Linguaggio
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logica
le afferlnazioni
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dei filosofi
sono senza significato?
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.Feltrinelli 327/UE
Unif)~,J<J1~ Economico
Titolo tMl'of'<TrJ ."i,;'l/llr
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(\rK1of GoIbDa 1.It.I. 1..nndo<I. 19 46)
Linguaggio
.,
venta e logica
di
5
veri{icabilt: in modo concùuiuo, ma che qualche pos-
sibile esperienza' riesca di specifico rilievo per sta-
bi/ime la t'eri/il o fahi/ll, Se la presunta proposizio-
ne manca di soddisfare questo principio, e non è
tma tautologia, al/ora io sostengo clic è metafisica, e
che, cssmdo metafisica. non è né vera né [alsa, m"
[ctrcralmcntc priva di SCIlSO. Buona parte di quanto
comunemente passa per filosofia, secondo questo cri-
terio si scoprirà metafisica, e in particolare si t'edrà
dle flan si può asserire con significato l'esistenza di
un mondo non empirico di valori, o cile gli uomi-
ni abbiano anime imm ortali, o esista un Dio tra-
scendente.
Quanto al/e proposizioni della filosofia per se stes-
se, vengono considerate necessarie linguisticamente,
e dunque analitiche, Rigu ardo poi alla relazione in-
tercorrente fra filosofia t ' scienza empirica, si mostra
che da parte stia il filosofo non è in condizio ne di
fornire verità speculative, le quali se tali fossero, cn-
trcrcbbcro in competizione COl1 le ipotesi del/a scien-
za, e neppure PIIÒ oltrepassare la oalidit ò delle teo-
rie scientifiche con giudizi a priori, ma Il' sua fun-
zione è quella di chiarire le proposizioni della scien-
za coidcn ziwidonc le relazioni logiche cd elabora»-
, " S( ns" .( .>;prri( IIU ," normalmente tradotto con " C.' llCr icnu >cn·
~i[,ite, ~ a voltc per a1:cggn irc l'a~ ;:c.ti '·a ",ionc òi ~ reso• come qui ,
>en>plio.:clm·n1c c"n "e.'po:ricn7.a. " 1.<' '1"'0 di,a,i, l>cnch~ anc".. piu.
raram"m c. l'eT "ullu·amlrlll,u ·" ,, "Ienu to (,enwrwk)" e "m atrr i.J
I hi IJg,U M' o. a (m:ll,riak). " Ilo_e. dd rMlo, come di SOlilo, q uesli
Irc ""'lanli.-; molto ricorrcnti non wno qU:l!il1,a ri da ahri aJ:~ltivi,
~ ben chiaro che il le,lo non censente altra imcrl'rclu;onc. [N. d.T.]
6
do definizioni dci simboli che vi figurano. Di con-
seguen za sostengo cile nella natura della filosofia
nulla giustifica l'esistenza di ..scuole" filosofiche in
conflitto. E cerco di dare evidenza a questa tesi pro-
ponendo una definita soluzione dci problemi che
sono stati le principali fonti di controversia nel pas-
sato del/a filosofia.
In Inghilterra la concezione del filosofare come
lavoro di analisi è legata all'opera di G. E. Moore e
de'i suoi discepoli. Afa, se molto ho appreso dal pro-
fessar Moore. ho anche motivo di credere clIc egli
e i suoi seguaci non siano disposti ad adottare un
fenomenismo cosi radicale come il mio, e che la lo-
ro concezione della natu ra dc/l'analisi filosofica re-
sti piuttosto diocrsa. l filosofi a me pitl vicini sono
quelli che sotto la guida di Moritz Schlick com pon-
gana il "Circolo di Vicnna," comunemente noti co-
me positiuiszi logici. Il pilt, fra costoro, lo devo a
Rudolf Carnap, Desidero inoltre riconoscere il mio
debito verso Gilbert R;'le, clu: già mi fu tutore in
filosofia, e verso lsaiah Bcrlin, che ha discusso con
me ogni passo dcll'argomcntozionc oDrendomi mol-
ti suggerimenti apprezzabili, per quanto nessuno dei
due si trovi d'accordo con buona parte delle mie as-
.cerZIOT1I .
A. J. Ayee
Londra, luglio 1935.
7
Capitolo primo
9
Iutare costoro si scopriran no pi ù avanti valide per
ogni forma di metafisica.
Un modo di attaccare il metafi sica che pretende
d' aver conoscenza di u na realt à trascendente il mcn-
do fenomenico, sarebbe q uello di ricercare da q uali
premesse siano dedotte le sue pro posizioni. No n dc-
ve partire anc h'eg li, come gli altri suoi simili, dal-
l'evidenza dei sensi ? E, se è COSI, qu ali rngionamen-
ti validi possono mai condu rlo a concepire una real-
tà trascendente? D a premesse empiriche è sicura-
mente impossibile trarre conclusioni legittime, qUJ·
li che siano, intorno alle prop rietà o all'esistenza d i
alcunché di sovra-cmpirico. Ma di fronte a questa
obiezione il metafisica neghe rebbe che le proprie
asserzioni si fondino in definitiva sull'evidenza dci
sensi. Direbbe d 'esser stato dotato di una facoltà d 'in-
tuizione intellettu ale che lo mette in grado di cono-
scere fatti non conoscibili per esperienza sensibile.
E anche se si potesse mostrare che egli si affi da a
premesse empiriche c du nque il suo avventurar si in
un mondo non empirico è logicamente ingiustifica-
to, no n ne verrebbe che le sue asserzioni circa tale
mondo non empirico debbano essere necessariame n-
te false. Che la conclusione non discenda dalle pre-
messe presunte, non è un fatto suffic iente a mostrar-
ne la falsità. Di conseguenza non si può demolire un
sistema di metafisica trascend ente criticando scrnpli-
cr ment c il modo in cui si forma. Bisogna piuttosto
criticare la natura degli asserti che di fatto lo costitui-
scono. E qu esto è il filo dell'argomentazione che in
IO
realtà seg uiremo. Sosterr emo, infatti , che nessuna
affermazione riferentcsi a " realtà " trascend érrtii li-
miti di tutta l'esperienza possibile è m ai in g rado
d 'avere una signifi canza letterale qual si voglia; don-
de necessariame nte consegue che q uan ti si sono sfor-
za ti di d escrivere realtà sim ili han no faticato pe r
pro d urre nonsensi.
Si potrà osser vare che qllestJ. propos izronc è già
stata dimostrata da Kant. M:1 Kant, pur conda nna n-
do anch 'egli b. metafisica trascendente, lo faceva per
ragi oni di pri ncipio diverse. Di ceva che l'i ntellett o
umano è costituito in modo da smarrirsi in contrad-
d izioni q uando si avven tura oltre i limiti dell'espe-
rienza possibile, nel ten tati vo di atti ngere la cosa in
sé. In qu esto modo egli non faceva dell'impossibilità
della m etafisica trascendente una q uestione di logi-
ca, come facciamo noi, ma un dato di fatt o. Non
asseriva che la nostra men te non potrebbe avere, in
nessun modo concepibile, la facoltà di pen etrare al
di là del mondo fenomenico, ma sempliceme nte che
di fatto è pr iva di una facolt à simile. Per cui, se l:
possibile cono scere solo ciò che sta dentro i confini
dell'esperi enza sensibile, il critico è condotto a chic-
dcrsi come Ka nt possa giu stificare l'asserzione che
esistono effettivamen te cose reali oltre quei con fini
c com e possa di re i limiti al di là dei quali all'intel-
letto umano non è lecito avventur arsi, senza oltr e-
passarli egli per primo con qualche successo. "P er
tracciare un confin e al pensiero, " dice W itrgenstein,
"dovr'Zmmo pensare en trambi 'i lati di questo con-
,
12
poi daremo le spiegazioni ne cessarie per rcndcrlo
precise.
Il criterio da noi usato per mettere alla prova l'au-
tenticità di quelle che si present ano come afferma-
zioni di fatto è il criterio di vcrificabilità. Diciamo
che un enunciato è significativo in senso fattuale per
qua lunq ue dato individuo, se e solo se quest'ultimo
sa come verificare la proposizione che l'enun ciato si
propone di esprimere - cioè, se egli sa quali osser-
vazioni lo condurrebbero, sotto cene condizioni, ad
accettare la proposizione come vera o a rifiutarla co-
me falsa. Qu ando, d 'altro lato, assumerne la verità
o falsità semplicemente non è incompatibile con una
qu alunque assunzione, qu ale che sia, intorno alla
natura della propria esperienza futu ra, allora, per
quanto lo riguarda, la presunta proposizione sarà,
se non u na tautologia, una pura e semplice pseudo-
proposizione. L'enunciato che la esprime può ave-
re per lui significato emotivo, ma non significato
letterale. Per le domande il procedim ento resta lo
stesso. Ricerchiamo in ogni caso qual i osservazioni
ci con"lIuricbbero a rispondere nell'un modo o nel-
l'altro alla domanda; e quando non ne scopriamo
n essuna, dobbiam o concludere che l'enu nciato in
esame, per quanto ci rigua rda, non esprime una do-
manda autentica, quale che sia la forza impr essavi
dall'app arenza g rammaticale per farci credere il
contrario.
Questo procedimento ha bisogno di un esame dct-
tagliato perché l'adottarlo è un fattore essenziale nel-
l'argomentazione di quest'opera.
J3
In primo luogo è necessario distinguere fra veri-
ficabilità pratica e verificcbilità di principio. Si da n-
no proposizioni che tutti noi intendiamo nel modo
più ovvio, alle q uali in molt i casi diamo il nostro
assenso, senza aver preso in realtà neSSUI1:l misura
per verificarle. Molte di qu este sono proposizioni
che potremmo verificare sol che ce ne preoccupas-
simo abbastanz a. Ma resta un certo nu mero d i pro--
posizioni significative, concernent i dati d i fatto, che
qu and 'anche cc lo proponessimo non potremmo ve-
rificare per la semplice ragione che manchiamo d i
mezzi pratici per collocarci nella situazione in cui
si potrebbero compiere le osservazioni pertinenti al
caso. Esempio facile e familiare di proposizioni co-
me qu este ultime è; la proposizione affermante che
ci sono mon tagne sull'altra faccia della lun a.'
A ncora non si è realizzato nessun razzo tale da
pcrmettermi d' andare a vedere l'altra faccia della
luna, cosicché non sono in grado di decidere la quc-
stionc per osservazione d iretta. Ma effettivamente so
quali osservazioni mi definirebbero la questione, se,
come in teoria è concepibile, un giorno io fossi nella
posizione adatta per compierle. Perciò dico che la
proposizione è verificabilc in linea di principio, an-
che se non lo è in pratica, e pertanto è significativa.
Invece pscudo-proposizioni merafisichc come " l'As-
soluto, pur non essendo ne per se stesso suscettibile.
ent ra nell'evoluzione e nel prog resso, " non sono \' C~
• Quc. !" c'Cm"in è .t.u" mJlo ,b I professor Schliçk fl<"r ill"' lrJre
lo 'I~'" pUnlo.
• Ciro;l CJ'O <lJ Ap~.7rt"'cç dnd RClllit'l di F. I I. BrJ"ley.
rificabili nepp ure in linea di principio. I nfatt i non
è dato di concepire alcuna osser vazione che m ette-
reb be in grado di determinare se l'A ssoluto entra o
non ent ra nell'evoluzione e nel progresso. Na tural-
mente può darsi che l'autor e della notazione in que-
stione stia usando parole della nostra lingu a in un
modo com unemente no n seguito dalla gente che
parla la nostra ling ua, e pu ò essere che egli int enda
davvero asserire qualcosa di em piricamen te verifi-
cabile. Ma finché no n ci fa capire come si potrebbe
verificare la proposizione che egli vuole esprime re,
non riesce a comunica rci nulla. Se poi ammette, co-
me penso avrebbe ammesso l'au tore qui citato, che
con queste parole non int endeva esprimere né un a
tautologia né un a proposizione verificabile alm eno
in linea di principio, allora egli ha pronu nciato q ual-
cosa che non ha significa nz a lett era le neppure per
lui.
La second a distinzion e che dobbiamo fare è quel-
la fra senso "proprio" e "improprio" del term ine
"verificabilc." Una pro posizion e si dice verificabile
nel senso proprio del termine, se e solo se la sua ve-
rità si pu ò stabilire in mod o conclusivo nell'esperien-
za. È invece verificabile in senso improprio qu ando
la si pu ò rend ere prob abile con l'esperienza. In qu a-
le dci du e sensi usiamo il termine dicendo che la
presunta proposizio ne è autent ica solo se è verifi-
cabile?
A me semb ra che se adottiamo quale criterio di
significanz a la veri ficabili tà concl usiva, come han-
no proposto alcuni positivisri,' la nostra argomcn·
razione proverà troppo. Si consideri, per esempio, il
caso di proposizioni generali enuncianti leggi - cioè
proposizioni come " l'arsenico è velenoso " ; .. tutti
g li uomini sono mortali "; " un corpo riscaldato è
soggetto a dilatazione." Rientra nella natura stessa
di q ueste proposizioni che la loro verità non si pos-
sa stabilire con certezza per mezzo di nessuna serie
finita di osservazioni. Qualora si riconosca che sif-
fatte proposizioni generali enuncianti leggi sono dc-
signate a comprendere un num ero infinito di casi, si
deve ammettere che non si possono veri ficare in mo-
do conclusivo neppure in linea di principio. E se co-
me criterio di significanza adottiamo la verif ica-
bilità conclusiva, la logica ci costringe a trattare q uc-
ste proposizioni generali alla stessa maniera delle af-
fermazioni del metafisico.
Di fronte a questa difficoltà, alcuni positivisti' han-
no preso l'eroica decisione di dire che qu este propo-
sizioni generali sono appunto casi di nonsenso, ben-
ché di un tipo di nonsenso con u n'importanza essen-
ziale. Ma q ui l'introduzione del termine" impor tan-
za " è semplicemente un tentativo di mettersi al si-
curo. Serve solo a indicare che gli autori riconoscono
il carattere in certo modo paradossale della loro COIl-
cezione, senza per altro togliere di mezzo il para-
dosso. Inoltre, la difficoltà emerge molto chiaramcn-
• l'a esempi" . ~1. Sem.lel(. PO!lrit·is",", ,,,,d R,,"lùm ,u , ~ E r
kc nn llli•. ~ vnl. I. 19-'0. l'. \VA' S'''''' '' , f-ogiuh.. A ttal,'!r dn 11'" ...
Ichri tt/ichkriu brgriDI, "Erkene mk." ,.,,1. I, 1930.
, l' rr = mpin, ~1. S"Ifl .' CI< . D ir Ka,u alit.:it iII dr.- grgulwitNillr rt
Phy!ik , "N~IUrwis'-l:n<c "" h , " "0 1. 19, 1. 931.
l'
te nel caso delle proposizioni generali enu ncianti leg.
gi, ma non è limitata a questo caso. È qu asi altrer-
tanto ovvia in q uello delle proposizioni intorn o al
passato remoto. Infatti si deve sicuramente ammct-
rcre che, per quanto forte possa essere l'evidenza in
favore d i asserti di storia, la loro veri tà non può dive-
nirc nulla di più di un'alta probabilità. E sostenere,
allora, che anche questi asserti costituirebbero un tipo
importante o non importante d i nonsenso, a d ir po-
co, non sarebbe plausibile. Al contrario, da parte no-
stra vi opporremo la tesi che nessuna proposizione
diversa da un a tautologia può mai essere qu alcosa di
pi ù di una ipotesi prob abile. E se q uesta tesi ì: giu-
sta, il principio per cui l'enunciato può essere signi-
ficativo in senso fattu ale solo se esprime qualcosa d i
vcrificabilc in modo conclusivo, quale criterio di si-
gnificanza si d imostra assurdo da sé. Porterebbe in-
fatti alla conclusione che è addirittura impossibile
compiere una qualunqu e affermazione di fatto che
abbia significato.
Nepp ure possiamo accettare il suggerimento che
accorderebbe significato fattuale all'en unciato, se e
solo se questo esprim e qua lcosa di confu tabile defini-
tivamente dall'esperienza: Chi prend e questo partito
assume che, per quanto nessuna serie finita di osser-
vazioni sia mai sufficiente per stabilire fuori d'ogni
possibilità di dubbio la verità dell'ipotesi, si diano
casi cruciali in cui una singola osservazione o serie
, Ciò I: ,t .ll<> 1''''1''''1'' da " ARI. P" P" H nella .U3 L" gil( ù r l'" r ·
Ic/" ... g .
17
di osservazioni sarebbe in gr ado di confutarla definì-
ti vam ente. Ma, com e m ostreremo pi ù oltre, q uesta
assunzione è falsa. L 'ipotesi non si può confutare in
modo concl usivo più di quanto in modo conclusivo
si possa verificare. Q ua ndo infarti prendiamo l'a ver
luogo di certe osservazioni come pro":l della falsità di
una data ipotesi, pr esuppon iamo pur sempre l'esisten-
za di certe con dizioni. E per q uanto la falsità di q ue·
sta assunzione possa essere, in og ni caso dato, cstre-
m amen te im probabile, non è m ai im possibile logica-
m ente. Come vedr emo, non è de tto debba essere in
sé necessariamente con tra ddi ttor io sostenere che al-
cu ne delle circostan ze di rilievo sono diverse da quan·
ro supponevamo che fossero, e che per conseguenza
l'ipotesi in realtà non è caduta. E se non è vero che
una q ualunque ipotesi si può confutare definit iva-
mente, non possiam o stabilire che l'au tenti cit à della
pr oposizione dipenda dalla possibilità di una SU J con-
furaaione definitiva.
Pert anto r icadia mo nd senso im proprio della ve-
ri ficazione. Diciam o ch e la dom anda da farsi intorn o
a un a qu alunq ue presunta afferm azio ne di fatto non
è " Si danno osservazion i che ne ren derebbero logi-
came nte certa la verità o falsità? " ma semplicem en-
te ..Si danno osservazioni che riu scirebbero di spcci-
fico rilievo per la' determinazione della sua verità o
falsità ?" E solo se q uesta seconda domanda ottiene
risposta negat iva concludiamo che l'asserto in esam e
è non sen so.
Pcr chiarire megl io la nostra posizione, possiamo
formula rla in altr o modo. Conveniamo di ch iamar e
Il
sperimentale la proposizione che registra una osscr-
vazione effettiva o possibile. Allora possiamo dire che
il contrassegno della proposizione fattuale autentica
non è la sua equivalenza con una proposizione speri-
mentale o con un numero finito di proposizioni spe-
rim entali, ma semplicemente il fatto che dalla sua
congiunzione con certe altre premesse si possano dc-
durre alcune proposizioni sperimentali non deduci-
bili dalle sole altre premesse.'
Qu esto criterio sembra abbastanza liberale. Al con-
trario dci principio della verificabili tà conclusiva, è
chiaro che esso non nega signific:mza a proposizio-
ni generali o a proposizioni intorno al passato. Ve·
diamo invece quali tipi d i asserzione escluda.
Un buon esempio dci tipo di espressione conda n-
nato dal nostro criterio non come falso, ma sempli-
cemente come nonsenso, sarebbe l'asserire che il
mondo dell'esperienza sensibile sia completamente ir-
reale. N aturalmente si deve ammettere che a volte i
sensi ci ingann ano. Dall'avere certe sensazioni possin-
mo aspettarci di paterne ottenere come risultato ccr-
te altre che in realtà non si possono ottenere. Ma in
tut ti i casi siffatti è l'esperienza successiva a infcr-
marci degli errori che scaturiscono dall'esperienza.
Diciamo che a volte i sensi ci ingann ano appunto
perché dalla nostra esperienza siamo condotti ad
aspettarci qualcosa che non sempre concorda con
-
quan to sperimentiamo poi. Cioè facciamo assegna-
-
• Qu"' la ;, una ~ff..rm.17. ion.. troppo , ..m pli lic~ fa ch.. pre"," ~lb
lette ra non è Ilill'fa. Qlld b che cr..d<> . ia la forrnulazion.. Iliu"a .i
tro va ndJ'App~ndi...•• l'l'. 227- 28.
IO
.mento sui sensi per comprovare o confutare i giudizi
fondati sulle nostre sensazioni. Perciò il fatto che i
nostri giudizi di percezione si scoprano a volte er-
ronei non tend e mcnomam cnte a mostrare irreale il
mondo empirico. E anzi, u na qualunque osservazio-
ne o serie di osservazioni in grado di mostrare l'ir-
realtà dci mondo rivelatcci dall'esperienza è chiar a-
mente inconcepibile. Per conseguenza chiunq ue con-
danni il mondo sensibile come un mondo di rucrn
apparenza da contrapporre alla realtà, dice qu alcosa
che secondo il nostro criterio di significanza è let-
teralmente nonsenso.
Un esempio di controversia che l'applicazione del
nostro criterio ci obbliga a condan nare come fittizia,
è offerto da quant i discutono intorno al numero
delle sostanze nel mondo . Sia i monisri, sostenitori
della tesi che la realtà è u n'unica sostanza, sia i plu-
ralisti, sostenitori della tesi che la realtà è com posta
d a molte sostanze, amm ettono l'impossibilità di im-
magjn arc una qualunque situazione empirica di spe-
cifico rilievo per la soluzione della loro disputa. Ma
se ci viene detto che nessuna possibile osservazione
potrebbe mai dare qualche probabilità all'asserzio-
ne della realtà come sostanza unica o a quella della
realtà come composto di molte sostanze, allora dob-
biamo concludere che nessuna delle due asserzioni
ha significato. Più avant i" vedremo che nella disputa
i ra monisti e plurnlisti sono coinvolti autentici pro-
blemi logici cd empiri ci. Ma la qu estione metafisica
20
relativa alla " sostanza " viene esclusa dal nostro cri-
terio come spuria.
Un consimile trattamento spetta alla controversia
fra realisti e idealisti nel suo aspetto metafisica. La
semplice esemplificazione da me impiegata altrove"
in una argomentazione consimile, aiuterà a dimo-
strarlo. Suppon iamo che, scoperto un quadro, si sia
avanza ta l'ipotesi che si tratti di un dipin to di Goya.
Per occuparsi di una questione simile vige u na pro-
cedura ben definita. G li esperti esaminano il qu a.
dro per vedere in che modo somiglia alle opere at-
tribuire a Goya e se non porta segni caratteristici di
contraffazione ; cercano di prenderne visione con-
temporanea mente pcr garanti re evidenza al fatto che
un tale quadro esiste, c cosi via. Alla fine può dar si
il caso che ancora non si trovino d'accordo, ma cia-
scuno di loro sa qu ale evidenza empirica verrebbe a
confermare o a screditare la sua opinione. Si suppon-
ga ora che gli esperti abbiano studiato filosofia e al-
cuni di loro passino a sostenere che questo quadro
è solo una collezione d'id ee nella mente del soggct-
ro pcrcipiente o in quella di Dio, altri invece che è
un oggetto reale. Quale possibile esperienza potreb-
be mai avere uno qual unque di loro, che riuscisse di
specifico rilievo per la soluzione di qu esta disputa
nell'uno o nell'altro senso? Qu i non si dubita della
realtà del quadro nel senso consueto dci termine
" reale" opposto a " illusorio." Qu anto alla realtà del
21
quadro in questo senso, i partecipanti alla disputa
sono rima sti soddisfatti da una serie correlata di sen-
sazioni visive e tattili. Sussiste q ualche procedimen-
to consimile per scoprire se il qu ad ro è reale nel sen-
so in cui il termine" reale" è opposto a " ideale" ?
È chiaro che non ne esiste nessuno. Ma, se COSI è,
secondo il nostro criterio il problema è fittizio. Ciò
non significa che la controversia fra realismo e idea-
lismo si possa licenziare senza aggiu ngere altro. In-
fatt i può essere considerata a buon diri tto una dispu-
[a concern ente l'analisi di proposizioni d'esistenza
e du nque impl ica un problema logico che, come ve-
d remo, può ricevere una soluzione definitiva," Quan-
to abbiamo mostrato è che la que stione in campo fra
idealisti e realisti diviene fittiz ia qua ndo, come ac-
cade spesso, se ne dà un'int erpr etazione metafisica.
DJ parte nostra non occorre dare altri esempi per
il funzionamento del nostro criterio di significan-
za. Qui lo scofXl è semplicemente mostrare che la
filosofia come ramo autentico del sapere deve essere
distinta dalla metafisica. Quanto 'ii sia di cffcni va-
mente metafisica in ciò che nella tradizione si è pre-
sentato come filosofia, è u n problema storico che per
il momento non ci riguarda. Più avanti però mo-
streremo che la maggioranza dci " grandi filosofi"
del passato non furono essenzialmente mctafisici, e
cOSI rassicureremo coloro che per motivi di dcvozio-
Ile sarebbero altrimen ti trattenuti dall'adottare il no-
stro criterio.
23
gia né un'ipotesi emp m ca. E poiché tau tologie ed
ipotesi emp iriche esauriscono la classe delle proposi-
zioni significative, resta giustificata la conclusione
che tutte le asserzioni metafisiche sono nonsensi. Ora
dobbiamo mostrare come avviene che siano com-
piute.
L'uso del term ine " sostanza," al q uale abbiamo
già accennato, ci offre u n buon esempio del modo
in cui per la massima parte si viene a scrivere di me-
tafisica. Si dà il caso che nel nostro lingu aggio non
ci si può riferire alle proprietà sensibili d i u na cosa
senza introdur re qu alche parola o locuzione che ri-
sulti stare per la cosa stessa in quanto distinta da q U3.-
[unquc cosa se ne possa dire. Risultato ne è che
quanti restano affetti da lla superstizione primitiva
che a ogni nome debba corrispondere una singola
entità reale, assumono sia necessario d istinguere lo-
gicamente fra la cosa stessa e alcune delle sue pro-
prietà sensibili o tutte. E in qu esto modo impiega-
no il termi ne " sostanza" per riferirsi alla cosa stes-
sa. Ma da l fatto che noi ci si trovi a dover impiegare
una singola parola per riferirei a una cosa, c a fare
di quella parola il soggetto grammaticale degli
enunciati in cui ci riferiamo alle apparenze sensibili
della cosa, non segue affatto che la cosa stessa sia
u na " entità semplice" o che essa non si possa dcfi-
nire con la totalità delle sue apparenze. È ben vero
che parlando delle " sue " apparenze sembra che noi
si distingua la cosa dalle apparenze, ma q uesto è
semplicemente un caso fortuito dovuto all'uso lin-
guistico istituito. L'analisi logica mostra che quanto
fa Je11c " apparenze " lc " appare nze ( I·"
l una mcclc-
sima cosa non è una loro relazione con qu alche cri-
tit à diversa da esse stesse, ma la relazione in cu i si
trovano fra di loro. Il metafisico manca di vedere
q uesto fatto perché è sviato da una superficiale ca-
ratteristica gra mm aticale del suo lingu aggio.
Esempio anche più semplice e chiaro del modo in
cui un fatto grammaticale porta alla metafisica, è il
caso del concetto m etafisica di Essere. L'origine del-
la nostra inclinazione a porre intorno all'Essere do-
mande alle qu ali nessuna esperienza concepibile ci
metterebbe in grado di rispondere, è il fatto che nel
nostro lingu aggio gli enunciati esprimenti proposi-
zioni d'esistenza e gli enunciati espri menti proposi-
zioni attr ibutive possono avere la stessa forma gram-
maticale. Gli enunciati " I martiri esistono" e "I
martiri soffrono, " per esempio, consistono entrambi
di un sostantivo seguito da verbo intransitivo c il
fatto che abbiano lo stesso aspetto grammaticale con-
duce a suppor re che siano del medesimo tipo logico.
Nella proposizione " f martiri soffrono, " si vede che
ai membri di una certa specie viene ascritto un cct-
to attributo e a volte si suppone che la stessa cosa
sia vera per proposizioni come " l mar tiri esistono. "
Se fosse effettivamente COSI, speculare intorno all'Es-
sere dci martiri sarebbe altrettanto legittimo qu an-
to speculare intorn o alla loro sofferenza. Ma, come
ha indicato Kam," l'esistenza non è un attri buto.
Quando ascriviamo u n attributo a qualcosa, impli-
" Vedi Cn"ù:a dr/la R"gio" l'ura. u Di;>lc:tti COl tr~ $Ccn dcll lalc , ~ li.
b,,, Il . cap itolo III , ,"" zionc ~.
citamcntc affermiamo che il qualcosa esiste: cosic-
cné-se l'esistenza stessa fosse un attributo, tutte le
proposizioni di esistenza affermative sarebbero rau-
tclogic e tutte quelle negative sarebbero contraddit-
torie in sé, il che non è." Coloro du nque che intorno
all'E ssere pongono domand e basate sull'assunzione
che l'esistenza sia un attributo, hanno il torto di se-
guire la grammatica oltre i limiti del senso.
Un erro re consimile t: stato compiu to in rapporto
a proposizioni q uali " I liocorni sono irreali." Qu i,
da capo, il fatto che nella nostra lingua si dia un a
superficiale somiglianza grammaticale fra gli enun-
ciati "I cani sono fedeli" e " I liocorni sono irreali, "
c fra gli enunciati corrispondenti in altre lingue,
crea la supposizione che essi appartengano al mede-
simo tipo logico. Siccome i cani per avere 1:1 proprie-
t à di essere fedeli devono esistere, si ritiene che i lio-
corni non avrebbero 1:1 proprietà di essere irreali se
in qualche modo non esistessero. Ma essendo in sé
ovviamente contraddittorio affermare che esistono
oggetti irreali, si ricorre all'espediente di dire che
sono reali in u n certo senso non empirico: che han-
no una forma di realtà diversa da quella delle cose
esistenti. Ma poiché non è dato alcun modo di mct-
tcrc allaprovJ l'oggetto per stabilire se è reale in
q uest'ult imo senso, cOSI come iuvecec't:liil modo
per provare se è reale nel senso comune.d 'asserzione
che oggetti irreali hanno una forma speciale di rcal-
t;Ì t: priva d i og ni significanza letterale. ~ il risultate
" Quc' ta :,r;:o rl1 clltal' i"nc I.. l>cn ;1l11'" , (ata ùa JOIlN \ V1SDOM, l ,, ·
I crprCfalùm all d AlId'rsis, l'p. 62, 63.
26
dell'aver supposto che I l essere irreale " sia un attri-
buto. Siamo in presenza di una fallacia dello stesso
ordine di quella di supporre che r esistenza sia un
attributo, e la si può esporre nello stesso modo.
In generale, postulare entità reali ine sistenti deri-
va dalla superstizione, cui si accennava poc'anz i, che
a ogni parola o locuzione in grado di essere il sog-
getto gr amm aticale di un enu nciato debba necessa-
riamente corrispondere in q ualche luogo una enti-
tà reale. E siccome per molte di queste entità " nel Il
28
di opera scientifica sarà ben poco diminuito d31 far-
lo che tali proposizioni non siano espresse in forma
elegante. E parimenti l'opera d 'arte non peggiora
necessariamente per il solo fatto che tutt e le propo-
sizioni in essa comprese siano letteralm ente false.
Dire che molt e opere letterarie sono in larga misu-
ra composte di falsità, non equivale a dire che sono
composte di pscudo-proposizioni, In realtà per uno
scrittore è molto raro produrre enunciati dci tut to
privi di significato letterale. E qu ando ciò accade,
g li enunciati sono scelti con cur a per ragioni d i rit-
mo e di armonia. Se l'autore scrive q ualcosa senza
senso, è perché lo considera il mezzo pi ù adeguato
per ottenere qu egli effetti cui è destinato il suo scritto.
Il metafisica invece, da parte sua, non intend e
scrivere nonscnsi. Cade nel nonscnso perché re-
sta ingan nato dalla grammatica o commette erro-
ri di ragionamento come quello che conduce alla
concezione dell'irrealtà del mondo sensibile. Ma il
semplice compiere sbagli di questa sorta non è se-
gno d i poesia. Anzi, nel fatto che le espressioni
del metafisica mancano di senso, alcuni vedrebbero
piuttosto una ragione contro la prospettiva per cui
esse avrebbero valore estetico. E senza spingerei a
tan to, possiamo trnnq uillnmen tc affermare che ciò
comunque non costituisce una ragione a favore.
Resta vero che, sebbene la maggior parte della
metafisica consista semplicemente nel dare corpo e
figu ra a errori monotoni, resta un certo numero di
pagine mctafisichc che sono opera di autentico sen-
timento mistico; e queste è già più plausibile ritcnc-
"
re che abbiano valore morale o estetico. Ma la di-
stinzione fra il genere di metafisica prodotto dal fi-
losofo che cade vittima della grammatica e il gene-
re prodotto dal mistico che tenta di esprimere l'ine-
sprimibile, per quanto ci riguarda non ha molta im-
portanza : a noi importa renderei conto che le espres-
sioni del merafisicc intento a dispiegare le sue vi-
sioni, sono letteralmente prive di senso; cosicché da
q ui innanzi possiamo svolgere le nostre ricerche fi-
losofic he dedicando ad esse la stessa scarsa attenzio-
ne che prestiamo al genere di metafisica più inglo-
rioso, derivante solo dal fatto di non intendere le
operazioni del linguaggio.
30
Capitolo secondo
31
ma di Descartes. Cartesio, si dice comunemente, ten-
tava di derivare tutta la conoscenza umana da pre-
messe la verità delle qua li fosse certa per intuizione :
ma questa interpretazione accentua ind ebitamente
I'elemenro psicologico del sistema. lo credo egli si
rendesse conto abbastanza bene che, siccome gli uo-
mini non sono tutti egualmente creduli, il semplice
appello all'intui zione sarebbe stato insufficien te allo
scopo, e penso che quan to in realtà egli cercava era
la fondazione di tutta la nostra conoscenza su propo-
sizioni che sarebbe in sé contraddittorio negar e.
Pensò di aver trovato una proposizione siffarta nel
" cogito." che qui non tanto si deve int endere nel
senso solito di ..io penso," qu anto piuttosto come
dicesse" ora c'è pensiero." In realtà aveva tono, per-
ché " '1011 cogito " sarebbe in sé contradd ittoria solo
se negasse se stessa : cosa che nessuna proposizione
significativa può fare. Ma quand'anche la proposi-
zione " ora c'è pensiero" fosse davvero logicamente
certa, ancora non servirebbe allo scopo di Descartcs.
Se infatti .,cogito " si prende in questo senso, il prin-
cipio di panenza "cogito ergo sum" è falso. "lo esi-
sto" non discend e da "ora c'è pensiero." Se in un
dato istante ha luogo un pensiero, ciò non implica
che abbia avuto luogo q ualunque altro pensiero in
q ualunqu e altro istante, e tanto meno che abbia avu-
to luogo una serie di pensieri sufficiente a costituire
un singolo io. Nessun evento ne indica intrinseca-
mente un altro, come Hume ha mostrato in modo
conclusivo. L'esistenza di eventi che non stiamo os-
servando effettivamente, la deduciamo solo con l'aiu-
32
to di prin cipi generali. Ma questi principi si devo-
no ottenere per induzione. Da qu anto è imm ediata-
mente dato noi per semplice deduzione non possia-
mo avanza re un sol passo. E quindi qu alunque ten-
tativo di fondare un sistema deduttivo su proposi-
zioni descriventi l'imm ediatamente dato, è destina-
to a fallire.
La sola via ancora aperta a chi desiderasse dedur-
re tutta la nostra conoscenza da ..principi primi,"
senza dar si alla metafisica, sarebbe qu ella di pren-
dere qu ali premesse un insieme di verità a priori.
Ma, come abbiamo già ricordato e mostreremo più
avanti , la verità a priori è u na taurologia. E da un
insieme di tautologie, prese per se stesse, si possono
dedurr e in modo valido solo altre tautologic. Ma
sarebbe assu rdo mettere avanti un sistema di tauto-
logie come costituente tutt a la verità intorno all'uni-
verso. E dunque è lecito concluderne l'im possibilità
di dedurre tutta la nostra conoscenza da .. principi
primi" ; cosicché coloro che ritengono funzione del-
la filosofia compiere una deduzione siffatta, nega-
no l'aspirazione della filosofia stessa ad essere un
autentico ramo dci sapere.
Il credere che occupazione del filosofo sia quella
di and are alla ricerca di principi primi è legato alla
familiare concezione della filosofia quale studio del-
la realtà come intero. E questa concezione è di un
tipo difficile da criticare, perché è piuttosto vag-a.
Sup ponend o che implichi, come implica a volte, che
il filosofo in qualche modo si proietti fuori dci mon-
do per prcndcrne visione a volo d 'uccello, si tratte-
33
rebbe ovviamente di una concezione metafisica. E
altretta nto mctafisicc suona l'asserire, come fanno
alcuni, che la "realtà come intero " sia in qualche
modo di un genere diverso dalla realtà indagata
pezzo per pezzo dalle scienze speciali. Ma dove l'as-
serzione che la filosofia studia la realtà come intero
sia intesa cOSI da implicare soltanto che il filosofo si
occupa allo stesso modo del contenuto di ogni scien-
za, allora la possiamo accettare, certo non come de-
finizione adeguata della filosofia, ma come una ve-
rità sul suo conto. Quando infatti verremo a discu-
tere la relazione intercorrente fra filosofia e scienza,
troveremo che, in linea di principio, la filosofia non
si rapporta a nessuna scienza più strettamente che a
qualunque altra.
Dicendo che la filosofia si occupa di tutte le scien-
ze, nel modo che ind icheremo,' intendiamo anche
escludere la supposizione che la filosofia si possa al-
lineare accanto alle scienze esistenti come uno spe-
ciale dipartimento della conoscenza speculativa. C0-
loro che fanno questa supposizione, restano fedeli
all'opinione per cui nel mondo sussisterebbero cose
tali da essere possibili oggetti di conoscenza specu-
lativa e tuttavia trovarsi al di là del raggio d'azione
della scienza empirica. Ma q uesta è illusione. N on
sussiste alcun campo di esperienza che in linea di
principio non si possa portare sono qu alche forma
di legge scientifica, né alcun tipo di conoscenza spe-
culativa intorno al mondo che, in linea di principio,
I VeJi il c~pi!olo IcrZO ., il capitolo olUvo.
la scienza non sia in gra do di dare. Demolendo la
metafisica noi ci siamo già incammi nati sulla via da
tenere per dare evidenza a q uesta proposizione; e
alla sua piena giustificazione giungeremo nel corso
dell'opera .
Con ciò il rovesciamento della filosofia speculati-
va è completo e noi siamo ora in grado di vedere che
la fun zione della filosofia Ì; interamente critica. Ma
in che cosa più precisamente consiste la sua atti vità
critica?
Una prima risposta a tale domanda consiste nel
dire che sia comp ito del filosofo mettere alla prova
la validità delle nostre ipotesi scientifiche c delle no-
stre assunz ioni quotidiane. Ma qu esta prospetti-
va, benché ampiamente diffusa, è errata. La filoso-
fia non ha facoltà di rassicur are chi scelga di mer-
tcrc in dubbio la verità di tutte le proposizioni in cui
crede di solito. A parte il vedere se le credenze in
questione siano o non siano in sé coeren ti, al più la
filosofia potrà mostrare qu ali sono i criteri che si
usano per determ inare la verità o falsità di una qua l-
siasi proposizione data: e quando lo scenico sud-
detto si rende conto che certe osservazioni verifiche-
rebbero le sue proposizioni, gli è lecito anche ren-
dersi conto che egli stesso potrebbe fare quelle os-
servazioni e perciò ritenere giustificate le proprie
credenze originarie. Ma allora non è da dire che sia
la filosofia a giustificare le sue credenze. La filoso-
fia gli mostra soltanto che l'esperienza può giustifi-
carlc. Per la verità di una qualsiasi data proposizio-
ne empir ica, noi possiamo chiedere al filosofo di
35
mostrerei ciò che crediamo ne costituisca evidenza
~~ffi"èientZMa che l'evidenza sia o non sia a nostra
-disPosizIone è in ogni caso una questione esclusi.
"vamente empirica.
Se q ualche lettore pensa che qu i si vengano am-
mettendo troppe cose senza prova, si rivolga al ca-
pitolo " Verità e probabilità," dove dibattiamo il
problema del come si determini la validità di pro--
posizioni sintetiche. Allora vedrà che il solo tipo di
giustificazione necessario o possibile per proposizio-
ni empiriche in sé coerenti è la verificazione empiri-
ca. E questo si applica tanto alle leggi scientifiche
q uanto alle massime dci senso comune. Fra loro, anzi,
non sussiste alcuna differenza di genere. La superio--
rità dell'ipotesi scientifica sta semplicemente nel suo
essere più astratta, più precisa e più fecond a. Ben-
ché oggetti scientific i come gli atomi e gli elettro-
ni sembrino fittizi in un modo in cui le sedie e i ta-
voli non lo sono, tutt avia anche qui la distinzione è
soltanto una distinzione di grado. Infatti gli oggetti
dell'uno e dell'altro tipo sono tutti parimenti cono-
sciuti solo attraverso le loro manifestazioni sensibili
e si definiscono nei termini di qu este.
i:: dunque tempo di abbandonare la superstizione
per cui in sede logica la scienza naturale non si po-
trebbe considerare deg na di rispetto finché i filosofi
non abbiano risolto il problema dell'induzione. Il
problema dell'induzione è, press'a poco, quello di
scoprire un modo per provare che certe generalizza.
zioni empiriche derivate dall'esperienza passata re-
steranno buone anche per il futuro. Supponendo
36
che si tratti di un problema autentico, vi sono solo
due modi di affrontarlo ed è facile vedere che nes-
suno dci due può cond urre a soluzione. Si può ten-
rare di dedurre la proposizione di cui si richiede la
prova, o <h un principio puramente formale o da un
principio empirico. Nel primo C:lSO si commette l'er-
rare di supporre che da una tautologia sia possibile
ded urre una proposizione intorn o a da ti di fatto:
nel secondo C:lSO semplicemente si assume quello
che ci si accinge a provar e. Spesso si dice, per esem-
pio, che possiamo giustificare l'induzione invocan-
do l'u niformi tà della natura o postulando un "prin-
cipio di variazione indipendente limitata. '" Ma in
realtà il principio dell'uni formità della natura non
fa altro che affermare, in maniera sviante, prop rio
l' assunzione che l'esperienza passata sia u na guida
degna di fiducia per l'avvenire ; mentre il principio
di variazione indipendente limitata la presuppone.
Ed è ovvio che qualunque altro principio empirico
messo avanti per giustificare l'induzione, portereb-
be a ripetere la stessa dom:lnda allo stesso modo sul
proprio conto. Infatti le sole ragioni di principio di.
sponibili per dar e l'assenso a un principio simile sa-
rebbero da capo ragioni induttive.
Risulta da ciò l'impossibilità di risolvere il pro-
blema dell'i nduzione cOSI come lo si concepisce co-
mun emente. E ciò significa che si tratta di un pro-
blema fittiz io, poiché tutti i problemi autentici sono
almeno in sede teorica suscettibili di soluzione : né
37
il credito della scienza nat urale è scemato dal fatto
che un problema simile resti il rompicapo d i alcuni
filosofi. Di fatto vedremo che la sola prova cui è sog-
getta una forma di procedimento scientifico soddi-
sfacente la necessaria condizione della coerenza in.
tema, è la prova del suo successo prati co. Noi ab-
biamo il diritto di aver fede nel nostro proced imc n-
to fin tanto che esso compie il lavoro per cui è desi-
gnato, cioè fin tanto che ci mette in grado di pre-
dire l'esperienza futura e controllare cOSI il nostro
ambiente. Che una certa forma di procedimento si-
nora abbia semp re avuto successo pratico, è un fatto
che naturalmente non offre nessuna garanzia logica
per cui debba sempre essere cosi, Ma allora è un er-
rore pretendere garanzie dove è logicamente impos-
sibile attenerne, Ciò comu nque non significa che sia
irr azionale aspettarsi dall'esperienza futura la con-
formi tà al passato. Qua ndo infatti verremo a defi-
nire il term ine" razionalità, " troveremo che per noi
..essere razionali" comporta l'essere guidati dall'e-
sperienza passata in una particolare maniera.
