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In

tempi di insistita
esaltazione delle virtu
«spontanee» del mercato e di
reiterate esortazioni a
liberare lo sviluppo delle
società capitalistiche da ogni
forma di «vincolo» che ne
impedisca la piena
espansione, può forse
sembrare estraneo allo
spirito dell’epoca, o persino
stravagante, sostenere che il
capitalismo è un sistema
storico, e cioè dotato, come
tutti gli oggetti storici, di un
percorso nel tempo e nello
spazio, di una vita che lo ha
portato a nascere, svilupparsi
e modificarsi, e che lo
porterà verosimilmente — in
una qualche forma, in un
qualche momento — anche a
morire, cioè ad essere
sostituito da
qualcos’altro che lo seguirà.
Questo di Immanuel
Wallerstein è davvero un
libro controcorrente, e non
soltanto perché unisce in
modo esplicito e senza
infingimenti l’analisi dello
storico a una forte tensione
morale. L’autore
ripercorre la storia di questo
universo spazio-temporale, di
questo «sistema-mondo» che
è stato ed è il capitalismo,
considerando anche le
ingenuità e gli errori di
coloro che hanno cercato di
analizzare il sistema con
atteggiamento critico.
Ai caratteri distintivi di
questa economia-mondo, che
ne hanno segnato la lunga
storia, dal secolo XVI fino a
oggi — la mercificazione
generalizzata, la crescente
ma non univoca
proletarizzazione del lavoro,
la sempre maggiore
unificazione dei mercati, la
costituzione di una rigorosa
gerarchia degli spazi
economici — si
accompagnano i
tratti politiche ideologici del
sistema: l’articolazione delle
etnie, delle nazionalità e degli
stati; la dinamica delle lotte
politiche e sociali, a
base classista o infra-
capitalistica; la nascita e lo
sviluppo dei
movimenti antisistemici, nella
duplice versione socialista e
nazionalistica; la crescita e
la funzione dei grandi
aggregati di sostegno
ideologico, dal zismo,
all’universalismo, al mito del
progresso.
Sostenuto da un
vastissimo retroterra di
conoscenze analitiche,
l’autore va accumulando nei
suoi lavori sul Sistema
mondiale della economia
moderna, il ragionamento è
qui sviluppato su un
registro di estrema sintesi. Lo
stesso linguaggio, di una
densità voluta e
ricercata testimonia lo sforzo
di abbracciare con un unico
sguardo una realtà storica
così multiforme e complessa.
Ocr e conversione a
cura di Natjus

Ladri di Biblioteche
Nuovo Politecnico 146



Collezione diretta da
Giulio Bollati

Titolo originale Historical
Capitalism
© 1983 Immanuel
Wallerstein

Copyright © 1985 Giulio
Einaudi editore s.p. a., Torino

ISBN 88-06-58677-7
Immanuel Wallerstein

IL CAPITALISMO
STORICO
Indice






Introduzione dell'autore

Nota del traduttore

Il capitalismo storico

I. La mercificazione di
ogni cosa: la produzione di
capitale

1. Mercati e capitali
2. Il regno dell'
accumulazione
3. La proletarizzazione
4. Mercati e
integrazione
5. Polarizzazione e
scambio ineguale
6. Concorrenza e
instabilità


II. La politica
dell’accumulazione: la lotta
per i benefici

1. Dalla sovranità
statale alle politiche
commerciali
2. Il diritto del lavoro
3. Imposizione fiscale e
spese statali
4. Economia-mondo e
stati-nazione
5. La lotta tra le classi e
le sue svolte
6. Le lotte tra capitalisti
7. I movimenti
antisistemici


III. La verità come oppio:
razionalità e
razionalizzazione

1. La differenziazione
etnica della forza-lavoro
2. Universalismo e
modernità
3. L'ambivalenza dei
movimenti antisistemici
4. La crisi del sistema
storico


IV. Conclusione:
progresso e transizioni

1. Mito e realtà del
progresso
2. Capitalismo e
socialismo

Appendice. II concetto di
«spazio economico»
Introduzione dell’autore






Molto è stato scritto sul
capitalismo, da parte di
marxisti e di altri nella
sinistra politica, ma la
maggior parte di questi libri
ha sofferto di qualche difetto.
A un primo
tipo appartengono le analisi
essenzialmente logico-
deduttive, che partono dalla
definizione di ciò che si pensa
il capitalismo sia nella sua
essenza, e guardano poi al
grado del suo sviluppo nei
vari luoghi e tempi. Un
secondo tipo si concentra
sulle trasformazioni,
presupposte di grande portata,
del sistema capitalistico in un
torno di tempo recente,
rispetto al quale il lasso di
tempo precedente funziona
come un contraltare
mitologizzato contro cui
descrivere la realtà empirica
del presente.
Il compito che mi sembra
urgente, e a cui ho dedicato in
un certo senso l'intero mio
lavoro piu recente, è di
vedere il capitalismo come un
sistema storico, nella sua
storia complessiva e nella sua
concreta realtà unitaria. Mi
pongo perciò lo scopo di
descrivere questa realtà, e di
delineare in modo esatto ciò
che in essa è continuamente
cambiato e ciò che non è
cambiato per nulla, cosicché
noi possiamo connotarla nel
complesso con un nome solo.
Credo, come molti altri,
che questa realtà sia un tutto
integrato. Ma molti di coloro
che sostengono questa tesi la
motivano sotto forma di un
attacco al supposto
«economicismo» di altre
posizioni, o al loro
«idealismo» culturale, o alla
eccessiva accentuazione dei
fattori politici, «volontaristici
». Queste critiche, in gran
parte per la loro stessa natura,
tendono a cadere nel peccato
opposto a quello che stanno
denunciando. Ho cercato
perciò di presentare nel modo
piu semplice e comprensibile
la realtà integrata nel suo
complesso, analizzando
successivamente la sua
espressione nei campi
economico, politico e
ideologico-culturale.
Mi sia concesso, infine, di
dire una parola su Karl Marx.
Egli è stato una figura
monumentale nella storia
intellettuale e politica
contemporanea. Ci ha lasciato
una grande eredità, che è
concettualmente ricca e
moralmente ispirata. Tuttavia,
laddove sostiene di non
essere, lui, un marxista,
dovremmo prenderlo più sul
serio, senza scrollarci
di dosso questa affermazione
come se si trattasse di un
bon mot.
Egli sapeva, a differenza
di molti di quelli che si sono
spesso autoproclamati suoi
discépoli, di essere un uomo
del secolo xix, la cui visione
era inevitabilmente
circoscritta da quella realtà
sociale. Sapeva, a differenza
di molti, che una
formulazione teorica è
comprensibile e utilizzabile
solo in rapporto alla
formulazione alternativa che
essa sta esplicitamente o
implicitamente attaccando,
mentre è del tutto irrilevante
rispetto a formulazioni che
riguardano altri problemi o
che si basano su altre
premesse. Sapeva, a
differenza di molti, che vi era
una tensione, nella
presentazione del suo lavoro,
tra la descrizione del
capitalismo come un sistema
perfetto (mai esistito nei fatti
storicamente) e l'analisi della
concreta realtà quotidiana del
mondo capitalistico.
Adoperiamo dunque i suoi
scritti nell’unica maniera
ragionevole - consideriamolo
un compagno di lotta, che ne
sapeva quanto lui ne ha
saputo.
Nota del traduttore






Nella traduzione dei
numerosi termini specifici, e
spesso di nuovo conio, che
connotano l’analisi di
Wallerstein ci si è attenuti al
criterio della massima
aderenza all’originale, anche
a costo di usare spesso
neologismi e di sacrificare
qui e là la scorrevolezza
stilistica, nell’intento di
conservare e restituire le
particolarità del
linguaggio dell’autore.
In particolare, non solo
world-economy è stato
tradotto con «economia-
mondo», ma anche world-
system è stato reso con
«sistemamondo» e world-
empire con «impero-mondo».
La parola commodification è
stata resa con
«mercificazione», anche se il
termine in Wallerstein
aggiunge qualcosa al
significato acquisito nella
tradizione marxista, nel senso
della sottolineatura dei
processi di mercato.
Anche per l’espressione
commodity chains si è
preferito il corrispettivo
letterale «catene di merci»,
che rende bene l’idea, a patto
di considerare che i legami
interni a simili catene sono,
per Wallerstein, molteplici, e
configurano piuttosto un
reticolo che non una catena
lineare. Il termine household,
di ciò non esiste un preciso
corrispettivo italiano, è stato
tradotto con l’espressione
«aggregato domestico».
Questi ed altri problemi di
traduzione sono stati discussi
con l’autore, con cui si è pure
concordato di aggiungere in
appendice a questa edizione
italiana la voce Spazio
economico, che Wallerstein
ha scritto per l'Enciclopedia
'Einaudi, e che costituisce un
utile riferimento per aver
presente la concezione
generale dei sistemi-mondo in
cui l’autore situa la sua
analisi del capitalismo
storico.
IL CAPITALISMO
STORICO
I.

La mercificazione di
ogni cosa: la
produzione di capitale






Il capitalismo è prima di
tutto e essenzialmente un
sistema sociale storicamente
determinato. Per comprendere
le sue origini, i suoi sviluppi,
le sue prospettive attuali,
dobbiamo guardare alla sua
realtà vivente. Possiamo
naturalmente cercare di
riassumere questa realtà in un
certo numero di definizioni
astratte, ma sarebbe stupido
poi adoperare
vicendevolmente simili
astrazioni per giudicare
e classificare la realtà.
Propongo perciò di provare,
al contrario, a descrivere ciò
che il capitalismo è
effettivamente stato nella
pratica, in che modo esso ha
funzionato come un sistema,
perché si è sviluppato nella
maniera in cui si è sviluppato,
e dove si sta dirigendo
adesso.
La parola capitalismo
deriva da capitale. Sembra
dunque legittimo supporre
che il capitale sia un elemento
chiave del capitalismo. Ma
che cos’è il capitale? In una
certa accezione, è soltanto
ricchezza accumulata. Ma
quando è adoperato nel
contesto del capitalismo
storico, il termine ha un
significato piu specifico. Esso
non si riferisce soltanto al
complesso dei beni
consumabili, o del
macchinario, o dei diritti
acquisiti sulle cose materiali
sotto la forma del denaro. Il
capitale, nel capitalismo
storico, continua
naturalménte a riguardare
quelle accumulazioni
prodotte dagli sforzi del
lavoro passato che non sono
state ancora spese, ma se
questo fosse tutto, allora ogni
sistema storico, via via fino a
quello dell’uomo di
Neanderthal, potrebbe
essere definito capitalistico,
dal momento che ciascuno di
essi ha avuto in qualche modo
simili quantità accumulate
che incarnavano il lavoro
passato.
Ciò che distingue il
sistema storico -sociale che
stiamo chiamando
capitalismo storico, è che in:
questo sistema storico il
capitale ha cominciato ad
essere investito in un
modo molto particolare: ha
cominciato ad essere
adoperato con l’obiettivo e
l’intento primario della sua
autoespansione. In questo
sistema, le accumulazioni
precedenti erano «capitale»
solo nella misura in. cui erano
adoperate per accumulare
altro capitale. Il processo era
senza dubbio complesso,
persino tortuoso, come
vedremo. Ma è questo
fine, implacabile e
curiosamente autocentrato,
del possessore di capitale -
l’accumulazione di un
capitale ancora maggiore -,
insieme con le relazioni che
questo detentore di capitale
ha dovuto stabilire con altre
persone allo scopo
di raggiungere il suo
obiettivo, che noi definiamo
capitalistico. Certo, questo
fine non è stato l’unico; altre
considerazioni si sono
intromesse nel processo di
produzione. Tuttavia la
questione è: quali
considerazioni hanno teso a
prevalere in caso di conflitto?
Tutte le volte che, nel corso
del tempo, è stata
l’accumulazione del capitale
a prendere sistematicamente
il sopravvento sugli obiettivi
alternativi, siamo autorizzati a
dire che stiamo osservando
un sistema capitalistico in
azione.
Naturalmente, anche in un
qualunque periodo precedente
è stato possibile che un
individuo o un gruppo di
individui decidesse di
investire capitale con
l’obiettivo di acquisire un
capitale ancora maggiore.
Ma, prima di un determinato
momento storico, non è stato
per nulla facile, per questi
individui, riuscire nel loro
intento. Nei sistemi
precedenti, il lungo e
complicato processo di
accumulazione del capitale
era quasi sempre bloccato in
un punto o nell’altro, anche
nei casi in cui esistevano le
condizioni iniziali - il
possesso, o la concentrazione
nelle mani di pochi, di una
certa quantità di beni non
consumati prima.
Il nostro ipotetico
capitalista ha sempre avuto
bisogno di ottenere l’uso del
lavoro, il che voleva dire che
vi fossero persone che
potessero essere convinte o
costrette a svolgere questo
lavoro. Una volta che si
fossero trovati i lavoratori e
prodotti i beni, questi beni
dovevano essere scambiati in
qualche modo, il che
comportava l’esistenza di
un sistema di distribuzione e
di un gruppo di compratori
che disponesse del necessario
per acquistare i beni. Inoltre,
i beni dovevano essere
venduti a un prezzo che fosse
maggiore dei costi totali
sostenuti dal venditore.
Questo margine di differenza
doveva, in aggiunta, essere
maggiore di quanto al
venditore serviva per la
propria sussistenza.
Bisognava che vi fosse, per
dirla con il nostro linguaggio
moderno, un profitto. Il
possessore del profitto
doveva poi essere capace di
conservarlo fino a che non si
presentasse una ragionevole
opportunità di investirlo;
dopo di che, l'intero processo
si ripeteva ripartendo dal
punto della produzione.

1. Mercati e capitali

In effetti, prima dell’età


contemporanea, questa catena
di processi (talvolta definita il
circuito del capitale)
raramente potè essere portata
a compimento. Per prima
cosa, molti dei passaggi di
questa catena erano
considerati, nei sistemi
storico-sociali precedenti,
irrazionali e/o immorali dai
detentori dell’autorità politica
e morale. Ma, anche
in assenza di interferenze
dirette da parte di coloro che
avevano il potere di
interferire, il processo in
genere si bloccava per la
mancata disponibilità di uno
o piu dei suoi elementi - la
quantità accumulata sotto
forma di denaro, la forza-
lavoro utilizzabile
dall’imprenditore, la rete di
distributori, i consumatori
disposti ad acquistare.
Uno o piu elementi
venivano a mancare, nei
precedenti sistemi storico-
sociali, perché uno o piu di
essi non era «mercificato», o
lo era in misura insufficiente.
Ciò vuol dire che il processo
non era considerato, tale da
poter o dover essere condotto
per il tramite di un
«mercato». Il capitalismo
storico ha comportato perciò
la
«mercificazione» generalizzata
di processi - non solo di
scambio, ma di produzione,
di distribuzione e di
investimento - che erano stati
precedentemente condotti in
altro modo che non per il
tramite di un «mercato». E,
una volta preso l’avvio, i
capitalisti, nel corso dei loro
tentativi di accumulare
sempre più capitale, hanno
cercato di mercificare una
parte sempre maggior e dei
processi sociali in tutte le
sfere della vita economica.
Dal momento che il
capitalismo è un
processo autocentrato, ne
deriva che nessuna
transazione sociale è stata di
per sé esente da un possibile
coinvolgimento. Ed è perciò
che noi possiamo dire che lo
sviluppo storico
del capitalismo ha comportato
la spinta alla mercificazione
di ogni cosa.
Né è bastato mercificare i
processi sociali. I processi di
produzione erano legati l'un l'
altro da complesse catene
di merci. Si consideri, per
esempio, un tipico bene che è
stato prodotto e venduto nel
corso dell'esperienza storica
del capitalismo, un capò
d’abbigliamento. Per produrre
un capo d’abbigliamento, c’è
bisogno come minimo di
stoffa, filo, qualche sorta di
macchinario, e forza-lavoro.
Ma ciascuno di questi
elementi ha dovuto essere
prodotto a sua volta. E gli
elementi connessi con la
produzione di questi
ultimi hanno dovuto essere
prodotti a loro volta. E così
via, se non all’infinito, per un
buon tratto. Non era
inevitabile - non era neppure
ovvio - che ogni
sottoprocesso di questa catena
di merci fosse mercificato. In
effetti, come vedremo, il
profitto è spesso maggiore
proprio nella misura in cui
non tutti gli anelli della
catena sono mercificati. Ma è
chiaro che in una simile
catena vi è un numero molto
vasto e diffuso di lavoratori
che ricevono un qualche tipo
di remunerazione, segnata nel
registro dei conti sotto la
voce «costi». Vi è anche una
categoria, assai più piccola,
ma an-ch’essa in genere
sparsa, di persone (che per di
più non sono di norma unite
da un legame economico, ma
operano come entità
economiche distinte) che si
spartiscono in· qualche modo
il margine finale tra i costi
totali di produzione
della catena di merci e
l’introito totale realizzato
dalla vendita del prodotto
finale.
Una volta realizzate simili
catene di merci che legavano,
molteplici processi di
produzione, è chiaro che il
tasso di accumulazione, per i
«capitalisti» presi nel loro
insieme, divenne una
funzione dell’ampiezza del
margine che poteva essere
creato, in una situazione in
cui questo margine poteva
fluttuare considerevolmente.
Il tasso di accumulazione per
i singoli capitalisti, invece,
era funzione di un processo di
«competizione» tra di loro,
con ricompense più alte per
coloro che avevano avuto
maggiore perspicacia
nella valutazione, maggiore
abilità nel controllo della
forza-lavoro, e maggiore
possibilità di superare i
vincoli politicamente imposti
su particolari operazioni di
mercato (noti generalmente
come «monopoli»).
Ciò ha creato una prima
contraddizione elementare nel
sistema. Mentre l’interesse
dell’insieme dei capitalisti,
presi come classe, sembrava
consistere nel ridurre in ogni
modo tutti i costi di
produzione, queste riduzioni
dei costi nei fatti spesso
favorivano alcuni singoli
capitalisti contro altri, e
alcuni di conseguenza
preferivano accrescere la
loro quota entro un margine
globale minore, piuttosto che
accettare una quota minore
entro un margine globale piu
ampio. Per di più, vi era una
seconda contraddizione,
essenziale nel sistema. Man
mano che il capitale veniva
accumulato, che i processi si
mercificavano, che i beni
venivano prodotti, uno dei
requisiti chiave per mantenere
il flusso era che vi fossero
sempre più acquirenti. Ma
contemporaneamente gli
sforzi per contrarre i costi di
produzione riducevano spesso
il flusso e la distribuzione del
denaro, impedendo così
quella continua espansione
degli acquirenti che sarebbe
stata necessaria per
completare il processo,
di accumulazione. D’altro
canto, la redistribuzione dei
profitti globali in. modi che
potessero espandere la rete
degli acquirenti riduceva
spesso il margine globale di
profitto. Perciò i singoli
imprenditori si trovarono nei
fatti a spingere in una
direzione per le loro imprese
(per esempio, riducendo i
propri costi di lavoro), mentre
contemporaneamente
spingevano — in quanto
membri di una classe
collettiva - nella direzione di
accrescere la reta
complessiva degli acquirenti,
il che comportava
inevitabilmente, almeno per
certi imprenditori, un
aumento dei costi di lavoro.

