quindi le due cose si incrociano e si limitano l'una con l'altra.

SINTESI

Caratteristiche individuali che influenzano l’apprendimento di una L2


 Età
 Motivazione
 Intelligenza
 Attitudine
 Stile cognitivo
 Personalità

Affrontiamo altri punti relativi alla variabilità. (pag 131-145)


Successivamente si parla delle caratteristiche individuali, cioè che cosa è tipico del singolo apprendente che
caratterizza poi il modo in cui evolve la sua interlingua. Una delle prime caratteristiche che viene presa in
considerazione è l’età. Ho 10 anni, 20, 50… fa una differenza la mia età?

Il secondo invece è la motivazione: perché studio una lingua straniera? Perché mi piace? Perché mi piace il
paese, la cultura? O perché mi serve? O perché qualcuno mi ha obbligato?
Un’altra caratteristica è l’intelligenza, poi l’attitudine, stile cognitivo e personalità. Sono tutti elementi
delle caratteristiche individuali.

1. Caratteristiche individuali: età


Età
 Periodo critico (Lenneberg, 1967)
o Lateralizzazione
o Graduale
o Non netta divisione delle funzioni linguistiche fra i due emisferi
 Velocità di apprendimento bambini vs adulti
o Sintassi e morfologia più veloci gli adulti nella L2
o Fonetica e grammatica
o Esito finale?
o Periodi critici?
o Maldisposizione biologica

Quando si parla di età si fa riferimento soprattutto ad un concetto, quello di periodo critico, ovvero
momento importante dello sviluppo della persona che stabilisce il completamento della lateralizzazione.
Chi ha parlato di periodo critico è stato Lenneberg. La lateralizzazione: il cervello umano è diviso in due
emisferi, a differenza del cervello degli animali, il nostro lavora in maniera ottimale perché i due emisferi si
sono specializzati in alcuni compiti.
L’emisfero di sinistra è quello principale, legato alla logica, matematica, ragionamento analitico, al
linguaggio. La lingua sta nella stessa area celebrale dell’analisi.
L’emisfero di destra analizza la sintesi, le immagini, i suoni, il ritmo, la musicalità. Quando parliamo di
‘ritmo’, intendiamo che anche alcuni elementi della lingua come l’intonazione, la prosodia, l’uso della lingua
in maniera metaforica. Questa specializzazione si chiama LATERALIZZAZIONE.
Lenneberg dice che c’è un momento in per il linguaggio, la lateralizzazione si conclude. Questo periodo, che
lui ha definito critico, lo ha definito così perché dopo questo periodo imparare una lingua nuova è più
difficile.
La lateralizzazione rende il nostro cervello meno elastico, quindi imparare una nuova lingua può risultare
complicato.

Lenneberg diceva che verso i 12/13 anni c’è questo periodo critico, il momento in cui la lateralizzazione si è
completata e quindi diventa più difficile imparare una lingua nuova.

In realtà sembra essere una cosa graduale, che inizia subito e progredisce nel tempo e soprattutto non è
possibile pensare che la lingua sia tutta quanta solo e soltanto dell’emisfero sinistro. In realtà anche
l’emisfero destro ha una capacità linguistica.
In realtà non c’è molta connessione tra i due, lo vediamo quando facciamo un incidente e viene
danneggiato l’emisfero sinistro, alcune persone riescono a recuperare la lingua perché mettono in atto le
capacità dell’emisfero destro. Le donne più degli uomini e i bambini più degli adulti.

Negli anni 60 quindi si pensava che la lateralizzazione avvenisse tutta insieme, ed una volta avvenuta si
aveva l’impressione che non si potesse fare altro, tutto diventava più difficile. In realtà la lateralizzazione è
graduale, i due emisferi non sono poi così diversi.
Sempre relativamente alla lateralizzazione sono stati molto interessanti gli studi riguardanti la velocità di
apprendimento.
Un altro “mito” delle lingue è che i bambini siano velocissimi ad imparare la lingua, mentre gli adulti no.
Questo però sotto gli occhi di alcuni studiosi è risultato falso, ci sono alcuni aspetti di una lingua che
l’adulto riesce a comprendere molto facilmente, ad esempio la sintassi oppure la morfologia. Quest’ultima
è quella che riguarda la grammatica di una lingua, e la imparano molto più velocemente gli adulti rispetto ai
bambini, questo accade sia in contesti naturali che in contesti guidati.
La fonetica però è il grande dramma degli adulti, i bambini riescono ad acquisirla molto più facilmente.
Guardando questi diversi comportamenti riusciamo a capire che non sempre riesco ad avere la fonetica di
un parlante nativo, la grammatica o la fonologia.
Alla fine è venuto fuori che probabilmente ci sono tanti periodi critici. La fonetica, forse, ha un periodo
critico molto anticipato. Probabilmente è collocato intorno ai 3-4 anni, dopodiché imparare un sistema
fonetico che non appartiene alla nostra lingua diventa molto complicato. Al contrario invece per la sintassi
e la morfologia, il periodo critico è intorno ai 18 anni; per il lessico non c’è nessun periodo critico.
Jacobson nei suoi studi ha fatto notare come il bambino costruisce seguendo una certa scala e quando noi
perdiamo la lingua è come se perdessimo tutto dall’ultimo step andando indietro, quindi le prime cose che
abbiamo imparato sono quelle che non dimentichiamo.

In sintesi: l’età è importante? Sì, parzialmente. Perché è importantissima per alcuni aspetti della lingua (la
fonetica). Invece per altri livelli della lingua i periodi critici sono spostati più in avanti, perché più sei grande
più acquisisci velocemente morfologia, sintassi e lessico.

Come è fatto il cervello di un bilingue?

 L’emisfero sinistro è specializzato nelle funzioni del linguaggio


 L’emisfero destro prevale nella cognizione dello spazio nella regolazione dell’emotività. È implicato
nella produzione e comprensione di metafore, dell’ironia e ad altri aspetti pragmatici del
linguaggio.

Per quanto riguarda la distribuzione delle lingue nel cervello di un bilingue: l’emisfero sinistro si specializza
nelle funzioni del linguaggio ma anche quello destro, più legato alla emotività, è un emisfero importante
perché ci aiuta con la metafora, l’ironia è vari aspetti della pragmatica della lingua. Ci sono dei soggetti che
hanno disturbi all’emisfero destro, che parlano e capiscono benissimo, ma non riesco a ridere alle
barzellette, perché la interpretano in maniera letteraria. Significa: non essere in grado di capire quando il
mio interlocutore sta utilizzando una frase in senso ironico.
Danesi, un neuro-linguista, afferma che l’emisfero destro ha un ruolo fondamentale nel l’acquisizione della
seconda lingua, per tutti quegli aspetti che però non sono strutturali.
Nell’emisfero sinistro troviamo: morfologia, sintassi, fonologia.
Nel destro invece: prosodia, espressività della frase, senso metaforico.
ES: QUELLA RAGAZZA FA LA GATTA MORTA
Se ho questo tipo di ‘problema’ all’emisfero destro, immaginerò una ragazza che è un gatto ed è anche
morto. Quindi non riuscirei a capire il senso della frase.

2. Caratteristiche individuali
Motivazione
 Skehan (1989)
o M. intrinseca
o M. risultativa
o M. interna
o M. del bastone e della carota
 Gardner/Lambert (1972)
o M. integrativa
o M. strumentale
- M. strumentale generale e M. strumentale particolare

La motivazione (pag.151) è una di quelle cose che è stata variamente descritta.


Lo schema più semplice è quello di Gardner e Lambert degli anni ’70 che vedeva una motivazione di tipo
integrativo e una motivazione di tipo strumentale.
Strumentale significa: la lingua mi serve per…
Integrativo: desiderio di far parte di una comunità; un bisogno diverso da quello strumentale.
Secondo Gardner e Lambert sembrava che la motivazione integrativa dovesse dare dei risultati migliori
rispetto a quella strumentale.
Una motivazione esterna rispetto ad una interna di solito è meno efficace.
Una motivazione esterna giunge come ‘obbligo’. Esempio: vengo all’orientale, voglio studiare spagnolo e
scopro che se voglio studiare mediazione linguistica non posso studiare inglese e spagnolo insieme. Mi
rassegno, perché voglio fare per forza mediazione linguistica, e quindi scelgo tedesco ed inglese. La scelta è
mia o è esterna?
Quando qualcuno ci dice che per il nostro futuro è meglio qualcosa di qualcos’altro, noi ci lasciamo
condizionare da un fatto esterno.

3. Caratteristiche individuali
Intelligenza
L’intelligenza è una di quelle cose che in realtà conta poco per le lingue. L’intelligenza può influenzare
positivamente lo studio formale della lingua, ma in realtà non è mai stata mostrata una relazione positiva
forte tra l’intelligenza e la capacità di parlare benissimo una lingua.
L’intelligenza la teniamo presente ma non è un fattore che incide molto.

4. Caratteristiche individuali
Attitudine
 Abilità di codificazione fonetica;
 Sensibilità grammaticale;
 Abilità di memorizzazione materiali linguistici;
 Abilità di imparare induttivamente.
L’attitudine (pag.153) invece è estremamente interessante. Purtroppo è già in noi, è un fatto biologico.
Ognuno di noi è predisposto a studiare una lingua, oppure non lo è proprio.
Si basa sulla capacità di codificare e decodificare i suoni. Quando ascolto una persona che non parla la sua
lingua, posso riconoscerlo. Alcuni sono bravissimi ad imitare, altri non ci riescono mai.
Chi ha questa capacità in maniera sviluppata sarà sempre migliore di me.
Un’altra capacità, è la sensibilità grammaticale che è capace di canalizzare il flusso sonoro e di identificare i
componenti. Ed è una capacità che non tutti hanno, così come la memoria. La memoria è una questione
anche di esercizio.
Io posso avere la capacità di ricavare le regole poi forte di altri, invece ci sono alcuni che necessita una
spiegazione.

Questo problema dell’attitudine è molto interessante, il libro si sofferma su questo, perché esistono vari
test: uno dei più famosi è il Modern Language Aptitude Test (MLAT), ne esistono anche altri fatti in questa
maniera, che non Italia ma in molti paesi anglosassoni, è l’unico test che si fa se si decide di studiare le
lingue (se non si supera, si passa ad un’altra facoltà).
Quindi questo è interessante perché se si vanno a vedere i siti di alcune importanti università britanniche e
quindi la facoltà di lingue, si potrà constatare che è obbligatorio il MLAT, il che non significa che chi lo
sostiene sa una lingua.
Quando vi iscrivete all’Orientale, cosa vi fanno fare? Un test d’inglese per chi deve studiare inglese, è però
un’altra cosa: è una verifica del livello di competenza della lingua, perché si dice “se non hai almeno il B1 è
meglio che studi un’altra lingua, perché inglese lo fanno tutti e quindi meglio partire da un livello
intermedio”. Questo non è il MLAT, perché questo test lavora con lingue che non esistono, cioè sono
parole, frasi di lingue che non esistono, sono test che verificano quanto riuscite a codificare i suini, se e
quanto riuscite a memorizzare se vi costruite la sintassi o la morfologia di alcuni elementi.
Quindi noi ci possiamo piazzare in alto, a livelli intermedi o bassissimi. Se si è scarsissimi manca l’attitudine,
quindi quell’elemento che è nel patrimonio biologico che ci fa diventare un ottimo apprendente di lingua.

Anche negli Stati Uniti usano moltissimo il MLAT, quindi attenzione perché la motivazione, l’intelligenza
sono cose diverse, ma l’attitudine per molti paesi è discriminante proprio sul fatto che poi si studino o
meno le lingue.
Se dico “ma ti piace lavorare a lezione di lingua individualmente, a coppie, in piccoli gruppi, tutti insieme?”:
sto facendo delle altre domande, sto chiedendo qualcosa di diverso, sto cercando di capire non perché
studi una lingua e neanche quali sono le tue capacità biologiche, ma come ti piace studiare. Sto cercando,
quindi, di sfiorare uno stile cognitivo. Ognuno di noi ne ha uno proprio.
Il problema della scuola e dell’università forse, è che si appiattisce tutto, cioè c’è una proposta formativa:
se avete l’insegnante che fa fare solo lavori individuali, vi troverete a fare solo questi, l’insegnante
appassionata ai lavori di coppia vi farà fare spesso questi lavori. Non tutti siamo predisposti a lavorare bene
con tutte queste tecnologie: potrei essere favoloso nel lavoro individuale e non riuscire a lavorare in
coppia, la scuola pretende che io lavori sempre in coppia, mi adatto ma potrei essere un eccellente
apprendente individuale. È una colpa? Non lo so, è uno stile, cioè potrei non trovarmi allineato con uno
stile che magari sceglie l’insegnante per motivi anche di norme pedagogiche, decide che si deve fare
Cooperative Learning e io mi trovo a disagio, non volendo lavorare in gruppo nel quale potrei essere
costretto a fare tutto io, gli altri magari stanno là a ridacchiare e poi alla fine il prodotto è di gruppo. Allora
perché non posso fare il lavoro da solo o con qualcuno scelto da me? Invece ci sono quelli che nel gruppo si
trovano benissimo.

A casa preferisci studiare da solo, con un amico, in gruppo? A lezione memorizzi meglio prendendo appunti,
ascoltando l’insegnante, copiando alla lavagna, facendo domande ed intervenendo? Per esempio alcuni di
noi imparano meglio ascoltando, altri leggendo, altri hanno bisogno di avere il testo davanti e ascoltare la
voce che ripete. Ascoltare è un problema, perché dipende da come porge la lezione l’insegnante, perché se
la presenta non a mo’ di lezione, quindi lenta, ripetendo delle cose. Perché ad esempio l’insegnante mette
le slide? Perché in classe ci sono anche quelli che vogliono vedere oltre che ascoltare, e quelli che scrivono
perché hanno bisogno della scrittura per concentrarsi di più.
Immaginiamo in una lingua straniera, è ancora più difficile, devo scrivere perché credo di fissare meglio le
cose. Studio a casa, il libro davanti, più matita ed evidenziatori. Questi ultimi sono cose diverse, la matita
può essere cancellata, i diversi colori dell’evidenziatore hanno un senso. Chi sottolinea tutto sta lavorando
in maniera diversa da chi sottolinea solo alcune cose in modo che aprendo la pagina trova subito le cose più
importanti. Non stiamo dicendo cosa è meglio o cosa è peggio, ma stiamo dicendo che gli stili cognitivi
possono essere molto diversi. C’è chi per esempio impara meglio studiando a memoria, per i cinesi la
riproduzione fedele del testo è valore aggiunto, in Italia invece è copia. Vediamo quindi come due stili
diversi possono essere valorizzati in maniera diversa culturalmente. Si può imparare anche facendo schemi
o riassunti, quindi diciamo che uno sceglie di impiegare tantissimo tempo. C’è chi ha necessità di ripetere
ad alta voce. Con questo vogliamo dire che non esiste quindi uno stile cognitivo che sia migliore di un altro
e non è neanche vero che ci siano quelli femminili e quelli maschili; diciamo che un insegnante dovrebbe
usare e valorizzare un po’ tutti gli stili, in modo da non danneggiare lo studente che ha uno stile cognitivo
diverso.

Ci sono tantissime persone che soffrono di dislessia, ossia un disturbo della codifica fonologica della lingua
creando difficoltà nella lettura, nella scrittura.
Questo non significa nulla sulla capacità di memorizzare, d’imparare, sull’intelligenza, ma se io insegnante
per esempio non tengo presenti anche alcuni di questi elementi, potrei ritrovarmi in classe un allievo che
risulta il peggiore, solo perché io do sempre un certo tipo di compiti.
L’insegnante che entra in classe e dice “apriamo il libro e inizia tu a leggere” si mette a rischio, perché una
persona potrebbe leggere benissimo in italiano e stentatamente in inglese per colpa di una lieve dislessia, la
quale si può manifestare anche in una lingua e non in un’altra perché la scrittura rende le lingue compatte
o trasparenti. L’inglese è una tipica zona problematica per cui io potrei manifestare una forma di dislessia
lieve nella lettura ad alta voce in quella lingua e questo non è detto che l’insegnante lo capisca, a volte
neanche l’allievo capisce di avere questo problema, crede solo di avere quest’odio per l’inglese.

Esistono stili cognitivi che si dicono dipendenti dal campo e indipendenti dal campo.
Quelle dipendenti dal campo sono le persone che quando devono elaborare un'informazione non riescono
ad elaborarla separandola dall'insieme, è come se avessero difficoltà a enucleare l'informazione minima
tirandola fuori da quella più ampia; ci sono persone invece che non hanno questo problema, non si lasciano
confondere da tutta l'informazione che chiamiamo Campo, e immediatamente riescono a cogliere gli
elementi principali dell'informazione.
Chi ha uno stile cognitivo dipendente dal campo potrebbe faticosamente, dopo aver letto una pagina,
rispondere a delle domande nelle quali si chiedono cose puntuali, avrebbe bisogno di ritornare sul testo
perché è come se non riuscisse a separare le informazioni.

Fattori affettivi: sono legati a stati d'animo e momenti particolari, per esempio l'ansia. L'ansia
apparentemente sembrerebbe una cosa negativa, però esiste un'ansia facilitante e una debilitante.
Quest'ultima distrugge, l'altra è uno stato di tensione necessario per farvi rimanere nella memoria tante
informazioni. Se andate a fare un esame profondamente debilitati da un'ansia che vi distrugge, vi sudano le
mani, allora è negativo; se prima prendete 10 camomille e un tranquillante, l'esame andrà male perché vi
siete troppo calmati. Quando bisogna eseguire un compito, l'ansia facilitante vi fa venire in superficie
informazioni e nozioni, l'ansia non è quindi negativa di per sé.

Estroversione e introversione: (il libro a parere della prof mette in maniera sbagliata l'argomento BICS e
CALP, sappiamo già che sono due diverse modalità di acquisire lingua che si sviluppano l'una in maniera
naturale in un contesto di comunicazione quotidiana, e l'altra solo in contesti scolastici di formazione).
Un altro fattore affettivo è quello legato all'essere introversi ed estroversi. Il migliore apprendere è
l'estroverso perché parla, le lingue sono comunicazione, interazione; l'introverso può essere un eccellente
apprendente di latino antico ad esempio. Questo non significa che l'introverso non riesca ad imparare una
lingua, ma è stato dimostrato che è molto più facile per l'estroverso.
Chi ha stima di sé, empatia sono caratteristiche che aiutano, così la sensibilità, la critica e l'inibizione
possono invece frenare. Diciamo che i fattori affettivi sono un grande calderone dentro al quale c'è di tutto,
però sicuramente hanno il loro ruolo per il modo in cui noi ci porgiamo nei confronti del gruppo. Se io sono
un estroverso che ha stima di sé, che è abbastanza disinibito, che è anche una persona che al momento
giusto sa sfruttare quell'ansia minima a suo favore, sono sicuramente messo meglio rispetto a uno che
soffre di ansia debilitante, che è introverso e molto poco self-confident.

Caratteristiche culturali.
Come possono aspetti culturali determinare la variabilità dell'interlingua? A questo proposito dobbiamo
studiare il Modello dell'Acculturazione proposto da Schumann.
Schumann è andato a studiare, a verificare quali fattori nella società ospitante potessero influire sul fatto
che io imparo o non imparo bene una lingua. Ciò dipende dalla cultura nella quale mi trovo ad essere
inserito. E in questo modello Schumann ha studiato un soggetto, appunto Alberto, il quale aveva problemi
nell’apprendimento dell’inglese, era un immigrato, non migliorava.
Analizzando il soggetto in questione Schumann ha elaborato il modello che prevede una serie di elementi
legati alla distanza sociale. Essa riguarda come il gruppo riesce ad integrarsi all’interno di una società che lo
ospita.

Esempio: io mi trasferisco in un paese nuovo, devo imparare la lingua, sarà importante il modo in cui io mi
inserisco nella società.

La distanza sociale è composta da vari elementi:

 Il primo è la Dominanza: spesso il mio gruppo di appartenenza e il gruppo che mi ospita non sono
pari culturalmente, uno dei 2 si sente dominante.
 L’integrazione: è la capacità di perdere parte delle proprie caratteristiche e acquisirne di nuove
rispetto al gruppo che mi ospita.
 Chiusura: i gruppi possono essere chiusi o aperti. Il primo si vuole proteggere, l’altro è invece
disponibile all’interazione. È chiaro che un gruppo che si sente dominato, che sente che non vuole
integrarsi, si chiude completamente e diventa impermeabile anche linguisticamente.
 La coesione: è la forza dei legami che ci sono dentro un gruppo. Un gruppo può essere molto coeso
o poco coeso. Un gruppo come quello dei cinesi a Napoli è coeso e chiuso, ciò comporta spesso che
anche dopo 10 anni in Italia non conoscano l’italiano.
 La dimensione del gruppo: un gruppo piccolo deve essere per forza aperto, uno grande si può
anche chiudere.
 Congruenza, atteggiamento e intenzione: l’intenzione è il progetto migratorio che può essere a
breve o lungo termine. A breve termine non ci si impegna con la lingua, al contrario, a lungo
termine la lingua sarà fondamentale. L’atteggiamento è dato dai sentimenti e dalle opinioni che un
gruppo ha nei confronti di un altro gruppo. La congruenza è la somiglianza culturale, più siamo
diversi e più ci vuole sforzo. Due gruppi congruenti hanno una facilità maggiore ad apprendere uno
la lingua dell’altro. Tra due gruppi distanti scattano molti problemi.

Dunque il modello dell’acculturazione vuole dirci che esiste questa distanza sociale che può essere poca o
enorme, se è enorme avrò difficoltà ad imparare la lingua dell’altro. Questo modello fino ad un certo
periodo era accettato in maniera molto rigida, ora invece viene accettato come parte di un complesso in cui
rientrano anche altri fenomeni, cioè non è solo colpa della distanza sociale se io non imparo una lingua,
potrebbe essere la L1, la motivazione, la mia personalità, l’attitudine e altre cose.
RIPASSO GENERALE

Partiamo con un tipo di approccio che piano piano ci ha portati a quello che avviene quando un
apprendente cerca di capire e rettificare una nuova lingua quindi tutta l’importanza dell’input, dell’ascolto
e comprensione di una lingua nuova.
Abbiamo affrontato ciò che succede quando comincia a parlare, analizzando l’evoluzione dell’interlingua
osservando gli aspetti legati al lessico e alla morfologia, ai vari elementi dell’interlingua concentrandosi su
una prospettiva di ricerca dei meccanismi universali.
Successivamente abbiamo analizzato la variabilità quello che rende alla fine l’interlingua di ciascun
apprendente diversa.

Le motivazioni posso essere tante, le principali sono:


 L’età dell’apprendente
 L’attitudine (un qualcosa di descrivibile in termini di caratteristiche specifiche dell’apprendente su
vari livelli).
 Stili cognitivi, motivazione vari fattori.

Oltre ai fattori interni ci sono i fattori esterni come:

Fattori di tipo colturale (analizzando nel dettaglio il modello della strutturazione di Shuman, dove si cerca di
capire come i fattori socio-linguistici non esattamente legati al singolo ma alla comunità, possono
influenzare l’esito).
Abbiamo analizzato ciò che è tendenzialmente uguale per tutti gli apprendenti fino ad arrivare a quanti
fattori possono influenzare l’esito finale.
Abbiamo parlato anche della lingua 1, quindi tanti elementi.
Sull’apprendimento di una lingua i fattori rilevanti tra coetanei possono essere: problemi cognitivi,
l’attitudine allo studio, il modo in cui vi è stato offerto l’input, problemi di memoria.

Risale agli anni 30 la teoria del contrastivismo. È stata la madre delle ipotesi forti del transfer nel periodo in
cui il contrastivismo è stato importante, il transfer costituiva uno dei motivi principale per i quali
l’apprendente commetteva errori. Tutto era colpa del transfer perché tutta la visione dell’acquisizione della
lingua si basava su un processo di contrasto tra la propria lingua materna e la lingua che si andava ad
imparare. (Di base abbiamo la linguistica strutturalista comportamentista e come quadro psicologico c’era il
comportamentismo di Skinner).

L’ipotesi comportamentista è un’ipotesi che vede la lingua con basi come una serie di abitudini e il tutto si
descrive come una catena di stimoli e risposte.
Le risposte possono essere linguistiche o non e possono esse stesse diventare stimoli linguistici per altre
risposte e quindi si creano delle catene di stimolo-risposta che sono molto meccaniche mancando di
creatività (come il camminare o il respirare).
Le cose principali sono la pratica, l’esercizio per far diventare automatiche delle reazioni linguistiche non
devo costruire o elaborare ma produrre nella maniera più spontanea possibile.
L’effetto finale della pratica è un risultato che secondo questo modello deve essere anch’esso perfetto
l’errore in questo modello (l’errore è la finestra della conoscenza reale dell’apprendente).
Errori sono forme non corrispondenti al target che però nell’interlingua noi impareremo ad analizzare,
attraverso questi cosiddetti errori cerchiamo di capire cosa sta avvenendo nella costruzione del sistema
dell’apprendente.

Nel contrastivismo se tutto deve essere meccanico io devo evitarlo l’errore appena l’errore compare devo
correggerlo, se io non lo correggo secondo questo modello, si fissa una forma sbagliata di difficile
cambiamento.
In questo modello si doveva avere una pronuncia perfetta, il più simile al nativo parlante.
Si concentravano con esercizi incentrati sulla pronuncia.
 Scomposizione: il modello di base è quello del sistema in cui ci sono elementi che si combinano e
che io devo imparare a separare e combinare.

Nella lingua materna (dove ovviamente non c’è il contrasto con nessuna lingua) loro ritenevano che si
imitava tantissimo e facevo tanta pratica (Come i bambini che ricevono input dagli adulti).
In questo metodo si inizia a modificare, scomporre, manipolare la conoscenza attraverso la pratica.
La mia lingua materna è la prima prova incomincio ad acquisire abitudini linguistiche poi quando imparo la
seconda lingua queste abitudini interferiscono con quelle che dovrei acquisire nella lingua 2 e quindi
abbiamo il transfer.