Definire b. razionalità è precisamente la sorta di
compito che spetta alla filosofia assolvere. Ma con
q uesto la filosofia non giustifica il procedimento
scientifico. Ciò che giustifica il procedimento scien-
tifico, nella misura in cui questo può mai essere
giustificato, è l'avverarsi delle predizioni che ne sca-
turiscono : e ciò si può stabilire soltanto nell'espe-
rienza effettiva. L'analisi di un prin cipio sintetico
per se stessa non ci dice assolutamente nulla intorno
alla sua ver ità.
Pu rtroppo questo fatto viene generalmente trascu-
rata dai filosofi che si occupano della cosiddetta
teoria della conoscenza. Perciò accade cosi di fre-
quente che qu anti scrivono intorno alla percezione
assumano sia legittimo credere nella esistenza di co-
se materiali solo a condizione che sia possibile dare
u n'analisi esauriente di situazioni di percezione. Ma
questo è tutto un errore. Quello che ci dà il diritto
d i credere nell'esistenza d i una cena cesa materiale
è semplicemente il fatto di avere certe sensazioni :
dire che la cosa esiste, sia che ce ne rendiamo sia
che non ce ne rend iamo COIllO, equ ivale a dire che
si possono avere quelle tali sensazioni. Dare la dc.
finizione corretta delle cose materiali in termini di
sensazioni è compito che ben si addice al filosofo.
Ma che egli riesca o non riesca ad assolverlo è cosa
che non ha la benché minim a portata sulla validità
dei nostri giudizi di percezione. Q uesta dipende pl'r
intero dalla. esperienza sensibile effettiva.
Ne consegue che il filosofo non ha alcun diritto
di disprezzare le credenze del senso comu ne. Se le
disprezza, dimostra semplicemente d i ignorare il ve-
ro scopo delle proprie ricerche. Ciò che egli è auto-
rizzato a disprezzare è l'analisi irriflessa d i tali cre-
denze, che prende la struttu ra gra mmaticale dell'e-
nu nciato come sicura guida al suo significato. Cosi
molti degli errori compiuti a proposito del proble-
ma della percezione si possono spiegare osservando,
come già abbiamo fatto in rapporto alla nozione
metafisica di " sostanza," che nelle comuni lingue
europee si dà il caso sia impossibile menzionare una
cosa senza aver l'aria di distinguerla genericamente
dalle sue qualità e condizioni. Ma dal fatto che l'a-
nalisi della proposizione condotta sulla base del sen-
so comune sia errata, non segue per nulla che la
proposizione sia falsa. Il filosofo sarà forse capace di
mostrarci che le proposizioni alle quali crediamo so-
no molto più complesse di quanto supponiamo; ma
non ne viene che noi non si abbia diritto di cre-
dere ad esse.
Ora dovrebbe essere sufficie ntemente chiaro che,
se il filosofo vuole sostenere la propria pretesa di ar-
recare un contributo speciale al repertorio del nostre)
sapere, non deve sforzarsi di formulare verità spe-
culative, né andare alla ricerca di prin cipi primi, né
compiere giudizi a priori intorno alla validità delle
nostre credenze empiriche. In realtà deve limitarsi
a lavori di chiarificazione e d'analisi del tipo che de-
scriveremo fra breve.
Dicendo che nella sua essenza l'attività filosofica
è analitica, naturalm ente non sosteniamo che tutti
quelli che comunemente vengono chiamati filosofi,
di fatto si siano impegnati in lavori di analisi. AI
contrario, è stata nostra cura mostrare che gran par~
te di quamo comunemente si chiama filosofia, è di
carattere metafisico. Nell'indagine sulla funzione
della 610s06a andavamo in cerca di una definizione
della filosofia che si accordasse in qualche misura
con la pratica di quanti vengono comunemente chia-
mati f ilosofi e fosse nello stesso tempo compatibile
con la comune suppos.izione che la filosofia si:'! un
ramo speciale del sapere. Appu nto perché la meta-
fisica non soddisfa qu esta seconda condizione, noi
la di stinguiamo dalla filosofia, non astante il fatto
che la m etafisica com unemente sia considera ta filo-
sofia. E la nostra distinzione si giustifica perché è
resa necessaria dal nostro originario postulato che la
filosofia sia un ramo speciale del sapere, e insiem e
dalla nostra di mostrazione che la metafisica non lo è.
Bench é logicamente inoppugnabilc, qu esto proce-
dimento verrà forse attaccato sul terreno della con-
venienza. Si dirà che la " storia della filosofia" è,
qu asi per intero, storia della m etafisica ; e per conse-
guenza che, pur essendo immune da effettivo vizio
logico, il nostro uso della paro la " filosofia " nel sen-
so in cui la filosofia risulta incom patibile con la
m etafisica, trae pericolosament e in inganno. Tutt a
la nostra cura n el definire il term ine, infatti, non
impedi rà alla gen te di confond ere le attività che di-
ciamo filosofiche con le att ività metafisiche di quelli
che alla gente si è insegn ato a considera re filosofi.
E perta nto, si conclude rà, sarebbe sicuramente pi ù
consig liabile rinu nciare del tutto al termi ne "filoso-
fia," qu ale nome per un ramo ben distinto del sa-
pere, e ricorrere a qualche nuova den om inazione per
l'att ività che intendevam o chiamare filosofica.
A ciò rispondi amo : non è vero che la " storia della
filosofia" sia qu asi per intero storia della metafisica.
Che contenga della metafis ica è innegabile. Ma la
m aggioran za di quan ti com unemente si suppone
siano stati gra nd i filosofi penso si lXlssa mostrare che
innanzitutto non eran o mctafisi ci m a ana listi.
Chi unque segua la spiegazione che daremo della
il
natur a dell'analisi filosofica e poi ritorni, per esem-
pio, al Saggio sull'intelletto limano di Locke, non
vedo come possa esimersi dal concludere che quella
è essenzialmente un'opera analitica. Locke gene-
ralmente è ritenuto un pensatore che, come G. E.
Moore ai giorni nostri, propone una filosofia del
senso comune.' Ma egli non cerca, più di quanto
cerchi lo stesso Moore, di dare una giustificazione
a priori alle credenze del senso comune. Piuttosto
ha l'aria di aver veduto che, in qualità di filosofo,
non era affar suo affermare o negare la validità di
proposizioni empiriche, quali si fossero, ma soltanto
analizzarle. T ant'è che si ritiene soddisfatto, per dir-
la con parole sue, "di impiegarsi come un manova-
le alla pulizia del terreno donde rimuovere un po'
della sporcizia che grava sulla via del conoscere "; e
si dedica COSt ai compiti puramente analitici del de-
finire la conoscenza, classificare proposizioni, dispie-
gare la natura delle cose materiali. E quella piccola
porzione della sua opera che nel nostro senso non
è filosofica, non diserta la filosofia per la metafisica,
ma per la psicologia.
Neppure è giusto considerare un metafisico Ber-
keley. Di fatto egli non negava la realtà delle cose
materiali, come ancora si racconta troppo spesso.
Negava che l'analisi lockiana della nozione di cosa
materiale fosse adeguata. Dire che varie "idee di
sensazione" appartengono alla singola cosa mate-
riale, a suo avviso non equivaleva a dire che queste
, V~di G. E. MOOIl E, d D~/r n<c of COII/ mon SenI(, in CO,.UII/-
po~tlTy 8~ÌliJh l' hitoJoi'hy, voI. Il .
42
idee si riferiscono a un singolo inosservabile ..qual.
cosa" scttostan te, come pensava Locke, ma piutto-
sto che stanno fra loro in certe relazioni. E in ciò
vedeva giusto. Da parte sua, come generalmente si
ammette, fece l'errore di supporre che quant o è irn-
mediaramente dato nella sensazione, debba essere
necessariamente mentale ; e l'u so, suo e di Locke,
della parola " idea " per denota re u n elemento in ciò
che è dato sensibilmente, apre il fianco a obiezioni
appu nto perché suggerisce questo falso mod o di ve-
dere. Pertanto noi sostituiamo la parola" idea" con
la parola neutra "contenuto sensoriale," che usere-
ma per riferirei ai dat i immediati della sensazione
non solo " estern a" ma anche "i ntrospettiva," c ri-
conosciamo a Berkeley semp licemente il merito di
aver scoperto che le cose materiali si devono poter
definire attraverso i contenuti sensoriali. Qua ndo
infine giu ngeremo a comporre il conflitto fra idea-
lismo e realismo, vedremo che il suo effettivo modo
di concepire la relazione intercorre nte fra cose ma-
teriali e contenuti scnsoriali non era del tutto ac-
curato. Ciò lo condusse ad alcune conclusioni noto-
riamente paradossali, che un lieve emendamento ci
metterà in gra do di evitare. Ma il fano che egli non
sia riuscito a darci una spiegazione completamente
giusta dci come le cose materiali risultano da conte-
nuti sensoriali, non invalida la sua tesi che le cose
materiali siano cosi costitu ite. Al contrario, sappia-
ma che deve essere possibile definire le cose mate-
riali in term ini di contenuti sensoriali, perché solo
nell'effenivo aver luogo di certi contenuti sensoria-
li si può verificare all'ultimo grado l'esistenza di u na
qualunqu e cosa materiale. E COS I ci accorgiamo di
dover ricercare non tanto se sia giusta una "teoria
della percezione" fenomenistica invece di qualche
altra specie di teoria, ma solo quale forma di teoria
fencm enistica sia quella giusta. Se infatti tutte le
teorie causali e rappresentative della percezione trar-
tana le cose materiali come se fossero entità inosser-
vabili, da u n fatto simile noi siamo già autorizzati,
come vide Berkeley, a escluderle a priori. Sfortu na
vuole che, nonostante qu esto, egli trovasse necessa-
rio postulare Dio quale causa inosservabile delle no-
stre " idee " j e infine gli si deve anche imputare di
non aver veduto che la stessa argoment azione da
lui impiegata per d isfarsi dell'analisi lockiana della
cosa materiale distrugge anche la sua propria con-
cezione della natur a dell'io, cosa che H ume afferrò
subito con efficacia.
Di H ume possiamo dire non solo che nella prati.
ca non era un metafisica, ma che ripudiò esplicita.
mente la metafisica. La conferma pi ù stringente di
questo fatto la troviamo nella conclusione della SU :l
Ricerca sull'intelletto umano. "Prendendo in mano
un qu alsiasi volume," egli dice " per esempio di teo-
logia o di metafisica scolastica, chiediamoci: contie-
ne ragionamenti astratti sulla quan tit à o sul nume-
co ? No. Contiene ragionamenti sperimentali su dati
di fatto ed esistenze? No. Lo si d ia allora alle fiam-
me, poiché non può contenere altro che sofistiche-
ria e illusione." Non è qu esta una versione retorica
della nostra tesi per cui l'enu nciato non esprimente
né una propOSJZlone formalmente vera né un'ipote-
si empirica è privo di significanza letterale? È ben
vero che H umc, pcr qu anto io sappia, non avanza
effettivamen te nessuna prospettiva intorno alla na-
tura delle proposizioni filosofiche, ma quelle fra le
sue opere che comunemen te si ritengono filosofiche,
a parte certi passi relativi a problemi di psicologia,
sono lavori d'ana lisi. Se ciò non è u niversalmente
concesso, è perché la trattazione della causalità, prin-
cipale tra tto caratteristico della sua attività filosofi-
ca, spesso viene interpretata male. Gli è stata mossa
l'accusa di aver negato la causalità, laddove a lui in
realtà interessava solo di definirla. Era tanto lonta-
no dall'asserire la falsità di tutte le pro posizioni cau-
sali, che egli stesso si preoccupava di dare regole
per giudicare dell'esistenza di cause ed effetti.' Si
rendeva conto abbastanza bene che 1J q uestione se
una data proposizione causale sia vera o falsa non è
di qu elle che si possano appura re a priori, e pertan·
10 si lim itava a discutere la doma nda analitica: che
cosa asseriamo dicendo che un evento è causalmen-
te connesso con un altro ? E nel rispondere a que-
sta domanda mostrò, a mio parere in modo conclu-
sivo, che in primo luogo la relazione di causa ed
effetto non è di carattere logico, poiché una qual-
siasi proposizione afferma nte un nesso causale si po-
trebbe negare senza intern a contraddizione ; che, in
secondo luogo, le leggi causali non derivano dall'e-
spcricnza per via d'analisi, poiché non sono dedu-
• Vali Tratlllto mlfll T1alll'" ""'""<l, libro I, parte Ill , sezione 15.
cibili da un numero finito di proposizioni sperimen-
tali; che, in terzo luogo, è errato analizzare propo-
sizioni affermant i nessi causali come se si tratt asse
di una relazione necessitante fra eventi particolari,
poiché non si possono concepire osservazioni che in-
clinino menomarncnte a stabilire l'esistenza di una
relazione siffatta. In qu esto modo egli tenne aperta
la via per la prospettiva da noi adottata, per cui l'as-
serzione di un particolare nesso causale implica sem-
pre qu ella di una legge causale, e ogni proposizio-
ne generale delia forma " C è causa di E" equivale
alla proposizione della forma " ogni volta che C,
allora E," dove il simbolo " ogni volta che" non si
deve intendere riferito a un numero finito di effetti-
vi casi di C, ma al num ero infinito dei casi possibi-
li. Egli da parte sua definisce la causa come "un og-
getto seguito da un altro, e quando tutti gli oggetti
simili al primo sono seguiti da oggetti simili al se-
condo " o, in alternativa, come " un oggetto segui-
to da un altro e le cui sembianze portano il pensiero
su qucll'alrro '" ; ma nessuna delle due definizioni è
accettabile cOSI come sta. Anche se è vero che, se-
condo i nostri principi di razionalità, non avremmo
nessuna buona ragione di credere che l'evento C sia
la causa dell'evento E se non quan do avessimo osser-
vato una costante congiunzione di eventi simili a
C con eventi simili a E, non c'è ancora contraddi-
zione nell'asserire la proposizione " C è la causa di
E " e nello stesso tempo negare che siano mai stati
Riu rca s..Il';ntdlNIO ,,,,,,mo, sezione 7.
osservati eventi simili a C o a E ; e ciò sarebbe in
sé contraddittorio se la prima delle definizioni cita-
te fosse giusta. Neppure è inconcepibile, come im-
plica invece la seconda definizione, che vi possano
essere leggi causali a cui non si sia ancora pensato.
Ma, benché queste ragioni ci obblighino a rifiutare
le definizioni di causa effettivamente date da Hu-
me, il nostro modo di vedere la natura della causa-
lità resta sostanzialmente il suo. I noltre siamo d'ac-
cordo con lui nel ritenere che per il ragionam ento
induttivo non si possa dare altra giustificazione che
il successo prat ico e insistiamo anche più di lui sul
fatto che non se ne richiede nessuna giustificazio-
ne migliore. Dall'aver egli mancato di chiarire que-
sto secondo puma, infatti, viene alle sue teorie quel-
l'aria di paradosso che ha frutt ato ad esse tante sva-
lutazioni c interpretazioni err ate.
Se poi teniamo presente come Hobbes e Bentham
si occupassero soprattutto di dare definizioni, e co-
me il meglio dell'opera di John Stuart Mill stia
nello sviluppo dato alle analisi compiute da Hu-
me, possiamo ben affermare che, definendo essen-
zialmente analitica l'attività filosofica, adottiamo un
punto di vista sempre vivo nell'empirismo inglese.
No n vogliamo dire che la pratica dell'analisi filo-
sofica si sia limitata ai membri di questa scuola. Ma
a costoro ci unisce la più .strctta affinità storica.
Se mi astengo da un dettagliato dibattito di sif-
fatte qu estioni e non faccio nessun tentativo d i for-
nire un elenco comp leto di tutt i i "grandi filoso fi "
la cui attività risulta prevalentemente analitica -
elenco che certamente includ erebbe Platone, Ari-
stotele e Kant - è perché il rilievo che un simile
dibattito può avere nella nostra ricerca è di secon-
daria importanza. Abbiamo dichiarato che buona
parte della "fi losofia tradizionale" secondo i nostri
criteri è autentica filosofia, per difenderci dall'accu-
sa per cui il nostro mantenimento della parola "fi-
losofia" trarrebbe in inganno. Ma qu and'anche pro-
prio nessuno di quanti sono comunemente chiama-
ti filosofi si fosse mai impegnato in ciò che noi chia-
miamo attività filosofica, non ne seguirebbe, dati i
nostri posrulati iniziali, che la nostra definizione del-
la filosofia sia erronea. Possiamo ammettere che se
manteniamo la parola "fi losofia," ciò dipenda cau-
salmente dalle nostre credenze sopra esposte in ma-
teria di storia. Ma la validità delle proposizioni che
esprimono queste nostre credenze non ha alcuna
portata logica sulla validità della nostra definizione
della filosofia, né su quella della distinzione fra filo-
sofia nel nostro senso e metafisica.
La filosofia come noi la intendiamo è del tutto
indipendente dalla metafisica: è consigliabile porre
un accento particolare su questo punto perché comu-
nemente i critici del metodo analitico suppongono
abbia un fondamento mcrafisico. Sviati dalle asso-
ciazioni della parola " analisi," costoro assumono che
l'analisi filosofica sia attiyità di dissezione; che con-
sista nel "disintegrare" degli oggetti nelle loro parti
costituenti, finché l'intere universo non risulti da
ultimo un aggregato di " nude particolarità " unite
da relazioni estrinseche. Se fosse davvero cosi. l'at-
48
tacco più efficace che si pot rebbe sferr are contro il
metodo sarebbe la dimostrazione che il suo presup-
posto fondamentale è un nonsenso. I nfatti dire che
l'universo è un aggregato di nud e particolarità sa-
rebbe altrettanto privo di senso quanto dire che è
Fuoco o Acqua o Esperienza. Ovviamente nessuna
osservazione possibile metterebbe in grado di veri.
ficare tale asserzion e. Ma, per quel che ne so, qu e.
sta linea d'attacco in realtà non è mai stata adott ata.
I critici si accontentano di ind icare che, degli og-
getti composti del mondo, pochi, se pur ve ne sono,
constano della semplice somma delle loro parti. In
genere i composti presentano una struttura, un 'u ni-
tà organica che li differenzia, com e interi veri e
propri, dai semplici aggregat i. Ma, dicono, la sua
metafisica atomistica costringe l'analista a conside-
rare l'oggetto che consta delle parti a, b, c e d in
u na configurazione distintiva come se fosse sem pli-
cemente la somma a + b + c + d e in tal modo egli
dà una spiegazione int eramen te falsa della natu ra
dell'oggetto.
Seguendo gli psicologi della Gestalt, cioè coloro
che pi ù ferm amente parlano di interi veri e propri
e li definiscono come qu elli in cui le proprietà di
ogni parte dipendon o in qualche misura dalla sua
posizione nell'intero stesso. noi possiamo accertare
come un fano empirico l'esistenza di int eri autenti-
ci o organici. E se il metodo analitico comport asse
la negazione di questo fatto. si tratterebbe davvero
di un metodo difettoso. Ma la validità del metodo
analitico non dipende da alcun presupposto empi-
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ne invece di una verità necessaria.
Altro buon esempio di proposizione solo linguisti-
camente necessaria, e che invece sembra la registra-
zione di fatti empirici, è la proposizione " Le relazio-
ni sono degli universali e non fatti particolari." Sup-
ponendo che questa proposizione sia dello stesso or-
dine di " Gli arm eni sono cristiani e non maometta-
ni," si sbaglierebbe, poiché, mentr e la seconda pro-
posizione è un'ipotesi empirica sulle pratiche religio-
se di un certo gruppo etnico, la prima non è affatto
una proposizione su Il cose," ma semplicemente su
" parole." Registra il fatto che i simboli di relazione
appart engono per definizione alla classe dei simboli
per caratteri e non a quella dei simboli per cose.
L'asserzione che le relazioni sono degli universali
provoca la domanda "Che cos'è l'universale ?"; e
questa non è, come per tradizione viene considerata,
una domanda intorno al carattere di certi oggetti rea-
li, ma la richiesta di definizione di un certo termine.
La filosofia, si è scritto, è piena di domande come
questa, che sembrano fattuali e non lo sono. Chie-
dere, per esempio, quale sia la natura dell'oggetto
materiale, equivale a chiedere la definizione di Il og·
getto materiale," e ciò equivale a chiedere - lo ve-
dremo fra poco - come le proposizioni su oggetti
materiali si possano tradurre in proposizioni su con-
tenuti sensoriali. Parimenti, chiedere che cosa sia il
num ero significa fare qualche domanda del genere
di quella se è possibile tradurre proposizioni intorno
a num eri natura li in proposizioni intorno a classi.'
• Cfr. RUOOLF CARSAP, Logisch~ S)'nlax J(f Sp~~dl(, put<: q uie-
U , 798, <: 84.
E lo stesso vale per tutte le altre domande filosofiche
della forma ..Che cosa è x ?" o "Qual è la natu ra
di x ?" Sono tutte richieste di altrettante definizioni
c, come vedremo, di definizioni di una sorta parti-
colare.
Scrivere intorno a problemi linguistici in linguag-
gio " fattuale," benché ingannevole, sviante, spesso
conviene per brevità. Neppure noi lo potremo evi-
tare sempre. Ma l'im portante è che nessuno si lasci
ingannar e da questo modo di scrivere fino al punto
di supporre che il filosofo sia impegnato in indagini
empiriche o metafisiche. Di lui, qu ando non è neces-
sario parlare a stretto rigore, si può dire che analizza
b u i, o nozioni, o persino cose. Ma dobbiamo chia-
rire subito che qu esti sono soltanto alcuni modi per
dire che il suo interesse è rivolto alla definizione
delle parole corrispondenti.
53
Capitolo terzo
ss
finiamo il simbolo fIdI' uso non quando lo diciamo
sinonimo di qua lche altro simbolo, m a quando mo-
striamo come gli enunciati dove figura in modo si-
gn ificativo possono tradursi in enunciati che non con-
tengono né il definiendum né alcuno dci suoi sino-
nimi. Questo procedimento trova una buona esem-
plificazione nella teoria di Bertrand Russell cosiddet-
ta delle descrizioni determinate, che nel senso comu-
ne del termine non è affatto una teoria, ma l'indica-
zione del come definire tutte le locuzioni della for-
ma "la cosa cosi e cosi. ,.. La teoria dichiara che ogni
enunciato contenente una espressione simbolica di
qu esta forma si può tradurre in un enunciato che
non contiene nessuna espressione siffatta, ma contie-
ne soltanto il sotto-enunciato asserente che un og.
getto e uno solo possiede quella certa proprietà, o al-
trimenti che nessun oggetto possiede quella certa pro-
prietà. Per esempio, l'enunciato" Il quadrato rotondo
non può esistere " equivale a "Nessuna cosa può es-
sere insieme quadrata e rotonda" ; e l'enunciato
"L'autore del TVal'u /ey era scozzese" equivale a
, Vedi Prit,ripia Malh~malic", Inu oo.l uz inn", upitolo lerzo U ",.i"·
cipl dd /" mal~matica, tr~duzione iu li;m~ a eura di L. Germ onat,
Milano, Longane,i, Introd uzione alla "'oond" edizione, pp. H · 15J, e
l t1lrodllclion lo .\1"I;'~maric"l Philo$ophy, capitolo XVI Unlr"d .. :iotl~
al/a filolofia m at~mlJtic(J, trad uzione italuna di L. Pavclini, Milano,
Longanesi, pp. 216 so;:g.1
• Questa fra>.: d i ,"pore proverbiale ha u na stnria ,,,,. nota ai
lettori ,li Wa\ter Sw!t . Il quale pubhlicò anonimo il "'O primo ro·
man7.0, WIJ"" "'y ( 1814); anonimi. come "dell'autore d i W",,"/~y, ~
furun" pubblicati ( 1814·1825) anche i ...guen ti trenlun romanzi " rac-
conti che, cui WIJ/·~r/~y , Vanno solto il tilolo oompl=ivo ,li WIJ/.'cr"'y
N Ol/d s; l'identil~ ,ldl"oramai famosissimo "Grande Scon"sciUlo~ fu
rivelata ndl·introdu7.ione alla prim a ..,de delle ChrOrlicics 01 tll( Ca·
nongau (1825). LV.d.TJ
56
"Un individuo e uno solo ha scritto il Waver/ey e
quell' individuo era scozzese.". Il primo dei due esem-
pi illustra in modo tipico come si può eliminare u na
qualunque determi nata locuzione descrittiva figuran-
te da soggetto in u n enunciato di esistenza negati vo;
il secondo illustra in modo tipico come si può elimi-
nare una qu alunque determinata locuzione descrit-
tiva figura nte in qualsivoglia ruolo in qualunque al-
tro tipo di enunciato. Perciò, presi insieme, i due
esemp i ci mostrano come dire ciò che è espresso da
enunciati contenenti determi nate locuzioni descrit-
tive, senza impiegarne nessuna. E COSI ci forn iscono
la definizione d'u so di queste locuzioni.
Come ogni buona definizione, c OSI anche il defi-
nire locuzioni descrittive ha per effetto u n aumento
della nostra comprensione di certi enunciati. Si trat-
ta di un vantaggio che l'autore di questo tipo di de-
finizione non arreca solo agli altri, ma anche a se
stesso. Si potrebbe obiettare che egli deve aver già
comp reso gli enunciati per essere in g rado di definire
i simboli che vi figur ano. Ma per questa comprensio-
ne iniziale non si richiede altro che la capacità di
di re, in pratica, quali situazioni verificano le prcpc-
sizioni espresse dagli enunciati. E una siffatta com-
pr ensione di enunciati contenenti determi nate locu-
zioni descrittive la possono avere persino coloro che
credono all'esistenza di entità qu ali il q uadrato ro-
tondo o l'attuale re di Francia. Ma il fatto che essi
ancora sostenga no tesi simili sta a dimostrare che la
57
loro comprensione degli enunciati relativi è imper-
fetta. Il loro slittamenro nella metafisica è infatti la
conseguenza dell'aver ingenuamente supposto che
determinate locuzioni descrittive siano simboli di-
mostrativi. Con la definizione di Russell invece inten-
diamo l'enunciato più chiaramente e alla luce di que-
sta comprensione migliore ci accorgiamo che la lo--
ro supposizione è falsa. Neppure si sarebbe potuto
raggiungere lo stesso risultato con definizioni espli-
cite di locuzioni descrittive. Degli enunciati conte-
nenti tali locuzioni qui si richiedeva una traduzione
che rivelasse ciò che si può chiamare la loro comples-
sità logica. In generale possiamo dire che lo scopo
della definizione filosofica è quello di dissipare le
confusioni insorgenti dalla nostra imperfetta com-
prensione di certi tipi di enunciato del nostro lin-
guaggio, proprio là dove con semplici sinonimi non
si riesce a soddisfare il bisogno di chiarezza, o per-
ché non vi sono sinonimi o altrimenti perché i sino--
nimi disponiblii sono altrettanto poco chiari quanto
il simbolo cui è dovuta la confusione.
La completa chiarificazione filosofica di un lin-
guaggio consisterebbe, in primo luogo, nell'enume-
rare i tipi di enunciato aventi significato in quel lin-
guaggio, e poi nel dispiegare le relazioni di equiva-
lenza intercorrenti fra gli enunciati dci vari tipi. E
qui può esser opportuno spiegare che due enunciati
si dicono dello stesso tipo quando si possono correla-
re in maniera tale da far corrispondere a ciascun sim-
bolo dell'uno un simbolo dello stesso tipo nell'altro ;
e che due simboli si dicono dello stesso tipo quando
"
riesce sempre possibile sostit uire l'uno all'altro scn-
za mu tare un enunciato significativo in un nonscn-
so. Un siffatto sistema di definizioni d'uso rivelcrcb-
re allora quella che si può chiamar e la struttura del
linguaggio in qu estione. E cosi possiamo considerare
una qualunq ue particolare " teoria" filosofica (quale
la " teoria delle descrizioni determinate" di Russe1l)
come la rivelazione di q ualche par te della struttura
di un dato linguaggio. Nel caso di Russcll il linguag-
gio è la lingua inglese quotidiana, e insieme qu alun-
q ue altra lingua abbia, come il francese o il tedesco,
la stessa struttura dell'inglese.' Infine, nel present e
contesto, non è necessario distinguere fra lingua pa r~
lata e lingua scritta. Nella misura in cui è in gioco
la validità della definizione filosofica, non im porta
che il simbolo definito si consideri costituito da se-
gni visibili o da suoni.
Un fattore che complica la stru ttura di una lingua
come l'inglese (o l'italiana) è la prevalenza di sim-
boli ambigui. Il simbolo si dice ambiguo quando è
costituito da seg ni che nella loro forma sensibile non
sono solo identici l'uno all'altro, ma anche identici
a segni che risultano element i di qu alche altro sim-
bolo. Poiché ciò che fa di due segni gli clementi del
sempre medesimo simbolo non è la sola identità di
forma, ma anche l'identità dell'uso. Se ci guidasse
soltanto la forma del segno, dovremmo assumere,
per esempio, che il simbolo " è." figurante ncll'cnun-
, Ci,> non "3 iot<·'o come «: im l>l i'~ "e che tutti coluro , h" p~r
lano l'in/:I" ,,,, impic/:hino di b u o un 501 0 e l'r"ci.o . i'teIll3 d i .tm .
boli. Ved i pp. ì2 ·73.
ss
dato" Egli è l'autore di quel libro," sia il medesimo
simbolo "è" figurante nell'enunciato "Il gatto è un
mammifero." Ma quando traduciamo i due enun-
ciati, scopriamo che il primo equivale a " Egli e nes-
sun altro scrisse quel libro," mentre il secondo equi-
vale a ..La classe dei mammiferi contiene q uella dei
gatti." E ciò dimostra che, in questo caso, ciascuno
dei due " è" è un simbolo ambiguo da non confon-
dere con l'altro, né con i simboli ambigui di esisten-
za, appartenenza alla stessa classe, identità e implica-
zione, che pure sono costituiti da segni della fcr-
ma " e., "
Dire che il simbolo è costituito da segni sempre
identici l'uno all'altro nella loro forma sensibile e
nella loro significanza, e dire che il segno è un con-
tenuto sensoriale, o una serie di contenuti sensoriali,
che si usa per t rasmettere significato letterale, non
equivale a dire che i l simbolo sia una collezione, o
un sistema, di contenuti sensoriali. Quando infatti
parliamo di certi oggetti b, c, d... quali elementi del-
l'oggetto c, e di e quale oggetto costituito da b, c, d...
non diciamo che i primi formano parti di c nel sen-
so in cui il braccio ~ parte del corpo o un determina-
to insieme di libri in quello scaffale è parte della
mia biblioteca. Diciamo soltanto che tutti gli enun-
ciati dove figura il simbolo e si possono tradurre in
enunciati che non contengono né e né alcun simbolo
sinonimo di c, ma i simboli b, c, d... E in generale,
possiamo spiegare la natura delle costruzioni logi-
che dicendo che l'introduzione di simboli denotant i
costruzioni logiche è un espediente per metterei in
60
gra do di affermare, int orno agli elementi di queste
costru zioni, proposizioni compl esse in una forma re-
lativamente semplice.
Non si deve dire che le costruzioni logiche sono
oggeu i fittizi. Poiché, ment re è vero che lo Stato in-
glese, per esempio, è costruzione logica risultante
da i ndividui e che il tavolo sul qua le scrivo è ccstru-
zione logica risultante da contenuti sensoriali, non
è vero che lo Stato inglese o questo tavolo siano f it-
tizi nel senso in cui lo sono Aml eto o u n miraggio.
Anzi, d ire che i tavoli sono costruz ioni logiche risul-
tanti {la conten uti sensoriali non è per nulla asser-
zione fattuale nel senso in cui sarebbe asserzione
fattuale, per quanto falsa. dire che i tavoli sono
oggetti fittizi. Come dovrebbe essere già chiaro
dalla nostra spiegazione della categoria di cosrru-
zione logica, si tratta invece di una asserzione Iin-
guistica intesa a stabilire che il simbolo "tavolo" è
definibile, non esplicitamente ma nell'uso, attraverso
certi simboli che stanno per contenuti sensoriali. E
ciò, abbiamo visto, è come dire che gli enunciati con-
tenenti il simbolo " tavolo. " o il simbolo corrispon-
dente in qu alsiasi lingua abbia la stessa struttura
della nostra, si possono tradurre in enunciati della
stessa lingua che non contengon o il simbolo "tavo-
lo," né alcuno dei suoi sinoni mi, ma contengono so-
Io simboli che stanno per contenuti scnsoriali. E-
spresso liberamente, il fatto significa che dire qual.
cosa dci tavolo è semp re un dire qualcosa intorno a
contenuti sensoriali. N aturalmente ciò non implica
che dire qualcosa del tavolo equivalga anche a dire
61
la stessa cosa dei relativi contenuti sensoriali. Per
esempio, l'enu nciato "Ora mi trovo seduto al tavo-
lo " in linea di principio si può tradurre in un en un-
ciato dove non si fa men zione di tavoli, ma di soli
contenuti scnsoriali. Ma ciò non significa che nell'e-
nunciato originario si possa sostituire COSI semplice-
mente al simbolo " tavolo " un simbolo d i contenuto
sensoriale. Se procedessimo in questo modo, lungi
dall'equivalere al primo, il nostro nuovo enunciate
sarebbe un puro e semplice nonsenso. Per ottenere u n
enu nciato eq uivalente al primo intorno al tavolo,
ma con riferimento a soli contenu ti scnsoriali, va tra-
sformato tutto il complesso dell'enu nciala origina-
rio. E q uesta è appunto la conseguenza del fatto che
di re i tavoli costruzioni logiche risultanti da contenu-
ti scnscriali non equi vale a dire che il simbolo" ta-
volo" si possa definire esplicitamente attraverso sim-
boli che stanno per contenuti scnsoriali, ma solo che
lo si può definire cosi nell'uso. T ant'è che, come ab-
biamo visto, la funzione della definizione d'u so non
è quel la di forni rci sinonimi per certi simboli, ma di
metterei in grado di tradurre enun ciati di un certo
tipo.
Il problema di dare una regola che funz ioni per
la tradu zione di enu nciati su cosa mat eriale in cnun-
ciati su contenuti scnsoriali, si può chiamare il pro-
blema della" riduzione" delle cose materiali a con-
tenuti scnsoriali, c forma la parte filosofica prin ci-
pale del tradizionale problem a della percezione. È
vero che quant i scrivono sulla percezione col propo-
sito di descrivere" la natura della cosa materiale." da
62
parte loro credono di affrontare una questione di fat-
to. Ma, come già abbiamo indicato, questo è un er-
rore. La domanda" Qua l è la natura della cosa ma-
teriale ?" come qu alsiasi altra domanda di tale Ior-
ma, essendo u na richiesta di definizione, è domanda
linguistica. E le proposizioni proposte per risponder-
vi sono a loro volta proposizioni linguistiche, quan.
d 'anche si possano esprimere in modo da sembrare
fattuali. Si tratta di proposizioni intorno a relazioni
int ercorrenti fra simboli c non intorno alle propri età
delle cose che i simboli den otano.
"t: necessario insistere su questo punto in rappor to
al " problema della percezione" poiché la nostra in-
capacità di descrivere con grand e precisione, nel liri-
guaggio q uotidiano, le propr ietà dei contenuti senso-
riali - per mancanz a dei simboli occorrenti - rende
conveniente dare la soluzione di questo problema in
termin ologia fattu ale. Il farro che parlare di cose ma-
teriali è per ciascuno di noi un modo di parlare di
contenut i sensoriali, lo esprimiamo dicendo che eia-
scuno di noi " costruisce " cose materiali in base ai
contenuti scnsoriali ; poi riveliamo la relazione che
corre fra i due tipi di simboli mostrando quali sono
i principi di questa " costruzione." In altre parole
qu i si risponde alla domand a "Qual è la natura della
cosa materiale ?" indicand o, in termini generali, qua -
li sono le relazioni che devono intercorrere fra due
q ualsiasi contenu ti scusoriali affinché qu esti risultino
elementi della medesima cosa materiale. In un capi-
tolo successivo' ci occuperemo della difficoltà, che qu i
• Il capitolo ..,uimo.
sembra sorgere, di conciliare la soggettività dei con-
tenuti con l'oggettività delle cose.
L1 soluzione che ora dare mo a questo" problema
della percezione " servirà a illustrare ulteriormente il
metodo dell'analisi filosofica. Per semplificare la qu e·
stione introduciamo le definizioni seguent i. Diciamo
che due conten uti sensoriali somigliano direttamcn-
te l'u no all'altro, quando fra loro non sussiste ncssu-
na differenza o sussiste solo una differenza qunlita-
riva infiuitcsirna ; diciamo che si somigliano indiretta-
mente, quan do sono allacciati da una serie di semi-
g lianze dirette, ma per se stessi non sono direttamen-
te simili: relazione la cui possibilità dipende dal Fat-
to che il prodotto relativo' di infinitesime differenze
quali tative t: una differenza qu alitativa apprczzabi-
le. Diciamo inoltre che due contenuti visivi o tanil i
sono direttamente continui quand o appartengono a
memb ri successivi di una serie di campi sensoriali
effettivi o possibili e fra loro non sussiste nessuna
differenza o sussiste solo una differenza infinitesimn
riguardo alla posizione di ciascuno nel proprio C3 m ·
po scnsoriale ; diciamo che sono indirettamente con-
tinui qu ando vengono posti in relazione fra loro da
un a serie, effettiva o possibile, di continuità dirette.
E qu i sarebbe il caso di spiegare che dire possibile,
invece che effettiva, una singola. esperienza, o un
campo sensoriale che t: parte di quell 'esperienza, o
65
,
ma teriale sta nel mostrare come questi distinti grup.-
pi d i conten uti visivi e tan ili vengano correlati. E
ciò si può attuare dicendo che due gr uppi qu alsiasi
di contenuti visivi e rattili propri di u n soggetto ap-
partengono alla stessa cosa materiale q uando ogni
elemento dci gruppo visivo, di minima profondità vi-
siva, fa IXlrtc della stessa esperienza di cui è parte un
element o del gruppo ranile, di minima profondità
tanilc. Qui la profondità visiva o tanile non la pos-
siamo definire altrimenti che per astensione, cioè
dicendo che la profondità dci conten uto visivo o tat-
tile è una propr ietà sensibile quanto la sua durata o
ampiezza.' Possiamo però descriverla dicendo che
u n conten uto visivo o tatti le ha maggior profond ità
di un altro q uando è piu lontano dal corpo dell'os-
servatore, restando con ciò ben inteso che qu esta
non vuole essere una definizione. Infatti la p resen~
za di riferimenti a corpi umani, che per se stessi
sono cose materiali, negli enunciati definitori, com-
prometterebbe chiaramente qualsiasi "riduzio ne"
delle cose a contenuti. Ma quando vogliamo descri-
vere certi contenuti . siamo costretti a ricorrere a
cose perché la povertà del nostro linguaggio è tale
da lasciarci privi di altri mezz i verbali per indicare
quali siano le loro proprietà.
Quanto ai contenuti del gusto, o dell'udito, o del-
l'odorato, assegnati a determin ate cose, si possono
classificare in rapporto al loro assoc iarsi a contenut i
tattiJj. CoSI assegnamo contenuti gustativi alle stesse
66
cose cui riferiamo il simultaneo aver luogo di conte-
nu ti tattili del palato o della lingua. E nell'assegnare
alla cosa un conten uto uditi vo o olfatrivo, va notato
che si tratta di un membro di una possibile serie di
suoni o di odori in continuità temporale e di qualità
uniforme, ma d'intensità crescente per gradi; si trar-
ta cioè di un memb ro di quella serie di cui comune-
mente si direbbe di avere esperienza quando ci si av-
vicina alla fonte del suono o dell'odore; e noi lo as-
segnamo alla stessa cosa cui riferiamo il contenuto
tanilc Jato contemporaneamente al suono o all'odore
di intensità massima nella serie.
A questo punto il nostro tentativo di analizzare la
nozione di cosa materiale esige ancora un passo avari-
ti: bisogna dare una regola per la traduzione di
enu nciati riferemisi alle qualità "reali" delle cose.
E rispondiamo: che una certa qualità sia la qua lità
reale di una da ta cosa, equivale a dire che essa carat-
tcrizzn qu egli clementi della cosa che si misurano
nel modo più conveniente rispetto a tutti gli ele-
ment i che possiedono qualità del genere in questio-
ne. Qu ando, per esempio, guardo una moneta e as-
serisco che è realmente rotonda, non dico rotonda la
forma dci contenuto sensorialc che è l'elemento della
moneta da me osservata, e tanto meno dico rotonda
la forma di tutti gli clementi visivi o tattili della
moneta: affermo solo che la ro tondit à di forma ca-
ratterizza quegli elemen ti " privilegiati" della mone-
la di cui si ha esperienza dal punto di vista dond e si
possono compiere nel modo più conveniente misura-
zioni di forma. E similmente dico che il colore rea-
le della carta su cui sto scrivendo è bianco, quand'an-
che non sempre mi appaia bianco, solo perché la
bianchezza del colore caratterizza quegli elementi
visivi del la carta dei quali si ha esperienza nelle con-
d izioni in cui è possibile la massima differenaiazione
cromatica. E infine le relazioni di qualità, o di posi-
zione, fra cose le definiamo attraverso quelle rela-
zioni di q ualità, o di posizione, che si instaura no fra
tali elementi " privilegiati. "
Questa definizione, o meg lio questo abbozzo di
definizione dei simbol i che stanno per cose materiali,
intende riuscire allo stesso tipo di effetto della defi-
nizione delle locuzioni descritti ve da noi data come
primo esempio di analisi filosofica. Cioè serve ad
aumentare la nostra comprensione degli enunciati in
cui ci riferiamo a cose material i. An che in q uesto se-
condo caso, naturalmente, c'è un senso in cui inten-
diamo tali enunciati già p rima dell'analisi. Quanti
usano la nostra lingua, in prat ica non trovano nessu-
na difficoltà nell'identificare le situazioni che stabi-
liscono la verità o falsità di asserti cosi semplici co-
me "Q uesto e, un tavoIo, " o " Le l'Ire sono rotonde. "
Ma possono facilmente restare del tutto all'oscuro
int orno alla nascosta complessità logica d i questi
stessi asserti, che invece la nostra analisi della nozione
di cosa materiale ha portato alla luce. E di conse-
guenza possono essere indotti ad adottare qu alche
credenza metafisica, come qu ella della esistenza di
sostanze materiali o di sostrari invisibili, che è fonte
di confusione in tutto il loro pensiero speculativo. E
l'utilità della definizione filosofica che dissipa con-
"
fusioni siffane non va misurata sull'evidente banalità
degli enunciati che traduce.
Si dice talvolta che il proposito di qu este definizio-
ni filosofiche sia quello di rivelare il sign ificato di
certi simboli o di certe combinazioni d i simboli. Ma
contro qu esto modo di parlare costituisce obiezione
il fatto che, impiegando con la parola ..significato "
un simbolo altamente ambiguo, esso dà una descri-
zione equivocabile di qu anto si compie nella prat ica
filosofica. Questa è la ragione per cui abbiamo defini-
to la relazione di equivalenza fra enunciati senza ri-
ferirci al " significato." E anzi, non so se di tutti gli
enunciati che secondo la nostra definizione sono equi.
valenti, com unemente si direbbe che hanno lo stesso
significato. Per quanto, infatti, non sia raro l'uso o
l'occasic nale impiego di una segnalazione complessa
della forma " gli enunciati s e t hanno lo stesso si.
gnificato " per esp rimere q uello che noi esprim iamo
dicendo " gli enunciati s e t sono eq uivalenti, " penso
che qu esto non sia il modo più comune di usare o
di int erpretare il segno "sign ificato." Penso che se
dovessimo impiegare questo segno nel modo più co-
mu nemente usato, potremmo dire che due enunciati
hanno per un indi viduo lo stesso significato, solo a
condizione che l'aver luogo dell'uno abbia sempre
il medesimo effetto di quello dell'altro sui pensieri e
le azioni di lui. E d'altra parte è invece chiaro che,
secondo il nostro criterio, l'equivalenza di due enun-
ciati è possibile anche senza che si abbia sempre lo
stesso effetto su chi mai faccia uso del linguaggio.