2. Il regno
dell’accumulazione

L’economia del
capitalismo è stata dunque
governata dall’intento
razionale di massimizzare
l’accumulazione. Ma ciò che
era razionale per gli
imprenditori non lo era
necessariamente per i
lavoratori. E, cosa ancor piu
importante, ciò che era
razionale per tutti gli
imprenditori, in quanto
gruppo collettivo, non era
necessariamente razionale per
un dato imprenditore. Non è
sufficiente quindi dire che
ciascuno perseguiva i propri
interessi. Gli interessi
personali di ciascuno spesso
lo spingevano, del tutto
«razionalmente»,
a impegnarsi in attività via
via contradditorie. Il calcolo
dell' effettivo interesse
dilungo periodo divenne
perciò estremamente
complesso, anche se si evita
di considerare il grado in cui
la percezione da parte di
ciascuno del proprio interesse
fosse offuscata e distorta dai
complessi veli ideologici che
pure esistevano, e di cui
discuteremo piu avanti. Per il
momento, sostengo in via
provvisoria che il
capitalismo storico ha
effettivamente prodotto un
homo oeconomìcus, ma
aggiungo che egli fu, quasi
inevitabilmente un po’
confuso.
Vi sono stati tuttavia dei
vincoli «oggettivi» che hanno
limitato la confusione. Se un
individuo dato
commetteva continuamente
errori di giudizio economico,
per ignoranza, per stoltezza, o
per pregiudizio ideologico,
costui (questa azienda)
tendeva a non sopravvivere
nel mercato. La bancarotta è
stata il duro fluido detergente
del sistema capitalistico, che
ha costantemente costretto
tutti gli attori economici a
tenersi piu o meno nel solco
del lungo periodo,
pressandoli ad agire in modo
tale da produrre
collettivamente una sempre
maggiore accumulazione di
capitale.
Quando perciò diciamo
che stiamo descrivendo il
capitalismo storico, stiamo
descrivendo quel concreto
luogo integrato di attività
produttive, limitato nel tempo
e nello spazio, entro il quale
l’indefinita accumulazione di
capitar le ha costituito di fatto
l'obiettivo economico o la
«legge» che ha governato o
ha prevalso nell’attività
economica fondamentale. Si
tratta di quel sistema sociale
in cui quelli che hanno
operato secondo queste regole
hanno avuto un così grande
influsso su tutto il resto, da
creare le condizioni entro le
quali gli altri sono stati
costretti o ad adeguarsi a
quei modelli, o a subirne le
conseguenze. Si tratta di quel
sistema sociale in cui il
campo d’azione di queste
regole (la legge del valore) è
cresciuto sempre piu, coloro
che queste regole hanno
imposto sono divenuti sempre
piu intransigenti, e la loro
penetrazione nella fabbrica
sociale sempre piu grande,
anche se nel frattempo
l’opposizione sociale a queste
reg;ole è divenuta sempre piu
forte e organizzata.
Nell’adottare questa
descrizione di ciò che si
intende per capitalismo
storico, ciascuno di noi può
vedere e determinare da solo
a quale concreto luogo
integrato, limitato nel tempo e
nello spazio, ciò si riferisca. Il
mio personale punto di vista è
che la nascita di questo tipo
di sistema storico si collochi
nell’Europa della fine del
secolo xv, che il sistema si sia
col tempo espanso nello
spazio fino a coprire tutto il
globo verso la fine del secolo
xix, e che ancora
oggi comprenda il mondo
intero. Capisco che una così
frettolosa determinazione dei
limiti spazio-temporali possa
suscitare parecchi dubbi in
molte menti. Questi dubbi
sono tuttavia di due tipi
differenti. Di un primo tipo
sono i dubbi empirici. Era la
Russia dentro o fuori
l'economia-mondo europea
nel secolo xvi? Quando
esattamente l’Impero
ottomano fu incorporato nel
sistema-mondo del
capitalismo? Possiamo
considerare questa o quella
zona interna di uno stato dato
in un momento determinato
come
effettivamente «integrata»
nell’economia-mondo del
capitalismo? Queste domande
sono importanti in sé, ma lo
sono anche perché nel
tentativo di rispondervi siamo
costretti a rendere piu precise
le nostre analisi dei processi
del capitalismo storico.. Ma
non è questo il momento e il
luogo per rivolgere questi
numerosi quesiti empirici,
che sono soggetti a continuo
dibattito ed elaborazione.
C’è tuttavia un secondo
tipo di dubbio, il tipo che
riguarda l’effettiva utilità
della classificazione induttiva
da me proposta. Ci sono
quelli che non accettano che
si possa dire che il
capitalismo sia mai esistito se
non quando vi sia stata una
forma specifica di relazione
sociale nel luogo del lavoro,
quella cioè di un imprenditore
privato che impiega lavoratori
salariati. Ci sono quelli che
sostengono che dal momento
in cui un determinato stato ha
nazionalizzato le sue industrie
e proclamato la propria
adesione alle dottrine
socialiste, esso cessa, per
effetto di questi atti e come
risultato delle loro
conseguenze, di far parte del
sistema-mondo capitalistico.
Non sono quesiti empirici, ma
teorici. E cercheremo di
rispondervi nel corso della
discussione. Non cercheremo
tuttavia una risposta
deduttiva, che in questo
caso sarebbe poco incisiva.
Non ci sarebbe, infatti, un
dibattito razionale, ma
soltanto uno scontro di fedi
opposte. Risponderemo in
modo euristico, sostenendo
che la nostra ché comprende
in modo piu semplice ed
elegante ciò che attualmente
insieme conosciamo della
realtà storica, e perché ci
offre un’interpretazione di
questa realtà che ci rende
capaci di agire piu
efficacemente sul presente.
Esaminiamo dunque il
modo in cui il sistema
capitalistico ha effettivamente
funzionato. Sostenere che
obiettivo dell'imprenditore è
l’accumulazione del capitale
vuol dire affermare che egli
cercherà di produrre quanto
piu può di un determinato
bene e di porlo in vendita al
piu alto margine di profitto
possibile. Egli farà ciò,
tuttavia, tenendo conto di una
serie di vincoli economici che
esistono, come si dice, «nel
mercato». La sua produzione
totale è necessariamente
limitata dalla disponibilità
(relativamente immediata) di
cose come le materie prime,
la forza-lavoro, gli acquirenti,
e l’accesso al denaro per
espandere la sua base di
investimento. La quantità che
egli può produrre con profitto
e il margine di profitto cui
può aspirare sono
anche limitati dalla capacità
dei suoi «concorrenti» di
offrire lo stesso bene a prezzi
di vendita piu bassi: non un
qualunque concorrente in un
qualunque punto del mercato
mondiale, in questo caso, ma
quelli che si trovano negli
stessi immediati, più
circoscritti, mercati locali nei
quali egli effettivamente
vende (comunque questi
mercati siano definiti nel caso
in questione). L’espansione
della sua produzione sarà
anche limitata nella misura in
cui una accresciuta
produzione creerebbe un tale
effetto di riduzione dei prezzi
nel mercato «locale», che il
profitto totale
effettivo realizzato sulla
produzione totale ne verrebbe
effettivamente ridotto.
Tutti questi sono vincoli
oggettivi, vale a dire che
esistono anche in assenza di
qualunque tipo particolare di
decisioni da parte
dell’imprenditore dato o di
altri suoi concorrenti attivi
nel mercato. Questi vincoli
sono la conseguenza della
somma degli effetti del
processo sociale complessivo,
così come esso si svolge in
quel concreto momento e in
quel determinato luogo. Vi
sono sempre, naturalmente,
altri vincoli aggiuntivi, piu
esposti alla manipolazione. I
governi possono adottare, o
avere già adottato, varie
regole che in qualche misura
trasformano le opzioni
economiche e quindi il
calcolo del profitto. Un
determinato imprenditore può
essere il beneficiario o la
vittima delle regole esistenti.
Un determinato imprenditore
può cercare di persuadere le
autorità politiche a modificare
le regole la suo favore.

3. La proletarizzazione

In che modo hanno agito


gli imprenditori al fine di
massimizzare le loro capacità
di accumulare capitale?
La forza-lavoro è sempre
stata un elemento centrale e
quantitativamente
significativo nel processo di
produzione. Nel cercare
l'accumulazione,
l'imprenditore ha avuto due
differenti preoccupazioni a
proposito della forza-
lavoro: la sua disponibilità e
il suo costo.
Il problema della
disponibilità è stato posto, in
genere, nella maniera
seguente: rapporti sociali di
produzione che fossero fissi
(cioè una forza-lavoro stabile
per un dato imprenditore)
potevano essere a basso costo
quando il mercato era stabile,
e la misura della propria
forza-lavoro era ottimale in
quel determinato momento.
Ma quando il mercato di quel
determinato prodotto calava,
il fatto che la forza-lavoro
fosse fissa faceva crescere il
costo reale per l'imprenditore.
E quando il mercato del
prodotto cresceva, il fatto che
la forza-lavoro fosse fissa
impediva all’imprenditore di
avvantaggiarsi delle
opportunità di profitto.
D’altro canto, una forza-
lavoro variabile avrebbe
avuto molti svantaggi, per i
capitalisti. Le forze-lavoro
variabili, per definizione, non
lavoravano necessariamente
in modo continuo per lo
stesso imprenditore. Questi
lavoratori dovevano perciò, in
termini di sopravvivenza,
considerare il loro saggio di
remunerazione su un arco di
tempo abbastanza lungo da
compensare le variazioni
delle loro entrate reali. Ciò
vuol dire che i lavoratori
dovevano essere in. grado di
trarre dal loro impiego
abbastanza da coprire i
periodi in cui non ricevevano
remunerazione. Di
conseguenza, forze-lavoro
variabili spesso costavano
all’imprenditore, per ora
lavorata, piu di quanto non
costassero forze-lavoro
fisse. Quando c’è una
contraddizione, e qui ve n’è
una proprio nel cuore del
processo di produzione
capitalistico, si può essere
sicuri che il risultato sarà un
compromesso storicamente
non facile. Esaminiamo ciò
che è successo nei fatti. Nei
sistemi storici che hanno
preceduto il capitalismo
storico, la maggior parte della
forza lavoro (non tutta) era
fissa. In alcuni casi, la forza-
lavoro dell’imprenditore era
costituita da lui solo o dalla
sua famiglia, dunque era fissa
per definizione. In alcuni
casi, una forza-lavoro
non legata alla famiglia era
legata a un determinato
imprenditore per il tramite di
varie norme legali e/o
consuetudinarie (comprese
varie forme di schiavitù,
vincolo debitorio, servitù,
rapporti d’affitto permanenti
o semipermanenti, ecc.).
Talvolta il legame durava
tutta la vita. Altre volte
valeva per periodi limitati,
con la possibilità di un
rinnovo; ma una simile
limitazione nel tempo aveva
valore solo nel caso in cui
esistessero alternative
realistiche al momento del
rinnovo. Ora, la fissità di
questi rapporti poneva
problemi non solo ai singoli
imprenditori a cui era legata
la forza-lavoro in questione.
Poneva problemi anche a tutti
gli altri imprenditori, dal
momento che, ovviamente,
gli altri imprenditori potevano
espandere le proprie attività
solo nella misura in cui
esistevano ed erano
disponibili forze-lavoro
non fisse.
Queste considerazioni
costituirono la base, come è
stato spesso notato, della
nascita dell’istituto del lavoro
salariato, in cui esisteva un
gruppo di persone che erano
costantemente disponibili ad
essere occupate, più o meno
al miglior offerente.
Si definisce questo
processo come la costituzione
di un mercato del lavoro, e le
persone che vendono il
proprio lavoro come proletari.
Non dirò nulla di nuovo con
raffermare che, nel
capitalismo storico, vi è stata
una
crescente proletarizzazione
della forza-lavoro. Non solo
l’affermazione non è nuova;
non è per nulla sorprendente.
I vantaggi per gli
imprenditori del processo di
proletarizzazione sono stati
ampiamente documentati. Ciò
che è sorprendente non è che
ci sia stata tanta
proletarizzazione, ma che ce
ne sia stata così poca. Dopo
quattrocento anni almeno, da
che esiste questo sistema
storico-sociale, la quota di
lavoro pienamente
proletarizzato
nell’economiamondo del
capitalismo non si può dire
abbia toccato neanche il 50
per cento.
Certo, questa statistica è
in funzione del modo in cui si
misura e di ciò che si misura.
Se adoperiamo le statistiche
ufficiali governative sulla
cosiddetta forza-lavoro attiva
economicamente, che vuol
dire innanzitutto i
maschi adulti che si rendono
formalmente disponibili per
un lavoro retribuito, possiamo
trovare che la percentuale di
lavoratori salariati è
considerata oggi
ragionevolmente alta
(per quanto anche così, se
calcolata su scala mondiale,
la percentuale effettiva è
minore di quanto presumano
la maggior parte delle stime
teoriche).
Se tuttavia consideriamo
tutte le persone il cui lavoro è
incorporato in un modo o
nell’altro nelle catene di
merci, e. che comprendono
dunque praticamente anche
tutte le donne adulte, e una
quota molto vasta delle
persone a uno stadio pre-
adulto o che hanno superato
la soglia dell’età adulta (cioè i
giovani e i vecchi) allora la
nostra percentuale di proletari
cade drasticamente.
Facciamo un ulteriore
passo avanti prima di dare la
nostra misurazione. È
concettualmente utile
applicare l’etichetta di
«proletario» a un individuo?
Ne dubito. Sotto il
capitalismo storico,
esattamente allo stesso modo
che sotto i precedenti sistèmi
storici, gli individui hanno
avuto la tendenza a vivere le
loro; vite entra la cornice di
strutture relativamente stabili
che distribuiscono un fondo
comune di entrate correnti e
di capitale accumulato, e che
noi possiamo chiamare
aggregati domestici
(households). Il fatto che i
confini di questi aggregati
domestici siano in costante
evoluzione, per l’ingresso e
l’uscita degli individui, non
toglie nulla al fatto che questi
aggregati costituiscano l’unità
di calcolo razionale in termini
di remunerazione e di spesa.
La gente, per vivere,
calcola tutte le entrate a cui
ha accesso, non importa da
quale fonte, e le valuta in
termini di spese reali che si
devono fare. Si cerca per lo
meno di sopravvivere; poi, se
le entrate sono maggiori, di
tenere uno stile di vita, che si
considera soddisfacente; e
infine, con entrate ancora
maggiori, di accedere al
gioco, capitalistico come
accumulatori di capitale. Ad
ogni fine effettivo, è
l'aggregato domestico l’unità
economica che è impegnata
in queste attività. Questo
aggregato è di norma
una unità caratterizzata da
legami di parentela, ma
talvolta non lo è o per lo
meno non è composto
esclusivamente in tal modo.
Nella maggior parte dei casi
esso ha comportato
la residenza comune, ma ciò è
accaduto in misura via via
minore, man mano che ha
proceduto la mercificazione.
È nel contesto di una
simile struttura d’aggregato
domestico che ha cominciato
ad imporsi nelle classi
lavoratrici una distinzione
sociale tra lavoro produttivo e
improduttivo. Di fatto, il
lavoro produttivo cominciò
ad essere definito come
lavoro che procurava denaro
(essenzialmente come lavoro
che procurava salario), e il
lavoro non produttivo come
lavoro che, per quanto
assolutamente necessario, era
una attività di mera
«sussistenza» e perciò di
cui si diceva che non
producesse nessun «surplus»,
di cui qualche altro potesse
eventualmente appropriarsi.
Questo lavoro o non era
per nulla mercificato o
comportava una piccola (ma
davvero piccola) produzione
per il consumo. La
distinzione tra i tipi di lavoro
era assicurata attraverso la
creazione di ruoli specifici ad
essi legati. Il lavoro
produttivo (salariato) divenne
l’obiettivo
anzitutto dell’adulto
maschio/padre e
secondariamente di altri
adulti maschi (piu giovani)
dell’aggregato domestico. Il
lavoro non produttivo (di
sussistenza) divenne
l’obiettivo anzitutto della
adulta donna/madre e
secondariamente delle altre
donne, oltre che dei bambini
e dei vecchi. Il lavoro
produttivo era effettuato fuori
dall’aggregato domestico,.sul
«luogo di lavoro». Il lavoro
non produttivo era svolto nel
seno dell’aggregato
domestico.
Le linee di demarcazione
non erano assolute,
naturalmente, ma divennero,
sotto il capitalismo storico,
del tutto chiare e obbligate.
Una divisione del lavoro,
effettivo, per sesso ed età,
non era naturalmente
un’invenzione del capitalismo
storico. Probabilmente essa è
sempre esistita, non foss’altro
che perché per certi compiti
ci sono prerequisiti e limiti
biologici (di sesso, ma anche
d’età).
Neanche la famiglia
gerarchica e/o la struttura
dell’aggregato domestico
furono un’invenzione del
capitalismo/ Anch’esse
esistevano da lungo tempo.
Ciò che era nuovo, sotto il
capitalismo storico, era la
correlazione tra divisione del
lavoro e valutazione che del
lavoro si dava. Gli uomini
possono avere fatto spesso
lavori diversi dalle donne (e
gli adulti lavori diversi dai
bambini e dai vecchi),
ma sotto il capitalismo storico
c’è stata una pesante
svalutazione del lavoro delle
donne (e dei giovani e dei
vecchi), e una corrispondente
sottolineatura del valore del
lavoro del maschio adulto.
Mentre in altri sistemi uomini
e donne svolgevano compiti
specifici (ma normalmente
paritari), sotto il capitalismo
storico l’adulto maschio che
procurava il salario era
catalogato come quello che
«guadagnava il pane» e
l’adulta femmina che
lavorava a casa era catalogata
come la «donna di casa».
Così quando cominciarono ad
essere compilate le statistiche
nazionali (prodotto
esse stesse di un sistema
capitalistico) tutti quelli che
«guadagnavano il pane»
furono considerati membri
della forza-lavoro
economicamente attiva,
mentre nessuna delle «donne
di casa» fu considerata tale.
In questo modo fu
istituzionalizzata la divisione.
tra i sessi.
L’apparato legale e
paralegale della distinzione e
discriminazione tra i sessi
segui in modo del tutto logico
sulla scia di questa
fondamentale valutazione
differenziata del lavoro.
Possiamo notare, a questo
proposito, che l’estensione
del concetto di
infanzia/adolescenza e il
concetto di «ritiro» dal lavoro
non legato a malattia o
debolezza sono stati anch’essi
concomitanti col sorgere delle
strutture dell’aggregato
domestico del capitalismo
storico. Essi sono stati spesso
concepiti come un’esenzione
del lavoro di valore «
progressivo». Ma possono
essere considerati piu
esattamente come forme di
ridefinizione del lavoro in
quanto non lavoro. Si è
aggiunto insulto ad insulto,
quando si sono etichettate le
attività di tirocinio dei ragazzi
e le varie occupazioni degli
adulti in pensione come
qualcosa di «divertente» che
avesse a che fare col «gioco»;
o quando la svalutazione dei
loro contributi di lavoro è
stata presentata come un
comprensibile contraltare al
fatto che non fossero legati
alla «fatica» del lavoro
«vero».
Dal punto di vista
ideologico, queste distinzioni
contribuirono a rassicurare
circa il fatto che la
mercificazione del lavoro era
si ampia, ma allo stesso
tempo limitata. Per esempio,
se qualcuno volesse calcolare
quanti aggregati domestici
nell'economia-mondo
avevano ottenuto piu del 50
per cento del loro guadagno
effettivo (o reddito totale in
qualsiasi forma ottenuto) dal
lavoro salariato esterno
all’aggregato domestico,
credo che saremmo
fortemente sorpresi dall'
esiguità della percentuale,
non solo nei primi secoli
del capitalismo, ma ancor
oggi, nonostante il fatto che
tale percentuale è stata
presumibilmente in crescita
stabile lungo l’arco dello
sviluppo storico
dell’economia-mondo del
capitalismo.
Come si può spiegare
questo fatto? Non credo sia
molto difficile. Se si assume
che un imprenditore che
abbia impiegato lavoro
salariato preferisse pagare di
meno e non di piu i suoi
operai, sempre e dovunque,
allora il basso livello al quale
i lavoratori salariati hanno
potuto permettersi di
accettare l’impiego è stata
una funzione del tipo di
aggregato domestico nel
quale i lavoratori salariati
erano collocati nei vari
periodi della loro vita. Molto
semplicemente, per un
identico lavoro a identici
livelli di efficienza, il
lavoratore salariato situato in
un aggregato domestico con
un’alta percentuale di reddito
da salario («un aggregato
domestico proletario», lo
definiremo) avrebbe avuto
una soglia monetaria piu alta
al di sotto della quale avrebbe
trovato manifestatamente
irrazionale prestare lavoro
salariato, rispetto a un
lavoratore salariato situato
in un aggregato domestico
che avesse una bassa
percentuale di redditi da
lavoro salariato (chiameremo
quest’ultimo «aggregato
domestico semiproletario »).
La ragione di queste
differenze, in quella che
potremmo chiamare la soglia
di salario minimo accettato in
relazione alle capacità, deve
essere cercata e posta in
relazione con l’economia
della sopravvivenza. Nella
misura in cui l’aggregato
domestico proletario
dipendeva soprattutto dai
redditi da salario, questi
redditi da salario dovevano
coprire i costi minimi di
sopravvivenza e di
riproduzione. Quando
tuttavia, i salari costituivano
un segmento meno
importante del reddito totale
dell’aggregato domestico,
spesso poteva essere
razionale per un individuo
accettare un impiego a un
tasso di remunerazione che
contribuisse meno della sua
quota proporzionale (in
termini di ore lavorate) di
reddito effettivo; ma tuttavia
portasse a un incremento del
denaro liquido necessario (e
la necessità era spesso
imposta per legge); o anche
comportasse la sostituzione di
questo lavoro remunerato da
salario a un lavoro compiuto
con mansioni ancor meno
remunerative.
Ciò che accadde dunque,
in simili aggregati domestici
semiproletari, fu che quelli
che producevano altre
forme di reddito effettivo -
cioè, essenzialmente la
produzione domestica o per
autoconsumo o per la vendita
su un mercato locale, o
naturalmente entrambe le
cose -, fossero essi altre
persone dell’aggregato
domestico (di qualsiasi
sesso o età) o la stessa
persona in altri momenti del
suo ciclo di vita, creavano
surplus che abbassavano la
soglia minima accettabile di
salario. In tal modo, il lavoro
non salariato permetteva ad
alcuni imprenditori di
remunerare la propria forza-
lavoro a tassi più bassi che
altrove, abbassando così il
costo di produzione per questi
utilizzatori di forza-lavoro, e
facendo crescere i loro
margini di profitto. Non c’è
da stupirsi che, come norma
generale, tutti coloro che
utilizzavano lavoro salariato
preferissero avere i loro
lavoratori salariati situati in
aggregati domestici
semiproletari piuttosto che
proletari. Se ora guardiamo
alla realtà empirica generale
attraverso il tempo-spazio del
capitalismo storico,
scopriamo con stupore che la
collocazione dei lavoratori
salariati in aggregati
domestici semiproletari
piuttosto che proletari è stata
la norma statistica. Dal punto
di vista intellettuale, il nostro
problema improvvisamente si
capovolge.
Per spiegare le ragioni
dell’esistenza della
proletarizzazione, eravamo
partiti con lo spiegare perché
il processo era così
incompleto. Ora dobbiamo
andare ancora oltre, e
chiederci addirittura come vi
sia potuta essere, in qualche
modo, una proletarizzazione.
Lasciatemi dire subito che se
il tasso di proletarizzazione
mondiale è cresciuto, è
molto dubbio che ciò possa
essere attribuito in primo
luogo alle pressioni socio-
politiche degli strati
imprenditoriali. Esattamente
l’opposto. Sembrerebbe che
essi abbiano avuto molti
motivi per procedere con i
piedi di piombo. Prima di
tutto, come abbiamo appena
osservato, la trasformazione
di un numero significativo di
aggregati domestici
semiproletari in aggregati
proletari, in una data zona,
tendeva a sollevare il livello
minimo effettivo dei salari,
cosa sperimentata da coloro
che impiegavano lavoro
salariato. Secondariamente, la
accresciuta proletarizzazione
ha avuto conseguenze
politiche, come discuteremo
piu avanti, che furono
negative per gli imprenditori
e che furono cumulative, e
perciò accrebbero ancora di
piu i livelli di erogazione di
salario nelle zone geo-
economiche considerate. In
verità, i datori di lavoro
salariato furono talmente
privi di entusiasmo verso la
proletarizzazione che, oltre a
stimolare la divisione del
lavoro per sesso ed età, essi
incoraggiarono anche, nei
loro criteri di assunzione e
per il tramite della loro
influenza nell’arena politica,
l'identificazione di
gruppi etnici definiti,
cercando di legarli nei limiti
del possibile a ruoli specifici
nell’ambito della forza-
lavoro, con differenti livelli di
remunerazione effettiva per il
loro lavoro.
L’etnia creava una crosta
culturale che consolidava gli
elementi delle strutture
domestiche semiproletarie. Il
fatto che l’emergere di simili
etnie svolgesse anche un
ruolo di divisione politica per
le classi lavoratrici è stato un
ulteriore vantaggio politico
per i datori di lavoro, ma non
la causa principale, io credo,
che ha messo in moto
questo processo.