Transfer può essere:

 Positivo: non si nota, è l’apprendente che usa delle strutture della sua lingua e gli va bene, nella
seconda lingua è uguale.
 Negativo: è quello che si nota, la forma che utilizza non va benne nella seconda lingua.

Secondo questa teoria io sono in grado di prevedere quanto sarà difficile imparare una lingua mettendo a
confronto le due lingue, due lingue simili non daranno molti problemi, due lingue molto diverse daranno
tanti problemi e tanti errori.
Studiando l’interlingua che quando due lingue sono molto vicine potrebbe succedere al contrario che ci
sono tanti errori perché c’è molto transfer. Es. spagnolo e italiano.
Se due lingue sono abbastanza distanti l’apprendente è più attento, trasferisce di meno, forse più lento ma
fa meno errori.
In questa teoria dicevano che la classe deve condividere una stessa lingua materna.
Oggi non si fa, quando si insegna la classe non condivide la stessa lingua materna.
Perché si prosegue con l’insegnamento della lingua seguendo un comando basato sui bisogni degli
apprendenti, la lingua materna dell’apprendente non ha importanza.
L’idea è se io ho una classe omogenea di lingua materna partiamo tutti da uno stesso livello, possiamo
imparare abitudini nuove.
Concentrandoci su tutti gli elementi che rendono diversi la L2 dalla lingua materna.
La prima operazione è tirare fuori soltanto le cose diverse nella L2 dalla Lingua 1 e su questo poi esercitarsi
e fare molta pratica.

Il contrastivismo ha dato vita un vero e proprio metodo che si chiama audio-orale è una delle poche teorie
che ha:
 Teoria linguistica di base
 Teoria psicologica di base

Ha dato vita ad un’ipotesi di apprendimento della L1 e L2 e a un metodo in classe che è il metodo audio
orale.
‘’audio-orale’’: questo metodo è molto concentrato sull’oralità.
Le esercitazione per far sì che tutto diventi meccanico si svolgono ripetendo in coro le stesse cose.
Le parole all’interno dei sintagmi seguono degli schemi precisi, tutto procede per pattern (schemi).
Si compiono esercizi che meccanicamente vengono imparati pezzo per pezzo.

Drills

In primis oggi i drills sono molto rivalutati per la parte di fissazione della grammatica, quindi non sono del
tutto rifiutati. C’è a un certo punto dello studio il drill ci sta bene perché è il momento in cui tu fissi e per
fissare ci vuole una cosa un po’ noiosa, ma ripetitiva che ti faccia fissare un pattern, una forma. Se
l’esercizio varia in continuazione, non fissiamo nulla quindi i drills sono ancora abbastanza valutati.
Abbiamo dato uno sguardo ad un approccio che si presenta molto completo, perché ha una teoria
linguistica, una teoria psicologica, un modello didattico, che ha avuto il massimo della sua esplosione negli
anni ’30, ’40, ’50 e che però da noi ha continuato a generare tantissima didattica per tanto tempo proprio
perché era un metodo che ha dato vita ai primi laboratori linguistici con le audio-cassette.

Alla fase dello strutturalismo alla fine degli anni ’50 e ’60 si oppose una visione diversa della lingua che
prende il nome di generativismo. Si mette in evidenza con la visione di essere tutto troppo meccanico,
tutto troppo legato all’indicazione e quindi è creatività. I parlanti possono dire anche cose che non hanno
mai sentito, come “i rinoceronti volano sulle nuvole rosa”. È una frase che, detta da uno straniero può
risultare ambigua, detta da un madrelingua italiano può risultare come un possibilità di creatività. In realtà
quest’altra visione della lingua tende a mettere in evidenza il fatto che ci debba essere qualcosa in più della
sola imitazione. Non può essere che noi impariamo solo imitando e che la lingua è comportamento e
abitudine, perché io uso la lingua con forme, modi e possibilità che spesso sono molto più grandi di quelle
che ho avuto modo di sentire.
Nel modello generativista tutto passa ad una visione in cui si cerca quello che è già dentro e innato. Si parte
con una critica molto forte dell’approccio psicologico del comportamentismo.

Chomsky, che è il nome al quale si fa riferimento, comincia a mettere in dubbio che ci sia questa catena
stimolo-risposta e che tutto sia meccanico, mette in dubbio che l’input sia la causa di tutto, che tutto si
possa insegnare esplicitamente e comincia a riflettere su quel che forse è già dentro il parlante. Chomsky
comincia a cercare una dimensione innata.
L’innatismo è l’opposto della visione che abbiamo visto prima e dice che io parlante ho già nella mente
delle cose e l’input mi serve solo da stimolo per attivare qualcosa che è già in me e per cui sono già
predisposto.
Chomsky a partire dagli anni ’50 fino agli anni ’80 ha avuto diversi ripensamenti, ha ripreso questa teoria e
il modello grammaticale che noi andremo a vedere è quello degli anni ’80 che ha preso il nome di
Grammatica Universale (spesso porta la sigla di GU).

Grammatica universale: Il nome è un po’ ambiguo, perché ognuno potrebbe pensare che sono regole e una
grammatica come quelle che si hanno a casa di tedesco e russo. In realtà non è in questo senso e, chi ha
avuto modo di studiare con attenzione Chomsky, sa che nella sua visione la sintassi della lingua è un
elemento importantissimo. Quindi non viene data tanta importanza alla fonetica, morfologia, lessico,
perché sono elementi di una struttura superficiale. Nella profondità quello che crea veramente l’elemento
caratterizzante è l’ordine delle parole, sono questi legami logici che costituiscono la sintassi della lingua.
Detto questo, il fatto che questo che il suo modello teorico si chiami GU, non significa che dentro ci
troviamo delle regole.

La GU, all’interno della teoria innatista Chomskyana, è la predisposizione genetica della mente umana ad
apprendere il linguaggio. Quindi è un sistema cognitivo che ci permette di apprendere il linguaggio,
riprodurre e comprendere un numero infinito di enunciati a partire dal numero finito di elementi. Un
parlante italiano non ha bisogno di sentire tutte le possibili frasi che si possono fare in italiano, ma le posso
produrre anche senza averle sentite e le posso capire anche ascoltandole la prima volta. C’è qualcosa di
diverso dal semplice “uno a uno”, io ti offro un input e tu lo memorizzi poi lo sai riconoscere e riprodurre.
Qui si dice qualcosa di diverso e cioè che dentro di noi c’è una predisposizione ad imparare e ad acquisire il
linguaggio.

Cos’è questa predisposizione? È un insieme di conoscenze astratte e di procedure che specificano la


particolare forma che prenderanno le regole linguistiche e quindi la forma possibile possibile o la struttura
astratta di tutte le lingue. Un modello di questo genere non potrà mai servire a un’insegnante per lavorare
in classe, perché io non sono interessato a descrivere e osservare nessuna lingua in particolare, perché
parto dall’idea che, se sono lingue umane, hanno un’identità dal punto di vista delle strutture e delle
regole, le manifestano in maniera diversa ma sono uguali per tutte.

È bene ricordare che la GU, dice Chomsky, consiste di un sistema altamente strutturato e restrittivo di
principi, parametri, che devono essere fissati dall’esperienza. Stiamo cercando di dare un nome a queste
caratteristiche astratte, universali, generali, di tipo logico.

I principi e i parametri sono entrambi universali e quindi tutte le lingue hanno questi elementi.
 I principi sono quindi di base e sono presenti in tutte le lingue. Sono fissati sin dalla nascita e
costituiscono le caratteristiche comuni a tutte le lingue. L’esempio più semplice di principio si
chiama dipendenza dalla struttura, cioè tutte le lingue del mondo non trasmettono il significato per
una somma di parole, ma perché le parole sono legate da una struttura che determina le relazioni
fra le parti. Esempio: “La neve cade lentamente”, “Lentamente cade la neve”, “Cade lentamente la
neve”. Spostare i pezzi senza cambiare il significato letterale. Ovunque si spostino i pezzi è
indifferente, perché la struttura è quella che darà il significato. Le lingue umane funzionano
legando le parti all’interno della frase con relazioni logiche. Questo è per quanto riguarda le lingue
umane.
 I parametri sono delle proprietà che possono avere due forme, cioè essere attivati o disattivati. È
l’input a dirci se attivarli o disattivarli. I parametri saranno attivati in maniera diversa nelle diverse
lingue e renderanno le varie lingue non uguali. I parametri sono tanti. Un esempio di parametro è il
parametro del soggetto nullo. Tutte le lingue esprimono un relazione che è quella di soggetto del
verbo, ma alcune di queste hanno la possibilità di non esprimerlo (soggetto sottinteso, cioè che
esiste ma non necessita di verbalizzazione). Quando si ha questa situazione, si ha il soggetto nullo
cioè zero, che non c’è. In realtà non è che non ci sia, non c’è a livello superficiale. Quindi l’italiano
può dire “Viene stasera”, soggetto sottinteso lui/lei. L’inglese, il tedesco e il francese non possono
sottintendere il soggetto. L’italiano è una lingua che può mettere in crisi chi la impara, perché il
soggetto una volta c’è e una volta non c’è. In realtà che cosa fa l’italiano? Ha il parametro del
soggetto nullo attivato. Il parametro esiste, è una caratteristica universale, ma la lingua lo può
attivare o non attivare. Le lingue finiscono per essere tutte diverse, ma somigliarsi di più o di meno
sulla base di queste alterazioni.

Secondo questo modello tutti i principi sono già là, innati. I parametri sono una potenzialità. Dipende da
quale input viene offerto, perché dall’input si decide se attivare o disattivare i vari parametri. Il problema
c’è quando dopo aver imparato la propria lingua materna, bisogna poi imparare un’altra lingua.

(pag. 179 del libro per schemi su modelli.)

 Primo schema: ipotesi dell’inaccessibilità. Secondo questo modello la GU, quindi sia principi che
parametri, funziona solo per la lingua materna. Nel momento in cui si impara la seconda lingua,
secondo questo modello, è come se si fosse atrofizzata la capacità. Per risolvere questo problema,
si impara la lingua utilizzando dei meccanismi generali di apprendimento, quindi altre cose come
imitazione, meccanismi di tipo cognitivo, ma non più la grammatica universale.
 Secondo schema: piena accessibilità. Secondo questo modello la GU sta sempre là e non si blocca
mai. Funziona alla stessa maniera quando imparo la prima lingua, quando imparo la seconda e così
via. Significa che i principi si hanno sempre, perché innati, mentre i parametri saranno organizzati
per ogni lingua che verrà imparata.
 Terzo schema: accessibilità indiretta. Secondo questo modello la GU serve solo per la lingua
materna (L1). Però non dice che ci sono meccanismi cognitivi o di altro genere, dice solo che
quando si impara la seconda lingua, si passa sempre per la prima lingua. Tutto quello che verrà
offerto come seconda lingua viene prima elaborato secondo gli schemi della propria lingua materna
e poi viene riorganizzato. Quindi viene data una grandissima importanza agli organismo della L1.
 Quarto schema: accessibilità parziale. Questo modello differenzia i principi e i parametri. Lo
schema dice che entrambi sono attivi per la L1. Non si sa invece se entrambi sono attivi per la L2,
forse i principi sì e i parametri no, però c’è un dubbio, una via di mezzo.

Importante da sapere: si collocano temporalmente in momenti diversi del pensiero linguistico.


Sicuramente il contrastivismo (anni ’30, ’40, ’50) è più vecchio, ma generativismo e la grammatica
universale, è vero che il generativismo inizia alla fine degli anni ’50, però la grammatica universale è degli
anni ’80 e in quegli anni noi abbiamo già un’altra corrente forte che parla di apprendimento che è quella
dell’interlingua, cioè la sociolinguistica, la psicolinguistica. Ad un certo punto il generativismo si è
confrontato con altre cose, non con il contrastivismo dal quale ha preso Chomsky. L’idea interessante è il
punto tra il non aver nulla e imparare tutto per imitazione (cose concrete come abitudini linguistiche,
schemi, lessico) e io sono già pronto, ho già tutto e l’esposizione mi aiuta (organizzo una serie di regole,
conoscenze e procedure di tipo astratto che servono a far funzionare il meccanismo della lingua).

La grammatica universale NON è una grammatica, ma è una teoria sulla struttura e il consolidamento dei
meccanismi universali che rendono le lingue umane tali. Sono tutti universali di tipo logico, però la
differenza tra i principi e i parametri è che i primi sono di base e già dati nel momento in cui noi nasciamo, i
parametri invece si devono settore e organizzare.
I generativisi stanno discutendo molto su quanti e quali siano i parametri, perché c’è una discussione
ancora molto aperta su questo.

IL FUNZIONALISMO (pagina 185 del libro)

A chi ha già studiato linguistica generale viene in mente soprattutto la linguistica europea degli anni ‘60 e
‘70. In Europa avevamo Jakobson e Martinet.
Funzionalismo significa funzione, si osserva la lingua dal punto di vista delle funzioni che essa svolge.
Il libro fa riferimento soprattutto al psicolinguista Brian MacWhinney e troviamo la sintesi della posizione
dei funzionalisti: le forme linguistiche sono create, governate, limitate, acquisite e usate al servizio delle
funzioni comunicative.
Non si sta parlando di strutture e forme, dicendo, ad esempio, che sono innate e che si acquisiscono con
l’esposizione all’input, ecc. ma al linguista interessa sapere lo scopo per il quale esiste un codice chiamato
lingua, cioè la comunicazione.
Non basta più limitarsi a descrivere l’oggetto (la lingua) nel suo funzionamento, ma l'attenzione si sposta
sul lato della comunicazione, ci si chiede la sua funzione, lo scopo per cui si usa la lingua, a cosa serve
questa macchina perfetta che è la lingua.
La lingua è un sistema: è fatta di forme e di strutture, quindi non basta descriverle e spiegare in che
relazione stanno tra di loro, ma ci interessa capire in che rapporto stanno le forme, le strutture della lingua
con l'uso che se ne fa, perché tutto è governato dall'uso. È una posizione interessante, perché questa
prospettiva dà molta importanza alla comunicazione e alle funzioni comunicative.
Ai funzionalisti interessa capire in che maniera la funzione che svolge questa forma (o struttura/elemento
del sistema) determina il suo aspetto, il modo in cui si presenta, perché in questa prospettiva tutto viene
trasformato dall'uso che ne facciamo.
La lingua non è immutabile, ma si modifica e cambia sulla scia dell'uso specifico che ne facciamo. È il
periodo in cui cominciano a nascere la pragmatica e la sociolinguistica, quindi l’uso è molto importante e ci
si chiede cosa si fa con la lingua e se il modo in cui viene usata determina anche la forma che questa lingua
assume.

Le funzioni che prendiamo in considerazione possono essere di due tipi:


 Semantiche (legate ai significati);
 Sintattiche (legate alle relazioni tra le parti).
Se si guardano le funzioni sintattiche, si vanno a guardare nella sintassi tutte le relazioni logiche tra le parti:
 Il soggetto
 Il predicato
 L’oggetto diretto
 L’oggetto indiretto
 I vari complementi/circostanziali

Esempio 1: Gianni ha dato il regalo a Maria a Milano.

Guardiamo le forme linguistiche presenti nella frase: c’è un predicato verbale legato ad altre parti della
frase. Gianni, per rapporto a “ha dato” ha funzione di soggetto; il verbo “dare”: è un verbo complesso che
ha varie reggenze, infatti “Gianni ha dato” che cosa?  “Il regalo”: è un complemento oggetto.
A chi?  “A Maria”: è complemento di termine; “a Milano”: è un complemento di stato in luogo.
Nell’analisi sintattica si utilizzano delle etichette per dare un nome a tutte queste forme.

Esempio 2: Il regalo è stato dato a Maria da Gianni a Milano.

Il verbo “dare” si presenta in una forma diversa: al passivo. Stavolta “il regalo” è il soggetto; “a Maria”: è
sempre complemento di termine; “da Gianni”: è complemento d'agente e “a Milano” è sempre
complemento di stato in luogo.
Abbiamo fatto un'analisi meccanica in cui abbiamo distinto soggetto, predicato verbale e complementi e gli
abbiamo dato delle etichette.
Spostandosi su dei ruoli semantici non ci si chiede più quali etichette dare alle relazioni logiche nella frase,
ma quali funzioni o ruoli svolgono queste forme/questi elementi della frase dal punto di vista del
significato. Le etichette tradizionali di soggetto, complemento oggetto, ecc. non vanno più usate, perché
non aiutano più, non rimandano a funzioni semantiche, per questo servono altre etichette, quali:
 Agente = attore
 Paziente = la persona o entità che subisce l’azione espressa
 Beneficiario = entità che beneficia dell’azione
 Luogo = sito in cui si svolge l’azione stessa

C'è una differenza importante tra soggetto e agente.


Attribuiamo l’etichetta di soggetto ad una funzione sintattica particolare per rapporto al verbo, ma anche
se nei due esempi che abbiamo usato il regalo è soggetto proprio come Gianni, la loro funzione semantica è
diversa.
In entrambe le frasi, infatti, è sempre Gianni colui che compie l'azione, nonostante i soggetti delle due frasi
siano diversi. Quindi la superficie della frase e la profondità (dove stanno i significati) non sono
perfettamente identiche. In superficie ci sono delle forme, ma il parlante non si ferma alla superficie e per
capire il senso della frase cerca in profondità i ruoli semantici. Ricordiamo la grammatica dei casi di
Fillmore, che era legata ai ruoli semantici e alla profondità della struttura sintattica.
Quando comunichiamo, noi riflettiamo sempre dal punto di vista della funzione semantica, perché non ci
limitiamo a costruire frasi, ma sia quando creiamo noi la frase sia quando la ascoltiamo e decodifichiamo,
noi cerchiamo di capire da chi sono realizzati questi ruoli semantici.
Le funzioni sintattiche mascherano quelle semantiche. Anche se il regalo nella prima frase esempio è
complemento oggetto e nella seconda è soggetto, nella struttura semantica profonda ha il ruolo di paziente
in entrambe la frasi, mentre Lucia è il beneficiario dell’azione.
È interessante il rapporto agente-paziente, perché l’etichetta di soggetto maschera le differenze a livello
profondo.
Ci sono lingue in cui non esiste, ad esempio, la differenza tra forma attiva e passiva e hanno altre
possibilità. È interessante, però, che la lingua permetta di modificare le forme e avere due strutture, perché
scegliendo “il regalo è stato dato da Gianni a Maria” si vuole enfatizzare non tanto l’agente, quanto il
regalo. Le due frasi dal punto di vista profondo, semantico, hanno le stesse funzioni semantiche.

In queste frasi cerchiamo di capire chi è l'agente, in apporto all’azione espressa dal verbo:
a. Giovanna saluta Maria
b. Il cane insegue il gatto
c. Lo studente incontrano i professori
d. Il cane insegue la palla
e. La palla insegue il cane
f. I professori incontriamo gli studenti
g. Giovanna Maria saluta?
h. Saluta Maria Giovanna?

Abbiamo usato frasi semplici in cui ci sono un verbo e due complementi, ma in alcuni casi è stato
complicato individuare l'agente (ultimi 4 esempi) e in aula c’è stata una diversità nella scelta, perché
ognuno ha utilizzato gli indizi a modo suo. Ci sono una serie di indizi (parola chiave di questo pensiero,
termine tecnico di questo modello), si cercano delle tracce nella superficie per capire i ruoli semantici
profondi, partendo dal verbo.

a. Giovanna saluta Maria  il verbo “saluta” è terza persona singolare, quindi dà un indizio: l’agente
deve essere al singolare. In questo caso, però, sia Giovanna che Maria sono due singolari, eppure
optiamo per Giovanna, perché abbiamo un altro indizio: tendenzialmente in italiano c’è un ordine più
frequente, il meno marcato.
e. La palla insegue il cane  il verbo è al singolare, quindi questa forma in superficie ci dice di cercare
un agente che non sia plurale (primo indizio: piano della morfologia), ma sia la palla sia il cane sono
soggetti alla terza persona singolare che si accordano col il verbo. Un altro indizio è l'ordine (secondo
indizio: piano della sintassi), ma in questo caso non ci aiuta. Un terzo indizio è il fatto che la palla sia
inanimata (terzo indizio: piano della semantica), quindi non può essere l’agente, perché il verbo
richiede l’animatezza, la palla essendo inanimata non può inseguire il cane.

Gli indizi sono vari e siamo abituati ad usarli perché abbiamo imparato dall’input a capire quali sono e
quanto sono forti. Un indizio può essere molto forte o lieve.
Ad esempio, se si trova un cadavere con un coltello sulla schiena, un indizio molto forte possono essere le
impronte di persona A su questo coltello, ma allo stesso tempo il coltello potrebbe appartenere a persona
B.
Si tratta di due indizi diversi, qual è il più forte? Nonostante ci siano le impronte della persona A, la persona
B potrebbe aver usato i guanti ed essere colpevole.
Il parlante sa che può usare una serie di indizi per cercare di capire, al di là della struttura superficiale, quali
sono le funzioni profonde, i ruoli semantici, ma gli indizi hanno forze diverse. Quando tutti gli indizi sono
concordi in una direzione, ci si sente sicuri, come nel caso di “Giovanna saluta Maria” in cui Giovanna per
ordine delle parole sta al primo posto, per accordo va bene ed è animata, quindi non c'è problema,
Giovanna sarà l’agente. Nel caso di “la palla insegue il cane”, invece, l’ordine delle parole dice di scegliere la
palla, l’accordo ci dice che l’agente potrebbe essere la palla, ma anche il cane, l’animatezza infine ci fa
capire che l’agente è il cane.
Gli indizi possono cooperare o trovarsi in competizione, questo modello si chiama proprio il modello della
competizione: è un modello funzionalista che cerca di capire come i parlanti elaborino gli elementi della
struttura superficiale per cercare i veri ruoli semantici (che sono profondi) e per far ciò utilizza degli indizi.
Questi indizi sono universali, ma la forza che possono avere dipende dalla lingua, ad esempio, in italiano
l’ordine delle parole è un indizio debole, l'accordo, invece, è un indizio fortissimo, mentre in inglese l'ordine
delle parole è un indizio fortissimo, perché se l’accordo non c’è, ci si basa sull’ordine. Quindi ciò che si trova
sempre sono gli indizi, ma quanto pesa un indizio per scoprire le funzioni dipende dalla lingua.
c. Lo studente incontrano i professori  non abbiamo considerato l'ordine delle parole, che ci
suggerisce di cercare l'agente in prima posizione, perché è più forte l'accordo, che ci spinge a
cercare l'agente nell'elemento accordato al verbo, cioè quello plurale: “i professori”.
f. I professori incontriamo gli studenti  in questo esempio l’accordo non funziona perché è
sbagliato, entrambi gli elementi plurali e in più sono entrambi animati, quindi è complicato
scegliere, ma ci affidiamo all'indizio dell'ordine delle parole, anche se non è un indizio forte per
l’italiano, e scegliamo l’elemento in prima posizione.

Si usano gli indizi per scoprire le funzioni semantiche e gli indizi possono collaborare o essere in contrasto.
Questo modello ha lavorato molto sulla funzione semantica dell'agente ed è un modello degli anni ‘80/’90
legato soprattutto ai nomi degli psicolinguisti Brian MacWhinney ed Elizabeth Bates che hanno elaborato
questo modello soprattutto per la lingua materna.

In sintesi:
Il modello della competizione vuole capire come il parlante e l’ascoltatore riescano a stabilire la relazione
tra la forma (che sta in superficie) e la funzione (che sta in profondità) tra gli elementi della frase.
La funzione di cui ci stiamo occupando è quella dell’agentività, alla quale i due psicolinguisti hanno
dedicato più attenzione rispetto alle altre.
Gli indizi sono forme in superficie e sono:
 L’ordine delle parole (sintassi)
 L’accordo (morfosintassi)
 Il caso (morfologia)*
 L’animatezza (semantica)

*ATTENZIONE: il Caso non è presente in italiano, a differenza di altre lingue tra cui il tedesco e il russo in cui
è presente. Il caso non è altro che un indizio in più. Questo indizio in italiano è presente, ma in una forma
residuale, ad esempio esso è presente nei PRONOMI PERSONALI poiché è possibile dire: io, me, mi; in
queste circostanze un minimo di caso rimane ma per il resto in italiano non è presente.

COLLABORAZIONE O COMPETIZIONE?

1. Io lascio Venezia domani in aereo con le tre valigie


• Io, Venezia aereo, valigie?
- Ordine degli elementi
- Il sintagma che funge da agente si accorda con il verbo
- Nominativo (io e non me o mi)
- È normale che sia l’animatezza a spuntarla
2. Domani in aereo con le tre valigie parto io.
3. L’aereo domani mi porta in Finlandia con le tre valigie.
4. Domani in aereo con le tre valigie partono io.

Prendiamo il 1° esempio “Io lascio Venezia domani in aereo con le tre valigie”, in questo caso chi è l’agente?
Io? Venezia? L’aereo? Valigie? Esso può essere qualunque elemento che non sia il verbo, e d’altronde
l’agente non può essere un articolo o una preposizione, ma ci si dovrà focalizzare su nomi e aggettivi
Analizziamo:
- Ordine degli elementi: sulla base dell’ordine chi è l’agente?  Io.
- Accordo: verbo: lascio, con chi si accorda?  Io.
- Caso (Come abbiamo già detto in italiano non è presente il caso, ma in questa frase abbiamo: Io, ovvero
un nominativo).
-Animatezza  In questo esempio è presente poiché ci si parla di una persona animata, mentre valigie,
Venezia e aereo no.
FORZA DELL’INDIZIO

 Affidabilità: regolarità nel rapporto 1:1 tra forma-funzione


 Disponibilità: frequenza con cui un indizio è presente nell’input
 Validità: numero di vittorie/numero di conflitti

Come abbiamo detto l’indizio esprime ed ha una certa forza, la quale non è universale, gli indizi lo sono, ma
la forza che ha un indizio dipende dalla singola lingua.
Vi sono 3 caratteristiche legate alla forza dell’indizio:
 L’affidabilità: è la regolarità con la quale ad una forma si associa una funzione, in modo che
l’indizio possa portare alla conclusione corretta.
Le lingue come l’italiano ovvero flessive hanno l’affidabilità alla massima espressione o no? NO.
 La disponibilità della frequenza con un indizio cui ricorre nell’input. Alcuni indizi si manifestano
frequentemente, che sia animato o inanimato è ben presente, o anche l’ordine delle parole sono
indizi che hanno una disponibilità, non sono indizi rari.
Prendiamo come esempio: il Caso*, in italiano dal punto di vista della disponibilità ha una
disponibilità alta o bassa? Bassa, poiché quella volta che compare è solo perché c’è il pronome
personale, e quindi rispetto ad altri indizi ha una disponibilità estremamente bassa nell’italiano.
 La validità: è data dal rapporto tra il numero di volte in cui un indizio vince sugli altri e il numero di
volte in cui si trova in conflitto.
Anche questa caratteristica dipende dalla lingua, poiché alcune lingue hanno un numero di validità
alto.
Esempio: “I professori incontriamo gli studenti” in questo caso chi è l’agente? Gli indizi non
collaborano, essi entrano in conflitto e in questo caso si decide di seguire uno di questi indizi per
trovare una soluzione.