Per esempio, " p è una legge di natura " equivale a
69
"p è un'ipotesi generale su cui si può sempre fare
affidamento " : ma le associazioni del simbolo " leg-
ge" sono tali che il prim o enunciato tende a pro-
durre un effetto psicologico molto diverso da quello
dell'enunciato suo equi valente. Il primo porta a cxc-
dere in un ordine della natura e persino nell'esisten-
za di u na forza " dietro " qu ell'ordine, che invece non
è evocata da l secondo enunciato, e certo non ha al.
cun a gara nzia razionale. Allo stesso modo c'è molta
gente che, in qu esto senso comu ne del termi ne " si-
gnificato," presta ai d ue suddetti enunciati equiva-
lenti significati ben diversi. Ed io sospetto che ciò
concorra a spiegare la diffusa riluttanza ad ammet-
tere che le leggi di natura sono soltan to ipotesi, pro·
prio come il mancato riconoscimento, da parte di al.
cuni filosofi, della ri ducibili tà delle cose materiali a
contenuti scnsoriali è largam ente dovuto al fatto che
nessun enunciato riferentesi a contenuti scnsoriali ha
mai su di loro lo stesso effetto psicologico dell'enu n-
ciato riferenresi alla cosa. Ma, come abbiamo visto,
questa non è una valida ragione di prin cipio per ne-
gare l'equivalenza di due q ualsiasi enu nciati siffatti.
Pertanto si dovrebbe evitare di dire che la filosofia
si occupa del significato dei simboli, poiché dall'am-
biguità del " significato " il critico senza discernimen-
to è indotto a giudicare i risultati della ricerca filoso-
fica con un criterio che non le è applicabile, ma vale
solo per la ricerca empirica circa gli effetti psicologici
che l'aver luogo di certi simboli esercita su un certo
grup po d i ind ividui. T ali ricerche emp iriche costi-
tuiscono senza dubbio un elemento import ante in so-
70
ciologia c nello studio scientifico di una lingua ; ma
sono affatto distinte dalle ricerche logiche che costi.
tuiscono la filosofia.
Porta fuori strada anche d ire, come fanno alcuni,
che la filosofia ci espone come effettivamente si usa-
no cer ti simboli. Infatti ciò fa supporre che le pro-
posizioni filosofiche siano fattu ali e riguardino il
comportamento di un certo gruppo di indi vidui ; il
che non è vero. Quando il filosofo asserisce che, nel-
la nostra lingua, l'enunciato" L'autore del W aver!ey
era scozzese" equivale a "Un ind ividuo e uno solo
ha scritto il Waver!ey e q uell'ind ividuo era scozze-
se," egli non va asserendo che tutt i qu anti parlano la
nostra lingua , o b. massima parre di loro usano que-
sti enunciati uno per l'altro come intcrcambiabili.
Asserisce in vece che, in virtù di certe regole di im-
plicazione e precisamente in graz ia di qu elle che
sono caratteristiche della lingu a " corretta," tutti gli
enun ciati che " L'autore del W averley era scozzese"
impl ica in congiunzione con un dato gru ppo di enun-
d ati, questo stesso gruppo li imp lica anche in con-
giunzione con" Un individuo e uno solo ha scritto il
Waverley e quell'individuo era scozzese." Che q uan-
ti parlano la nostra lingua impiegh ino le convenzio-
ni verbali che impiegano, è senza dub bio un fatto
empi rico. Ma la deduzione di relazioni d'equivalen-
za dalle regole di implicazione che caratterizzano b.
nostra lingua o qualunque altra, è attività puramente
logica ; e l'ana lisi filosofica consiste solo in questa at-
rività logica, non in uno studio empirico delle abitu-
7i
dini linguistiche di un g ruppo di individui.'
CoSI il filosofo, specificando il linguaggio in cui
fa conto che valgan o le sue definizioni, scmpliccmen-
te descrive le convenzioni donde le definizioni stesse
sono dedotte; e la validità di queste ultime dipende
unicamente dalla loro compatibilità con quelle con-
venzioni. Nella massima part e dei casi, indubbia-
mente, le definizioni si ottengono da convenzioni che
corrispondono di fatto a quelle effettivamente esser-
vate d a qualche gr uppo di individui. E che COSI av-
venga è del resto una condiz ione necessaria per l'uti-
lità delle definizioni qu ali mezzi di chiarificazione.
Ma è u n errore supporre che r esistenza di una cor-
rispondenza siffatta sia sempre parte di ciò che le
definizioni effettivamente asseriscono."
È da notare che il procedimento dell'analisi riesce
facilitato qu ando pef la classificazione delle forme
del lingu aggio in esame è possibile usare un sistema
simbolico artificiale a struttura nota. L'esempio più
conosciuto di un simbolismo simile è il cosiddetto si.
72
sterno. di logistica impiegato da Russcll e W hitehcad
nei Principia Mathem atica, Ma non è necessario che
il linguaggio in cui si cond uce l'analisi sia diverso
dal linguaggio analizzato. Se davvero fosse necessa-
rio, saremmo costretti a supporre, come suggerl una
volta Russell, " che ogni linguaggio abbia una strut-
tura della quale, in quel linguaggio, non si può di-
re nulla, ma che possa esserci un altro linguaggio che
tratta della struttura del primo e a sua volta ha una
nuova struttura, e che questa gerarchia di linguaggi
possa non avere alcun limite."" Ciò venne scritto
presumibilmente nella convinzione che il tentativo
di riferirsi alla struttura di un linguaggio con quello
stesso linguaggio condurrebbe a paradossi logici."
Ma in seguito, compiendo effettivamente un'analisi
di questo tipo, Carnap ha mostrato che nell'analisi
di un linguaggio si può impiegare quel linguaggio
medesimo senza interna contraddizione."
L'" a priori"
I
71
della matematica non sono necessarie o certe, è stato
adottato da Mil!. Egli sostiene che tali proposizion i
sono generalizzazioni induttive fonda te su un nume-
ro estremamente grande di casi. Che il numero dei
casi favorevoli sia cOSI grande, secondo lui basta a
spiegare la nostra convinzione che qu este gcnernliz-
z azioni siano necessarie c universalm ent e vere. L'e-
videnza in loro favore sarebbe COSI forte da farci sem-
brarc incredibile il sorgere di un caso contrario. Cio-
n ondimeno la possibilità che tali generalizzazioni
vengano confutate, in linea di principio resterebbe
ancor sempre. Sarebbero altamente probabili, ma,
in qu anto generalizzazioni indutrive, non sarebbero
certe. La differenza fra esse e le ipotesi della scienz a
naturale sarebbe una di fferenza di grado e non di ge-
nere. L'esperienza ci darebbe ott ime ragioni di sup-
porre che una " verità" della matemat ica o della lo-
gi ca sia universalmen te vera ; ma noi non ne avr em-
mo nessuna garanzia. iaTnfani
n atu queste "vcntn
. ,,, sareb-
bero solo ipotesi em piriche che han no fun zion ato
particolarmente bene in passato ; c, com e tutte le ipo-
tesi empiriche, in teoria resterebbero fallibili.
Penso che qu esta soluzione della difficoltà incon-
tra ta dall'empirista rigu ardo alle proposizioni della
logica e della matematica, non sia accettabile. Nel sot-
roporla a giud izio è necessario porre u na distinz ione
forse già implici ta nel celebre detto di Kanr che,
pc!......qu::t_nto ogni nostra conoscenza comi nci indub-
biam ente con "esperienza, non ne segue che der ivi
tu tta dall'esperienza.' Quando diciamo note indi pen-
l Critic,/ tldlll Ragia" Pwa, 2 ed., IntrO<1 ul.ione, .ezione prima.
78
dentemente dall'esperienza le verità della logica, na-
turalmente non le stiamo dicendo innate nel senso
che le si conosca fin dalla nascita. La matematica e
la logica è ovvio che bisogna apprenderle come bi-
sogna apprendere la chimica e la storia. Neppure stia-
mo negando che il primo a scoprire una data verità
logica o matematica vi fosse guidato da un precedi-
mento indutrivo. Per esempio è molto probabile che
i l principio del sillogismo non sia stato formulato pri-
ma, ma dopo di aver osservato in un certo numero
di casi particolari la validità del ragionamento sino-
gistico. Comunque, quando diciamo note indipen-
dentemcnte dall'esperienza verità logiche e matema-
tiche, non stiamo affrontando né la questione storica
circa la via seguita nell'originaria scoperta di queste
verità, né la questione psicologica circa il come cia-
scuno di noi giunga ad apprenderle : siamo di fronte
alla questione epistemologica. La tesi di Mill, che ri-
fiutiamo, colloca le proposizioni della logica e della
matematica nelle stesse condizioni di legittimità del-
le ipotesi empiriche e sostiene che la validità ne ven-
ga determin ata allo stesso modo. Invece noi le seste-
niarno indipendenti dall'esperienza nel senso che non
devono la propria validità a verificazione empirica.
Possiamo arrivare a scoprirlc con un procedimento
induttivo; ma, una volta che le abbiamo afferrate,
le vediamo necessariamente vere e valide per ogni
caso concepibile. E ciò è quanto basta per distinguer.
le dalle generalizzazioni empiriche. Sappiamo infatti
che non si può vedere necessariamente e universal-
mente vera una proposi zione la cui validità dipenda
79
dall'esperienza.
Nel rifiutare la teori a di Mill siamo tuttavia co-
stretti a procedere in certo modo dommaricamcnte.
Non ci resta che por re la questione con chiarezza e
sperare che la sua posizione risulti discordante dai
farti logici di specifico rilievo. Le considerazio ni se-
gucnti serviranno forse a mostrare che, delle due vie
aperte all'empirista nel trattamento da farsi alla lo..
gica e alla matematica, la via adottata da Mill non
dev'essere quella gi usta,
Il modo migliore di dare evidenza alla nostra as-
serzione che le verità della logica forma le e della
matematica pura sono necessariamente vere, censi-
ste nel prendere in esame i casi in cui queste verità
po trebbero sembrare confuta te. Contando, per esem-
pio, q uante in un primo tempo avevo preso pcr cin-
q ue paia di oggetti, mi potrebbe facilmente acca-
dere di trovarue solo nove. Se volessi ingan nare
qualcuno, potrei dire che in qu esta par ticolare circo-
stanza d ue volte cinque non fa dicci. Ma in tal caso
non userei la comp lessa segnalazione "2 X 5 = Iù"
come la si usa di solito, cioè non la prenderei qual e
espressione di una proposizione puramente matema-
tica, ma come l'espressione di u na generalizzazione
emp irica del fatto di aver visto sin qui dieci oggetti
ogni qual volta ho contato quelle che mi sembrava-
no cinq ue paia. Q uesta generalizzazione può benis-
simo essere falsa. Ma se la sua falsità venisse pro-
vata in un dato caso, nessuno d irebbe che è stata
confutata la proposizione matematica" 2 X 5 = lO. "
Si d irebbe piuttos to che avevo torto io a supporre in
80
partenza si tratt asse d i cinqu e paia di oggetti, o che
ne è stato tolto uno mentre li stavo cont ando, o
che due di essi si sono fusi io uno, o che io contavo
male. Si adotterebbe come spiegazione qualunque
ipotesi empirica risultasse la pio calzante coi fatti
accertati. L'unica spiegazione che non verr ebbe mai
adottata in nessuna circostanza, è che non sempr e
dieci sia il prod otto di d ue e cinque.
Facciamo un altro esempio: se quello che sembra
un triangolo euclideo, dalle misurazioni non risulta
avere un totale di angoli intern i che amm onti a
180 gradi, noi non diciamo di esserci imbattuti in
un caso che infirma la proposizione per cui la somma
dei tre angoli intern i di un triangolo euclideo è di
180 grad i. Diciamo piuttosto di aver misurato male,
o, più verosimilmente, che il triangolo misurato non
è euclideo. E il nostro procedimento resta lo stesso
in q ualunque caso sembr i confu tare un a verità ma-
tematica. Salviamo sempre la validità di quest'u lti-
ma adottando qua lche altra spiegazione del fatto av-
venuto.
Lo stesso vale per i principi della logica formale.
Possiamo fare un esempio in rapporto con la cosid-
detta legge del terzo escluso, la q uale afferma che
la prop osizione dev'essere vera o falsa, ovvero, in al.
tre parole, stabilisce per la proposizione e b. sua con-
t raddittoria l'impossibilità di essere false tutt 'c due.
Si potrebbe supporr e che preposizioni della forma
.. x ha smesso di fare y" in certi casi costituiscano
eccezione a questa legge. Per esempio, se un amico
fin qui non mi ha mai scritto, può sembrare giusto
SI
(lire che non è né vero né falso che egli ha smesso
di scrivcrmi. Ma in realtà ci si gua rde rebbe dnll'ac-
cen are un C::lSO siffat to come l'a nnull amento della
legge del terzo escluso. Si indicherebbe piut tosto ch e
la proposizione" Il mio amico ha smesso di scriver-
m i " non è una proposiz ione elementare, ma ln con-
giunzione delle due proposizio ni "Il m io amico m i
scrisse in passato " e Il m io amico o ra non m i scri-
IO
82
lasciare inta tto il princ ipio. E ciò indica che Mill
aveva torto nel supporre che potessero sorgere situa-
zioni tali da rovesciare una verità matematica. I pri n-
cipi della logica e__ della matematica sono veri uni:
versalmeme per 11 sem plice mot ivo che non permet-
tiamo loro di essere nient'altro. E la ragione di quc-
sto nostro modo di fare sta nell'impossibilità di oh-
bandonarc tali principi senza contraddirci. senza pec-
care contro le regole che governano l'uso dci lin-
guaggio, facendo delle nostre parole qualcosa che si
dim ostra in .sé assurdo. In altri term ini, [e verità del-
la logica c della matemat ica sono proposizioni ana-
litiche, ossia tautologie. Con qu esto avanzi amo una
afferm azione che può suon are estremamente contro-
vena, c perciò dobbiamo procedere alla ch iarifica-
zione delle sue im plicazioni.
La più famil iare definizione di proposizione an a-
litica o, come egl i diceva, giudizi o ana litico, è quel-
la data da Kant. Egli chiama va' analitico il giudizio
in cui il predicato n appa rtiene al soggetto A come
qualcosa che implicitamente è già contenuto nel con-
cetto di A. Ai giudizi analit ici contrapponeva qu elli
sintetici, nei quali il predicato n, benché sia in con-
nessione col soggetto A, ne sta fuori. I giudiz i . m a-
lirici, spiegava Kant, "per mezzo del predicato nulla
aggiun gono al concetto del soggetto, ma solo di vi-
don o con l'analisi il concetto nei suoi concetti pJr-
aiali, che erano in esso già pensati sebbene confu sa-
, Critica ùlla Ragion F'l'tl. 2 ...1.. I ntro< l"" ione. seaione qlJ1rt.1
e quinla. [Si cita .blla 1" <! lJ zi" "e ilO!i""J Gcntilc·Lo mbard" R.1lli. c.
L~I ..r7.1. Rari. voI. I. pp. 'lO. '1 7 f',wim.l
8l
mente." I giud izi sintetici, invece, " aggiungono al
concetto dd soggetto un predicato, che in qu ello non
era punto pensato e non era ded ucibile con nessuna
analisi," Come esempio di giudizio analit ico Kant
porta " tutti i corpi sono estesi," per la ragione d i
princi pio che il predicato richiesto è ricavabilc dal
concetto di "corpo, " " secondo il principio di con-
traddizione "; come esempio di giudizio sintetico
porta" tutt i i corpi sono pesanti," Si riferisce anche
a "7 + 5 = 12" come a giudizio sintetico, per la ra-
gione che il concetto dì dod ici non è affatto già pcn-
sato nel semplice pensare l'unione di sette e cinq ue.
E sembra considerare q uesto come equivalente a di-
re che il giudizio non si fonda soltanto sul principio
di contraddiz ione. Ritiene poi che con giudizi ana-
litici la nostra conoscenza non si estenda, come in-
vece accade con giudizi sintetici, Poiché nei giudizi
analitici ..il concetto che io già posseggo mi viene
semplicemente dispiegato e reso intelligibile."
Questo mi sembra un riassunto abbastanza chiaro
della spiegazione data da Kant alla distinzione fra
proposizioni analitiche e sintetiche, ma non mi sem-
bra che riesca a chiarire la distinzione, Anche se sor-
voliamo sulle difficoltà che nascono dall'uso del tcr-
min e vago " concetto," e sull'ingiustifi cata supposi-
zione che ogni giudizio, come dire ogn i enunciato
tedesco o inglese, possegga sempre soggetto e predi-
cato, ancora vi sussiste un difetto di cruciale impor-
ranza. Kant non dà un unico criterio chiaro e netto
per distinguere fra proposizioni analitiche e sintcti-
che: dà due criteri ben diversi che non si cquival-
gana affatto. La ragione di ritenere sintetica la pro-
posizione " 7 + 5 = 12" è, come abbiamo visto, che
+
la intcntio' soggettiva di " 7 5" non contiene quel-
la di " 12" ; laddovc la ragione di ritenere analitica
la proposizione " tutti i corpi sono estesi" è il suo
fondarsi sul solo principio di contraddizione. Kant
impiega cioè un criterio psicologico nel primo di
questi esempi e un criterio logico nel secondo, assu-
mendo la loro equivalenza come qualcosa che non
richiede prova. Ma, in realtà, una proposizione sin-
tetica rispetto al primo criterio può benissimo risul-
rare analitica rispetto al secondo. Tant'è vero che i
simboli, come abbiamo già indicato, possono essere
sinonimi anche senza avere per chiunque il medesi-
mo significato intenzionale; e dunque, se si può pen-
sare alla somma di sette e cinque senza necessaria-
mente pensare a dodici, da ciò non segue affatto la
possibilità di negare senza interna contraddizione la
proposizione "7 + 5 = 12." Dal complesso della sua
argomentazione emerge chiaramente che quanto più
preme a Kant di stabilire è proprio questa proposi-
zionc logica, non qualche proposizione psicologica.
Ma usando il criterio psicologico egli è portato a cre-
dere di averla stabilita, quando non lo ha fatto.
Credo sia possibile mantenere la funzione logica
della distinzione kantiana fra proposizioni analiri-
che e sintetiche, anche evitando le confusioni che ne
guastano la spiegazione effettivamente data da Kant,
, Si traduce con intentio il term i,lC " i nfenfi on" <I d lC,lo prr 3C-
rentuarne il o;cn,., tecnico non allrcltane" eyideme ncl1 a parola ~in
Icnzione. " [N.d.T.l
es
se diciam o analitica la proposIzIOne qua ndo la sua
validità di pend e esclusiv amente d alle definizioni dci
simboli che contiene, e la d iciamo sinte tica q uando
la sua valid ità è determinata dai fatti del l'esper ienza .
In q uesto mod o la pro posizio ne "Vi so no for m iche
che hanno instaurato un sistema schiavistn" è sinrc-
tica, perché limitand cci a considera re le definizio ni
dei sim boli che la costituiscono non siamo in grado
di stabilire se è vera o fa lsa. D obbiam o ricorrere :ll~
l'osservazione effettiva del comporta mento delle for-
miche. In vece la prop osizione "O vi sono for miche
con ab itud in i par assitiche oppure non ve ne sono " è
ana litica. In fatt i non c'è alcun bisog no di ricorrere al-
l'osservaz ione per scoprire che o vi son o op pur e no n
vi sono form iche con abitudini parassitiche. Chiun-
que sap pia q ual è la funz ion e delle parole " o," "op.
pure" c "non , " è in g rado di vedere che qualsi asi
proposizio ne de lla form a " O P è vero oppure p non
è vero " è valida indipendentem ente dall'cspcrien-
z a. T utte le proposiz ioni siffattc sono dunq ue nna-
litichc.
Si no ti che la proposizion e "O vi sono formiche
con abitud ini parassitichc opp ure non ve ne sono "
non for nisce la benché minima informaz ione cir-
ca il comportamento di for mich e o. m eri che meno.
intorno a q ualche altro dato di fatto. E ciò vale
per tutte le proposizioni analitiche. N essuna di esse
forn isce alcuna infor mazion e into rno a dati di fatto.
In alt re parole, sono dci tutto prive di con tenuto fat-
tu ale. Ed è per qu esta rag ione che nessuna cspe ncn-
za può confutarle.
l
Quando diciamo prive di contenuto fattuale le pro-
posizioni analitiche c ne concludiamo che non d ico-
no nulla, non intendiamo insinuare che siano prive
di senso COSI come sono prive di senso le espres-
sioni mctafi sichc. Poiché, per quanto non ci diano
nessuna in form azione intorno a qu alche situazio ne
empirica. esse ci illustrano il modo in cui usiamo cer-
ti simboli. CoSI se dico " N essuna cosa può essere di
colori diversi nello stesso tempo e nelle stesse parli, "
non vengo a dire alcun ché circa le proprietà di una
COS:l effettiva ; ma neppure sto dicend o un nonscnso.
Esprimo invece la proposizione analitica che registra
la nostra decisione di chiamare parte diversa di una
data cosa la superficie colorata qualitativamentc dif-
ferente dalle circostant i superfici colorate della mede-
sima. In altre parole, richiamo semplicemente l'atten-
zionc sulle im plicazioni di un certo uso lingui stico
costituito. Allo stesso m odo, dicendo che se tutti i
br étoni sono francesi, c tutti i francesi sono euro pei,
allora tutti i brétoni sono europe i, non descrivo nes-
sun dato di fatto. Ma vengo a dire come nell'afferma-
re che tu tt i i br étoni sono francesi, e tutt i i francesi
sono europei, sia imp licitamente contenuta l'affer-
mazione successiva che tutti i brétoni sono europei.
E con ciò indico la convenzione che regola il nostro
uso corren te delle parole " se" e " tutti."
Vediamo, q uindi, che vi è un senso in cui le pro-
posizioni analitiche ci danno nuova conoscenza. Ri-
chiamano l'attenzione su certi usi linguistici istituiti
di cui altrim ent i potr emmo non essere consapevoli. e
rivelano im plicazion i insospcttate nelle nostre asscr-
87
zioni e credenze. Ma possiamo anche vedere che vi
è un senso in cui si può dire che q ueste proposizioni
non agg iungono nulla al nostro sapere. Poiché ci
raccontano solo quello che si può d ire noi sappiamo
già. Se, per esempio, io so che le reginette di maggio
sono tracce residue di antichi riti agresti, c scopro che
in Inghilterr a esistono ancora regincttc di maggio,
posso impiegar e la tautologia "Se p implica q e se
p t: vero, q è vero " per mostrare che in Inghilterra
ancora sussistono tracce di antichi riti agresti. Ma
dicendo che in Inghilterra vi sono ancora rcginctte
di maggio e che l'esistenza di rcginctte di maggio è
un residuo di antichi riti agresti, ho gi:ì asserito l'esi-
stcnza di un resid uo di culti agresti in Inghilterra.
L'impiego della raurologia mi mette senza dubbio in
grado di rendere esplicita quest' ultima asserzione im-
plicita. Ma non mi forni sce nessuna conoscenza n uo-
va nel senso in cui me ne forn irebbe la notizia che
la elezione di reginctte di maggio è stata proibita
per legge. Se q ualcuno di noi dovesse mettere per
iscritto tutto il sapere puramente informativo d i cui
è in possesso, cioè a proposito di soli dat i di fatto, non
scriverebbe nessuna proposizione analitica. Ma nel
compilarne una encicloped ia ricorrerebbe all'impiego
di proposizioni analitiche, e verrebbe cOSI a include-
re proposizioni che altrim enti avrebbe trascurato. E
la formulazione di queste ultime proposizioni non
solo lo metterebbe in grado di rende re completo il
repertorio del suo sapere inforruntivo, ma anche di
assicurarsi che le proposizioni sintetiche componenti
il repertorio formi no un sistema in sé coerente. Mo-
se
strandogli quali combinazioni di proposizioni sinte-
tiche darebbero luogo J contraddizioni, le proposi-
zioni ana litiche g li impedirebbero di includere pro-
posizioni fra loro incompatibili, cioè di fare della
propria elencazione qualcosa che si an nulla da sé.
MJ nella misura in cui di fatto eravamo giì riusciti a
impiegare parole come " tutti," ovvero" e non " Il Il
, l'cr una clab,.,ra7.i"nc .li quC'\O punto \-",]i I.~.WI" c 1.... " c ...I<U,
Sym boliç Logic, cal,ilol" ,eltin l<>.
sua validità non dipende dal fatto che la proposizio-
ne si trovi o non si trovi incorporata in un sistema,
né che sia o non sia dedotta da certe altre proposi-
zioni prese come evidenti per sé. La costruzione di
sistemi d i logica è un mezzo utile per la scoperta d i
proposizioni analitiche e per l'accertamento del loro
carattere analitico, ma in linea d i principio non è
essenziale neppure a q uesto proposito. I nfatti si può
concepire anche un simbolismo in cui ogni proposi-
zione analitica sia identificabile nel proprio carattere
anal itico in virt ù della sua sola forma.
Il fatto che la validità della proposizione analitica
non dipende per nu lla dalla sua deducibilità da altre
proposizioni analitiche, giustifica la nostra ma ncanza
di considerazione per il problema se le proposizioni
della matematica siano riducibili a proposizioni della
logica formale, come supponeva Russell,' Poiché, an-
che nel caso che la definizione d i numero card inale
come classe di classi simili a una classe data sia dav-
vero circolare, e non sia possibile ridurre nozioni ma-
tematiche a nozioni puramente logiche, resterebbe
ancora vero che le proposizioni delia matematica so-
no analitiche. Formerann o una classe speciale d i pro-
posizioni analitiche, contenente termini speciali, ma
non cesserann o per questo di essere analitiche. Il cri-
terio della proposizione analitica resta il caso che la
sua validità discend a semplicemente dalla definizio-
ne dci term ini in essa contenuti, e le proposizioni
91
della matematica pur a soddisfano questa condizione.
Le proposizioni matematiche che sarebbe meno
imperdonabile supporre sintetiche sono q uelle della
geometria. Infatti pcr noi è naturale pensare, come
pensava Kanr, che la geomet ria sia lo studio delle
proprietà dello spazio fisico, e che di conseguenza le
sue proposizioni abbiano contenuto fattuale. E se
siamo convinti di questo e riconosciamo anche che
le verità della geometria sono necessarie e certe, allo--
ra possiamo essere inclini ad accettare l'ipotesi di
Kant, per cui lo spazio è la forma dell'intuizione del-
la nostra sensibilità esterna, cioè la forma da noi im-
posta alla materia della sensazione, come la sola spie-
gazione possibile della nostra conoscenza a priori di
queste proposizioni sintetiche. Ma pensare che la geo--
metria pura si occupi dello spazio fisico, se era abba-
stanza plausibile ai tempi di Kant, quando la geo--
metria di Euclide era la sola geometria conosciuta,
con la successiva invenzione di geometrie non eucli-
dee si è dimostrato un errore. Oggi noi vediamo che
gli assiomi di una geometria sono semplicemente
definizioni e i suoi teoremi semplicemente le conse-
guenze logiche di queste definizioni: Una geometria
per se stessa non riguarda lo spazio fisico j per se stes-
sa non si può nemmeno dire che " riguardi" qualco-
sa. Piuttosto: noi. possiamo usare una geometria per
ragionare dello spazio fisico. Cioè, una volta data
agli assiomi una interpretazione fisica, possiamo pro--
cedere all'applicazione dei teoremi agli oggetti che
1 Cfr. 11. POls c u f, La Srirtlct! ~l l'HYPOln(U, parte H, capifolo
1erM.
n
soddisfino gli assiomi. Se una geometria possa o non
possa valere per l'effettivo mondo fisico, è question e
empirica che cade fuori del campo proprio di quella
geometria. Perciò non ha senso chiedere quali delle
varie geometrie a noi note siano false e quali siano
vere. Nella misura in cui sono esenti da contraddi-
zioue, sono tutte vere. Sipuò chiedere invece qua le
d i esse sia la più utile in qualche data circostanza,
quale si applichi pi ù facilmente e vantaggiosamente
.:\ una situazione empirica effettiva. Ma la proposizio-
ne afferm ante che l'applicazione di una certa geo-
metria è possibile, non è essa stessa un a proposizione
di quel la geometria. Qu ella geometria per sé si limita
a dirci che se q ualcosa si può far sottostare alle dc-
finiz ioni, soddisferà anche i teoremi. Si tratta pertan-
to di un sistema puramente logico e le sue proposi.
zioni sono puramente analitiche.
L'impiego di rappresentazioni gra fiche fatto nei
trattati di geometria, si potrebbe obiettare, dimo stra
che il ragionam en to geometrico non è pura mente
astratto e logico, ma d ipend e dalla nostra intu izione
delle proprietà delle figure. In realtà però l'impiego
di r.@.p:resen.t;u;iopi grafiche non è essenziale a u na
geometria del tutto rigorosa. Vengono introdotte_çQ-
mc aiuti offerti alla nostra r agione. Ci forn iscono u na
particolare applic3Zio~e di quella- geometria, aiutan-
doci COS1 a cogliere la verità di ordine pi ù generale
che gli assiomi di q uella geometria implicano certe
conseguenze. Ma se la massima parte di noi ha biso-
gno dell'aiuto di u n esempio per farsi consapevole
di q uelle conseguenze, questo fatto non implica che
'3
la relazione intercorrente fra tali conseguenze e gli
assiomi non sia una relazione puramente logica. Ciò
significa semplicemente una certa inadeguatezza dei
nostri intelletti nel compim ento di ragionamenti
molto astratti senza l'assistenza dell'intuizione. In al-
tre parole non è un fatto che abbia qualch e portata
sulla natura delle proposizioni geometriche, ma sem-
plicemente un fatto empirico che riguard a noi. Di
più, il ricorso all'intui zione, benché generalmente di
valore psicologico positivo, è anche fonte di un certo
rischio per il geometra. Q uesti può cedere alla tcn-
razione di fare assunzioni solo incidentalmente vere
per la particolare figura presa come esempio, ma che
non discendono dagli assiomi. Anz i, si è osservato co-
me lo stesso Euclide a volte sia rimasto vittima d i una
tentazione simile, rendendo con ciò essenziale la pre-
senza della figura per alcune delle sue dimostrazio-
ni: Questo sta a indicare che il sistema, COSI come
egli lo presenta, non è del tutto rigoroso, benché na-
turalmente lo si possa rendere tale. Non sta invece
a indicare che la presenza della figura sia essenziale
a una dimostrazione geometrica di stretto rigore.
Supporre che lo sia, sig nificherebbe prendere per ca-
ratteristica necessaria di tutte le geometrie quello che
In realtà è solo un difetto incidentale di un partico-
lare sistema geometrico. .
Veniamo dunque alla conclusione che le proposi-
zioni della geometria pura sono analitiche. E questo
ci porta a rifiutare l'ipotesi di Kant per cui la geo-
95
te registra no la nostra determinazione di usare certe
parole in una certa maniera. Non possiamo negarlc
senz a infrangere le convenzioni pre supposte nel pro-
cedimento stesso del negare e senza cadere cOSI in
intrinseca contraddizione. E questo è l'u nico fonda-
mento della loro necessità. 1 el ritenere che il mo ndo
non possa in nessun mod ;Concepibile disobbedire
alle leggi della logica noi siamo giustificati solo da l
fatt o che, come osserva Wittgenstein, di un mondo
illogico noi non saremmo capaci di di re qu ale aspet-
to avrebbe." E proprio come è indipendente dalla
natura del mondo esterno, cOSI la validità della pro-
posizione anal itica è indip endente anche dalla natu-
ra delle nostre menti. È perfettamente concepibile
che avremmo potuto impiegare convenzioni lingui-
stiche dive rse da qu elle che impieghiamo effettiva-
mente. Ma q uali che fossero qu este altre con venzio-
ni, le tauto logie in cui registrarle sarebbero pur sem-
pre necessarie. Poiché q ualun que nostra nega zione
d i esse si ann ullerebbe da sé.
Ved iamo dunque che non c'è nulla di mist erioso
nella certezza apodittica della logica e della matema-
tica. Sappiamo che nessuna osservazione può mai
+
confutare la proposizione " 7 5 = 12," ma qu esto
nost ro sapere si fonda semplicemente sul fatto che
+
l'espressione sim bolica "7 5" è sinonimo di "12,"
proprio come il nostro sapere che ogni oculista è
un medico degl i occhi dipende dal fatto che il sim-
bolo " medico degli occhi" è sinonimo di " oculista. "
96
E la stessa spiegazione regge per ogn i altra verità
a priori.
Ciò che a prima vista riesce misterioso è invece il
fatto che queste tautolog ic siano a volte COSI sorpren-
denti e, nella matematica come nella logica, sussista
la possibilità dell'invenzione e della scoperta. Come
dice Poincar é: " Se tutte le proposizioni enunciate
dalla ma tematica si possono derivare l'una dall'alt ra
secondo le regole della logica form ale, come p uò la
matematica non ridursi a un'immensa tautclogia?
Il sillogismo non può insegner ei nulla di csscnzial-
mente nuovo e se og ni cosa deve discendere dal prin-
cipio d'identità, ogni cosa dovrà essere riducibilc a
q uesto principio. Ma possiamo realmente amme ttere
che teoremi occupanti libri e libri non servano a nul-
l'altro che a dire in forma circonvoluta 'A A' ?,"' =
Poincar é trova incred ibile un fatto simile. La sua teo-
ria è che il senso dell'invenzione c della scoperta in
matematica sia dovuto alla induzione matematica,
cioè al principio che quanto vale per il num ero l , e
vale per n + l qu ando vale per n, vale per tutti i
numeri." Ed egli dichiara q uesto un principio sin-
tet ico a priori, In realtà è davvero a priori, ma
non è sintetico. Si tratta di un principio definito-
rio dei numeri naturali, che ha la funzione di disrin-
guerlì da altri come i numeri card inali infiniti, per
i quali non si può far valere." Di più, dobbiamo ri-
" l .a Sàn:u n l'llr Po/l:; u , [l'lrle I. capi lolo prim<>.
" Nell e precedenl i o h..;" " i , i afferma va erro neamen te: ..quante
vale per il nUmero l . c v"I.· 11<'1" n quando " ale per n + I."
_" Cfr. II. Ru s su.l., Introdl/clioll lo Mal l:~m a/icaJ rhiloJ opl:y, n .
p llolo lerzo , p. 27 Itrad. ciI., l' f'. 28 sgg.].
97
cordare che si possono fare scoperte non soltanto in
aritmetica, ma anche in geometria e in logica for-
male, dove dell'induzione matematica non si fa uso.
Perciò, anche se Poincar é avesse ragione a proposito
dell'induzione matematica, non avrebbe ancora for-
nito una spiegazione soddisfacente del paradosso per
cui un semplice corpus di rautologie può riuscire co-
SI interessante e sorprendente.
La spiegazione è: molto semplice. La capacità di
sorprenderei propria della logica e della matematica
dipende, come la loro utilità, dai limiti della nostra
ragione. Un essere dall'intelletto onnipotente'! non
proverebbe nessun interesse per la logica e la mate-
matica." Infatti sarebbe in grado di vedere in un
batter d'occhio tutto ciò che implicano le definizioni
impiegate e, corrispondentemente. dall'inferenza lo-
gica non apprenderebbe mai nulla di cui non fosse
già pienamente consapevole. Ma i nostri intelletti non
sono di questo tipo. Di tutte le conseguenze derivanti
dalle nostre definizioni la porzione che siamo in gra-
do di scoprire in un batter d'occhio è relativamente
piccola. Persino una tautologia COSI semplice come
=
" 91 X 79 7189 " è già al di fuori del raggio della
nostra apprensione immediata. Per essere sicuri che
"7 189" è: sinonimo di " 91 X 79" dobbiamo ricorrere
al calcolo, il qu ale è semplicemente un procedimento
di trasformazione tautologica - cioè un procedirnen-
" e lf. (-fA,, !! I h m<. 1.r>gik. Alat ht'nllJt ik ,md .\·lJlllrukt',,,,l'''. " Fin.
heit, wi' 5<'",chaft," fa""icolo Il , p. III. "E in allwj,""'H.1c. \Ve", n brauchr
keine Ln,Ltik und kcinc Mathcmatik." [Un c""re on ni>ciemc m,n Il..
bisogno né <.li logica né <.li matcmauca.I
98
to in cui cambiamo b. forma delle espressioni senza
modificarnc la significanza. Le tabelline della mel-
tiplicazicne sono regole per compiere qu esto proce-
dimento in aritmetica propri o come le leggi della lo-
gica sono regole per la trasformazione tautologica
di enunciati espressi nel simbolismo logico o nel lin-
guaggio comu ne. Siccome il procedimento del calco-
lo si compie più o meno meccanicamente, ci è abba-
stanza facile comm ettere uno sbaglio e COSI, senza vo-
lerlo, contradd irci. E ciò dà ragione dell'esistenza di
"falsità" logiche c matematiche, che altriment i po-
trebbe apparire paradossale. Il campo aperto all'er-
rare nel ragionam ento logico è chiaramente propo r-
zionato alla lungh ezza e alla complessità dci procc-
dimentc di calcolo. E allo stesso modo, quanto più <:
complessa b. proposizione analitica, tanto maggiore è
la SUJ probabilità di riuscirei interessante e sorpren-
dente.
È facile vedere che nel rag ionam ento logico il pe-
ricolo di errore si può ridurre al minimo con l'intro-
du zione di espedienti simbolici atti ad esprimere tau-
rologie di alta complessità in form a conveniente-
mente semplice. E qui ci si offre l'opportunità di csct-
citare l'invenzione nel corso di ricerche logiche. _Una
ì definizione ben scelta richiamerà la nostra attenzione
ru verità analitiche.j-hc altrimenti ci sarebbero sfuggi-
te. E quella di intrecciare definizioni utili c feconde
si può considerare un'atti vità creativa.
Avendo dimostrato che la prospettiva per cui le
verità della logica e della matema tica sono tutte ana-
litiche non imp lica nessun paradosso inesplicabile.
possiamo adotta rla senza timore come la sola spiega-
zione sodd isfacente della loro necessità a priori. E
nell'adottarla di fendiamo la tesi empiristica dell'im-
possibilità di una conoscenza a priori del reale. Ab-
biamo infatti mostrato che le verità della ragion pura,
le p roposizioni che sappiamo valide indi pend ent e-
mente da ogn i esperienz a, sono tali solo a causa della
loro man canza di contenuto fatt uale. Dire vera a
priori una proposizion e equivale a d ire che è una tau-
rologia. E le rautologic, benché ci possano servire da
guida nell'ind agine empirica intesa al. sapere, in se
stesse non contengono nessuna inform azione intorno
a dati J i fatto.
100
Capitolo quinto
Verità e probabilità
101
che a nessuna teoria si può richiedere di occuparsenc.
Abbiamo già notato che tutte le domande della for-
ma " qua l è la natura d i x? " sono richieste di defini-
zione di un simbolo nell'uso, e che richiedere la defi-
nizione d'uso d i un simbolo x equivale a chiedere co-
me gli enunciati in cui figura x si trad ucano in cn un-
ciati eq uivalenti che non contengono né x né alcuno
dei suoi sinonimi. Ap plicando tutto ciò al caso della
" verità," scopriamo che chiedere" Che cosa è la ve-
rità ?" equivale a chiedere una traduz ione siffatta del-
l'enun ciato" (la proposizione) p è vera."
Qui, si potrebbe obiettare, stiamo ig norando il fat-
to che l'essere vero o falso non si dice . soltanto di
proposizioni, ma anche di affermaz ioni, asserzioni,
giudizt, supposizioni, opinioni e credenze. Ma, ri-
spondiamo, dire veri il giudizio o l'affermazione o
la credenza è sempre un modo ellittico di attribuire
verità alla proposizione giudicata o affermata o cre-
duta. Se, per esempio, dico vera la credenza marxista
che il capitalismo porta alla guerra, vengo a d ire
semplicemente che è vera la proposizione cred uta
dai marxisti " II capitalismo porta alla guerra "; e
questa esemplificazione resta valida anche qua ndo
alla parola " credenza " si sostituisca la parola " opi-
nione" o " assunzione " o qual unqu e altra di quelle
sopra elencate. Inoltre V:J. chiarito che q ui non stiamo
abbracciando la dottrina metafisica delle proposizio--
ni come entità reali.' Considerando le classi una spe-
cie J elle costruz ioni logiche, possiamo defi nire la
, l'er una erilica di <tU"!.1 dallrin a, ,-ed i G. RvLF. , Art' rhne
l'rOPOsiliolU?, ..Ari'l ole1 i.Jn Socicly rr<x:croi ng. ," 1929· )9J O.
lOZ
proposizione come la classe degli enu nciati che han-
no la stessa significanza intenzion ale per chiunque
li capisca. Cosi, per esempio, gli enunciati "Sono
malato," "I ch biu krank," "{c suis malade," sono
tutt i element i della proposizione " Sono malato." E
da qu ello che abbiamo detto precedentemente a pro-
posito delle costruz ioni logiche dovrebbe risultare
con chiarezza che non stiamo d icendo la proposi-
zione una collezione di en unciati, ma asseriamo
piuttosto cile parlare di quella data proposizione è
un modo di parla re di certi enunciati, proprio co-
me parla re di enunciati, in questo uso istituzionale,
i:: un modo di parlare intorno a segni par ticolari.
Ritornando all'analisi della verità, troviamo che
in tutti g li enuncia ti della forma" (la proposizione)
p è vera," la locuzione .. è vera " in sede logica è
superflua. Quando, per esempio, si dice che è vera
la proposizione "La regina An na è morta," tutto
ciò che si va dicendo è che è morta la regina Anna .
E allo stesso modo, quando si dice che è falsa la
proposizione" O xford è la capitale dell'Inghilterra,"
tutt o ciò che si viene a dire è che Oxford non è la
capitale dell'I nghilterra. Cosi, dire vera la prop osi-
zione equivale ad affermarla, e d irla falsa equivale
ad affermare la sua contraddittorfa. E ciò indica che
i termin i "v ero" e "falso" non offrono i connotati
di qua lcosa, ma semplicemente funz ionano nell'e-
nunciato come contrassegni dell'affermazione e del-
la negazione. E in tal caso non può avere senso chie-
derci di anal izzare il concetto di "verità."
Sembra quasi troppo ovvio rammen tare questo
103
punto e tuttavia la preoccupazione dei filosofi nei
confronti del " problema della verità" mostra che
non ne hanno tenuto conto. Li scusa il fatto che in
genere ci si riferisce alla verità in enunciati dove la
form a gramm aticale suggerisce che la parola" vero"
stia per una qua lità o una relazione auten tica. E una
considerazione superficiale d i questi enunc iali po-
trebbe far supporre che nella domanda " Che cosa
è la verit?!. ?" vi sia qualcosa di più di un a richiesta
d'analisi dell'enunciato " p è vera. " Ma quando si
passa all'anal isi degli enunciati in parola, si scopre
semp re che contengo no sorto-enunciati della forma
" p è vera " o "p è falsa," e che una volta tradotti in
modo da rendere espliciti questi sotto-enunciati, i
primi non contengono nessun altro accenno alla ve-
rità. COSI, per fare due esempi tipici, l'enu nciate "Lo.
proposizione non diviene vera per il solo fatto di es-
sere creduta " eq uivale a " Per nessun valore di p o
di x, 'x crede p' implica 'p è vera"' ; e l'en unciato
..A volte la verità è più strana della finzione " equi-
vale a "S i dan no valori di p e d i q per cui p è vera
e q è falsa e p è più sorprendente di q." E allo stes-
so risultato si perverrebbe con qual unque altro esem-
pio si volesse scegliere. In ogni caso l'analisi dell'e-
nun ciato confermerebbe lo. nostra assunzione che la
dom -n da "Che cosa è lo. verità? " è riducibilc alla
domanda" Qual è l'analisi dell'enun ciato 'p è vera' ?"