4. Mercati e
integrazione

Tuttavia prima di poter


capire come sia stata posta in
essere una qualunque crescita
della proletarizzazione lungo
il corso del capitalismo
storico, dobbiamo tornare al
problema delle reti di merci
nelle quali le molteplici,
specifiche attività produttive
sono situate. Dobbiamo
liberarci dall’immagine
semplicistica per cui il
«mercato» è luogo dove si
incontrano il produttore
iniziale e il consumatore
finale.
Senza dubbio vi sono e vi
sono sempre stati simili
luoghi di mercato. Ma nel
capitalismo storico simile
transazione nel luogo di
mercato ha costituito una
percentuale trascurabile
dell’insieme. La maggior
parte delle transazioni hanno
comportato lo scambio tra
due imprenditori intermedi
situati su una lunga catena di
merci. L’acquirente comprava
un «input» per il suo processo
di produzione. Il venditore
vendeva un «prodotto
semifinito», cioè non
compiuto dal punto di vista
del suo uso finale nel
consumo diretto individuale.
La lotta sul prezzo, in
questi «mercati intermedi»,
era costituita dal tentativo, da
parte del compratore, di
strappare al venditore in
questa transazione una
porzione del profitto
realizzato da tutti i precedenti
processi di lavoro realizzati,
lungo tutta la catena di merci.
Questa lotta era sicuramente
determinata, entro ciascuna
specifica condizione spazio-
temporale, dalla domanda e
dall’offerta, ma non soltanto
da esse. In primo luogo,
naturalmente, la domanda e
l’offerta possono essere
manipolate da vincoli
monopolistici, e questi ultimi
sono stati la norma piu che
l’eccezione. In secondo
luogo, il venditore può
vincolare il prezzo attraverso
l’integrazione verticale.
Tutte le volte che il
«venditore» e il «compratore»
erano di fatto, in ultima
istanza, la stessa ditta, il
prezzo poteva essere
arbitrariamente manipolato in
vista di considerazioni fiscali
o di altro tipo; ma in nessun
modo questo prezzo
rappresentava l’interazione di
offerta e domanda.
L’integrazione verticale,
proprio come il monopolio
«orizzontale», non è stata un
fatto raro. Naturalmente
conosciamo bene le sue
forme piu spettacolari: le
chartered companies dei
secoli XVI-XVII, le grandi
merchant houses del secolo
XIX, le compagnie
multinazionali del secolo xx.
Si è trattato in questi casi di
strutture globali che
cercavano di controllare il
maggior numero possibile di
legami in una particolare
catena di merci. Ma esempi
minori di integrazione
verticale, capaci di coprire
solo pochi (anche solo
due) legami interni ad una
catena, si sono venuti
diffondendo sempre piu.
Sembra ragionevole dedurne
che l'integrazione verticale è
stata la norma statistica del
capitalismo storico, se
comparata con quei nessi di
«mercato» nelle catene di
merci in cui venditore e
compratore erano veramente
distinti e antagonistici.
Ora, le catene di merci
non hanno scelto casualmente
le, loro direzioni geografiche.
Se fossero tutte cartografa-te,
potremmo notare che esse
hanno assunto una forma
centripeta. I loro punti di
origine sono stati molteplici,
ma i punti di arrivo hanno
teso a convergere in poche
aree. Come dire, nel nostro
linguaggio abituale, che
hanno espresso la tendenza a
muoversi dalle periferie dell'
economia-mondo capitalistica
verso i centri. È difficile
contestare questa
osservazione empirica. Il
problema vero è per quale
motivo ciò sia avvenuto.
Quando parliamo di catena di
merci parliamo di una diffusa
divisione sociale del lavoro
che, nel corso dello sviluppo
del capitalismo storico, è
diventata sempre piu
funzionalmente e
geograficamente estesa, e
contemporaneamente sempre
più gerarchica. La
gerarchizzazione dello spazio
nella struttura dei processi
produttivi ha portato a una
sempre maggiore
polarizzazione tra le
zone centrali e le zone
periferiche dell' economia-
mondo, non solo per ciò che
concerne i criteri distributivi
(livelli dei redditi reali,
qualità della vita) ma anche,
in modo persino piu
significativo, per ciò che
riguarda i luoghi
dell' accumulazione di
capitale.

5. Polarizzazione e
scambio ineguale
Inizialmente, quando
questo processo cominciò, le
differenze geografiche erano
piuttosto piccole, e il grado
di specializzazione territoriale
limitato . Entro il sistema
capitalistico, tuttavia, tutte le
differenze esistenti (fossero
dovute a ragioni ambientali o
storiche) sono state
accentuate, rafforzate e
solidificate.
L' elemento cruciale di
questo processo è stato
l'intromissione della forza
nella determinazione del
prezzo. Certo, è un fatto che
l'uso della forza da parte di
uno dei soggetti di una
transazione di mercato per
aumentare il prezzo non fosse
un'invenzione del
capitalismo.
Lo scambio ineguale è
una vecchia pratica. Ciò che è
da notare, a proposito del
capitalismo come sistema
storico, è il modo in cui
questo scambio ineguale poté
essere nascosto; nascosto in
verità così bene, che gli stessi
oppositori espliciti del
sistema hanno cominciato a
rilevarne sistematicamente l'
esistenza solo dopo
cinquecento anni dalla sua
entrata in vigore .
La chiave per nascondere
questo meccanismo
fondamentale sta nella
struttura profonda
dell''economia-mondo
capitalistica: l’apparente
separazione, nel sistema-
mondo capitalistico, della
sfera economica (una
divisione sociale del lavoro a
livello mondiale con processi
di produzione integrata, tutti
operanti per la continua
accumulazione di capitale) e
la sfera politica (che si
compone apparentemente di
stati sovrani separati,
ciascuno autonomamente
responsabile delle decisioni
politiche entro la propria
giurisdizione, e ciascuno
dotato di forze armate a
sostegno della propria
autorità). Nel mondo concreto
del capitalismo storico, quasi
tutte le catene di merci di una
qualche importanza hanno
attraversato queste frontiere
statali. Non si tratta di una
innovazione recente. Essa si è
verificata fin dai primordi del
capitalismo storico. Di piu: il
carattere trans-nazionale delle
catene di merci è stato una
realtà effettiva del mondo
capitalistico del secolo xvi
allo stesso modo con cui lo è
di quello del secolo xx.
Come ha funzionato
questo scambio ineguale?
Partendo da una qualche
differenza effettiva del
mercato, causata o dalla
(temporanea) scarsità di un
processo di produzione
complesso, o da scarsità
artificiali create manu
militari, le merci si
spostavano da una zona
all’altra in modo tale che
l’area con il bene meno
«scarso» «vendeva» il
suo bene all’altra area a un
prezzo che rappresentava un
input (costo) effettivo
superiore a quello di un bene
dello stesso prezzo che si
muovesse nella direzione
inversa. Ciò che
effettivamente accadeva era
un trasferimento da una
zona all’altra di una parte del
profitto totale (o surplus)
prodotto.
Questa, appunto, è la
relazione tra centro e
periferia. Per estensione,
possiamo perciò definire la
zona che ci perde una
«periferia» e quella che ci
guadagna un «centro». E in
effetti, questi nomi non fanno
che riflettere la
struttura geografica dei flussi
economici.
È possibile così
riconoscere senza difficoltà
molti meccanismi che
storicamente hanno
accresciuto la disparità. Tutte
le volte che si è verificata
un’«integrazione verticale» di
due qualsiasi legami
all’interno di una catena di
merci, era possibile spostare
verso il centro un segmento
ancora piu grande di surplus
totale di quanto non fosse
stato possibile fino a quel
punto. In secondo luogo, lo
spostamento di surplus verso
il centro concentrava lì
capitale e rendeva disponibili
in modo sproporzionatamente
maggiore risorse per una
ulteriore meccanizzazione, sia
nel senso di permettere agli
imprenditori delle zone
centrali di ottenere vantaggi
competitivi addizionali nei
prodotti esistenti, sia nel
senso di permettere loro di
creare sempre nuovi prodotti
«rari» con i quali rinnovare il
processo.
La concentrazione di
capitale nelle zone centrali
creava insieme la base fiscale
e la motivazione politica per
costruire macchine statali
relativamente forti, capaci, tra
le molte altre cose, di
assicurarsi che le macchine
statali delle zone periferiche
divenissero o rimanessero
relativamente piu deboli.
Si potevano così
costringere queste strutture
statali periferiche ad
accettare, persino a
promuovere, all' interno della
loro giurisdizione, una
maggiore specializzazione nei
compiti piu bassi nella scala
gerarchica delle catene di
merci, utilizzando forze-
lavoro meno remunerate e
creando (rinforzando) le
relative strutture domestiche
che permettessero a simili
forze-lavoro di sopravvivere.
È così che il capitalismo
storico ha effettivamente
creato i cosiddetti livelli
storici di salario che sono
diventati così marcatamente
differenti nelle diverse zone
del sistemamondo.
Quando sosteniamo che
questo processo è avvenuto di
nascosto, intendiamo dire che
i prezzi effettivi sembravano
sempre e soltanto il frutto di
una contrattazione interna a
un mercato mondiale sulla
base di forze
economiche impersonali.
L'enorme apparato di forza
latente (usata apertamente
solo in modo sporadico, nelle
guerre e nelle colonizzazioni)
non ha avuto bisogno di
essere invocato in ciascuna
transazione separata, per
assicurare che lo
scambio fosse ineguale.
Piuttosto, l’apparato di
forza entrava in gioco solo
quando un livello esistente di
scambio ineguale veniva
significativamente posto in
discussione. Una volta
passata la fase acuta del
conflitto politico, le classi
imprenditrici mondiali
potevano fingere che
l’economia stesse operando
sulla base di pure
considerazioni di domanda e
offerta, senza spiegare come
l'economia-mondo fosse
storicamente arrivata a quel
punto particolare di rapporto
tra domanda e offerta, e quali
strutture in termini di forza
stessero sostenendo in quel
preciso momento le
«tradizionali» differenze tra i
livelli salariali e i livelli di
effettiva qualità della vita
delle diverse forze-lavoro
mondiali.
Possiamo ora tornare al
problema del perché vi sia
potuta essere una qualche
proletarizzazione. È
opportuno richiamare la
contraddizione fondamentale
tra l' interesse individuale di
ciascun imprenditore e
l’interesse collettivo di
tutte le classi capitalistiche.
Lo scambio ineguale, per
definizione, era al servizio di
questi interessi collettivi, ma
non era per nulla al servizio
di molti interessi individuali.
Ne segue che quelli i cui
interessi non erano
immediatamente tutelati in un
qualunque momento dato
(perché essi
guadagnavano meno dei loro
concorrenti) costantemente
cercavano di alterare le cose
in loro favore. Cercavano
cioè di essere piu competitivi
o incrementando l’efficienza
collettiva, o adoperando
qualche influenza politica per
crearsi qualche nuovo
vantaggio monopolistico in
qualche mercato.