IL MODELLO DELLA COMPETENZA E L’ACQUISIZIONE DELLE LINGUE

• Prima studio su apprendenti con diverse L1 e età differenti.


• Poi applicazione alla L2

Nelle pagine 193-195 del libro imparare un’altra lingua, viene spiegato cosa succede quando una persona
che ha imparato (tramite la lingua materna) ad usare una lingua, ovvero imparare ad usare gli indizi (con la
forza della mia lingua imparo un'altra lingua). A questo punto il problema grave è che gli indizi saranno
sempre gli stessi, ma non avranno la stessa forza, gli errori che una persona fa all’inizio dell’apprendimento
di una lingua, quando interpreta male una frase, sono dovuti ad un transfert della forza degli indizi, dal
modello della mia lingua materna a quello dell’altra lingua.
Esempio: Una persona che tende ad interpretare il tedesco con la forza degli indizi dell’italiano, oppure
interpretare l’italiano con la forza degli indizi del tedesco.

IL MODELLO DELLA COMPETICIONE E L’ACQUISIZIONE DI L2

 Scoprire il rapporto tra forma e funzione in L2


 Discernere la forza dell’indizio
1ᵃ FASE: transfer “diretto” e “indiretto” delle strategie di elaborazione di L1
Esposizione all’input  la forza dell’indizio raggiunge i livelli in L2

All’inizio avviene il trasferimento, poi pian piano con l’esposizione all’input e crescendo la competenza della
lingua seconda si risente della forza degli indizi, e si forma un pacchetto di indizi anche per la lingua
seconda.
Può capitare che gli indizi, essendo universali, tendono ad essere trasferiti nel modo in cui li uso nella mia
lingua materna, sbagliando, interpretando e attribuendo ruoli e funzioni sbagliate, ciò significa che le regole
verranno usate in modo sbagliato.
I primi studi del modello della competizione sono stati fatti su parlanti di tante lingue materne diverse e
anche di età diversa.
Negli anni ’90 sono stati fatti dei studi per la seconda lingua
Esempio: sordi L1 (italiano)/LIS L2 (italiano dei sordi) → possono essere sia L1 e l’altra L2 oppure L2 lingua
materna oppure la seconda lingua
 1° un gruppo di udenti italiani/un gruppo d’italiani sordi a diversi livelli
L1 = 6 udenti italiani
LIS L2 = 12 sordi – 6 lingua italiana materna – 6 LIS lingua materna
 2° le due lingue utilizzate/le fasi di prima (L1-LIS L2)
L’accordo:
- per noi vince l’accordo
- per i sordi medi vince l’accordo nella stessa maniera
- per i sordi profondi sono delle differenze
I soggetti non sempre riescono ad individuare in modo oggettivo quale sia la lingua materna (per es. i sordi
che hanno dichiarato la lingua italiana come lingua materna si sono comportati come i sordi con L1
l’italiano).
Quando imparo una L2 trasferisco gli indizi della L1 alla L2.

Come si presenta il transfert nel modello della competizione? In questo modello il transfert consiste nel
trasferire la forza degli indizi dal modello della propria lingua alla lingua seconda. E quindi nel momento in
cui viene chiesto di scegliere in una frase chi è l’agente all’inizio si tenderà a fare errori perché si sceglierà
secondo lo schema e la forza degli indizi della mia lingua materna.

Sintesi:
 Il cognitivismo
 La teoria della processabilità (detta anche teoria dell’elaborazione) (pag. 208)

Sul cognitivismo
 Il modello di Levelt
 Il modello della competizione
 Il progetto ZISA
 Il modello della processabilità

Il cognitivismo è una parte della psicologia e studia la mente, cioè la natura delle attività e dei processi
mentali.

TEORIA DELLA PROCESSABILITÀ

 Teoria psicolinguistica e data driven (deducendo i processi mentali indirettamente con l’analisi del
prodotto
 Pienemann, 1988

Come il modello della competizione è un modello che analizza il modo in cui comprendiamo, la teoria della
processabilità invece, si pone dal punto di vista della produzione, e quest’ultima si chiede: come fa il
parlante ad usare certe forme/strutture? Essa è una teoria innatista che usa come base il modello di Levelt.
D’altro campo anche il modello della competizione utilizza alcuni risultati del progetto ZISA (progetto che si
sofferma sullo studio della sintassi tedesca).
La teoria della processabilità è una teoria di tipo psicolinguistico, ed è una teoria che cerca di comprendere
come funziona la mente, quindi di ricavare/dedurre i processi mentali, analizzando la lingua. In breve essa
si pone come obbiettivo quello di osservare come una persona produce la lingua per cercare di capire da
questo quali processi mentali sono messi in atto.
Questa teoria è soprattutto legata al nome di Pienemann (professore tedesco di inglese).
alla base della teoria della processabilità abbiamo il progetto ZISA, il modello psicolinguistico di Levelt,
però anche la grammatica lessico-funzionale che è una descrizione particolare della grammatica collegata al
lessico della lingua.

LA TEORIA DELLA PROCESSABILITÀ: Rende conto delle sequenze dello sviluppo di abilità dell’interlingua.
Considera gli aspetti cognitivi, psicolinguistici e linguistici del processo.

BASI TEORICHE:
1. Progetto ZISA (Pienemann et al. 1983)
- Interpretazione psicolinguistica
2. Modello psicolinguistico di Levelt (1989)
-Processi di produzione linguistica (Modello di Levelt)
3. Grammatica Lessico-funzionale (Bresnan,1982)
- Formalizzazione della descrizione grammaticale (Bresnan,1982)

(Modello di Levelt lo troviamo sul libro.)

La teoria della processabilità si concentra su ciò che succede nel formulatore e poi articolatore (pag. 210).

MESSAGGIO PREVERBALE  CODIFICA GRAMMATICALE  STRUTTURA SUPERFICIALE

 ELABORAZIONE FUNZIONALE:
 Selezione lessicale
 Assegnazione funzionale

 ELABORAZIONE POSIZIONALE:
 Assemblaggio in costituenti
 Flessione

Partiamo dal messaggio preverbale, bisogna farlo diventare “verbale”, affinché diventi verbale ci devono
essere dei suoni, ma questi ultimi arrivano dopo la codifica grammaticale.

ELABORAZIONE LESSICALE

1. Selezione lessicale

•Dove le seleziono le parole? Nel magazzino del lessico

LESSICO
CONOSCENZA
DICHIARATIVA LEMMI FORME
(detta anche conoscenza
enciclopedica)

Il formulatore è una CONOSCENZA PROCEDURALE. Il formulatore sa prendere e combinare, e combinando


crea la struttura grammaticale.

2. Assegnazione funzionale, che è anche sintattica (dopo aver selezionato una parola devo dargli una
collocazione e una funzione, nel momento in cui diamo una assegnazione funzionale allo stesso momento
stiamo dando anche una funzione sintattica).
ELABORAZIONE POSIZIONALE

1. Assemblaggio in costituenti (unione dei pezzi)


2. Flessione

Esempio: il riso è nutriente (messaggio preverbale)


1) selezionare “riso” e “nutriente” nel magazzino lessicale
2) assegnazione “riso”= assegnazione di funzione di soggetto
3) creazione di combinazioni, sintagmi “il riso/ è nutriente”
4) esempio i ragazzi sono vivaci/il ragazzo è vivace operazione di flessione.
Una volta effettuati tutti gli step si avrà una forma fonetica e si potrà passare alla pronuncia.

LA GERARCHIA DELLA PROCESSABILITÀ

PROCEDURA Scambio e informazione


T1 Memoria lessicale/accesso al lemma Parole, formule
T2 Procedura categoriale Modifiche locali di unità lessicali
T3 Procedura sintagmatica Accordo nei sintagmi
T4 Procedura frasale Accordo tra sintagmi
T5 Procedura della proposizione subordinata Fraasi subordinate
Verrà ripreso successivamente

USARE UN’ALTRA LINGUA

Il libro comincia con i concetti di cultura e di lingua. Né la cultura né la lingua fanno parte della nostra
eredità biologica, quindi non sono innati (non sono in noi), ma frutto di un apprendimento: ecco perché ci
comportiamo diversamente, e perché parliamo una lingua diversa a seconda del luogo in cui siamo nati.
Quindi sono delle realtà mentali, non possiamo toccarle con mano, non possiamo vederle, però possiamo
descriverli, li sentiamo. Chi parla una lingua e condivide una cultura, condivide con gli stessi parlanti di
quella lingua la stessa cultura.
Questi concetti sono entrambi dei modi di comunicare, in modo diverso, ma comunicano qualcosa. Quindi,
se la cultura è l'intero modo di vivere di una popolazione, allora la lingua ne è l'espressione più alta. La
lingua è parte della cultura, ed è quella più importante:
- è la prima che si vede
- quella attraverso la quale riusciamo ad esprimerci meglio
Per quanto riguarda la cultura, c'è la definizione più importante e più antica che ha dato Taylor, 1871: la
cultura o civiltà, intesa nel suo più ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la
conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine
acquisita dall'uomo come membro di una società (NB: ACQUISITA)
Ma noi ci concentreremo sulla definizione di cultura data da Hofstede, 2001: la cultura è una
programmazione collettiva della mente.

CULTURA LINGUA

CULTURA

• <<La cultura o civiltà intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include
la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dell’uomo come membro di una società.>> [Taylor, 1871]
• Programmazione collettiva della mente. [Hofstede, 2001]

LINGUA

 Forme: analizzare il codice


 Funzioni:
 Referenziale
 Comunicativa
 Espressiva o emotiva
 Fatica
 Performativa
 Manifestazione dell’identità

La Lingua viene studia sotto due punti di vista: la forma e le funzioni.


La forma è proprio come è fatta una lingua (quindi suoni parole e la struttura grammaticale).
Le funzioni:
 Funzione referenziale e comunicativa: con la lingua descrivo. La lingua ci serve per descrivere il
mondo che ci circonda e lo facciamo in modo diverso. Ecco perché in diverse lingue abbiamo parole
che spesso non sono traducibili, e anche concetti mentali completamente diversi;
 Espressiva o emotiva: utilizzo la lingua per comunicare e per esprimere emozioni (sentimenti,
atteggiamenti);
 Funzione fatica: la lingua mi fa mantenere in contatto con altri individui
 Performativa: con la lingua faccio sempre qualcosa. Parlando compio sempre un'azione (chiedo
scusa, minaccio, do informazioni, ecc). Quindi la Lingua ha sempre una funzione performativa:
cerco sempre di fare qualcosa, dire è compiere un'azione.
 Ogni individuo usa la lingua per manifestare un'identità. Abbiamo detto che la lingua e la
manifestazione più importante della cultura, e la utilizziamo proprio per questo.

La Bettoni parla di Universalismo e Relativismo

Lingua e pensiero  Universalismo (dote innata) vs Relativismo (esperienza)

Lingua e identità

 Identità individuale
 Identità collettiva
 Identità culturale

Sono due teorie che si contrappongono e secondo l'Universalismo: la lingua e la cultura è una dote innata,
Quindi nasciamo già programmati per parlare una determinata lingua. Mentre secondo il relativismo: la
lingua è il frutto di esperienza, e quindi di apprendimento (questo in merito a Lingua e Pensiero).

Abbiamo detto che attraverso la lingua esprimo la mia cultura (quindi la mia identità). L'identità è sempre
di tipo individuale e collettiva: perché non solo parlo per me, ma parlando la mia lingua (quindi esprimendo
la mia cultura) sono portavoce di una collettività, quindi di un gruppo. L'Identità è poi culturale: perché
esprime sempre a quale cultura appartengo, a quale popolazione a quale gruppo sociale appartengo.

BILINGUISMO E BICULTURALISMO

Quali sono i fenomeni che si verificano quando una persona usa più di una lingua e vive più di una cultura?

Bilinguismo e Biculturalismo: quindi quei fenomeni che si verificano quando una persona usa più di una
lingua e vive più di una cultura. Parliamo di Bilinguismo e Biculturalismo ma in realtà ci riferiamo a
Multiculturalismo e Multilinguismo, perché io posso parlare più di 2 lingue e posso appartenere ed
esprimermi in più di 2 culture (quindi trilinguismo ecc.)
Però riferiamoci al Bilinguismo in generale. Essere Bilingui, innanzitutto, non significa parlare due lingue allo
stesso modo perfettamente, perché magari ho due genitori che provengono da due culture diverse e
perché parlano 2 lingue diverse.
IL BILINGUISMO

Si è bilingui quando si usa alternativamente più di una lingua, indipendentemente da:


 Il grado di competenza
 La frequenza d’uso
 La distanza strutturale

Quindi non importa quale lingua conosciamo meglio: se parliamo un'altra lingua anche se maluccio, siamo
comunque bilingui. Anche indipendentemente dalla frequenza d'uso, cioè quanto spesso utilizzo le 2 lingue,
e alla distanza strutturale: quanto sono diverse le due lingue. Quindi bilingui lo siamo tutti.

In Italia ci sono moltissimi dialetti, e anche in quel caso le persone vengono considerate bilingui.

Nell'analizzare fenomeni del bilinguismo, dobbiamo considerare:


 Le circostanze dell’apprendimento delle due lingue
 L’uso delle due lingue
 La competenza nelle due lingue
 L’organizzazione cognitiva delle due lingue
 L’attivazione delle due lingue
 L’identità che le due lingue comportano

Le circostanze dell'apprendimento: cioè come e in che modo e in quale circostanza apprendo un'altra
lingua.
L'identità fa parte del Biculturalismo.
Ad una L1 e L2 appartengono rispettivamente una C1 e una C2 (Cultura uno, Cultura due).

La L2 può essere acquisita in ambiente L2 e in ambiente L1:


• Apprendimento linguistico accompagnato da acculturazione
• Manca immersione nella C2

Una L2 può essere acquisita in ambiente L2 e quindi con immersione nella C2 (cultura due). Oppure in
ambiente L1: resto nel mio paese, circondata dalla C1 (Cultura uno) e dalla L1 e imparo una L2 (NB in
questo caso manca immersione nella C2).
Parliamo quindi di Acculturazione e mancata Acculturazione: (esempio acculturazione) tutti questi ragazzi
cinesi che sono venuti a studiare in Italia stanno apprendendo lingua italiana in ambiente L2, sicuramente
l'avranno già appresa in Cina. Ma loro sono passati da una ambiente L1 un cui studiavano italiano come L2,
ad un ambiente L2, immersi nella C2. Quindi accompagnati da acculturazione. Sono passati da un
bilinguismo secondario ad un bilinguismo primario. Primario quindi è quando c'è un'acculturazione e quindi
immersa dalla cultura di quella lingua. Secondario, quando invece non c'è acculturazione, ma solo un
apprendimento (linguistico).

LE CIRCOSTANZE DELL’APPRENDIMENTO

a) Bilinguismo infantile e bilinguismo adulto


b) Bilinguismo primario e bilinguismo secondario
c) Bilinguismo strumentale e bilinguismo integrativo
d) Bilinguismo additivo e bilinguismo sottrattivo
e) Bilinguismo isolato e bilinguismo collettivo

Bilinguismo infantile e adulto  ci concentreremo totalmente su quello adulto, perché quello infantile è
tutto un altro modo: sono quelle lingue che si imparano nell'età evolutiva. Dai 7 anni in su parliamo di
bilinguismo adulto (probabilmente anche prima in determinate circostanze). Si parla di bilinguismo infantile
quando sue lingue vengono apprese contemporaneamente. Bilinguismo adulto quando la L2 subentra
successivamente alla L1 (parlo già bene la mia L1, questo è il mio mondo e la mia cultura, successivamente
mi approccio ad un'altra cultura e un'altra lingua). Sicuramente sono modi di apprendimento diversi, ma
non esiste un tempo specifico per imparare un'altra lingua.

Bilinguismo isolato vs Bilinguismo collettivo  parliamo di bilinguismo isolato: un classico esempio


quando una persona si trasferisce all'estero per lavoro. Quindi è solo, immerso in una C2, ad apprendere
una L2 (anche non necessariamente da solo trasferendosi con la mia famiglia, ma se la famiglia continua a
parlare la L1 in un ambiente familiare si tratta comunque di bilinguismo isolato).

Bilinguismo collettivo  è un bilinguismo di massa. È il caso dei cinesi a Prato in Toscana, si tratta di
bilinguismo collettivo: ovvero una grande parte della popolazione parla una L2. Oppure il caso degli italiani
a Caracas, Venezuela.

Bilinguismo additivo vs Bilinguismo sottrattivo  il bilinguismo ci può togliere qualcosa e ci può dare
qualcosa (dipende da quando usiamo le due nostre lingue). Bilinguismo additivo: quando l'aggiunta della L2
alla nostra vita non toglie niente alla L1. In alcuni casi invece imparare una L2, comporta una perdita
parziale della L1 (bilinguismo sottrattivo).

Esempio: La prof era in aereo diretto a NY, e una signora seduta a fianco a lei, vedendo che la prof era
italiana si sforzava a parlare con lei in italiano, avendo delle grosse difficoltà a ricordarsi le parole. Questa
signora è italiana ma ha dimenticato completamente la sua L1. Poiché si è trasferita negli USA all'età di
17/18 anni e ha smesso di parlare italiano. Iniziando sempre a parlare l’inglese, fino a dimenticare la sua L1.
Quindi non è impossibile. Le lingue si dimenticano se non vengono utilizzate e fra queste anche la propria
L1. E dato che sentiva la mancanza dell'italiano, ha trovato una comunità di italiani a NY, in cui si incontrano
una volta alla settimana per parlare italiano e per non dimenticare la lingua. Questo è un caso di
bilinguismo sottrattivo. L'inglese quindi ha tolto alla signora l'italiano.

Bilinguismo additivo è quando aggiungiamo alla nostra conoscenza un'altra lingua, pur continuando ad
usare la nostra L1.

Bilinguismo strumentale vs Bilinguismo integrativo  Bilinguismo Strumentale: è quello che mi serve.


Imparo un'altra lingua, perché devo andare a lavorare in un luogo, oppure perché voglio una promozione a
lavoro, per necessità
Bilinguismo integrativo: è quando imparo un'altra lingua per integrarmi in un gruppo, per far parte di un
popolo per integrarmi in una società e per non rimanerne estraneo. In entrambi i casi si tratta
probabilmente di necessità, ma di tipo diverso.

L’USO

• Con chi?
• Quando?
• A quale scopo?
• Perché?
• Dove?
• Parlando di quale argomento?

Scelgo sempre di utilizzare l'una o l'altra lingua.


Se ho una famiglia bilingue, con una parte della mia famiglia parlerò una lingua e con un'altra parte un'altra
lingua. Sicuramente non parlerò ad esempio con mia nonna inglese e italiano (risponde al “con chi?”).
“A che scopo?” per farmi capire.
“Parlando di quale argomento?” Perché a volte la nostra L1 è la lingua che utilizzerò in famiglia e la mia L2
la utilizzerò a lavoro. Quindi non parlerò degli stessi argomenti e avrò competenze completamente diverse,
in entrambe le lingue.
COMPETENZA LINGUISTICA: ovvero quanto bene so utilizzare queste lingue.

• Fattore linguistico
 Livelli di analisi
 Abilità linguistiche
• Fattore cognitivo-funzionale
 Processo di produzione e comprensione della lingua in tempo reale
• Fattore socioculturale
 Competenza linguistica in senso stretto
 Competenza comunicativa

Fattore linguistico: sono i livelli di analisi, quindi pronuncia, lessico, grammatica;


Abilità linguistiche: parlare, ascoltare, leggere e scrivere.
Quindi quanto bene conosco una lingua? A volte sono in uno stadio di interlingua, più alto o più basso e
quindi dipende tutto da quello.

Fattore cognitivo-funzionale: ovvero quanto riesco a comprendere in tempo reale la lingua e produrre. Ho
bisogno prima di tradurre nella mia L1? Oppure riesco ad avere una conversazione spontanea e libera
perché capisco e produco?

Fattore socioculturale: al quale appartengono la competenza linguistica in senso stretto, cioè quanto bene
conosco questa lingua e poi la competenza comunicativa: so comunicare in questa lingua? Quanto bene lo
so fare?

L’ORGANIZZAZIONE COGNITIVA

 Bilinguismo coordinato
o Le lingue sono indipendenti l’una dall’altra
 Bilinguismo composito
o Le lingue sono dipendenti l’una dall’altra

Per quanto riguarda l'organizzazione cognitiva, si parla di bilinguismo coordinato e di bilinguismo


composito. Nel bilinguismo coordinato le due lingue sono indipendenti l'una dall'altra: cioè vuol dire che a
due parole, che chiamiamo significanti, corrispondono due significati, cioè due rappresentazioni della
realtà, due concetti. Nel bilinguismo composito le lingue sono dipendenti l'una dall'altra; questo vuol die
che spesso a due significati corrisponde un solo significante, cioè una sola rappresentazione della realtà,
una sola immagine mentale.

L’ATTIVAZIONI

 Attivazione monolingue
o Quando il bilingue usa solo una delle due lingue. In questo caso l’altra lingua è disattivata.
 Attivazione bilingue
o Quando il bilingue alterna le due lingue. Le due lingue, in questo caso, sono attive
entrambe.

Quanto spesso e quanto a lungo le persone bilingui usano le loro due lingue?
L'attivazione monolingue avviene quando il bilingue usa una delle due lingue, perché sa che chi ascolta non
è bilingue. In questo caso si dice che l'altra lingua è disattivata.
Si parla di attivazione bilingue quando anche l'altro soggetto è bilingue e condivide con il parlante la
conoscenza delle stesse lingue.
Nella conversazione sono attivate entrambe le lingue e spesso si alternano. Quando in una conversazione
sono partecipi due lingue, si verificano dei fenomeni particolari.
BICULTURALISMO

Che cosa significa essere biculturali?


<<Se essere biculturali vuol dire partecipare alle manifestazioni di due culture e condividere con le persone
monoculturali in C1 e C2 i loro simboli, i loro eroi e i loro rituali, allora essere bilingui è senz’altro
possibile.>> [Bettoni, 2006]

Per quanto riguarda l'identità, si parla di biculturalismo. La lingua è l'espressione più alta della cultura,
quindi parlando due lingue, ci si esprime anche in due culture diverse, si è rappresentanti di due culture.
Secondo Bettoni, essere biculturali significa pensare, sentire e agire in due modi diversi o più modi diversi
se si parla di multiculturalismo. Bettoni si chiede se è possibile essere biculturali: se essere biculturali vuol
dire partecipare alle manifestazioni di due culture e condividere con le persone monoculturali in C1 e C2 il
loro simboli, eroi e rituali, allora essere biculturali è possibile.

Geet Hofstede (2001)

Nello schema di cultura, Hofstede divide la cultura in valori e pratiche. I valori sono il fulcro, il centro della
nostra cultura, mentre i rituali, gli eroi e i simboli fanno parte delle pratiche. La lingua si trova nei simboli,
perché la lingua è rappresentanza della cultura. Quindi secondo questa teoria, una persona, parlando una
L2, è partecipe di tutte le pratiche, cioè condivide i rituali, gli eroi e i simboli di una C2. I valori di una cultura
non cambiano, ma quando una persona si trova a scegliere qualcosa cambia in lei. Il biculturalismo quindi è
possibile se è inteso come tutta quella serie di pratiche che appartengono a una cultura, ma il
biculturalismo non è possibile se è inteso come l'insieme dei valori di due culture. Ciò significa che quando
una persona si avvicina a un'altra lingua e quindi a un'altra cultura, si trova a scegliere. Spesso studiando
una lingua vicina strutturalmente a un'altra, si pensa che la vicinanza sia anche culturale, ma non è così; per
esempio l'italiano e lo spagnolo. A volte all'interno di uno stesso paese convivono culture diverse perché i
paesi sono bilingui e biculturali e si trova una varietà vastissima di culture. Addirittura alcuni paesi possono
essere multiculturali, come i Paesi Bassi.

Formazione di una terza cultura nel contatto tra valori di due culture diverse
C1+C2=C3

Nel momento in cui una persona è bilingue, parla due lingue e partecipa a due culture, ciò cambia
profondamente una persona. Questo non lo dimostra solo nelle pratiche, ma spesso anche i valori possono
essere in conflitto. La persona non è biculturale, ma forma una terza cultura che viene chiamata C3, o terzo
spazio, e che consiste nella mescolanza tra valori della C1 e quelli della C2.

TENZIONE

 POSITIVA  Acculturazione
 NEGATIVA  Deculturazione

Si parla di tensione negativa, o deculturazione, quando i valori e le pratiche non sono del tutto in armonia.
In questo caso la persona è in conflitto con se stessa perché non sa se accettare determinati valori oppure
no.
Si parla di tensione positiva, o acculturazione, quando i valori e le pratiche sono in armonia gli uni con gli
altri. La persona non ha dubbi su chi è, su quello che fa e su come si comporta.
Un esempio sono le persone con dei figli piccoli che scappano da un paese povero e arrivano in un paese
ricco; mandano a scuola i propri figli che iniziano ad apprendere la L2. Non sempre i genitori continuano ad
insegnare la L1 ai figli: in alcune circostanze la L1 può essere motivo di vergogna per vari motivi come la
provenienza, il passato, ecc. Quindi spesso i genitori scelgono di non insegnare ai propri figli la L1 per farli
integrare il più possibile nella C2. Altre volte succede che i genitori non sono abbastanza acculturati e non
riescono ad insegnare la L1 ai propri figli.
COS’È LA PERSONALITÀ?