Ed è ovvio che una domanda simile non solleva nes-
sun problema autentico, poiché abbiamo mostrato
IO'
come il ,dire che p è vera è solo un m odo di afler-
mare p.
N e concludiamo che, nei term ini in cui viene con-
cepito comu nem ente, non sussiste nessun proble ma
della ver ità. La concezion e tradi zionale della verità
come "qualit à reale " o "relazione reale " è dovuta,
come la massima parte degli erro ri filosofici, al non
aver com piuto 1111J. corretta analisi degl i enuncia ti.
Si dann o enunciati, come i du e ana lizza ti or ora, in
cui la parola "verit à" sembra stare per q ualcosa di
reale; e ciò spinge il filosofo speculativo a indagare
che cosa sia qu esto "qualcosa. " N aturalmente egli
non riesce a ottenere una risposta sodd isfacente, per-
ché la sua domanda è illegitti ma. La nostra analisi,
infatti, ha mostrato che la parola "verità " non sta
per nessuna cosa nel modo richiesto da una doman-
da simile.
N e viene che, se tutte le teorie della verità ri -
guardassero la " q ualità reale " o la " relazione reale"
per cui si suppone ingenuamente che stia le parola
" verità, " tutte queste teorie sarebbero nonscnso. Ma
in realtà si tratta invece, pcr la massima parte, di teo-
rie di un genere del tutt o d iverso. Quale si sia la do-
mand a che gli amori credono d i affrontare. qu ella
che realm ente essi vanno d iscutendo il più delle volte
è la domanda " Che cosa ren de vera o falsa la propo-
sizione? " E q uesta è l'espressione sciolta della doma n-
da " In riferimento a una qualsiasi proposizione p,
quali sono le condizion i in cui p (è vera) e quali le
• Cfr. F. P. Ruts .-". Fllrll ".1(/ l' rof>01iti o'll, in Th~ !'Otmdllf;otll
"I Mll l ho " "';f1, pp. H 2·H3.
13'
condizioni in cui non-p?" In altre parole, il più delle
volte si tratta di un modo di chiedere come si conva-
lidano proposizioni. E questa è appunto la domanda
che stavamo prendendo in considerazione all'inizio
di q uesta digressione sull'analisi della verità.
Dicendo che ci proponiamo di mostrare" come si
convalidano proposizioni," naturalmente non inten-
diamo insinuare che tutte le proposizioni si conva-
lidino allo stesso modo. Al contrario, insistiamo sul
fatto che il criterio con cui determ iniamo la validità
della proposizione a priori o analitica, non è suffi-
ciente per determinare la validità della proposizione
empirica o sintetica. La caratteristica delle proposi-
zioni empiriche sta nel fatto che la loro validità non
è puramente formale. Dire falsi una proposizione
geometrica o un sistema di proposizioni geometri-
che equ ivale a dirli in sé contra ddittori. Ma una
proposizione empirica o un sistema di proposizioni
empiriche possono essere esenti da contraddizione e
tuttavia essere falsi. In tal caso non si dicono falsi
perché presentino dei difetti formali, ma perché non
soddisfano qualche criterio materiale. E ora è affar
nostro scoprire quale sia questo criterio.
Fin qui abbiamo supposto che, sebbene differisca-
no dalle proposizioni a priori nel loro metodo di
convalidazione, le proposizioni empiriche sotto q w -
sto riguardo non differiscano fra di loro. Avendo vi.
sto che tutte le proposizioni a priori si convalidano
nello stesso modo, abbiamo ammesso senza prova
che ciò valga anche per le proposizioni empiriche.
Ma q uesta ammissione ci verrebbe contestata da mol-
106
ti filosofi che pure, quanto al resto, sono d'accordo
con noi nella massima parte dei casi: Costoro di-
107
rebbcro che fra le proposizioni empiriche si trova
una classe speciale di proposizioni la cui validità con-
sisterebbe nel fatto che esse registrano dir ettamente
un 'esperienza immediata, Q uesti filosofi sostengono
che tali prop osizion i - le possiamo chiama re propo-
sizioni "estensive " - non sono pure e semplici ipo-
tesi, ma proposizioni assolutamente cert e. Infatti si
suppone che esse abbiano carattere esclusivamente
dimo strativo e che per ciò non siano suscettibili di
confut azione da par te dell'esperienza successiva, E
in qu esta prospettiva esse risultano le sole proposi-
zioni empiriche che sono certe. Le altre sono ipote si
derivant i la propria validità dalle loro relazioni con
proposizioni esten sive. Infatti la prob abili tà di que.
stc altre si ritien e determinata dal num ero e dalla
varietà delle proposizion i estensive da esse deduci-
bili.
Ch e le proposizioni sintetiche non puramente
estensive non siano logicamente indubitabili, lo pos-
siamo ammettere senz'al tro discorso. Ciò che non
siamo in grado di ammettere è che alcun e proposi-
zion i sinte tiche siano puram ente estensive.' Cons ta
infa tti che la nozione di proposizione estensiva com-
por ta un a contraddizione di termi ni. Implica che
si possa dare un enunciato costituito da simboli pu-
ramente dimostrativi e al tempo stesso intelli gib ile.
E questa non è nepp ure una possibilità logica. L'c-
• Veùi a nche RUDOI- F C ARS.\P, Urbt1- p,% l(olsii/u , ~E .kenn tn is , "
yol. ili ; OTTo NU;UTll , p'·olokolsiilu , " E.k enmni s," voI. III, e Ra-
tiil(afu l'hysika/iw w s ,md uWi'klichr Wdl ,u "E. kenm ni, ," vol . I V,
f~sc:ic"l " V; c C ARI- I IF.MI'H., On lhr I.ocicai Posil;"Ìlu' Th~OTY al
T ,"'th, "A naly, ;s," voI. Il , n- ~ .
108
nunciato che consistesse di simboli dimostrativi non
esprimerebbe una autentica proposizione. Sarebbe
una pura e semplice esclamazione, per nu lla in gra-
do di caratter izz are ciò a cui si supponeva che si
riferisse.'
Il fatto è che col lingu aggio non si può ind icare
un oggetto senza delinear lo. Se l'enu nciato ha da
esprimere una proposizione, non può limitarsi a da.
re un nome alla situazione, deve dirne qualcosa. E
delineando la situazione, non ci si limita a " regi-
strar, " un contenuto sensoriale; in un modo o nel-
l'altro lo si classifica sempre, e questo significa già
andare oltre l'immediatamente dato. Di contro, la
proposizione sarebbe osrensiva solo limitandosi a re-
gistrare ciò d i cui si avesse esperienza immediata,
senza nessun riferimento al di là di qu esta. E sicco-
me ciò non è possibile, ne viene che nessuna au ten-
tica pro posizione sintetica può essere estensiva, né,
d unq ue, assolutamen te certa.
Pertanto noi non sosteniamo semplicemente che
non si esprimono mai proposizioni estensive, ma
che è inconcepibile se ne possa mai esprimere una.
Che non si esprimono mai proposizioni estensive, lo
potrebbero amm ettere anc he q uanti credono alla lo-
ro possibilità. Essi concederebbero che nell'effettiva
pratica linguistica non ci si limita mai a delineare le
qual ità dci contenuto scnsorialc immediatamente
presente, ma lo si tratta semp re come se fosse una
cosa materiale. Ed è ovvio che neppu re sono osrcn-
109
sive le propOSIZIOni In cui formuliamo i nostri co-
muni giudizi intorno a cose materiali, dal momento
che si riferiscono a una serie infinita di contenuti
effettivi e possibili. Ma la possibili tà di form ulare
proposizioni che segnalino semplicemente qualità di
contenuti senza esp rimere giudizi di percezione, in
linea di prin cipio resta aperta. E appunto queste
proposizioni artificiali si vuole che siano proposizio-
ni ostensive autentiche. Da qua nto già abbiamo dct-
to dovrebbe essere chiaro che questa pretesa è in-
g iustificata. E se in proposito resta ancora qualche
dubbio, possiamo toglierlo con l'aiuto di un esem-
p i O.
Poniamo che io asserisca la proposizione " Questo
~ bianco, " e che le mie parole non si intendano ri-
ferite alla cosa, come normalmente avviene, ma al
contenuto sensoriale. Quanto allora vengo a dire di
q uesto contenuto è che si tratta di un elemento ap-
partenente alla classe dei contenuti scnsoriali per me
costituente il " bianco" ; o, in altre parole, che q ue-
sto contenuto è di colore simile a certi altri con-
tenuti, e precisamente a que lli che io classificherei,
o effettivamente ho classificato, come bianchi. Inol-
tre vengo a dire, a mio avviso, che esso in qu alche
mod o corrisponde ai contenuti costituen ti il " bicn-
co " anche per altre persone ; tant'è vero che, se sco-
pr issi di avere una sensibilità cromat ica anormale,
ammetterci che il contenuto in parola non sia bian-
co. Ma anche escludendo ogni riferimento ad altre
persone, è ancora possibile pensare a una situazione
che mi porterebbe a supporre errata la mia clas-
110
sificaaione del contenuto. Per esempio, potrei aver
scoperto che, nel provare un contenuto scnscriale di
una certa q ualità, fin qui io ho semp re compiuto un
movimento corporeo ben preciso; e poi in un sin-
gola caso potrei trovarmi di fronte a un contenuto,
c asserire che ç di q uella qua lità, pur senza compiere
la reazione corporea che avevo finito per associargli.
In un caso simile probabi lmente abbando nerei l'i-
potesi che i contenuti di q uella q ualità stimolino
sempre in me quella reazione corporea. Ma nessuna
logica mi obbliga ad abbandonare tale ipotesi. Se lo
trovassi più opport uno, potrei mant cncrla valida
supponendo di aver risposto davvero con la reazione
solita, senza accorgermene, o, in alternativ a, che il
contenu to non avesse la quali tà da me attr ibuitagli.
O ra, il fatto che questo è possibile, cioè non implica
contraddizione logica, prova come la proposizione
che segnala la qualità di un contenuto presente si
possa legittimamente porre in dubbio alla stessa strc-
gua di qualunque altra proposizione empirica.' E
ciò d imostra che una proposizione siffatta non è
estensiva, poiché abbiamo visto che una proposizio-
ne estensiva non si potr ebbe porre legittimamente
in dubbio. Ma i soli esempi d i proposizioni estensive
che quanti credono nella loro possibilità si siano mai
• Nalura!mCIl1C coloro che cr"lono ncllc propm izioni uO<1cmive, ~
nOn w>tcngon n che una proposizi"ne c"me "QUC> lO è bianco ~ sia
valiJ a in viml della sua sola forma . Asseriscono invece ch~, quanJo
io ho "'p"'ri~nza effctnva d i un con t~nut" ..,nsorb!c bianco. wno au-
torizz:Jlo a Cl","iderare la propm izjone "QUC110 è bianco " obi~ltiva'
mente ceru. Ma può davvero essere che non intcndano asserire nu lla
di piu ,ld la ban.l!c l.1utolnllia per cui quando ,"" lo q ualcosa di
bi~nco, allora 'lO vedendo q uakor.:a di b~HICO? Cfr. la nota seguente.
111
azzardati a dare, sono appunto proposizioni che se-
gnalano effettive q ualità di contenuti presenti. E se
neppure queste proposizioni sono estensive, è certo
che di proposizioni estensive non ve ne sono.
Negare la possibilità di proposizioni siffatte natu -
ralm ente non significa negare che in ciascuna delle
nostre esperienze vi sia realm ente un elemento " da-
to." E tanto meno intendiamo insinu are che le no-
stre sensazioni siano per se stesse dub bie. Un'affer-
mazione simile non avrebbe senso. Poiché le sensa-
zioni non sono cose che poss:mo essere dubbie o in-
dubb ie. Semplicemente hanno o non han no luogo.
D ubbie sono, se mai, le proposizioni che si rifcri-
scono alle nostre sensazioni, comprese le proposizioni
che segnalano qualità di un contenuto presente o
che asseriscono l'aver avuto luogo di un certo conte-
nuto. Identificare una proposizione di quest'ultimo
tipo con la sensazione stessa, in sede logica sarebbe
ovviamente una svista grossolana. E tuttavia sospet-
to che la teoria delle proposizioni estensive sia il ri-
sultato di una simile sottaciuta identificazione. t
difficile dar sene ragione altrimenti.'
Comunque sia, noi non staremo a perdere tempo
speculando intorno alle origini di q uesta falsa dot-
112
trina filosofica. Simili questioni si possono lasciare
allo storico. Il nostro compito era q uello di mostrare
la falsità della dottrina, c ciò è quanto possiamo one-
stamen te ritenere d i aver fatto. Ora dovrebbe essere
chiaro che non vi sono proposizioni empiriche asso-
lutamente certe. Certe sono solo le tautologie. Le
proposizioni empiriche sono tutte quan te, senza ec-
cezioni, ipotesi verificabili o falsificabili dall'espe-
rienza effettiva. E le proposizioni in cui registriamo
le osservazioni di verifica per q ueste ipotesi, sono a
loro volta ipotesi soggette alla prova dell'esperienza
successiva. Perciò non vi sono proposizioni ultime.
Quando intrap rendiamo la verifica dell'ipotesi, pos-
siamo fare un' osservazione che per il momento ci
soddisfa. Ma già nell'istante dopo possiamo dubitare
che q uell'osservazione abbia avuto realmente luogo.
ed esigere un nuovo procedimento di verifica per
rassicurarci. Né si dà logicamente alcuna ragione
per cui questo modo di procedere non debba con-
tinuare indefinitamente, ogn i verifica fornendoci
una nuova ipotesi, che a sua volta conduce a una
serie successiva di verifiche. Nella pratica noi pre-
supponiamo la fidatezza di certi tipi d i osservazione,
e ammettiamo le ipotesi relative al loro aver avuto
luogo senza stare a imbarcarci in verifiche. Però non
procediamo in qu esto modo per obbed ienza a qual-
che necessità logica. ma per un motivo puramente
pramrnatico d i cui -picghcrcmo la natura fra poco.
Quando si parla d i ipotesi verificate nell'espcricn-
za, è importante ricordare che non si tran a mai d i
una singola ipotesi verificata o falsificata dall'esser-
II I
vazionc, ma sempre d i un sistema di ipotesi. Sup-
poniamo di aver progettato un esperimento per mct-
tere alla prova la validità di una "l egge " scientifi-
ca. La legge dice che in certe condizioni ci trove-
remo sempre di fronte a un certo tipo d i osserva-
zione. Ora, nel nostro caso particolare, da un lato
può darsi che noi compiamo l'osservazione come
predice la legge. E allora quan to ne esce provato
con evidenza non ~ solo la legge, ma anche le ipo-
resi che asseriscono l'esistenza delle condizioni ri-
chieste. Infatti possiamo ritenere che la nostra osser-
vazione sia di specifico rilievo per la legge, solo se
assumiamo l'esistenza di qu este condizioni. Oppure,
in alternativa, possiamo d'altro lato non riuscire a
compiere l'osservazione che ci attendiamo. E in tal
caso siamo in d iritto di concludere che il nostro
esperimento infirma la legge. Ma nulla ci obbliga
ad adottare questa conclusione. Se desideriamo sal-
vare la legge, ci è lecito di farlo abbandonando una,
o più di una, delle altre ipotesi di rilievo. Potremmo
dire che le condizioni dell'esperimento compiuto in
realtà non erano qu elle che sembravano, c costruire
una teoria per spiegare come ci accadde di sbagliarci
in proposito; oppure potremmo dire che qualche
fattore da noi trascurato come irrilevante, in realtà
non era irrilevante, e confortare que sta prospettiva
con ipotesi supplementari. Potremmo persino assu-
mere che la nostra osservazione negativa fosse una
allucinazion e e in realt à l'esperimento non fosse sfa-
vorevole. In tal caso accanto alle ipotesi che segna-
lane le condizioni in cui supponiamo abbia avuto
111
luogo l'osservazione, dovremmo addu rre le ipotesi
che registrano le condizioni ritenute necessarie per
"aver luogo della allucinazione. Altr imenti verremo
a sostenere ipotesi fra loro incom patibili. E questa è
la sola cosa che non ci è lecito fare. Ma fintantoché
prendiamo le misure adeguate per man tenere il na-
stro sistema d 'ipotesi libero da intern e contraddi-
zioni, possiamo adotta re qualunq ue spiegazione del-
le osservazioni, a nostra scelta. Ne lla pratica la no-
ma scelta delle spiegazion i è guidata da certe consi-
derazioni, che tosto descriveremo. E queste consi-
derazioni hanno l'effetto di limitare la nostra liber-
t,l quan to al mantenimento e all'abbandono di ipo-
resi. Ma in sede pura mente logica la nostra libertà
non è limitata. Q ualsiasi proced imento in sé cee-
rente soddisfa le esigenze della logica.
Ne risulta che i "fatti dell'esperienza" non pm~
sono mai costringerci ad abbandonare l'ipotesi. A
d ispetto d i ogn i evidenza manifestamente contrari a
un individuo può sempre sostenere le proprie con-
vinzioni sol che sia pron to ad avanzale le assunzioni
necessarie ad hoc. Ma sebbene qual unque caso par-
ticolare che risulti negativo per l'ipotesi prediletta
possa sempre venire neutralizzato con una spiega-
zione, la possibilità che l'ipotesi da ultimo venga ab-
bandonata deve ancor sempre restare aperta. Altri-
menti non si rrntterebbc di una ipotesi autentica.
Infatti la proposizione di cui siamo decisi a soste-
nere la valid ità a dispetto di qualsiasi esperienza non
è affatto una ipotesi, ma una definizione. In altre
parole, non è una proposizione sintetica, ma ana-
11 5
lirica.
Che alcune delle nostre pi ù venerande " leggi di
natura" sono solo definizioni travestite credo sia in-
contestabile, ma non è problema che si possa aflron-
rare qui.' A noi basta ind icare come si corra il ri-
schio di prendere definizioni simili per ipotesi au-
tentiche - rischio accresciuto dal fatto che la stessa
combinazione di parole una volta, o per certa g-ente,
può esprim ere una proposizione sintetica e altra
volta, o per altra gente, esprimere una rautologia.
Le nostre definizioni delle cose, infatti, non sono
immutabili. E se l'esperienza ci porta a credere mal.
te fermam ente che ogni cosa del genere A ba la
proprietà di essere una cosa R. noi del possesso di
questa proprietà tendiamo a fare una caratteristica
definitoria del genere. Da ultimo possiamo rifiutar-
ci di chiamare A q ualcosa che non sia anche R. E
in tal caso l'enun ciato "Tutte le cose del genere A
sono E," che in origine esprimeva una generalizza.
zione sintetica, ora verrebbe a esprimere una tau ro-
logi a.
Una buona ragione per att irare l'attenzione su
qu esta possibilità ci è dala dal fatto che la negli-
genza d imostrata in proposito dai filosofi è respon.
sabilc di molta parte della confusione che guasta le
loro trattazioni delle proposizioni generali. Pren-
diamo il modello tradizionale " Tutti g li uomini so-
no mortali." Ci si dice che questa non è un'ipotesi
dubi tabile, come sosteneva Hume, ma un esempio di
• Pe r u,, 'd a boraz io l>C <li questI p ruollcll;V3, \'e<.l i Il. POl "'c..U ~ ,
l.Jl Scirtlu et l'lIypol h~sr.
116
connessione necessaria. E se chied iamo che cosa vi
sia di necessariamente con nesso, la sola risposta
m anifesta men te possibile ci d ice : il concetto di
" uomo " e qu ello d i " essere m ortale. " Ma l'unico
significato da noi attribuito all'afferma re che due
concetti sono necessariam ente connessi, è che il sen-
so dell' uno sia contenu to in quello dell'altro. COSI
di re che "Tutt i gli uomi ni sono mortali " è un esem-
pio di connessione necessaria, equivale a dire che il
concetto di essere mort ale è conte nu to nel concetto
d i uomo, e ciò è quan to dire che "Tutti gli uomini
sono m ortal i " è una tautologia. O ra al filosofo è le-
cito usare la parola" uomo " cOSI da rifiutarsi di chia-
rncre uomo qu alcosa che non sia mor tale. E in tal
caso l'enun ciato "Tutti gli uomini sono mortali, "
per q ua nto lo rigu arda, esprimerà una tautolog ia.
.Ma ciò non significa che sia una tautologia la propo-
sizione da noi comunemente espressa con l a le cnun-
ciato. Persino per il nostro filosofo, qu est'ultima t e-
sta una autent ica ipotesi em pirica. Solo che ora egli
non può più espr imerla nella forma " Tu n i gli uomi-
ni sono mortali." D ovr à dir e piuttosto che qualun-
que COSJ abbia le alt re pr oprietà definitorie del-
l'u omo, ha anche la proprietà di essere mortale, o
q ualcosa del genere. COSI, con una pi ù adeg uat a ric-
laborazi onc delle nost re definizioni, ci è lecito crea-
re delle tauto logie ; ma con semplici giochetti sui
significati delle parole non possiamo certo risolvere
dei problemi em pirici.
Quando il filosofo dice che la proposizione "Tut-
ti gli uom ini sono mortali" è un esempio di connes-
117
sione necessaria, naturalment e non intende dire che
si tratta di una taurologia. I ndicare che q uesto è ap-
punto tut to quanto egli può andar dicendo se le sue
parole devono conservare il loro senso comune, toc-
ca a noi. Ma, a mio avviso, egli trova possibile soste-
nere che q uesta proposizione generale sia sintetica e
insieme necessaria, solo perché tacitamente la iden-
tifica con la tautologia che per mezzo di conven-
zioni adeguate si potrebbe espr imere con la stessa
combinazione d i parole. E lo stesso vale per tutte le
altre proposizioni generali esprimenti leggi. Possia-
mo volgere in espressioni di definizioni gli enuncia-
ti che ora le esprimono. E in tal caso questi enuncia-
ti esprimeranno proposizioni necessarie. Ma queste
ultime saranno proposizioni diverse dalle generaliz-
zazioni d i partenza, che, come vide H umc, non pos-
sono mai essere necessarie. Per quan to ferma mente
noi le cred iamo, è sempre concepibile che una fu-
tura esperienza ci spinga ad abbandonarle.
Q uesto ci porta ancora una volta alla domanda :
quali considerazioni determina no, in una data situa-
zione, le ipotesi di rilievo specifico da mantenere e
quelle da scartare? A volte si è suggerito che in ciò
sia nostra unica guida il principio dell'economia o.
in altre parole, il nostro desiderio di mod ificare il
meno possibile il sistema d'ipotesi da noi precedcn-
Temente accolto. E senza dubbio noi proviamo q ue-
sto desiderio e in qualche misura ne siamo influen-
zati, ma qu esto nOI1 è l'u nico fattore e nemmeno
quello dominante nel nostro modo di procedere. Se
l'intera faccenda per noi si risolvesse nel mantenere
1l~
inta tto il vigente sistema d' ipotesi. non ci sentirem-
mo obbligati a tener conto delle osservazioni sfavo-
revoli. Non sentirem mo neppure il bisogno di da r-
ne spiegazione in un modo o nell'altro , nemmeno
introducendo l'ipotesi di essere stati vittime di allu-
cinazio ni. Ci limiteremmo a ig norare il fatto. Ma in
realt à noi non trascuriamo le osservazioni che non
q uadrano. Ogni volta che q ueste ci si presentano,
siamo condott i ad apportare qu alche modifica al
nostro sistema d'ipotesi anche a dispetto del nostro
desiderio di mantcne rlc intatto. E perché questo ?
Rispondendo a quest'ultima domand a c cioè mo-
strando perché mai troviamo necessario modificare
il sistema, verremo a collocarci in una posizione mi.
gliorc per decidere quali siano i pr incipi rispetto a
cui vengono effettivamente compiute le modifiche.
Per risolvere queslo problema dobbiamo chieder.
ci: qual è lo scopo della formulazione d i ipotesi?
Perché, anz itutto, costruiamo q uesti sistemi? Ri-
spendiamo che qu esti sistemi sono progettati per
menerei in grado di an ticipare il corso delle nostre
sensazioni. LJ funzi one del sistema d'ipotesi è quel.
la di avvertirci in anticipo di q uale sarà la nostra
esperienza in un certo campo, per metterei in grado
di fare predizioni accurate. Perciò è lecito concepire
le ipotesi come norm e regolanti la nostra aspetta-
zione dell'esperienza futura. No n occorre dire per-
ché abbiamo bisogno di regole siffatte. Dalla capa-
cità d i avanzare predizioni giuste dip ende evidente-
mente la possibilità di sod disfare anche il più sem-
plice dei nostri desideri, compreso qu ello di soprav-
l''
Vivere,
Ora il tratto essenziale del nostro modo di proCt:~
dere nella formulazione di queste regole è l'uso del-
l'esperienza passata come guida per il fut uro. Ab-
biamo già avuto occasione di notarlo trattando il co-
siddetto problema dell'induzione, e abbiamo visto
che esigere un a giustificazione teoretica di que sta
procedura non ha senso. Il filosofo deve acconten-
tarsi di registrare i farti del procedimento scientifi-
co. Se, non contento di mostrare che tale precedi-
mento è in sé coerente, cerca anche di giustificarle,
si trova coinvolto in problem i che non sono proble-
mi. Su questo punto abbiamo già insistito più sopra,
e non staremo a prcoccuparccne più oltre.
Che dunque le nostre previsioni dell'esperienza
futura vengano in qua lche modo determi nate da
quello che abbiamo sperimentato in passato, q ui lo
notiamo come un fatto. E questo fatto spiega per-
ché la scienza, che è essenzialmente p reditiva, in
q ualche misura è anche descrizione della nostra
esperienza,' Ma va notata pure la nostra tendenza a
ignorare q uei tratti dell'esperienza che non possono
divenire la base di generalizzazioni feconde. E, di
pi ù, qu ello che noi effettivamente descriviamo, lo
descriviamo con una certa libertà. Come osserva
Poincaré : "Non ci si limita a generalizza re l'cspe-
rienza, la si corregge ; e il fisico che convenisse d i
120
asten ersi da queste correz ioni e davvero si acconten-
tasse della pura e sem plice esperienza, sarebbe co-
stretto ad enunciare le leggi più straord inarie, ,,,.
Ma anche se ne l fare le nostre predizioni non se-
g uiamo supina mcn te l'esperienza passata, ne siamo
gui da li in misura multo amp ia. E ciò spiega perché
di Fatto non trascuriam o la conclusione dell'esperi-
mento sfavorevole. Presum iamo che, caduto una pri-
ma volta . quel sistema d 'ipotesi abbia probabilità di
ricadere. Potrem mo, natural me nte, supporre che
flan sia caduto affatto. m a con qu esta suppos izione
crediamo di non guadagnarci altrettant o quan to ri-
conoscendo che in qu el COISO il sistem a è realmente
venuto meno, e perciò richiede qua lche modifica
per flan venire meno di nuovo. Lo mod ifichiamo
perché siamo dcll'av-.. iso che le modifiche lo renda-
no uno stru men to più efficiente per l'anticipazione
d ell'esperienza. E un a credenza simile deriva anco-
ra d al principio-guida che, parlan do generica mente,
il corso futuro delle nostre sensaz ioni debba essere
conforme al passato.
Questo desiderio di avere un insieme efficiente di
regole per le predizioni non solo ci spinge a pren-
d er nota delle osservazion i sfavorevoli. m a è anche
il fattore principale nella determ inazione dci nostro
m odo di aggiustar e il sistema per fargl i coprire i
dati nuo vi. È vere che siamo viziati da spirito con-
servatore c preferiremmo appor tare modifiche pie-
cole piut tosto che gran d i. Ammettere che il siste-
]2 1
ma vigente presenti delle deficienze radicali ci rie-
sce spiacevole e seccante. Ed è pure vero che, a pJ-
rità di condizioni per tutto il resto, preferiamo le
ipotesi semplici a q uelle complesse, da capo ' per il
desiderio di risparmiar fatica. Ma, se l'esperienza ci
porta a supporre necessari dei cambiamenti radi-
cali, siamo pronti a produrli q uand'anche, come
mostra la storia delle fisica contemporanea, essi vcu-
gane a complicarci il sistema. Quando l'osservazio-
ne urta contro le nostre più forti aspettative, il par-
tito più comodo consisterebbe nell'ignorarla o neu-
tralizzarla ad ogni costo con spiegazioni. $e di fatto
scartiamo q uesto partito, ciò avviene perché, lascian-
do il sistema cOSI come sta, pensiamo di dover soffri-
re altre delusioni. Pensiamo di accrescere l'efficien-
za del sistema quale strumento di predizione ren-
dcudolo compatibile con l'ipotesi che l'osservazione
indesiderata abbia avuto luogo. Se abbiamo o non
abbiamo ragione di pensare COSI. non è cosa che si
possa decidere con argomentazioni. Possiamo solo
aspettare per vedere se il nuovo sistema dà o non
dà risultati positivi nella pratica. Se non ne dà, lo
modifichiamo di nuovo.
Ora abbiamo ottenuto l'informazione richiesta
per rispondere alla nostra domanda di partenza :
" Con q uale criterio mettiamo alla prova la validità
della proposizione empirica ?" La validità della pro-
posizione empirica, possiamo ora rispondere, si pro-
va andando a vedere se essa svolge effettivamente la
funzione per cui è desig nata. E abbiamo visto che la
funzione dell'ipotesi empirica è quella di metterei
122
in grado di anucrpare l'esperienza. Corrispondente-
men te, se l'osser vazione che int eressa in modo spc-
cifico una da ta proposizione si conforma alle nostre
aspettative, la verità d i q uella proposizione ne riceve
conferma. La proposizione non si può d ire provata
come assolutamente valida, perché è ancora possi-
bile che un'osservazione futura le tolga credito. Ma
si può dire accresciuta la sua probabilità. Se invece
l'osservazione riesce contraria alle nost re aspettati-
ve, allora la cond izione di legittim ità della proposi-
zione interessata è posta in scacco. Noi possiamo
mantenerla adottando o abbandonando altre ipote-
si, oppu re possiamo considerarla confutat a. Ma an-
clic se la scar tiamo in conseguenza dell'osser vazione
sfavorevole, non la si può dir e annulla ta assoluta-
mente. Infatti è ancora possibile che le future osser-
vazioni ci portino a riaffermarla. Si può solo d ire
diminuita la sua probabilità.
Ora è necessario chiarire che cosa si intende in
questo contesto con il termine "probabilità. " Nel
fare riferimento alla probabilità della proposizione,
non ci riferiamo, come a volte si suppone, a una sua
prop rietà intrinseca o a qualche relazione logica
non analizzabile che la legh i ad altre proposizioni.
Parlando approssimativamente, tutto ciò che inten-
diamo d icendo che l'osservazione aumenta la proba-
bilità della pro posizione è l'aumento della nostra
fiducia nella proposizione stessa - fiducia d i cui dà
misura la nostra propensione a fare assegnamento
pratico su tale proposizione come a previsione delle
nostre sensazioni, e a mantencrla a preferenza di al.
123
tre ipotesi malgrado esperienze sfavorevoli. Allo stes-
so modo, dire che l'osservazione diminuisce la pro-
babilità della proposizione equivale a dire che noi ci
facciamo meno propensi ad includere tale proposi-
zione nel sisterm delle ipotesi accettate a nostra gui-
da per il futuro."
CoSI com'è, questa spiegazione del concetto di pro-
babilità suona in certo modo troppo semplificata.
Suppone un trattamento uniforme e in sé coerente
d i tutte le ipotesi, su un piede di parità, il che pur-
troppo non è vero. Nella pratica non sempre pre-
stiamo credito all'osservazione nel modo gcneralmen-
le riconosciuto come il più fidato, Per quan to rico-
nosciamo che nella formazione di credenze dovreb-
bero essere semp re osservati certi principi di riferi-
mento per l'evidenza, non sempre li osserviamo. In
altre parole, non sempre siamo razionali. Essere ra-
zionali infatti significa semplicemente impiegare u n
procedimento in sé coerente e accreditato nella for-
mazione delle proprie credenze. Il procedimento in
rapp orto al q uale determiniamo ora se una credenza
è o non è razionale, in seguito può perdere la nostra
fiducia, ma q uesto fatto non toglie n ulla alla razro-
nalit à dci nostro adottare ora questo proced imento.
Infatti definiamo razionale b. credenza q uando ci si
arriva coi metodi che riteniamo fida ti ora. Non vi
è nessun principio assoluto di razionalità, cosi come
non vi è nessun metodo garantito sicuro per costrui-
re ipotesi. Prestiamo fiducia ai metodi della scienza
" "'Olufalmen te non , i intende far valNe qUC'1a definizione f"'r
l'u:I<I matematico corrente dd ln mine ~ pwba biIiI:a."
contemporanea, perché hanno dato risultati pOSI tI-
vi nella pratica. Se in futuro dovessimo adottare me-
todi diversi, le creden ze che ora sono razionali , dal
punto di vista di tali metodi nuovi potrebbero dive.
nirc irrazionali. Ciò è possibile, ma non influisce me-
nomamcntc sul fatto che q ueste credenze ora sono
razionali.
Questa definizione della razionalità ci perm ette d i
perfezionare il chiarimento di qua nto si intende col
termine "probabilità " nell'uso istituzi onale ora in
q uestione. Dire che l'osservazione aumenta la pro-
babilità dell'ipotesi non equivale sempre a dire un
au mento d i grado della fiducia da noi prestata alla
ipotesi e misurata dalla nostra pront ezza ad agire in
base ad essa : infa tti potremmo comportarci irrazio-
nalmen te. Eq uivale piuttosto a dire che l'osservazio-
ne accresce il grado della fiducia che all'ipotesi sa-
rebbe razionale prestare. E qu i ripetiamo che la ra-
zionalità della credenza non si deduce da principi
assoluti, ma si definisce in rapporto a parte della no-
stra pratica effettiva.
L'ovvia obiezione alla nostra prima definizione
della probabilità era la sua incompatibilità con il fat-
to che circa la probabilità della proposizione a volte
ci si sbaglia, che la si può credere pi ù o meno proba-
bile di qu anto in realtà non sia. È chiaro che la de-
finizione perfezionata non incorre più in tale obie-
zione. Infatti in questa seconda definizione la proba-
bilità della proposizione è determi nata sia dalla nat u-
ra delle osservazioni sia d alla nostra concezione della
razionalità. Cosicché, se qualcuno presta credito alla
125
osservazione in modo non conforme al metodo scien-
lifico ora più accreditato di valutazione delle ipote-
si, è compatibile con la nostra ultima definizione del.
la probabilità dire che costui si sbaglia circa la pro--
babilità delle proposizioni cui dà l'assenso.
Con questo chiarimento a proposito della probabi-
lità completiamo il nostro discorso sulla validità del-
le proposizioni empiriche. Il punto su cui dobbiamo
insistere per finire è che quanto abbiamo notato vale
per tutte le proposizioni empiriche senza eccezione,
siano singolari, o particolari, o universali. Ogni pro-
posizione sintetica è una regola per l'anticipazione
dell'esperienza futura e si distingue per contenuto da
altre proposizioni sintetiche in quanto interessa situa-
zioni diverse. Se, dunque, le proposizioni riguardan-
ti il passato hanno lo stesso carattere ipotetico di
quelle riguardanti il presente e di quelle che riguar-
dano il futuro, ciò non implica affatto che questi
tre tipi di proposizioni non siano distinti. Servono a
predire esperienze diverse e da esperienze diverse
vengono verificate.
Forse proprio per insufficiente valutazione di que-
sto punto, certi filosofi hanno potuto negare che le
proposizioni intorno al passato siano ipotesi nello
stesso senso in cui sono ipotesi le leggi della scienza
naturale. Infatti non sono riusciti né a sostenere la
loro prospettiva con argomenti sostanziali, né a dire
che cosa siano queste proposizioni, se non sono ipo-
tesi del tipo test é delineato. Da parte mia, non trovo
nulla di eccessivamente paradossale nella prospettiva
per cui le proposizioni intorno al passato sono regole
' 26
per la predizione d i quelle esperienze " storiche " che
comunemente si ritiene le verifichino," né vedo come
si debba altrimenti analizzare " la nostra conoscenza
del passato." Di più, q uanti protestano contro il na-
stro modo di trattare pramm aticamente la storia, so-
spetto che in realtà fondino le loro obiezioni sulla
sortaciuta, o esplicita, assunzione dci passato come
q ualcosa di " obiettivamente là " cui ci si debba atte-
nere : qu alcosa di "reale" nel senso metafisica dci
termine. E da quanto abbiamo notato intorno all'e-
sito metafisico dell'idealismo e dci realismo, è chiaro
che una assunzione simile non è ipotesi autentica."
127
Capitolo sesto
128
possono essere né vere né false. Nel sostenere q uesta
prospettiva, per il momento ci possiamo limitare al
caso delle affermazioni etiche. Q uanto diciamo di
q ueste si troverà che vale, mutatis mutandis, anche
nel caso delle affe rmazioni estetiche.'
Cosi come si trova elaborato nelle opere dei filosofi
che si occupano di etica, il sistema etico comune è
ben lontano dal costituire un tutto omogeneo. Non
eolo si adatta a contenere brani di metafisica c cna-
lisi di concetti non-etici, ma i suoi contenuti etici
effettivi sono a loro volta di tipi molto diversi. Pos-
siamo, anzi, disting uerli in q uattro classi principali.
Vi sono, in primo luogo, proposizioni che esprimono
definizioni di termini etici, ovvero giudizi intorno al.
la legittimità o possibilità di certe definizioni. In
secondo luogo si dànno proposizioni che d escrivono
i fenomeni dell'esperienza morale e le loro cause. In
terzo luogo vi sono esortazioni alla virt ù morale. E,
da ultimo, si dann o effettivi giudizi etici. Purt roppo
si d:l il caso che la distinzione, pur COSI lineare, d i
queste quattro classi sia comunemente ignorata d ai
filosofi; con il risultato che spesso dalle loro opere
riesce molto difficile d ire cosa vadano cercando di
scoprire o di provare.
In realtà è facile vedere che so lt~.v.!2.. IJ. prima del-
le nostre q uattro classi, c precisamente quella com-
prendente te..p ropQ~zion i che si riferiscono alle defi-
nizion i di termi ni etici, si può dire costituisca la filo-
sofi a etica. Le proposizioni che descrivono i fenome-
, L·ar.l:0menl.u ione ehe ~.l:ue si dovrebbe leggere in, ieme con
l 'Ap~ IIJi<"<'.pp. 239"12.
129
ni dell'esperienza morale e le loro cause, vanno as-
segnate alla psicologia o alla sociologia. Le esortazio-
ni alla virtù morale non sono affatto proposizioni, ma
esclamazioni o comandi con la funzione di spingere
il lettore verso azioni di un certo tipo. Perciò non
appartengono a nessun ramo della filosofia o della
scienza. Riguardo alle espressioni di giudizi etici, non
abbiamo ancora stabilito come classificarle. Ma in
q uanto certamente non si tratta né di definizioni, né
di commenti a definizioni, né di citazioni, possiamo
decidere che non appartengono alla filosofia etica.
Perciò un trattato rigorosamente filosofico intorno al-
[etica non dovrebbe presentare espressioni etiche. Ma,
sottoponendo ad analisi termini etici, dovrebbe mo-
~rare qu ale sia la categoria a cui appartengono tutte
le espressioni siffatte. E qu esto è quanto ci accingia-
mo a fare.
È problema dibattuto spesso dai filosofi che si oc-
cupano di etica se sia possibile trovare definizioni tali
da ridurre tutti i termini etici a uno o due termi ni
fondamentali. Ma q uesto problema, per quanto ap-
partenga innegabilmente alla filosofia etica, non ri-
guarda la nostra presente ricerca. Ora non ci inte-
ressa di scoprire q uale termine, entro la sfera dei
termini etici, sia da prendere come fondamentale;
se, per esempio, "buono" si possa definire in tenni-
ni di " giusto," o " giusto" in termini di "buono." o
l'un o e l'altro in termini di "va lore." Quello che ci
interessa è la possibilità di ridurre'" l'intera sfera dei
termi ni etici a termini non-etici. Vogli~1!1 Q. vedere se
.h~_affe rm azio n i di valore etico si possono tradurre in
ilO
affermaz ioni di fatto empirico .
Che cosi si possano tradurre è sostenuto dai filoso--
ii comunemente chiamati soggettivisti nell'etica, e di
quelli noti come utiliraristi. L'urilitarista infatti defi-
nisce la giustizia delle azioni, e la bontà dei fini, in
termini di piacere, o di felicità. o di soddisfazione che
le azioni producono ; il soggettivista le definisce in
termini d i sentimenti di appro vazione che un certo
individuo , o un certo gruppo sociale, provano per
quelle azioni. Entrambi qu esti tipi di definizione fan-
no dei giudizi morali una sotto-classe di giudizi psi-
cologici o sociologici; e per questa ragione esercitano
su di noi una forte attrattiva. Se, infatti, l'uno o l'al-
tro dei d ue fosse un giusto modo di ridu rre il giudi-
zio di valore, ne verrebbe che le asserzioni etiche non
sarebbero di genere diverso dalle asserzioni fattu ali
che per il solito vi si contrappongono; e la spiegazio-
ne che già abbiamo dato delle ipotesi empi riche, var-
rebbe anche per q ueste asserzioni.
Ciononostante, l'analisi che adotteremo per i ter-
mini etici non sarà né soggettivistica né utilitaristica.
Rifiutiamo la prospettiva soggettivistica, per cui chia-
mare giusta l'azione, o moralm ente buona la cosa,
equivale a dirle generalmente approvate, perché non
risulta in sé contraddittorio asserire che alcune azioni
generalmente appro vate non sono giuste, o che al-
cune cose generalmente approvate non sono moral-
mente buone. E rifiutiamo la tesi offerta in alternati-
va, sempre all'interno della prospettiva soggetrivisri-
ca, per cui chi asserisce giusta una certa azione, o
buona una certa cosa, dice semplicemente che egli
B I
da parte sua l'approva, per la ragione che chi confes--
sasse di aver talora approvato cosa cattiva o azione
ingiusta, non si contraddirebbe. E una critica consi-
mile riesce fatale all'utilitarismo. Non possiamo con-
cedere l'equivalenza fra il chiamare giusta l'azione
e il dire che fra tutte le azioni possibili nelle date
circostanze q uesta causerebbe, o avrebbe probabilità
di causare, la massima felicità, o il massimo equili-
brio con prevalenza del piacere sul dolore, o dei de-
sideri soddisfatti su quelli insoddisfatti, perché non
troviamo in sé contraddittorio dire che a volte è in-
giusto compiere l'azione che effettivamente, o proba-
bilmente, causerebbe la massima felicità o il massimo
equilibrio a favore dci piacere sul dolore, o del desi-
derio soddisfatto su quello insoddisfatto. E pcicb é
non risulta in sé contraddittorio dire che alcune cose
piacevoli non sono buone, o che alcune cose cattive
sono desiderate, neppure può essere che l'enunciato
"x è buono " equivalga a "x è piacevole" o a " x è
desiderato." E la stessa obiezione si può muovere a
ogni altra versione dell'utilitarismo di cui ho notizia.