6. Concorrenza e
instabilità

L’aspra competizione tra


capitalisti è sempre stata una
delle specificità che
definiscono il capitalismo
storico. Anche quando è
sembrata volontariamente
controllata (da accorgimenti
come i «cartelli»), ciò è
avvenuto innanzitutto perché
i concorrenti hanno pensato
che tale controllo
ottimizzasse per ciascuno di
essi i rispettivi margini. In un
sistema dichiaratamente
rivolto a un’accumulazione di
capitale senza fine, nessun
elemento potrebbe
permettersi di lasciar cadere
questa continua spinta verso
un profitto di lungo periodo
senza correre il rischio di
autodistruggersi.
Così la pratica
monopolistica e le
motivazioni a favore della
concorrenza sono state una
vera realtà concomitante del
capitalismo storico. In queste
circostanze, è evidente che
nessun fattore specifico che
collegasse i processi
produttivi poteva essere
stabile. Tutto al contrario,
sarebbe stato sempre
nell’interesse di un gran
numero degli imprenditori
concorrenti cercare di alterare
il fattore specifico di una data
situazione spazio-temporale
senza preoccupazioni di breve
periodo circa l' effetto globale
di simile comportamento. La
«mano nascosta» evocata da
Adam Smith ha certamente
operato, nel senso che il
«mercato» ha posto vincoli al
comportamento individuale,
ma sarebbe una lettura
davvero curiosa del
capitalismo storico quella
che suggerisce che il risultato
sia stato l' armonia.
Piuttosto, il risultato,
ancora una volta alla luce
della osservazióne empirica, è
sembrato essere un ciclo
alterno di espansione e
stagnazione del sistema nel
suo complesso. Questi cicli
hanno comportato
fluttuazioni di tale significato
e regolarità che è difficile
credere che non fossero
intrinseche al funzionamento
del sistema. Esse
somigliano, se è consentito il
paragone, al sistema
respiratorio dell’organismo
capitalistico, che inspira
l’ossigeno purificatore
ed espira i rifiuti velenosi. Le
analogie sono sempre un po’
pericolose, ma questa sembra
particolarmente calzante. I
rifiuti accumulati erano le
inefficienze economiche, che
in modo ricorrente si
trasformavano in sedimenti
politici, attraverso il processo
di scambio ineguale sopra
descritto.
L’ossigeno purificatore
era una piu efficiente
allocazione di risorse (piu
efficiente nel senso di
permettere ulteriore
accumulazione di capitale),
che una sistematica
ristrutturazione delle catene
di merci rendeva possibile.
Ciò che sembra sia
successo ogni cinquant’anni è
che, a causa degli sforzi di
una quantità crescente di
imprenditori per accaparrarsi
i nessi piu remunerativi delle
catene di merci, si sono
verificate sproporzioni di
investimento tali da farci
parlare, in modo un po’
fuorviante, di
sovrapproduzione. La sola
soluzione a queste
sproporzioni è stata una
caduta del sistema produttivo
tale da consentire
una ulteriore distribuzione.
Tutto ciò suona logico e
semplice, ma le conseguenze
sono state assai vaste. Si è
verificata una concentrazione
di volta in volta maggiore
delle operazioni in
determinati legami della
catena di merci, che
sono divenuti così sempre più
intasati. Ciò ha comportato
l'eliminazione da un lato di
alcuni imprenditori e dall’
altro di alcuni lavoratori (sia
quelli che lavoravano per gli
imprenditori che uscivano di
mercato, sia quelli che
lavoravano per altri
imprenditori che acceleravano
la meccanizzazione per
ridurre i costi per unità di
prodotto). Un simile
mutamento inoltre poneva gli
imprenditori in condizione di
«declassare» certe operazioni
nella gerarchia della catena di
merci, e perciò li metteva in
grado di indirizzare gli
investimenti e gli sforzi,
all’interno della catena di
merci, verso legami
innovativi che, proprio per il
fatto di offrire inizialmente
input «piu scarsi», erano più
remunerativi. Il
«declassamento» di certi
processi nella scala
gerarchica significava anche,
non di rado, una parziale
redistribuzione geografica. Il
motivo di maggiore interesse
in una simile redistribuzione
geografica è consistito nella
possibilità di spostarsi verso
un’area a più basso costo del
lavoro, anche se, dal punto di
vista dell’area verso la quale
l’industria si spostava, simile
spostamento comportava in
genere una crescita dei livelli
salariali per alcuni segmenti
della forza-lavoro. In questo
momento stiamo
attraversando esattamente una
di queste massicce
redistribuzioni su scala
mondiale, nell’industria
automobilistica, siderurgica
ed elettronica. Questo
fenomeno di redistribuzione è
stato parte integrante del
capitalismo storico fin dal suo
sorgere.
Tre sono state le
conseguenze principali di
questi rime-scolamenti. La
prima è stata la costante
autoristrutturazione
geografica del sistema-mondo
capitalistico. Tuttavia, anche
se, ogni cinquant'anni circa,
le catene di merci sono state
ristrutturate in modo così
significativo, esse
hanno mantenuto un sistema
di organizzazione gerarchico.
Certi processi di
produzione si sono spostati in
basso nella gerarchia, mentre
certi altri nuovi venivano
inseriti al vertice. E certe
zone geografiche hanno
ospitato i livelli gerarchici
continuamente mutevoli dei
processi. Così, certi prodotti
hanno conosciuto «cicli di
prodotto» che li hanno visti
partire da una posizione
centrale, e divenire alla fine
periferici.
Inoltre, in certe zone
interne al sistema, si è mosso
verso l’alto o verso il basso il
benessere relativo degli
abitanti. Ma, per dare a tali
rimaneggiamenti il nome di
«sviluppo», dovremmo prima
aver dimostrato la tendenza
ad una riduzione della
polarizzazione globale del
sistema. Stando alle
rilevazioni empiriche, sembra
che ciò non sia
affatto accaduto; se mai, la
polarizzazione è storicamente
cresciuta. Queste
redistribuzioni geografiche e
produttive, allora, si possono
effettivamente definire
cicliche.
Tuttavia, vi è stata una
seconda conseguenza, del
tutto diversa, del
rimescolamento. Il termine
«sovraproduzione», per
quanto fuorviante, richiama
l’attenzione sul fatto che,
il dilemma immediato è
sempre consistito
nell’assenza di una sufficiente
domanda mondiale effettiva
per alcuni prodotti chiave del
sistema. È in questa
situazione che gli
interessi delle forze-lavoro
hanno coinciso con gli
interessi di una minoranza di
imprenditori. Le forze-lavoro
hanno sempre cercato di
accrescere la loro quota di
surplus, e i momenti di
crisi economica del sistema
hanno spesso offerto alcuni
incentivi immediati
straordinari, e alcune
straordinarie possibilità,
per inasprire le loro lotte di
classe. Una delle maniere piu
efficaci e immediate da parte
delle forze-lavoro per
accrescere il reddito reale è
stata l’ulteriore
mercificazione del proprio
lavoro. Esse hanno spesso
tentato di sostituire con il
lavoro salariato quelle parti
dei processi di produzione
domestica che procuravano
una scarsa quantità di reddito
effettivo, in particolare i vari
tipi di piccola produzione per
l’autoconsumo. Una delle
forze più possenti che hanno
sostenuto la proletarizzazione
è sempre stata costituita, in
effetti, proprio dalle forze-
lavoro mondiali. Esse hanno
capito, spesso meglio dei loro
sedicenti portavoci
intellettuali, quanto maggiore
sia lo sfruttamento negli
aggregati domestici
semiproletari che non in
quelli interamente
proletarizzati.
Ora, nei momenti di
stagnazione, certi proprietari-
imprenditori, in parte
rispondendo alle pressioni
politiche delle forze-lavoro,
in parte credendo che i
cambiamenti strutturali nei
rapporti di produzione li
avrebbero avvantaggiati
contro altri proprietari-
imprenditori
concorrenti, hanno unito le
forze, sia sul terreno
produttivo che su
quello politico, per spingere
verso una ulteriore
proletarizzazione di un
segmento limitato della forza
lavoro, in questo o quel
luogo. È questo processo che
ci fornisce il maggior indizio
per capire perché abbia
potuto verificarsi una qualche
crescita della
proletarizzazione, dato che,
sul lungo periodo, la
proletarizzazione ha ridotto i
livelli di
profitto nell’economia-mondo
capitalistica.
In questo contesto si deve
porre il processo di
cambiamento tecnologico,
che è stato più la conseguenza
che la causa motrice del
capitalismo storico. Ogni
significativa «innovazione»
tecnologica è stata prima di
tutto la creazione di nuovi
prodotti «scarsi», che erano
perciò stesso fortemente
remunerativi, e in secondo
luogo di processi
spesso orientati a ridurre il
lavoro.
Ciascuna innovazione è
stata una risposta ai momenti
bassi del ciclo, un modo per
appropriarsi delle
«invenzioni» al fine di
proseguire nel processo di
accumulazione capitalistica.
Senza dubbio, queste
innovazioni hanno riguardato
in molti casi l’effettiva
organizzazione della
produzione. Esse hanno
spinto storicamente verso la
centralizzazione di
molti processi di lavoro (la
fabbrica, la catena di
montaggio).
Ma è facile esagerare nel
descrivere la quantità di
cambiamento che c’è stata.
L’osservazione dei processi
che concentravano
fisicamente le mansioni
produttive ha spesso fatto
mettere da parte
l’osservazione di altri
processi che le hanno
sistematicamente decentrate.
Ciò è particolarmente
vero se aggiungiamo al
quadro la terza conseguenza
del rimescolamento ciclico.
Si noti che, date le due
conseguenze fin qui
esaminate, abbiamo un
apparente paradosso da
spiegare. Da un lato, abbiamo
parlato della continua
concentrazione
dell’accumulazione di
capitale nella polarizzazione
storica della distribuzione.
Contemporaneamente però,
abbiamo anche parlato di un
lento, e tuttavia costante,
processo di proletarizzazione
che, abbiamo sostenuto, ha
effettivamente ridotto i livelli
di profitto. Una soluzione
facile consisterebbe nel
sostenere che il primo
processo è stato
semplicemente più grande del
secondo, e ciò è vero. Ma, in
aggiunta, la diminuzione
dei livelli di profitto causata
dall’accresciuta
proletarizzazione è stata fin
qui più che compensata da un
ulteriore meccanismo che si è
mosso nella direzione
opposta.
Un’altra facile
osservazione empirica da fare
circa il capitalismo storico è
che il suo spazio geografico si
è costantemente espanso nel
tempo. Ancora una volta,
l’andamento del processo
offre la migliore indicazione
per la sua spie-
L’incorporazione di
nuove zone nella divisione
sociale del lavoro del
capitalismo storico non è
avvenuta tutta in una volta.
Essa è avvenuta di fatto
tramite scatti
periodici nell’incorporazione
di qualche area in piu, benché
ciascuna espansione
successiva sembrasse avere
un raggio di azione limitato.
Senza dubbio, parte della
spiegazione sta nello sviluppo
tecnologico stesso del
capitalismo storico. Il
miglioramento dei trasporti,
delle comunicazioni, e degli
armamenti ha reso sempre
meno costosa l’acquisizione
progressiva di nuove regioni
da parte delle zone centrali.
Questa spiegazione, però, ci
indica al massimo una
condizione necessaria ma non
sufficiente del processo.
Si è sostenuto talvolta che
la spiegazione sta nella
ricerca di mercati sempre
nuovi nei quali realizzare i
profitti della produzione
capitalistica. Questa
spiegazione tuttavia è
semplicemente inconciliabile
con i fatti storici. Le
aree esterne al capitalismo
storico sono state nel loro
complesso cattive acquirenti
dei suoi prodotti, in parte
perché non ne avevano
«bisogno» in relazione al loro
sistema economico, e in parte
perché mancavano dei mezzi
occorrenti per procurarseli.
Certo vi erano eccezioni; ma
complessivamente era il
mondo capitalistico a cercare
i prodotti dell’area esterna e
non viceversa. Ovunque
venisse effettuata la conquista
militare di qualche zona
particolare, gli imprenditori
capitalisti regolarmente si
lamentavano dell’assenza di
veri mercati in queste zone
conquistate, e agivano
attraverso i governi coloniali
per «creare preferenze».
La spiegazione della
ricerca dei mercati quindi non
funziona. Una spiegazione
molto più plausibile è
costituita dalla ricerca di
forze-lavoro a basso costo. È
storicamente provato che
quasi tutte le zone nuove
incorporate nell’economia-
mondo stabilivano livelli di
remunerazione effettiva che
erano i più bassi nella
gerarchia salariale
del sistema-mondo.
Queste zone non
possedevano di fatto
aggregati domestici proletari
e non erano per nulla
incoraggiate a svilupparli. Al
contrario, le politiche degli
stati coloniali (e degli stati
semicoloniali ristrutturati, in
quelle zone incorporate che
non erano formalmente
colonizzate) sembravano
destinate esattamente a
promuovere lo sviluppo del
tipico aggregato domestico
semiproletario, che, come si è
visto, rendeva possibile la
soglia più bassa di livelli
salariali. Queste tipiche
politiche statali
comportavano la
combinazione di certi
meccanismi fiscali, che
costringevano ogni
aggregato domestico a
intraprendere un qualche
lavoro salariato, con alcune
restrizioni di movimento o
una separazione forzata per
certi membri dell’aggregato
domestico, che riducevano
considerevolmente la
possibilità di una piena
proletarizzazione.
Se aggiungiamo a questa
analisi l’osservazione per cui
le nuove immissioni nel
sistema-mondo capitalistico
tendevano a corrispondere
alle fasi di stagnazione di
quell’ economia-mondo,
diviene chiaro che
l’espansione geografica del
sistema-mondo serviva a
controbilanciare il processo di
riduzione dei profitti
determinato dalla cresciuta
proletarizzazione,
incorporando nuove forze-
lavoro destinate ad essere
semiproletarizzate. Il
paradosso apparente è
scomparso. L’impatto della
proletarizzazione sul processo
di polarizzazione è stato
bilanciato, forse più che
bilanciato, almeno fino ad
ora, dall’impatto
dell’incorporazione di nuovi
territori. E i processi di lavoro
di tipo industriale si
sono sviluppati
percentualmente meno di
quanto non si dica, se si
considera che il denominatore
dell’equazione è stato
costantemente in crescita.
Abbiamo dedicato molto
tempo a descrivere come il
capitalismo storico abbia
agito nel campo strettamente
economico. Ma ora siamo
finalmente in grado di
spiegare perché il capitalismo
è emerso come sistema
sociale storicamente
determinato. Non è un
problema facile come in
genere si pensa. Innanzitutto,
lungi dall’essere un sistema
«naturale» come certi
apologeti hanno cercato di
sostenere, il capitalismo
storico è un sistema
palesemente assurdo:
si accumula capitale per
accumulare maggiore
capitale. I capitalisti sono
come dei topolini su una
ruota dentata, che corrono
sempre più veloce, per poter
correre ancora di più.
All’interno di questo
processo, senza dubbio,
alcuni vivono bene, ma altri
vivono in condizioni assai
misere; e anche quelli che
vivono bene, pagano un
prezzo elevato, nel senso che
è sempre minore la quota di
vita durante la quale possono
godere dei frutti che hanno
acquisito la possibilità
finanziaria di ottenere.
Più ho riflettuto su questa
cosa, più mi è sembrata
assurda. Non solo credo che
la grande maggioranza dei
popoli del mondo stia
oggettivamente e
soggettivamente peggio, dal
punto di vista materiale,
rispetto ai precedenti sistemi
storici, ma - come vedremo -
penso che si possa dimostrare
che anche dal punto di vista
politico essi stiano peggio che
nelle fasi precedenti. Siamo
tutti così intrisi dall’ideologia
autogiustificatrice del
progresso, creata da questo
sistema storico, che troviamo
difficile persino riconoscere i
grandi caratteri storici
negativi del sistema. Persino
un accusatore risoluto del
capitalismo storico, come
Karl Marx, ha posto un forte
accento sulla sua funzione
storica progressiva. Io non
credo per nulla a questo
carattere, a meno che
«progressivo» voglia
semplicemente dire ciò
che storicamente viene dopo,
e le cui origini possano essere
spiegate da qualcosa che è
venuta prima. Il bilancio del
capitalismo storico, su cui
ritornerò, è forse complesso,
ma un primo calcolo in
termini di distribuzione
materiale dei beni e di
allocazione delle energie è,
secondo me, davvero molto
negativo.
Se è così, perché questo
sistema è sorto? Forse proprio
per perseguire questo fine.
Cosa potrebbe essere più
plausibile di una linea di
ragionamento che sostenesse
che la spiegazione dell'origine
di un sistema stava nel
perseguire un fine che poi in
effetti è stato raggiunto? So
che la scienza moderna ci ha
dissuasi dalla ricerca di cause
finali e da ogni
considerazione di
intenzionalità (specie quando
sia così intrinsecamente
difficile darne una
dimostrazione empirica). Ma
la scienza moderna e il
capitalismo storico sono stati
stretti alleati, come sappiamo,
e ciò vuol dire che l’autorità
della prima è sospetta,
soprattutto in relazione
alla questione delle origini
del capitalismo moderno. Mi
sia consentito perciò
semplicemente di tracciare a
grandi linee una spiegazione
storica del capitalismo
storico; non cercherò di
sviluppare in questa
occasione la base empirica di
simile ragionamento.
Nel mondo dei secoli xiv
e xv, l’Europa era sede di una
divisione sociale del lavoro
che, a confronto con altre
aree del mondo, era, in
termini di forza di
produzione, di coesione del
proprio sistema storico, e di-
stato relativo
della conoscenza umana, una
zona intermedia - né
avanzata come certe aree, né
primitiva come certe altre.
Conviene ricordare che
Marco Polo, il quale pure
veniva da una delle sub-
regioni d’Europa
culturalmente ed
economicamente già
«avanzate», restò del tutto
sbalordito da ciò che incontrò
nei suoi viaggi in Asia.
Il contesto economico
dell'Europa feudale, in
conseguenza dei processi
sviluppatisi al suo interno,
stava attraversando in questo
periodo una crisi radicale, che
ne scuoteva le fondamenta
sociologiche. Le sue classi
dirigenti si distruggevano
l'una contro l’altra, a grande
velocità, mentre il
suo sistema agrario (la base
della sua struttura
economica), si allentava
sempre di più, con una
considerevole
riorganizzazione orientata
nella direzione di una
distribuzione ben più
egualitaria di quanto non
fosse stata fino allora la
norma. In più, i piccoli
coltivatori dimostravano una
grande efficienza come
imprenditori. Le strutture
politiche si facevano via via
più deboli, e in generale
concentravano la propria
attenzione sulle lotte intestine
tra i potenti, lasciandosi così
scarso tempo da dedicare a
reprimere la forza crescente
della massa della
popolazione. Il cemento
ideologico del cattolicesimo
era sottoposto a tensioni, e
movimenti egualitari
nascevano nel seno stesso
della Chiesa. Le cose stavano
davvero precipitando. Se
l’Europa avesse continuato
sulla china su cui si era
avviata, è difficile dire dove
sarebbe andata a finire; certo,
sarebbe impossibile
pensare che fosse verosimile
un ricompattamento degli
elementi dell’Europa feudale
del Medioevo, con il suo
sistema di «ordini»,
fortemente strutturato. Molto
più facile è ipotizzare che la
struttura sociale dell’Europa
feudale si potesse evolvere
verso un sistema di produttori
su piccola
scala, relativamente uguali,
destinato ad appiattire
ulteriormente le aristocrazie
ed a decentrare le strutture
politiche.
Se ciò potesse essere un
bene o un male, e per chi, è
questione puramente
ipotetica, e di scarso
interesse. Ma è chiaro che
una simile prospettiva deve
avere spaventato gli strati
superiori della società
europea; li deve avere
spaventati e atterriti specie
nella misura in cui essi
sentivano che la loro
armatura ideologica si stava
completamente dissolvendo.
Senza voler sostenere che
qualcuno abbia
coscientemente espresso un
simile progetto, possiamo
vedere, se paragoniamo
l’Europa del 1650 con
l’Europa del 1450, che le
cose si sono sviluppate nel
modo seguente.
Nel 1650, le strutture di
base del capitalismo storico,
come sistema sociale
funzionante, erano ormai
state poste e consolidate. La
tendenza alla egualizzazione
delle ricompense era stata
drasticamente invertita. Gli
strati superiori erano di nuovo
in possesso del più ferreo
controllo politico e
ideologico. Vi era un livello
di continuità notevolmente
elevato tra le famiglie che
avevano costituito gli
strati alti nel 1450 e quelle
che li costituivano nel 1650.
Di più, se si sostituisse il
1900 al 1650, si scoprirebbe
che la maggior parte di questi
paragoni con il 1450 restano
ancora veri. Solo, nel secolo
xx si hanno alcune tendenze
significative in una direzione
differente, segno, come
vedremo, che il sistema
storico del capitalismo, dopo
quattro-cinquecento anni di
splendore, è entrato
finalmente in una crisi
strutturale.
Può darsi che nessuno
abbia esplicitato l’obiettivo,
ma certo sembra sia proprio
accaduto che la creazione del
capitalismo storico come
sistema sociale abbia
drammaticamente capovolto
una tendenza che gli strati
superiori temevano, e ne
abbia instaurata al suo posto
un’altra che serviva molto
meglio i loro interessi. È così
assurdo? Solo per quelli che
furono le sue vittime.
II.

La politica
dell’accumulazione: la
lotta per i benefici






L’accumulazione
incessante di capitale fine a se
stessa può sembrare a prima
vista un obiettivo socialmente
assurdo. Essa ha avuto
tuttavia i suoi difensori, che
di solito l’hanno giustificata
in relazione ai benefici sociali
di lungo periodo che si è
sostenuto ne risultassero.
Discuteremo più avanti il
grado in cui questi benefici
sociali sono reali. Del tutto
indipendentemente da
qualsiasi beneficio
collettivo, tuttavia, è chiaro
che l’accumulazione di
capitale consente nel
frattempo l’opportunità e
l’occasione di un
consumo molto maggiore da
parte di molti individui (e/o
piccoli gruppi). Se questo
maggior consumo migliori la
qualità della vita di coloro
che ne traggono beneficio, è
altra questione, e anch’essa
sarà esaminata più avanti.
La prima questione che
porremo è: chi ottiene i
benefici individuali
immediati? Sembra
ragionevole affermare che la
maggior parte della gente non
abbia atteso di
compiere valutazioni circa i
benefici di lungo termine o la
qualità della vita, individuale
e collettiva, che risultava da
questo maggior consumo, per
decidere che valeva la pena di
lottare per i benefici
individuali immediati, che
erano così facilmente
disponibili. In effetti, questo è
stato il punto focale della
lotta politica interna al
capitalismo storico. E
ciò intendiamo dire, quando
diciamo che il capitalismo
storico è una civiltà
materialistica.
In termini materiali, non
solo i vantaggi sono stati
grandi per coloro che hanno
assunto una posizione di
comando, ma le differenze
nei vantaggi materiali tra il
massimo e il minimo sono
state notevoli, e via via
crescenti
nell’intero complesso del
sistema-mondo.
Abbiamo già analizzato i
processi economici che
spiegano questa
polarizzazione nella
distribuzione dei vantaggi.
Dobbiamo ora rivolgere
l’attenzione al modo con cui
le persone hanno agito
all’interno di un siffatto
sistema economico, per
ottenere vantaggi per sé e
sottrarne così agli altri.
Dovremo anche guardare al
modo con cui coloro che sono
stati vittime di simile cattiva
distribuzione hanno agito,
anzitutto per minimizzare le
loro perdite nel
funzionamento del sistema, e
in secondo luogo per
trasformare questo sistema
che era responsabile di
ingiustizie così manifeste.

1. Dalla sovranità
statale alle politiche
commerciali.
In che modo la gente, i
gruppi di persone, hanno
condotto le loro lotte
politiche nel capitalismo
storico? La politica consiste
nel cambiare i rapporti di
potere in una direzione piu
favorevole agli interessi di
qualcuno, e nel riorientare per
conseguenza i processi
sociali. Perseguirla con
successo vuol dire trovare
leve per il cambiamento che
consentano il massimo
vantaggio con il minimo
sforzo. La struttura del
capitalismo storico è stata tale
da annoverare tra le leve più
efficaci della regolazione
politica le strutture statali, la
cui stessa costituzione fu,
come abbiamo visto,
uno degli eventi istituzionali
fondamentali del capitalismo
storico. Non è un caso,
perciò, che il controllo del
potere statale (o la sua
conquista, quando era
necessario), sia
stato l’obiettivo strategico
fondamentale di tutti i
principali attori della scena
politica, lungo l’intero arco
del capitalismo moderno.
L’importanza
fondamentale del potere
statale nei processi
economici, anche quando
parliamo di processi
economici nel senso più
stretto del termine, risulta
impressionante, solo che si
guardi attentamente al modo
con cui il sistema
effettivamente ha funzionato.
Il primo e più elementare
oggetto del potere statale è
stato la
giurisdizione territoriale. Gli
stati avevano dei confini.
Questi confini erano
giuridicamente determinati,
da un lato da leggi dettate
dallo stato stesso, dall’altro
da un riconoscimento
diplomatico da parte di altri
stati. Certo, i confini
potevano essere contestati, e
lo erano regolarmente; cioè, i
riconoscimenti giuridici
provenienti dalle due fonti (lo
stato in questione e gli altri
stati) erano in conflitto.
Queste divergenze erano
risolte, in ultima istanza, o
con la trattativa o con la forza
(e l’eventuale acquiescenza
che ne seguiva). Molte
dispute hanno continuato a
svolgersi in forma latente per
periodi assai lunghi, anche se
pochissime sono durate più di
una generazione. Ciò che è
fondamentale è la costante
presunzione ideologica, da
parte di tutti, che simili
dispute si potessero sempre
risolvere, e che alla
fine sarebbero state risolte.
Ciò che era
concettualmente inaccettabile
nel sistema-stato moderno era
un esplicito riconoscimento di
una permanente
sovrapposizione
giurisdizionale. Il concetto di
sovranità era basato sulla
legge aristotelica del
«terzo escluso».
La dottrina filosofico-
giuridica rendeva possibile
fissare la responsabilità per il
controllo dei movimenti
attraverso le frontiere, dentro
e fuori degli stati in
questione. Ciascuno stato
aveva una giurisdizione
formale sulle proprie frontiere
per ciò che riguardava il
movimento di beni, di
capitale monetario, e di
manodopera. Perciò ciascuno
stato poteva incidere fino a un
certo grado sulle modalità di
funzionamento della
divisione sociale del
lavoro dell'economia-mondo
capitalistica. Inoltre, ciascuno
stato poteva costantemente
correggere questi meccanismi
semplicemente cambiando le
regole, a seconda del flusso
dei fattori di produzione
lungo le sue frontiere.
Di solito discutiamo di
simili controlli di frontiera
contrapponendo la totale
assenza di controlli (libertà di
scambio) e la totale assenza
di liberi movimenti
(autarchia). In effetti, la
politica statale è rimasta in
pratica, quasi sempre e quasi
dappertutto, in mezzo a questi
due estremi. Inoltre, vi sono
state politiche specifiche del
tutto differenti, a seconda che
il movimento riguardasse i
beni, il capitale monetario o
la manodopera. In generale, il
movimento della manodopera
ha avuto maggiori restrizioni
di quello dei beni e dei
capitali.
Dal punto di vista di un
dato imprenditore, situato in
un punto qualunque di una
catena di merci, la libertà
di movimento era auspicabile
nella misura in cui
l’imprenditore era
economicamente competitivo
nei confronti di altri
produttori degli stessi beni
nel mercato mondiale.
Ma nella misura in cui tale
condizione non c’era, vari
vincoli di confine contro i
produttori rivali potevano
alzare i costi di questi ultimi,
e risolversi in un beneficio
per un produttore altrimenti
meno efficiente. Fino a che,
per definizione, in un mercato
in cui vi sono molteplici
produttori di un dato bene,
una maggioranza è meno
efficiente di una minoranza,
esiste in quel mercato una
pressione costante a porre
vincoli al libero movimento
delle merci lungo le frontiere.
Quando tuttavia la minoranza
più efficiente
sia relativamente ricca e
potente, si verifica una
costante controspinta ad
aprire le frontiere, o piu
specificamente
certe frontiere. Perciò la
prima grande lotta, in verità
feroce e costante nel tempo,
si è sviluppata a proposito
della politica doganale degli
stati. Inoltre, dal momento
che tutti i gruppi di produttori
(ma in particolare quelli
grandi e potenti) erano
direttamente interessati non
solo alle politiche doganali
degli stati in cui era
fisicamente situata la
loro base economica (fossero
o no questi stati quelli di cui
essi erano cittadini), ma alle
politiche doganali di molti
altri stati, tali produttori
avevano interessi politici da
perseguire contemporaneament
in un numero elevato, e
spesso elevatissimo, di stati
diversi. Il concetto per cui
bisognava restringere il
proprio interessamento
politico alle vicende
del proprio stato era del tutto
inaccettabile per coloro che
perseguivano
l’accumulazione del capitale
per i propri interessi.
Naturalmente, un modo
per intervenire sulle regole
relative alla permeabilità
delle frontiere era quello di
cambiare le frontiere
effettive, attraverso
l’annessione totale di uno
stato da parte di un altro
(unificazione,
Anschluss, colonizzazione), o
la conquista di qualche
territorio, o ancora la
secessione o la
decolonizzazione. Il fatto che
le modificazioni di frontiera
avessero conseguenze
immediate sui fattori della
divisione sociale del lavoro
nell’economiamondo è stato
tenuto in grande
considerazione da tutti quelli
che favorivano o
contrastavano i singoli
cambiamenti di frontiera. Il
fatto poi che le mobilitazioni
ideologiche attorno alla
definizione delle entità
nazionali potessero rendere
più o meno possibili certi
specifici cambiamenti
di frontiera ha dato un
immediato contenuto
economico ai movimenti
nazionalistici, in quanto sia
coloro che li appoggiavano
che quelli che li avversavano
sapevano già quali sarebbero
state le specifiche politiche
statali che sarebbero seguite
ai progettati cambiamenti di
frontiera.
Il secondo elemento del
potere statale di fondamentale
interesse per le attività del
capitalismo storico è stato il
potere legale degli stati nel
determinare regole che
governassero i rapporti sociali
di produzione entro la loro
giurisdizione territoriale. Le
moderne strutture statali si
sono arrogate questo diritto a
revocare o modificare un
qualunque insieme di rapporti
consuetudinari. In materia di
legge, gli stati non
riconoscevano alcun vincolo
al loro campo d’azione, che
non fosse autoimposto.
Anche quando
certe costituzioni statali
particolari hanno dovuto
pagare un pedaggio
psicologico a vincoli
derivanti da dottrine basate
su leggi religiose o naturali,
esse hanno riservato a un
qualche corpo
costituzionalmente definito, o
a una qualche persona, il
diritto di interpretare queste
dottrine.