 STATI PSICOLOGICI TEMPORANEI


 TRATTI PSICOLOGICI PERMANENTI

È possibile avere due personalità?

Che cos'è la personalità? Se una persona è biculturale ha due personalità? Se si intende con personalità gli
stati psicologici temporanei, cioè l'assunzione di atteggiamenti e comportamenti diversi in diverse
circostanze, allora è possibile avere due personalità. Questo però solo momentaneamente. Se invece si
intende per personalità l'insieme dei tratti psicologici permanenti, allora non è possibile avere due
personalità, perché alternando due lingue non è possibile che si verifichi un'alternanza dei tratti più
profondi della persona.
Una persona può utilizzare la lingua madre per parlare di determinati argomenti e la lingua seconda per
parlare di altri argomenti. Per esempio una persona cinese che viene a studiare in Italia, piò parlare in
cinese quando è arrabbiata, perché il cinese è la lingua con cui riesce a esprimersi meglio.
Sono stati fatti molti studi sulla lingua e la migrazione e alcuni studiosi credono che a volte per gli stranieri
sia più facile utilizzare una lingua seconda per esprimere emozioni positive o negative; altri invece credono
che sia più facile farlo nella propria lingua materna. Questo dipende da tanti fattori: di solito la L2 è sentita
più distante emozionalmente parlando e quindi per esprimere un concetto, un'emozione, uno stato
d'animo in una lingua seconda, si impiegano molte più parole emozionali rispetto che alla lingua prima.
Nella lingua prima un concetto viene espresso più facilmente, mentre nella lingua seconda si fa più
difficoltà e quindi si utilizza più lessico, si tende a esprimere il concetto diversamente e quindi in maniera
anche più forte. Questo però dipende sempre dal grado di competenza comunicativa. Spesso se non si
conosce bene una lingua, si rischia di utilizzarla nel modo sbagliato. Per esempio usando un linguaggio
informale in un contesto formale.

Bilinguismo coordinato e composito:

I significanti sono le etichette verbali, ovvero le parole che si danno a tutte le cose. Ogni lingua nomina
delle cose o dei concetti astratti. Quando le parole corrispondono nella mente a due concetti diversi, allora
il bilinguismo si chiama coordinato. Per esempio "tazza" e "mug": "mug" in italiano si traduce con "tazza",
ma per gli inglesi "tazza" è "cup". Nel bilinguismo composito, per due significanti si ha lo stesso concetto, la
stessa rappresentazione concettuale.

Il biculturalismo

Si è biculturali quando si prende parte alle rappresentazioni di una determinata cultura, quindi quando una
persona pensa, si comporta e si sente come i parlanti di un'altra lingua. Biculturali vuol dire partecipare a
tutte le pratiche di un'altra cultura. Per esempio una persona italiana che si trasferisce in Cina e che
continua a celebrare il capodanno europeo, ma celebra anche quello cinese, che parla italiano, ma parla
anche cinese. Non sempre però si riesce a condividere tutte le pratiche. Il biculturalismo può essere anche
temporaneo: la Bettoni fa l'esempio dei cinesi che si trasferiscono in Australia per studiare e che assumono
tutti quegli atteggiamenti da australiano, ma quando tornano in Cina praticano tutto quello che fa parte
della loro cultura.

LA GERARCHIA DELLA PROCESSABILITÀ

Questa teoria ipotizza una sorta di gerarchia della processabilità. Quei processi come: selezionare il lessico,
attribuire elementi morfologici, costruire il sintagma, non sono lasciati al caso. Ma ci sono una serie di
passaggi. Queste procedure loro le ipotizzano anche nello sviluppo (quando imparo una lingua), ipotizzano
che non avvengono tutte insieme, ma avvengono in maniera implicazionale. Significa che se ho una
forma/struttura già devo aver avuto un’altra forma/struttura. Il termine “implicazione”, significa che se ho
A e B, B implica A, cioè solo dopo che A si sarà formato, io posso formare B. A e B potrebbero essere ad
esempio il numero e il genere. Si identificano 5 livelli diversi, oppure 5 tempi diversi.
Cosa si fa quando bisogna produrre un enunciato?

 Le procedure di sviluppo implicazionale si sviluppano essenzialmente in 5 tempi/livelli.


1) Il primo livello della gerarchia che consiste in una pura memoria lessicale, prevede l’identificazione
dei lemmi. A questo stadio si producono solo parole e formule non analizzate che vengono
utilizzate dall’apprendente perché ricordate. Queste espressioni sono imparate come parole uniche
e in questa fase non è attivata alcuna procedura specifica della lingua, agisce infatti la pura e
semplice memoria.
2) Il secondo livello prevede procedure specificamente linguistiche: si assegna alle voci lessicali una
categoria grammaticale e si producono le marche morfologiche. La procedura categoriale prevede
anche una modifica “locale” degli elementi lessicali, cioè una modifica della parola stessa. Es. libro >
libri.
3) Il terzo livello consiste nella modificazione degli elementi all’interno del sintagma; c’è scambio di
informazione tra la testa del sintagma e gli altri costituenti all’interno del sintagma stesso. Es. “La
casa grande.” Quindi dopo che l’apprendente ha flesso i singoli elementi, ora è in grado di costituire
SN e SV accordando per es. il NA o il SV.
4) Al quarto livello si assiste a uno scambio di informazioni tra i costituenti della frase, sono assegnate
quindi funzioni ai sintagmi e successivamente assemblati in frasi, l’ordine delle parole rispecchia le
norme della L2. Mentre nel SN la “cucina piccola” l’accordo avviene all’interno del sintagma, nella
FRASE “la cucina è piccola” abbiamo un SN e un SV e l’accordo li attraversa.
5) Il quinto livello prevede delle procedure che permettono all’apprendente di produrre frasi
subordinate; tale procedura gli permette di distinguere la frase principale da quella subordinata e
di costruire in modo diverso il verbo della frase principale da quello della dipendente.

Il primo livello di questa gerarchia, consiste in una pura memoria lessicale. Si tratta di una memorizzazione
del lessico. Vi ricordate quando abbiamo parlato delle prime manifestazioni dell’interlingua: formule,
elementi memorizzati. In questo primo stadio, la capacità dell’apprendente è solo quella di memorizzare e
creare, o costruire un magazzino del lessico. All’interno si inseriscono parole, pezzi di frasi, appresi come
blocchi, ad esempio: “come va?”. Il loro significato è un po' vago. Questa è la fase iniziale. Se non c’è
questa, non ci sono le successive, questo significa gerarchia implicazionale.

Nel secondo livello - Io cosa so fare? – l’apprendente comincia ad acquisire la capacità di attribuire le voci
lessicali che ha imparato, ad una categoria grammaticale. Comincia a riconoscere le differenze, ossia a
distinguere i nomi dai verbi, dagli aggettivi. In realtà, in che maniera mostra di cominciare a riconoscere le
categorie? È molto semplice. All’inizio l’apprendente impara a memoria, quindi probabilmente all’inizio
potrebbe imparare a dire libri e basta, ma non sa se è singolare o plurale, se “libri” significa “devo studiare”,
“ho comprato un libro”, “il mio libro è bello”. Quando memorizza, proprio nella prima fase, non posso dire
che l’apprendente sta usando un aggettivo, un nome, un verbo, perché il vero significato di quella forma,
spesso è vago. Poi arriva il momento in cui comincia a dire: “mangiare, mangiato, mangiamo”, fa queste
differenze, quindi comincia ad usare delle marche morfologiche differenziando le parole. Cosa significa?
Secondo questo modello, sta cominciando ad entrare nel secondo livello, e sta attribuendo le parole a una
categoria grammaticale e quindi ad usare le marche morfologiche. Per chi studia a scuola o con un
insegnante, il secondo livello arriva subito, perché l’insegnante non gli dà tempo di avere tutta questa
vaghezza, subito comincia ad inquadrare le categorie. Ma si immagini una persona che impara in maniera
spontanea, che non ha nessuno che gli insegna una lingua, la impara perché la sente. Si pensi per quanto
tempo deve catturare da solo pezzi di frasi, parole. È difficile passare dal primo al secondo livello. ESEMPIO:
“Bianco, bianchetto, biancheggiare, imbiancare, sbiancare, imbiancata…”. Queste sono modifiche della
parola di base del colore. Per noi è semplice, per uno straniero è complicato.
Nel terzo livello si allarga lo spazio di azione, non è più la singola parola, questa volta si va a livello di
sintagma. Sintagma: è una combinazione significativa di parole. La frase viene scissa in componenti
significativi. Di solito si parte dal verbo, quindi si trova il sintagma verbale, e poi quello nominale. Quindi
non si è più al livello di una singola parola ma di una combinazione significativa di parole, in un’altra unità.
Non è ancora una frase, non è una singola parola, ma è un’unità completa, autonoma per significato. I
sintagmi di solito vengono denominati a partire da quello che è considerato l’elemento più importante, la
cosiddetta testa del sintagma. La testa del sintagma può essere il nome, il verbo, l’aggettivo, ma
interessante è anche la preposizione. Nel terzo livello, l’apprendente non è ancora capace di gestire una
frase, ma riesce a lavorare in combinazione, all’interno del sintagma. Comincia, ad esempio a saper dire: “la
porta bianca” (femminili e singolari). Ciò significa che ha lavorato all’interno del sintagma. Dopo che
l’apprendente ha imparato a flettere i singoli elementi, quindi si è accorto che si modificano, costruisce i
sintagmi e comincia dentro il sintagma ad usare, per esempio, un accordo, ciò significa aver capito che c’è
qualcosa che lega gli elementi del sintagma.

Al quarto livello, bisogna liberarsi dal fatto che le informazioni si trasferiscono solo tra le parole vicine. Il
sintagma è facile perché le parole stanno vicine. ESEMPIO: “La porta bianca”, ma se dico “La porta bianca è
aperta”, quella -a, femminile singolare, che sta lontana, dopo il verbo, non è facile, perché è fuori dal
sintagma dove c’è la parola principale “porta”. Questo per l’apprendente è un po' difficile. Nel quarto
livello, l’apprendente comincia a saper trasferire informazioni all’interno della frase, quindi non più il
sintagma. Riesce ad accordare anche cose che stanno lontane, non dentro lo stesso sintagma. Un
insegnante che voglia che il proprio allievo riesca subito a fare una frase del tipo: “La porta bianca è
chiusa”. E non prevede che lo studente possa dire “la porta bianca è chiuso”. Questo essendo un errore
tipico, non capisce che accordare a così tanta distanza cognitiva, elementi dal sintagma nominale e
sintagma verbale richiedono uno sforzo, è una procedura che si sa fare se si conoscono bene i sintagmi.

Le lingue come il tedesco, hanno una difficoltà aggiuntiva legata all’ organizzazione delle frasi subordinate
che sconvolgono l’ordine e la regola che io ho per le frasi principali. Quindi si aggiunge il quinto livello. Si
permette all’apprendente di riuscire a fare le frasi subordinate. Chiaramente tra le subordinate ci sono, per
esempio, le frasi relative (relativizzazione).

LA GERARCHIA DELLA PROCESSABILITÀ

PROCEDURA Scambio e informazione

T1 Memoria lessicale/accesso al lemma Parole, formule

T2 Procedura categoriale Modifiche locali di unità lessicali

T3 Procedura sintagmatica Accordo nei sintagmi

T4 Procedura frasale Accordo tra sintagmi

T5 Procedura della proposizione subordinata Frasi subordinate

Questo modello presenta procedure: T1, T2, T3, T4, T5, che sono i tempi.
Le procedure sono collocate in un ordine gerarchico (c’è il vertice e c’è la base).
1. La base è la memoria lessicale, ossia quello che l’apprendente va a fare. Corrisponde alla capacità
di accedere a questo magazzino: parole, formule fisse. Non ha morfologia, non ha ancora
grammatica, ha solo capacità di memorizzazione di pezzi di lingua.
2. Quando acquisisce la procedura categoriale, sa attribuire a questa parola una categoria
grammaticale e quindi la classifica come nome, verbo, aggettivo, preposizione, articolo, ecc. Ma
come si fa ad accorgersi che è avvenuto questo? In realtà la traccia sta nel fatto che l’apprendente
non utilizza più parole fisse, ma usa altre forme. Quindi, quando comincia a modificare le parole,
significa che sta lavorando sulle categorie e sta cominciando ad usare la morfologia e a capire che
c’è la morfologia nominale, quella verbale, aggettivale e che quindi sono diverse. Ed è un lavoro
grandissimo questo.
3. Dopo che ha cominciato a lavorare sulla singola parola, si inizia a combinare le parole e si muove
verso la sintassi, quindi si passa alla procedura sintagmatica. In questo modello l’apprendente
prima riesce a fare delle cose piccole che sono i sintagmi, cioè spesso costruisce bene il sintagma
ma commette degli errori sulla frase.
4. Nella procedura frasale si comincia ad accordare i sintagmi tra di loro.
5. Se la lingua richiede una gestione particolare delle frasi subordinate, si passa alla procedura della
proposizione subordinata. Le frasi subordinate sono le più complesse, perché spesso l’apprendente
deve capovolgere l’ordine degli elementi rispetto a quello che ha imparato. Questa gerarchia
prevede un ordine, non si salta.

“Gli animali selvatici sono pericolosi”


Accesso lessicale:
• Identificazione del lemma (animali)
• Produzione singole parole/formule
• Nessuno scambio di informazioni
Procedura categoriale:
• Parametri grammaticali
• Voce lessicale
• Categoria grammaticale (marche morf.)
• Scambio di informazioni in locale (presenza di specificatori, complementi)
Procedura sintagmatica:
• Unificazione dei tratti all’interno di un sintagma
• Scambio di informazioni tra componenti del sintagma (Gli animal-i selvatic-i)
Procedura frasale:
• Unificazione dei tratti tra i sintagmi diversi
• Scambio di informazioni tra i costituenti della frase
• Assegnazione delle funzioni ai sintagmi
• Ordine delle parole = L2

“Gli animali selvatici sono pericolosi”.


Questa frase dovrebbe essere il prodotto finale. Io non posso pensare, secondo questo modello, che il mio
apprendente la produca così facilmente, come una sola operazione. Per produrre questa frase, significa che
l’apprendente è messo bene, è arrivato ad uno stadio 4.

Ma secondo questo modello c’è un’elaborazione del significato ancora senza una forma linguistica. Quando
si vuole dire qualcosa (concettualizzazione). Come prima cosa si devono recuperare le parole che mi
servono, l’accesso lessicale.
Ad esempio ci serve il termine “animali”. In questo momento si pescano le parole. Se fossimo dei poveri
apprendenti, al primo stadio, diremmo probabilmente: “animali non buono”. Se siamo dei buoni
apprendenti, dopo che abbiamo recuperato i vari elementi (animale, selvatico, pericoloso, essere),
cominciamo a modificarli. Quindi diciamo: animali (categoria del nome, quindi ha un genere ed un numero)
e così via.
A questo punto, utilizziamo gli articoli ed altri elementi necessari. Poi cominciamo a costruire il sintagma:
“gli animali selvatici sono pericolosi”. Usiamo un plurale ed un maschile.

Se l’apprendente fa molti errori, vuol dire che ha problemi nel distribuire l’informazione grammaticale
all’interno della frase, cioè il sintagma nominale e il sintagma verbale.
Gli errori non sono tutti uguali!

Frase Risultato Analisi

Io arriva ieri Errore Memoria lessicale

Io arrivato Errore Procedura categoriale: prima forma di flessione

Io ho arrivato Errore Procedura sintagmatica: costruzione del SV

Noi abbiamo arrivati Errore Procedura frasale: accordo soggetto – SV

Per concludere…
 + la teoria abbina con precisione aspetti psicologici e linguistici
 + usando una spiegazione cognitiva dei fenomeni, la Teoria è in grado di predire quali strutture sono
presenti in uno stadio dell’interlingua
 + rende conto anche di alcuni fenomeni di variabilità
 + l’ipotesi dell’insegnabilità
 - area di interesse ristretta alla grammatica
 - affidamento al modello di Levelt creato per L1.

Ciò che ci interessa di questa teoria sono il fatto che: la gerarchia è implicazionale, e ci sono degli stadi che
partono dall’elemento lessicale, al sintagma, alla frase e poi alla frase più complessa. Questa teoria è stata
legata anche all’ipotesi dell’insegnabilità: ci si è posti il problema se le lingue seconde siano insegnabili e
come poterle insegnare nella maniera migliore.

USARE UN’ALTRA LINGUA

Fino ad ora si è parlato di linguistica acquisizionale. Ora non si parla più di come si impara una lingua, ma di
come si usa una lingua. Quali sono gli errori che si fanno, dato che non sappiamo usarla bene, perché
usiamo una forma che non è adeguata al contesto. Se lo studente si rivolge ad un professore e gli dice
‘’chiudi quella finestra’’, non ha sbagliato nulla sotto un punto di vista grammaticale, ma dal punto di vista
pragmatico la frase è scorretta per il contesto, cioè i ruoli in quella situazione richiedevano non quella
forma di comando, ma una richiesta gentile, anche con l’ausilio di molteplici modulatori.
Come parlanti nativi non ci accorgiamo di avere questa competenza perché siamo stati educati fin da piccoli
alla pragmatica della nostra lingua, mentre quando impariamo una lingua straniera nessuno ci insegna la
pragmatica dell’altra lingua, per cui trasferiamo la pragmatica della nostra lingua nell’altra, con scarsi
risultati.

Un errore grammaticale è molto meno grave rispetto ad un errore pragmatico: questo ci fa risultare
sgarbati, maleducati, ci fa perdere il lavoro o gli amici; un errore pragmatico significa avere scelto
un’intonazione sbagliata, una forma sbagliata. Alcune persone, neanche nella lingua materna sono capaci di
comunicare in modo adeguato: se io riesco ad ottenere dei risultati nell’interazione con gli altri è perché
sono un buon comunicatore, e so usare bene la pragmatica. Di solito il parlante nativo colto, però, gestisce
bene la pragmatica della lingua materna, ciò non è detto quando usa la lingua seconda.

Ad esempio: è facile convincere gli studenti stranieri che non devono usare il saluto ‘’ciao’’? Loro lo sentono
ripetutamente, e quindi non si rendono conto di quanto sia grave usare una forma colloquiale con un
professore, o comunque in una situazione formale.
Questa parte sembra più semplice, in realtà quando si studiano le lingue straniere ci si concentra molto
sulla parte grammaticale e lessicale, raramente si affronta la parte pragmatica.
Cos’è la PRAGMATICA?

• <<La pragmatica studia i fattori che nell’interazione sociale governano le scelte linguistiche e gli
effetti di tali scelte su altri.>> [Crystal, 1997: 120]
• La pragmatica è il livello di analisi che si occupa dell’uso della lingua.
• Si studia il processo di produzione linguistica
 Si analizzano gli enunciati e si interpretano nel contesto di enunciazione
 Ciò che influenza la lingua è ciò che dalla lingua è influenzato
• Bar-Hill (1971) definisce la pragmatica come la “pattumiera” della linguistica.

La definizione di Crystal afferma che ‘’La pragmatica studia i fattori che nell’interazione sociale governano
le scelte linguistiche, e gli effetti di tali scelte sugli altri’’. Non si parla di correttezza formale, ma di una cosa
diversa, e che riguarda soprattutto l’efficacia della comunicazione: la domanda da porsi è ‘’sono un
comunicatore efficace?’’; non interessa se si sta comunicando in modo formalmente corretto (ci si riferisce
alla grammatica). Ci si concentra, in pragmatica, sull’effetto che ha ciò che si dice: siamo noi che scegliamo
quali forme usare. Nell’interazione sociale sappiamo qual è l’effetto che le scelte linguistiche hanno sugli
altri, quindi dire ad un’amica ‘’stamattina fai schifo’’, potrebbe comportare una rispostaccia, o uno schiaffo,
o addirittura il non rivolgersi più la parola; se invece dico ‘’ti vedo stanco, poco riposato’’, comunico
interesse, preoccupazione.
La lingua è quella che noi creiamo nell’interazione, momento per momento, dunque la pragmatica assume
un valore fondamentale, in quanto si occupa proprio dell’uso della lingua.

La pragmatica studia il processo di produzione linguistica, quindi non è interessata solo alla forma finale,
ma anche a capire quando ho usato quella forma, in che luogo, per quale scopo, con chi stavo parlando: si
tratta del contesto di enunciazione. Per la pragmatica non esistono cose decontestualizzate.

(pag. 87-88) Il libro fa riferimento al modello SPEAKING, elaborato dal noto sociolinguista Hymes negli anni
’80; SPEAKING in inglese significa parlare, è interessante dunque in quanto si occupa del parlato, ma in
realtà si tratta di un acrostico composto dalle iniziali di parole che rappresentano elementi fondamentali
dell’evento linguistico.

S  sta per due parole diverse:


1. Setting, cioè la localizzazione, il luogo fisico in cui avviene la comunicazione;
2. Scene, cioè scena, l’evento comunicativo che sta avvenendo.

Ad esempio: in un’aula universitaria (setting) si sta svolgendo un’interrogazione, un esame, una lezione,
etc.; (scene): ci si può fare, lì, una lezione di ginnastica?

Esiste un’importanza di entrambi gli elementi, perché spesso il setting determina la possibilità che si
realizzino o meno alcune scene, dunque questi due elementi ci costringono a fare delle scelte linguistiche
diverse.

P  sta per participants;


Hymes ne identifica 4: parlante, ascoltatore, emittente, pubblico.
I termini non sono usati come sinonimi perché si fa una differenza tra chi ha pensato il messaggio e chi lo
produce, tra la persona a cui è veramente rivolto e chi lo sta soltanto ascoltando. In molti casi parlante è
anche emittente, e l’ascoltatore è anche destinatario, ma ciò non si verifica in tutti i casi. Questa divisione
rende possibile identificare chi è il vero destinatario del messaggio, e chi è solo l’ascoltatore casuale.

E  sta per ends, sono gli scopi che si vuole raggiungere: cosa voglio? Perché dico una cosa?

La lingua viene studiata non solo in quanto lingua in sé, cioè tenendo conto della fonologia, grammatica,
ecc., ma viene studiata anche la pragmatica, cioè l’uso della lingua nell’interazione sociale e quindi si
occupa di come si usa la lingua fra i parlanti e a quale scopo, di tutto ciò che governa le scelte linguistiche,
del perché si sceglie di dire determinate cose e di quali sono gli effetti che hanno le cose che si dicono sugli
altri. (Esempio: la prof che parla agli alunni o una discussione tra compagni.) È oggetto di studio quello che
si dice all’altro, quindi non si tratta solamente di due parlanti che interagiscono, ma anche di un parlante
che interagisce con più persone, dipende dal contesto.

Nell’analisi linguistica, la lingua viene segmentata in vari livelli:


 Fonologia: livello più basso
 Morfologia: analizza la formazione delle parole
 Sintassi: analizza il modo in cui le parole vengono messe in ordine l’una dopo l’altra all’interno delle
strutture
 Semantica: studio del significato, abbraccia tutti i livelli di analisi
 Pragmatica: si occupa dell’uso della lingua; analizza gli enunciati e li interpreta nel contesto della
loro enunciazione

La lingua serve per comunicare e agire.

Innanzitutto, quando si analizza una lingua, si prendono in considerazione diversi tipi di livelli:
 Il primo è la fonologia, ovvero i suoni di una lingua, i quali variano a seconda delle lingue, ecco
perché ci è difficile riprodurre i suoni di una lingua seconda, ed è per questo che si ha l’accento.
 I livelli di morfologia e sintassi (ovvero la grammatica): la morfologia analizza la forma e la
formazione delle parole, mentre la sintassi, come queste parole vengono messe insieme, poiché ci
sono delle regole. Ogni lingua ha delle regole sintattiche, non si possono inserire parole a caso, ma
bisogna seguire un ordine preciso e per ogni lingua questo ordine può variare.
 Il livello della semantica, ovvero il significato di ogni parola.
 Il livello della pragmatica, cioè tratta la lingua che utilizzo per comunicare e agire. Come si è detto:
parlare è sempre fare qualcosa, quando si parla si compie un’azione. (Esempio: si chiede scusa, si
informa, si domanda ecc.)

I fenomeni di cui si occupa la pragmatica sono:


 L’ambiguità
 La deissi
 Gli atti linguistici
 Il principio di cooperazione
 La cortesia
 L’organizzazione della conversazione

Quindi la pragmatica analizza gli enunciati e li interpreta nel contesto della loro enunciazione. È difficile
parlare di lingua quando non si sta analizzando un contesto, nel senso che, se si prendesse come esempio
una frase a caso, ognuno potrebbe capire una cosa diversa; se invece, quella frase venisse detta in un
determinato contesto, sarebbe più chiara. Non tutto ciò che è lingua è sempre e solo lingua, s’intende
quindi, che viene influenzato anche da tutto ciò che la circonda. Determinate situazioni possono essere solo
linguistiche, ad esempio una telefonata. In una telefonata la lingua è l’unico mezzo di comunicazione con
l’altro parlante, se si sta zitti o se mentre si è al telefono si inizia a muovere le braccia per indicare cose,
l’altra persona non vede. In altre situazioni, invece, la lingua è uno degli elementi della comunicazione, a
volte il più importante. Si pensi, ad esempio, ad una partita sportiva: potrebbe andare avanti anche senza
dire una parola, probabilmente con delle difficoltà, dunque c’è sempre bisogno di comunicare, anche in una
partita sportiva, che è però circondata da un contesto più ampio. Spesso si comunica anche solo con
un’espressione (tristezza, gioia…)
La pragmatica tratta diversi fenomeni, poiché si occupa della lingua nel suo reale contesto d’uso e i
fenomeni sono questi:
 L’ambiguità: molto nel linguaggio naturale è ambiguo, partendo dalle parole più comuni fino ad
arrivare alla grammatica e, l’ambiguità, interessa la pragmatica perché la sua risoluzione avviene
considerando l’uso dell’enunciato nel suo contesto. L’ambiguità inoltre significa il non essere
chiari. Accade quando non si conosce il contesto, per esempio:
 Suoni il piano?
 Abitano al terzo piano.
 Non ho ancora alcun piano.
 Quel tavolo ha il piano sbilenco.
In questo caso la parola “piano” è ambigua per omofonia, cioè perché in italiano ha diversi significati.
Ma l’ambiguità può essere anche un po’ più specifica.
Esempio: Candida ha invitato a cena Innocenzo perché ha pescato i naselli.
Chi ha pescato i naselli? Non si sa, a meno che Innocenzo si presenti con i naselli a questa cena, allora si
potrebbe capire che li ha pescati lui. Se invece, quando arriva Innocenzo, Candida ha già i naselli in forno, si
può dedurre che li abbia pescati lei. Quindi dipende dal contesto in cui ci si trova.