E perciò penso dovremmo concludere che dalle mag-
giori prospettive di felicità offerte dalle azioni, la va-
lidirà dei giudizi etici non sia per nulla determ inata
più di quanto lo sia dalla natura dei sentimenti della
gente; ma che, al contrario, questa validità è da con-
siderare "as soluta " o "i ntrinseca," non calcolabile
empiricamente.
Cosi dicendo. natur almente, non neghiamo la pos-
sibilità di introdurre un linguaggio in cui tutti i
simboli etici siano definibili in termini non-etici; non
B2
n eghiamo neppure che sia desiderabile sostituire con
un lingu aggio simile quello da noi solitamente usa-
to; neghiamo soltanto che la riduzione suggerita, di
affermazioni etiche ad altre non etiche, possa mai riu-
scire compatibile con le convenzioni del nostro lin-
guaggio effettivo. Cioè, non rifiutiamo l'utilitarismo
e il soggettivismo qua li propo ste di sostituire i con-
certi etici attuali con altri nuo vi, ma proprio e solo
come analisi inadeguate dei nostri effettivi concetti
etici. Nel nostro linguaggio, la tesi da noi opposta è
semplicemen te che gli enunciati contenenti simboli
etici normativi non equivalgono a enu nciati espri-
m enti proposizioni psicologiche, o comun qu e empi-
riche, di nessun genere.
Qui è opportu no precisare che qu elli che ritenia-
mo indefinibili in term ini fattuali sono solo i simboli
etici normarivi e non i simboli etici descrittivi. Si
corre il rischio di confond ere questi due tipi di sim-
boli, perché per lo più sono costituiti da seg ni della
stessa forma sensibile. Cosi un segno complesso della
forma " x è ingiusto" può dar si costituisca l'enuncia-
:0 esprimente un giudizio morale su un certo tipo di
cond otta, come può darsi costituisca invece l'enun -
ciato affermante che un certo tipo di condotta ripu-
gna al senso morale di una particolare società. In
questo secondo caso il simbolo " ingiusto " è un sim-
bolo etico descrittivo, c l'enunciato in cui figura cspri-
me una normale proposizione sociologica ; nel primo
caso, invece, " ingiusto" è simbolo etico normativa, e
l'enun ciato in cui figura, secondo la nostra tesi, non
esprime affatto una proposizione empirica. Per il mo-
l3J
mento noi ci occupiamo soltanto dell'etica normati-
va; cosicché ogniqualvolta nel corso di questa argo-
mentazione si usano simboli etici senza specificazio-
ne, essi vanno sempre interpretati come simboli del
tipo normativa.
Ammettendo l'irriducibilità dci concetti etici fior-
mativi a concetti empirici, sembra che noi si lasci
aperta la via alla prospettiva Il assolutistica" dell'eri-
ca - cioè a quella prospettiva per cui le affermazioni
di valore non sono sottoposte al controllo dell'esser-
vazione, come lo sono le normali proposizioni empi-
riche, ma solo a quello di una misteriosa Il intuizione
intellettuale." Un tratto caratteristico di questa teo-
ria, raramente riconosciuto dai suoi sostenitori, è che
essa rende inverificabili le affermazioni di valore. In-
fatti è risaputo che quanto sembra intuitivamente cer-
to a un individ uo, a un altro può sembrare dubbio o
persino falso. Perciò, dove non sia possibile fornire
qualche criterio per decidere fra intuizioni in con-
flitto, il puro e semplice appello all'intuizione non ha
valore di prova per la validità della proposizione. Ma
nel caso dei giudizi morali non si può dare nessun
criterio simile. Alcuni moralisti pretendono di aver
appianato la questione dicendo di " sapere" che i loro
giudizi morali sono giusti. Tuttavia una simile as-
serzione è d'interesse puramente psicologico e non in-
clina menomamente a provare la validità di nessun
giudizio morale. Infatti dei moralisti dissenzienti
possono " sapere" altrettan to bene che sono invece le
loro prospettive a essere giuste. E fintantoché si trat-
terà di certezza soggettiva, non vi sarà nulla per sce-
134
glicre fra gli uni e gli altri. Qua ndo siffatte diffe-
renze di opinione sorgono intorno a una normale
proposizione empirica, le possiamo appianare rifa-
cendoci in parole, o di fatto, a qualche prova empi-
rica di specifico rilievo. Ma riguardo alle affermazio-
ni etiche, nella teoria "assolutistica " o " intuizioni-
stica, " prove empiriche di rilievo non se ne d anno.
Q uind i abbiamo il d iritto di dire che in questa teo-
ria le affermazioni etiche sono ritenute inverificabili.
E naturalmente sono ritenute anche proposizioni sin-
tetiche autentiche.
Tenend o presente l'uso da noi fatto del principio
per cui la proposizione sintetica ha significato solo se
è empiricamente vcrificabilc, accettare una teoria
" assolutistica " dell'etica comp romettere bbe evidente-
mente tutta la nostra argomentazione principale. E
poiché abbiamo già rifiutato le teorie "naturalisti-
che" che comunemente si suppone forniscano la so-
la alternativa all" assolutismo " in etica, sembra che
siamo giunt i a una posizione d ifficile. Affronteremo
la difficoltà mostrando che il modo corretto di trat-
tare le affermazioni etiche è offerto da una terza tco-
ria, del tutto compatibile con il nostro radicale empi.
n smo.
Per cominciare ammettiamo che i concetti etici
fondame ntali, in quanto non sussiste nessun criterio
per mettere alla prova la validità dci giudizi in cui
figurano, non sono analizzabili. Fin qu i siamo d'ac-
corda con gli assolutisti. Ma, diversamente dagli asso-
lutisti, noi siamo in g rado di spiegare qu esto fatto re-
lativo ai concetti etici. Diciamo che la ragione per
133
cui non sono analizzabili, sta nel loro essere pUrI
e semplici pseudo-conccni. La presenza del sim-
bolo etico nella proposizione non aggiunge nulla al
suo contenuto fattuale. COSI, per esempio, se dico a
qualcuno: ..H ai agito male rubando quel denaro,"
non sto dicendo nulla di più che se avessi detto sem-
plicemente: "Hai rubato quel denaro." Aggiungen-
do che questa azione è male, non faccio nessun'altra
affermazione in proposito. Vengo semplicemente a
mettere in evidenza la mia disapprovazione morale
dci fatto. È come se avessi detto " T u hai rubato quel
denaro," con un particolare tono di ripugnanza, o
lo avessi scritto con l'aggiunta speciale di alcuni pun·
ti esclamativi. Il tono di ripugnanza o i punti escla-
mativi non aggiungono nulla al significato letterale
dell'enun ciato. Servono solo a mostrare che in chi
parla l'espressione dell'enunciato si accompagna a
certi sentimenti.
Se poi generalizzo la mia affermazione precedente
e dico: "Rubar denaro è male," produco un enuncia-
to che non ha nessun contenuto fattuale - cioè non
esprime nessuna proposizione che possa essere vera
o falsa. h come se avessi scritto: " Rubar denaroll!"
- dove i caratteri grafici dei pun ti esclamativi, per
convenzione, mostrano che il sentimento espresso è
una speciale sorta di disapprovazione morale. t. chia-
ro che qui non si dice nulla che possa essere vero o
falso. Altri potrebbe non trovarsi d'accordo con me
circa la malvagità del furto, nel senso che gli sareb-
be lecito non provare per il furto dei sent imenti co-
me i miei, e potrebbe litigare con me a proposito del-
136
la mia sensibilità morale. Ma, parlando con n gore,
costui non può contraddirmi. Infatti dicendo che un
certo tipo di azione è giu sto o ingiusto, io non faccio
nessuna affermazione fattual e, neppure intorno alle
mie cond izioni d i mente. Esprimo semplicemente
cert i sentimenti morali. E chi si prende la pena di
contraddirmi sta sempli cemente esprimendo i propri
sentimenti morali. Cosicché evidentemente non ha
senso chiedere qu ale dei due abbia ragione, Poiché
nessuno dci due sta asserendo una proposizione au-
. ,
tennca.
Q uanto abbiamo detto or ora del simbolo " male "
vale per tutt i i simboli etici normativi. A volte si pre-
137
sentano in enunciati che, oltre a esprimere sentimenti
etici intorno a normali fatti empirici, registrano que·
sri fatti; a volte invece figurano in enunciati espri-
menti soltanto un sentimento etico per un certo tipo
di azioni o di situazioni, senza nessuna affermazione
di fatto. Ma in tutt i i casi in cui comunemente si di.
rebbe che viene compiuto un giudizio etico, la fun-
zione della parola di specifico rilievo etico è pura-
mente " emotiva." La si impiega per esprimere un
sentimento verso certi oggetti, non per fare qu alche
asserzione in proposito.
Vale la pena di ricordare che i termini etici non
servono solo a esprimere sentimento. A questi termi-
ni si ricorre anche per far sorgere il sentimen to, c
cosi stimolare l'azione. Alcuni di essi si usano, anzi,
in modo da dare agli enunciati in cui figurano l'ef-
fetto di comandi. Per esempio, l'enunciato " È tuo
dovere dire la verità " si può considerare sia come la
espressione di un certo tipo di sentimento etico ver-
so la sincerità, sia come l'espressione del comando
"Di la verità." Anche l'enunciato "Dovresti dire la
verità " implica il comando " Di Ia verità," ma q ui
l'accento dci comando ha meno enfasi. Nell'enuncia-
to .. È bene dire la verità " il comando diviene poco
più di un suggerimento. E allo stesso modo sussi-
stono differenze fra il " sign ificato" della parola " be-
ne," nell'uso etico corrente, e quelli delle parole" do-
vere" e " dovrebbcsi. 111 Di. fatro.possiamo definire il
13.
signi ficato dei vari term ini etici sia con i diversi scn-
timcnti che si presume esprim ano nell'uso comune,
sia con le divelse risposte che con essi si conta di
provocare.
Ora comprendiamo perch é è impossibile trovare un
criterio che determi ni la validità dci giudizi etici.
Non è perché essi abbiano una validità ..assoluta "
m isteriosam ente indipendente dal l'esperienza comu-
ne, ma piuttosto perché di validità obiettiva, q uale si
voglia, n on ne hann_o nessuna. Se l'enunciato non af-
ferma nulla, ovviame nte non ha senso chiedere se ciò
che afferm a è: vero o falso. E abbiamo visto che gli
enunc iati espriment i puri e sempli ci giudizi mo rali
non dicono nulla. Sono merc espressioni di sentimen-
to e come tali non cado no sotto la categor ia del vero
e del falso. Sono inverificabili per la stessa ragione
che rend e inverificabile un grido di dolore o una pa~
rola di coman do - cioè perché non esprimon o au-
ren tiche proposizioni.
CoSI, sebbene sia giusto di rla radicalm ente sogger-
rivisrica, In nostra teoria dell'etica differisce dalla teo-
ria soggettivistica ortodossa io un pu nto molto im-
port ante. Infatti il soggctt ivista or todosso non nega,
come neg hiamo noi, che gli enunciati del mor alista
es ~ri ma~o proposi.zio n~ ~ lI tc:nt ic.he. Ne~a soltanto ~h.c
essr esprima no propOSIZIOOI stlwcncrJs non em pm-
che. Nella sua prospetti va quegli enunciati espri mo-
no proposizioni intorno ai sentimenti d i chi parla. Se
COSI fosse, i giudizi etici sarebbero evidentement e su-
scettibili di suona re veri o falsi. Sarebbero veri ql1an ~
do chi par la provasse realmente i sentiment i dei caso,
119
falsi quand o non li provasse. E questa è una faccenda
che, almeno in linea di principio, si potrebbe verifi-
care empiricamente. Di più, nella sua prospettiva
questi enunciati si potrebbero contraddire in modo
significativo. Se infarti io dico "La tolleranza è una
virtù," e altri ribatte" No, tu non l'approvi," secon-
do l'ordinaria teoria soggettivisrica costui, con ciò,
verrebbe a contraddirmi. Secondo la nostra teoria, in.
vece, egli non verrebbe a contraddirmi, perché, di.
ccndo una virtù la tolleranza. io non avrei predetto
nessuna affermaz ione intorno ai miei sentimenti, n ~
intorno ad altro. Semplicemente avrei esp resso o
messo in mostra dei sentimenti, il che non è affatto
come asserire di provarli.
La distinzione fra espressione e asserzione del sen-
timento è complicata dal fatto che l'asserire di pro-
vare un certo sentimento spesso ne accompagna ap-
pun to l'espressione, e in tal caso è senza dubbio un
fattore dell'espressione di q uel sentimento. Per esem-
pio, posso esprimere noia e simultaneamen te dire che
sono annoiato; in q uesto caso il mio pronunciare le
parole "Sono ann oiato " è una delle circostanze per
cui è vero dire che io sto esprimendo o mettendo in
mostra la noia. Ma posso esprimere noia anche senza
effettivamen te dire che sono an noiato. Posso espri-
merla con gesti e toni d i voce, mentre sto parlando
d i tutt'altra cosa, o con esclamazioni, o anche senza
affatto aprir bocca. Perciò, quand'anche l'asserzione
del provare quel sentimen to impl ichi semp re l'espres-
sione di q uel sentimento, sicuramente l'espressione
del sentimen to non implica sempre l'asserzione del
HO
p rovarlo. E questo ì: il pu nto da tener presente per
cogliere la distinzione fra la nostra teoria e quella
soggettivistica ordinaria. Infatti, mentre il soggetti-
vista ritiene che le afferm azioni etiche asseriscano ef-
fettivamente l'esistenza di certi sentimenti, noi le ri-
teniamo espressioni d i sentimento e insieme stimoli
nl sentimento, ma sempre tali da non implicare ne-
cessariamente delle asserzioni.
Abbiamo già notato come l'ord inaria teoria sogg e t~
tivistica apra il fianco alla fondamentale obiezione
che la validità dei giudizi etici non è determinata dal.
la natura dei sentimenti di chi li emette. E la nostra
teoria sfugge a questa obiezione. Essa infatti non iru-
plica che l'esistenza di sentimenti sia la condizione
necessaria e sufficiente per la validità del giudizio cti-
co. Implica, al contrario, che il giud izio etico non ha
validità.
Sussiste, tuttavia, cont ro le teorie soggettivistiche
una celebre argomentazione cui non sfugge neppure
la nostra teoria. Moorc ha notato che, se le afferma-
zion i etiche fossero semnlicemente affermazioni in-
torno ai sentimenti di chi parla, sarebbe impossibile
argo mentare su questioni di valore.' Per fare un csem-
pio tipico: se uno dicesse che la parsimonia è una vir-
IlI, c altri ribattesse che è un vizio, in base J tale teo-
ria costoro non starebbero affatto a d iscutere. L'uno
d irebbe d i approvare la parsimonia e l'altro risponde-
rebbe che lui invece non l'approva ; c non vi ì: nessu-
n:!. ragione per cui non possano essere vere entrambe
• c fr . Philo!op" uiil SII/din , (...mlon , KCj!an Paul , 1922, "I capi-
tolo dccinlo: "Tbc Natur e of M"r:l1 Pbilosopby, " pp. 253·27 5.
Hl
le afferm azioni. Ora, Moore teneva per fatto ovvio
che si disputi realmente su que stion i di valore, e per-
tanto conclud eva che la particolare form a di sogg et-
tivismo da lui criticata era falsa.
La conclusione.che è impossibile: discutere su quc-
j tioni di valore discende con chiarezza anche dalla
nost ra teoria. Se infatti riteniamo che enunciati co-
me " La parsimonia è una virtù" e "La pars imon ia
è un vizio " neppure esprimano proposizioni, eviden-
Temente non possiamo sostenere che esprimano pro-
posizioni incomp atibili. Perciò dobbiamo ammettere
che, se l'argom entazione di Moore confutasse davvc-
re l'ord inaria teoria soggettivistica, conf uterebbe an-
che la nostra. Ma, di fatto, noi neghiamo che essa
riesca a confutare l'ordinaria teoria soggettivistica.
Sosteniamo che in realtà non si discute m ai su qu c-
stioni di valore.
Può essere che a prima vista qu est'ultim a suoni una
asserzione molto paradossale. È certo che la gente si
impegna di fatto in di spute comunemente considera-
te relative a questioni di valore. Ma esaminando la
situazione più da vicino in ogni caso del genere noi
troviamo che la d isputa non rigu arda realment e un a
q uestione di valore, ma una ques tione di fatto . Qu an-
do qu alcuno non è d'accordo con noi circa il valore
morale di una certa azione o di un ceno tipo di azio-
ni, noi ricorriamo, come si concede, all'argomenta-
zione per gu adag narlo al nostro modo di pensare.
Ma con le nostre argomentazi oni non tentiamo di di-
mostrare che egli sta provando un sentimento etico
" sbagliato" nei confronti di un a situazione di cui co-
142
nasce perfettamente la natura. Quanto ci sforziamo
di dimostrare è che egli si sbaglia proprio intorno ai
fatt i in gioco. Argomen tiamo un suo modo errato di
concepire le motivazioni dell'agente, o una sua errata
valutazione vuoi dei reali effetti dell'azione, vuoi de-
~ l i effetti che, per qu anto l'agente ne poteva sapere,
erano probabili; ovvero, anche, che egli non ha preso
in considerazione le circostanze speciali in cui si tro-
vava l'agente. O altrimenti impiegh iamo argomenta-
zioni pi ù generali intorno agli effetti prodotti da
az ioni di un certo tipo o intorno alle qua lità che per
il solito si manifestano nel loro compimento. Argo-
mentiamo tutto ciò nella speranza che il semplice ac-
coni o dell'oppo sitore sulla natura dei fatti empirici
in g ioco basti a fargli adottare lo stesso nostro atteg-
giam ento morale nei loro confronti. E siccome la gen-
te con cui argomentiamo vive in genere nel nostro
stesso ambiente sociale c presenta una formaz ione
morale consimile alla nostra, per il solito que sta spe-
ran za è giustificata. Ma se per caso l'oppositore ha vi s~
suto un processo di " condizionam ento" morale .lì-
verso (bi nostro, in modo che, anche dopo aver preso
visione di tutti i fatti in gioco, si trova in disaccordo
con noi sul valore mora le delle azioni in questione,
allora rinu nciamo al tentativo di convincerlo con ar-
gomentazioni. Diciamo che non si può discutere con
lui, perché ha una sensibilità morale distorta o sono-
gviluppata - e ciò significa semplicemente che egli
impi ega un patrimon io di valori diverso dal nostro.
Ar roccati nel nostro sistema di valori, proviamo un
senso di superiorità e parliamo del suo in termini
143
svalutativi. Ma per dimostrare la superiorità del no-
stro sistema non siamo affatto in grado di addurre
argomentazioni di sorta. Infatti già il giudicare il l'
nostro sistema superiore al suo è un giudizio di valore
e du nque cade già fuori del piano dell'argomentare.
In questo modo alla fine ricorriamo a un semplice
abuso, appunt o perché, quando arriviamo a pure e
semplici questioni di valore distinte da questioni di
fatto, l'uso dell'argomentazione ci viene meno.
In breve, troviamo che l'argomentazione su que.
sti~nimoral i è possibile solo dove si presupponga un
sistema di valori. Se il nostro oppositore concorda con
noi nell'esprimere disapprovazione morale per tutte
le azioni di un dato tipo t, allora possiamo indurlc
a condanna re una particolare azione A adducendo
ragioni in favore dell'appartenenza di A al tipo t .
Che A appartenga o non appartenga a quel tipo, è
solo una questione di fatto. Posto che un individuo
abbia certi principi morali. ne argomentiamo che, per
sua coerenza, egli deve reagire moralmente in un
certo modo a certe cose. Ciò su cui non argomentia-
ma e non possiamo argomentare è la validità di que-
sti principi morali. Ci limitiamo a lodarli o condan-
narli alla luce dei nostri sentimenti.
Se restano dubbi sull'accuratezza di questa inter-
pretazione delle dispute morali, ci si provi a costruire
intorno a questioni di valore una argomentazione,
sia pure immaginaria, che non si riduca ad argo-
mentazione su questioni logiche o su dati di fatto em-
pirici. Sono convinto che non si riuscirà a prad urne
nemmeno un esempio. E ave ciò sia vero, si dovrà
lH
concedere che, se la nostra teoria implica l'impossi-
bilità di vere e proprie argomentazioni etiche, ciò non
costituisce obiezione, come pensava Mocrc, ma piut-
tosto una ragione di più in suo favore.
Dopo averla difesa contro la sola critica che sem-
brava minacciarla, possiamo ora usare la nostra teo-
ria per definire la natura di tutte le ricerche etiche.
Per noi la filosofia etica consiste semplicemente nel
d ire che i concetti etici sono pseudo-concetti, e che
pertanto non sono analizzabili. Il compito successi vo,
d i descrivere i diversi sentimenti espressi nell'uso dei
d iversi termini etici e le d iverse reazioni che tali ter-
mini sogliano provocare, è di perti nenza dello psico-
logo. Se poi per scienza etica si intende l'elaborazio-
ne di un sistema morale" vero," non può darsi nulla
d i simile a una scienza etica. Infatti abbiamo visto
che, essendo i giudizi etici merc espressioni di senti-
ment o, non è possibile nessuna determinazione della
validità di un sistema etico, e, anzi, non ha senso
chiedere se un sistema simile sia vero o falso. Tutto
ciò che a buon diritto è lecito ricercare a q uesto pro--
posiU;;- si riduce alla domanda : quali sono le abituo
dini morali di un dato individuo o gruppo di indi-
vidui, e che cosa fa SI che essi abbiano precisamente
q uelle abitudini e quei sentimenti? E questa ricerca
rientra per intero nel campo d 'indagine delle scien-
ze sociali,
Risulta allora che l'etica. quale ramo del sapere,
non è nu lla più che un settore della psicologia e della
sociclogia. E se qualcuno è dell'avviso che noi stia-
ma trascuran do l'esistenza della casistica, possiamo
r ispond ere che la casistica non è scienz a, ma ind agi-
ne puramente analitica della stru ttura di un dato si.
stema morale. In altre parol e, si tratta d i un eserci-
zio di logica formale.
N el corso del le ricerche psicologiche che costitui-
scono la scienz a etica, ci si trova subito in gr ado di
spiegare la teoria ka ntiana e q uella edonist ica della
mo ra le. Si scopre infatt i che una delle cause prin ci-
pa li dci com por tamento morale è il timo re, coscien te
o inconscio, di dispiacere a un dio e di inimicarsi la
società. E questa certament e è la ragione per cui i
precetti mo rali si presentano ad alcuni come impera.
rivi " categorici." Si scopre inoltre che il codice mo-
rale di una società è determinato in parte dalle cre-
denze in essa vigenti riguardo alle condizioni della
sua felicità - ossia, in altre parole, si scopre che la
società tende a incoraggiare o scoraggiare con sanzio-
ni morali un dato tipo di cond ott a, a seconda che
questo risulti favorevole o sfavorevole alla soddi sfa-
zione e alla conservazione di qu ella stessa società co-
m e int ero. 1?- uesta èJ;1J agigne per: cui nella m assi-
ma parte dci codici moral i si raccomanda l'altruismo
~ si condanna l'egoismo. Le teorie edonistiche ed
eudemonistiche della morale in ultima ana lisi sca-
turi scono dall'osservazione di qu esto nesso fra mo-
ral ità e felicità, cosicome la teoria morale di K ant
si fonda sul fatt o, sopra accen nato, che per alcu-
ni i precetti morali hanno la forza di comandi
inesorabili. Poiché ciascuna di que ste teorie ignora
il fatt o che sta alla rad ice dell'altra, è lecito accusarle
tutte di unilateralit à; ma que sta non è per nessuna di
H6
esse l'obiezione fondamentale. Il loro difetto essen-
ziale consiste nel prendere come se fossero definizio-
ni di concetti etici, proposizioni che rigua rdano cause
e attributi di nostri sentimenti etici. E in qu esto 01 0--
do mancano di riconoscere che i concetti etici sono
pseudo-concctti e, di conseguenza, non definibili.
Come abbiamo già detto, le nostre conclusioni sul-
la natura dell'etica valgono anche per l'estetica. I ter-
mini estetici si usano esattamente allo stesso modo
di q uelli etici. Parole di significato estetico qu ali " bel-
lo" e " orribile" si impiegano, come le parole di si~
g nificato etico, non per produ rre affermazioni di fat-
to, ma semplicemente per esprimere certi sentimenti
e stimolare una certa risposta. Ne segue che, come
per l'etica, non ha senso attribuire validit à oggettiva
a giudizi estetici e in campo estetico non è possibile
discutere q uestioni di valore, ma solo questioni d i fat-
to. Una trnttnzionc scientifica dell'estetica ci mostre-
rcbbc q uali siano in generale le cause del sentimento
estetico, perché le varie società produca no e arnmi-
rino quelle loro opere d'arte invece di altre, perché
il gusto cambi, come cambia d i fatto, entro una dat a
società, e cOSI via. E qu este sono normali questioni
psicologiche o sociologiche. Natura lmente hanno po-
co o nulla a che fare con quanto intendiamo per cri-
tica estetica. Ma ciò avviene perché la critica estetica
non si propone tanto di dare conoscenze qu anto di
comunicare emozioni. Richiamando l'attenzione su
certe caratteristiche dell'opera in esame cd csprimcn-
do i propr i sentimenti in proposito, il critico si sfor-
za di farci condividere il proprio atteggiamento nei
1<7
confronti dell'insieme. Le sole proposizioni di rilic-
va che egli formula, sono proposizioni descrittive del-
la natura dell'opera. E queste sono semplici registra-
zioni di fatto. Perciò, concludiamo, nel campo dell'e-
stetica non si trova nessuna giustificazione migliore
che in quello dell'etica per sostenere che l'estetica
formi un tipo di conoscenza mi gena ù .
Ora dovrebbe essere chiaro che la sola informazio-
ne per noi legittimamente derivabile dallo studio del-
le esperienze estetiche e morali, riguarda la nostra
conformazione mentale e fisica. Prendiamo nota di
qu este esperienze perché forniscono dati per le no-
stre generalizzazioni psicologiche e sociologiche. E
questo è il solo modo in cui esse servano ad accre-
scere la nostra conoscenza. Ne segue che qualunq ue
tentativo di fare del nostro uso di concetti etici ed
estetici la base di una teoria metafisica riguardante
l'esistenza di un mondo di valori distinto dal mon-
do dci fatti, implica una falsa analisi di questi con-
cerri. La nostra analisi ci ha mostrato che non è
ammissibile addurre fenomeni dell'esperienza mo-
rale a sostegno di dottrine razionalisriche o meta-
fisiche, quali si siano. In particolare tali fenomeni
non si possono addurre, come sperava Kant, per
stabilire la esistenza di un dio trascendente.
Questo accenno a Dio ci porta di fronte alla q ue-
stionc della possibilità della conoscenza religiosa.
Ved remo che il nostro trattamento della metafisica
ha già escluso q uesta possibilità. Ma, poiché questo
è un punto di considerevole interesse, ci sarà permes-
so di ragionarne un po' per disteso.
148
In genere oggi si ammette, almeno da part e dei
filosofi, che l'esistenza di un essere avente gli auri.
buti definitori della divinità di qu alsiasi religione
non-animistica, non si può provare per via dimostra-
tiva. Per compren dere che la cosa sta cosi, dobbiamo
solo chiederci q uali siano le premesse donde de-
d urre l'esistenza di una divinità simile. Se la con-
clusione che esiste dio ha da essere certa per via di-
mostrativa, allora qu este premesse devono essere ccr-
tc ; infatti, siccome la conclusione del ragionamento
deduttivo è già contenuta nelle premesse, q ualunque
incertezza sussista circa la verità delle premesse è
necessariamente condivisa dalla conclusione. Ma noi
sappiamo che nessuna proposizione empirica può
mai essere qu alcosa d i più che probabile. Logica-
mente certe sono solo le proposizioni a priori. Ma
non possiamo dedur re l'esistenza di dio da una pro-
posizione a priori. Poiché, come sappiamo, la ragio-
ne per cui sono certe le proposizioni a priori è il Iat-
te che sono tautolog ic. E da un insieme di tautolo-
gie non si può dedurre in modo valido null'altro che
u na tautologia d i più. Ne consegue chc non si d:ì
nessuna, possibilità__di _d imostrare l'esistenza di- dio.-
No n altrettanto generalmente riconosciuta è l'im-
possibilità di provare che l'esistenza di una divinità
come il Dio delle fedi cristiane sia almeno probabile.
Eppu re anche questo si d imostra facilmente. Se, in-
b ui, l'esistenza di una divinità simile fosse probabi-
le, allora la proposizione affermante q uesta esisten-
za sarebbe una ipotesi empirica. E in tal caso da quc-
sta ipotesi in congiunz ione con altre ipotesi empir-i-
'49
che si dovrebbero poter dedurre certe proposizioni
sperimentali non deducibili dalle sole altre ipotesi.
Ma di fatto questa deduzione non è possibile. T al-
volta, per la verità, si dichiara che l'esistenza di una
certa regolarità nella natura costituisce evidenza suf-
ficiente per l'esistenza di dio. Ma se l'enunciato " Dio
esiste " non implica altro se non che certi tipi di fe-
nomeni hanno luogo in certe sequenze, allora asse-
rire l'esistenza di dio eq uivarrà semplicemente al-
l'asserire che in natura vi è la regolarità suddetta ; e
nessun religioso ammetterebbe che ciò sia tutto quan-
to egli intendeva dire asserendo l'esistenza di dio.
Direbbe che, parlando di Dio, egli parlava di un es-
sere trascendente che potrebbe venir conosciuto at-
traverso certe manifestazioni empiriche, ma che cer-
tamcnte non si potrebbe definire nei soli termini di
tali manifestazioni. Ma in questo caso " dio " è ter-
mine metafisica. E se " dio " è un termine metafisica,
allora che esista un dio non può essere neppure pro-
babile. Poiché dire "Dio esiste" significa produrre
una espressione metafisica che non può essere vera o
falsa. E per lo stesso criterio non possono avere nes-
suna significanza letterale gli enunciati in cui ci si
proponga di descrivere la natura di un dio trascen-
dente.
È importante non confondere q uesto nostro mo-
do di vedere le asserzioni religiose con le prospetti-
ve adottate dagli ateisti o dagli agnostici.' Infatti è
proprio dell'agnostico sostenere che l'esistenza di dio
• Ili questo punto mi ,·algo di u n $uggerirn"ll1o di'l prof", ""r H .
H. Pric".
150
è una possibilità cui non si dà alcuna buona ragio-
ne né di credere né d i non credere; ed è proprio
dell'at eista sostenere che: l'inesistenza di dio è per lo
meno probabile. E la nostra prospettiva, per cui tut-
te le espressioni intorn o alla natura di Dio sono
nonsensi, lungi dall'identificarsi con l'una o con
l'altra di q ueste familia ri tesi in lizza, o anche solo
prcstarvi q ualche sostegno, è effettivamente incoru-
patibile con entrambe. Poiché. se l'asserzione dell'esi-
stenza di d io è nonscnso, allora l'asserzione ateistica
dell'inesistenza di dio è altretta nto un nonsenso, per·
ché solo la proposizione significativa si può contra d-
dire in modo significativo. Quanto all'ag nostico, ben-
ché si astenga dal dire se c'è o non c'è un dio rrascen-
dente, egli non nega l'auten ticità della q uestione.
Non nega che i d ue enun ciati "C'è un dio trasccn-
dente " e " Non c'è u n d io tra scendente " esprimano
d ue p roposizioni di cui una sia effettivamente vera
t: l'altra falsa. Si limita a dire che noi non abbiamo
mezzi per decidere q uale di esse sia la vera, e che
pcctanto non dovremmo affidarci a nessuna delle d ue.
AI contrario noi abbiamo visto che g li enunciati 111
paro la non esprimono affatto proposizioni. E ciò si-
gn ifica che anche l'ag nosticismo è escluso.
In questo modo noi offriamo al reista la stessa
consolazione che abbiamo dato al moralista. Non si
può dare il caso che le sue asserzion i siano valide,
ma neppure che non lo siano. Siccome egli non dice
assolutamente nu lla intorno al mondo, non lo si può
accusare giustamente di d ire qualcosa di falso o
qualcosa per cui gli manchino sufficienti ragioni di
principio. Noi ci sentiamo in diritto di non essere
d'accordo con il teista solo quando, asserendo l'esi-
ue uzadi.un dio trascendente, egli pretende di espri-
mere una proposizione autentica.
È da notare che nei casi in cui le divinità si iden-
tificano con oggetti naturali, si può concedere che le
asserzioni relative abbiano qualche significato. Se
qualcuno, per esempio, mi dice che udire il tuono
è condizione necessaria e sufficiente per stabilire la
verità della proposizione " [ehovah è adirato," mi è
lecito concluderne che, nel suo uso abituale delle pa-
role, l'enunciato "[ehovah è adirato " equivale a
..Sta tuonando." Ma nelle religioni più evolute, per
q uanto in qualche misura si possano ancora fonda-
re sul timore reverenziale dei fedeli per fenomeni
naturali che essi non sono in grado di comprendere
a sufficienza, la ..persona " che si suppone cont rolli
il mondo empirico non si colloca essa stessa in tale
mondo; è ritenuta superiore all'empirico e fuori del-
l'empirico, dotata di attributi sovra-cmpirici. Ma la
nozione di una persona i cui attributi essenziali sa-
no non-empirici, non è neppure una nozione intcl-
ligibile. Può esserci una parola usata come se nomi-
nasse questa " persona," ma, se gli enunciati in cui
la parola figura non esprimono proposizioni verifi-
cabili empiricamente, non si può dire che essa sim-
bolizzi alcunché. E ciò è quanto avviene nell'uso isti-
tuzionale della parola" dio," in cui la si intende ri-
ferita a un oggetto trascendente. La pura e semplice
esistenza del sostantivo basta ad alimentare l'illusio-
ne che vi corrisponda una entità reale o almeno pos.
uomini. Una delle fonti prime del sentimento reli-
gioso sta, per comune riconoscimento, nell'incapa-
pacità degli uomini di determinare il proprio desti-
no; e la scienza tende a distruggere il sentimento di
timore rcverenzialc con cui gli uomini si atteggiano
verso un mondo estraneo, portandoli a credere di
poter intendere e anticipare il corso dei fenomeni
natural i e persino, in qualche misura, di controllarlo,
La moda recentemente introdottasi fra gli stessi
scienziati fisici, di simpatizzare con la religione, si
può addurre come un fatto in favore di questa ipc..
tesi. Poiché questa simpatia per la religione contras-
segna la mancanza di fiducia, da parte di tali scien-
ziati, nella validità delle proprie ipotesi, sia in rea-
zione al dornmatismo anti-religioso degli scienziati
dei diciannovesimo secolo, sia per naturale conse-
guenza della crisi test é attraversata dalla fisica con..
temporanea.
Approfondire maggiormente le cause del senti..
mento religioso, o discutere quale probabilità di per..
durare abbiano oggi le credenze religiose, non rien-
Ira nel piano di questa nostra ricerca. Siamo tenuti
a rispondere solo alle domande che nascono dal no-
stro discorso sulla possibilità della conoscenza reli-
giosa. Il punto che vogliamo fissare è che non vi
possono essere verità trascendenti di fede religiosa,
poiché gli enunciati cui il teista ricorre per esprime..
re tali" verità " non hanno significato nel senso let-
terale.
Una caratteristica interessante di questa conclu..
sione è il suo accordarsi con quant o sogliono dire
' 5<
m olti degli stessi tcisti. Spesso infatti CI sent iamo
d ire che la natura d i D io t: un m istero trascend ent e
l'intelletto umano. Ma dire che q ualcosa trascende
l'i ntelletto um ano è lo stesso che dirl o inintelligibi-
le. E q uanto t: inintelligibile no n si può descrivere
in modo significativo. Da capo, ci si dice che Dio
non è oggetto di ragione, ma di fede. Ciò può dar si
equivalga sem plicemente all'ammettere che, sicco-
rnc non si può provare, l'esistenza di Di o debba es-
sere accolt a pt:r fede. Ma con ciò si pu ò anche voler
asserire che Dio è l'oggetto d i una pura intuizion e
mistica, e che pertanto non si può definire in tenui-
ni intelligibili per la ragione. E io penso che vi sia-
no m olti tcisti di sposti ad asserire proprio qu esto.
Ma quand o si concede l'impossibilità di definire D io
in term ini intelligibili, allora si viene a concedere
che per l'enunciato è impossibile essere insieme si-
gn ificativo e rig uardare Dio. Se il mistico am mett e
che I'oggeno della SU:l conte mplaz ione è qua lcosa
che non si può descrivere, allora deve anche am mct-
tere che, qu and o egli lo descrive, è costretto a dire
dci nonsensi.
Da pa rte sua, il m istico può opporre che la sua
int uizione gli rivela davvero delle verità, q uand'ano
che egli non riesca a spiegare agli altri in che cosa
qu este veri tà consistano; e che, infin e, non posscdc n-
do questa facoltà d i intuizione, no i no n abbiam o nes-
suna rag ione di negarne i l carattere conoscitivo. In-
fatt i noi non potremmo escludere a priori altri modi
d i scoprire propos izion i vere, che non siano qu elli
da no i impiegati. La risposta è che non fissiamo li.
155
sibilc. Solo q uando andiamo a cercare quali sono gli
at tributi di Dio, scopriamo che " Dio," in questo uso
istituzionale, non è un nome autentico.
La credenza in un d io trascend ente si trova comu-
ncmente congiunta alla credenza in una vita ultra-
terren a. Ma, nella form a che assume di solito, il
contenuto di q u(:sra credenza non è un a ipotesi au-
ten tica. Dire che g li uom ini non muoiono mai o che
la morte ~ solo uno stato di insensibilità prolun-
gara, significa senza dubbio esprimere una propo-
sizione significativa, benché tutta l'evidenza dispo-
nibile concorra a mostrarne la falsità. Ma dire che
nell'interno dell'uomo vi è qualcosa di impercetti-
bile, che è la sua anima o il suo io reale, c che qU c~
sto q ualcosa continua a vivere dopo la mor te del-
l'uomo, significa produrre un'asserzione metafisica
che non ha maggior conten uto fattuale dell'asserzio-
ne d 'esistenza di un dio trascendente.
È degno di nota il fatto che, secondo il nostro mo-
do di dar ragione delle asserzioni religiose, fra re-
ligione e scienza nat urale in sede logica non sussi-
ste nessun motivo di antagonismo. Nella misura in
cui si tratta dci vero e del falso, fra lo scienziato
naturalista e il teista che crede in un dio trascenden-
te non si dà opposizione. Infatti siccome le espres-
sioni religiose del tcista non sono affatto propo-
sizioni autentiche, non possono trovarsi in alcuna
relazione logica con le proposizioni della scienza.
L'antagonismo vigente in pratica fra religione e
scienza risulta dovuto piuttosto al fatto che la scien-
za dissolve uno dei moti vi che rendono religiosi gli
15'
miti alla quantità di modi in CUI Si possa giungere
alla formu lazione di una proposizione vera. No n ne-
g hiamo affatto che una verità sintetica si possa sco-
prire tanto con metodi puramente intuirivi quanto
col metodo razionale dell'indu zione. Ma diciamo
che ogni proposizione sintetica, comunque sia stata
raggiunta, si deve sottoporre alla prova dell'esperien-
za effettiva. 1';Wn neghiamo_a priorLla .capacità del
mistico di scoprire delle verità con propri metodi spe-
~iali. Aspct tT;mo di udire qua li sono le proposizioni
che formano le sue scoperte, per vedere se vengono
verificate o confutate dalle nostre osservazioni em-
piriche. Ma il mistico, lungi dal produ rre proposi-
zioni empiricamente verificate, non è nemm eno in
grado d i produrre proposizioni comunque intelligi-
bili. E pertanto diciamo che la sua intuizione non
gli rivela dei fatti. Neppure gli serve dire di aver
appreso dei fatti ma di essere incapace di espr imerli.
Poiché sappiamo che, se realmente egli avesse ac-
q uisito qualche informazione, sarebbe capace di espri-
merla. In un modo o nell'altro sarebbe in grado di
indicare come si possa determinare empiricamente
l'aute nticità della sua scoperta. Il fatto che egli non
riesca a rivelare ciò che " sa," o tanto meno a esco-
gitare pcr propr io conto una prova empirica di con-
ferma del suo " sapere," dimostra che il suo stato di
intuizione mistica non è un autent ico stato conosci-
tivo. Cosicché, descrivendoci la propria visione, il
mistico non ci offre nessuna informazione intorno
al mondo esterno ; ci dà soltanto informazione indi-
retta sulle proprie condizioni mentali.
156
Queste considerazioni fan no giustizia dell'argo-
m entazione tratta da esperienze religiose, che molti
filosofi ancora ritengono valida in favore dell'esisten-
za di dio. Costoro dicono logicamente possibile agli
uom ini avere con Dio una familiarità immediata, co-
si come si ha familiarità im mediata con il contenu-
to scnsoriale ; e affermano che non vi è ragione per
cui da un la to, se qualcu no dice di vede re UnJ chiaz-
za gialla, si debba essere d isposti a credergli c, dal-
l'altro lato, gli si debba rifiutare credito quando
dice di vedere Dio. Al che ri spondiamo : se chi as-
serisce di vedere Dio sta solo asserendo di provare
un particolare tipo di conte nuto scnsoriale, allora e
per i l moment o no n neghiamo che la sua asserz io-
ne possa essere vera . Di contro, per il solito, chi di.
ce di vedere Dio non sta sem plicemen te dicendo di
provar e un'emozione religiosa, ma ancor a che esiste
un essere trascend en te oggetto di questa sua emozio-
ne; come del resto chi dice di vede re una chiazza
gialla, d i solito non dice soltanto che nel suo cam po
visivo vi è un conte nuto scusoriale giallo, m a pure
che esiste un oggetto giallo a cui quel contenuto ap-
part iene. N eppure è irrazionale essere disposti a ere-
dcrc a qualcuno qu and o asserisce r esistenza dell a
chiazza gialla, e ri fiutarsi di crederg li quando asse-
ri sce l'esisten za di un dio trascend en te. Mentr e, in-
fatt i, l'en unciato " Q ui c'è un a cosa di colore giallo "
esprime una au ten tica pr oposizione sintetica empi.
ricamc nte verificabile, l'enunc iato " Esiste un dio tra-
scendente, " come si è visto, non ha nessuna signifi-
canz a letterale.
15:"
Perciò concludiamo che l'argomentazione tolta da
esperienze religiose è completamente fallace. Il fat-
to che la gente abbia esperienze religiose è interes-
sante dal punto di vista psicologico, ma non implica
in nessun modo la possibilità di una conoscenza re-
ligiosa, non più di quanto il nostro avere esperien-
ze morali implichi la possibilità di una conoscenza
morale. Come al moralista, cosi anche al reista è le-
cito credere che le proprie esperienze siano esperien-
ze conoscitive, ma, se non riesce a formulare la sua
"conoscenza" in proposizioni empiricamente verifi-
cabili, a noi è altrettanto lecito essere sicuri che si
sta ingannando. Di conseguenza, quei filosofi che
riempiono i loro libri di asserzioni relative alla lo-
ro ..conoscenza " intuitiva di questa o quella ..veri-
tà" morale o religiosa, stanno solo fornendo mate-
riale per lo psicoanalista. Infatti di nessun atto di
intuizione si può dire che riveli una verità intorno
a qualche dato di fatto, se non sfocia in proposizioni
verificabili. E tutte le proposizioni come queste ul-
time vanno incorporate nel sistema delle proposizio-
ni empiriche che costituisce la scienza.