2. Il diritto del lavoro.

Questo diritto a legiferare


circa le modalità di controllo
del lavoro non è rimasto per
nulla confinato entro una
sfera puramente teorica. Gli
stati hanno regolarmente
adoperato questi diritti, e
spesso in modi che
comportavano trasformazioni
radicali dei fattori esistenti.
Come ci si potrebbe aspettare,
nel capitalismo storico, gli
stati hanno legiferato in modo
da accrescere la
mercificazione della forza-
lavoro, abolendo vari tipi di
vincoli consuetudinari,
che ostacolavano la mobilità
dei lavoratori da un tipo di
occupazione a un altro.
Inoltre essi hanno imposto
alla forza-lavoro obblighi
fiscali in denaro che spesso
costringevano certi lavoratori
a intraprendere un lavoro
salariato. Ma d’altro canto,
come si è già visto, gli stati
con le loro azioni legislative
spesso hanno anche
scoraggiato la completa
proletarizzazione, imponendo
limiti di residenza o
insistendo perché il gruppo
famigliare adottasse certe
forme di obbligo
all’assistenza nei confronti
dei propri membri.
Gli stati hanno controllato
i rapporti di produzione.
Dapprima hanno legalizzato,
poi hanno posto fuori legge
certe forme particolari di
lavoro obbligato (schiavitù,
obblighi di lavoro pubblico,
contratti a termine, ecc.).
Hanno creato regole che
presiedessero ai contratti di
lavoro
salariato, comprendendovi le
garanzie contrattuali, i
reciproci obblighi minimi e
massimi, ecc. Hanno
regolamentato per legge i
limiti di mobilità geografica
della forza-lavoro, non
solo oltre le frontiere, ma
anche all’interno di esse.
Tutte queste decisioni
statali erano prese in diretto
riferimento con le
implicazioni economiche
sull’accumulazione di
capitale. Lo si può verificare
scorrendo l’enorme numero
di dibattiti, registrati mentre
si svolgevano, sulle possibili
scelte alternative in campo
legislativo o amministrativo.
Inoltre gli stati hanno
impiegato regolarmente
considerevoli energie nel
rafforzare le norme contro i
gruppi d’opposizione; ma in
modo particolare ciò è
avvenuto contro i lavoratori
di opposizione. Raramente i
lavoratori erano lasciati liberi
di ignorare i limiti legali
imposti alle loro azioni. Al
contrario, la rivolta operaia,
individuale o collettiva,
passiva o attiva, ha in genere
prodotto una pronta risposta
repressiva da parte delle
macchine statali. Certo, con
l’andar del tempo, movimenti
operai organizzati furono in
grado di porre certi limiti
all’attività repressiva, e di
assicurare che le regole
vigenti fossero modificate in
qualche misura a loro favore;
ma tali movimenti ottennero
questi risultati soprattutto
grazie alla capacità di
influenzare la composizione
politica delle macchine
statali.

3. Imposizione fiscale e
spese statali.
Un terzo elemento nel
potere degli stati è stato il
potere di imporre tasse. La
tassazione non è stata certo
un’invenzione del capitalismo
storico; anche le precedenti
strutture politiche usavano
l’imposizione fiscale come
fonte di entrate per le
macchine statali. Ma il
capitalismo storico trasformò
la tassazione in due sensi.
Innanzitutto, una regolare
imposizione fiscale è
divenuta la fonte principale,
anzi di gran lunga
preponderante, di entrate,
statali, di contro alle entrate
derivanti da una requisizione
irregolare ottenuta con la
forza da parte di persone
interne o esterne alla struttura
giurisdizionale formale dello
stato (ivi compresa la
requisizione da parte di altri
stati). In secondo luogo, la
tassazione è stata un
fenomeno in costante
espansione, lungo il corso
dello sviluppo storico
dell’economia-
mondo capitalistica, se
paragonata al valore totale,
creato o accumulato. Ciò ha
significato che gli stati hanno
avuto grande importanza, dal
punto di vista delle risorse da
essi controllate, non solo
perché tali risorse hanno
permesso loro di accrescere
l’accumulazione di capitale,
ma perché esse sono state
distribuite, e sono entrate
perciò, direttamente o
indirettamente, in un processo
di ulteriore accumulazione di
capitale.
Il potere di imporre tasse
ha attratto ostilità e resistenze
attorno alla struttura statale,
percepita come una sorta di
spersonificato furfante che si
appropriava del frutto
del lavoro altrui. Ciò a cui
bisogna sempre porre mente è
che vi erano forze esterne al
governo che spingevano in
direzione di particolari forme
di tassazione, o perché il
processo avrebbe prodotto
una redistribuzione
direttamente a loro favore, o
perché avrebbe permesso al
governo di creare economie
esterne che avrebbero
migliorato la loro
posizione economica, o
ancora perché avrebbe
penalizzato altri, in modo da
risultare economicamente
favorevole a quelle forze. In
breve, il potere di imporre
tasse è stata una delle vie più
immediate attraverso le quali
lo stato ha direttamente
sostenuto il processo di
accumulazione di capitale a
favore di certi gruppi
piuttosto che di certi altri.
I poteri redistributivi dello
stato sono stati trattati quasi
sempre con riferimento al
loro potenziale egualizzatore.
È questo il tema del «Welfare
state». Ma la redistribuzione è
stata usata molto più
largamente come
meccanismo per polarizzare
la distribuzione che non come
strumento per far convergere
le entrate effettive. Tre sono
stati i principali meccanismi
che hanno accresciuto la
polarizzazione delle
ricompense, ben al di là di
quella che già sarebbe
risultata dal susseguirsi delle
attività del mercato
capitalistico.
Innanzitutto i governi
sono stati in grado di
accumulare, attraverso il
processo di tassazione, grandi
quantità di capitale, che
hanno poi redistribuito a
persone o gruppi già
largamente possessori di
capitali, attraverso la
concessione di sussidi statali.
Questi sussidi hanno
assunto la forma di esplicite
erogazioni di denaro,
abitualmente col pretesto di
remunerare un servizio
pubblico (il che ha
comportato essenzialmente
un sovrapagamento rispetto al
valore di mercato dei servizi).
Ma essi hanno anche preso
una forma meno diretta, per
la quale lo stato si è accollato
i costi dello sviluppo di certi
prodotti, che potevano essere
presumibilmente
ammortizzati da successive
vendite convenienti, per poi
cedere al costo nominale
quell’attività esattamente al
momento in cui era finita la
fase costosa dello sviluppo.
In secondo luogo, i
governi sono stati in grado di
accumulare grandi quantità di
capitali attraverso canali di
tassazione, formalmente
legali o spesso resi tali, che si
sono poi rivelati altrettante
chiocce sotto cui covare una
grande quantità di sottrazioni
di fondi pubblici; sottrazioni
illegittime, ma di fatto
incontrastate. Questo furto
delle entrate pubbliche,
insieme con le corrotte
procedure di tassazione
privata ad esso connesse, ha
costituito, una delle fonti
principali dell’accumulazione
di capitale nel corso
del capitalismo storico.
Infine, i governi hanno
ridistribuito in direzione dei
ricchi utilizzando il principio
della individualizzazione: del
profitto e della
socializzazione del rischio.
Lungo tutta la storia del
sistema capitalistico, quanto
più grande è stato il rischio e
piu ampia la perdita, tanto più
è stato vero, che i governi
hanno proceduto nella
direzione di prevenire
la bancarotta e persino di
restituire le perdite, anche
solo allo scopo di evitare lo
scompiglio finanziario.
Mentre queste pratiche di
redistribuzione antiegualitaria
sono state il lato di cui il
potere statale si vergognava
(nel senso che i governi erano
in una qualche misura
imbarazzati per queste attività
e cercavano di tenerle
nascoste) la costituzione di un
capitale sociale generale da
parte dei governi è stata
invece motivo di vanto, ed è
anzi stata presentata come un
compito essenziale dello stato
nel mantenimento del
capitalismo storico.
Le spese essenziali per la
riduzione dei costi di
molti gruppi di proprietari-
imprenditori - cioè l’energia
di base, i trasporti,
l’infrastruttura informativa
dell’economia-mondo - sono
state ampiamente sviluppate e
sostenute coi fondi pubblici.
Mentre è senza dubbio vero
che moltissime persone hanno
derivato qualche beneficio da
questo capitale sociale
generale, non è vero che tutti
ne abbiano derivato un eguale
beneficio. Il vantaggio si è
accresciuto sproporzionatamen
per coloro che erano già
proprietari di grandi quantità
di capitale, dal momento che
esso era determinato da un
sistema di tassazione ben più
egualitario di quanto non
fosse la distribuzione dei
benefici.
Perciò la costituzione di
un capitale sociale generale è
servita ad accrescere
l’accumulazione di capitale e
la sua concentrazione.
Infine, gli stati hanno
creato, o hanno cercato di
creare, un monopolio della
forza armata. Mentre le forze
di polizia erano predisposte
soprattutto al fine di
mantenere l’ordine interno
(cioè l’accettazione da parte
della forza-lavoro dei ruoli e
delle ricompense ad essa
assegnati), gli eserciti sono
stati i meccanismi attraverso i
quali gli imprenditori di uno
stato hanno potuto
influenzare direttamente la
possibilità, da parte dei loro
concorrenti situati in altri
stati, di invocare la protezione
delle proprie macchine
statali. Questo punto ci
conduce all’ultimo, decisivo,
carattere del potere statale.
Anche se i tipi di potere che
ogni stato ha esercitato sono
stati simili, il grado del potere
che la singola macchina
statale ha avuto è variato
enormemente da stato a stato.
Gli stati si sono situati in
una gerarchia di potere
effettivo che non può essere
misurata né partendo dalle
dimensioni e dalla coerenza
delle loro burocrazie e dei
loro eserciti, né dalle
autoaffermazioni ideologiche,
ma che deve essere correlata
con le effettive capacità di
accrescere nel tempo la
concentrazione di capitale
accumulato nelle proprie
frontiere, in contrapposizione
a quello degli stati
rivali. Questa effettiva
capacità ha voluto dire la
possibilità di contrastare le
forze militari ostili; la
possibilità di adottare norme
favorevoli al proprio interno,
e di ostacolare gli altri stati
che volessero fare lo stesso; e
infine la possibilità
di reprimere la propria forza-
lavoro e di indebolire le
capacità dei rivali nel fare la
stessa cosa. La vera misura
della forza degli stati è nel
loro successo economico di
medio periodo. L’esplicito
uso della forza da parte della
macchina statale per
controllare la forza-lavoro
interna - una tecnica, questa,
costosa e destabilizzante - è
piu spesso il segno della
debolezza della macchina
statale che non della sua
forza. Le macchine statali
davvero forti, sono state
capaci, in un modo o
nell'altro, di controllare la
propria forza-lavoro con
meccanismi più sottili.
Vi sono dunque molti
modi differenti con cui lo
stato ha costituito un
meccanismo fondamentale
per massimizzare
l'accumulazione di capitale.
Secondo la sua ideologia, il
capitalismo avrebbe dovuto
comportare un’attività
degli imprenditori privati
libera da ogni interferenza
delle macchine statali. Ma in
pratica questo non è mai stato
vero. È del tutto inutile
chiedersi se il capitalismo
avrebbe potuto prosperare
senza un ruolo attivo dello
stato moderno. Nel
capitalismo storico, infatti, i
capitalisti hanno fatto
affidamento proprio sulla
capacità di utilizzare a
proprio vantaggio le
macchine statali, nei vari
modi che abbiamo analizzato.

4. Economia-mondo e
stati-nazione.

Un secondo mito
ideologico è stato quello della
sovranità. Lo stato moderno
non è mai stato un’entità
politica completamente
autonoma. Gli stati si sono
sviluppati e costituiti come
parti integranti di un sistema
interstatale, che era un
insieme di regole entro cui gli
stati dovevano operare, e un
insieme di legittimazioni
senza le quali essi
non avrebbero potuto
sopravvivere. Dal punto di
vista della macchina statale di
un qualunque stato preso in
esame, il sistema interstatale
ha rappresentato una serie di
vincoli per la sua volontà.
Questi vincoli stavano nelle
pratiche della diplomazia,
nelle regole formali che
presiedevano
alle giurisdizioni e ai contratti
(diritto internazionale), e
nelle limitazioni circa il modo
e le circostanze in cui fare la
guerra. Tutti questi vincoli
contrastavano di fatto con
l’ideologia ufficiale della
sovranità. La sovranità,
tuttavia, non è mai stata
intesa nel senso di totale
autonomia. Il termine ha
voluto piuttosto significare
che esistevano limiti
nella legittimazione
dell’interferenza da parte di
una macchina statale su
un’altra.
Naturalmente, le regole
del sistema interstatale non
erano sostenute dall’accordo
o dal consenso, ma dalle
volontà e dalle capacità degli
stati più forti di imporre le
loro restrizioni, prima di tutto
agli stati più deboli, e in
secondo luogo tra di loro. Si
ricordi che gli stati sono stati
situati in una gerarchia di
potere. Il fatto stesso di
questa gerarchia ha costituito
la più importante limitazione
all’autonomia degli stati.
Certo, la situazione generale
avrebbe potuto tendere verso
una completa scomparsa del
potere degli stati, nella misura
in cui la gerarchia fosse
culminata con un picco sulla
piramide, piuttosto che con
un altopiano sulla sua cima.
Questa possibilità non è
stata solo ipotetica, se è vero
che la dinamica della
concentrazione del potere
militare ha portato a ricorrenti
tentativi di trasformare il
sistema interstatale in un
impero-mondo.
Se questi tentativi non
hanno mai avuto successo nel
capitalismo storico, ciò è
avvenuto perché la base
strutturale del sistema
economico e gli interessi
dichiarati dei
maggiori accumulatori di
capitale si sono opposti con
grande energia a una simile
trasformazione
dell’economia-mondo in
un impero-mondo.
Prima di tutto,
l’accumulazione di capitale
era un gioco che
rappresentava un incentivo
costante per l’ingresso
nella competizione di sempre
nuovi soggetti, e dunque vi
era sempre qualche
dispersione delle attività
produttive suscettibili di
maggior profitto. Perciò, in
ogni momento,
erano parecchi gli stati che
tendevano ad avere la base
economica per essere
relativamente forti.
Secondariamente, gli
accumulatori di capitale in
ciascuno stato utilizzavano le
proprie strutture statali per
essere aiutati e assistiti
nell’accumulazione del
capitale, ma anch’essi
avevano bisogno di un
qualche livello di controllo
contro le proprie
strutture statali. Infatti, se la
loro macchina statale
diveniva troppo forte, poteva,
per ragioni di equilibrio
politico interno, sentirsi libera
di rispondere alle pressioni
interne che si sviluppavano in
senso egualitario. Contro
questa minaccia, gli
accumulatori di capitale
avevano bisogno di agitare
l’altra minaccia, di poter
raggirare la propria macchina
statale, stringendo alleanze
con altre macchine statali.
Questa minaccia era possibile
solo fino a quando nessuno
stato do minava
completamente sugli altri.
Queste considerazioni
hanno costituito la base
oggettiva del cosiddetto
equilibrio delle forze;
espressione questa che vuole
significare che molti stati forti
e medio-forti del sistema
interstatale in ogni fase hanno
teso a stringere alleanze (o se
necessario, a sovvertirle) così
che nessuno stato potesse
riuscire a conquistare tutti gli
altri.
Che l'equilibrio delle
forze fosse mantenuto da
qualcosa di piu dell’ideologia
politica, lo si può vedere se si
considerano tre esempi nei
quali uno stato è riuscito a
conquistare temporaneamente
un periodo di dominio
relativo, o di «egemonia»,
sugli altri stati forti,
all’interno del sistema
interstatale. I tre esempi sono
l’egemonia delle Province
Unite (Olanda) alla metà del
secolo xvii, quella della Gran
Bretagna alla metà del secolo
xix, e quella degli Stati Uniti
alla metà del secolo xx.
In ciascuno di questi casi,
l’egemonia arrivò dopo la
disfatta di un concorrente che
aspirava alla conquista
militare (gli Asburgo, la
Francia, la Germania).
Ciascuna egemonia fu
suggellata da una «guerra
mondiale», una lotta di
proporzioni enormi, basata su
scontri terrestri, fortemente
distruttiva, di una durata
intermittente di circa
trent’anni, che coinvolse le
maggiori potenze militari del
tempo. Esse furono
rispettivamente la guerra dei
trent’anni (1618-48) le guerre
napoleoniche (1792-1815), e i
conflitti del secolo xx
sviluppatisi tra il 1914 e il
1945 che si potrebbero
propriamente concepire come
una sola, lunga «guerra
mondiale». Si deve notare
che, in ciascun caso,
il vincitore era stato prima di
tutto una potenza
marittima, già prima della
«guerra mondiale», ma che
aveva trasformato se stesso in
una potenza terrestre proprio
per vincere questa guerra
contro un’altra potenza
terrestre storicamente forte,
che sembrava voler tentare di
trasformare l’economia-
mondo in un impero-mondo.
La base di quella vittoria,
però, non è stata militare.
La realtà principale era di
ordine economico: la capacità
degli accumulatori di capitale
situati nello stato in questione
di competere con successo
con tutti gli altri nel mercato
delle tre principali sfere
economiche - la produzione
agroindustriale, il commercio
e la finanza. Più esattamente,
per brevi periodi, gli
accumulatori di capitale nello
stato egemone furono capaci
di essere più efficienti dei
loro concorrenti situati in altri
stati forti, e di conquistare
così mercati anche entro le
aree «di casa» di questi altri
stati forti. Ciascuna di queste
egemonie fu breve. Ciascuna
è arrivata alla fine molto più
per ragioni economiche che
per ragioni politico-militari.
In ciascun caso, il triplice
vantaggio economico
temporaneo si è scontrato con
due duri scogli della realtà
capitalistica. Prima di tutto, i
fattori che
avevano contribuito a una
maggiore efficienza
economica potevano sempre
essere copiati da altri: non da
quelli che erano veramente
deboli, ma da coloro che
disponevano di una forza
intermedia; e i nuovi venuti,
in un determinato processo
economico, tendevano a
trarre vantaggio dal fatto
di non dovere ammortizzare
lo stock più vecchio. In
secondo luogo, il potere
egemonico aveva tutto
l’interesse di mantenere
ininterrotta l’attività
economica e tendeva perciò a
comprare la pace sociale con
un processo di redistribuzione
interna. Col passare del
tempo, ciò portava a
ridurre la competitività e per
conseguenza a far cessare
l’egemonia. Inoltre, la
conversione del potere
egemonico in un potere con
«responsabilità» militari
terrestri e marittime di gran
lunga maggiori comportava
per lo stato egemone
un carico economico sempre
più pesante, dissolvendo così
il basso livello di spesa statale
per armamenti che era
stato caratteristico della fase
precedente la «guerra
mondiale».
Perciò, l’equilibrio' delle
forze - che si imponeva tanto
agli stati deboli che a quelli
forti - non era un
epifenomeno politico che
potesse essere facilmente
accantonato. Esso era
radicato nel modo stesso con
cui il capitale veniva
accumulato nel capitalismo
storico. D’altro canto,
l’equilibrio delle forze non
era soltanto un rapporto tra
macchine statali, perché gli
attori interni ad ogni singolo
stato agivano regolarmente al
di là delle proprie frontiere,
direttamente o tramite
alleanze con altri attori interni
di qualche altro luogo. Perciò,
nel valutare la politica di uno
stato dato, la distinzione
interno/esterno era del tutto
formale, e non ci è di grande
aiuto per cercare di capire
come le lotte politiche
effettivamente si
svilupparono.

5. La lotta tra le classi


e le sue svolte.