 La deissi: comprende i deittici (elementi specifici della lingua) e il contesto in cui vengono usati
attraverso:
 La deissi personale: codifica (che permette di capire) il ruolo di chi partecipa all’enunciato;
 La deissi sociale: codifica la distanza sociale tra i partecipanti dell’atto dell’enunciato, quindi se
si dà del tu è perché si è vicini socialmente, se si dà del lei è perché c’è distanza sociale;
 La deissi spaziale: codifica la distanza fisica, quindi tutti i deittici come “questo qui”, “quello lì”,
ecc. (Il primo sarà vicino a chi parla o alla cosa a cui ci si riferisce, il secondo lontano.);
 La deissi temporale: codifica la distanza temporale dal momento di enunciazione. Si parla di
qualcosa che è successa adesso? O qualcosa ch’è successa in passato? Oppure che succederà?

Esempio: “Passami quello”. Da solo non significa niente, mettendolo però in un contesto sicuramente si
tratterà di una persona che sta parlando con qualcuno che conosce bene.

Deissi personale: io parlo a te, io soggetto e tu sei la persona che deve compiere l’azione.
Deissi sociale: ci si conosce bene.
Deissi spaziale: Quello, perché è lontano da me.
Deissi temporale: Quando? Adesso.

Quindi i deittici aiutano nel contesto a specificare degli elementi, a capire di cosa stiamo parlando e in che
modo lo facciamo. Se invece si racconta una cosa successa, si dirà “Ieri ho bucato la ruota”, quindi si spiega
la deissi temporale; chi ha compiuto l’azione, quindi deissi personale “io”, che mi sto riferendo a “te”. In
questo caso non c’è la distanza fisica, poiché non tutte devono per forza coesistere all’interno dello stesso
enunciato.

 Gli atti linguistici: parlando si compie un atto di tipo linguistico. Quel che si dice incide in qualche
modo sul mondo, a meno che non si parli da soli.

Esempio: “è uscito il sole”. Potrebbe significare: “Finalmente!”.


Oppure se si è in spiaggia, magari si sta facendo un invito a fare il bagno.
Oppure se si dice quando fa troppo caldo, probabilmente è un rifiuto ad una richiesta come “Andiamo a
fare una passeggiata?”.

Quindi quest’atto linguistico semplicissimo può avere molteplici significati, che dipendono dal contesto.
Compiendo quest’atto, si provoca anche una reazione.
 La cooperazione: cioè bisogna dire cose appropriate in qualsiasi momento dell’interazione.
Esistono quindi quattro massime, che vengono chiamate massime conversazionali:
1. La massima della quantità, ad esempio: se viene chiesta l’età, non si risponderà “Ho 20
anni, vengo da Napoli, mi piace la pizza ecc.” In questo caso bisogna dare un contributo
informativo pari alla domanda;
2. La massima della qualità, cioè non bisogna affermare quello che si crede sia falso, ma la
verità o almeno quella che si crede sia la verità;
3. La massima della relazione, cioè significa essere pertinente alla situazione;
4. La massima di modo, cioè quando si parla bisogna cercare di essere chiari, si dice qualcosa
così che l’altra persona possa capire. Quando si rispettano tutte le massime, la
conversazione va bene. Quando alcune di queste massime vengono a mancare, la
conversazione diventa strana.

Esempio: ci potrebbe essere una persona che parla più dell’altra, quindi non si sta cooperando.
Non si dicono cose vere o non si è pertinenti, cioè si passa da un discorso all’altro senza nessuna logica,
oppure ci si esprime con oscurità, magari perché si nasconde qualcosa.
Quando si parla con un apprendente di lingua seconda, ciò non succede mai, perché, proprio per rendere la
conversazione più semplice possibile, si cerca di attivare tutte le massime.

 La cortesia: non si utilizzano sempre le massime del principio di cooperazione, perché secondo
Goffman (1967) esiste una “faccia” che si vuole sempre salvare di fronte agli altri parlanti. Ci sono
due facce: una positiva, cioè il bisogno di essere accettati dagli altri, poiché si vuole sempre piacere
a tutti e una negativa, ovvero la necessità di essere indipendenti e liberi. Dunque la cortesia è una
serie di strategie verbali impiegate dal parlante per manipolare l’interazione, massimizzando i
vantaggi e minimizzando gli svantaggi in termini di faccia, positiva o negativa, propria e
dell’ascoltatore. Cioè si usano queste strategie per far andare bene la conversazione.

Esempio: i complimenti. Non è sempre facile gestirli. Avendo una L2, si può non saper fare un complimento,
quindi non si fanno mai. Però non si può non saper rispondere ad un complimento, perché probabilmente
l’altro parlante potrebbe pensare che non si vuole rispondere perché non si è d’accordo con lui. Quindi
accettando il complimento, di solito si intende dire che si è d’accordo.
Alla frase “ma sei proprio brava!”, se io rispondo “è vero!”, “grazie”, “sono d’accordo” salvo la tua faccia
perché io sono d’accordo con te, ma minaccio la mia perché posso sembrare presuntuosa e vanitosa.
Se al contrario a “sei brava!” io rispondo “non è vero”, declino il complimento ma salvo la mia faccia, però
minaccio la tua perché sto dicendo che non hai ragione (in una conversazione si cerca di mediare tramite le
massime di conversazione, cerchiamo di cooperare con l’altro parlante).

L’ORGANIZZAZIONE DELLA CONVERSAZIONE

 Nella conversazione ha grande importanza lo scambio di ruolo da ascoltatore a parlante e


viceversa.
 Se ci sono più parlanti, come si fa a sapere quando è il proprio turno, e come si comincia quando che
è il proprio turno?
 È merito dell’analisi della conversazione che evidenzia le procedure che i partecipanti
all’interazione mettono in atto per iniziarla, mantenerla viva e concluderla.

Una conversazione deve essere organizzata, cioè deve avere uno scambio di ruoli (ascoltatore –
parlante/parlante – ascoltatore) che vengono spesso invertiti, altrimenti si tratterebbe di un monologo.
Quindi, in una conversazione si prendono i turni (non sappiamo effettivamente come facciamo, spesso
dipende dalla nostra cultura).
Ad esempio, gli italiani sono famosi per essere dei gran maleducati perché non sanno scambiarsi il turno, “si
parlano addosso”: io non finisco la mia frase che tu inizi subito a parlare; o addirittura, mentre sto parlando
parli anche tu.
I cinesi invece hanno una profonda organizzazione della conversazione, sono molto rispettosi: fin quando
non finisci di parlare e fai una pausa, non ti interrompo mai e aspetto il mio turno per parlare.
Il punto è: dipende dalle culture, da come siamo stati abituati. Abbiamo detto che la cultura è tutto ciò che
ci circonda, quindi ci comportiamo esattamente come ci viene insegnato, non perché vogliamo essere
scostumati; gli italiani fanno così, e i cinesi se la prendono tantissimo, perché spesso la vedono come una
mancanza di educazione, siccome non riescono a parlare.
Infatti, in italiano il turno è brevissimo e a volte viene rispettato, ma è davvero molto breve: nel momento
in cui si fa una piccola pausa, lì c’è l’altro che già sta parlando. Invece, in altre lingue il turno è lungo, quindi
si può parlare, fare una pausa e riprendere; dipende se quella pausa serve per respirare, o se perché si sta
cedendo il turno: anche questo lo si capisce dal contesto, e anche per questo le conversazioni telefoniche
sono le più difficili da analizzare.
Analizzare una conversazione telefonica è molto difficile, perché ci si parla addosso in continuo: proprio
perché non ci si vede, non si capisce bene quando uno finisce di parlare, e quindi ad esempio appena tu fai
una brevissima pausa parlo io; “tu” stai ancora parlando, ed io ti interrompo, o magari continuo perché ti
devi interrompere tu.

Grazie all’analisi della conversazione, evidenziamo le procedure che i partecipanti all’interazione mettono
in atto per iniziarla, mantenerla viva e concluderla. Le conversazioni sono sempre vive, altrimenti ci si
annoia o non c’è conversazione, e si finisce. Quindi l’analisi della conversazione studia come le
conversazioni iniziano, come vengono mantenute vive e come si concludono.

IL CONTESTO

La pragmatica come teoria del contesto


 Contesto linguistico
 Tutto ciò che precede o segue un enunciato
 Contesto extralinguistico o socioculturale
 Tutto il resto che incide sul significato dell’enunciato
 Situazione oggettiva
- Parlante
- Ascoltatore
- Tempo
-Luogo
 Rete soggettiva
- “Capire un enunciato e decodificare, calcolare tutto ciò che è lecito
supporre fosse nelle intenzioni di chi l’ha pronunciato.” [Strawson]

Abbiamo detto che tutto quello che influenza una lingua ed un enunciato, e che viene dalla lingua
influenzato a sua volta, è il contesto. Il contesto è un concetto pragmatico, ed è così pragmatico che
possiamo definire la pragmatica come la teoria del contesto: la pragmatica studia la lingua in un reale
contesto d’uso.
Distinguiamo tra contesto linguistico e contesto extralinguistico (o socioculturale).
 Il contesto linguistico è quello che avviene all’interno di una conversazione, è quindi la lingua in sé
per sé, noi diciamo qualcosa sempre condizionati da qualcos’altro;
es. se io dico “non ho più benzina”, l’altro risponde “c’è un distributore dietro l’angolo”: la seconda
frase non avrebbe senso se non ci fosse la prima; io capisco che non hai benzina, e ti consiglio di
andare lì.
La conversazione può anche continuare, es. “a prezzi convenienti?”: se non inquadro questo
enunciato nelle precedenti frasi, quest’ultima frase da sola non ha senso.
Dunque il contesto linguistico è tutto ciò che precede o segue un enunciato.
 Il contesto extralinguistico invece è quello che incide sul parlato, cioè quello che c’è intorno ai
parlanti in quel momento, e non quello che viene detto.
Distinguiamo fra una situazione oggettiva (Chi è il parlante e chi è l’ascoltatore? Quando e dove
stanno dicendo questo?), e una rete soggettiva (ovvero le intenzioni degli interlocutori e tutto ciò
che influenza le loro intenzioni, cioè quello che vogliono fare parlando, quindi le loro credenze, gli
scopi, i pregiudizi, le conoscenze, o i loro desideri).

Secondo il criterio di ampiezza, identifichiamo nel contesto 3 unità di analisi.


1. Il contesto più ampio dell’interazione verbale, ovvero la comunità: senza la comunità non c’è parlato,
non c’è interazione verbale.
2. L’evento comunicativo: in alcuni casi la lingua è l’intero evento comunicativo (es. nella telefonata senza
la lingua non c’è comunicazione), in altri casi invece la lingua è parte fondamentale dell’evento, ma non è
tutto.
3. L’atto linguistico: per quanto riguarda l’identificazione delle componenti dell’evento linguistico parliamo
dello “schema speaking di Heinz”. Secondo questo acrostico, del contesto fanno parte tanti fattori:
innanzitutto la situazione, ovvero quando succede il fatto, e le circostanze psicologiche dei parlanti; i
partecipanti alla conversazione (nel nostro caso parlante – ascoltatore), e i ruoli vengono spesso invertiti
(dipende dalle situazioni);
– Gli scopi possono essere distinti in: raggiunti e non raggiunti. Parliamo quindi di mete, cioè
obiettivi da raggiungere;
– La sequenza di atti, cioè lo scambio di enunciati;
– La chiave, cioè in che tono si parla (confidenziale, non confidenziale, calmo, arrogante, ecc);
– Gli strumenti (o il canale), quindi se è parlato o scritto (anche lo scritto è lingua, quindi anche
uno scambio di messaggi è una conversazione, che avviene in un contesto diverso);
– Il codice, cioè la lingua o le lingue in cui sto parlando;
– Le norme, di interazione e di interpretazione;
– I generi: il racconto, la conversazione, la conferenza, il dibattito, la preghiera, ecc.
Sono tutti modi di comunicare, in modo diverso, in luoghi diversi e con partecipanti diversi.
Quindi tutte le regole di conversazione cambiano soprattutto in base ai generi;

S = situation: situazione intesa come la somma di circostanze fisiche di luogo e ora (localizzazione) e
circostanze psicologiche e sociali (scena);
P = participants: parlante, ascoltatore, emittente e pubblico;
E = end or purpose: scopi, distinti in risultati (obiettivi raggiunti) e mete (obiettivi in vista);
A = act sequence: sequenza di atti comprensivi della forma e del contenuto del messaggio;
K = key: chiave, intesa come tono ed espressività con cui si parla;
I = instrumentalities: il canale (parlato, scritto, bisbigliato, telefonico, ecc.) e il codice (lingue e varietà di
lingue);
N = norms: norme di interazione e di interpretazione;
G = genres: generi, tra cui: racconto, conversazione, conferenza, dibattito, preghiera, ecc.

La complessità del contesto, quindi, è dovuta al fatto che le sue componenti sono numerose. Inoltre il
contesto è dinamico, quindi può cambiare sempre.

In generale, la pragmatica ha un orientamento filosofico e uno sociologico.


Quando diciamo che ha un orientamento filosofico, intendiamo dire che questa ha un interesse per le
intenzioni del parlante e l’effetto che ha l’enunciato sull’ascoltatore. Privilegia, quindi, l’aspetto cognitivo e
logico del parlante. E ha a che fare anche con la semantica.
Ha un orientamento sociologico: privilegia solo l’aspetto sociale, antropologico e ha delle sovrapposizioni
con la sociolinguistica.

Per quanto riguarda invece le divisioni interne alla pragmatica generale in sé, distinguiamo
pragmalinguistica e sociopragmatica.

 La pragmalinguistica è lo studio della pragmatica, ovvero tutte le scelte linguistiche dei parlanti a
partire dalle strutture grammaticali.
 La sociopragmatica, invece, considera i meccanismi mentali che ci sono dietro determinate scelte
linguistiche.

La pragmatica ha diversi filoni e distinguiamo:


1. Pragmatica intraculturale (l’insieme delle norme che regolano l’uso di una lingua all’interno di una
cultura);
2. Pragmatica contrastiva (ovvero metto a confronto le norme di una L1 associata ad una C1 e le
norme di una L2 associata ad una C2);
3. Pragmatica interculturale (cioè si può occupare dell’interazione tra nativi e non nativi, quindi
parlanti L1 e L2 di una determinata lingua e cultura);
4. Pragmatica interlinguistica, cioè caratteristica dell’interlingua di chi apprende una L2.
Due sotto-discipline della pragmatica sono l’analisi del discorso e l’analisi della conversazione.
Ci si approccia a queste due sotto-discipline in modo diverso.

 L’analisi del discorso ha un metodo deduttivo, ovvero prima si ipotizzano delle regole e
successivamente si analizzano i dati in base alla ipotesi fatte.
 L’analisi della conversazione, invece, utilizza un metodo induttivo, cioè si serve di dati, attraverso
la cui analisi, avviene la costruzione della teoria. Quindi senza dati non ci può essere regola.

In conclusione, nello studio della linguistica, a volte, ci si dimentica di chi la fa la lingua, ovvero i parlanti e ci
si concentra troppo solo sulla lingua. Quindi Joseph dice che per capire pienamente la comunicazione, più
che partire dal messaggio, bisognerebbe partire dai parlanti.

<<Riumanizzazione della linguistica>> Joseph (2004)


“Interpretazione interattiva del messaggio significa partire dai parlanti e dalla loro interpretazione l’uno
dell’altro, piuttosto che partire dal messaggio considerandolo primariamente nella sua funzione
referenziale.”

GLI ATTI LINGUISTICI

Un atto linguistico è locutorio perché diciamo qualcosa, compiamo un'azione. È illocutorio ed è


perlocutorio, ovvero provochiamo un effetto nell'altro parlante, vogliamo raggiungere uno scopo. Questi
tre atti coesistono sempre in un enunciato, un atto linguistico non può essere solo locutorio o solo
perlocutorio, ma ha sempre queste tre caratteristiche.

Atto illocutorio: Ci indica come interpretare quello che diciamo.


I complimenti sono atti linguistici che servono a mantenere il contatto tra i parlanti, cioè a tenere un
legame fra gli interlocutori, mentre le proteste allontanano i due interlocutori psicologicamente.
Il complimento ha vari fattori di variazione:
- l'oggetto del nostro complimento (e questo cambia in base alle diverse culture);
- la forma linguistica con cui si esprimono (spesso i complimenti hanno delle formule fisse);
- la funzione che assorbono;
- sollecitano sempre l'altro interlocutore, perché se mi complimento è perché vorrei che continuassi con
questo comportamento gradevole.
L'attributo del complimento varia a seconda delle culture (ad esempio gli italiani apprezzano di più la forma
fisica, l'abbigliamento ed i possedimenti; gli americani solo l'abbigliamento o lo stile; gli orientali le
competenze ecc).
Le formule fisse possono essere, ad esempio: “che bella borsa, che bei capelli”; la funzione è quella di
mantenere il contatto e la solidarietà fra gli interlocutori, può servire per rafforzare un ringraziamento
oppure per attenuare una critica, quindi se voglio aggiungere qualcosa di non molto positivo inizio con un
complimento.

Un esempio di coppia simmetrica è il saluto, cioè ad un saluto ne corrisponde un altro; un esempio di


coppia fissa è quello di domanda e risposta.
Invece ad un complimento può corrispondere l'accettazione o la non accettazione. L'accettazione viene
chiamata “massima dell'accordo”, la non accettazione “massima della modestia”; qui entrano in gioco
anche le facce: il destinatario del complimento accettandolo salva la faccia dell’autore del compimento, ma
mostra una faccia negativa, perché dicendo di essere d'accordo può risultare vanitoso.
Nella non accettazione, invece, il destinatario del complimento salva la sua faccia però minaccia quella
dell’autore, in quanto dice di non essere d'accordo.
Studiando una L2, bisogna cercare di mettere tutto questo nel contesto di quella lingua mentre si parla o si
apprende una delle due. Quindi, se fare un complimento è opzionale, nel senso che non si è costretti a
saper fare un complimento in un'altra lingua, però rispondere ad un complimento è quasi obbligatorio,
perché anche non rispondere viene interpretata dall'altro parlante come un rifiuto al complimento.
I complimenti sono atti linguistici espressivi, mentre le proteste sono atti linguistici espressivi e direttivi
perché, non solo esprimono uno stato psicologico, ma vogliono anche una riparazione, ecco perché la
protesta è diversa dalla lamentela: mi lamento, mi sfogo, ma non chiedo niente all'altro parlante; la
protesta, invece, vuole una riparazione.

Ad esempio, se A (autore della protesta) protesta è perché D (destinatario della protesta) compie un atto
inaccettabile. Quindi A ritiene che il comportamento di D ha delle conseguenze negative; la protesta di A si
può riferire direttamente o indirettamente a ciò che è accaduto e, ovviamente, A vuole che D ripari
all'accaduto. Il destinatario della protesta può reagire in diversi modi, ad esempio: A abita al primo piano e
D abita al secondo piano; tutte le sere D alza la musica a tutto volume fino a mezzanotte, ma A deve
dormire e non riesce per via del rumore, quindi può chiedere all'altro parlante di abbassare il volume e può
farlo in vari modi, quindi gli bussa e gli chiede di abbassare il volume. D, però, potrebbe:
- eseguire il direttivo senza menzionare nulla riguardo la critica;
- accettare l'espressivo (la critica) ed eseguire il direttivo, quindi alla richiesta l'altro parlante si scusa in
qualche modo;
- mettere in dubbio l'espressivo ed eseguire, allo stesso tempo, il direttivo, quindi potrebbe essere
contrariato;
- rifiutare il direttivo menzionando la critica.
In teoria ci sono anche altre due opzioni, ovvero:
- il destinatario può accettare l'espressivo e non eseguire il direttivo;
- rifiutare il direttivo senza neanche menzionare l'espressivo.
Quindi, queste due componenti sono parte fondamentale della protesta.

La componente espressiva è la funzione comunicativa, cioè l'espressione dello stato psicologico del
parlante; mentre la componente direttiva è il volere del parlante di avere una riparazione da parte
dell'altro.
Per questo motivo la protesta è un atto linguistico molto complesso e, mentre il complimento si riduce ad
una sola coppia di atti (fare il complimento, rifiutare o accettare), la protesta diventano quattro:
1) l'espressivo ed il direttivo da parte dell'autore della protesta.
2) la reazione da parte del destinatario.
3) la negoziazione da parte di entrambi.
4) una risoluzione, che sia essa positiva o negativa.

Di tutte queste quattro solo la negoziazione è facoltativa, nel senso può esserci l’espressivo e il direttivo da
parte dell’autore, la reazione obbligatoria dell’altro (anche la mancanza di reazione è una reazione,
“rifiutare l’espressivo e non eseguire il direttivo”) e poi la risoluzione. I parlanti, però, cercano sempre di
negoziare perché devono salvare le proprie facce, quindi cercano sempre di trovare un compromesso per
non finire in malo modo.
Per questo parliamo di calibrazione, cioè, per mantenere l’equilibrio tra gli interlocutori c’è bisogno di
mitigare l’atto, poiché l’autore della protesta mostra poca sensibilità nei confronti del suo interlocutore, nel
senso che gli viene minacciata la faccia positiva, mentre al destinatario viene minacciata sia la faccia
negativa che positiva, perché gli viene detto che ha assunto un comportamento inaccettabile, quindi gli
viene minacciata la faccia positiva, ma anche quella negativa perché gli viene chiesta una riparazione.
È chiaro quindi quanto sia complicato protestare in L2, soprattutto in modo culturalmente appropriato,
perché innanzitutto lo stato psicologico dipende dalla cultura del parlante, quindi prima ancora di
protestare bisogna valutare se l’altro interlocutore ha compiuto un atto inaccettabile per la propria cultura.
In secondo luogo bisogna considerare il contesto socio-pragmatico e poi trovare le parole giuste ed
esprimerle con una forza illocutoria appropriata al contesto.

Queste sono le caratteristiche che bisogna calibrare in una protesta:


● La forza illocutoria dell’atto espressivo, nel senso che si può essere più duri o meno duri con le
parole. Sicuramente protestare non vuol dire offendere, anche perché protestando viene chiesta
una riparazione, offendendo sicuramente non la si riceverà, quindi di solito si fa un accenno al
comportamento inaccettabile del destinatario;
● La forza illocutoria del direttivo, non si può obbligare l’altra persona a rimediare, questo è implicito
nella protesta, sicuramente non viene ordinato di rimediare. In determinati casi si può anche
minacciare, calibrando la forza illocutoria dell’atto.

Per calibrare ciò, c’è tutta una serie di strategie linguistiche che si possono utilizzare: modi e tempi verbali
appropriati, lessico appropriato, modificatori interni ed esterni.
I modificatori interni includono due categorie:
● Attenuatori, servono per alleggerire il peso della protesta. Sono, ad esempio, richieste di accordo
come “non pensi anche tu che la musica sia un po’ alta?”, oppure soggettivismi come “temo di sì,
temo di no”, etc.
● Rafforzativi servono per appesantire la protesta, ad esempio in “questa musica è veramente alta!”,
veramente è un rafforzativo perché dà più forza illocutoria all’atto linguistico.

I modificatori esterni servono per giustificare il diritto alla critica e quindi alla richiesta di direttivo; anche
questi possono alleggerire o appesantire il contenuto della protesta e a volte vengono utilizzati entrambi.
Significa che parlando si alleggerisce e appesantisce allo stesso tempo la protesta utilizzando una forza
illocutoria a metà tra le due parti.
Ad esempio, nella frase “scusi ma non può abbassare questa musica?” si appesantisce la protesta con
questa che ha una forza illocutoria più grande, però, si alleggerisce mettendola sotto forma di domanda;
“scusi, abbassi questa musica”, invece, può essere un altro tipo di protesta con una forza illocutoria
maggiore, mentre mettendola sotto forma di domanda si cerca un accordo nonostante si faccia capire che
la protesta è forte.
I modificatori esterni possono essere anche delle scuse prima di iniziare la protesta, ad esempio “scusi, non
vorrei risultare pesante, ma è davvero alta questa musica”, oppure delle pause “beh guardi, non è che
potrebbe abbassarla? perché… è davvero alta questa musica”.
Possiamo vedere quanto sia difficile interpretare una protesta e quante cose entrano in gioco all’interno di
questo atto linguistico difficile da analizzare perché non è mai così esplicito e perché dipende dallo stato
psicologico dei parlanti, dalla modulazione della protesta e dalla riparazione, quindi il direttivo.

Fanno parte della protesta sia il contesto linguistico, cioè quanto detto fino ad ora (tutto lo scambio di
enunciati, la negoziazione, la reazione, il rifiuto, l’accettazione), sia il contesto extra-linguistico, cioè:
● La distanza sociale tra parlante e ascoltatore, cioè il livello di formalità o informalità che si può
creare tra due interlocutori;
● Il relativo potere di un parlante sull’altro, può essere più o meno forte e riguarda la misura in cui
un parlante si può imporre sull’altro o si senta in diritto di poterlo fare (ad esempio il potere che
può avere un genitore sul figlio);
● Il livello assoluto d’imposizione, è l’intensità della protesta che può variare sia in base alla gravità
del comportamento del destinatario della protesta, sia in base allo stato psicologico dei parlanti, sia
in base al livello di difficoltà del momento della protesta, perché protestando ci si sta impegnando
in un’azione complessa, in quanto viene minacciata la faccia del parlante, dell’ascoltatore, viene
messo in discussione l’equilibrio che c’è tra i due e perché viene chiesta una riparazione, quindi
viene fatta indirettamente una richiesta.