'58
Capitolo settimo
I S~
sola prova che della loro esistenza ci t: lecito richie-
dere e ottenere; e se le esperienze confacenti al ca-
so abbiano o non abbiano luogo nelle circostanze
specifiche, è questione da decidere nella pratica effe t-
tiva, non con argomentazioni a priori. Abbiamo già
applicato queste considerazioni al cosiddetto proble-
ma della percezione, e le applicheremo di nuovo fra
poco ai tradizionali "problemi " relativi alla cono-
scenza dell'esistenza prop ria e degli altri. Nel caso
del problema della percezione, trovammo che, per
evitare la metafisica, eravamo obbligati ad adottare
un punto di vista fenomenistico: vedremo che il
trattamento da farsi agli altri problemi ora accen-
nati è il medesimo.
Abbiamo visto, inoltre, che non vi sono oggetti
la cui esistenza sia indubitabile. Infarti, non essendo
l'esistenza un predicato, asserire che l'oggetto esiste
è sempre asserzione di una proposizione sintetica; e
nessuna proposizione sintetica, come si è mostrato,
è mai logicamente sacrosanta. Sono, tutte quante,
ipotesi, comprese le proposizioni che descrivono il
contenuto delle nostre sensazioni; per quanto gran-
de ne sia la probabilità, potremmo infine trovar con-
veniente abbandonarle. E ciò significa che la nostra
conoscenza empirica non può avere fondamento di
certezza logica. L'impossibilità di dimostrare o di
confutare una proposizione sintetica con la sola lo-
gica formale discende, anzi, dalla definizione stessa
per i tcrmini "unsr-u:{J<'rirllu," ~Jrnu -("oll/("l1t." e ~moltrridI I Mng . ~
..,mplifieali ri'l'C'tùva mcme in "e'pcriCnz.l,~ "contenute " e ~ cu<a."
[N .d.T.l
160
di proposmone sintetica. Chi negasse una proposi-
zione siffatta agirebbe forse irrazionalmente rispet-
to ai modelli di razionalità in vigore al suo tempo,
ma non cadrebbe necessariamente in contraddizione
con se stesso. E le sole proposizioni certe a noi note
sono q uelle che, in quanto tautologie, non si possono
negare senza interna contradd izione.
Negando un fondamento d i certezza alla nostra
conoscenza empirica, non è da credere che noi si
voglia negare che degli oggeu i siano realmente
"dati. " Infatti dire immediatamente dato l'oggetto
equ ivale semplicemen te a dirlo contenuto di una
esperienza, e noi siamo ben lontani dal sostenere
che le nostre esperienze non abbiano contenuto rea-
le, o anche soltanto che il loro contenuto sia in qual-
che modo indescrivibile. T utto ciò che sosteniamo
in proposito è che q ualunqu e descrizione dci conte-
n uto di qualsiasi esperienza è ipotesi empirica, della
cui validità non vi può essere nessuna garanzia as-
soluta. E ciò non equivale per nulla a sostenere che
nessuna ipotesi siffarta possa effenivarnenrc essere
valida. Noi non tenteremo di formulare a nostra VOl -
ta delle ipotesi, solo perché d ibattere qu estioni psi-
cologiche è fuori luogo in una ricerca filosofica; e
abbiamo già chiarito che il nostro empirismo non
d ipende logicamente da una psicologia atomistica,
come per esempio quella adottata da H ume e da
Mach, ma è compatibile con qualsiasi teoria riguardi
le caratteristiche effettive dei nostri camp i sensoriali.
La dottrina empiristica cui ci affid iamo è una dot-
trina logica relativa alla distinzione fra proposizioni
161
analitiche, proposizioni sintetiche cd eloquio meta-
fisica; come tale non ha nessun peso in questioni psi-
cologiche di fatto.
T uttavia non è possibile prescindere propr io da
tutte le questioni sollevate dai filosofi a proposito del
" dato" nel suo aspetto psicologico, e dunque poste
per sé al di fuori del campo di q uesta ricerca. In
particolare, non possiamo ma ntenere questo atteg-
giamento nell'occuparci di questioni come le seguen-
ti: se i contenuti sensoriali siano mental i o fisic i. se
appa rtengano a un singolo io come suoi contenuti in
ogni senso privati. se possano esistere senza che se
ne abbia esperienza. Infatti nessuna di q ueste tre
q uestioni è suscettibile di soluzione per via di pro-
va empirica. Se pur sono questioni solubili, devono
esserlo a priori. E siccome si tratta di difficoltà che
hanno sollevato molte discussioni tra i filosofi, ten-
[eremo appunto di dare per ciascuna di esse una
definita soluzione a priori.
Per cominciare, va subito chiarito che non accet-
tiarno l'analisi rcalistica delle sensazioni in tenni-
ni d i soggetto, atto e oggetto. Infatti non sono me-
nornamcntc verificabili né l'esistenza della sostanza
che si suppone compia il cosiddetto atto dci senti-
re. né l'esistenza dell'atto stesso carne entità distin-
ta dai contenuti su cui si suppone diretto. Cerro
non neghiamo che un dato contenuto sensorialc si
possa legittimamente dire sperimentato da un de-
terminato soggetto; ma ved remo che propr io que-
sta relazione del venire sperimentato da quel sog-
getto piuttosto che da un altro si deve analizzare in
162
termini di relazioni intercorrenti fra contenuti c non
sulla base di una egoità come sostanza e di suoi atti
mi steriosi. Corrispondentemente non definiamo il
contenuto scnsorialc come oggetto, ma come parte
di una esperienza. E da ciò consegue che l'esistenza
di un contenut o implica sempre r esistenza di una
espene nz3.
A qu esto punto è necessario notare che, q uando
si dice che esiste un'esperienza o un contenuto scn-
soriale, si compie un 'afferm azione di tipo d iverso da
qu ella compiuta d icendo che esiste una cosa. Poiché
r esistenza della cosa si definisce nei termini dell'cf-
fettivo o possibile aver luogo dci contenuti ccstituen-
ti la cosa stessa come costruz ione logica, mentre non
avrebbe significato parlare dell'esperienza. che è: un
intero composto di contenuti, o anche del singolo
contenuto, come se fossero costru zioni logiche risul-
tanti da contenuti. E in realtà qua ndo d iciamo che
esiste quel dato contenu to o quella data esperienza,
non veniamo a di re nulla di più dcl loro aver luogo.
E pertanto, parlare dell" aver luogo" d i contenuti
e di esperienze sembra sempre più consigliabile che
non parlare della loro " esistenza," poiché COSI si cvi.
ta il rischio d i trattarli come se fossero cose.
La risposta alla domanda se i contenuti sensoriali
siano mental i o fisici, è che non sono né mentali né
fisici ; o piuttosto. che la distinzion e fra il mentale
c il fisico non vale per i contenuti. Vale soltanto per
gli oggen i che sono costr uzioni logiche risultant i da
contenut i. Ma q uello che differenzia l'un a dall'al tra
tali costruzioni logiche è il farro che l'una sia costi-
J6J
tuita da contenuti diversi o diversamente connessi
rispetto all'altra. Cosicché quando distinguiamo un
dato oggetto mentale da un dato oggetto fisico, o un
oggetto mentale da un altro oggetto mentale, o un
oggetto fisico da un altro oggetto fisico, andiamo in
ogni caso distinguendo fra costruz ioni logiche diver-
se, i cui elementi non si possono dire per se stessi
mentali o fisici. Anzi, non è impossibile che un con-
tenuto sia elemento tanto di un oggetto mentale
quanto di un oggetto fisico; è solo necessario che dif-
feriscano nelle due costruzioni logiche alcuni ele-
menti o alcune relazioni. E qui può venire a propo-
sito ripetere che, riferendoci all'oggetto come a co-
struzione logica risultante da certi contenuti, non
stiamo dicendo che l'oggetto venga effettivamente
costruito o ritagliato nel continuo di quei contenuti,
o che i contenuti siano in qualche modo parti del-
l'oggetto, ma ci limitiamo a esprimere in forma con-
veniente, se pure un poco ingannevole, il semplice
fatto sintattico che tutti gli enunciati riferentisi al-
l'oggetto sono traducibili in enunciati rifcrcntisi ai
contenuti.
Se la distinzione fra mente e materia vale soltan-
lo per costruzioni logiche e se tutte le distinzioni fra
costruzioni logiche sono riducibili 3. distinzioni fra
contenuti, ciò dimostra che la differenza intercor-
rente fra l'intera classe degli oggetti mentali e l'in-
tera classe degli oggetti fisici non è in nessun sen-
so pi ù fondamentale della differenza fra due qual.
siasi sorroclassi di oggetti mentali, o di quella fra
due qualsiasi sottoclassi di oggetti fisici. Effettiva-
'64
mente la caratter istica distintiva degli oggetti appar-
tenenti alla categoria dei "propri stati mentali" è
il fatto che qu egli oggetti risultano principalmente
da contenuti "introspcui vi" e da contenuti che so--
no elementi del proprio corpo; e la caratteristica di-
stintiva degli oggetti appartenen ti alla categoria de-
gli " stati menta li altr ui " è il fatto che questi altri
oggetti risultano principalmente da contenuti che
sono elementi di altri corpi viventi ; e quanto porta
ad unire queste due classi di oggetti COSI d a formare
la classe unitaria degli oggetti mentali è il fatto che
fra molti contenuti che sono elementi di altri corpi
c molti contenut i che sono elementi del proprio cor-
po, sussiste un alto gra do di somiglianza q ualitativa.
Ma a noi ora non interessa forn ire una definizione
esatta dd ., menta le." Ci preme soltanto d i chiarire
che la distinzione fra mente e materia, che vale per
costruzioni logiche risultan ti da contenuti, non si
può far valere per qu esti ult imi. Infatti la distin-
zione fra costruzioni logiche è data dal fatto che
sussistono certe differenze fra i rispettivi elementi,
ed è evidentemen te di tipo diverso da qualsiasi di.
stinzionc instaurabile fra gli clement i stessi.
Inoltre dovrebbe essere chiaro che riguardo alla
relazione fra mente e materia non sussistono altri
problemi filosofici oltre quelli lingui stici del defini-
re certi 'simboli denotant i costruz ioni logiche con
simboli denotan ti contenuti . I problemi in cui si so-
no travaglia ti in passato i filosofi, circa la possibilità
d i gettare un pont e sulI'" abisso " fra mente c ma-
teria nella conoscenza o nell'azione, sono tutti pro.
165
blcmi fittizi sorgenti dalla concezione metafisica,
priva di senso, della mente e della materia, o delle
menti e delle cose materiali, come " sostanze." Una
volta liberi dalla metafisica, vediamo che non si pos-
sono dare obiezioni a priori contro l'esistenza di ncs-
si causali o epistemologici fra menti e cose materiali.
Infatti dicendo che lo stato mentale dell'individuo A
nel tempo t è uno stato di consapevolezza per la co-
sa X, tutto quanto veniamo a dire è a un di presso
qu esto: l'esperienza che è l'elemento di A avente
luogo nel tempo t , comprende un contenuto che è
elemento di X, e certe immagini con cui A si
aspetta che in circostanze adeguate abbiano luogo
certi altri elementi di X, e questa sua attesa è giusti-
ficata. E allo stesso modo, asserendo che l'oggetto
mentale M e l'oggetto fisico X sono legati in un nes-
so causale, diciamo semplicemente che l'aver luo-
go di un certo tipo di contenuto che è elemento di
M, sotto certe condizioni è un segno fidato dell'aver
luogo di un certo tipo di contenuto che è elemento
di X, o viceversa. E se proposizioni di questi due ti-
pi siano vere o false, è evidentemente una questione
empirica. Non la si può decidere a priori, come han-
no cercato di fare i metafisici.
Prendiamo ora in esame la questione della sog-
gettività dei contenu ti - se, cioè, al contenuto sia o
non sia logicamente possibile aver luogo nd la storia
sensibile di più di un singolo io. E allo scopo di ri-
solvere la q uestione, dobbiamo anzitutto analizzare
la nozione di io.
Il problema che ora ci sta di fronte è analogo al
' 66
problema, da noi già trattato, della percezione. Noi
sappiamo che, se non è da intendere come entità
metafisica, r io si deve prend ere come costruzione
logica risultante da esperienze. In realtà si tratta ef-
fettivament e della costruzione logica risultante dal.
le esperienze che costituiscono la storia sensibile ef-
fettiva c possibile di quel determi nato io. E d unque,
se domandiamo q uale sia la natura dell'io, chiedia-
mo quale sia la relazione che deve intercorrere fra
certe esperienze affinché appa rtengano alla storia sen-
sibile dci medesimo io. E a questa domand a rispon-
diamo: affin ché due q ualsiasi esperienze appartenga-
no alla storia sensibile dci medesimo io, è necessario e
suffic iente che ent rambe comprendano contenuti or-
ganici che siano clementi dello stesso corpo.' Ma, sic-
come è logicamente impossibile che un qua lsiasi con-
tenuto organi co sia elemento di più di Ull corpo, la
relazione di ., appartenenza alla storia sensibile del
medesimo io" risulta una relazione simmetrica e
transitiva.' E dal fatto che la relazione di apparte-
nenza alla storia sensibile del medesimo io è sim-
metrica e transitiva segue necessariamente che le se-
rie di esperienze costituent i le storie sensibili di io
diversi non possono avere membri in com une. E
ciò equivale a dire che un'esperienza non può logi-
camente appartenere alla storia sensibile di più di un
singolo io. Ma se tutte le esperienze sono soggetti-
, QlI~slO l''' rù noli 1: I"unico cri ter i" . VeJ i T"~ FOIll,d~lic"" 01
Emp;rica/. K "ow/~dl:~, pp. 142 ·144.
J Per 13 t!elì nilione di rel azione .immelrica tun'ith·a, vedl c, pi-
Ialo Il."I"ZO, p. 66.
167
ve, allora sono soggettivi tutti i contenuti. Infatti è
necessario per definizione che il contenuto sia com-
preso in una singola esperienza.
Questa conclusione dipende da un modo di inten-
dere l'io che a molti senza dubbio riuscirà parados-
sale. Infatti non t: ancora fuori moda considerare
l'io una sostanza. Ma quando si aprono le indagini
intorno alla natura di questa sostanza, si scopre che
è una entità del tutto inosservabilc. Si può sugge-
ri re che essa si rivela nell'autocoscienza, ma non t:
vero. Infatti tutto ciò che si trova nell'autocoscienza
è la capacità dell'io di ricordare alcuni dei propri
stati precedenti. E dire che l'io A è capace di ricor-
dare alcuni dei propri stati precedenti equivale sem-
plicemente a dire che alcune delle esperienze costi-
tuenti A contengono immagini mn emoniche corri.
spandenti a contenuti che hanno avuto luogo prece.
dcnternente nella storia sensibile di A: E COSI sco-
priamo che la possibilità di autocoscienza non im-
plica in nessun modo l'esistenza di una egoità so-
stanziale, Ma se non si rivela nella autocoscienza,
I'eg oità sostanziale non si rivela in nessun luogo.
Che esista una entità siffatta è cosa completamente
inverificabile. E pertanto dobbiamo concludere che
assumerne l'esistenza non è meno metafisica della
screditata assunzione lockiana dell'esistenza di un
substraro materiale, Asserire che un "inosservabile
qualcosa" sta sotto le singole manifestazioni empi-
riche dell'io, evidentemente non ha più significato
l (j ~
dell'asserire che un " inosservabile qualcosa" sta sotto
la corrente delle sensazioni che sono le sole mani-
festazioni empiriche della cosa. Le considerazioni
che, com e vide Berk eley, rendono necessaria la spie-
gaz ione fenomcn istica delle cose materiali, rendono
anche necessaria, come Berkeley non vide, la spie-
gazione fenomenistica dell'io.
In questo, come in molti altri punti, il nostro ra-
gionamento è conforme a q uello di H ume. An che
egli rifiutava la nozione dell'egoirà sostanziale per
la ragione che non è osservabile nessuna entità sif-
fatta . Ogniqualvolta entrava più intimamente in ciò
che chiamava se stesso, si imbatteva sempre in que-
sta o q uella percezione particolare - d i caldo o di
freddo, di luce o d 'ombra, d'a more o di odio, di
piacere o di dolore. In nessuna circostanza era mai
in grado di cogliere se stesso senza una percezione,
di osservare una qualunq ue cosa che non fosse la
percezione. E ciò lo porta va ad asserire che l'io non
è " null'altro che un fascio o una collezione di per-
cezioni diverse. ," Ma dopo aver asserito qu esto, non
riusci a scopr ire in base a quale principio innumere-
voli percezioni distinte, fra le qu ali è impossibile
percepire qualche" nesso reale, " si u niscano per for-
mare il singolo io. Egli vide bene che la memor ia
non tan to prod uce q uanto piuttosto scopre l'iden-
tità personale - ossia, in altre parole, che laddovc
l'autocoscienza si deve definire in termini di memo-
ria, la propria identità non si può definire cosi; in-
T, attil l I) m I/il 1/~ I I'ril " "''' '' a. libro l. l",rlc IV. ""li"n~ 6.
1 6~
fatti la quan tità di mie percezioni che io posso ri-
cordare in un momento qualsiasi è sempre di gran
lunga inferiore alla quantità di percezioni che effet-
tivamente hanno avuto luogo nella mia storia, e
quelle che non so ricordare sono altrettanto costitu-
tive del mio io quanto quelle che ricordo. Ma una
volta rifiutata per questa ragione la memoria quale
presunto principio di unificazione dell'io, H ume era
costretto a confessare di non sapere in virtù di quale
nesso le percezioni si uniscano a formare il singolo
io: E spesso i razionnlisti hanno preso questa sua
confessione come se dimostrasse che a un empirista
coerente non è possibile dar ragione dell'io in modo
soddisfacente.
Da parte nostra, abbiamo già mostrato come una
simile accusa contro l'empirismo sia infondata. In-
fatti il problema di H ume lo abbiamo già risolto
definendo l'identità personale in termini di idenri-
tà corporea, c l'identità corporea va definita in ter-
mini di somiglianza e continuità di contenut i senso-
riali. E questo modo di procedere si giustifica nel
fatto che mentre, nella nostra lingua, è permesso di.
re che un uomo sopravvive a una perdita completa
della memoria, o a un completo mutamento di ca-
rattere, risulta in se: contraddittorio dire che un uo-
mo sopravvive all'annientamento del proprio cor-
po: Infatti quel che suppongono sopravviva quanti
si aspettano una ..vita dopo la morte," non è l'io
liO
empirico, ma un'entità metafisica : l'a nima. E questa
entità metafisica, intorno a cui non si può formulare
nessuna ipotesi autentica, non ha con l'io alcun nes-
so logico, qu ale si sia.
È però da notare che, sebbene difendi amo la tesi
di Humc, per cui è necessario dare spiegazione fcno-
mcnistica alla natur a dell'io, la definizione dell'io d a
noi effettivamen te data non è una semplice riaffer-
mazion c di quella di H um c. Noi non sosteniamo,
come egli manifestamen te sostenne, che l'io sia un
aggregato di esperienze, o che le esperienze costi-
tuenti in un cer to senso quel determinato io siano
in ogni senso sue parti. Ci limitiamo a sostenere
che l'io è ridu cibile a esperienze nel senso che dire
_q~llcos a intorno all'io equivale sempre a dire q ual.
cosa intorno a esperienze; e la nostra definizione
dell'i dentità personale è intesa a mostrare come si
possa compiere questa riduzione.
Nel combinare cosi un rad icale fenomenismo con
l'ammissione che tutte le esperienze) e i contenuti
che ne formano parte, appartengono al singolo io
come sue esperienze private, ci atteniamo a un parti-
to contro cui è verosimile venga sollevata l'obiezio-
ne seguente. Chiun que, si obietterà, sostenga che
nell'an alisi tutta la conoscenza empir ica si risolve
in conoscenza di relazioni fra contenuti sensoriali. e
insieme dichiari che il complesso della storia sensi-
bile d i un individ uo gli appartiene come sua storia
privata, è logicamente costretto al solipsisrno - cioè
si trova costretto a sostenere che oltre a lui stesso
non esiste nessun altro, o, in ogni modo, che 1101l
171
sussiste nessuna buona ragi one per supporre l'esi-
stenza di altri oltre se stesso. Infatti dalle sue pre.
messe, si argomenterà, consegue che le esperienze
altrui non possono mai formare parte della sua pro-
pria esperienza, e quind i egli non può avere il ben-
ché minimo motivo di credere che esse abbiano luo-
gO j e in tal caso, se gli altri non sono nulla più che
costruzioni logiche risultanti dalle esperienze loro,
egli non può avere il benché minimo motivo di
credere nell'esistenza di altri, E se ne concluderà che,
se pure una siffatta dottrina solipsistica non si può
dimostrare in sé contraddittoria, cionondimeno è
notoriamente falsa.'
Non mi propongo di affrontar e questa obiezione
negando che il solipsismo sia notoriamente falso, ma
negando che esso sia una conseguenza necessaria
della nostra epistemologia. Sono anzi disposto ad
ammettere che, se la personalità. degli altri non fosse
qualcosa di osservabih: da parte mia, allora non
avrei ragione di credere nell'esistenza di nessun altro.
Ammettendo q uesto faccio una concessione a cui
penso non scenderebbe la maggioranza dei filosofi
che, come noi, ritengono il contenuto sensoriale non
possa appartenere alla storia sensibile di più di un
singolo io. AI contrario, essi preferirebbero sostenere
che, per q uanto l'esistenza degli altri non si possa os-
servare in nessun senso, è tutta via possibile desumer-
la con alto grado di probabilità dalle esperienze pro-
prie. L'osservazione di un corpo che presenta un com-
172
portamento simile a q uello del mio, direbbero, mi
autorizza a ritenere probabile che quel corpo si rife-
risca a un io da parte mia non osservabile, cOSI come
il mio corpo si riferisce al mio proprio io osscrvabile.
Con ciò essi non cercherebbero di risolvere il proble-
ma psicologico: che cosa mi spinge a credere nel-
l'esistenza di altri ? ma il problema logico: di qu ali
buone ragioni dispongo per credere nell'esistenza di
altri? Cosicché la loro prospettiva non è confutabile,
come a volte si suppone, opponendo l'argomentazio-
ne che i bambini di fatto giungono a credere nel-
l'esistenza di altri intuitivamente e non attraverso
un procedimento d'inferenza. Infatti, il mio credere
in una certa proposizione in realtà può dipendere
causaimente dal fatto di aver raggiunto quell'eviden-
za che lo rende un credere raziona le, ma ciò non è
un fatto necessario. In sé non è contraddi ttorio dire
che a credenze in favore delle quali sussistono fon-
damenti razionali, spesso si perviene irrazional-
mente.
Per confutare questa prospettiva, secondo la q uale,
valendomi d i una argomentazione ex analogia fon-
d ata sul fatto che sussiste una notevole somiglianza
fra il comportamento di altri corpi e quello dci mio,
mi sarebbe possibile giustificare la credenza nell'esi-
stenza di altri pur non porcndonc osservare in nes-
sun modo concepibile le esperienze, la via giusta sta
nell'indicare che nessun argomento può rendere pro-
babile un'ipotesi completamente inverificabile. Pos-
so legittimamente valermi di una argomentazione ex
analogia per stabilire la probabile esistenza dell'og-
J73
getto che in realtà nella mia esperienza non si è mai
manifestato, a condizione che si trat ti di un oggetto
di cui sia concepibile la possibilità di manif estarsi nel-
la mia esperienza. Se q uesta condizione non è sod-
disfatta, allora, per q uanto mi riguarda, l'oggetto è
un oggetto metafisica, e l'asserzione che esso esiste e
ha certe proprietà, è asserzione metafisica. E siccome
l'asserzione metafisica è priva di senso, nessuna argo-
ment azione può mai renderla probabile. Ma, nella
prospettiva che stiamo criticando, io devo necessaria-
ment e considerare gli altri come oggetti metafisici ;
poiché si presume che le loro esperienze restino com-
pletamcnte inaccessibili alla mia osservazione.
Da ciò non si deve concludere che l'esistenza degli
altri sia per me un'ipotesi metafisica. e d unq ue fitti-
zia, ma che è falso assumere che le esperienze altrui
siano completamente inaccessibili alla mia osserva-
zio ne; proprio come dal fatto che la nozione lockiana
del substrato materiale è metafisica, non si deve con-
cludere che siano nonscnso tutte le nostre asser-
zioni intorno a cose materiali, ma semplicemente che
è sbagliata l'anal isi lockiana del concetto di cosa ma-
tcrialc. E proprio come devo definire le cose c il
mio stesso io attraverso le loro manifestazioni empi-
riche, cOSI devo definire anche gli altri att raverso le
loro manifestazioni empiriche - cioè, nei termini del
comportamento dci loro corpi, e in definitiva in ter-
mini di contenuti sensoriali. Assumere che " dietro "
questi contenuti sussistano entità che non sono acccs-
sibili alla mia osservazione neppure in linea di prin-
cipio, per me non può avere più significato dell'es-
sunzionc notoria mente metafisica che consimili en-
tità " stiano sotto" q uei conten uti che per me costi-
tuiscono le cose, o il mio stesso io. E COSI, per credere
nell'esistenza di altri, scopro di avere ragioni altret-
tanto buone quanto quelle per credere nell'esistenza
di cose materiali. Infatti in entrambi i casi la mia
ipotesi si verifica nell'aver luogo delle serie di con-
tenuti appropriate nella mia storia sensibile."
Non si deve pens:ne che q uesta riduzione delle
esperienze altrui alle proprie implichi in qualche mo-
do una negazione della loro realtà. Ciascuno di noi
deve di necessità definire le esperienze degli altri at-
traverso ciò che può osservare almeno in linea di
prin cipio, ma questo non significa che ciascuno di
noi debba considerare tutti gli altri come altretta nti
robor. Al cont rario, la distinzione stessa fra uomo
cosciente e macchina incosciente si risolve in una di-
stinzione fra tipi diversi di comportamento osserva-
bile. La sola ragione d i principio di cui posso dispor-
re per asserire che un oggetto con tutt a l'apparenza
d i un essere cosciente in real tà non è un essere co-
scicnte. ma solo un fan toccio o una macchina, sta nel
fallo che esso non riesce appu nto a soddisfare una
delle prove empiriche che stabiliscono la presenza o
l'assenza di coscienza. Quand o vengo a sapcre che
l'oggetto si comporta in tutto come per definizione
dcvc comporta rsi un essere cosciente, allora so che
• Cfr. RUDOLF GU"AP, S,'h~"'pr()bl~", ~ in d~r rhil()sophi~ : dM
Frr",J-plychil('h~ unJ d('1' RrQfisrnl<lII rrl/, [rscut!o-problcmi in filo",·
fia: lo p.khi,mo ah rui e LI polemica <Id rcali. mo). e Plycl",l()gi~ i"
phy sikalìsrhr Spr{}rh~, [Psicologia in Iin)o:u Jggio fi,ica1i' la], ~Erkenn l
ni.," mI. 1It, 1932.
li 5
l'oggetto è realmente cosciente. E questa è una pro-
posizione analitica. Infatti, asserendo che l'oggetto è
cosciente, io non produco nessun postulato metafi-
sico intorno all'aver luogo di eventi da me anche in
linea di principio inosservabili: non vengo ad asseri-
re altro se non che quell'oggetto in risposta a qual.
siasi prova escogitabile mostrerebbe le manifestazioni
empiriche della coscienza.
Risulta allora che, se le esperienze di un individuo
gli appartengono come sue esperienze private in
quanto ciascuna di esse comprende un contenuto or-
ganico che appartiene al suo corpo e a nessun altro,
questo fatto è perfettamente compatibile con il suo
avere buone ragioni di credere nell'esistenza di altri
individui. Infatti, se vuole evitare difficoltà metafi-
siche, egli deve definire l'esistenza di altri individui
attraverso l'effettivo e l'ipotetico aver luogo di certi
contenuti sensoriali, e allora il fatto che i contenuti
richiesti abbiano effettivamente luogo nella sua storia
sensibile, gli dà buona ragione di credere che esista-
no altri esseri coscienti oltre a se medesimo. E cosi
vediamo che il problema filosofico della " conoscen-
za degli altri " non è il problema insolubile e, anzi,
fittizio di fondare per argomentazione l'esistenza di
entità comp letamente inosscrvabili, ma è soltanto il
problema di indicare come si verifica empiricamente
un certo tipo di ipotesi."
,. A qu.,.!O prob lcm3 ( i .i riferi,",e ndl 'App~"dict', pp, 237·38.
Un un s:lgl:io po.leri"re, O,,~'I KT/or"kdK~ 01 Oth" Mimll . rip ub-
Micato in Philolophical f:llays (CiI., p. 191), l'A more (erca 3nCOr:l
di fondare que. ta con",",cn7.a .u (Dnne..i"ni c:lu'3 li ~r analogia. -
N.d.T.]
176
Resta infine da chiarire che il nostro fenomenismo
non è compat ibile solo col fatt o che ciascuno di noi
ha buone ragioni per credere nell'esistenza di esseri
coscienti del suo stesso genere, ma anche con il fatto
che ciascuno di noi ha altrettanto buone ragion i per
credere che questi esseri comunichino l'un con l'altro
e con lui, e abitino un mondo comune. La prospetti-
va per cui tutte le proposizioni sintetiche si riferisco-
no in definitiva a conten uti sensoriali, accoppiata a
q uella per cui il contenuto non può appa rtenere alla
storia sensibile di pi ù di un individuo, a pri ma vista
potrebbe suonare come se imp licasse che nessuno
possa mai avere buone ragioni di credere una propo-
sizione sintetica dotata per chiunque altro dello stesso
significato letterale che h a per lui. Si potrebbe cioè
pensare: se le esperienze d i ciascuno fossero sue espe-
rienze private, non si potrebbero avere buone ragio-
ni di credere che le esperienze alt rui siano q ualit à-
tivamcnte come le proprie, e quind i neppure si po-
trebbe credere a buon diritto che le proposizioni di
ciascuno intese in rapporto, come di fatto sono in
rappo rto, ai contenuti delle proprie esperienze, ven-
gana intese nello stesso modo da chiunqu e altro."
Ma q uesto ragionamento sarebbe erroneo. Dal fatto
che le esperienze d i ciascuno sono sue esperienze pri-
vate, non discende che non si abbiano mai buone ra-
gioni per crede re q ualitativamcnte eguali alle pro-
prie le esperienze altrui. Infatti noi definiamo l'iden-
177
tità e la differenza qualitative delle esperienze di due
indi vidui con la somiglianza e la diversità delle loro
reazioni a prove empiriche. Per stabilire, per esempio,
se d ue individui hanno la medesima sensibilità ai co-
lori, osserviamo se classificano allo stesso modo tutte
le superfici colorate poste loro di fronte; e quando
di qualcuno diciamo che non ha occhio pei colori,
asseriamo che egli classifica certe superfici colorate
in modo diverso da come la classificherebbe la mag-
gior parte della gente. Se due individui classificano
allo stesso modo delle superfici colorate, questo fat-
to - è ancora possibile obiettare - prova soltanto
che i loro mondi cromatici hanno la medesima strut-
tura, non che abbiano il medesimo contenuto; può
darsi che un altro approvi ogni mia proposizione a
proposito di colori, ma sulla base di sensazioni di
colore completamente diverse dalle mie, e solo per-
ché, la differenza essendo sistematica, nessuno dei
due si viene mai a trovare nelle condizioni adeguate
per scoprirla. Ma a ciò rispondiamo che ciascuno di
noi ha da definire il contenuto delle esperienze al-
tru i con ciò che egli stesso può osservare. Se egli con-
sidera le esperienze degli altri come entità essenz ial-
mente inosscrvabili, la natura delle quali si debba
ded urre in qualche modo dal comportamento per-
ccpibilc dci soggetti, allora, come abbiamo visto, gli
diviene un'ipotesi metafisica anche la proposizione
che esistono altri esseri coscienti. Perciò è un errore
distinguere fra struttura e contenuto nelle sensazioni
della gente - come se la struttura sola fosse acces-
sibile all'osservazione altrui e il contenuto, invece,
inaccessibile. Se, infatti, i contenuti delle sensazioni
altrui fossero davvero inaccessibili alla mia osserva-
zione, allora non potrei mai dirne nulla. Ma di fatto
io in proposito compio affermazioni significative; e
ciò accade perché definisco quei contenuti e le rcla-
zioni che vi intercorrono, con quello che da part e
mia posso osservare io stesso.
A llo stesso modo ciascuno di noi ha buone ragioni
per supporre che gli altri lo intendano e di intendere
egli stesso gli altri, perché osserva che le: sue parole
han no sulle loro azioni l'effetto che considera appro-
priato, e anch'essi considerano appropriato l'cflctro
delle loro parole sulle sue azioni ; e il reciproco inten-
dersi si definisce appunto con questa armonia nel
comportamento. E, siccome asserire che due indivi-
dui abitano un mondo comune significa precisamen-
te asserire che, almeno in linea d i principio, sono in
grado di intendersi, ne viene che ciascuno di noi, per
q uanto le sue esperienze gli appartengano come sue
esperienze private, ha buone ragioni per credere di
abitare con altri esseri coscienti un mondo comune.
Poiché è alla portata di ciascuno di noi osservare qu el
comportamento, suo propr io e altrui, che realizza
l'intendersi richiesto. E nella nostra epistemologia
non vi è nulla che comporli la negazione di questo
fatto.
17'
Capitolo onauo
180
una delle due pani è troppo sottile per essere scoper#
to con facilità, non perché la questione in campo
non si possa risolvere con l'evidenza disponibile.
Perciò l'interesse che ci lega alle condizioni della
filosofia non ci può permettere di rassegnerei pi ù 01 ~
tre passivamente all'esistenza di divisioni di par te tra
i filosofi. Infatti sappiamo che, se le questioni intorno
a cui le par ti contrastano sono di carattere logico,
possono ottenere una soluzione definitiva. E se non
sono q uestioni logiche, si devono lasciar cadere come
metafisiche, o fare argo mento di ricerca empirica.
Propongo q uindi di prendere ordinatamente in esa-
me i tre massimi luoghi caratteristici in cui i filosofi
si sono divisi in passato, di vagliarn e i problemi che
vi confluiscono, e d i forn ire a ciascun problema la
soluzione che si addice alla sua natu ra. D i alcuni di
q uesti problemi si troverà che ci siamo già occupati
nel corso di questo libro, e in tali casi ci limiteremo a
ricapirolarne la n ostra soluzione senza ripetere l'ar-
gomen tazione su cui si fondava .
Le questioni che ora stiamo per prendere in esame
sono quelle in campo fra razionalisti cd empiristi, fra
realisti e idealisti, e infine fra monisti e plu ralisti. In
ciascuno dci tre casi troveremo che la tesi sostenuta
dall'u na e combattuta dall 'altr a scuola è in pane
logica, in parte metafisica e in parte empirica, e che
fra q ueste parti costituenti non corre una stretta con-
nessione logica; cosicché è legittimo accettare alcune
porzioni della tesi e rifiutarne altre. E, anzi, non pre.
tendiamo neppure che, per essere annoverato fra gli
esponenti di una scuola parti colare, il filosofo debba
lI'Al,,"C
necessariam ent e aderi re a tutte le dott rine che rite-
niamo caratteristiche di qu ella scuola, ma crediamo
piutt osto che sia sufficie nte la sua adesione a qualcu-
na di esse. Ci sembra oppo rtun o premettere qucst:l
precisazione per evitare possibili accuse di imprccisio-
ne storica. Fin dall 'inizio però deve restare inteso che
a noi non int eressa tutelare nessun gruppo di filosofi
a spese di nessun altro, ma ci proponi amo semplice-
mente di comporre cer te questioni che nella storia
della filosofia ha nno svolto un ru olo del tutto spro-
porzionato alla loro diffi coltà o alla loro importanza.
Prenderem o ora le m osse dalle question i rient rant i
nella controv ersia fra razionalisti ed empiristi.
Razionalismo ed empirismo. - La dottrina metafi-
sica sostenuta dai razionalisti e rifiutata dagli empi.
risti afferma l'esistenza di un mon do soprascnsibilc
che è l'oggetto di una intu izione puramente intellet-
tua le cd è il solo m ond o interamen te reale. Di q ue-
sta dott rina ci siamo giì. occupati esplicitamente nel
corso del nostro attacco cont ro la metafisica, e abbia-
mo visto che non è neppure falsa, ma semplicemente
priva di senso. Infatti nessuna osservazione emp irica
potrebbe mai tendere a stabilire conclu sioni riguar-
danti le proprietà, o l'esistenza , di un mond o sopra.
sensibile. Pertanto ab biamo il diritto di negare la pos-
sibilità di un mondo simile e di abbandonare com e
non sensi le descrizioni che ne sono state da te.
A nche dell'a spetto logico della controversia fra ra-
zionali sti ed empiristi ci siamo già occupati appieno,
pronunciandoci, come si ricorderà, in favore degli
empiri sti. Mostram mo infatt i che la proposizione ha
182
contenuto fattuale solo se è verificabile empiricamen-
te e, quindi, che i raziona listi sbagliavano supponen-
do che vi potessero essere proposizioni a priori rife-
rcntisi J dat i di fatto . Al tempo stesso ci scostammo
da quegli empiristi che, dichiarando illegittim a l'or.
dinaria d istinzione fra proposizioni a priori e propo.
sizioni empiriche, sostengono che tutte le proposi-
zioni significative sono ipotesi empiriche, la cui ve-
rità può darsi riesca probabile nel più alto grado, ma
non si trova mai in cond izione di essere certa. Noi
amm ettemmo che vi siano proposizioni necessaria-
mente valide indipendentemente da ogni esperienza,
e che fra queste proposizioni e le ipotesi empiriche
sussista una d ifferenza di genere. Ma non ne spie.
gamma la necessità dicendo, come direbbe il raziona-
lista, che si tra tti di speculative " verità di ragione. "
Spiegammo la loro necessità dicendo che sono tanto-
logie. E mostrammo che, se a volte commettiamo dc-
gli sbagli nei nostri ragionamenti aprioristici, e se an-
che quando non ne abbiamo commesso, possiamo
giungere a conclusioni interessanti e inattese, ciò non
è per nulla incompatibile col fatto che tali ragiona-
menti sono puramente analitici. E cosi trovam mo
che il rifiuto della tesi logica razionalistica, e di ogni
forma di metafisica, non ci costringe a negare la pos-
sibilità d i verità necessarie.
L'esplicito rifiuto clelia metafisica, ben distinto dal
puro e semplice astenersi da espressioni metafisic he,
è caratter istico dci tipo di empirismo noto come posi-
tivismo. Ma da parte nostra non ci siamo trovati in
grado di accettare il criterio impiegato dai positivisti
1 ~3
per distinguere l'espressione metafisica dall'autentica
proposizione sintetica. Infatti dalla proposizione sin-
tetica essi esigono che, almeno in linea di principio,
sia verificabile in modo conclusivo. E siccome, per
ragioni che abbiamo già ind icato, la proposizione
non si può mai verificare in modo conclusivo, neppu·
re in linea di principio, ma si può solo rendere nel
migliore dei casi altamente probabile, longi dal con-
trassegn are fra senso letterale e nonsenso la distinzio--
ne a cui si intendeva giungere, questo criterio posi-
tivistico rende nonsenso ogni espressione. E per-
ciò è necessario adottare, come abbiamo visto, una
forma attenuata dci principio di verificazione po-
sirivisticc quale criterio del sig nificato letterale, e
ammettere che la proposizione sia un'autentica pro.
posizione fattuale se alcune osservazioni empiriche
possono risultare di specifico rilievo per la sua verità
o falsità. Cosicché noi riteniamo metafisica un'espres-
sione solo se non è né una taurologia né una propo--
sizione suscettibile di essere portata a qualche grado
di evidenza, quale si sia, da possibili osservazioni.
Senza dubbio, in pratica, ben poco di q uanto si con-
cede abbia significato secondo q uesto nostro criterio,
non verrebbe ammesso come significa tivo dai positi·
visti. Ma questo accade perché essi non applicano con
coerenza il criterio loro.
Si aggiunga che noi dissentiamo dalla dottrina P'>
sitivistica anche a proposito della significanza di
determinati simboli. È caratteristico del positivista so-
stenere che tutti i simboli che non siano costanti lo-
giche, o devono stare essi stessi per contenuti senso-
18.
riali o altrimenti si devono poter defini re per mezzo
di simboli che stanno per conte nuti sensoriali. Sim-
boli fisici come "atomo," "molecola" o " elettrone"
evidentemen te mancano di soddisfare questa condi-
zione, e in proposito alcuni positivisti, fra i quali
Mach, erano disposti a considerarne illegittimo l'im-
piego.' Essi sarebbero stati meno intransigenti dove si
fossero resi conto che, se volevano applicare questo
criterio con coerenza, avrebbero dovuto cond annare
anc he l'im piego di simboli che stanno per cose mare-
riali. Infatti come abbiamo visto, neppure simboli
familiari come "tavola," Il sedia " o "cappo tto" si
possono definire esplicitamente per mezzo d i simboli
che stiano per contenu ti sensoriali; si definiscono so-
lo nell'uso. E dunque dobbiamo concedere che l'im-
piego di un simbolo è legittimo se almeno in linea
di princip io è possibile dar e una regola per tradurre
gli enunciati in cui figura in enunciati rifcrcntisi a
contenu ti sensoriali - ossia, in altre parole, se è pos-
sibile indicare l'evidenza empirica delle proposizioni
che qu el simbolo concorre a esprimere. E q uesta con-
dizione è soddisfatta tanto dai simboli fisici che i po-
sitivisti condannavano, quanto dai simboli che stanno
per familiari cose mat eriali.
Da ultimo torn iamo a ribadire che la nostra tesi lo-
gica non ci lega a nessuna delle dottr ine fattuali pro-
poste da emp iristi. Anzi , abbiamo già dich iarato di
dissenti re dall 'atomismo psicologico d i Mach e di
Hume; e ora possiamo aggi ungere clic, por essendo
, su (,Lle queMinne ",,,Ii 11 ~ " s l lAllS, Logik•.\I<ltl'~m<llik ,,"d
S <ll rmrr 1.;( II11(II . "E inheit. " ·i"'''Il" h,,ft. ~ o.«:o nJo h.d,ul o.
185
d 'accordo con H ume nelle fondam entali prospettive
epistemologiche circa b. validità delle proposizioni
generali esprimenti leggi, non accettiamo il suo mo-
do di spiegare come di fatto tali proposizioni venga-
no a essere form ulate. A differenza di quanto egli
manifestamen te sosteneva, noi non pensiamo che ogni
ipotesi generale sia di fatto la generalizzazione di
un certo numero di casi osservati. Siamo d 'accordo
coi razionalisti nel sostenere che il processo di forma.
zionc delle teorie scientifiche spesso è deduttivo piut-
tosto che indu ttivo. Lo scienziato non formula leggi
solo in conseguenza dell'averle viste esemplificate in
casi particolari. A volte tiene conto della possibilità
della legge già pr ima d i possedere l'evidenza che la
giustifichi. Gli "consta " che una certa ipotesi o se-
rie di ipotesi potrebbe essere vera. Impiega il ragie-
namcntc deduttivo per scoprire q uali esperienze do-
vrebbero avere luogo in una data situazione, se l'i-
potesi è vera ; e se riesce a compiere le osservazioni
richieste, o ha ragione di credere che potrebbe com-
pierle, accetta l'ipotesi. Non aspetta passivamente
che sÌJ. la natura a istruirlo, come implicava la pro-
spettiva di Hu mc ; piuttosto costringe b. natura a ri-
spondere. come vide Kan t, alle domande che egli
stesso le impone. Cosicché sussiste un senso in cui i
razionalisti hanno ragione di asserire che nel cono-
scere la mente è attiva. Senza dubbio è falso che la
validità della proposizione dipenda logicamente dal-
l'atteggiamento mentale d i chi vi si rivolge, che ogni
fatto fisico dipenda logicamente o causalmcnte da
un fatto mentale, e che l'osservazione dell'oggetto fi-
".
sico causi necessariamente in esso q ualche cambia-
mento, bench é dò possa accadere davvero in alcuni
casi. Ma resta vero che l'attività del teorizzare, nel
suo aspetto soggettivo, è attività creativa, e che le
teorie psicologiche degli empiristi circa " le origini
della conoscenza" sono viziate dal fatto di non aver-
ne tenu to conto.