Ma in effetti, chi ha
combattuto contro chi? Non è
una domanda così ovvia
come si potrebbe pensare, se
si tiene conto delle pressioni
contraddittorie interne al
capitalismo storico. La lotta
più elementare e in certa
misura più ovvia è stata
quella che ha opposto i
piccoli gruppi che
traevano grandi vantaggi dal
sistema e il complesso delle
sue vittime. Questa lotta si è
sviluppata con molti nomi e
sotto molte forme. Tutte le
volte che sono state tracciate
in modo molto chiaro le linee
di demarcazione tra coloro
che erano gli accumulatori di
capitale e coloro che
costituivano la loro forza-
lavoro in un determinato
stato, abbiamo avuto la
tendenza a definire questa
lotta come una lotta tra
capitale e lavoro. Queste lotte
di classe hanno avuto luogo
in due sedi: nel campo
economico (tanto sul luogo
effettivo del lavoro, quanto
nel più largo e amorfo
«mercato»), e nel campo
politico. È chiaro che nel
campo economico vi è
stato un immediato,
comprensibile conflitto
diretto di interessi. Quanto
maggiore era la
remunerazione della forza-
lavoro, tanto minore era il
surplus destinato a
costituire il «profitto». Certo,
questo conflitto è stato spesso
attutito da considerazioni di
più lungo periodo e di più
larga scala. Sia il singolo
accumulatore di capitale che
la sua forza-lavoro avevano
interessi comuni contro altri
loro simili situati in qualche
altro punto del sistema. E una
maggiore remunerazione
della forza-lavoro poteva in
certe circostanze ritornare
agli accumulatori di capitale
sotto la forma di profitto
differito, tramite l’accresciuto
potere d’acquisto
complessivo nell’ambito
dell’economia-mondo. Ma
nessuna di queste
considerazioni poteva mai
eliminare il fatto che
la divisione di un dato surplus
fosse a somma zero, e che
quindi la tensione sarebbe
stata per forza continua. Essa
ha trovato perciò una costante
manifestazione nella
competizione per il potere
politico entro i vari stati.
Tuttavia, dal momento
che, come sappiamo, il
processo di accumulazione di
capitale ha portato a una
concentrazione geografica in
certe zone, e dal momento
che lo scambio ineguale alla
base di ciò è stato reso
possibile dall’esistenza di un
sistema interstatale
contenente una gerarchia di
stati, e dal momento che le
macchine statali hanno
qualche potere relativo di
alterare il funzionamento del
sistema, allora la lotta tra
accumulatori mondiali di
capitale e forza-lavoro
mondiale ha trovato una
espressione importante anche
negli sforzi di vari gruppi per
arrivare al potere dentro gli
stati in questione (in quelli
più deboli), per poter poi
utilizzare il potere statale
contro gli accumulatori di
capitale situati negli stati più
forti. Dove ciò è successo,
abbiamo in genere parlato di
lotte antimperialiste
(nel linguaggio del secolo
xx). Senza dubbio, anche qui,
la questione era spesso
offuscata dal fatto che le linee
interne a ciascuno dei due
stati coinvolti non
coincidevano perfettamente
con le spinte di base della
lotta di classe nell’economia-
mondo nel suo complesso.
Certi accumulatori di capitale
negli stati più deboli e certi
segmenti di forza-lavoro in
quelli più forti trovavano un
vantaggio di breve periodo
nel definire gli esiti politici in
termini puramente nazionali
piuttosto che in termini di
classe-nazione. Ma le grandi
spinte alla mobilitazione di
movimenti «antimperialisti»
non sarebbero state possibili,
e per conseguenza non
sarebbe stato realizzato alcun
obiettivo, per quanto limitato,
se non ci fosse stato un
contenuto di classe della lotta,
e se esso non fosse stato
adoperato,
almeno implicitamente, come
tema ideologico.
Abbiamo anche osservato
che il processo di formazione
dei gruppi etnici è stato
interamente legato a quello di
formazione della forza-lavoro
negli stati in questione, e ha
fatto da dura regola per
l’assegnazione di un posto
nella dislocazione delle
posizioni all’interno delle
strutture economiche. Perciò,
ovunque ciò sia avvenuto in
modo più violento o ovunque
le circostanze abbiano
determinato più acute
pressioni di breve periodo in
direzione della
sopravvivenza, la lotta tra gli
accumulatori di capitale e i
settori
maggiormente oppressi della
forza-lavoro ha teso a
prendere la forma di conflitti
linguistici, razziali e culturali,
dal momento che simili
connotati avevano un'alta
correlazione con
l'appartenenza di classe. Dove
e quando tutto questo è
avvenuto abbiamo in genere
parlato di conflitti etnici o di
nazionalità. Ma, proprio come
nel caso delle lotte
antimperialistiche, anche se
sul breve periodo simili
formazioni mescolavano
alcuni segmenti di più larghi
raggruppamenti di classe,
queste lotte raramente
avrebbero potuto essere
vittoriose se non fossero state
capaci di mobilitare i
sentimenti che emergevano
dalla sottostante lotta di
classe per l' appropriazione
del surplus prodotto
all'interno del
sistema capitalistico.
Tuttavia, se facciamo
attenzione solo alla lotta di
classe, che è stata certamente
fondamentale, finiremo col
perdere di vista un'altra lotta
politica che ha assorbito
almeno altrettanto tempo ed
energie nel capitalismo
storico. Il sistema
capitalistico è stato infatti un
sistema che ha contrapposto
gli uni agli altri tutti gli
accumulatori di capitale. Dal
momento che il modo per
perseguire la
continua accumulazione di
capitale era quello di
realizzare i
profitti provenienti
dall'attività economica contro
gli sforzi antagonistici che
altri operavano per realizzare
gli stessi profitti, nessun
singolo imprenditore avrebbe
mai potuto essere più che un
alleato volubile di qualunque
altro imprenditore, pena
l’eliminazione di entrambi
dalla scena della concorrenza.

6. Le lotte tra
capitalisti.

Imprenditore contro
imprenditore, settore
economico contro settore
economico, gli imprenditori
di uno stato contro quelli di
un altro, quelli di un gruppo
etnico contro quelli di un
altro; la lotta è stata continua
per definizione. E questa lotta
continua ha preso
costantemente una forma
politica, esattamente a causa
del ruolo centrale degli stati
nell'accumulazione di
capitale, che abbiamo prima
descritto. Talvolta queste
lotte interne agli stati sono
state solo lotte relative al
personale delle macchine
statali e alle politiche statali
di breve periodo. Talvolta,
invece, le lotte si sono
sviluppate attorno a più larghi
obiettivi «costituzionali», per
determinare le regole con cui
condurre le lotte di breve
periodo e quindi la
probabilità che fosse l’una o
l’altra fazione a prevalere.
Tutte le volte che tali lotte
sono state di natura
«costituzionale», esse hanno
comportato una più vasta
mobilitazione ideologica. In
questi casi abbiamo sentito
parlare di «rivoluzioni» e di
«grandi riforme», e le parti
soccombenti hanno spesso
fornito etichette obbrobriose
(ma analiticamente
improprie) . Nella misura in
cui le lotte politiche, diciamo
così, per la «democrazia» o
per la «libertà» contro il
«feudalesimo» o la
«tradizione» non sono state
lotte di classi lavoratrici
contro il capitalismo, esse
sono state essenzialmente
lotte tra accumulatori di
capitale per l’accumulazione
di capitale. Lotte del genere
non sono state il trionfo di
una borghesia «progressiva»
contro strati reazionari, ma
lotte infra-borghesi.
Naturalmente, l’uso di
parole d’ordine ideologiche
«universalizzanti» a favore
del progresso è stato
utilizzato politicamente. È
stato un modo di associare la
mobilitazione della lotta di
classe a uno degli
schieramenti della lotta
fra accumulatori di capitale.
Ma questo vantaggio
ideologico è stato spesso
come un’arma a doppio
taglio, che ha scatenato le
passioni e ha indebolito i
controlli repressivi nella lotta
di classe. È stato questo,
ovviamente, uno dei problemi
costanti degli accumulatori di
capitale nel capitalismo
storico. Essi sono stati
costretti dal
funzionamento stesso del
sistema ad agire in solidarietà
di classe tra loro contro gli
sforzi della forza-lavoro per
perseguire i suoi interessi
antagonistici; ma
contemporaneamente a
combattersi senza sosta gli
uni contro gli altri, sia sul
terreno economico che su
quello politico. È esattamente
ciò che chiamiamo una
contraddizione interna al
sistema.
Molti osservatori, avendo
notato il fatto che vi sono
lotte diverse dalla lotta di
classe che assorbono gran
parte dell’energia politica
erogata, hanno tratto da
questa osservazione la
conclusione che l’analisi di
classe non fosse
così necessariamente
rilevante al fine di una
comprensione della lotta
politica. È una conclusione
curiosa. Sembrerebbe
più sensato concludere che
queste lotte politiche a base
non classista, lotte cioè fra
accumulatori per ottenere
vantaggi politici, siano state
la dimostrazione di una grave
debolezza politica strutturale
mostrata da questi
accumulatori in quanto
classe, nel procedere delle
loro lotte di classe su
scala mondiale.
Queste lotte politiche si
possono definire lotte per dar
forma alle strutture
istituzionali dell'economia-
mondo capitalistica, così da
costruire il tipo di mercato
mondiale il cui
funzionamento avrebbe
favorito in misura più o
meno forte, certi particolari
attori economici. Il
«mercato» capitalistico non è
mai stato un dato, e tanto
meno una costante. E stata
una creazione regolarmente
reinventata e riaggiustata.
In ogni singolo momento,
il «mercato» è stato costituito
da una serie di regole o di
divieti risultanti dalla
complessa interrelazione di
quattro grandi settori
istituzionali: i vari stati, legati
in un sistema interstatale; le
varie «nazioni», sia quelle
pienamente riconosciute, sia
quelle in lotta per simile
generale riconoscimento (ivi
comprese quelle subnazioni
che sono i «gruppi etnici»),
connesse agli stati da rapporti
non facili e incerti; le classi,
caratterizzate da un profilo
professionale in evoluzione e
da oscillanti gradi
di consapevolezza; e infine le
unità di messa in comune
dei redditi, raccolte in
aggregati domestici composti
di molte persone occupate in
varie forme di lavoro o in
grado di procurarsi reddito da
fonti molteplici, e in rapporti
non facili con le classi.
Non c'è stato nessun
punto di riferimento fisso in
questa costellazione di forze
istituzionali. Non vi è stata
alcuna entità «primordiale»
che tendesse a prevalere
contro le forze istituzionali
sostenute dagli accumulatori
di capitale, in associazione o
in conflitto con la lotta della
forza-lavoro per contrastare l'
appropriazione del prodotto
economico. I confini di
ciascuna variante di una
forma istituzionale, i «diritti»
che essa era, legalmente o di
fatto, in grado di rivendicare,
cambiavano da zona a zona
nell’e-conomia-mondo e
secondo un andamento
insieme ciclico e secolare.
Se un osservatore attento
vuole riuscire a dipanare
questo groviglio istituzionale,
per prendere la strada giusta
egli deve tenere ben presente
che nel capitalismo storico gli
accumulatori non avevano
oggetto che si collocasse più
in alto deE?ulteriore
accumulazione, e che le
forze-lavoro non potevano
avere per conseguenza
oggetto che si collocasse
più in alto della propria
sopravvivenza e della
riduzione del peso da
sopportare. Quando si sia
tenuto presente questo
fatto, si sarà in grado di
riempire di senso, in misura
notevole, la storia politica del
mondo moderno.

7. I movimenti
antisistemici.
In particolare, si potranno
cominciare ad apprezzare
nella loro complessità le
posizioni circonlocutorie e
spesso paradossali, o
contraddittorie, dei
movimenti antisistemici
che sono emersi dal
capitalismo storico.
Cominciamo dal problema
più elementare. Il capitalismo
storico ha operato all’interno
di un’economia-mondo, ma
non all’interno di uno stato-
mondo. Tutto al contrario.
Come abbiamo visto,
le pressioni strutturali hanno
giocato contro ogni
costruzionedi uno stato-
mondo. All’interno di questo
sistema, abbiamo posto in
evidenza il ruolo cruciale dei
vari stati -allo stesso tempo
delle strutture politiche dotate
di maggiore potere, come di
quelle a potere più limitato.
Perciò ristrutturare gli stati in
questione ha rappresentato
per le forze-lavoro la via più
promettente per migliorare la
propria posizione, ma insieme
e allo stesso tempo una via
di valore limitato.
Dobbiamo cominciare col
precisare che cosa può voler
dire l’espressione
«movimento antisistemico».
La parola movimento implica
una qualche fiducia collettiva
in un obiettivo che non sia
solo di natura passeggera. Di
fatto, naturalmente, proteste
in qualche modo spontanee, o
sommosse di lavoratori, sono
accadute in tutti i sistemi
storici conosciuti. Esse sono
servite da valvole di sicurezza
nei confronti della collera
repressa; o talvolta, più
verosimilmente, da
meccanismi che hanno posto
un minimo di limiti
ai processi di sfruttamento.
Ma, in generale, la ribellione
come tecnica ha funzionato
solo ai margini dell’autorità
centrale, e in particolare
allorché le burocrazie centrali
erano in fase di
disgregazione.
La struttura del
capitalismo storico ha però
modificato alcuni di questi
dati. Il fatto che gli stati
fossero situati in un sistema
interstatale ha significato che
le ripercussioni delle
ribellioni o delle sommosse
fossero avvertite, spesso assai
rapidamente, oltre i confini
della specifica giurisdizione
politica in cui si verificavano.
Le cosiddette «forze esterne»
avevano perciò forti motivi
per venire in aiuto delle
macchine statali assaltate. Ciò
ha reso le ribellioni
più difficili. D’altro canto,
l’influenza degli accumulatori
di capitale, e quindi delle
macchine statali, nella vita
quotidiana dei lavoratori è
stata di gran lunga più
pesante nel capitalismo
storico che nei precedenti
sistemi storici. L’incessante
accumulazione di capitale ha
portato a continue pressioni
per ristrutturare
l’organizzazione (e la
dislocazione) del lavoro, per
accrescere la quota di lavoro
assoluto, e per determinare la
ricostruzione psico-sociale
della forza-lavoro. In questo
senso, per la maggior parte
delle forze-lavoro mondiali,
la disgregazione, il
disorientamento, e lo
sfruttamento sono stati via via
maggiori. Allo stesso tempo,
la disgregazione sociale
métteva in crisi i modi
rappacificanti della
socializzazione.
Complessivamente, perciò, le
motivazioni a sostegno della
ribellione divenivano più
forti, nonostante il fatto che le
possibilità di successo fossero
forse oggettivamente più
basse.
Fu questa straordinaria
tensione a portare alla grande
innovazione nella tecnica
della ribellione che si
sviluppò nel capitalismo
storico. È solo nel secolo xix
che cominciamo ad assistere
alla creazione di strutture
persistenti e burocratizzate,
nelle due grandi varianti
storiche dei movimenti
antisistemici: i movimenti
operai-socialisti, e i
movimenti nazionalisti.
Entrambi i tipi di movimenti
parlavano un linguaggio
universale - essenzialmente
quello della Rivoluzione
francese: libertà, eguaglianza
e fraternità. Entrambi i
movimenti si vestivano
dell’ideologia
dell’Illuminismo -
l’inevitabilità del progresso,
intendendo con ciò
l’emancipazione umana
giustificata dagli intrinseci
diritti dell’uomo. Entrambi si
rivolgevano al futuro contro il
passato, al nuovo contro il
vecchio. Anche quando
veniva invocata una
tradizione, essa veniva
invocata come base di una
rinascita.
Ciascun tipo di
movimento aveva, è vero, un
nucleo differente, e di
conseguenza un differente
luogo d’origine. I movimenti
operai-socialisti ponevano al
centro della loro attenzione i
conflitti tra i lavoratori
salariati urbani, privi di terra
(i proletari) e i proprietari
delle strutture economiche in
cui essi lavoravano (la
borghesia). Questi movimenti
insistevano sul fatto che la
distribuzione della
ricompensa del lavoro era
fondamentalmente diseguale,
oppressiva e ingiusta. Era
naturale che tali movimenti
emergessero dapprima in
quelle parti dell’economia-
mondo che avevano
una forza-lavoro industriale
consistente - in particolare,
nell’Europa occidentale. I
movimenti nazionalisti
ponevano invece al centro
dell’attenzione i conflitti tra i
numerosi «popoli oppressi»
(definiti a partire da
caratteristiche linguistiche e/o
religiose) e specifici «popoli»
dominanti entro una certa
giurisdizione politica: i primi
erano dotati di diritti politici,
opportunità economiche e
forme legittime di espressione
culturale di gran lunga minori
dei secondi. Questi
movimenti insistevano sul
fatto che la distribuzione dei
«diritti» fosse
fondamentalmente diseguale,
oppressiva e ingiusta. Era
naturale che questi movimenti
emergessero in primo luogo
in quelle zone semiperiferiche
dell'economia-mondo, come
l’Impero austro-ungarico, in
cui la distribuzione diseguale
dei gruppi etnico-nazionali
nella gerarchia della
dislocazione della forza-
lavoro era del tutto evidente.
In generale, fino a una
fase molto recente, questi due
tipi di movimenti si sono
considerati assai diversi,
talvolta finanche tra loro
antagonisti. Le alleanze tra di
essi erano concepite come
tattiche e temporanee;
tuttavia, fin dall’inizio, è
impressionante il grado con
cui entrambi i tipi
di movimenti hanno
condiviso certe somiglianze
strutturali. In primo luogo,
dopo una considerevole
discussione, sia i movimenti
operai-socialisti che quelli
nazionalisti hanno preso la
decisione fondamentale di
strutturarsi in forme
organizzate, e la decisione
concomitante che il loro
obiettivo politico piu
importante fosse la conquista
del potere statale (anche
quando, come nel caso di
certi movimenti nazionalisti,
ciò comportava la creazione
di nuovi confini statali). In
secondo luogo, la decisione
circa la strategia -
la conquista del potere statale
- richiedeva che questi
movimenti mobilitassero
forze popolari sulla base di
una ideologia antisistemica,
cioè a dire rivoluzionaria.
Erano contro il sistema
esistente, e il sistema
esistente era in effetti il
capitalismo storico, che era
costruito sulle diseguaglianze
basilari, tra capitale e lavoro e
tra centro e periferia, che quei
movimenti cercavano di
superare e sconfiggere.
Naturalmente, in un
sistema ineguale, vi sono
sempre due vie attraverso le
quali un gruppo situato in
basso può cercare di uscire
dalla sua condizione. Esso
può cercare di ristrutturare il
sistema, così che tutti abbiano
eguali condizioni; o può,
semplicemente, cercare di
spostarsi in una condizione
piu alta all’interno della
distribuzione ineguale. Come
sappiamo, i movimenti
antisistemici, a prescindere
dal fatto di avere posto al
centro della propria
attenzione obiettivi egualitari,
hanno sempre avuto al loro
interno elementi il cui
obiettivo, all’inizio o alla
fine, è stato solo quello di
possedere una «mobilità
verso l’alto» all’interno della
gerarchia esistente. I
movimenti stessi sono sempre
stati consapevoli di ciò. Essi
hanno tuttavia teso a
impostare questo problema in
termini di motivazioni
individuali: la purezza di
cuore contrapposta ai traditori
della causa. Ma quando,
analizzando le cose, i
«traditori della causa»
appaiono onnipresenti in ogni
momento particolare dei
movimenti in questione, così
come essi si sono
storicamente sviluppati, allora
si è portati a cercare una
spiegazione in termini di
strutture piuttosto che di
motivazioni. La chiave del
problema può essere in effetti
nella decisione strategica
fondamentale di fare della
conquista del potere statale il
fulcro delle attività del
movimento. Questa strategia
ha avuto due conseguenze
essenziali. Nella fase di
mobilitazione, ha spinto
ciascun movimento ad
addentrarsi in una serie di
alleanze tattiche con gruppi
che non erano in alcun modo
«antisistemici», al fine di
rafforzare il proprio obiettivo
strategico. Queste alleanze
hanno modificato la struttura
dei movimenti antisistemici
stessi, anche allo stadio della
mobilitazione. Cosa ancor più
importante, la strategia ha alla
fine avuto successo, in molti
casi.
Molti di questi movimenti
hanno conquistato in parte, o
anche completamente, il
potere statale. Questi
movimentivittoriosi si sono
allora confrontati con la realtà
delle limitazioni del potere di
tutti gli stati interni
all’economia-mondo
capitalistica. E hanno
scoperto che erano
costretti dal funzionamento
del sistema interstatale a
esercitare il loro potere in
forme che modificavano gli
obiettivi « antisistemici» che
erano stati la loro ragion
d’essere.
Tutto ciò sembra così
ovvio che c’è da chiedersi
con stupore perché i
movimenti abbiano basato la
loro strategia su un obiettivo
così evidentemente
autodistruttivo. La risposta è
semplicissima. Data la
struttura politica del
capitalismo storico, essi
avevano poco da scegliere.
Non sembrava vi fosse alcuna
strategia alternativa più
promettente. La conquista del
potere statale prometteva
almeno di cambiare in
qualche modo i rapporti di
forza tra i gruppi contendenti.
Come a dire che la conquista
del potere rappresentava una
riforma del sistema. Le
riforme in
effetti miglioravano la
situazione, ma al prezzo di
rafforzare il sistema in quanto
tale.
Possiamo perciò
riassumere il lavoro svolto
dai movimenti antisistemici
nel mondo lungo l’arco di
centocinquant’anni come un
puro e semplice
rafforzamento del capitalismo
storico tramite il riformismo?
No, perché la politica del
capitalismo storico è stata
qualcosa di più della politica
dei vari stati. È stata
soprattutto la politica del
sistema interstatale. I
movimenti antisistemici sono
esistiti fin dall’inizio non solo
come entità individuali, ma
come un insieme collettivo,
anche se mai organizzato
burocraticamente (le varie
internazionali non hanno mai
incluso la totalità di questi
movimenti). Un fattore
chiave nel determinare
la forza di un qualunque
movimento è stato sempre
costituito dall’esistenza di
altri movimenti.
Gli altri movimenti hanno
fornito al movimento in
questione tre tipi di supporti.
Il più ovvio è stato il supporto
materiale, forma d’aiuto utile
ma forse tra le meno
significative. Una seconda
forma è stata quella di un
supporto diversivo. La
possibilità da parte di uno
stato forte di intervenire
contro un movimento
antisistemico situato in uno
stato più debole, per esempio,
è stata sempre subordinata al
numero di altre cose da fare
tra le sue immediate scadenze
politiche. Nella misura in cui
uno stato era assillato da un
movimento antisistemico
locale, esso era meno
in grado di preoccuparsi di un
movimento antisistemico
lontano. Il terzo e più
importante supporto si è
verificato a livello di
mentalità collettive. I
movimenti imparavano
ciascuno dagli errori degli
altri, erano incoraggiati
ciascuno dai successi tattici
degli altri. E gli sforzi dei
movimenti su scala mondiale
riguardavano l’ambiente
politico mondiale in generale
- le aspettative, le analisi delle
possibilità.
Nella misura in cui i
movimenti aumentavano di
numero e accrescevano i
propri successi tattici, essi
sembravano più forti, come
fenomeno collettivo; e
siccome sembravano più
forti, lo erano davvero.
L’accresciuta forza
collettiva su scala mondiale
serviva a condizionare le
tendenze «revisionistiche»
dei movimenti che avevano
conquistato il potere statale -
non più di questo, ma non
meno di questo - e questa
forza collettiva è stata più
gravida di conseguenze
nell’indebolire la stabilità
politica del capitalismo
storico, di quanto non lo
sia stata la somma degli
effetti di rafforzamento del
sistema causati dalla
conquista del potere statale
via via realizzata da parte dei
singoli movimenti.
Infine, un altro fattore è
entrato in gioco. Allorché le
due varietà di movimenti
antisistemici si sono estese (i
movimenti operai-socialisti
da pochi stati forti a tutti gli
altri, e i movimenti
nazionalisti da poche zone
periferiche a tutto il resto) la
distinzione tra i due tipi di
movimenti è diventata sempre
più labile. I movimenti
operai-socialisti hanno
scoperto che le tematiche
nazionalistiche erano
essenziali per i propri sforzi
di mobilitazione e per
l’esercizio del potere statale.
Ma i movimenti nazionalisti
hanno scoperto il contrario:
che al fine di mobilitare e di
governare con successo, essi
dovevano canalizzare le
aspirazioni della forza-lavoro
verso una ristrutturazione
egualitaria. Quando queste
tematiche hanno cominciato a
sovrapporsi fortemente, e le
forme organizzative
differenziate hanno
cominciato a scomparire e a
coalizzarsi in una struttura
sola, la forza dei movimenti
antisistemici, specie come
un’unica entità mondiale
collettiva, è cresciuta
straordinariamente.
Uno dei punti di forza dei
movimenti antisistemici è
consistito nel fatto che essi
fossero arrivati al potere in un
gran numero di stati. Ciò ha
cambiato gli sviluppi della
politica del sistema-mondo.
Ma questa forza è stata anche
una debolezza, dal momento
che i cosiddetti regimi post-
rivoluzionari hanno
continuato a funzionare come
parti della divisione sociale
del lavoro del capitalismo
storico. Essi hanno perciò
funzionato, volenti o nolenti,
sotto le incessanti pressioni
derivate dal fatto di doversi
muovere verso una continua
accumulazione di capitale. Le
conseguenze politiche sul
piano interno sono state la
prosecuzione
dello sfruttamento della
forza-lavoro, anche se in
molti casi in una forma
ridotta e addolcita. Ciò ha
portato a tensioni interne di
una varietà analoga a quella
riscontrata in altri stati che
non erano «post-
rivoluzionari», e ha prodotto
a sua volta la formazione di
nuovi movimenti
antisistemici all’interno di
questi stati. La lotta per i
benefici ha proceduto dentro
questi stati post-rivoluzionari
allo stesso modo che altrove,
perché entro la cornice
dell’economia-
mondo capitalistica, gli
imperativi
dell’accumulazione hanno
operato attraverso tutto il
sistema. I cambiamenti
intervenuti nelle strutture
sociali hanno alterato la
politica dell’accumulazione,
ma non sono stati in grado di
por fine ad essa.
All’inizio abbiamo
rinviato la risposta alle
domande: quali sono stati i
benefici reali del capitalismo
storico? Quanto è cambiata la
qualità della vita? Dovrebbe
essere chiaro, adesso, che non
vi è una risposta univoca.
Dobbiamo chiederci «per
chi?». Il capitalismo storico
ha comportato una gigantesca
costituzione di beni materiali,
ma anche una gigantesca
polarizzazione delle
ricompense. Molti ne hanno
beneficiato enormemente, ma
molti di più hanno conosciuto
una sostanziale riduzione del
reddito reale complessivo e
della qualità della vita. La
polarizzazione ha
avuto anche, naturalmente,
una dimensione spaziale, e
così in certe aree è potuto
sembrare che essa non
esistesse. Anche questa è
stata una conseguenza della
lotta per i benefici.
La geografia del beneficio
è cambiata spesso, e ciò ha
mascherato la realtà della
polarizzazione. Ma nell'intera
realtà del tempo-spazio
attraversato dal capitalismo
storico, l’incessante
accumulazione di capitale ha
voluto significare l’incessante
crescita del divario reale.
III.