Per tutti questi motivi protestare in una lingua seconda è molto difficile, come anche essere destinatari di
una protesta e poi compiere direttamente il direttivo. Ciò avviene, infatti, in uno stadio di interlingua più
evoluto, in quanto occorre più tempo per imparare a protestare nel modo corretto, perché si può saperlo
fare a livello linguistico ma in modo culturalmente non appropriato. Quando si è destinatari di una protesta,
invece, ci si potrebbe offendere perché nessuno nella nostra cultura ci avrebbe chiesto di rimediare ad una
cosa del genere e quindi anche accettazione e rifiuto dipendono dalle culture, dalle lingue e dalle situazioni
socio-pragmatiche.

LA CONVERSAZIONE

Definizione di conversazione: è tratta da uno studio di Carla Bazzanella che è molto interessata alla
conversazione. “La conversazione è frutto di una collaborazione di un lavoro in comune tanto da essere
considerata metaforicamente come un tessuto, in cui i contributi di parlanti di turno e di interlocutore di
interlocutori si intrecciano tra di loro fin quasi a confondersi e a costituire un unico prodotto.”
Quando noi pensiamo alla conversazione ci viene in mente qualcosa di molto casuale, un parlato senza
regole, qualcosa che non si può studiare in quanto ogni conversazione è diversa.
Le conversazioni sono diverse, ma in realtà esiste uno schema, un modello, un format di questo tipo di
interazione che noi chiamiamo conversazione.
La conversazione quindi non è casualità ma ha le sue regole. Essa è un testo orale, non è un monologo,
abbiamo necessità di almeno due persone per avere una conversazione e molte volte la conversazione ha
più persone e i parlanti prendono il TURNO per comunicare il loro messaggio e procedere all’interno della
conversazione.

Una particolare attenzione va rivolta alla terminologia della conversazione:


Conversazione  interazione verbale, e il sinonimo di conversazione è esattamente quello di
scambio/interazione verbale. In Interazione è evidente la funzione di movimento del turno di parola tra i
due interlocutori. L’atto linguistico, sottolinea Bazzanella, verrà chiamato sempre sia per indicare quello che
alcuni linguisti chiamano MACRO ATTO sia quello che chiamano MICRO ATTO.

Nel libro questa differenza non viene fatta, perché un MACRO ATTO potrebbe essere la protesta che dentro
contiene dei micro atti, il micro atto potrebbe essere il saluto e poi il lamento, e tutti insieme costituiscono
un macro atto. Nella conversazione non si fa differenza tra micro e macro atto, e dunque utilizziamo il
termine atto linguistico.
Differenza tra turno e mossa.

Turno > Inizia il turno di un parlante quando pronuncia una sillaba, una parola, e il turno finisce quando
smette di parlare. Se io ho il turno di parlare e lo sto mantenendo e subentra un’altra persona che inizia a
parlare mentre lo sto facendo io, prende il turno e noi partecipanti della conversazione per un lasso
temporale ci sovrapponiamo.
In genere la conversazione è una struttura complessa, perché quando il parlante ha un turno di parola, non
è detto che riesca a completare la sua mossa, ovvero tutto ciò che vuole fare , la funzione per la quale sta
parlando. Se io devo rimproverare prendendo il turno e qualcuno mi interrompe, io non ho completato
quello che dovevo fare, quindi il mio atto non va fino alla fine perché qualcuno mi ha interrotto. Il turno,
quindi, si può interrompere e può essere che si debba riprenderselo dopo.

MOSSA è quella di tipo funzionale.


TURNO è fisico, inizia e finisce con la mia voce e le mie parole.

Della conversazione hanno iniziato ad interessarsi negli anni ‘70 e ’80, quando il parlato è diventato più
centrale e sono partiti dall’osservare la struttura della conversazione. Una delle cose che possiamo
osservare è la sequenzialità, ovvero in quale ordine si producono alcuni turni.
Esiste un ordine? Oppure io sono libero di dire sempre ciò che voglio quando voglio? Che significato ha un
ordine rispetto ad un altro?

Poi abbiamo l’avvicendamento. L’avvicendamento è il cambio del turno, si interessa di capire come si
prende un turno, come si mantiene e come si cede.
La conversazione è quindi strutturata, significa che quando io parlo so che devo mettere un certo ordine, so
come prendere il turno, so quando fermarmi e come passare il turno agli altri. La gestione dei turni può
essere diversa da lingua a lingua, esiste un avvicendamento e una sequenzialità ma non è detto che la
lingua A e la lingua B si comportino nello stesso modo.

Le interruzioni sono interessanti e si studiano proprio perché l’interruzione di una persona che sta
parlando, non è una cosa senza conseguenze. È un atto che infastidisce il mio interlocutore e che mette in
cattiva luce me. Interrompere è una cosa che si deve sapere quando fare e con chi è possibile farlo, e
soprattutto se mi trovo in una condizione in cui la cultura lo accetta. Gli italiani accettano che due persone
parlino sovrapponendosi per molto tempo e non lo considera questo fattore di interruzione.
La sovrapposizione di solito può essere supportiva: io sono d’accordo con te e ti parlo mentre tu parli, ed è
percepito positivamente perché se sto sempre zitta c’è qualcosa che non va. La sovrapposizione in alcuni
casi può indicare il fatto che ti sto supportando, in alcuni casi la sovrapposizione ha la funzione di
antagonista: “mi sovrappongo perché non sono d’accordo e quindi voglio dire la mia perché ti devo togliere
il turno”. E questa è una sovrapposizione diversa.

Come reagiscono le persone alla sovrapposizione? In maniera diversa. Se mi trovo a portare avanti una
conversazione con un tedesco non italianizzato, tedesco di Germania che non si è abituata agli schemi
conversazionali italiani, solitamente appena mettiamo una sillaba, si zittisce. L’effetto è straniante per gli
italiani in quanto sono abituati a parlare uno sull’altro senza sentire che l’altro si interrompe
improvvisamente. Al contrario chi non è abituato a questo, sente l’italiano medio come estremamente
aggressivo nella conversazione.

Il tono della voce: siamo abituati ad alzare la voce nell’interazione e la alziamo quando ci sovrapponiamo,
non solo per interrompere, ma a volte anche per enfasi. Molti non tollerano il tono alto della voce, in
quanto c’è un suono medio della voce oltre il quale significa che se alzo la voce sono arrabbiato, sono
aggressivo etc.
Non solo le parole che dico provocano un effetto ma anche altri elementi (ciò che dico, il volume della voce
che utilizzo, la velocità) che possono risultare dei messaggi che non rientrano negli schemi conversazionali
dell’interlocutore. Quando noi studiamo una lingua straniera fuori dal paese dove si parla, tutto questo non
c’è, perché spesso i dialoghi sono: A parla - B risponde. Ma tutto ciò non si verifica spesso nella vita reale,
solo in alcuni contesti tipo in tribunale. In questo caso non si può parlare senza prima aver chiesto di poter
parlare e di essere autorizzato a parlare.

Sequenzialità: esiste un ordine? Nelle lingue esistono ciò che vengono chiamate “Coppie Adiacenti” queste
sono delle sequenze standardizzate. Ad esempio se dico: “auguri di buon anno” che cosa mi aspetto? Non
mi aspetto il silenzio. Ma mi aspetto una risposta più consona. (Il silenzio non è il vuoto ma è una
componente significativa nella conversazione). Di solito ci sono delle coppie dove mi aspetto qualcosa, ad
esempio: A <buongiorno> - B <buongiorno> oppure A <ciao> - B <ciao.>
Il parlante che introduce la prima coppia, si aspetta la seconda parte, se manca significa che c’è qualcosa
che non va. Esempio: se dico <come va oggi?>; Mi aspetto <tutto bene>

Dispreferenza: ovvero non preferita. Questo fenomeno riguarda le sequenze, infatti l’ordine è importante e
in alcuni casi è quasi obbligato, nel momento in cui non ho delle coppie rigide es: A <ciao> - B <prego>.
Tuttavia ci sono dei casi in cui un enunciato richiede un enunciato di certo tipo come replica.
Esempio: se io faccio una domanda, l’enunciato che deve produrre il mio interlocutore è meglio che non sia
un’altra domanda perché ad una domanda non si risponde con una domanda. Se io dico: <che ore sono?>
non posso rispondere: <Vieni a cena con me?> siccome sto facendo una richiesta, mi aspetto la risposta
attesa e preferita (preferito significa attesa, la più frequente e non quella che mi piace di più) quella che io
credo di sentire subito dopo la mia.
Se dico: <mi potrebbe dire l’ora per piacere?> e la persona che mi risponde mi dice: <mi dispiace non ho
l’orologio> è una possibile risposta. Senza il “mi dispiace”, la risposta sarebbe stata sgarbata e non sarebbe
stata ciò che si aspettava l’interlocutore.
La risposta dispreferita è in realtà una risposta di minaccia alla faccia dell’interlocutore. La faccia può essere
positiva o negativa. La faccia positiva è tutto quello che riguarda la propria reputazione, tutto ciò che
riguarda se stesso. In genere ognuno di noi ha un immagine di sé abbastanza positiva per gestire un buon
vivere sociale. La faccia negativa è il bisogno del soggetto di non essere obbligato a fare qualcosa.
La faccia positiva è tutto quello che riguarda me, come persona e come persona che vuole essere accettata
dagli altri. La faccia negativa è il me come persona che vuole essere libera nelle sue scelte.
Se io dico ad una persona <chiudi la finestra!> quest’ordine minaccia la sua faccia negativa, perché non le
sto dando una possibilità di non chiudere la finestra se non a rischio di offendere la mia faccia positiva. Lei
dovrebbe dire no, e si innesca un meccanismo pericoloso. Dunque dico <ti dispiacerebbe chiudere la
finestra?> è la stessa cosa, ma in questa maniera e con questi modulatori ho dato la possibilità alla persona
di rispondere ANCHE “no”, quindi sono stata attenta anche alla sua faccia negativa, le ho lasciato la
possibilità di dire sì e di dire no senza che lei infastidisca la mia faccia.
Una persona che dà un ordine categorico <chiudi la finestra!> è una persona che ritiene di avere un ruolo
dominante in quell’interazione. Spesso si intrecciano le due facce e dunque quando parliamo dobbiamo
mantenere un equilibrio tra tutti questi elementi e in particolare per quegli atti linguistici che mettono a
rischio la faccia. Esempio: <Che ore sono?> - <non ho l’orologio.> questo esempio non è scorretto in
grammatica, ma non è una tipica conversazione tra due parlanti nativi.
Dal punto di vista della loro struttura le sequenze si verificano in maniera diversa. La sequenza preferita di
solito è più breve, semplice ed immediata, e soprattutto non è marcata perché è quella di base ed è la più
frequente, mentre quella dispreferita è una sequenza più lunga e la più complessa, a volte è anche
“ritardata”, nel senso che ci può essere una pausa, che può essere sia una pausa piena che una pausa
vuota, in modo da preparare la persona che ha fatto la domanda a non aspettarsi nulla. Esempio: Se io
pongo la domanda “Verrai a cena da me stasera?” la risposta preferita sarà “Si grazie”, invece la
dispreferita sarà “No, non posso”, ovvero l’accettazione è la preferita e il rifiuto è la dispreferita.
Mettiamo il caso invece di ritrovarci in una situazione dove dobbiamo rifiutare una richiesta utilizzando una
lingua diversa da quella materna e dobbiamo pronunciare un enunciato che sappiamo bene, non è quello
giusto per rifiutare, quindi dovremmo pronunciare “No!” e sentirci in imbarazzo siccome colui che ci ha
posto la domanda si aspetta magari un rifiuto pronunciato in modo diverso.
Se io esprimo un concetto, per esempio “Gli italiani sono tutti simpatici”, una volta fatta questa
affermazione mi aspetto sia vero dato che questo va in accordo con quello che penso e quindi questa frase
automaticamente è la preferita, però mettiamo il caso che siamo in disaccordo con tale affermazione è
dobbiamo apertamente dire “Non sono d’accordo con la tua affermazione!”, non è facile dirlo magari a
persone con le quali non abbiamo una certa familiarità, e quindi certe volte non diciamo nulla oppure
cerchiamo di esprimere il nostro disaccordo in maniera molto educata; siccome un disaccordo netto può
irritare l’altra persona e quindi il mio disaccordo diventa una sequenza dispreferita.
Per ogni coppia si creano varie situazioni per le quali c’è una prima parte che rappresenta la parte preferita
e dall’altra si presenta una situazione che è considerata la dispreferita, per esempio se io faccio un
complimento ad una persona italiana sul suo aspetto fisico, mi aspetto che lei mi ringrazi, se invece
mettiamo il caso che siamo cinesi e rivolgiamo il complimento ad una persona cinese magari potrà darci
una risposta che in italiano consideriamo dispreferita.
L’espressione di disaccordo (ovvero l’espressione di una dispreferenza) può essere dannosa per la “faccia”
(ovvero la propria immagine), e quindi di conseguenza certe culture tendono ad evitarlo (quindi di
conseguenza accetteranno sempre ciò che è la richiesta, oppure saranno sempre d’accordo con
l’interlocutore), oppure cercano di “riparlarlo” (ovvero aggiungendo dopo il rifiuto: una scusa, o magari una
giustificazione che spieghi il perché del rifiuto), ma per fare ciò vi è un grande di lavoro di riparazione.

LA TEORIA DELLA CORTESIA

La teoria della cortesia comprende tutte le massima conversazionali di Grice ovvero quantità, qualità,
relazione e modo.
 Quantità: indica la quantità di parlato da utilizzare in una conversazione in modo da non sembrare
logorroici;
 Qualità: dire sempre la verità (anche se gli esseri umani sono gli unici esseri viventi in grado di
mentire, a volte per proteggere la faccia di fronte all’interlocutore, inoltre c’è da dire che gli esseri
umani hanno una predisposizione a credere che tutto ciò che gli viene detto per la prima volta è
vero);
 Relazione: L’essere pertinente al discorso (per esempio se io faccio la domanda “Che ore sono?” e
mi viene detta come risposta “non è ancora arrivato Mario”, la risposta sembra non pertinente, sta
a me trovare il rapporto di pertinenza tra l’ora di arrivo di Mario e l’ora attuale);
 Modo: il modo con il quale viene detto qualcosa

Poste queste massime che sono molto importanti, su queste si innestano i tre assunti di Brown e Levinson
che sono:
 I parlanti sono esseri razionali e scelgono il modo migliore per raggiungere lo scopo usando i
principi di Grice;
 La gestione della faccia è fondamentale;
 Alcuni atti minacciano la faccia dell’interlocutore più di altri;

Quando si ha una conversazione è probabile che si applichi un atto di minaccia verso l’interlocutore, ed è
probabile che tale atto mi faccia perdere la faccia, quindi per evitare tale situazione e riparare al mio atto di
minaccia ho a disposizione 5 modi:
1. Compiere l’atto esplicitamente senza azione rimediale.
2. Compiere l’atto esplicitamente con azione rimediale di cortesia positiva.
3. Compiere l’atto esplicitamente con azione rimediale di cortesia negativa.
4. Compiere l’atto implicitamente.
5. Non compiere l’atto.
Ciò significa che se per esempio io sto rifiutando e sto compiendo l’atto senza azione rimediale, per
esempio domando ad un mio amico “Vieni al cinema stasera?”, non è la stessa cosa del domandargli “Se
stasera sei libero che ne dici di andare al cinema?” in questo modo ho rimediato, ho creato una situazione
nella quale in caso la risposta sia un rifiuto né io né l’interlocutore perdiamo la faccia. Ciò ovviamente
dipende dalla frase con la quale si andrà a rifiutare, ovvero se io rispondo “No mi dispiace, mi sarebbe
piaciuto molto, ma proprio oggi l’ateneo ci ha dato… ecc” allora questa è un’azione rimediale di cortesia
positiva, quella negativa invece è rispondere un secco NO.
Rispondere in modo implicito invece significa evitare di dare la risposta di rifiuto e lasciare che
l’interlocutore ne tragga lui il rifiuto, per esempio se io dico “Beato chi ci può andare al cinema dato che
l’ateneo non ci lascia mai liberi…” ho lasciato intendere all’interlocutore che io ho rifiutato il suo invito di
andare al cinema. Invece “non compiere l’atto” vuol dire non dare retta all’interlocutore e non rispondere
alla domanda.

L’INTERRUZIONE

Dobbiamo, come prima cosa, fare una differenziazione tra interruzione e cambio di turno.
Interrompere vuol dire che vi è qualcosa che non è stato scelto da chi sta parlando.
Il cambio di turno può avvenire con frasi del tipo “cosa ne pensi?” quindi io automaticamente, ho passato
la parola a qualcun altro, chi mi ascolta sa che ho concluso il mio discorso o che sto per concludere (come
un cambio di tonalità di voce ecc), e lo comprende grazie al PRT (punto di rilevanza transizionale).
Al contrario, se una persona prende la parola quando io non ho concluso il discorso oppure non stavo per
concluderlo, per me quella persona mi ha interrotto. Generalmente chi interrompe di più è colui che ha più
“potere”. Possono esserci anche delle pseudo interruzioni, come il fatto di parlarsi sopra, ma senza
l’intenzione di interrompere anzi, avendo l’intenzione di supportare il parlante, quindi non è considerata
una vera e propria interruzione.

Se si vuole notare se ciò a cui si sta assistendo è un’interruzione, bisogna tenere conto:
 Per quanto tempo avviene la sovrapposizione dei discorsi;
 Dove avviene;
 Che effetto procura.

Se ciò avviene nelle vicinante del PRT non è vista come un’interruzione, ma come un valido passaggio di
turno, mentre se è lontana dal PRT è vista dal parlante come un tentativo di interruzione; se io vedo
l’interruzione come un’interruzione supportiva allora continuo tranquillamente il discorso, mentre se è
un’interruzione competitiva io non mi fermo e magari finisco per urlare pur di continuare il discorso.

Come faccio a distinguere un’interruzione supportiva da una competitiva? Tramite due parametri:
 I parametri oggettivi che sono appunto: il tono, il volume della voce, la distanza dal PRT,
l’arrendevolezza, l’insistenza e la coerenza con il discorso.
 I parametri contestuali sono quelli legati all’interlocutore come, lo status o dal proprio modo di
discutere, oppure semplicemente per cause di forza maggiore che può essere per esempio la fine
dell’ora con la conseguente fine della lezione, quindi l’interruzione non è altro che la rottura
dell’equilibrio che vi è all’interno di una conversazione.

CONVERSAZIONI

Per quanto riguarda le interruzioni (ovviamente già la parola ci dice tanto) ne parliamo all’interno di una
conversazione, che si ha quando abbiamo più di 2 parlanti: parlante A e parlante B che stanno parlando, e
queste interruzioni riguardano un cambio di turno. La regola vuole che all’interno di una conversazione si
parli uno alla volta, ma sappiamo che il più delle volte non succede così perché ci sono delle situazioni che
ci portano a violare le regole e la struttura della conversazioni.
Parliamo delle sovrapposizioni, una persona sovrappone e quindi parla simultaneamente ad un’altra.
Poniamo sempre il parlante A e il parlante B: il parlante A che detiene il turno viene interrotto dal parlante
B che sovrappone la sua voce, quindi si ha un discorso sovrapposto, simultaneo. Tutte queste situazioni e
questi fattori che influenzano la conversazione cambiano da lingua a lingua, però ci sono anche situazioni
che cambiano all’interno di una stessa lingua e di una stessa cultura. Se in Italia la sovrapposizione di
discorso sono viste come mancanza di rispetto, in un’altra cultura è solito fare così, come regola della
conversazione e quindi i fattori cambiano.

PUNTO DI RILEVANZA TRANSIZIONALE

Punto identificato da elementi sintattici, semantici e intonativi in cui un parlante smette di parlare e
comincia l’altro parlante. È importante capire se queste sovrapposizioni avvengano in vicinanza o
lontananza rispetto a questo punto. Ho parlato di discorso sovrapposto che però non deve essere confuso
con le interruzioni, perché il discorso sovrapposto avviene in vicinanza di questo punto (non permetto
all’altro parlante di terminare il suo turno e mi sovrappongo alla sua voce) a differenza delle interruzioni
che avvengono in lontananza perché l’altro parlante ha avuto tempo di interrompere ciò che stava dicendo
e io di incominciare a parlare.

Il discorso sovrapposto varia sia funzionalmente che strutturalmente: per quanto riguardano i fattori
funzionali sono questioni di potere, ovvero interrompe più chi può permetterselo, e quindi chi ha più
potere sull’altro:
 Questioni di genere in quanto secondo una ricerca si è notato che le donne tendono a
interrompere più degli uomini;
 Questioni di ansietà sociali, persone che hanno l’ansia di dire quello che pensano e quindi sono più
soliti interrompere rispetto alle persone più calme.

Per quanto riguarda i fattori strutturali:


 La lunghezza della sovrapposizione: quanto è lunga la sovrapposizione, se riguarda una sillaba o un
intero enunciato
 La sua posizione: più vicina o più lontana al punto di rilevanza
 L’effetto che produce, può essere positivo o negativo: dipende se do modo al parlante di finire ciò
che sta dicendo.

Si parla di conversazione quando ci sono 2 o più parlanti. In questo caso quando si parla c’è una sorta di
collaborazione tra i 2 parlanti: sono il parlante e l’ascoltatore che all’interno della conversazione
interpretano sia il discorso che i fattori esterni alla conversazione, che influiscono nella conversazione.
Quindi sono i partecipanti alla conversazione che assegnano una funzione a questo discorso simultaneo che
può essere o collaborativo (io interrompo te, tu me) o competitivo (una sorta di sfida a chi parla di più).

Oltre questo vediamo che ci sono parametri che rientrano nella struttura della conversazione e che
influiscono:
 Possono essere oggettivi: valgono sempre indipendentemente dalla conversazione;
 Contestuali: è la situazione, il contesto che fa sì che si verifichino questi elementi.

Per quanto riguarda i parametri oggettivi facciamo riferimento all’altezza del tono e al volume della voce,
che non dipendono dal contesto ma dai parlanti:
 La durata della sovrapposizione,
 L’insistenza e l’arrendevolezza,
 La distanza dal punto di rilevanza transizionale,
 La presenza o l’assenza di modulizzatori (parole che servono al parlante per prender tempo
“guardi”, “ecco”),
 Accordo o disaccordo preposizionale,
 Mantenimento o cambio di argomento.
Sono tutti fattori che dipendono dal parlante e quindi non dalla situazione.

Parametri contestuali:
 Rapporto che c’è tra i vari interlocutori (che dipende dal contesto perché la conversazione che
avviene è una conversazione che avviene in un determinato contesto. Es. insegnate e alunno
durante l’esame),
 Lo scopo (il perché i 2 parlanti dialogano),
 Urgenza psicologica,
 Causa di forza maggiore,
 Stile individuale
 L’abitudine culturale (alcune situazioni cambiano da lingua a lingua e da cultura a cultura).

Il capitolo 6 si sofferma sull’uso di una L2. Ci concentriamo sull’atto linguistico della richiesta: come il
richiedere qualcosa possa cambiare da una lingua ad un’altra e come viene confuso con l’atto del consiglio
e del suggerimento.
C’è una differenza tra l’uso della L2 e il suo apprendimento. Non è la stessa cosa: nel momento in cui uso
una L2 ho già attraversato il processo di apprendimento e quindi non mi resta che usare tutte le risorse
linguistiche che possiedo. Il processo di apprendimento della lingua avviene prima dell’uso della lingua.
Prima apprendo poi uso.
Il libro dice che chi usa una L2 sfrutta ogni risorsa linguistica per usarla e per poter vivere, fa in modo di
riuscire a comunicare. Chi impara la L2 vuol dire che acquisisce delle competenze che userà
successivamente.

ATTO DELLA RICHIESTA

Fare una richiesta, chiedere qualcosa, è un atto molto utile per il parlante L2 ed è molto usato, qualsiasi
lingua si parli. È articolato nella sua varietà pragma-linguistica e socio-pragmatica. È un atto che si confonde
molto spesso con un consiglio o con un suggerimento.
Una delle cose importanti dell'atto linguistico della protesta è che minaccia la faccia e mette in cattiva luce
la sua reputazione.
Con la richiesta succede la stessa cosa poiché nel momento in cui faccio una richiesta, devo anche mettere
in preventivo che la mia richiesta venga rifiutata e, per evitare la minaccia, bisogna stare attenti. L'atto della
richiesta è quello più studiato dal punto di vista dell'apprendimento perché viene compiuto spesso e poiché
noi, involontariamente, facciamo delle richieste (es. Prendete il libro! È una richiesta, un atto linguistico
involontario).

Lo sviluppo dell'atto della richiesta riguarda tre aspetti sociali:


 Le strategie generali con cui viene realizzato perché sappiamo che gli atti linguistici implicano delle
strategie affinché vengano compresi o affinché non venga minacciata la faccia e il parlante non
perda la reputazione;
 L'uso di mitigatori, cioè delle parole che vengono usate per mitigare l'atto, per rendere la richiesta
più leggera (es. Per favore, vi dispiacerebbe prendere il libro?)
 La calibrazione socio-pragmatica perché ci riferiamo al contesto, alla situazione, alla cultura e alla
lingua in cui avviene la richiesta;
 Quando parliamo di pragmatica dobbiamo tener conto delle differenze tra due lingue e tra due
culture.