Ma, mentre si deve riconoscere che spesso le leggi
scientifiche si scoprono con procedim ento intu itiva,
questo non sign ifica che intuit ivamcnte esse si pos-
sano anche convalida re. Come abbiamo già detto
molte volte, f.: essenziale tenere la distinzione fra la
domand a psicologica: come si origina la nostra cono-
scenza? c la domanda logica: come si certifica in
q U:lllto conoscenza? Com unqu e si debba poi rispon-
dere a q ueste domande, resta ch iara la loro reciproca
indipendenza logica. E perciò, mennc rifiutiamo co-
me in sé contraddittoria la tesi logica dei raziona!isti
per cui sussisterebbero proposizioni sintet iche con va-
lidità garantitaci a priori, possiamo coeren temente
concedere che le loro teorie psicologiche riguardo alla
parte svolta dall 'intuiz ione nel nostro modo di acqui-
sire la conoscenza molto probabilmente sono vere.
Realismo e idealismo. - Laddovc nel corso d i
quest'opera abbiamo fatto costante riferim ento ai
pun ti pri ncipali della d isputa fra razionalisri ed cm-
piristi, donde ora siamo finalmente usciti, fin qui ab-
biamo prestato un'attenzione relativamente scarsa al-
la controversia fra realisti e idealisti che. almeno per
lo storico della filosofia moderna , è qu asi altrettanto
importante. A questo proposito, fin qui non abbiamo
187
fatto altro che escluderne l'aspetto metafisica, e asse-
rire che le q uestioni logiche implicatevi riguardano
l'analisi di proposizioni d'esistenza. Abbiamo visto
che la disput a fra idealisti e realisti d iviene metafisica
q uando si assume che la questione se l'oggetto è rea-
le o ideale, sia una questione emp irica non componi.
bile per mezzo di nessuna possibile osservazione. Ab-
biamo mostrato che nel senso più comune dci rermi-
ne " reale" - c cioè nel senso in cui " essere reale" si
oppone a "essere illusorio" - sussistono prove empi-
riche ben definite per decidere se l'oggetto è o non è
reale; ma che quanti, pur essendo d'accordo sulla
realtà dell'oggetto in questo senso, continuano a di-
scutere se esso possiede una proprietà completamente
irrivelabilc, da loro ch iamata anche la proprietà di
essere reale, o non piuttosto la proprietà altrettanto
irrivelabile di essere ideale, vanno agitan do una que-
stione del tutto fittizia. E a ciò ora non abbiamo bi-
sogno di aggiun gere altro, ma possiamo passare su-
bito alla considerazione della controversia fra realisti
e idealisti nel suo aspetto logico.
Le dottrin e logiche sostenute dagli idealisti e com-
battute dai realisti riguardano tutte la domanda : che
cosa implicano gli enunciati della forma " x è reale? "
La tesi degli idealisti di tipo bcrkeleyano, per esem-
pio, risponde che l'enunciato" x è reale " o " x esiste,"
dove x stia per una cosa e non per una persona, equi .
vale a "x è percepito," cosicché per loro asserire che
qualcosa esiste senza essere percepito è in sé contrad-
dittorio; inoltre essi ritengono che "x è percepito"
implichi "x è mentale," c pertanto eoncludono che
I SlI
tutte le cose esistenti sono mental i. I realisti negano
entrambe queste proposizioni e sostengono da parre
loro che il concetto di realtà non è analizzabile, co-
sicché non sussiste alcun enunciato riferentesi a per-
cezioni che sia equivalente all'enun ciato" x è reale. "
Troveremo che effettivamente i realisti hanno rngi o-
ne in ciò che negan o, ma torto in ciò che affermano.
Le ragioni di principio in base alle q uali Berkeley
riteneva che la cosa materiale non potesse esistere sen-
za essere percepita, eran o in breve le seguenti. Egli
sosteneva, in primo luogo, che la cosa non è n ulla
pi ù della somma delle sue qu alità sensibili, e, in se-
condo luogo, che asserire r esistenza di una qu alità
sensibile non sentita è in sé contraddittorio. E da
q ueste premesse discende effettivamente l'impossibi-
lità di dire esistente una cosa non percepita senza ca-
dere in contradd izione. Ma q uanto assum e in prcp>
sito il senso comune, c cioè che le cose esistono d i
fano anche quando nessun essere umano le percepi-
sce, Berkeley lo riconosceva come certamente in sé
non-contraddittorio, e anzi egli stesso credeva vera
questa assunzione; perciò ammetteva che, pur senza
essere percepita da nessun essere umano, una cosa
potesse esistere in q uanto ancor sempre percepita da
Dio. E il suo essere costretto a fare assegnamento sul-
le percezioni di D io per armonizzare la propria dot-
trina con l'esistenza molto probabile delle cose anche
q uando nessun essere uman o le percepisce, è un fano
che, a quanto sembra, egli considerava tale da costi-
tuire una dimostrazione dell'esistenza di un dio per-
sonale; laddove ciò che il fano propriamente dimo-
stra è la presenza di un errore nel ragionamento di
Berkeley. Infatti, siccome le proposizioni asseren ti
l'esistenza di cose materiali hanno una indiscussa si-
gnificanza fatt uale, non può essere corretto analizzar-
le per mezzo di entità mcrafisichc come le percezioni
di un d io trascendente.
O ra dobbiamo cercare dove esattamen te si trovi
l'errore nel ragionamento di Berkeley. È consuetudi-
ne dci realisti negare la sua proposizione che una
qual ità sensibile non p uò mai esistere senza essere sen-
tita. Suppon endo, a mio parere g iustamente, che Ber-
keley usi i termini " qualità sensibile" e " idea di sen-
sazione " per riferirsi, come noi nell'uso del termine
"con tenuto sensoriale, " a un 'entità data sensibilmcn-
te, i realisti lo accusano di aver condono un'analisi
difettosa della sensazione, mancando egli d i distin-
guere fra oggetto sentito e atto di coscienza diretto
su di esso, e affermano che non implica contrad dizio-
ne suppor re che l'oggetto possa esistere indipenden-
temente dall'atto.' Ma io non credo che tale critica
sia giusta. Poiché q uesti atti del sentire, che i realisti
rimproverano Berk eley di aver ignorato, mi risultano
comp letament e inaccessibili a qualsiasi osservazione.
E coloro che credono in q uesti atti, temo siano stati
sviati dal fatto grammatica le che gli enun ciati che
impiegano per segnalare le proprie sensazioni, con-
tengono un verbo transitivo, proprio come qu anti
credono che l'io sia dato nella sensazione, sono svia-
ti dal fatto che gli enunciati di cui si vale la gen te
• V",li G. E. M OOR ~ , PhiloJo phi(af Sludia, London. K ~gall Pau!,
1922, al capitolo primo: " Tne Rd ula liun of Ideali. m. ~
190
per segnalare le proprie sensazioni contengono un
soggetto gra mmaticale: chi, infine, pretende di sa-
per rilevare la presenza d i atti simili nelle proprie
esperienze visive e rattili, a mio parere rileva scmpli-
ccrnc nrc il fatto che i campi visivi e tattili hanno la
prop rietà sensibile di una certa p rofondità ,' E quindi,
benché Berkeley abbia comm esso l'errore psicologi-
co di supporre notevolmente discontinua la successio-
ne di " idee " costituenti la storia sensibile dell'indi-
viduo, credo avesse ragione di considerare queste
" idee " come contenut i piuttosto che come oggetti
delle sensazioni, e per conseguenza fosse giustificata
anche la sua asserzione che la " qua lità sensibile" non
potrebbe esistere in nessun modo concepibile senza
essere sentita. Corrispond entemen te possiamo conce-
dcrc che il suo detto, " Esse est pacipi, " sia vero a
proposito dei conten uti sensoriali, perché, come si è
visto, parlare dell'esistenza d i conten uti è solo un mo-
do sviante di parlare del loro aver luogo, né del con-
tenuto si può dire senza contraddizione che abbia
luogo se non come parte di una esperienza.
Ma, q uantunque sia un fatto che il contenuto non
può, per definizione, aver luogo senza essere speri-
men tato, e che le cose sono costituite da conten uti,
è errato concluderne, come concluse Berkeley, che
h cosa non possa esistere senza essere percepita. E
l'error e è dovuto alla sua inesatta concezione delle
relazion i fra le cose e i conten uti che le costituiscono.
Se la cosa fosse davvero la somma delle prop rie
, QUl'Sh> appunto 1: ,lalo rnosso all'Ile <la R UI><' t.F CA Il"A P iII
Drr /ogisclll' A lll bol< drf 1I'l'!:, sc,,;,me 65.
191
" qualità sensibili" - cioè a dire. un aggregato di
contenuti o addirittura un intero composto da con-
tenuti - allora dalle definizioni stesse di cosa mare-
rialc e di contenuto sensoriale d iscenderebbe che la
cosa non può esistere senza essere percepita. Ma in
realtà abbiamo visto che i contenuti non sono in
ogni senso parti delle cose che costituiscono ; la cosa
è riducibile a contenuti semplicemen te nel senso che
si tratta di una costruzione logica di cui quei conte-
nuti sono elementi; e questa, come più sopra abbia.
ma chiarito, è una proposizione linguistica aflcrman-
te che dire qualcosa della cosa materiale eq uivale
sempre a dire qualcosa intorno a contenuti . Inoltre
gli elementi di una qualunque data cosa materiale
non sono solo contenuti effettivi ma anche conten uti
possibili - cioè a dire. gli enunciati riferentisi a con-
ten uti come traduzioni degli enunciati riferentisi al-
la cosa, non è prescritto che debbano nccessariamen-
te esprimere proposizioni categoriche ; possono esse-
re ipotetici. E ciò spiega come sia possibile l'esistenza
della cosa materiale nei periodi in cui non si ha una
esperienza effettiva di nessuno dei suoi elementi: ba-
sta che q uesti siano suscettibili di venire sperimentati
- basta cioè che sussista il fatto ipotetico per cui, se
fossero sodd isfatte certe condizioni, si avrebbe espe-
rienza di certi contenut i da far appartenere alla cosa
in q uestione. Anzi, non sussiste contraddizione nep-
pure nell'asserire l'esistenza della cosa che non è mai
percepita effettivamente. Infatti asserendo che la co-
sa esiste, si verrebbe soltanto a dire che, dove si rea-
lizzasse quel determinato insieme di condizioni rela-
192
rive alle facoltà e alla pOSIZIone dell'osservatore. a-
vrebbero luogo certi contenuti; e una siffatta propo-
sizione ipotetica può benissimo essere vera, quand'an.
che le condizioni di specifico rilievo non si realiz-
zassero mai. E, come mostreremo più avanti, in al.
cuni casi non solo ei è lecito d i riconoscere come pos-
sibilità logica l'esistenza della cosa materiale non per-
cepita, ma di fatto siamo gi:ì in possesso di buoni fon-
dam enti indurrivi per crederla esistente.
Q uesta analisi di proposizioni asserent i l'esistenza
d i cose è conforme alla concezione che Mill aveva
della cosa come " possibilità perm anente di sensazio-
ne" e ci mette in grado non solo di fare a meno delle
percezioni di Dio, ma sopratt utto di ammettere che
gli individ ui si possano d ire esistenti nello stesso sen-
so delle cose. Non amm ettere ciò, a mio avviso, è un
difetto g rave nella teoria d i Berk eley. T ant' è che,
mancando di dare dell'io q uella spiegazione fenome-
nistica che, come vide H ume, era richiesta dal suo
stesso empirismo, egli si trovò sia nell'impossibilità
di ritenere che l'esistenza della gente consistesse nel-
l'essere percepita come l'esistenza delle cose, sia in
quella di avanzarne qu alche altra analisi. O ra noi, al
contrario, dichiariamo che l'uomo non può non de.
finire la propria esistenza e quella del suo prossimo
allo stesso modo dell'esistenza delle cose, attraverso
l'ipotetico aver luogo di conten uti sensoriali. E io pen-
so che ci sia riuscito tanto di dimostrare la necessità
di questo fenomenismo radicale, quanto d i affrontare
con successo le obiezioni cui a prima vista sembra
esposto.
193
r
Il secondo passo nell'argomentazione dell'idealista
di tipo berkeleiano è dato dalla proposizione che tut-
to quanto viene percepito è necessariamente mentale.
Egli compie questo passo assumendo che i dati im-
mediati del senso siano necessariamente mentali e,
insieme, che la cosa sia letteralmente la somma delle
proprie" qualità sensibili." E queste sono due asser-
zioni che noi abbiamo già rifiutato. Abbiamo visto
che la cosa non va definita una collezione di conte-
nuti, ma la costruzione logica risultante da contenuti.
E abbiamo visto che i termini "mentale" e " fisico "
valgono solo per costruzion i logiche, non per gli
stessi dati immediati del senso. Dire che i contenuti
sensoriali per se stessi sono o non sono mentali, non
può avere significato. E infine, mentre è certamente
significativo asserire che tutte le cose da noi per il so-
lito considerate incoscienti in realtà sono coscienti,
scopriremo che anche questa è una proposizione a
cui abbiamo buone ragioni di negare l'assenso.
La prospettiva idealistica per cui ciò che è dato im-
mediatamente nell'esperienza dev'essere necessaria-
mente mentale, penso derivi storicamente da un er-
rore di Dcscartes. Egli, infatti, credendo di poter de-
dur re la propria esistenza da quella di un'entità men-
tale, del pensiero, senza dover presupporre l'esistenza
di nessuna entità fisica, concludeva che la sua mente
era una sostanza totalmente indipendente da qualu n-
qlle cosa fisica; cosicché essa poteva aver esperienza
diretta solo di ciò che le appartenesse. Abbiamo già
veduto che la premessa di questa argomentazione è
falsa; e, in ogni modo, da una premessa simile la
'"
conclusione non consegue. Poiché, in primo luogo,
l'asserzione che la mente è una sostanza, essendo as-
serzione metafisica, non consegue da nulla. In secon-
do luogo, se il termine" pensiero " si usa, come mani-
festamente lo usava Descartes, per riferirsi al singolo
contenuto sensoriale introspettivo, allora, come del
resto nell'uso corrente, il pensiero non si può propria-
mente dire mentale. E infine, anche se fosse vero che
r esistenza di un essere cosciente si possa dedurre in
modo valido da un dato mentale isolato, per quell'es-
sere non ne conseguirebbe menom amente l'imp ossibi-
lità di trovarsi di fatto in dirette relazioni causali ed
epistemologiche con cose materiali. E anzi, preceden-
temente abbiamo mostrato come quella che afferma
la completa indip endenza reciproca fra mente e ma-
teria sia appunto una proposizione a cui abbiamo
buoni fondam enti empirici per negar e l'assenso, men-
tre nessuna argomentazione a priori potrebbe mai
servire a dimo strarla.
Sebbene la responsabilità della prospettiva qui cri-
ticata, per cui sarebbe possibile avere esperienza d i~
retta solo di ciò che è mentale, spetti in definitiva a
Dcscartes, alcuni filosofi posteriori vi hanno aggiunto
proprie argomentaz ioni di sostegno. Un a di queste è
l'argomentazione cosiddetta dell'illu sione. Essa pren-
de le mosse dal fatto che le appar enze sensibili della
cosa variano con il punto di vista dell'osservatore, o
con le sue condizioni fisiche e psicologiche, o con la
natura d i circostanze concomitant i qu ali, per esem-
pio, la presenza o l'assenza di luce. Ciascuna di que-
ste apparenze, si argomenta, in sé è "buona" qua nto
195
ogni altra, ma, siccome in molt i casi esse risultano re-
ciprocamente incompatibili, non possono caratteriz-
zare tutte quan te la cosa nella sua realtà; e se ne
conclude che nessuna di queste apparenze è .. nella
cosa": sono tutte " nella mente." Ma tale conclusione
è ovviamente arbitraria. Questa argomentazione de-
sunta dalle apparenze illusorie dimostra soltanto che
le relazioni fra il contenuto c la cosa cui appartiene,
non sono qu elle che intercorrono fra la parte e il
tutto. Ma ciò non suona per nulla come d imostrare
che i contenuti siano " nella mente." Né il fatto che
per le qu alità loro dipendano in parte dalle condizio-
ni psicologiche dell'osservatore concorre in alcun
modo a dimostrare che i conten uti siano essi stessi
delle entità mentali.
Più plausibile, almeno in superficie, suona un'altra
argomentazione di Berkeley. Dopo aver indicato co-
me sensazioni di ogni genere siano in qualch e grado
piacevoli o dolorose, egli ne argomenta che, non po-
tcndosi fenomenicamente distinguere la sensazione
dal piacere o dal dolore sentiti, le d ue cose si devono
identificare. Ma piacere e dolore, a suo avviso, sono in-
dubbiamente mentali; donde conclude che gli oggetti
del senso sono mentali: L'errore di questa argomen-
tazione sta nell'identifi care piaceri e dolori con par-
ticolari contenuti. È vero che delle parole" dolore,"
" dolere" a volte ci si vale anche per denotare con-
ten uti organici, come per esempio nell'enu nciato " la
196
spalla mi duole," ma in questo uso corrente il dolo-
re non si può propriamente dire mentale ; cd è de-
gno di nota che non sussiste un corrispondent e uso
istituzionale della parola " piacere" come a dire" la
spalla mi fa piacere." E negli usi correnti in cui pia-
ceri e dolori si possono dire mentali con proprietà di
lingua, come per esempio nell'enun ciato" Dom izia-
no provava piacere a torturare le mosche," i termini
in questione non denotano contenuti, ma costruzioni
logiche. In fatti il riferimento a piaceri e dolori in tali
usi correnti è solo un modo di riferirsi al comporta-
mento di q ualcuno, e d unq ue, in ultim a analisi, u n
modo d i riferirsi a contenuti, che per se stessi, come
sempre, non sono né mentali né fisici.
È caratteristico di alcuni idealisti non bcrkelcyani
sostenere che " x è reale," dove x stia per una cosa e
non per una persona, eq uivalga a " x è pensato," co-
sicché ritenere esistente qualcosa che non è pensato,
o irreale qu alcosa che è pensato, per loro è in sé con-
traddittorio. A sostegno della prima di queste due
conseguenze, essi argomentano che, se produco qual-
che giudizio intorno a una cosa, devo necessariamen-
te pensarla. Ma, ment re è vero che l'enun ciato "g iu~
dico x esistente" implica "x è pensato," da ciò non
discende che sia in sé contraddittorio asserire l'esi-
stenza d i tutto ciò a cui non si pensa. L'enunciato
"giudico x esistente " ovviamente non eq uivale a
" x esiste," né lo implica, e neppure vi è implicato.
Posso benissimo giud icare esistente la cosa che in
realtà non esiste, e la cosa può benissimo esistere an-
che senza che io la giudichi esistente e, anzi, senza
l<,I i
che nessuno la giudichi tale o ci pensi mai. Se asseri-
sco esistente qualcosa, è vero che ci sto pensando, o ci
ho pensato, ma ciò non significa che parte di quanto
asserisco quando lo dico esistente sia che io sto pen.
sando a questo qualcosa. Qui Ì; essenziale distinguere
fra ciò per cui di fatto costituisce evidenza la produ-
zione dell'enunciato, e ciò che l'enunciato implica
formalmente. Una volta compiuta questa distinzio-
ne, siamo in grado di vedere che nell'asserire l'esi.
stenza di cose non pensate non è coinvolta nessuna
contraddizione formale.
La prospettiva per cui tutto quanto è pensato deve
essere necessariamente reale, non è limitata agli idea-
listi. Come ha mostrato Moore,' essa dipende dal.
l'assumere, a torto, che enunciati come" Si pensano
liocorni" siano della stessa forma logica di " Si ucci-
dono leoni." " Si uccidono leoni" implica senza dub-
bio "Alcuni leoni sono reali" ; e allora si suppone
che " Si pensano liocorni " debba analogamente im-
plicare "I liocorni sono reali." Ma, in realtà, " si pen-
sano " non è un predicato come " si uccidono," e per~
tanto nell'asserire che cose come liocorni o centauri,
per quanto ci si pensi, non esistono effettivamente,
non è implicita nessuna contraddizione. Abbiamo già
mostrato come sia metafisica la prospettiva realisti-
ca per cui, quand 'anche non esistano, siffatti oggetti
immaginari" hanno una loro realtà," c non vi è bi-
sogno di discorrerne più oltre.
Si può invece aggiungere che se pure, al contrario
, PlliloSCiphicaJ Sludi~s, al capitolo se,to : -n., Conc~pti"n of
Rcality."
198
di quanto s'è visto, fosse vera l'equivalenza fra " x è
reale" e "x è pensato." da questa equivalenza non
verrebbe agli idealisti nessuna giustificazione per
credere mentale tutto ciò che esiste. Infatti " x è pen-
sato" non implica "x è mentale " pi ù di quanto lo
implichi " x è percepito." Né si vede come alla pro-
posizion e che tutto qu anto esiste è mentale, si possa
ancora dare evidenz a per altra via. Poiché, se .. x è
rea le " non "\mp I"ICa f orma Imente " x e, menta lc, " qu e~
sto fatto dimostra che non si tratta neppure di una
verità a priori. Che infin e tutte le cose da noi credute
incoscienti - quali case. penne, libri - siano in
realtà coscienti, festa logicamente possibile, ma risul-
ta al tempo stesso altamente improbabile. Infatti sin
q ui non si è m ai osservato che qu este cose si compor.
tino nel modo caratteristico degli esseri coscienti. Le
sedie non danno segni di attività diretta a un fine, né
risulta che i vestiti siano sensibili al dolor e. E, in geo
nerale, non sussiste alcun fondamento empirico per
supporre che negli oggetti da noi comunement e pre-
si per cose materiali si nascondano alt rettanti esseri
coscienti.
Ancora resta da prend ere in esame una qu estione
empirica che è oggeno di controv ersia fra realisti e
idealisti. Abbiamo veduto come ai realisti non m an-
chi una giustificazione per sostenere che non è in sé
contraddittorio asserire l'esistenza del la cosa non per·
cepita; e ora dobbiamo esaminare se ha nno anche
il diritto di sostenere che esistano d i fatto cose non
percepite. Contro di loro si è argomentato che, se
pure le cose, qua ndo non le percepisce nessuno, con-
lO9
tinuano effettivamente a esistere, nOI non pOSSIamo
avere buone ragioni di supporre che continuino:
Ipfatti èc.ovviamente impossibile a chiunque os-
c
200
,
pirle. Abbandonata ora la mia stanza, ho buona ra-
gione di credere che nessuno stia effettivamente per-
cependo queste cose. Poiché nell'uscirne notai che
non vi era nessuno c da allora non ho visto entrare
nessuno né dalla porta né dalla finestra. Le osser-
vazioni compiute in passato dei modi in cui degli
esseri umani entrano in una stanza, mi danno di-
ritto di asserire che nella stanza nessuno è entrare
in qualche altro mod o. E ancora, altr e osservazioni
preceden temente compiute sul come si distruggono
cose materiali, mi danno motivo di credere che se
ora fossi nella stanz a non assisterci a nessun pro-
cesso d i distruzione. E dal fatto con ciò dimostrato
che, ment re si possono avere buon e ragioni di cre-
dere che in q uesto momento nessuno percepisce cer-
te cose mat eriali nella mia stanza, chiunque vi si
trovasse le percepirebbe, risulta d imostrata la pos-
sibilità di avere buon i fondamenti induttivi per ere-
dere nell'esistenza cii cose materiali non percepite.
Si è accennato pure alla possibilità di avere buon i
fondamenti induttivi per credere nell'esistenza d i co-
se che non si sono mai percepite in nessuna circo--
stan za. E anche qu esto si può mostrare facilmente
con l'aiut o di un esemp io. Suppo niamo sia stato os-
servato che su tutte le montagne scalate in una data
zona, a una determinata altezza crescono certi fio--
ri ; e suppon iamo esista nella zon a una montagna
che risulta perfettamente simile alle altre, ma per
caso ancora non è stata scalata mai. In un caso sif-
fatto possiamo inferire ex analogia che se qualcuno
salisse su qu ella montagna, troverebbe anche lassù
201
la stessa vegetazione. E ciò è come dire che noi ab-
biamo il diritto di considerare probabile l'esistenza
di fiori che in realtà non sono mai stati percepiti.
Monismo ~ pluralism o. - Dopo esserci occupati
dei vari aspetti della controversia fra realisti e idea-
listi, veniamo infine a trattare della disputa fra mo-
nisti e pluralisti. Per la verità abbiamo già notato
che l'asserzione, avanzata dal monista e combattuta
dal pluralisra, che la Realtà è Una, è nonscnso,
perché nessuna situazione empirica potrebbe ave-
re qualche portata sulla sua verità. Ma questa asser-
zione metafisica si presta a essere il luogo in cui con-
fluiscono certi errori logici, che è desiderabile sotto-
porre ad esame. E ciò è quanto ora faremo.
Lo schema dell'argomentazione seguita dalla mas-
sima parte dei monisti è questo: nel mondo ogni
cosa in un modo o nell'altro è in rapporto con ogni
altra cosa; proposizione che nel caso loro è tautolo-
gica, dal momento che considerano l'alterità come
una relazione. Di più: ogni relazione è interna ai
propri termini. La cosa è ciò che è, dichiarano i mo-
nisti, perché ha le proprietà che ha. Cioè, tutte le
sue proprietà, comprese tutte le sue proprietà rela-
zionali, sono costitutive della sua natura essenziale.
Se la cosa viene privata di qualcuno delle sue pro-
prietà, allora - dicono - cessa di essere quella cosa.
E da queste premesse si deduce che affermare un
qualsiasi fatto intorno a quella determinata cosa
comporta l'affermarne ogni fatto, e che ciò a sua vol-
ta implica affermare ogni fatto di ogni cosa. E que-
sto è quanto dire che qualunque proposizione vera
102
si può dedurre da qualunq ue altra, dond e viene che
due qualsiasi enun ciati, se esprimono proposizioni
vere, sono equivalen ti. E ciò porta i monisti, che so-
gliano usare l'una per l'altra le parole ..verità" e
..realtà" come intercambiabili, a produ rre l'asserzio-
ne metafisica della Realtà Una.
An che i rnonisti amm ettono che gli enunciati nor-
ma lmente usati per esprimere proposizioni che si cre-
dono vere, non eq uivalgono tutti l'uno all'altro. Pe-
rò non pensano che questo fatto metta in dubbio la
loro conclusione che ogni proposizione vera si può
dedurre da ogni altra , ma lo intendono come se di-
mostrasse che in realtà non è vera nessuna delle pro-
posizioni solitamente credute vere dalla gente. Dico-
no, anzi , che ad esseri umani è impossibile esprime-
re proposizioni del tu [[O vere, e che si possono espri-
mere, e si esprimono effettivamente, solo proposizio-
ni con vario g rado di verità. Ma che cosa intendano
dire di preciso con ciò, e come riescano a conciliar-
lo con le loro premesse, io non sono mai stato in
grado d i capire.
Nell'argome ntazione del mo nisra, il passo decisivo
che porta a siffatte conclusioni paradossali, sta evi-
dentemente nell'assumere che tutte le propr ietà del-
la cosa, comprese tutte le sue propri età relazionali,
siano costitutive della sua natura. E per porre in evi-
denza la falsità d i q uesta assunzione basta affermar-
la chiaramente senza ambig uità. Nella form a in cui
l'abbiamo affermata fin qu i, che è quella comun e,
essa d i ambiguità non è certo priva. Infatti parlare
della natura di una cosa può essere semplicemente
203
un modo di riferirsi al suo comportamento caratteri-
stico - come nell'enunciato " t nella natura dci gat-
to dare la caccia ai topi. Ma, come abbiamo visto,
ti
lO'
significa esprimere una proposIzione analitica, cioè
una tautologia. Dunque, assumere che tutte le pro-
prietà della COSJ siano costitutive della sua natura,
in qu esto uso dell'espressione porta all'assurda con-
seguenza che, anche in linea di principio, sia impos-
sibile esprimere un fatto sintetico intorno ad alcun-
ché. E questo io lo considero suffic iente a dimostrare
la falsità dell'assunzione.
-Ciò che in superficie rende plausibile questa fal-
sa assunzione, è l'am biguità di enunciati come " Se
q uesta cosa non avesse le propr ietà che ha, non sa-
rebbe quella che è." Asserire questo può darsi sia
semp licemente quan to dire che, se la cosa ha una
proprietà, non può insieme mah carn c - che, cioè,
se per esempio questo giornale è sulla tavola sotto
i miei occhi, non è vero che non sia sulla tavola. E
questa è una proposizione an alitica della cui validi.
t;ì nessuno starebbe a discutere. Ma concedere q ue.
sto non significa concedere che tutte le proprietà
della cosa siano propr ietà dcfinienti. Dire che il mio
giornale non sarebbe ciò che è, se non fosse qui sot-
to i miei occhi sulla tavola, è falso se eq uivale a di-
re che il mio giorn ale deve essere sulla tavola per
essere un giorn ale, che cioè l'essere sulla tavola gli
sia necessario nello stesso senso in cui è necessario
che contenga delle notizie. Mentre, infatti, che il mio
giorn ale contenga delle notizie è proposizione ana-
litica, che ora si trovi sulla tavola sotto i miei occhi
è proposizione sintetica. Asserire che il giornale non
contiene notizie è in sé contraddittorio, ma asserire
che non è sulla tavola, per quanto in q uesto momcn-
2U5
to risulti falso, non è in sé contraddittorio. Ora, si
può dire che p è una proprietà definiente, o interna,
di A solo quando" A non ha p" è una proposizione
in sé contraddittoria.
Nel discutere la presente qu estione abbiamo im-
piegato la term inologia fattuale in cui viene presen.
rata comunemente, senza che questo ci impedisse di
riconoscere che si tratta di una questione di carat-
tere linguistico. Infatti si è visto che dire proprietà
definicnte della cosa A una proprietà p eq uivale a
dire che l'enunciato avente il simbolo " A" come sog-
getto e il simbolo " p" come predicato esprime una
proposizione analitica.' E si badi che in q uesto caso
l'impiego della terminologia fattuale veniva partico-
larmente a sproposito, perché il predicato che in
combinazione con una certa locuzione descrittiva
serve a esprimere una proposizione analitica, in com-
binazione con un'altra locuzione descrittiva che pur
si riferisce allo stesso soggetto, può servire a espri-
mere una proposizione sintetica. Per esempio, aver
serino l'A mleto è una proprietà interna dell'autore
dell'Amleto, ma non dell'autore del Macbeth, e nep-
pure di Shakespearc. In sé, infatti, è contraddittorio
dire che l'autore dell'A mleto non scrisse l'A mleto,
ma, per quanto risulti falso, non è in sé contraddit-
torio dire che l'autore dci Macbeth non scrisse l'A m·
leto, o che Shakespeare non scrisse l'A mleto. Se,
206
usand o la terminologia fattuale corrente, diciamo che
scrivere l'Amleto era logicamente necessario per l'au-
tore dell'Amleto ma non per Shakespeare o per l'au-
tore del Macbeth, o diciamo che Shakespeare e l'au-
tore del Macbeth potrebbero essere esistiti anche sen-
za scrivere l'Amleto, ma l'autore dell'A mleto non
potrebbe, o che Shakespcarc e l'autore del Macbeth
sarebbero rimasti gli stessi se anche non avessero
scritto l'A mleto, mentre l'autore dell'Amleto non
sarebbe rimasto lo stesso, in ciascuno di questi casi
sembra che noi ci si contraddica solo perché si sot-
tinrende che l'autore dell'Am leto, Shakespeare e l'au-
tore del Macbeth siano tutt'uno. Ma tale apparenza
di contraddizione scompare del tutto, quando si con-
venga che questi sono semplici modi di dire che
" L'autore dell'Amleto scrisse l'A mleto" è una pro-
posizione analitica, mentre " Shakespcare scrisse
l'Amleto" e "L'autore del Macbeth scrisse l'A mle-
to" sono sintetiche.
Con ciò concludiamo il nostro esame degli erro ri
logici donde si origina la dottrina metafisica dci rno-
nismo. Però va ancora ricordato che il monista non
si limita ad affermare, come il plur alista non si li.
mira a negare, che ogn i fatto sia logicamente conte-
nuto in ogni altro, ma ancora che ogni evento è cau-
salmentc connesso con ogni altro. Alcuni, anzi, di-
rebbero la seconda proposizione una derivazione del-
la prima, in qu anto per se stessa la causalità sarebbe
una relazione logica. Ma q uesto sarebbe un errore.
Poiché, se la causalità fosse una relazione logica, la
contraddittoria d i ogni proposizione vera che asse-
207
risse un nesso causale, sarebbe in sé contradditto ria.
Ma anche coloro che sostengono la causalità sia una
relazione logica, concedono che le proposizioni as-
serenti l'esistenza di nessi causali, generali o partico-
lari. sono sintetiche. Nel linguaggio di Hume, si
tratta di proposizioni concernenti dari di fatto. E
noi abbiamo mostrato che la validità di queste pro-
posizioni, come lo stesso Hu me ha chiarito, non si
può stabilire a priori. "Che il corso della natura pos-
sa mutare, e che u n oggetto apparen temente simile
a qu elli di cui abbiamo avuto esperienza, si possa
accompagnare a effetti diversi o contrari," egli dice,
"non implica nessuna contraddizione. Non posso
forse concepire con chiarezza c distinzione un cor-
po che cade dalle nubi e sotto tutti gli altri aspetti
somiglia alla neve, ma sa d i sale o brucia come Iuo-
co ? Vi è proposizione più intelligibile dell'afferma-
re che tutti gli alberi fioriscono in dicembr e e gen-
naio, e intristiscono in maggio e giugno? Or a, tutto
ciò che riesce intelligibile, e si può concepire disrin-
tamenre, non implica contraddizione. né si può mai
prm'are falso con argomentazioni dimo strative o
astratti ragionamenti a priori." Qu i H ume sta di-
fendendo la nostra tesi che la validità di proposizio-
ni sintetiche si può stabilire solo per mezzo dell'e-
sperienza. Le proposizioni che non si possono nega.
re senza intern a contraddizione, sono analitiche. E
quelle che affermano nessi causali, appartengono al-
la classe delle proposizioni sintetiche.
, Ricud,~ sul/'i "r rl /rlfo "mun" ~ mi pri ncipi d~llil m"Ttllf [tr~d .
il. di G. P,ezzolini . Bari. Lalc r z~ , 1910) prim a ricerca, ~czi(lnc IV.
208
È lecito concluderne che la dottrina momsnca per
cui ogni evento è causalmcnte connesso con ogni al.
tro, è logicamente indipendente dall'altra dottri na
mcnistica presa in esame, che ogni fatto è logicamen-
te contenuto in ogn i altro. Per accettare o rifiutare
la dottrina della connessione causale di ogni fatto
con ogni altro, noi non abbiamo nessuna ragione di
principio a priori; vi sono solo buoni fondamenti
empirici per rifiutarla, in quanto nega la possibilità
della scienza naturale. Infatti è chiaro che, nel com-
piere una qua lunque dat a predizione, siamo capaci
di prendere in considerazione solo una serie limita-
ta di dati; quello di cui non teniamo conto, assumia-
mo di aver diritto di ignorarlo come irrilevante. Per
esempio, al fine di stabilire se domani pioverà, sup-
pongo di non aver bisogno di tener conto delle at-
tuali condizioni di mente dell'imperatore dci Man-
ciu-kuo. Se non ci fosse lecito di fare assunzioni si.
mili, le nostre predizioni non dovrebbero mai avere
alcuna possibilità d i riuscita, poiché ignoreremmo
sempre la maggior parte dei da ti di rilievo. Il fatto
che molto spesso le nostre prediz ioni riescono, ci dà
ragione di credere che almeno alcuni dci nostri giu-
dizi di irrilcvanza sono giusti e, quindi, di rifiutar e
la dottrina monistica che ne nega la legittimità.
L'esposizione degli error i comunemente associati
al rnonismo riveste per noi una importanza norevo-
le, perché vi è un senso in cui anche noi desideria-
mo a nostra volta difend ere l'unità della scienza. In-
fatti sosteniamo che è un errore concepire le varie
" scienze speciali " come descrizioni di d ifferenti
21"
..aspetti della realtà." Abbiamo mostrato che tutte
le ipotesi empiriche in ultima analisi si riferiscono
a contenuti sensoriali. Funzionano tutte allo stesso
modo come " regole per l'anticipazione dell'esperien-
za futura " ; e, nel fare una determinata predizione,
non siamo quasi mai guidati dalle ipotesi di una
scienza sola. L'ostacolo principale al riconoscimento
di questa unità è attualmente la non necessaria mol-
teplicità delle correnti terminologie scientifiche.'
Da parte nostra non ci interessa insistere tanto
sull'unità della scienza quanto sull'unità della filo-
sofia con la scienza. Riguardo alle relazioni intercor-
renti fra filosofia e scienze empiriche, abbiamo no-
tato che la filosofia non entra in nessun modo in
competizione con le scienze. Non compie asserzio-
ni speculative che possano trovarsi in confl itto con
le asserzioni speculative della scienza, n é pretende
di avventurarsi in campi che oltrepassino la sfera
della ricerca scientifica. Questo lo fa solo il metafisi-
ca, col risultato di produrre nonscnso. Abbiamo in-
dicato anche l'impossibilità di stabilire la validità
di un sistema coerente di proposizioni scientific he
con semplici filosofemi. Infatti, che un sistema si-
mile sia o non sia valido, è sempre una questione
di farro empirico; e pertanto le proposizioni della
• Cio che .i richied e per porre fine a que"o inconveniente è il
compimcruo del proge tto di L<:ibnirz d i Una "Ch"rllcirrislicil Uniur-
lalit, " Cfr. OtTo NF.UkAnJ. Einh~tlwilUnlch afl .md PlychoJogi~.
"Ei nhcit,wissenschaf!, " bsc icolo I. e Ei"h"it d", Wisu"", haft als A " f-
fIilk, " Erkenmnis," \'01. V, fascicolo I. Inoltre RIJDoLF C.\IlN.\P, Di"
physi!(afisch" Spradl! ali U" it'cm usprachc a" iVits""lchll/l, " Erkennt-
Ili. , " ,·o\. Il. 1932, e Di" Alt/fIabe acr W ìsunschll/tsJollik , " Einhcits-
wi' scnschaft," fascicolo lII ,
210
filosofia, dal momento che sono proposizioni pura·
mente lingui stiche, non vi possono avere nessuna
port ata. Il filosofo in q uanto filosofo, dunq ue, non
si trova in condizione di asserire il valore di q uesta
o quella teoria scientifica; la sua funzione è sem-
plicemente q uella di chiarificare le teorie con defi-
nizioni dei simboli che vi figu rano.
Si potrebbe pensare che la chiarificazione filoso-
fica di teorie scientifiche sia richiesta soltanto per
la volgarizzazione della scienza e non possa arreca-
re molti benefici agli stessi scienziati. Ma sarebbe
un errore. Basta riflettere sull'importanza che per
la fisica contemporanea ha la definizione einsteinia-
na della simultaneità per rendersi conto di qu anto
sia necessario al fisico speriment ale essere provvisto
di analisi chiare ed esaurienti dei concetti che im-
piega. E il bisogn o di analisi siffatte è anche mag-
giore nelle scienze meno avanzate. Per esempio, 1'0-
diem o insuccesso degli psicologi nell'emanciparsi
dalla metafisica e nel coordinare le ricerche è prin-
cipalmen te dovuto all'uso di simboli come ..intelli-
genza, " ..empatia " o " subconscio, " non ancora de.
finiti con precisione. In particolare le teorie degli
psicoanalisti sono piene di elementi metafisici che
la chiarificazione filosofica dci simboli impiegati to-
glierebbe di mezzo. Sarebbe compito del filosofo
chiarire q uale sia il reale conten uto empirico delle
proposizioni degli psicoanalisri, e qua le la loro re-
lazione con le proposizioni dci comportamentisti o
degli psicologi della Gestalt - relazioni attualmen-
te oscurate da differenze rermin ologiche non sotto-
2 11
poste ad analisi. Neppure è il caso di d iscutere se
un simile lavoro di chiarificazione riuscirebbe favo-
revole, quando non essenziale, al progresso comples-
sivo della scienza.
Ma se la scienza si può dire cieca senza filosofia, è
anche vero che la filosofia senza scienza è virtual-
mente destituita di ogni contenuto. Poiché, se l'ana-
lisi del nostro linguaggio quotidiano riesce un mezzo
utile per prevenire, o isolare, una certa quantità di
metafisica, i problemi che vi si presentano non of-
frono difficoltà né complessità tali da rendere pro-
babile che restino a lungo irrisolti. Anzi, già nel cor-
so di qu est'opera ci siamo occupati della massima
parte di tali problemi, compreso quello della per-
cezione, che è forse il più difficile dei problemi non
essenzialmente connessi con il linguaggio della scien-
za - fatto che spiega perché esso abbia svolto una
parte tanto grande nella storia della filosofia mo-
derna. Quanto sta di fronte al filosofo che trovi suf-
ficientemente analizzato il nostro linguaggio quo-
tidiano, è il compito di chiarire i concetti della scien-
za contemporanea. Ma per essere in grado di fare
qu esto, è essenziale che il filosofo intenda la scien-
za. Se egli non è capace d i intendere proposizioni
scientifiche, allora non è in grado di svolgere la
funzione propria del filosofo nel progresso del sa-
pere. In tal caso, infatti, resta incapace di definire
quei simboli che sopratt utto richiedono di essere
chiariti.
Mantenere tra filosofia e scienza una distinzion e ri.
gida, come si è fatto fin qu i, in effetti conduce fuori
212
strada. Dovremmo piuttosto d istinguere fra l'aspet-
to speculativo e l'aspetto logico della scienza, e as-
serire che la filosofia deve evolvere in forma di lo--
gica della scienza. Distinguiamo, cioè, l'attività del
formulare ipotesi da quella del dispiegare le relazio-
ni logiche di q ueste ipotesi e del definire i simbo-
li che vi figurano. Non ha importanza che si chia-
mi filosofo o scienzia to chi si impegna nella secon-
da di queste due attività. Quello che dobbiamo rico-
noscere è la necessità in cui si trova il filosofo, d i
farsi scienziato in q uesto senso, se vuole produ rre
qualche contributo sostanziale allo sviluppo del sa-
pere.
2lJ
Appendice
215
in secondo luogo quando la ' 1 presunta proposizione"
non fosse né analitica né empiricamen te verificabile,
nulla, secondo questo modo di parlare, si potrebbe
dire con proprietà espresso dall'enunciato in parola.
Ma se l'enunciato non esprime nulla, sembra con-
tradd ittorio dire empiricamente inverificabile ciò che
esprime; poiché, quando anche l'enunciato per qu e-
sta ragio ne di prin cipio si giudichi privo di signifi-
cato, il riferirsi a " ciò che esprime " ancora implica
aperta mente che sia espresso qualcosa.