La verità come oppio:


razionalità e
razionalizzazione






Il capitalismo storico è
stato, lo sappiamo,
prometeico nelle sue
aspirazioni. Per quanto il
cambiamento scientifico e
tecnologico sia stato una
costante storica
dell’attività umana, è solo con
il capitalismo storico che
Prometeo, che c’è sempre
stato, è stato «liberato dalle
sue catene», secondo la
definizione di David Landes.
L’immagine collettiva di
fondo che abbiamo
cominciato ad avere di
questa cultura scientifica del
capitalismo storico è stata che
essa fosse propugnata da
nobili cavalieri, costretti a
combattere contro la tenace
resistenza delle forze della
cultura «tradizionale», non
scientifica. Nel secolo xvii
c’era Galileo contro la
Chiesa. Nel secolo xx, c’era il
«modernizzatore» contro il
mullah. In ogni punto, si è
detto che c’era sempre la
«razionalità» contrapposta
alla «superstizione», e
la «libertà» contrapposta alla
«oppressione intellettuale».
E tutto ciò è stato considerato
come un processo
parallelo (persino identico)
alla rivolta intrapresa nel
campo dell’economia politica
da parte dell’imprenditore
borghese contro il
proprietario terriero
aristocratico.
L’immagine di fondo di
una lotta culturale su scala
mondiale si è basata su una
premessa implicita. Si è
trattato di una premessa
relativa al tempo: la
«modernità » era considerata
temporalmente nuova, mentre
la «tradizione»
era temporalmente vecchia e
antecedente rispetto alla
modernità; in verità, nelle
versioni forti di questa
concezione, la tradizione era
astorica e perciò praticamente
eterna. Questa premessa era
storicamente falsa e perciò
fondamentalmente erronea.
Le varie culture, le varie
«tradizioni» che sono fiorite
all’interno dei confini spazio-
temporali del capitalismo
storico, non sono state più
primordiali di quanto lo
fossero le varie cornici
istituzionali. Sono state a
pieno titolo una creazione del
mondo moderno, una parte
della sua impalcatura
ideologica. Legami tra le
varie «tradizioni» e i gruppi o
le ideologie che avevano
preceduto il capitalismo
storico, certo, ve ne sono
stati, nel senso che queste
«tradizioni» sono state spesso
costruite usando alcuni
materiali storici e intellettuali
già esistenti. Di più, l'
affermazione di simili legami
trans-storici ha svolto una
funzione importante per l'
aggregazione di gruppi nelle
lotte politiche e economiche
interne al capitalismo storico.
Ma se vogliamo capire le
forme culturali che queste
lotte hanno assunto,
non possiamo permetterci di
prendere le «tradizioni» per il
loro valore apparente, e in
particolare non possiamo
permetterci di pensare che le
tradizioni siano davvero
«tradizionali».

1. La differenziazione
etnica della forza-
lavoro.

Dal punto di vista di


coloro che volevano facilitare
l' accumulazione di capitale,
uno degli obiettivi chiave era
la creazione di forza-lavoro ai
posti giusti e ai livelli di
remunerazione più bassi
possibili. Abbiamo già
osservato come i tassi di
paga più bassi per le attività
economiche periferiche dell'
economia-mondo erano resi
possibili dalla creazione di
aggregati domestici in cui il
lavoro salariato svolgeva
una funzione minore come
fonte di reddito. Uno dei
modi in cui simili aggregati
domestici venivano «creati»,
cioè, costretti a strutturare se
stessi in queste maniere
particolari, era la
«etnicizzazione» della vita
comunitaria nel capitalismo
storico. Quelli che definiamo
«gruppi etnici» sono gruppi
di persone di dimensioni
piuttosto grandi a cui
sono state riservate certe
funzioni
lavorative/economiche,
rispetto ad altri gruppi
analoghi che vivevano nella
stessa area geografica. La
simbolizzazione esterna di
tale distribuzione della forza-
lavoro era costituita dalla
specifica «cultura» del
gruppo etnico - la sua
religione, la sua lingua, i suoi
«valori», il suo particolare
insieme di modi quotidiani di
comportamento.
Naturalmente, non sto
sostenendo che vi sia stato nel
capitalismo storico qualcosa
di simile a un perfetto sistema
di caste. Ma, stabilito che
adoperiamo le nostre
catalogazioni professionali in
modo sufficientemente largo,
sto sostenendo che vi è, e vi è
sempre stata, una
correlazione piuttosto alta tra
etnia e ruolo economico-
professionale, e che tale
correlazione ha attraversato
tutte le varie aree spazio-
temporali del capitalismo
storico. Sostengo inoltre che
questa distribuzione della
forza-lavoro è cambiata
nel tempo, e che quando si è
modificata, è mutata anche
l’etnia - nel senso dei confini
e dei caratteri culturali
del gruppo. Sostengo ancora
che non vi è quasi nessuna
correlazione tra l’attuale
distribuzione etnica della
forza-lavoro e i modelli dei
presunti antenati degli attuali
gruppi etnici, relativi a
periodi precedenti il
capitalismo storico.
L’etnicizzazione della
forza-lavoro mondiale ha
prodotto tre effetti principali,
che si sono rivelati di grande
importanza per il
funzionamento
dell’economia-mondo. Prima
di tutto, ha reso possibile la
riproduzione della forza-
lavoro, non nel senso di
fornire redditi sufficienti per
la sopravvivenza dei gruppi,
ma nel senso di fornire un
numero sufficiente di
lavoratori per ciascuna
categoria a livelli appropriati
di aspettative di reddito, sia in
termini di guadagni totali, sia
in termini di forme che il
reddito dell’aggregato
domestico avrebbe assunto.
Inoltre, proprio perché la
forza-lavoro era divisa in
etnie, la sua distribuzione era
più flessibile. La mobilità
geografica e professionale
su larga scala è stata resa più
facile e non più difficile
dalla partizione etnica.
Per cambiare la
distribuzione della forza-
lavoro, sotto la spinta delle
mutate condizioni
economiche, era sufficiente
che qualche individuo
intraprendente assumesse la
guida della riorganizzazione
geografica e professionale, e
fosse ricompensato per
questo: immediatamente si
verificava una «tendenza»
naturale perché gli altri
membri del gruppo etnico
spostassero la loro
collocazione nell’economia-
mondo.
In secondo luogo, la
divisione etnica ha posto in
essere un continuo
meccanismo di
addestramento della forza-
lavoro, garantendo che una
larga parte della
socializzazione delle
mansioni professionali
avvenisse entro la cornice di
aggregati domestici
etnicamente definiti e non a
spese dei datori di lavoro o
dello stato.
In terzo luogo, e forse
questo è l’aspetto più
importante, la divisione
etnica ha rafforzato la
classificazione dei ruoli
economico-professionali,
fornendo a ciascuno un facile
codice per la distribuzione
complessiva del reddito,
un codice rivestito della
legittimazione della
«tradizione».
È questa terza
conseguenza che è stata
elaborata in forma
dettagliatissima e che ha
costituito uno dei pilastri più
significativi del capitalismo
storico, il razzismo
istituzionale. Ciò che
intendiamo per razzismo ha
poco a che fare con la
xenofobia che esisteva in vari
sistemi storici precedenti. La
xenofobia era, letteralmente,
paura dello «straniero». Il
razzismo interno al
capitalismo storico non
ha niente a che fare con gli
«stranieri». Tutto al
contrario. Il razzismo è stato
il modo con cui vari segmenti
di forza-lavoro interni alla
stessa struttura economica
sono stati costretti a porsi in
relazione gli uni agli altri. Il
razzismo è stato la
giustificazione ideologica per
la gerarchizzazione della
forza-lavoro e per una
distribuzione fortemente
diseguale delle ricompense.
Ciò che intendiamo per
razzismo è quell’insieme di
affermazioni ideologiche,
combinato con quell’insieme
di pratiche continuative, che
ha avuto la conseguenza di
mantenere una correlazione
forte e costante nel tempo tra
etnia e forza-lavoro.
Le affermazioni
ideologiche sono state la
forma assunta dalle accuse
secondo le quali i tratti
genetici e/o «culturali» di
lungo periodo dei vari gruppi
erano in realtà la
causa principale della
differente distribuzione delle
posizioni all’interno delle
strutture economiche.
Tuttavia, la convinzione che
certi gruppi fossero
«superiori» ad altri, in
certi connotati importanti al
fine di avere successo in
campo economico, si è
sempre concretizzata dopo
che questi gruppi avevano
assunto un posto all’interno
della forza-lavoro, e non
prima. Il razzismo è sempre
venuto post hoc. Quelli che
sono stati economicamente e
politicamente oppressi sono
stati dichiarati culturalmente
«inferiori». Se per qualche
ragione, la collocazione nella
gerarchia economica
cambiava, la collocazione
nella gerarchia sociale
tendeva a seguire questo
cambiamento (naturalmente
con qualche ritardo, perché ci
voleva sempre una
generazione o due per
ereditare gli effetti della
precedente socializzazione).
Il razzismo è servito da
ideologia generale a
giustificazione della
diseguaglianza. Ma è stato
molto di più. È servito a
socializzare i gruppi nel
proprio ruolo nell’economia.
Gli atteggiamenti inculcati (i
pregiudizi, il comportamento
esplicitamente
discriminatorio nella vita
quotidiana) sono serviti a
definire la cornice di un
comportamento appropriato e
legittimo, per sé e per gli
altri, sia all’interno
del proprio aggregato
domestico, sia all’interno del
proprio gruppo etnico. Il
razzismo, proprio come il
sessismo, ha funzionato come
una ideologia autorepressiva,
modellando le aspettative e
limitandole.
Naturalmente, il razzismo
non è stato solo
autorepressivo; è stato anche
oppressivo. Esso è servito a
tenere a bada gli strati bassi, e
a utilizzare gli strati medi
come milizie volontarie del
sistema mondiale di polizia.
In tal modo non solo si sono
ridotti in maniera
significativa i costi finanziari
delle strutture politiche, ma si
è resa piu difficile la capacità
da parte dei gruppi
antisistemici di
mobilitare ampi settori di
popolazione, dato che il
razzismo pone
strutturalmente le sue vittime
le une contro le altre.
Il razzismo non è stato un
fenomeno semplice. In un
certo senso vi è stata una
linea di demarcazione
fondamentale su scala
mondiale, che ha segnato lo
status relativo nel sistema-
mondo nel suo complesso. È
stata la linea di demarcazione
del «colore». Ciò che è stato
«bianco» o strato superiore,
lo è stato naturalmente in
senso sociale e
non fisiologico, come
dovrebbe risultare evidente
dalla posizione storicamente
mutevole, nelle linee di
demarcazione di colore, su
scala mondiale (e nazionale),
di certi gruppi, come i sud-
europei, gli arabi, i meticci
latino-americani, e gli
estasiatici.
Il colore (o la struttura
fisica) è stato un luogo
comune facile da utilizzare,
perché è intrinsecamente
difficile da nascondere, e
nella misura in cui è stato
storicamente conveniente,
dato che il capitalismo storico
ha avuto origine in Europa, è
stato utilizzato nella forma
della supremazia del
«bianco». Ma tutte le volte
che non era conveniente, è
stato messo da parte, o
modificato a favore di altre
ca-gior parte degli stati e per
la maggior parte degli usi
essi sono illegali.
La nostra educazione
collettiva ci ha insegnato che
la ricerca della verità è una
virtù disinteressata, mentre
invece essa è una forma
autointeressata di
razionalizzazione. La ricerca
della verità, proclamata come
pietra angolare del progresso,
e perciò del benessere, è stata
quanto meno consona al
mantenimento di una struttura
sociale gerarchica, diseguale,
sotto una serie di aspetti
particolari. I processi attivati
dall' espansione
dell’economia-mondo
capitalistica - la
periferizzazione delle
strutture economiche, la
creazione di strutture statali
deboli forzatamente inserite
in un sistema interstatale -
hanno comportato una
quantità di pressioni al livello
della cultura: l'
evangelizzazione cristiana,
l'imposizione delle lingue
europee, l’acquisizione di
particolari tecnologie e modi
di vita, il cambiamento nei
codici legislativi. Molti di
questi cambiamenti furono
realizzati manu militari. Altri
furono ottenuti tramite
l’opera di persuasione di
«educatori», la cui autorità
era sostenuta in ultima istanza
dalla forza militare. Si tratta
di quel complesso di processi
che talvolta definiamo
«occidentalizzazione», o in
modo perfino piu arrogante
«modernizzazione», e che
furono legittimati dal
desiderio di spartirsi la fede
nell’ideologia
dell’universalismo insieme
con i suoi frutti.
C’erano due principali
motivi dietro l’imposizione di
questi cambiamenti culturali.
Uno era l’efficienza
economica. Se si voleva che
certe persone si
comportassero in certi
modi negli ambiti economici,
era funzionale allo scopo
insegnare loro le norme
culturali richieste, e
contemporaneamente privarli
delle norme culturali
antagonistiche. Il
secondo motivo era la
sicurezza politica. Si credeva
che, una
volta «occidentalizzate» le
cosiddette élites delle aree
periferiche, esse si sarebbero
separate dalle loro «masse», e
sarebbero perciò state meno
disponibili a rivoltarsi, e
sicuramente meno capaci di
dare un seguito organizzato a
eventuali rivolte.
Quest’ultimo si è rivelato un
monumentale errore di
calcolo, ma è sembrato invece
un calcolo plausibile, e ha in
effetti funzionato per un certo
periodo. (Un terzo motivo è
stato costituito dalla hybris
rappresentata dai
conquistatori. Non è un
elemento che sottovaluto, ma
non è necessario invocarlo
per spiegare le pressioni
culturali, che sarebbero state
grandi allo stesso modo,
anche in sua assenza).
Mentre il razzismo è
servito come meccanismo di
controllo su scala mondiale
dei produttori diretti,
l’universalismo è servito a
dirigere le attività della
borghesia di altri stati, nonché
i vari strati intermedi su scala
mondiale, verso canali che
massimizzassero la stretta
integrazione dei processi
produttivi e il tranquillo
funzionamento del
sistema interstatale, così da
facilitare l’accumulazione di
capitale. Questo fatto esigeva
la creazione di una cornice
culturale borghese mondiale,
su cui potessero poi innestarsi
varianti «nazionali». Ciò è
stato particolarmente
importante nei campi della
scienza e della tecnologia, ma
è stato anche assai importante
nel settore delle idee politiche
e delle scienze sociali.
Il concetto di una cultura
neutra «universale», a cui i
quadri della divisione
mondiale del lavoro fossero
«assimilati» (la forma passiva
è importante, in questo caso)
ha cominciato perciò a
funzionare come uno dei
pilastri del sistema-mondo,
così come si è storicamente
sviluppato. L’esaltazione del
progresso, e più tardi della
«modernizzazione», ha
riassunto questo insieme di
idee, che non è servito tanto
come effettivo sistema di
norme per l’azione
sociale, quanto come status-
symbol di obbedienza e di
partecipazione tra gli strati
superiori a livello mondiale.
Il passaggio brusco dalle basi
religiose considerate
culturalmente anguste, alle
basi scientifiche, considerate
metaculturali,
della conoscenza, è servito da
autogiustificazione ad una
forma particolarmente
perniciosa di imperialismo
culturale, che ha dominato in
nome della liberazione
intellettuale, e si è imposta in
nome dello scetticismo.
Il processo di
razionalizzazione, essenziale
per il capitalismo, ha richiesto
la creazione di uno strato
intermedio di specialisti, di
amministratori, di tecnici, di
scienziati, di educatori. La
grande complessità non solo
della tecnologia ma del
sistema sociale ha reso
necessario che questo strato
fosse vasto, e che si
espandesse costantemente. I
fondi usati per sostenerlo
sono stati tratti dal surplus
globale ricavato dagli
imprenditori e dagli stati. In
questo senso, elementare ma
essenziale, questi quadri
hanno quindi fatto parte della
borghesia, e alla loro richiesta
di partecipare alla ripartizione
del surplus è stata data una
forma ideologica precisa nel
concetto di capitale umano,
elaborato nel xx secolo.
Poiché disponevano di un
capitale reale relativamente
piccolo da trasmettere in
eredità all' aggregato
domestico, questi quadri
hanno cercato di garantirsi la
successione assicurando ai
loro figli un accesso
preferenziale ai canali che
assicuravano una posizione.
Questo accesso preferenziale
è stato debitamente presentato
come una conquista, la cui
presunta legittimità era
garantita da una «eguaglianza
di opportunità» strettamente
definita.
La cultura scientifica è
divenuta così il codice di
riconoscimento su scala
mondiale degli accumulatori
di capitale. Essa è servita
innanzitutto a giustificare le
loro attività, ma anche a
giustificare le diverse
ricompense di cui godevano.
Ha promosso l'innovazione
tecnologica. Ha legittimato
l’impietosa eliminazione di
ogni barriera all’espansione
delle efficienze produttive.
Ha dato vita a una forma di
progresso, che sarebbe di
beneficio, si vorrebbe
far credere, per tutti - se non
nell’immediato, sul lungo
periodo.
Tuttavia la cultura
scientifica è stata qualcosa di
piu che una mera
razionalizzazione. È stata una
forma di socializzazione dei
diversi elementi che
costituivano i quadri delle
strutture istituzionali di cui
c’era bisogno. Come
linguaggio comune ai quadri,
ma non direttamente
accessibile da parte della
forza-lavoro, ha assunto
anche un significato di
coesione di classe per lo
strato superiore, e ha
costituito così un limite posto
ai progetti o alle pratiche di
ribellione da parte dei quadri
che potevano avere simili
tentazioni.
Inoltre è stato un
meccanismo flessibile per la
riproduzione di questi quadri.
Ha favorito il sorgere del
concetto che oggi chiamiamo
«meritocrazia», e che prima si
definiva «la carrière ouverte
aux talents». La cultura
scientifica ha creato una
cornice in cui la mobilità
individuale era possibile
senza minacce per la
disposizione gerarchica
della forza-lavoro. Al
contrario, la meritocrazia ha
rafforzato la gerarchia. Per
coronare il tutto, la
meritocrazia come
funzionamento operativo e la
cultura scientifica come
ideologia hanno creato veli
che hanno impedito la
percezione del funzionamento
sottostante del capitalismo
storico. La grande enfasi
posta sulla razionalità
dell’attività scientifica è stata
la maschera dell’irrazionalità
dell’accumulazione
senza fine.
L’universalismo e il
razzismo possono sembrare a
prima vista strani compagni,
se non addirittura concetti
praticamente antitetici: l’uno
aperto, l’altro chiuso; l’uno
tendente all’eguaglianza,
l’altro alla polarizzazione;
l’uno votato al discorso
razionale, l’altro intriso di
pregiudizio. Tuttavia, il fatto
che abbiano camminato
tenendosi per mano, che si
siano diffusi e abbiano
prevalso in concomitanza con
l’evoluzione del capitalismo
storico, dovrebbe suggerirci
di guardare più da vicino ai
modi con cui queste due
dottrine hanno potuto
convivere.
C’era una trappola
nell’universalismo. Esso non
si è fatto strada come una
ideologia libera, ma è stato
propagato da coloro che
detenevano il potere
economico e politico
nel sistema-mondo del
capitalismo storico.
L’universalismo è stato
offerto al mondo come un
dono del potente al debole.
Timeo Danaos et dona
ferentes! Il dono stesso
nascondeva in sé il razzismo;
perché il dono dava al
ricevente due possibili scelte:
accettarlo, e con ciò
riconoscersi piu in basso nella
gerarchia della saggezza
acquisita; rifiutarlo, e con
ciò privarsi delle armi che
potevano rovesciare la
situazione di un potere reale
diseguale.
Non c’è da stupirsi che
persino i quadri che venivano
cooptati nel privilegio
avessero un atteggiamento
fortemente ambivalente circa
il messaggio
dell’universalismo, oscillando
tra un’adesione entusiastica e
un rifiuto culturale sostenuto
dalla ripugnanza per le tesi
razziste. Questa ambivalenza
si è espressa nei tanti
movimenti di «rinascita»
culturale. La stessa parola
rinascita, ampiamente usata
in molte zone del mondo,
incarnava da sé
l’ambivalenza. Parlando di
rinascita o di rinascimento si
affermava un’era di
precedente gloria culturale,
ma si riconosceva anche una
inferiorità culturale di quel
momento. E la parola
rinascimento era una parola
ricalcata sulla storia culturale
specifica dell’Europa.
[MANCANO DUE
PAGINE]