L'atto della richiesta è un atto direttivo con cui il parlante cerca di orientare l'azione dell'interlocutore (es.
La prof ci fa la richiesta di prendere il libro cercando di orientare la nostra azione e ci chiede di fare uno
sforzo di tempo e materiale) che viene chiamato a sostenere un costo più alto in termini di sforzo, beni
materiali o tempo.
Le caratteristiche fondamentali di quest'atto direttivo, cioè diretto, sono:
 Chiedere cose di natura verbale (fornisco o voglio un'informazione: per es. A che ora devi partire? È
una richiesta verbale)
 Chiedere cose di natura non verbale (dare un oggetto, non chiedo informazioni).
L'atto della richiesta può essere confuso con quello del suggerimento o quello del consiglio perché la
richiesta può assumere la forma di essi, a meno che non abbia delle caratteristiche strutturali che
appartengano alla richiesta (es. “Che ne pensi se portiamo delle rose?” È una richiesta perché sto
chiedendo un consiglio).
Anche l'atto linguistico del consiglio si può confondere con quello della richiesta (es. Stai attento alle spine!
È un consiglio ma anche una richiesta di fare attenzione). Dunque possono confondersi perché hanno
caratteristiche strutturali simili.
Chi fa la richiesta invade il territorio dell'interlocutore, ma minaccia anche la propria faccia nel momento in
cui la richiesta viene rifiutata (es. Dammi un bacio! No.)
Per la richiesta, come altri atti linguistici, il peso della minaccia è il risultato dell'interazione tra i parlanti (es.
Chi chiede un bacio ha un rapporto stretto con l'interlocutore); dunque è necessario saper distinguere il
ruolo e lo status sociale che intercorre tra il parlante A e il parlante B. Ci sono vari fattori che influiscono
sull'atto linguistico della richiesta:
 La relazione di potere tra i partecipanti alla comunicazione;
 La loro distanza sociale;
 La valutazione del grado di imposizione della richiesta.

Dunque, oltre a capire lo status sociale tra i due interlocutori, è necessario capire la relazione di potere e
saper valutare il grado di imposizione della richiesta (es. Se io so di aver fatto una richiesta azzardata che
può essere rifiutata dal mio interlocutore, devo prevedere che la mia faccia venga minacciata se viene
rifiutata). Quando non parliamo la nostra lingua, spesso non pensiamo a tutte queste cose, ma, per
esempio, se in italiano chiediamo cose che ci sembrano banali, in un'altra lingua possono sembrare
richieste azzardate. Tutti gli atti linguistici prevedono delle strutture che facciano parte di quell'atto
linguistico, infatti l'atto linguistico della richiesta ha delle strutture e delle forme grammaticali che ci fanno
capire che si tratta di una richiesta.

Avere un valore illocutorio: chiedere di fare qualcosa. La richiesta si può fare con l'imperativo (si può però
confondere con i due atti citati prima, per evitare ciò è necessario guardare se ciò che sto dicendo ha il
beneficio per il richiedente e il costo per l'interlocutore. Quindi, io chiedo per ricevere un beneficio, chi
deve dare invece deve fare uno sforzo di tempo o uno sforzo materiale; se il beneficio è dell'ascoltatore e il
costo è del parlante, si tratta di un'offerta (es. Scegli la rosa più bella) o con l'interrogazione.

Affinché avvengano gli atti linguistici bisogna usare delle strategie. Quelle della richiesta possono essere:
 Dirette: quando hanno un'unica forza illocutoria ricavabile dagli elementi grammaticali, lessicali o
semantici presenti nell'atto linguistico; uso una strategia per far sì che la mia richiesta venga capita;
 Indirette: quando non c'è solo un'unica forza, ma l'interlocutore ha la possibilità di intendere la
richiesta in vari modi.
 Convenzionali: indagano sull'abilità dell'interlocutore di assecondare la richiesta, per es.
"Porta tu le rose", esse si trovano a casa dell'interlocutore che può portarle;
 Non convenzionali: sono illimitate e imprevedibili e vengono interpretate in base al
contesto, per es. "Porta tu le rose", esse si trovano a casa di qualcun altro e, per questioni
di tempo, egli non può andare a prenderle.
Queste strategie vengono usate per far comprendere l'atto linguistico e per evitare che la nostra
reputazione venga messa in discussione.

GRAMMATICA APPLICATA: APPRENDIMENTO, PATOLOGIE, INSEGNAMENTO

L'articolo ''Chi compie l'azione? L'applicazione del Competition Model su sordi italiani'', è il primo articolo
che verrà affrontato, esso contiene anche il Competition Model. (pag.165).
I lavori all'interno di questo libro si presentano con una forma più accessibile, anche rispetto ai manuali.

La prima cosa che ci interessa guardare di un articolo scientifico è l'Abstract, ''riassunto'' che si trova
sempre all'inizio e che in circa dieci righe spiega il contenuto principale del testo, svolgendo per noi una
sorta di estrapolazione. In questo articolo, l'abstract, ci dice che questo lavoro si interroga sull'applicabilità
del modello della competizione che è un modello che va a guardare come vengono elaborate le frasi, un
modello non sulla produzione, ma sulla comprensione e la percezione.
Quindi ci si pone dal punto di vista di chi ascolta e deve elaborare il messaggio, e nel caso del competition
model questo messaggio è sempre proposto sotto forma di frasi. E uno dei loro tempi studiati è stato quello
dell'agentività. Quindi la ricerca dell'agentività, attraverso strategie come l'uso degli indizi, che pur essendo
tendenzialmente universali hanno un peso diverso nelle varie lingue.

Questo articolo, chiede di mettersi nella prospettiva dei sordi, nello specifico dei sordi italiani, per capire se
si possa applicare il modello della competizione anche a loro e provare a verificare sentendo dei risultati
comparabili rispetto agli udenti.
Quindi in fondo c'è un discorso che ci porta ad identificare la lingua italiana come lingua orale che ha anche
un sistema di scrittura e la lingua italiana dei segni la LIS che invece è il codice di comunicazione della
comunità sorda italiana. Due lingue e due codici diversi.
Con questo lavoro, apparentemente molto tecnico, si vuole capire se è possibile applicare questo modello
anche a un target che non sia di udenti, ma di persone che usano un codice gestuale e/o visivo.
Dietro questo lavoro c'è di fondo un altro obiettivo, quello di dimostrare e mostrare che per la comunità
sorda italiana, l'italiano vocale non è, nella maggioranza dei casi, una lingua materna. Questo perché si è
visto, studiando il competition model, che esiste il problema del transfer, ma non come si immagina
solitamente un transfer a livello di produzione di suoni, di lessico o morfologia, il transfer viene ipotizzato in
questo modello come un trasferimento di strategie per l'utilizzo degli indizi, di peso da attribuire agli indizi
nell'identificazione di determinate funzioni, nel nostro caso l'agentività.
Se si è convinti che questo funzioni, ossia quando si usa o si decodifica una lingua che non è quella materna,
si finisce per fissare gli indizi in una maniera diversa. Questa applicazione dovrebbe dimostrare che per i
sordi italiani la LIS è la lingua materna e l'italiano vocale è una seconda lingua.

<<Potrebbe sembrare una cosa ovvia ma, la LIS in Italia non è riconosciuta come lingua ufficiale, e la
comunità sorda sta portando avanti una lunga battaglia per il riconoscimento di questa lingua, cercando di
dimostrare che la valorizzazione della LIS è anche una valorizzazione del loro percorso di formazione e non
riconoscerla significa costringere il sordo a fare tutto con una seconda lingua. Tutto ciò è una questione
politica, e anche di riconoscimento dello status delle lingue a livello scolastico e di tutta la vita sociale>>.

Se si pensa che i sordi italiani abbiano la LIS come lingua materna, ci si aspetta che il loro modo di usare gli
indizi sia diverso dagli italiani udenti.

In questo articolo ci sarà un'introduzione e un primo paragrafo in cui si presenta il modello della
competizione. Nel secondo paragrafo (lo studio), se ci si limita ad una discussione di livello teorico, si può
dire quello che si vuole, ma poi bisogna dimostrare l'ipotesi e quindi si deve importare uno studio.
Di solito se c'è uno studio, ci sono dei soggetti che vengono selezionati, e che devono avere delle
caratteristiche (pag.169).
“Lo studio è stato condotto su 18 informanti campani, 6 udenti e 12 sordi, di età compresa fra i 20 e i 40
anni. Il gruppo dei sordi era composto da due tipologie di partecipanti:
- 6 soggetti avevano dichiarato di avere la LIS come lingua materna e l’italiano vocale come L2; tutti
provenienti da famiglie sorde, con un livello profondo di sordità, avevano seguito un percorso di
scolarizzazione in istituti per sordi;
- 6 soggetti avevano dichiarato l’italiano vocale come lingua materna e la LIS come seconda lingua;
provenienti da famiglie di udenti, 2 avevano un livello medio di sordità e 4 profondo, ma tutti
avevano completato il ciclo di studi superiori in scuole per udenti, conseguendo un diploma di
istruzione tecnico-professionale.”

“Lo studio è stato introdotto su 18 informanti campani” bisogna specificarlo per la varietà regionale, poiché
un linguista che deve calibrare tutte le variabili non può far finta che sul territorio italiano siano tutti
identici. Quindi un aggettivo che sembra accessorio serve a legittimare delle differenze.
I soggetti sono 6 udenti e 12 sordi, tra cui: 6 che sono sordi figli di sordi, ed hanno dichiarato di avere la LIS
come lingua materna e hanno imparato l'italiano vocale successivamente a scuola, facendo percorsi di
studio in istituti specializzati ''sordi profondi''; altri 6 che avevano dichiarato di avere l'italiano come lingua
vocale e quindi materna, poiché molti sordi riescono a vocalizzare, e la LIS l'avevano imparata come
seconda lingua e questi ultimi 6 avevano famiglie di udenti. Ma 2 erano sordi medi e 4 sordi profondi,
quindi tra di loro c'era diversità tra la gravità della sordità.
Quindi abbiamo 6 udenti, 6 sordi profondi con LIS lingua materna, 6 sordi profondi di cui 2 medi e 4
profondi che hanno l'italiano vocale come lingua materna.
All'inizio dell'esperimento si vuole scoprire se il gruppo che dichiara di avere la LIS come lingua materna sta
usando gli indizi in maniera diversa e sta facendo un transfer dalla LIS e quindi da un'altra lingua e capire
che effettivamente hanno la LIS come lingua materna; di conseguenza quindi gli altri 6 che hanno detto di
avere l'italiano vocale come lingua materna avrebbero dovuto comportarsi come gli udenti.
Bisogna ricordare che l'oggetto è il transfer tra la lingua materna e la lingua seconda, e che il transfer è
quello inteso come peso degli indizi nell' identificazione di una funzione, l'agentività in questo caso.
Gli italiani, con l'italiano L1, usano gli indizi con una determinata scala di forza, e i sordi con LIS lingua
materna dovrebbero usare gli indizi in maniera diversa perché usano quelli di un'altra lingua, i sordi
dell'italiano vocale, se veramente è la loro lingua materna si dovrebbero comportare come gli udenti.
A questo punto il test è stato costruito in maniera che ci fosse anche l'aiuto di un interprete LIS in caso di
difficoltà e gli indizi messi in campo sono l'ordine delle parole, l'accordo e l'animatezza.
Gli stimoli di solito nel competition model vengono dati oralmente, qui invece sono stati trasferiti tutti in
stimoli visivi, infatti leggevano o vedevano immagini. Il test scritto che è stato somministrato prevedeva
una frase e poi delle immagini, e bisognava partire dalle immagini e capire chi era l'agente di queste frasi.

Tabella 1 – Combinazione ortogonale degli indizi nel test scritto


Ordine delle parole
NVN = nome-verbo-nome I cani inseguono i gatti
NNV = nome-nome-verbo I cani i gatti inseguono
VNN = verbo-nome-nome Inseguono i cani i gatti
Accordo
ACC 0 = con il 1° e il 2° nome Le madri accarezzano i figli
ACC 1 = con il 1° nome La madre accarezza i figli
ACC 2 = con il 2° nome I figli accarezza la madre
Animatezza
AA = 1° e 2° animati Le madri accarezzano i figli
AI = 1° animato e 2° inanimato La bambina accarezza le bambole
IA = 1° inanimato e 2° animato Il gomitolo insegue i gatti
II = 1° e 2° inanimati I dadi accarezzano le bambole
Si è verificato l'ordine delle parole su frasi molto semplici: nome-verbo nome; nome-nome-verbo; verbo-
nome-nome.
Per quanto riguarda l'ordine in alcune lingue è un indizio fortissimo (es.inglese), ma in italiano non è
altrettanto forte.
Ci sono altre cose che emergono in italiano come l'accordo che è l'indizio più forte. Nella prima frase “i cani
inseguono i gatti” l'accordo è 0 perché vale per tutti e due, ma non possiamo basarci sull'accordo per
individuare l'agente. L'accordo non aiuta e neanche l'animatezza visto che sono entrambi animati e quindi
si azzera. Resta solo l'ordine che è un indizio molto difficile. Nella frase “i cani inseguono i gatti” l'agente è: i
cani.
Nella seconda frase l'agente si percepisce di più su: gatti.
E nella frase: “inseguono i cani i gatti” l’agente è sempre “i gatti”. Queste tre frasi sono ottime per verificare
come si usa l’indizio ‘ordine delle parole’.
Se invece si guarda l’accordo, come nella frase “le madri accarezzano i figli” si ha il cosiddetto ACCORDO
ZERO (poiché il verbo si accorda sia con le madri che con i figli). Nella frase “la madre accarezza i figli” si ha
l’accordo con il primo nome; anche nella frase “I figli accarezza la madre” l’accordo è chiaro, ovvero c’è
l’accordo con il secondo nome. In sintesi si hanno tre possibilità:
- Accordo zero
- Accordo sul primo nome
- Accordo sul secondo nome

Per quanto riguarda l’animatezza, si possono avere entrambi i nomi animati, come nella frase “Le madri
accarezzano i figli”, oppure il primo nome animato e il secondo inanimato “La bambina accarezza le
bambole”, e ancora si possono avere il primo nome inanimato e il secondo nome animato “Il gomitolo
insegue i gatti”.
Con queste frasi si capiscono quali sono gli indizi necessari, ovvero ORDINE DELLE PAROLE, ACCORDO E
ANIMATEZZA.

C’è stata una parte del test tradotta anche in LIS (evitando le combinazioni che essa non permette), che è
una lingua che non ha una scrittura. Guardando i risultati del test (l’indizio più forte è rappresentato
dall’accordo) si nota che i quattro sordi profondi che hanno affermato di avere l’italiano come lingua vocale
sono in realtà condizionati dalla LIS. Quindi nella dichiarazione loro sono convinti di avere l’italiano come
lingua materna, ma nella pratica non è così, perché la LIS che è la lingua dominante fa sì che loro
interpretino l’accordo usando le strategie dei sordi profondi che hanno dichiarato di avere la LIS come
lingua materna. Meno significativo rispetto all’accordo è il risultato dell’inizio dell’animatezza. Anche
l’indizio dell’ordine della parole sembra essere meno significativo.

RISPOSTE DEL TEST (pag.173)

Le risposte fornite dai sordi profondi ITA L1 e da quelli LIS L1 suggeriscono il ricorso a strategie di
elaborazione completamente diverse. L’indizio che sembra guidare la decodifica dell’agente è quello
dell’ordine delle parole. Nella maggior parte delle condizioni di animatezza ed accordo considerate, il primo
elemento viene scelto in percentuale pari o superiore al 60%.

In sintesi, il test è servito per:


- Individuare quale sia la lingua materna dei nostri soggetti;
- La LIS e l’italiano utilizzano gli indizi in maniera diversa, ossia l’italiano sull’accordo e la LIS
tendenzialmente più sull’ordine;
- I soggetti sordi che hanno dichiarato di avere l’italiano come lingua vocale l’hanno fatto sulla spinta
di un prestigio sociale, perché il problema della comunità sorda è anche quello di essere stata
educata ad una spinta orale. Quindi l’hanno fatto perché spinti dal prestigio della lingua orale.
Lo studio ci ha provato che il canale di comunicazione, la lingua materna e quantità di esposizione alla LIS
sono molto importanti. Inoltre i sordi medi ITA L1 provenienti da famiglie di udenti con scarsa competenza
in LIS e poco integrati nella comunità sorda campana, si avvalgono degli stessi indizi utilizzati dagli udenti
per l’identificazione dell’agente. Mentre le risposte fornite dai sordi profondi ITA L1 al contrario
evidenziano che essi sono influenzati più dalla LIS che dall’italiano.

FRASE RELATIVA RESTRITTIVA

 Le relative restrittive sono frasi subordinate che modificano l’antecedente e limitano il numero di
potenziali referenti per tale referente;
Es: “Il mio amico che lavora in banca si chiama Giovanni”

Il mio amico si chiama Giovanni: frase principale


Non si vuole però esprimere un concetto generale, come se Giovanni fosse l’unico amico del parlante; la
relativa restrittiva serve proprio a restringere il campo dei referenti, indicando che solo l’amico che lavora
in banca si chiama Giovanni.
La frase relativa in questo caso restringe il numero di referenti possibili indicati dalla frase principale.

Abbiamo due tipi di frase relativa, una di tipo restrittivo e una di tipo non restrittivo. Spesso, in italiano non
si sa come usare la punteggiatura.
Nella lingua italiana esiste l’inciso che permette di spezzare relativamente la frase. In questo caso
utilizzando la frase di prima si dirà: “Il mio amico, che lavora in banca, si chiama Giovanni.”
Non ho ristretto ma ho aggiunto un’informazione relativa a Giovanni. In questo caso sto dicendo che
l’amico si chiama Giovanni e che lavora in banca, non ho ristretto ma ho aggiunto un’informazione
relativamente a Giovanni.

Le frasi relative hanno la caratteristica di essere delle frasi non principali, sono subordinate, in cui c’è
questo elemento, che è di solito il pronome relativo, che riprende qualcosa che sta nella frase che precede
(la frase principale). Il pronome relativo può avere funzione di soggetto, di complemento oggetto o anche
altri complementi dentro la frase relativa. Non sono proprio uguali i pronomi relativi con funzione di
soggetto od oggetto o altri perché a livello evolutivo nella lingua seconda esiste una sequenza
implicazionale.

Le frasi relative sono complicate proprio come struttura perché hanno vari gradi di difficoltà.
Un grado di difficoltà può essere anche il pronome in sé perché alcune lingue hanno tanti diversi pronomi
relativi. Un altro punto di difficoltà è la funzione espressa dal pronome relativo nella frase relativa
(soggetto, complemento oggetto, ecc…)
C’è una scala di tipo implicazionale e c’è un rapporto tra soggetto e oggetto perché il pronome relativo con
funzione di soggetto è cognitivamente più complesso e richiede nella sequenza implicazionale che il
parlante abbia già acquisito quello in funzione di soggetto.

FRASI RELATIVE SUL SOGGETTO E FRASI RELATIVE SULL’OGGETTO

 Le frasi relative restrittive si possono suddividere in frasi relative sul soggetto e frasi relative
sull’oggetto;
- La bambina che rincorre il cane in giardino è la nipote di Maria
Il soggetto della frase principale “la bambina” è anche il soggetto della relativa
- Il cane che la bambina rincorre in giardino è di Maria
Il soggetto della frase principale “il cane” è oggetto della relativa

La differenza tra frasi relative restrittive e non restrittive è stata fatta perché negli articoli si parla sempre di
restrittive. Le restrittive sono quelle che restringono il campo delle possibilità, sono una parte importante
della frase e non possono essere eliminate, mentre le altre è come se fossero degli incisi.
Oltre a parlare di relative restrittive, gli articoli usano le espressioni “frasi relative sul soggetto e frasi
relative sull’oggetto (RS e RO)”.
Le frasi relativa sul soggetto sono semplicemente le frasi relative in cui il pronome relativo funge da
soggetto della frase: l’elemento relativizzato è il soggetto della frase.
Es: La bambina che rincorre il cane in giardino è la nipote di Maria.
La bambina è la nipote di Maria: principale.
Solo la bambina che rincorre il cane è nipote di Maria.
In questo caso il pronome relativo che funge da soggetto della frase relativa come il punto di attacco nella
frase principale. Qui il “che” pronome relativo ha funzione di soggetto. Gli articoli che leggeremo chiamano
queste frasi relative come “relative sul soggetto”, che significa semplicemente “frase relativa in cui il
pronome relativo svolge la funzione di soggetto”. (RS)
“Il cane che la bambina rincorre in giardino è di Maria”. In questo caso il cane è soggetto, il pronome
relativo svolge la funzione di oggetto. Questa frase viene chiamata relativa sull’oggetto e la siglano RO.

Ci si può già aspettare che i problemi non stanno tanto sulle relative sul soggetto, ma soprattutto sulle
relative sull’oggetto. È anche vero che una frase come “La bambina che rincorre il cane in giardino è la
nipote di Maria” suona più familiare e più semplice.
“Il cane che la bambina rincorre in giardino...” come frequenza d’uso tende ad essere evitata in vario modo
dai parlanti nativi e dai parlanti non nativi. Vengono evitate attraverso varie trasformazioni della frase pur
di non utilizzare una relativa con quest’oggetto perché potrebbe diventare pesante/complicata anche per
gli adulti nativi.

Le restrittive possono essere dunque relative sul soggetto e sull’oggetto.

FRASI RELATIVE SULL’OGGETO

 I bambini tra i 5 e i 10 anni producono frasi relative utilizzando, per esempio, pronomi clitici di
ripresa: “guarda la zebra che il bambino la lava”  “guarda la zebra che il bambino lava”
 Gli adulti producono prevalentemente relative passive, come: “vorrei essere il bambino che viene
salutato dal signore”  “vorrei essere il bambino che il signore saluta”

Sempre come informazione di base possiamo osservare che per i bambini italiani tra i cinque e dieci anni
(non stiamo parlando di bambini molto piccoli, ma già abbastanza grandi che leggono bene e scrivono) le
frasi relative rimangono un problema. Può capitare che i bambini italiani producano delle frasi relative
utilizzando i pronomi di ripresa. Uno dei tipici errori nell’interlingua degli apprendenti in generale è quello
di aiutarsi usando il pronome di ripresa, che in alcune lingue è obbligatorio e in altre no.
Bisogna sempre ricordare le comparazioni tra lo sviluppo della lingua nel parlante nativo e quindi osservare
come si sviluppa nel bambino la lingua e quello che succede nell’interlingua dell’apprendente perché
queste osservazioni ci aiutano a capire dei processi che hanno caratteri di universalità che devono essere
collegati a processi cognitivi indipendenti. Tutti i fattori esterni importantissimi che possono incidere sulla
velocità dell’interlingua non incidono sugli step. Se si individua una transizione che dimostra che la relativa
è complessa, ciò non dipende da fattori esterni, ma è un errore naturale e presente nel processo di
apprendimento.
“Guarda la zebra che il bambino lava”. Si troveranno molte frasi come “tocca/guarda la zebra che il
bambino lava” perché sono immagini mostrate al bambino per evitare che il bambino debba leggere o
scrivere e che escano fuori altre interferenze. Spesso si usano delle immagini dove c’è qualcuno che fa
qualcosa, cose anche abbastanza strane ma alla fine abbastanza semplici. Al bambino si chiede di guardare
e individuare una figurina in particolare tra due figurine.

I bambini italiani fino a 10 anni spesso dicono “guarda la zebra che il bambino la lava”. Questo è il pronome
di ripresa che serve per sostituire il pronome che manca. Questo “che” non è il soggetto perché il soggetto
è il bambino. Nel momento in cui abbiamo questi pronomi complessi il bambino si salva mettendo al posto
giusto “qualcosa”. “Il bambino la lava” va benissimo perché è una struttura italiana perfetta, corretta. Se
non avesse usato il problema avrebbe dovuto dire “il bambino lava la zebra”.
Gli adulti italiani invece producono prevalentemente frasi relative passive e quindi il famoso passivo che
sembra essere usato poco, in realtà spesso viene usato strategicamente in sostituzione di altre strutture
che sembrano complicate.
Es: “Vorrei essere il bambino che viene salutato dal signore”
Da “vorrei essere il bambino che il signore saluta”.
Questo passivo è stato fatto con il verbo venire. In italiano può essere fatto o con il verbo essere o con il
verbo venire.
La forma standard è quella con il verbo essere ma il verbo venire viene usato più frequentemente nel
parlato perché tra “il bambino che è salutato dal signore” e “il bambino che viene salutato dal signore” la
seconda suona meglio, sembra più concreto perché è come se fosse un verbo d’azione ed è interessante
vedere la differenza delle strategie tra la realizzazione tra questa frase relativa difficile.
I bambini se la cavano con il pronome di ripresa, gli adulti se la cavano trasformando la frase e nella frase
“vorrei essere il bambino che viene salutato” l’adulto ha trasformato il pronome relativo che doveva avere
funzione di complemento oggetto in pronome relativo con funzione di soggetto.

Qual è la difficoltà nel pronunciare il primo che, soggetto, e il secondo che, oggetto? La difficoltà non sta
nella forma fonica, ma è grado 0 perché non ci si può sbagliare utilizzando sempre lo stesso pronome. Il
problema dell’apprendente è la relazione logico-semantica alla quale la forma rimanda. Quindi o la si evita
o si sostituisce o si utilizzano altre strategie. Non c’è bisogno di una lingua complicata che flette il pronome
relativo, ma la difficoltà sta anche in una lingua con il pronome bloccato.
Le frasi relative con il pronome che svolge la funzione di complemento oggetto le trovo difficili. Gli italiani
nativi adulti preferiscono trasformarle in passive con il verbo venire che è più concreto del verbo essere.
Il bambino invece usa il pronome di ripresa perché gli serve qualcosa per fare una frase regolare.

VERBI DURATIVI E NON-DURATIVI

Si parla della semantica espressa dalle forme verbali. Nelle categorie del lessico i nomi e i verbi hanno
statuto diverso. I sostantivi sono sicuramente più semplici rispetto ai verbi.
 Verbi durativi: camminare, volare, oziare, studiare; esprimono azioni che durano nel tempo
 Verbi non-durativi: nascere, incontrare, spaventarsi, esplodere; esprimono azioni istantanee
Giorgio dormì per tutta la notte
Giorgio si svegliò all’improvviso
Giorgio restò sveglio tutta la notte

I verbi li possiamo avere come durativi o non durativi.


Un verbo durativo indica un’azione che nel tempo continua.
Non durativi: azione momentanea. Ce ne accorgiamo quando vogliamo aggiungere una dimensione
temporale.

I verbi non durativi si organizzano in puntuali e trasformativi (reversibili e irreversibili).