Comunque si tratta solo di una difficoltà termina.
logica, che è affront abile in vari modi. Uno pctreb-
be essere quello di far valere il criterio di verifica-
bilità direttamente per gli enunciati, eliminando co-
SI ogni riferimento a proposizioni. Questo, certo, an-
drebbe contro l'u so istituzionale corrente, dal mo-
mento che norm almente nessuno direbbe suscettibile
di verifica l'enu nciato a differenza della proposizio-
ne, o anche semplicemente che esso è vero o falso,
se è per questo; ma una giustificazione per sco-
starsi cosi dall'uso istituito si potrebbe ancor sem-
prc trovarla, dove se ne potesse indicare qualche
vantaggio pratico. Il fatto è che un simile vantaggio
pratico sembra stare piutt osto dall'altra parte. L'uso
della parola proposizione," infatti, se da un lato
Il
216
co. Se, per esempio, asserisco che la propo slZlone p
è conseguenza della proposizione q, senza dubbio
dichiaro che l'enunciato inglese s, esprimente p, si
può derivare in modo valido dall'enun ciare inglese T
che esprime q, ma quanto vog lio dire non è tutto
qui. Infatti, se ho ragione, da quanto affermo con-
segue pure che qualunque enunciato equ ivalente a
s, nella nostra o in qualsia si altra lingua, si può
derivare in modo valido, nella lingua adottata, da
qualunque enunciato eq uivalga a T j e il mio uso
della parola "proposizione" indica proprio questo.
Secondo quanto in genere si ammette, potremmo de-
cidere di usare la parola " enunciato" nel modo in
cui ora usiamo la parola" prop osizione," ma ciò non
gioverebbe alla chiarezza, soprattutto perché la pa·
rola "enu nciato" è già ambigua. In caso di ripetizio-
ne, per esempio, si può d ire sia che si tratta di due
enunciati diversi, sia che lo stesso enu nciato è sta-
to formulato due volte. Fin q ui io san venuto usan-
do la parola in questo secondo senso, ma l'altro uso
corrente è altrettant o legittimo. In ent rambi l'emm-
cinto espresso in inglese si riterrebbe diverso d all'e-
q uivalenre francese, ma ciò non andrebbe bene per
quel nuovo uso della parola " enun ciato " che intro-
durremmo sostituendo ... enunciato " a " proposizio-
ne." In tal caso dovremmo dire l'espressione inglese
e l'equi valente francese due form ulazioni diverse del-
lo stesso enu nciato, non due enunciati diversi. Po-
tremmo certo trovare qualche giustificazione ncll'au-
men tare a questo modo l'ambiguità della parola
" enun ciato" se evitassimo con ciò alcune delle dif-
217
ficoltà pensate inerenti all'uso della parola ..propo-
sizione"; ma non sono dell'avviso che si possa riu-
scire a far q uesto con la pura e semplice sostituzio-
ne di un segno verbale all'altro. Ne concludo che
un siffatro uso tecnico della parola" enunciato," per
quanto in sé legittimo, verosimilmente servirebbe a
ingcnerare confusione senza assicurarci il compenso
di nessun vantaggio.
Un secondo modo di affrontare la nostra difficoltà
di partenza sarebbe quello di estendere l'uso della
parola " proposizione," cosl da dire che tutto quan-
to si chiama con proprietà enunciato, esprima una
proposizione. sia che l'enunciato abbia significato in
senso letterale sia cile non ne abbia. Questo partito
avrebbe il vantaggio della semplicità, ma è aperto a
.due obiezioni. La prima è che ciò comporterebbe
un distacco dall'uso istituzionale corrente in filoso-
fia; inoltre, seconda obiezione, ci obbligherebbe ad
abbandonare la norma che og ni proposizione è da
ritenere vera o falsa. Se infatti istituissimo q uesto
nuovo uso, potremmo ancora dire che tutto quanto
è vero o falso è proposizione. ma l'inverso non re-
sterebbe valido ; poiché la proposizione espressa dal-
l'enunciato privo di significato nel senso letterale,
non sarebbe né vera né falsa. Da parte mia non p en~
so che queste obiezioni siano molto gravi, ma forse
lo sono abbastanza per rendere consigliabile qualche
altra soluzione del nostro problema di term inolo-
gia.
La soluzione che preferisco consiste nell'introdur-
re un nuovo termine tecnico e a q uesto scopo impie-
gherò la fam iliare parola " affermazione," per quan-
ro forse in un senso leggermente non familiare. Pro-
pongo dunque di convenire che costituisca enun-
dato q ualsiasi combinazione di parole abbia signi-
ficato per la g ramm atica, e che ogni enunciato di-
chiarativo esprima una affermazione, sÌ:J. o non sia
letteralmente significativo. Inoltre si dovrà dire che
d ue qualsiasi enunciati traducibili l'uno con l'altro
esprimono la stessa affermazione. La parola " pro-
posizione," invece, sarà riservata a ciò che viene
espresso da enunciati significativi nel senso lettera-
le. In questo uso delle parole, d unqu e, la classe
delle proposizioni diviene una sotroclassc di quella
delle afferma zioni, e un modo di descrivere l'uso del
principio di verificazione consisterebbe in ciò: che
esso dà mezzo d i stabilire qua ndo un enunciato di-
chiarat ivo esprime una proposizione, ovvero, in altre
parole, di distinguere le affermazioni appartenenti
alla classe delle proposizioni da quelle che non vi ap-
partengono.
Decidere di dire che gli enunciati esprimono affer-
mazioni, si noti, non implica null'altro che adottare
una convenzione verbale ; prova ne sia che la doman-
da "Che cosa esprimono gli enunciati? " a cui ci dà
cosi u na risposta, non è una domand a fattuale. Chie-
dere che cosa viene espresso da q uel particolare enun-
ciato può certo essere una domanda fattuale; e un
modo di rispondere sarebbe q uello di prod urre un
secondo enunciato che sia la trad uzione del primo.
Ma se è da interpretare in senso fattuale la doman da
generica ..Che cosa esprimono gli enu nciati ?" rutto
219
qu anto si può rispondere è che, siccome non tutti gli
enunciati si equivalgono, non si dà cosa alcuna che
sia espressa da tutti . Al tempo stesso, in certi casi dove
gli enunciati non vengono specificati in particolare,
riesce utile avere la possibilità di riferirsi in modo in-
definito a " ciò che gli enunciati esprimono "; e la
introdu zione della parola " affermazi one" come ter-
mine tecnico risponde a questo scopo. Dicendo dun-
que che gli enunciati esprimono affermazioni, indi-
chiamo come sia da intendere questo termine tecni-
co, ma non comunichiamo nessuna informazione di
fatto nel senso in cui comunicheremmo informazio-
ni di fatto rispondendo a domand a che fosse empi-
rica. Questa, anzi, può sembrare una precisazione
persino troppo ovvia perché valga la pena di com-
pierla; se non che la domanda " Che cosa esprimono
gli enunciati? " è in stretta analogia con la domanda
"Che cosa significano gli enunciati ?" c, come ho
cercato di mostrare altrove/ qu esta seconda doman-
da per certi filosofi è stata fonte d i confusioni pro-
prio perché erroneamente hanno pensato che fosse
fattuale. Dire che gli enunciati dichiarativi significa-
no proposizioni è certo legittimo quan to dire che e-
sprimono affermazioni. Ma quello che andiamo fa-
cendo nel dare risposte di questo genere, è la sem-
plice posizione di definizioni convenzionali; ed è
importante che qu este definizioni non vengano con-
fuse con affermazioni di fatto empirico.
220
Ritorn ando ora al principio di verificazione. per
far la breve possiamo applicarlo d irettamente alle af-
fermazioni piuttosto che agli enunciati che le espri-
mo no, c allora siamo in gra do di riformularlo dicen-
do che la affermaz ione si considera significativa nel
senso letterale se c solo se è analitica o empiricamente
verificabile. Ma che cosa si deve intende re nel pre-
sente contesto col termine "vcrificabilc"? Effettiva-
mente io ho cercato di rispondere a questa doman da
nel primo capitolo; ma devo riconoscere che la mia
risposta non sodd isfa molto.
Per cominciare, si vedrà che io d istinguo fra senso
"proprio" c senso ..improprio " dci term ine "vcrifi-
cabile. " e spiego questa distinzione dicendo che "la
proposizione si dice vcrificabile nel senso prop rio del
termin e se c solo se la sua verità si può stabilire nella
esperienza in modo conclusivo," mentre" è verifica-
bile in senso improprio quando con l'esperienza la si
può rende re probabile." E poi adduco ragioni per
concludere che il mio principio di verificazione esi.
ge soltanto il senso imp roprio del term ine. Quan to
sembra esserm i sfuggito t: che, cosi come li presento,
q uesti non sono i due corn i di u na alterna tiva autcn-
tica.' Infatti nel seguito procedo nell'argomentare che
tutte le proposizioni empiriche sono ipotesi soggette
di continuo alla prova dell'esperienza successiva ; c
da ciò non conseguirebbe soltan to che la verità di
ogn i proposizione siffatta non si può mai stabilire in
modo conclusivo, ma che non la si può stabilire mai;
• Vedi M. L.U ROWlrl, Slro"K Il'''/ Wl"lIk 1' ..,i/i"lIli'JTI, ~MiJl(l ,"
1939, pp . 202·213.
poiché, per quanto stringente riesca l'evidenza in fa-
vore di essa, non si arriverebbe mai al punto in cui
all'esperienza successiva sarebbe impossibile volgersi
a suo sfavore. Ciò signific herebbe che il mio senso
"proprio" del termine" verificabile" non aveva nes--
suna possibilità di applicazione, e in tal caso per mc
non sussisteva alcun bisogno di q ualificare improprio
l'altro senso di " verificabile" ; infatti, da q uanto io
stesso mostravo, q uesto secondo risultava l'un ico sen-
so in cui si potrebbe concepire verificata una qual.
. . ..
SlaSI prcposmcne-
Se oggi non ne tiro questa conclusione, è perché
mi è venuto in mente che esiste una classe di propo-
sizioni empiriche di cui è lecito dire che si possono
verificare in modo conclusivo. È caratteristico di que-
ste proposizioni, da me chiamate altrove' "proposi-
zioni di base." il riferimento esclusivo al contenuto
di una singola esperienza e quant o si può dire le ve-
rifichi in modo conclusivo è appunto l'aver luogo dd -
l'un ica esperienza a cui si riferiscono. Oggi inoltre
sarei d'accordo con coloro che dicono" incorrcggibi-
li" le proposizioni di qu esto genere, se con il loro
essere incorreggibili si intende l'impossibilità di com-
mettervi errori oltre che semplici impropri età verbali.
Certo la possibilità di descrivere male, in senso verba-
le, la propria esperienza resta sempre aperta j ma se
ci si limita a registrare quello di cui si ha esperienza,
senza riferirlo ad altro, non è possibile commettere
"
a Ilermazronc "O" " O" (l"iscencIe (Ia " S'" 1Il con grun-
.
zionc con " se S allora O" senz a discendere da " se
S allora O " presa da sola. Per esempio, le affermazio-
ni "l'Assoluto è pigro" c " se "Assoluto è pigro. :11-
lora questo è bianco," congiunte, im plicano la affer-
mazionc di osservazione " qu esto è bianco," c sicco-
me "questo è bianco " non consegue da nessuna delle
d ue premesse pres a da sola, q ueste sod d isfano en tram-
be il mio criterio dci significato. La stessa conclusio-
ne, inoltre, resterebbe valida per q ualunque altro non-
senso si avesse cura di mettere, per esem pio, al posto
di " l'Assoluto è pig ro, " alla sola condizione di pre-
sentarlo nella forma gram maticale dell'enunciato di-
chiarativo. Ma il criterio dci significato che concede
una simile larghezza, è evidentemen te inaccettabile.'
Si noti elle la stessa obiezione vale anche per la pro-
posta di prendere come criterio la possibilità d i fal-
sificazione. Data, infatti, una qu alunque affermazio-
ne " S" e una qualunqu e affermazione di osservazio-
ne " O," " O" risulterà incompatibile con la congiu n-
zione di " S" e " se S allora non O." Certo potrem-
mo evitare la difficoltà in ent rambi i casi, omettendo
b convenzione fi ssata riguardo alle altre premesse.
, "'"di I. lIU lI '< , Vuifiability i" /'rit:àp/r. u Pro.;"C'Jing~ <lf the
Ari.totd i3n So.:iCI)",~ \",,1. XXXIX.
Ma siccome ciò implicherebbe l'esclusione di tutte le
proposizioni ipotetiche dalla classe delle proposizioni
empiriche, eviteremmo di avere dei criteri troppo li~
berali solo con l'inconveniente di renderli troppo ri-
stretti.
Altra difficoltà da me trascurata nel mio primo ten-
tativo di formulare il principio di verificazione è che
la massima parte delle proposizioni empiriche sono
in qualche misura vaghe. Ciò che, per esempio, si ri-
chiede per verificare l'affermaz ione intorno a cosa
materiale, non è mai, come ho nota to altrove; pro-
prio l'aver luogo di questo o quel contenuto senso-
riale piuttosto che di altri, ma solo l'aver luogo dell'u-
no o dell'altro di quei contenuti che rientrano in
un settore ragionevolmente indefinito. Senza dubbio
noi sottoponiamo a prova qualunque affermazione
simile facendo delle osservazioni che in definitiva
consistono nell'aver luogo di particolari contenuti sen-
soriali ; ma, per qual siasi prova da noi effettivamente
compiuta, sussiste sempre un a indefinita quantità di
altre prove che, vuoi nelle condizioni di realizzazio-
ne, vuoi nei. risultati, in qualch e misura ne differi-
rebbero e tutt avia avrebbero svolto la medesima fun-
zione. E ciò significa che non si dà mai un insieme di
affermazioni d'osservazione che veramente si possano
dire proprio q uelle implicate, a differenza di altre, in
una qu alunq ue data affermazione intorno a cosa ma-
teriale.
Comunq ue una qualsiasi affermazione intorno a
2-10
non che essa è il tipo d'azione prescritto o vietato da
q ualche autorità ecclesiastica; e anche questo si può
verificare empiricamente. Ora, in simili casi, la com-
binazione di parole che esprime l'affermazione fat-
tua le è q uella stessa che si userebbe per esprimere
l'affermazione normativa ; e ciò in qualche misura
può spiegare perché affermazioni solitamen te rico-
nosciute nonnativc spesso venga no invece considera-
te fattua li. D i più, una gr ande q uantità di afferma-
zioni etiche contiene come elemento fattuale interno
q ualche descrizione dell'azione o della situazione per
cui il termi ne etico in parola deve valere. Ma, sebbe-
ne si possa dare un certo numero d i casi dove questo
term ine etico per sé va inteso in senso descrittivo, io
non penso che sia sempre cosi. Penso sussistano mal.
te affer mazioni dove il termine etico è usato in modo
puramente nor mativa, cd è per affermazioni di que-
sto genere che intendo far valere la teoria emotiva
dell'etica.
A chi obietta che se la teoria emotiva fosse giusta,
sarebbe impossibile contraddirsi l'un l'altro Sll q lle-
sticni di valore, ripeto che quelle che sembrano di-
spute su questioni di valore, in realtà sono dispute su
questioni di fatto, Però, come avrei dovuto precisare,
da ciò non consegue che due ind ividui non possano
contrariarsi significativamente intorno a qu estioni di
valore, né che pcr loro sia ozioso cercare di convin-
cersi a vicenda. In fatti l'esame di una qualunque di-
sputa intorno a questioni di gusto vi mostrerà che può
sussistere disaccordo anche senza contraddizio ne for-
male c che allo scopo di modificare le opinioni altrui,
nel senso di indurre qualcuno a cambiare il proprio
atteggiamento, non è necessario contraddirne le as-
serzioni. CoSI, se desideriamo influire su qualcuno
in modo da portarlo ad armonizza re fino a un cer-
to punto i suoi sentiment i coi nostri, ci è lecito
procedere in vari modi. Uno, per esempio, può ri·
chiamare l'attenzione dell'altro su certi fatti che sup-
pone da lui trascurati ; c, come ho già notato, io
credo che buona parte di quanto passa per discus-
sione etica, sia un procedimento di questo tipo. T ut-
tavia è possibile esercitare influenze sul prossimo
anche con adeguata scelta dci linguaggio emotivo ;
e qu esta sarebbe la giustificazione pratica dell'im-
piego di espressioni normative di valore. AI tempo
stesso, si deve pur ammettere che se l'altro persiste
nel mantenere l'atteggiamento contrario senza co-
munque discutere fatti di rilievo, la discussione rag-
giunge un punto morto. E in tal caso chiedere quale
delle concezioni in confli tto sia vera, non ha senso.
L'espressione del giudizio di valore non è una pro-
posizione, dunq ue la questione della verità o falsità
neppure VI sorge.
Natura dell'analisi filosofica. - Citando la teoria
delle descrizioni di Bertrand Russell come modello
di analisi filosofica, purtroppo sono incorso in un
errore di esposizione. Dopo aver preso l'esempio fa.
miliare di "L'autore del Wuuerlcy era scozzese," l'ho
detto equivalente a " Un individuo e uno solo ha
scritto il W aoerlcy c q uell'individuo era scozzese."
MJ, come subito indicò la professoressa Srcbbing nel-
la sua recensione di q uest'opera, " se la parola 'quel-
lo' si usa con semplice valore di riferimento, 'q uel.
l'individuo era scozzese' eq uivale già all'intero in-
sieme dell'origin ale," e se invece la si usa in senso
dim ostrativo, allora l'espressione definicnte " non ri-
sulta una tradu zione dell'origina le. ,," Nella versione
datane a volte dallo stesso Russell" L'autore del IO
2H
classe di espreSSIOI1I, alle quali "l'autore dci Wa-
ocrley " serve solo da esempio tipico.
Error e più grave del la impreci sa interpretazione
di "L'autore del Wa vcrle)' era scozzese " è stato quel-
lo di assumere che l'a na lisi filosofica consista pri n-
cipalmenre nel forn ire " definizioni d'uso." Senza
dubbio è vero che in quanto descrivo come analisi
filosofica si tratta in mi sura molto am pia di eviclen-
ziarc le relazi on i intercorr en ti fra tipi diversi d i pro.-
posizioni" ; ma i casi in cui un procedimento sif-
fatto produce effenivamcntc delle definizioni sono
l'eccezione piuttosto che la regola. CoSI il problema
di m ostr are come le affcnnaxioni intor no a cose ma-
teriali si riferiscono ad affermazioni di osservaz ione
- che t: in effetti il tradizional e problema della per-
cezionc, - per essere risolte si potrebbe pensare che
r ichieda si indichi un metodo di tr aduzione delle af-
fer mazioni int orno a cose m ateriali in affermazioni
di osservazione, c con ciò richieda quello che si po-
trebbe considerare un a defini zion e della cosa mate-
riale. Ma in realtà ciò è im possibile ; poiché, come ho
g-ià notato, all'affermazione int orno a cosa materiale
non equivale mai nessun a serie finita di affermazioni
d'osservazione. Quello che tu ttavia si può fare è la
costruzione di uno schema che mostri quale sorta di
relazioni debbano int ercorrere fra contenuti sensoria-
li, affinché in og ni caso dato sia vero che la cosa ma-
ter iale esiste : parl ando con pr opr ietà questo procc-
H5
dimento non si può dire produca una definizione,
ma effettivamente riesce a mostrare come il primo
tipo di affermazione si riferisca al secondo." Pari-
menti, sul piano della filosofia politica, affermazioni
prodotte al livello delle istituzioni politiche probabil-
mente non si potranno tradurre in affermazioni in-
torno a individui; poiché, sebbene quello che si dice,
per esempio, intorno allo Stato, si possa verificare
solo nel compo rtamento di certi individui, di solito
una afferm azione simile è cosi indefinita da impedire
un'equivalenza esatta con q ualsiasi determinato in-
sicmc di affermazioni intorno al comportamento di
individui. Cionondimeno qui di nuovo è possibile
indicare qua li tipi di relazioni debbano intercorrere
fra gli individui affinché le affermazioni politiche in
qu estione siano vere: cosicché se pu r non si otten-
gono effettive definizioni, il significato delle affer-
mazioni politiche resta appropriatamente chiarito.
Certo in casi come i precedenti di fatto pervenia-
ma ancora a q ualcosa che si avvicina a una definì-
zionc d' uso; ma si danno altri casi di analisi filoso-
fica, dove non si offre né si cerca nulla che sia pure
lontanamente somigli a una definizione. Cosi, quan~
do il professar Moore suggerisce che dire " l'esi-
stenza non è un predicato" può essere un modo di
d ire che " sussiste qualche differenza molto impor-
tante fra il modo in cui si usa 'esistere' in enunciati
come 'Esistono tigri add omesticate' e quello in cui
" Vedi Th~ Fr)llnJ"lions 01 Empiri,,,! Kno"kJJI~, l'I'. 243·2 63;
""O lfl ,\Iauri,,/ O"in lS, "Procccdin g$
e R. ll. 1l1tA1TH......' n, l'ropositio"s
of tb c Arv.tOle!ian Socict)" ~ \ '0 1. XX,,,(vllI.
2<6
si usa 'ringhiare' in 'Le tigri addomesticate ringhia-
no,'" egli non svolge il tema dandoci regole per la
traduzione di una serie d i enunciati in un'altra. Ciò
che egli fa. consiste nel notare che, laddove ha in-
d ubbiamente senso dire "Tutte le tigri addomesti-
cate ringhiano" o " La massima parte delle tigri ad-
domesticate ringhia," sarebbe nonsenso d ire " T utte
le tigri addomesticate esistono " o " La massima par-
te delle tigri addomesticate esiste. "" Ora, la sua può
sembrare una precisazione piuttosto banale perché
valga la pena di insisrervi, ma in realtà per la filoso-
fia riesce illumi nante. Infatti " l'argomento antolo-
gico" comincia a divenire plausibile proprio qu ando
si assume che l'esistenza sia un predicato ; c l'argo-
mento antologico si suppone dimostri l'esistenza d i
Dio. Di conseguenza, additando una lieve peculia-
rità nell'uso della parola " esistere. " Moorc aiuta a
guarda rci da u na fallacia non lieve ; cosicché, quan -
tunq ue d iverso da q uello seguito da Russell nella
teoria delle descrizioni, il suo modo di procedere
tende a raggi ungere lo stesso fine filosofico."
In q uest'opera io sostengo che non rientra nel
1 -1'1
non so scoprire modo migliore di spiegare la mia
concezione della filosofia di qu ello di ricorrere a e-
sempi ; e un esempio di tal genere è l'argomentazio-
ne di q uesto libro.
W adham College,
Oxford, gennaio 1946. A. 1. Ayer
250
Nota
251
la raccolta Philosophical Essays (1954) e Thc Probìcm vf
Knofl'ledge (1956). Della fortu na editoriale toccata all'ope-
ra prim a, di cui d iamo q ui la versione italiana, c come se ne
gius tifichi una nuova pubblic az ione dopo circa un q uarto di
secolo, dice in breve l'Autore stesso all'inizio e alla fine del-
l'appendice agg iunta nel 19-16.
252
e citano, come em piristi. I l ume e i filosofi dell'illum ini smo,
Co mte, Mill. A vcnarius e Mach: come filosofi della scienz a,
Helmholtz, Riemnnn, Mach, Poincar é, E nriquc s, D uhem,
Holrzma nn e Ein stein ; come cu ltori d i logica pura e applica la,
Lcibniz , l'cano, Frege , Schrodc r, Russell, Whitehe.ul c \V iu -
ge m tein; come assiumatisti, I' asch, Penne , Vailati, l'ieri, Hil-
lx-rt; come mor nlisri e sociologi di stampo crnpirico-pcsiti-
vistico, Epic uro, H umc, Bcntharn , Mill, Comte, Spcnce r.
Fc ucr bach, Ma rx, Mìille r-Lyce, Popper -Lyn kcus c Kar! Mcn -
gc r scruor,
L'e lencn & piuttosto ampio e comprensivo. m ;> in molt i
casi si riferisce evidcrucmeuu- solo ad alcuni aspett i J egli
autori citati. Lcihniz, per esempio, vi è compreso per la lo-
gÌça e non per la met afisica; Karl Mar x non vi figur a né
pe r la logica né per la metafisiea, ma solo l'cr la concezione
scient ifica de lla storia. Se esclud iamo i con tempo rane i, gli
autori piu vicini al circolo vicnncse risultano, in sosta nza,
lI um e e Much.
( COlllCm POranei Einstein, Russcll e \Vi n genstcin sono ri-
cordati nel man ifesto per rag ioni d i affinità col Circolo e
per il var-io infl usso esercitatovi. \ Vittgenstcin, in particoln-
re, viene a trovarsi nei conf ront i del Ci rcolo in una situa-
zione tutt a speciale. Scolaro di Russelt a C:lmhridgc prima
dd 1914, fece poi rito rno a Vicnna, dove an cora si trovava
qu ando appa rve ilei 11)21 la sua Logùch-l'hilosophùche Ab-
handlulIg - più nota col titolo delln versione inglese T rec-
ratus L ogico·/'hilosophicl/S. Su l gene rale mo vimento posiu-
vistico con temporaneo quest'opera esercitò un influsso mul-
to cunsiderevole sia :I Vicnna sia altrove; ma sarebbe ine -
satto d ire che il circolo vicnnesc abbia tratto da essa la sua
pr ima ispirazione. poiché già nella A I/gemàne J:'I"kClI lllllù'
}ehre dei 19U1 Schlick era giunto pe r propr io conto a un a
concezion e filosofica mol to simile. Inohre nel T racrat«s si
incom m no varie tracce di m isticismo che ri usciron o ulq uan-
ro sconcertanti per alcu ni mem bri del circolo e specialmen-
te per N eu rath. Comunq ue nel com plesso essi lncccrta rcno
25->
e cosi il T ractatus rimase l'esposizione plU inCISIVa, anche
se certo non la piu chiara, della loro prospettiva.
Wiugenstein non aderi mai ufficialmente al circolo, tutta-
via man tenne strette relazioni personali con Schlick c Wais-
mann, che continuò a influenza re anche dopo il suo ritorno
a Camb ridge nel 1929. Q ui insegnò fino al 19-17, qu attro
anni prima della morte, dom inando incontrastato e, pu r
senza pubblicare nu ll'alt ro che un breve scritto, il suo in-
flusso - anc he ind iretto - sulla nuova generazione d i filo-
sofi inglesi sembra essere stato molto forte. Il rigore del suo
precedente positivismo aveva subito nel frattempo una Ira-
sformazione di cui dà la giusta misura il confr onto dci
Tractatas con le postume UnurStlch ungen o Philosophù;al
ln llestigatioTlS (1953). A lui, in combinazione con Moore,
va certo attribuito in larga misura l'interesse dei filosofi in-
glesi contemporanei per il linguaggio che si dice "colloqu ia-
le" e la loro tendenza a occuparsi di question i filosofiche
in forma asistematica per via di esemp i, in contrasto col ri-
gore metodico del C ircolo viennese. Q uesta, press'a poco,
è anc he una delle ragioni per cui certi anal isti inglesi, a
d ifferenza dell'Ayer, non am ano trovarsi inseriti nel posiri-
vismo logico.
Nello stesso 1929 il Circolo organizzò il primo congresso
imernazicnale, che si tenne a Prag:l e fu seguito da altri
cong ressi a Kdnigsberg. Copenaghen, P raga, Par igi e Cam-
bridge. Questi cong ressi restano l'espressione storica del ca-
ranere costituzionalmente internazionale che il Circolo im-
prirneva, nella teoria come nella pratica. al pcsirivismc lo-
gico. Aveva già assunto - fatto di notevole importanza -
un atteggiamcllto fusionista con la Scuola d i Berlino, di cui
furono massimi esponenti H ans Reichenbach, Richard von
~t iscs, Kurt G reJling c più tar di Ka rl Hempel. E i congres-
si favorirono altri non u ascurabili contatt i: con pcnsatc ri
scandinavi come Eino Kaila, Arnc Naess, Àke Peraall, [oer-
gcn Jocrgcnsen; COli la scuola empiristica d i Uppsala; con
il gruppo olandese g ravitante intorno al filosofo Mannoury;
15'
con il gr up po dci logici di Mim stcr diretto da H einr ich
Scholtz ; con simpatizzanti americani quali Nagel, Charles
Morr is, Quine : con alcuni an alisti inglesi come, n O xford .
Gil hert Ryle, l'au tore di T he Conr epr 01 Mind (1 949) noto
in Italia nell'ed izione Lo spirito (Ome comportamento (1955),
Iohn \V isJ om, att ual mente insegnante a C.1mb ridge, di cui
sono indicative le due raccolte di saggi O/ha Niods (1952) e
Philosophy and I'sycho-A nalysis (1953), R. B. Brairhwaite,
Susan Stebbing e - non ult imo - il nostro Autore. Strette
relazi oni si i nstaur arono anche e in alcun i casi sop rattu tto
con im portanti g ruppi di filosofi e logici polacchi i cui mns-
simi esponent i fur ono probabilmente Lucusicwicz, Lesniev-
sky, Chwisrek, Kotarbi nski. Ajdukicw icz e Tarski - que -
st'u ltimo soprattutto in fluen te nel caso (Ii Ca rnnp.
Nel 1930 fu fonda ta un a rivista chia mata prim a AnnalclI
da PhilQsophie e poi J:rken ntnis, che sotto la direzione d i
Cam ap e Reichenbach divenn e l'organo principale del mo-
vimento. Negl i anni segue nt i comparvero una serie di mo-
nogmfie dal titolo collettivo J:i nheit JlI'issen"(c/lO ft (Scienza
Unificata) e una raccolta di opere sotto la di rezion e gene-
rale di Schlick c Philipp F ra nk con il titolo Sd ril/('n eur
WiJsc/lSchafrliclle Welttl llUasJllng. A questa raccolta contr i-
buirono lo stesso Schlick con un'opera sull'e lica c Frauk
con un'ultra sulla cnusalità e suoi limiti. Altr i lesti che vi
al'pan"ero con pa rticolare peso, teorico e stor ico, sono u na
celt-bre opera d i Cama p sulla sintassi log ica (lei linAuag-gio,
cita ta anche nel presente tr attato, quella di Neurath, a suo
modo ispimntcsi al marxismo, sulla sociologia, (' la Logik
der Forsehllng d i Kar ! Poppcr, ded icata 3.lb filosofia della
scienza.
Fra il '30 e il '40, se il movimento logico-positi\"i~t ico gU3.-
dngnava ter reno, il vero e proprio Circolo vienn ese da parte
sua ent rava orm ai in crisi. Cnmap e Frank int orno ;11 1933
accettarono cattedre all'università di Praga e alle riunioni
del circolo presiedevano ora solo Schlick, N curath . Wa is-
ma nn e IIah n. Ma H ah n mo ri nel 1934 e due anni dopo
155
Schlick, cinquantaquattren ne, cadeva vittima della follia di
uno studente sull'entrata dell'U nive rsità. Il tono ostile dci
commenti appa rsi sulla sta mpa governa tiva , come se i po-
sitivisti non meritassero che d i veni re assassinati dagli sco-
lari, era il preannu ncio dd prossimo futuro. Dove si ceca-
tui N curat h, che fece parte dci breve governo rivoluziona-
rio comunista d i Monaco de l 7 apr ile 1919, i suoi membri
non avevan o svolto attività politiche, ma il loro atteggia.
mente critico li doveva rende re sospetti sia ai governi di de-
stra clericali e cristiano-sociali, di Dolfu ss e Schuschn igg, sia
e ancor più al naz isrno. Per la maggi or par re furono per-
ta nto costretti all'esilio.
L'avvent o del naaisrn o riusci fatale anc he alla Scuola di
Berlino, ment re i gruppi polacchi venner o d issolti dall a
guerra . Ncu rath, rifugiatosi in Olanda , fece un serio te nta-
tivo di ccnrinuarc il movime nto. La rivista r:rk ~nnlnis di-
"enne The [ournal o/ Unifit!d Scimce, puhb licato a l'Aia, e
presso l'u niversit à di Chicago, dove nel fratte mpo si era
stab ilito Camap, si presero accord i per la pubblicaz ione di
una serie di op uscoli con il titolo l ntem ationat r:n cydop~dia
of Un ified Science, Si progettarono altr i wngressi. Ma con
l'inizio della seconda conflagrazione mondiale e con la mor-
te di Ncurath in Inghilterra pochi ann i dopo, il movim ento
perdette ogni coesione storlog raficamentc apprezzabile. La
massima parte de i volumi progettati per l'Enc}'c/opdia vi.
dero effetti vamente la luce, m" la pubbl icaz ione dci [oum al
of Unjfi~d Scicncc cessò ben presto per semp re. Fcigl, Godei ,
F rank, H em pcl c T arski si tr ovano ancor ogg i, come Ca rnnp,
in università degli Stati Uniti; \Va ismann e Poppe r in In-
g hilterra . Scholrz è rimasto a Munster, Kotar binski e Ajd u-
kiewicz in Polonia. Victor Kraft ha ripreso la propri " cane-
dra all'u niversità di Vienna. Ma per gr ande che sia l'in -
flusso esercitato individ ualmente da coloro che sono rimasti.
non si può dire che essi costituiscano ancor a una scuola vera
e propr ia. In ques to senso, scompag inata dalle congiunt ure
storiche, la scuola ha cessato da tempo di esistere, anche se
256
la sua eredità permane VIVISSlma.
N'egli Stati Un iti u n certo numero d i filosofi come Q uine,
Nagel e Nelson Goodrn an sì dedic ano all'a nalisi logic3 con
uno spirito sistematico che probabilmente è il piu vicino 31
program ma vicnn csc. Moho notevoli sotto questo aspetto
sono T hc Strucrure o/ A ppearal/cr (1951) d i Nelson Gcod -
mnn e la raccolta di sagg i From a L ogical I'oint oJ WietfJ
( 1953) di Q uine. L'interesse per la logica simbolica pone
qu esti autori in stretto rapporto con T nrski, Giidel, C hurc h
c altri memb ri di un più recente gruppo di logici ame ricani.
1..0 stesso si può d ire di Feigl, d i H cm pel, di Cam ap c dci
suoi scolari - fra i q uali Bar H illel, che insegna attua lmen-
te ali'università di G erusalemme. Altri pensato-l come Nor-
man Malcolm, Morris Lazerowitz e C. L. Stcvenscn - pure
ricordati dall'Autore - sembrano piu sensibili all'e redità di
G. E. Moore e dell' ultimo w ittgcnstein c affrontano problem i
pi ù consonant i con qu elli dell'attuale pensiero filosofico in-
glese.
Ne i paesi scand inavi, a Kaila si è aggiunto, nell'università
di H elsinki, Georg H. von Wright, un di scepolo di Win-
genstei n che in un primo tempo era succeduto a quest'ulti-
mo come professore <Ii filosofia a Cambridge. L 1 scuola di
U ppsala cont inua sotto ln dire zione di H edenius, Segersredt
t: Marc-Wogau, e con l'appoggio dci logico \Vedherg a Stoc-
257
di rado una certa diffidenza. Con quest'opera l'Autore in-
seriva naturalmente l'atteggiamento viennese in una cu ltura
dove da Lccke, Berkeley e Hume su su fino a G. E. Moore
- d i cui non si d irà mai a sufficienza la parte tenuta nel
pensiero inglese contemporaneo, compara bile q uamit ativa-
mente a qu ella di B. Croce nel pensiero italiano - la filoso-
fia è stata ed è sopratt utto attività analitica, ma certo non
tutta e non immediatamente" positivismo logico." Per con-
cludere, senza dubb io è corretto definire l' Autore u n pcsiri-
vista logico, e legittimo considera rlo uno dei migliori fra i
viventi, ma altrettanto doveroso ricorda re che è un filosofo
inglese; che angl icizza alquanto i termini e i problemi del
pensiero logico-positivistico; che di qu esta vasta corren te egli
offre q ui una versione di proposito anglicizzata. Col neoposi-
tivismo d i Carna p o di Reichenbach essa, tutto sommato, ha
meno a che fare - direttamente - di quanto un lettore
sprovveduto potrebbe supporre. Anche dove il testo si ispira
o si accosta in modo esplicito, per esempio a Carnap, l'ori-
ginalità della traspo siaione - se pur si può parlare di tra-
sposiaione o di trapia nto - è tale (la richiedere una serie
non ovvia di eq uivalenze termino logiche e di passaggi per
potcrvi scorgere la fonte o connettere in concreto i d ue di-
scorsi filosofici. Nella prospett iva di questo riambientamento
cultu rale del punto di vista viennese è da prendere, per esem-
pio, l'insistenza fenomenistica sul "problema della perce·
zionc " e sua rid uzione analitica.
259
L 'enun ciato (in ing lese: g ntence ), qu ando è d ichiarat ivo,
esprime (in inglese: to exprrss ed altr i; in tedesco: afm agen ,
aUJdriicken ed altril una proposizione (ingl. proposition,
ted. Satz). Nella tr adizione logica e nella logica contempo-
ranea la proposizione è u na espressione o frase (ingl. a -
preseion, rlttl:ranu; led. A IUdruck , A fu sagl:, Alusprache) che
può essere vera o falsa, ment re preghiere o comandi, esor-
tazioni, invocnaioni, domande e simi li, non potendo essere
veri o falsi ma solo espressi o non espressi, sono espressioni
o frasi ma non sono pro posizioni. L'atto e il fan o dell'affer-
mare, porre o produ rre (ingl. to state, led. aufstdll:n) un
enu nciato - per lo più o, secondo altri criteri, soltanto enu n-
ciato dichiarativo - in lingu a ang losassone si chiama state-
me nt (red. Aufstdlu ng. Ansatz) , che in genere chiun que
rende in italiano con " affermazione." E in quanto si tr att a
di " affermare che..." oppu re d i " affermare che non...." si
danno posinoe e negatioe statrmc nts, cioè affermazioni p0-
sirive o negative. Ma la locuz ione "afferma zioni negat ive "
nella nostra lingua semb ra suonare malamente come un ossi-
moro non voluto e, allo scopo di evitarla, statement si risol-
ve con " asserzione" o equ ivalent i. Dove però, come nel-
l'opera prescnte, la locuzi one " negativr statcment " non fi-
gura. ma si incont ra spesso il termine "assertion " [ted.
Behauptung , asserzione), non si vede perché statem on non
debba restare trad otto con ..affermazione. "
Questo stesso criterio. per quanto a qu alche leno re poSSo1
riuscire puramente estrinseco o fine a se stesso c dunq ue pe.
dante, non ci permette di rendere con " significazione " l'in-
glese significanu ("significanza"). perché già come sempli-
ce atto del significare, a parte ogni teoria in proposito, la
significazione deve restare almeno distinguibile dalla sign i-
ficanza qua le fatto di avere un signi fica to (ingl. m caning.
tcd. Bede utung). E in rappor to a qu esto fatto l'espressione-
frase futU'ranu) - o anche la semplice locuzione (ph rase ) -
può essere o significativa nel senso di "significante" (ing1.
significa1lt; tcd. brdcmsam, bedeutu ngsvolfl, oppu re, secon-
2(,0
do cr iteri fissati, insig nifica nte nel senso di "pri va di signi-
ficato " (ingl. mea nm gless, ted. !lt'tJrld ungsloJ); laddovc il
suo essere q ua lcosa dì significativo in q uanto dà signi ficato
(ing l. sig nifica tive, significatory; ted . beecichnend c sim ili)
si ra ppart:l a signiiicatian,
Si pot rebbe dubitare che in questi c consi mi li g ruppi di
termi ni non vi siano sempre, d i fatto, o dehhnno esservi op··
pure non esseni diffe renze tecn iche precise. Ma a rigore ba-
sta che esse vi siano anc he un a sola volt a e che sian o preci-
sabili, E l' m'l nascere pure il sospetto che quest i g ruppi di
termini \"eng:lno usat i a caso. l'uno per l'altr o, indifleren-
teme nte - e cil\ l'ili o meno spesso a seconda degli a utori e
delle ope re, T utta via questi duhbi e sospett i legitt imi sono
altra qu estione rispetto al t radu rre in st:, una questione che
pu" da rsi no n vnda decisa in a ntici po dalla momen taneità di
un tra dutto re, ma da i lettor i interessati , che al limite sono il
reale interve nto della cultu ra, e q uindi dalla storia de lla col-
tura.
()uantn nl Se'IlSO (ingl. scnsc, tcd, Sinn) , la locuzione pUI'
CSS('f{' scnscless (ted. Sinnlos, " pr ivo di senso "), 0 \ "\"('(0
'lOnsensical (ted. un sim lig ), e d unq ue un nonsense (tC11. Un -
sinn, " no nscn so " come sostantivo ne! q uale qu i si è risolto
solirarncnre anche r :lggctti vo). T o talk c to wfite nomense
i nd icano pert anto il semplice disco rre re nel nonsenso (" d ire"
c "sc rive re non scnsi" ]. I.'aggett ivo self· cont radictory (ted.
Sclb.<t wid(,fJl'fl't"h('nd, "in sé contraddittorio "] si aurlb uiscc
invece al d iscorso che ncl suo stesso ambito viene meno alla
coer enza logica e d un que - in teor ia logica esplicita dal
tem po di Ar istotele, ma nella pratica filosofica anche da pri -
ma - risulta un aut o-annulla mento del logos (discorso-m-
g-ione) tale da ridurre " co me un t ro nco; " in un silenzio
exrra-urn ano. chi lo tiene.
Ib da rt' a certe parti colarit,'[ piuttosto che ad altre - si di-
r:ì - d ipende pur semp re dal traduuo re. Ma. specialme nte
nel caso di un 'o pera scien tifica, t utt i sann o che sussiste an-
che la possihilità d i sostene re proprio il contrario: che è il
2101
testo a dire qua li particolarità siano da tenere presenti. In
sostanza il tra durre oscilla continuamente fra l'essere e il do-
ver essere lingu istico, come ogni interesse rivolto come che
sia al linguaggio. t. noto, per esempio, che mentre il voca-
bolo " tesi" è versione incrollabile dell'inglese thesis o del
tedesco These, g razie alla comune eredità greea, moltissimi
altri come l'anglosassone " oieto" (" veduta ," "vis uale, "
" ispezione," " esame, " " concezione, " " visione" ed altro an-
cora, (lui tradotto spesso con "prospettiva " ; cfr. ted, Sehe-
u'd u , A nsicht, Standp unkt, ecc.}, richiedono piu atten zione
e interp retazione. Ma risolvere " oia o " con un vocabolo
piuttosto che COli U II altro affine, in un certo discorso filo,
sofico può risultare meno importante del rendere, poniamo,
il termine " [aìlacy" (una concezione errat a, quasi il tcd .
T iiuschll ng) con " fallacia " piutt osto che con " sof isma" (sin-
golo ragionamento sbagliato; ingl. sophism, tcd, Trug-
schluss). E importanza ancor maggiore, rispetto alle d ifficoltà
di " /liew," può rivestire il modo di tradurre q uell'u nico vo-
cabolo " languagr " che, come si è visto, corrisponde ora a
" lingua " e ora a " lingu aggio. " All'in verso, la nostra parola
" uso" da sola non può tenere la d istinzione, effettiva o solo
possibile a seconda dd testo, fra usr e usage: e in certi casi
non risulta p iu o meno importante, ma semplicemente ne-
cessario distinguere l' uso o la funzione di q ualcosa (use) da
un suo uso corrente o istitu ito o istituzionale (usnge).
2h2
Indice
È un bellissimo libro
del quale posso fare l'elogio pi ù sincero:
vorrei averlo scritto io, quand'ero giovane.
Come il Trattato di Hume, questo è un libro
pieno di entusiasmo, di spirito iconoclastico,
di speranza e di mordente umorismo.
Per fortuna, a differenza del Trattato,
è stato anche un successo editoriale .'
Bertrand Russell
Alfred jules Ayer, nato nel 1910, è uno dei maggiori e pié noti
esponenti del positivismo logico. Ha studiato a Eton e Oxford,
dal 1946 è professore di filosofia e logica all'Università di Londra.
Linguaggio verità e logica, pubblicato nel 1936 e poi in edizione
riveduta nel 1946, ebbe risonanza grandissima. Come affermava
il New Statesman : " esso acquistò ad Oxford, dopo la fine della
guerra, quasi lo status di una Bibbia filosofica. "
Li re 500