 I verbi puntuali (incontrare, prendere un voto) esprimono un’azione istantanea che non modifica lo
stato del soggetto
 I verbi trasformativi esprimo un’azione istantanea che modifica lo stato del soggetto
 Reversibili: se esprimono una trasformazione da cui è possibile tornare allo stato
precedente (partire, ritornare)
 Irreversibili: nel caso contrario ai reversibili (nascere, morire, scoprire)
I non durativi puntuali indicano un’azione che avviene in un momento preciso ma non c’è niente che si
modifica. I trasformativi, invece, esprimono una modifica dello stato del soggetto (es: partire oppure
nascere). I verbi non durativi hanno questa differenza: provocano un cambiamento oppure no. Se non c’è
un cambiamento si chiamano puntuali, se c’è si chiamano trasformativi, che a loro volta possono essere
reversibili e non reversibili. Partire è reversibile, nascere e morire sono irreversibili.

TEMATICA DELLA SORDITÀ (il caso dei 2 gemelli)

È importante per il soggetto non udente avere la possibilità di uno sviluppo linguistico supportato dalla
lingua dei segni. Le lingue gestuali non sono una riproduzione delle lingue vocali corrispettive, ma sono
codici autonomi con un'altra sintassi, un'altra organizzazione testuale e un altro modo di rappresentare la
grammatica e il lessico. È come se fossero delle lingue nuove.
Tra gli udenti e i sordi profondi c'è una diversità di comportamento. Quelli un po' più fluidi erano quelli che
avevano dichiarato di avere l'italiano vocale come lingua materna, quindi sordi ma con italiano vocale. Ciò
proveniva da una condizione familiare, famiglie di udenti dove la lingua gestuale era stata tenuta fuori. Però
anche un livello di sordità non così grave. Poi c'era questo gruppetto di sordi profondi che aveva dichiarato
di avere l'italiano vocale, ma usava gli indizi in maniera diversa. È stato svolto un nuovo studio che non
prende in considerazione gli adulti, ma bambini che hanno una compromissione dell'udito e non sono sordi
profondi. Più che altro sono sordi medi che grazie all'utilizzo di apparecchi riescono anche a sentire. Le
difficoltà dei sordi quando devono usare una lingua vocale sono: l'input limitato. Noi sappiamo che l'input è
importante per acquisire la prima lingua. Nelle famiglie di non udenti il bambino comprende perfettamente
la lingua dei gesti. Nelle famiglie di udenti viene utilizzata ugualmente la lingua orale e se il bambino è
sordo profondo spesso vi è un rallentamento nella capacità di sviluppo cognitivo e comunicativo.

Se voglio osservare quanto della lingua vocale riesce a produrre un bambino sordo chiaramente le difficoltà
sono enormi e sono soprattutto morfo-sintattiche. Quindi un bambino sordo per quanto riguarda la lingua
vocale avrebbe un vocabolario scarso, sarebbe capace di comporre solo frasi brevi, avrebbe difficoltà
nell'acquisizione di frasi passive e relative, errori di accordo di genere e di numero, difficoltà nell'uso della
morfologia verbale (tendono ad utilizzare il verbo all'infinito, ad omettere la copula, gli ausiliari, ad
omettere i verbi modali), omettono o sostituiscono elementi funzionali quali i determinanti, i pronomi
clitici. Un bambino sordo esposto solo alla lingua vocale ce la fa, però ci sono delle enormi difficoltà e il
prodotto finale si presenta povero e sgrammaticato. Mentre la lingua scritta appare come una lingua
straniera.
Questo studio si è concentrato solo sull'aspetto della produzione di frasi complesse, frasi relative e frasi
passive. Hanno studiato due gemelli con un'analisi di tipo longitudinale, dunque i bambini sono stati
studiati in due momenti diversi della loro crescita. Li hanno studiati nel tempo. Molti studi non fanno
questo perché non è semplice. Per rendere la cosa fattibile si evitano i numeri grandi di persone e si cerca
di trovare una linea di tendenza. Hanno studiato i bambini negli anni per vedere se ci fossero miglioramenti
e sono stati studiati due volte a distanza di 15 mesi. Sono state fatte differenze con bambini normo udenti
della stessa età, per confrontare il differente sviluppo dell'italiano.

Per la loro complessità spesso le frasi relative sono apprese anche dopo i sei anni, quindi compaiono molto
tardi. Gli studi che sono stati affrontati su diverse popolazioni hanno mostrato che le RO sono più
problematiche delle RS.
 Le RO sono frasi relative sull'oggetto (il pronome relativo svolge la funzione di complemento
oggetto).
 Le RS sono frasi relative sul soggetto.

Le RO sono più difficile sia da comprendere sia da produrre. Nella produzione le frasi relative sull'oggetto
hanno percentuali di occorrenza piuttosto basse. L'occorrenza è la frequenza d'uso. Per evitare la
produzione di una RO, sia bambini sia adulti usano altre strategie. Gli adulti utilizzano il passivo, mentre i
bambini utilizzano il pronome di ripresa. Anche le frasi passive non sono semplici e vengono utilizzate a
partire dai 5/6 anni. Alcuni studi fatti sul passivo su bambini normo udenti hanno mostrato che la
comprensione e la produzione migliorano intorno ai 5 anni, quando vengono acquisite frasi passive
contenenti verbi irreversibili e verbi transitivi con soggetti inanimati. Irreversibili come nascere, morire.

Non è solo la struttura sintattica complessa, ma è più o meno complessa a seconda del tipo di verbo che
compare. Ci sono dei verbi che per i bambini nativi sono difficili da gestire, non in assoluto, ma non
riescono ad usarli sintatticamente in maniera adeguata. Quando non ci sono verbi irreversibili o transitivi
con soggetti inanimati, il bambino ha più difficoltà. Il tipo di lessico verbale si combina con la struttura. C'è
un lavoro più recente che ha mostrato che i bambini italiani tra i 3 anni e mezzo (3;5) e i 6 anni sono in
grado di comprendere correttamente strutture passive che abbiano “venire”. Il passivo in italiano con il
verbo essere è più difficile che quello con il verbo venire.

Gli studi che riguardano le frasi passive sui sordi sono pochissimi. C'è uno studio che ha mostrato che i sordi
hanno difficoltà nel comprendere e produrre frasi passive fino ai 14 anni. E dopo i 17 ancora non le hanno
acquisite pienamente. Dunque i sordi hanno bisogno dello sviluppo cognitivo e comunicativo garantito dalle
lingue segnate. E non bisogna privarli di questo. L'esposizione continua a frasi scritte con verbi passivi aiuta,
ma il problema è che si deve avere già una buona competenza di lingua per leggere testi contenenti molte
frasi passive.
I bambini che sono stati studiati avevano ipoacusia bilaterale media che è stata diagnosticata già a due anni
e sei mesi (2;6). Ai bambini è stato somministrato un test di comprensione grammaticale per bambini.
Questo test è standardizzato e serviva a capire quali erano le loro competenze generali della grammatica e
della morfologia dell'italiano.
Questo test è utile per valutare l'età linguistica. Dunque io posso avere un'età anagrafica che potrebbe non
coincidere con quella che dovrebbe essere l'età linguistica. Questo rapporto viene stabilito da un test fatto
ad una popolazione ampia di soggetti.

I nostri due bambini all'età di 7 anni e 6 mesi avevano la capacità di produrre la lingua per uno di loro pari
ad un bambino di sei anni e sei mesi e l'altro sei anni. Stavano un anno indietro.
Dopo 15 mesi i bambini hanno avuto un miglioramento nelle abilità linguistiche generali, all'età di 9 anni un
bambino è arrivato all'età di sette anni e sei mesi, mentre l'altro è arrivato ad otto anni come età
linguistica.
Tutti i test sono stati fatti con immagini e quelli sulle frasi passive sul computer. I bambini hanno fatto test
di comprensione, di produzione per le frasi relative e per quelle passive. Le frasi relative ROP sono frasi
relative sull'oggetto con il soggetto della subordinata in posizione post verbale.

COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE

Si è parlato delle frasi relative, introducendo le relative sull’oggetto e sul soggetto.


Il test è stato fatto per due bambini sordi e normo udenti e si è visto, sulla base di un test di competenza
chiamato “test di comprensione grammaticale”, che i bambini sordi, con una sordità media, erano circa un
anno dietro lo sviluppo dei bambini normo-udenti. È un test longitudinale: i bambini sono stati seguiti ad
una distanza di 15 mesi, quasi un anno e mezzo, e c’è stata una progressione; anche in quel caso i bambini
non erano perfettamente identici, uno era leggermente migliore dell’altro, però non avevano raggiunto il
livello dei propri coetanei; quindi l’età anagrafica e lo sviluppo grammaticale/linguistico non erano
comparabili, ma leggermente al di sotto. Si è parlato del tipo di test fatto, e ci si è fermati alla tabella che
aveva le condizioni che ci interessavano delle frasi relative, ossia:
 Relative sul soggetto: Il coniglio che colpisce i topi
 Relativa sull’oggetto: Il coniglio che il topo colpisce
 Relativa sull’oggetto col soggetto dopo il verbo: Il coniglio che colpiscono i topi (relativa
sull’oggetto ma il soggetto della relativa è dopo il verbo; si aggiunge un grado di complessità)
In questo lavoro si fa richiamo anche a tanti altri studi sui parlanti nativi che ci mostrano che occorre
arrivare ad un’età anagrafica abbastanza avanzata (6-7 anni) per iniziare a vedere lo sviluppo di alcune
strutture relative; si sono viste poi le strategie di evitamento delle relative, che sono di due tipi:
 Da un lato abbiamo la tendenza all’utilizzo del pronome di ripresa;
 Dall’altro la relativa viene sostituita da una frase passiva con l’uso del verbo venire invece
dell’ausiliare essere.

Il tipo di esercizio che veniva fatto fare al bambino di fronte a due immagini era quello in cui gli veniva
chiesto di agire, di fare qualcosa; non veniva chiesto nella prima fase quando si verifica la comprensione (in
cui gli veniva chiesto, ad esempio: “tocca il coniglio che colpisce i topi”); per la produzione gli viene chiesto,
sempre partendo dalle immagini, di dire una frase relativa.

ESEMPIO
Sperimentatore: Quali bambini ti piacciono? (Guardando le due immagini, di due bambini che accarezzano e
danno un calcio ad un gatto)
I bambini avrebbero dovuto dire da soli, “mi piacciono i bambini che accarezzano/colpiscono il gatto”.
Mentre nel test di tipo recettivo lo sperimentatore produce la frase e poi il partecipante deve indicare
l’immagine giusta (e in questo caso lo sperimentatore offre una frase con un pronome relativo
soggetto/oggetto/oggetto, col soggetto dopo il verbo) qui non si sa cosa viene fuori, perché il bambino
potrebbe semplicemente indicare con il dito e non verbalizzare, oppure potrebbe riformulare dicendo “i
bambini accarezzano il gatto” (SVO). Non è detto che alla domanda “Quali bambini ti piacciono?” risponda
da soldatino “Mi piacciono i bambini che...” però è ovvio che questo è un indizio: chi effettua il test vuole
verificare quante volte il bambino produrrà una frase completa col pronome relativo, quante volte la evita,
e se la evita, con cosa la sostituisce; perché un adulto alla stessa domanda si aggancerebbe alla domanda in
maniera più grammaticalmente corretta.
Chiaramente le immagini erano fatte in modo da elicitare (sollecitare, far produrre) la relativa sul
soggetto/oggetto, quindi c’erano altri esempi di stimolo, ad esempio una maestra che sgrida/premia i
bambini. La domanda dunque è “Quali bambini ti piacciono?” perché i bambini italiani devono rispondere
“Mi piacciono i bambini che la maestra premia/sgrida”. Stiamo dunque producendo una relativa che per noi
è un po’ pesante, ma l’esercizio è così.
Come con le frasi relative, il test verifica anche il passivo, quindi sono state fatte anche delle attività in cui ci
sono dei verbi azionali (che indicano un’azione) e verbi non azionali, e ci sono delle frasi costruite con
l’ausiliare essere e con l’ausiliare venire. Già sappiamo che l’ausiliare venire è quello che risulterà, forse, più
semplice rispetto ad essere.

CONDIZIONI DELLE FRASI PASSIVE

- In quale foto Marco è spinto da Sara?


- In quale foto Marco viene spinto da Sara?
Vengono proposte frasi passive con il verbo essere ed il verbo venire, con azioni e con verbi non azionali,
con cui chiaramente si alza il livello di difficoltà.
- In quale foto Marco è visto da Sara?
- In quale foto Marco viene visto da Sara?
Come per le relative, il test di comprensione è associato ad un test di produzione, e in quest’ultimo
abbiamo anche questa volta le immagini: il bambino non legge perché la lettura fa scattare altri livelli di
analisi, ad esempio per la dislessia.
Quindi si chiede “che cosa sta succedendo al paziente di quella foto”.
Vediamo dunque delle foto (pag. 82 fascicolo): nella prima Sara spinge Marco, nella seconda la mamma
spinge Marco. Cosa succede a Marco nella prima foto? La risposta è Marco è/viene spinto da Sara.
Sono dunque dei test nei quali i bambini di 7-8-9 anni vengono sollecitati a produrre delle strutture
grammaticali in maniera naturale.
RISULTATI
Nella tabella analizzata (tabella 3 pag. 84) abbiamo diverse sigle.
Per i bambini: SA, SB
Per il gruppo di controllo, i normo udenti: GC
Poi ci sono le relative: RS, RO, e ROp.
Il gruppo di controllo aveva bambini da 5 ai 7 anni e mezzo; i bambini sordi sono stati studiati in maniera
longitudinale, quindi per entrambi abbiamo due somministrazioni: una a 7 anni e 6 mesi, una a 9 anni.
Se si vedono i risultati, per la comprensione delle RS, il GC dà 93%. Quando si fa un test con i nativi italiani e
si fanno ascoltare voci di parlanti italiani, non si arriva mai al 100%.
I bambini sordi hanno mostrato un miglioramento? Uno di loro era già perfetto dall’inizio nella
comprensione, l’altro era più problematico del fratello. Abbiamo dunque due gemelli di sordità media, però
evidentemente non identici in questo, perché SB è superiore a SA come capacità di comprensione.
Per la comprensione delle RO, il GC è più normale dei bambini sordi, ha il 65%. Il 65% delle volte hanno
indovinato il significato della frase. Per SA è andata meglio, per SB un po’ peggio.
Per la comprensione delle ROp, il GC è andato ancora peggio: 44%. Anche per i bambini la situazione non è
diversa: SB a 7 anni e 6 mesi ha addirittura totalizzato il 9%.

PRODUZIONE

Nella comprensione si aveva 93% per i bambini normo udenti, e diciamo sulla RS. Nella produzione
abbiamo il 100%, quindi entro i 7 anni sono gestite bene. Per le RO la percentuale data era il 65%. Quanto
in questo caso possono produrre una RO? 13%. In realtà le relative in cui il pronome relativo è un oggetto, il
bambino di terza elementare ancora deve riuscire a produrle. Non le fa, le evita, e questo dà il senso di
quanto tempo ci vuole per sviluppare la lingua. I due bambini sordi a livello di produzione vanno molto
peggio rispetto alle loro capacità di comprensione.
Che ne ricaviamo? Che la tabella evidenzia la tipica asimmetria tra RS ed RO. Questo è un dato di fatto.
Vediamo cosa succede quando devono rispondere, cosa dicono nella produzione: è interessante notare che
la strategia usata più frequentemente è quella di frasi semplici SVO senza relativa. Una normale frase SVO,
per esempio: “Il bambino che bacia i nonni” diventa “Il bambino bacia i nonni”.
Altre strategie sono interessanti:
“Il bambino che la mamma bacia”
“Il bambino che il dottore lo cura” (Qui abbiamo il pronome di ripresa.)
Anche nella produzione i due gemelli sono diversi e scelgono cose diversi. Gemelli non significa identici,
ognuno segue il suo sviluppo, e per quanto riguarda le frasi relative viene fuori che si capiscono meglio i
verbi azionali rispetto a quelli non azionali, per tutti. I verbi che hanno un significato di movimento più
concreto, per tutti i bambini, sono più semplici.

Tabella 8 pag 86: I gemelli non hanno prodotto frasi passive, mentre i bambini normo udenti ne hanno
prodotte alcune e le strategie usate di più sono la frase attiva SVO e la frase attiva con un clitico di ripresa,
che ritorna spesso.
Nella discussione (pag. 87) un’altra cosa interessante è che l’ordine SVO è un ordine che sembra meno
problematico per i normo udenti rispetto ai bambini sordi: questi ultimi si aggrappano a quest’ordine e
quando il soggetto è post-posto, mentre per i bambini normo udenti non è un problema, per i sordi sembra
creare una certa difficoltà.

Pagina 59: Qui ci troviamo con lo stesso tipo di frasi, è più semplice la discussione: abbiamo sempre relative
restrittive, già sappiamo che il problema sarà tra RS ed RO e che le più problematiche saranno le RO, però
qui ci confrontiamo con la dislessia evolutiva.
Abbiamo un altro tipo di problema.
TEST DI PRODUZIONE ELICITATA pag. 61

La produzione non è mai spontanea in questi studi, perché sono studi sperimentali, in cui non si può
registrare il parlato spontaneo.
Di quale problema ci occupiamo con la dislessia?
Essa è molto frequente. Il tasso di persone che hanno problemi lievi, medi, gravi – ci sono vari gradi anche
qui - è piuttosto alto e molto frequente. Va detto che forse noi abbiamo delle percentuali più basse dei
paesi anglofoni grazie al tipo di scrittura che abbiamo, perché la dislessia è anche molto sensibile alla
regolarità e trasparenza del rapporto tra segni della scrittura e suoni: la dislessia non è un problema
cognitivo, ma riguarda la rapidità di elaborazione: è come se fosse tutto rallentato nell’elaborazione e
decodifica sonora, e quindi nel rapporto segno-suono. Individuare per tempo la dislessia evolutiva in un
bambino (che si sviluppa con la crescita, e nell’evoluzione), - un tempo avrebbero detto che il bambino
sarebbe stato problematico - è dovuto alla sensibilità degli insegnanti, anche se a volte le famiglie si
rifiutano di accettare.
Si può scoprire di avere una lieve dislessia quando si inizia a studiare una lingua che non è la propria
materna, perché esiste una difficoltà diversa nel gestire l’italiano e l’inglese: quest’ultima è una lingua a
scrittura opaca: se si ha una lieve dislessia, è più facile venga fuori studiando l’inglese. Infatti a volte, a
scuola, è opportuno dirottare lo studente dislessico su un’altra lingua che non sia l’inglese per non creare
difficoltà; perché se l’allievo è un dislessico, preso separatamente, gestito in una classe delle scuole
elementari in cui gli insegnanti sono meravigliosi, poi viene messo in una classe del liceo in cui sopravvive al
più forte, e gli insegnanti fanno meno attenzione, possono chiedergli di leggere ad alta voce: cosa che non
può fare, ma non perché non sappia leggere, semplicemente perché non gli si può chiedere di farlo; è
importante dunque avere certe attenzioni, perciò se gli insegnanti non sono preparati, meglio dirottare lo
studente verso una lingua in cui avrà meno problemi con la struttura.
È un problema legato alla lettura e alla capacità di proiezione rapida dei suoni.

In questo studio hanno preso bambini che vengono chiamati ‘normo dotati’ perché non hanno problemi,
tra i 6 e i 10 anni, più 6 bambini con diagnosi di dislessia evolutiva - già diagnosticati – tra gli 8-9 anni, e un
gruppo di 7 bambini con dislessia sospetta tra i 6-9 anni, segnalati dalle maestre per le loro difficoltà
scolastiche ma privi di diagnosi di dislessia. Questo è il mondo dove il genitore decide se il figlio è dislessico
o meno e se decide che il figlio non è dislessico sarà quest’ultimo a dover pagare lo scotto perché non potrà
avere dei vantaggi in termini di verifiche. Il dislessico lavora meglio con la memorizzazione.

Come gruppo di controllo questa volta ci sono:

 I dislessici dichiarati,
 I sospetti dislessici,
 I bambini normodotati,
 Gli adulti che rappresentano lo sviluppo completo della grammatica.

Batterie di test: Agente – Paziente. “Il format è molto standard e si comprende quanto sia rivoluzionario chi
decide di lavorare sul parlato naturale poiché è molto complicato.”

Esempi Test: Al partecipante veniva chiesto di volta in volta quale personaggio preferisse. La frase doveva
iniziare con “Mi piace” per evitare che il bambino “scappasse” gli veniva dato questo input, i verbi usati
sono azionali (lavare, sporcare, ecc).
(Immagine di pupazzo che parla): “Ci sono due dottori e due nonne. Un dottore saluta le nonne e l’altro le
saluta. Quale dottore ti piace?”
Eventuale risposta: “Mi piace il dottore che saluta/ visita le nonne. - Il dottore che saluta/visita le nonne.”
(Immagine di pupazzo che parla): “Ci sono due bambini, due barbieri e due cani. I bambini pettinano un
cane, i barbieri pettinano l’altro cane. Quale cane ti piace?”
Eventuale risposta del bambino: “Mi piace il cane che pettinano i bambini (relativa sull’ogetto con il
soggetto post-verbale) / i barbieri.”

Risposte giuste “Mi piace il bambino che saluta le mucche” oppure “Quello che saluta i cani” (relativa sul
soggetto) – “Mi piace il gatto che stanno accarezzando i bambini/ quella che stanno baciando i bambini”
(relativa sull’oggetto).

Ripetizione ritardata, diverso da quello di elicitazione, è dove “io” ti dico una frase, successivamente ti
distraggo –facendoti contare, ecc- e poi ti faccio ripetere la frase che avevo detto. Con questa si verifica la
memoria a breve termine ed è un grande sforzo per il bambino, al quale basterebbe poco per distrarsi.

Risultati tabella: Nell’esercizio di ripetizione i bambini se la sono cavata bene, gli adulti benissimo. Tra i
bambini con dislessia dichiarata e quelli con dislessia sospetta, questi ultimi sono in maggioranza. Questo
perché nel test l’insegnante dice al genitore che si comportano esattamente come dei bambini con dislessia
dichiarata. Questi hanno anche problemi con la ripetizione perché essendo stati distratti la loro capacità di
memorizzare a breve termine, unita alla difficoltà di essere rapidi nella decodifica fonetica, fa sì che
l’informazione svanisca più velocemente.
Questo lavoro si chiude rimarcando che questa simmetria tra relative sul soggetto e relative sull’oggetto è
probabilmente risultato di un elitamento di scritture sintattiche cognitivamente complesse. L’oggetto
dell’analisi è molto interessante e quindi si può dire che anche questo lavoro decodifica delle relative nella
comprensione, nella produzione e nella memorizzazione, ripetizione, in particolare quelle sull’oggetto
poiché sono le più difficili.

LA COMPETENZA SINTATTICA IN PARLANTI CON DEFICIT COGNITIVO. Il caso della demenza di Alzheimer

Che cos’è? È problema di gioventù o di età avanzata? Ovviamente di età avanzata, ma può rivelarsi anche in
gioventù. È una malattia terribile perché cancella tutto. Malattia traumatizzante soprattutto per chi vive
affianco a chi ne soffre.
Entriamo in un ambito di deficit cognitivo. Si parla anche di demenza di Alzheimer, ovvero demenza senile,
che si presenta con l’età ed è determinata da un processo degenerativo.
I sintomi sono: amnesia, la memoria non funziona bene; agnosia, non si riconosce nessuno o quasi nessuno;
aprassia, non si riesce più a camminare, mangiare. Dal punto di vista del deficit linguistico viene definito
afassia fluente, che è un disturbo del linguaggio causato da un danno cerebrale ed è generalmente
traumatica. Afasia fluente nel senso che capacità di articolazione gravi non ce ne sono, ma c’è una grave
forma di anomia ovvero mancano i nomi. A livello lessicale vediamo grosse difficoltà ma a livello
morfologico notiamo problemi soprattutto nella morfologia verbale, che si perde. I verbi che hanno una
coniugazione irregolare subiscono un processo di regolarizzazione da parte dei pazienti di questa malattia.
A livello di procedura mancano le informazioni dichiarative, è come se si sapesse costruire un verbo ma
mancano i pezzi e quindi li si costruisce con quello che si ha.

Esiste un deficit sintattico? Questo deficit come e quando si manifesta nel corso della malattia?

Test di comprensione svolto su pazienti affetti da alzheimer

“La nonna bacia la bambina”


 Relativa sul soggetto: “Mostrami la nonna che bacia la bambina”
 Relativa sull’oggetto: “Mostrami la nonna che la bambina bacia”
 Relativa sul soggetto con passivo: “Mostrami la nonna che è baciata dalla bambina”

Anche in questo lavoro c’è il SENTENCE TO PICTURE MATCHING TASK.

Risultati: 30 soggetti con Alzheimer diagnosticata da almeno 6 mesi, poi sono stati presi 7 nativi parlanti
italiano (gruppo di controllo), anziani.
Il gruppo di controllo, di 7 partecipanti, ha dimostrato elevata accuratezza nel comprendere le frasi
proposte e il numero di errori commessi è stato molto basso. Significa che il test è adeguato per parlanti
anziani con basso livello di istruzione e si poteva somministrare anche ai pazienti affetti da Alzheimer.
Guardando i risultati è come se venissero fuori 3 gruppi diversi che corrispondono a 3 gradi diversi della
malattia.
Dunque:
o (GRUPPO 1) i soggetti con un Alzheimer iniziale riescono a completare con successo il compito
quindi significa che questo gruppo non ha problemi di nessun genere;
o (GRUPPO 3) il gruppo di malati gravi di Alzheimer, ci sono problemi di malattia superiore per i quali
c’è una capacità di comprensione altamente compromessa quindi non riescono a capire nulla e
fanno tantissimi errori;
o (GRUPPO 2) il gruppo di malati di Alzheimer di tipo moderato ha dei punteggi variabili, casi in cui si
riesce e non, fase di transizione.

In questo articolo non si entra a parlare delle percentuali.


Questa malattia cancella anche alcune strutture sintattiche come quelle delle frasi relative.

BUONA FORTUNA <3

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