3. L’ambivalenza dei
movimenti
antisistemici.
Si potrebbe pensare che le
forze-lavoro mondiali siano
state immuni da questa
ambivalenza, non essendo
mai state invitate a «mangiare
alla tavola del signore». Di
fatto, tuttavia, le espressioni
politiche delle forze-lavoro
mondiali, i movimenti
antisistemici, sono state
fortemente caratterizzate dalla
stessa ambivalenza. I
movimenti antisistemici,
come abbiamo già notato, si
sono ricoperti dell’ideologia
dell’Illuminismo, che è stato
esso stesso un
prodotto diretto dell’ideologia
universalistica. Essi perciò
hanno preparato per sé la
trappola culturale in cui si
dibattono da sempre: cercare
di scalzare le basi del
capitalismo
storico, proponendosi
strategie e obiettivi di medio
termine che derivano
esattamente dalle «idee delle
classi dominanti» che essi
cercano di distruggere.
La variante socialista dei
movimenti antisistemici ha
sempre avuto a che fare, fin
dall’inizio, con l’idea del
progresso scientifico. Marx,
volendo distinguersi dagli
altri socialisti che definiva
«utopisti», affermava di
volere il «socialismo
scientifico». I suoi scritti
ponevano l’accento sui modi
in cui il capitalismo era
«progressivo» rispetto a ciò
che lo aveva preceduto. Il
concetto per cui il socialismo
sarebbe arrivato prima nei
paesi più «avanzati»
suggeriva un processo per cui
il socialismo sarebbe scaturito
da (e come reazione a)
un’ulteriore avanzata del
capitalismo. La rivoluzione
socialista avrebbe così tratto
ispirazione dalla «rivoluzione
borghese», e sarebbe venuta
dopo di essa.
Alcuni teorici successivi
sostennero persino che fosse
compito del socialismo
contribuire dapprima al
compimento della rivoluzione
borghese, in quei paesi in cui
non si era ancora verificata.
Le successive differenze
tra la Seconda e la Terza
Internazionale non
comportarono un disaccordo
su questa parte
epistemologica, che entrambe
condividevano. In effetti, sia i
socialdemocratici che i
comunisti, una volta al
potere, hanno teso a dare
grande priorità all’ulteriore
sviluppo dei mezzi di
produzione. Lo slogan di
Lenin secondo cui «il
comunismo è eguale il
socialismo più
l’elettricità» campeggia ancor
oggi su enormi striscioni
nelle strade di Mosca. Nella
misura in cui questi
movimenti, una volta
al potere - fossero
socialdemocratici o comunisti
- hanno realizzato le parole
d’ordine staliniane del
«socialismo in un paese solo»
essi si sono concentrati tutti,
di conseguenza, nel
proseguire il processo di
mercificazione di ogni
cosa che è stato così
connaturato
all’accumulazione generale
del capitale. Nella misura in
cui essi sono rimasti tutti
all’interno del sistema
interstatale - anzi hanno
lottato per rimanervi, contro
tutti i tentativi di espellerli -,
tutti hanno accettato e
rafforzato la realtà del
dominio su scala mondiale
della legge del valore.
«L’uomo socialista» è
sembrato sospettosamente
simile a quello di un
taylorismo che intanto
dilagava.
Vi sono state,
naturalmente, ideologie
«socialiste» che hanno
dichiarato di respingere
l’universalismo illuministi-
co, e hanno invocato varie
specie «indigene» di
socialismo, per le zone
periferiche dell’economia-
mondo. Nella misura in cui
queste formulazioni erano
qualcosa in più che
pura retorica, esse
sembravano di fatto dei
tentativi di adoperare come
unità di base del processo di
mercificazione non i nuovi
aggregati domestici che si
ripartivano il reddito, ma più
grandi entità comuni che
erano, si sosteneva,
più «tradizionali».
Dappertutto, questi tentativi,
anche quando sono stati una
cosa seria, si sono risolti in un
fallimento. In ogni caso, la
maggior parte dei movimenti
socialisti del mondo ha teso a
denunciare questi tentativi
come non socialisti, come
forme di nazionalismo
culturale retrogrado.
A prima vista, il versante
nazionalistico dei movimenti
antisistemici, perla forte
centralità della tematica
separatistica, sembrerebbe
meno soggiogato
dall’ideologia
dell’universalismo. Uno
sguardo più attento, però,
smentisce questa impressione.
Certo, il nazionalismo ha
avuto inevitabilmente una
componente culturale, nella
quale specifici movimenti
sostenevano il rafforzamento
delle «tradizioni» nazionali,
di una lingua nazionale,
spesso di un
retaggio religioso. Ma ha
costituito, il nazionalismo
culturale, una resistenza
culturale alle pressioni degli
accumulatori di capitale? In
effetti, due elementi
fondamentali del
nazionalismo culturale hanno
teso verso una direzione
opposta. Il primo è consistito
nel fatto che l’unità scelta
come contenitore della
cultura tendeva ad essere lo
stato, che era a sua volta una
componente del sistema
interstatale. Era spesso
proprio questo stato ad essere
investito di una
cultura «nazionale».
Praticamente in tutti i casi ciò
comportava una distorsione
della continuità culturale,
spesso molto forte. In quasi
tutti i casi, la rivendicazione
di una cultura nazionale
racchiusa in uno stato
comportava inevitabilmente
una soppressione delle
continuità, almeno nella
stessa misura di una loro
riaffermazione. In tutti i casi,
ciò rafforzava le strutture
statali, quindi il sistema
interstatale, quindi il
capitalismo storico come
sistema-mondo.
In secondo luogo, uno
sguardo comparato alle
riaffermazioni culturali tra
tutti questi stati chiarisce che
mentre esse sono state diverse
nella forma, sono state
tendenzialmente identiche nel
contenuto. I morfemi di
ciascuna lingua erano
differenti, ma il vocabolario
cominciava a convergere. I
rituali e le teologie delle
religioni del mondo potevano
magari essere rinvigoriti, ma
cominciavano a differire
sempre meno nel loro
contenuto effettuale rispetto
alle fasi precedenti. E gli
antecedenti
dell’atteggiamento scientifico
venivano riscoperti sotto le
forme più disparate. In breve,
la maggior parte del
nazionalismo culturale è
stato una gigantesca sciarada.
Ancor più, il nazionalismo
culturale, allo stesso modo
che la «cultura socialista», è
stato spesso il principale
sostenitore dell’ideologia
universalistica del mondo
moderno, che è stata così
offerta alle forze-lavoro
mondiali in una forma ad esse
più appetibile. In questo
senso, i movimenti
antisistemici hanno spesso
funzionato da intermediari
culturali dal potente verso il
debole, alterandone, piuttosto
che rafforzarne, le fonti di
resistenza più radicate.
Le contraddizioni poste
dalla strategia di conquista
dello stato da parte dei
movimenti antisistemici,
combinate con l’accettazione
tattica dell’epistemologia
universalistica, hanno avuto
serie conseguenze per questi
movimenti. Essi hanno
dovuto fronteggiare sempre
più il fenomeno della
disillusione, e la loro più forte
risposta ideologica è stata la
riaffermazione della
giustificazione centrale del
capitalismo storico: il
carattere automatico e
inevitabile del pro-gresso, o
come va oggi di moda dire in
Urss, la «rivoluzione
scientifico-tecnologica».
Cominciato nel secolo xx,
e sviluppatosi con crescente
forza a partire dagli anni
sessanta, il tema di un
«progetto delle civiltà», come
ama definirlo Anouar Abdel-
Malek, ha cominciato a
rafforzarsi. Mentre per molti
il nuovo linguaggio delle
«alternative endogene» è
servito da pura variante
verbale dei vecchi temi del
nazionalismo culturale
universalizzante, altri
riconoscono un contenuto
epistemologico
effettivamente nuovo a questo
tema. Il «progetto delle
civiltà» ha riaperto la
domanda se esistano davvero
verità metastoriche. Una
forma di verità, che rifletteva
le realtà del potere e gli
imperativi economici del
capitalismo storico, si è
sviluppata e ha pervaso il
globo. E vero, e lo abbiamo
visto. Ma quanta luce getta
questa forma di verità sul
processo di declino di questo
sistema storico, e ancor più
sull’esistenza di effettive
alternative storiche ad un
sistema storico basato sulla
incessante accumulazione di
capitale? Qui sta la questione.

4. La crisi del sistema


storico.

Questa nuova forma


fondamentale di resistenza
culturale ha una base
materiale. La progressiva
mobilitazione dei movimenti
antisistemici su scala
mondiale ha con il tempo
reclutato un numero sempre
maggiore di elementi
che sono economicamente e
politicamente marginali
rispetto al funzionamento del
sistema e poco adatti a trarre
profitto, anche alla distanza,
dal surplus accumulato. Allo
stesso tempo, la progressiva
demitizzazione di questi
stessi movimenti ha
indebolito la riproduzione
dell’ideologia universalistica
al loro interno e i movimenti
hanno perciò cominciato ad
aprirsi sempre più a quegli
elementi che ne hanno messo
in discussione le fondamenta.
Raffrontato con il profilo
degli appartenenti ai
movimenti antisistemici degli
anni tra il 1850 e il 1950,
quello degli anni dal 1950 ad
oggi contiene un maggior
numero di appartenenti a
zone periferiche, un maggior
numero di donne, un maggior
numero di «minoranze»,
comunque definite, un
maggior numero di lavoratori
della fascia meno
specializzata e
peggio retribuita. Ciò è vero
sia in tutto il mondo che nei
singoli stati, sia tra i militanti
che tra i dirigenti. Un simile
cambiamento della base
sociale non può che alterare
le predilezioni ideologiche e
culturali dei movimenti
antisistemici mondiali.
Abbiamo cercato fin qui
di descrivere il modo in cui il
capitalismo ha di fatto
funzionato come sistema
storico. Ma i sistemi storici
sono, per l’appunto, storici.
Vengono al mondo e poi
cessano di esistere, come
conseguenza di processi
interni nei quali
l’esasperazione delle
contraddizioni interne
conduce a una crisi
strutturale. Le crisi strutturali
sono vaste e di lunga durata.
Ci vuole tempo perché si
manifestino. Il capitalismo
storico è entrato in
questa crisi strutturale
all’inizio del secolo xx e
conoscerà la propria fine
come sistema storico in
qualche momento del secolo
prossimo venturo. È
azzardato predire cosa verrà
dopo. Ciò che possiamo fare
ora è analizzare le dimensioni
della crisi strutturale e
percepire le direzioni verso
cui questa crisi di sistema ci
sta portando.
Il primo, e forse piu
importante, aspetto di questa
crisi sta nel fatto che stiamo
per arrivare davvero alla
mercificazione di ogni cosa.
Cioè, il capitalismo storico è
in crisi esattamente perché,
nel perseguire l’incessante
accumulazione di capitale, sta
cominciando ad avvicinarsi a
quello stato che Adam Smith
sosteneva fosse «naturale»
per l’uomo ma che non è mai
storicamente esistito,
nemmeno sotto il capitalismo
sviluppatosi fino a questo
momento. L’«in-clinazione
(dell’umanità) a trafficare, a
barattare, e a scambiare una
cosa con l’altra» è entrata in
ambiti e in zone mai prima
toccati, e la pressione a
espandere la mercificazione si
è fatta ancor più incontrollata.
Marx diceva del mercato che
era un «velo» che celava i
rapporti sociali di produzione.
Ciò era vero solo nel senso
che, a paragone con la diretta
appropriazione in loco del
surplus, l’appropriazione del
mercato indiretto (e perciò
extra-locale) era più difficile
da scorgere e perciò più
difficile da combattere
politicamente per la forza-
lavoro mondiale. Il «mercato
» ha tuttavia funzionato
seguendo i termini
quantitativi di una misura
generale, il denaro, e ciò ha
reso chiara, più che
confonderla, la misura di ciò
che diveniva effettivamente
oggetto di appropriazione.
Ciò su cui gli accumulatori di
capitale hanno fatto
affidamento, come rete di
salvataggio politica, è stato il
fatto che solo parte del
lavoro è stata misurata in
questo modo. Nella misura in
cui il lavoro viene sempre più
mercificato, nella misura in
cui gli aggregati domestici
diventano sempre più una
funzione dei rapporti di
merce, il flusso del surplus
diviene sempre più visibile.
Le contropressioni politiche
si mobilitano perciò sempre
di più, e la struttura dell'
economia diviene sempre più
l'obiettivo diretto della
mobilitazione. Gli
accumulatori di capitale,
lungi dal cercare di accelerare
la proletarizzazione, cercano
di rallentarla. Ma non
possono farlo del tutto, a
causa delle contraddizioni tra
i propri interessi, tra quelli di
ciascuno come imprenditore
singolo e quelli di tutti loro
come appartenenti a una
classe.
È un processo
sistematico, incessante,
impossibile da contenere, fin
quando l’economia è spinta
dal motore
dell’accumulazione continua
di capitale. Il sistema può
allungarsi la vita rallentando
alcune delle attività che lo
stanno consumando, ma la
morte si profila all’orizzonte,
in tutti i modi che la nostra
mitologia non ha cessato di
ricordarci.
Uno dei modi attraverso i
quali gli accumulatori di
capitale hanno prolungato
l’esistenza del sistema è
costituito dagli ostacoli
politici che hanno costruito al
suo interno, ostacoli che
hanno spinto i movimenti
antisistemici sui sentieri della
creazione di organizzazioni
formali che adottassero una
strategia da conquista del
potere statale. Esse, in effetti,
non avevano scelta; ma la
strategia aveva in sé forti
limiti. Come abbiamo visto,
però, le contraddizioni
di questa strategia hanno esse
stesse prodotto una crisi a
livello politico.
Non si tratta di una crisi
del sistema interstatale, che
funziona ancora
perfettamente nel suo
compito essenziale di
mantenere una gerarchia e
contenere i movimenti
d’opposizione. La crisi
politica è la crisi dei
movimenti antisistemici
stessi. Dacché la distinzione
tra i movimenti socialisti e
nazionalisti ha cominciato a
farsi confusa, e dacché un
numero sempre maggiore di
questi movimenti ha
conquistato il potere statale
(con tutti i suoi limiti),
l’insieme di questi movimenti
su scala mondiale si è visto
costretto a rivedere tutte le
credenze derivanti dalle
analisi originarie del secolo
xix. Così come il successo
degli accumulato-ri
nell’accumulare ha creato un
eccesso di mercificazione che
minaccia il sistema in quanto
tale, allo stesso modo il
successo dei movimenti
antisistemici nel conquistare
il potere ha creato un eccesso
di rafforzamento del
sistema che minaccia di
portare in crisi la
condivisione da parte della
forza-lavoro mondiale di
questa strategia autolimitante.
Infine, la crisi è culturale.
La crisi dei movimenti
antisistemici, la revoca in
discussione della strategia di
fondo, sta portando a porre in
discussione anche le
premesse dell'ideologia
universalistica. Questa revoca
in discussione sta procedendo
su due terreni: il terreno dei
movimenti, in cui la ricerca di
alternative di «civiltà» è presa
per la prima volta sul serio; e
il terreno della vita
intellettuale, dove l’intero
apparato intellettuale posto in
essere a partire dal secolo xiv
viene lentamente messo in
dubbio. In parte, ancora una
volta, questo dubbio è il
frutto del suo successo. Nelle
scienze fisiche, i processi
interni di indagine generati
dal metodo scientifico
moderno sembrano arrivare a
mettere in dubbio l’esistenza
delle leggi universali che
furono il loro presupposto.
Oggi si parla di inserire la
«temporalità» nella scienza.
Nelle scienze sociali - poca
cosa da un certo punto di
vista, ma scienze regine (cioè
culminanti) da un altro punto
di vista - l’intero paradigma
dello sviluppo è oggi messo
in dubbio esplicitamente fin
nelle fondamenta.
La riapertura degli esiti
intellettuali è perciò da un
lato il prodotto di un successo
interno e di interne
contraddizioni. Ma è anche il
prodotto delle pressioni dei
movimenti, essi stessi in crisi,
e che vogliono essere capaci
di fronteggiare, di
controbattere più
concretamente, le strutture del
capitalismo storico, la cui
crisi è il punto di partenza di
ogni altra attività.
La crisi del capitalismo
storico è spesso definita come
transizione dal capitalismo al
socialismo. Sono
d’accordo con questa
formula, ma essa non ci dice
molto. Non sappiamo ancora
come funzionerebbe un
ordine mondiale socialista, un
ordine che respingesse
radicalmente l’accumulazione
incessante di capitale, che
riducesse radicalmente il
divario di benessere materiale
e la disparità di potere
reale tra le persone. Gli stati o
i movimenti esistenti che si
definiscono socialisti offrono
una scarsa guida per il
futuro. Essi sono fenomeni
del presente, cioè del sistema-
mondo del capitalismo
storico, e devono essere
valutati in questo contesto.
Possono essere fattori della
caduta del capitalismo, anche
se difficilmente questo
accadrà dappertutto, come
abbiamo visto. Ma l'ordine
mondiale futuro si costruirà
lentamente e in modi che
possiamo a stento
immaginare, non predire. È
qualcosa che somiglia a
un’affermazione di fede
credere che tutto ciò sarà
buono, o persino migliore.
Ma ciò che abbiamo,
sappiamo che non è
stato buono; e man mano che
il capitalismo storico ha
proceduto per la sua strada,
esso a mio avviso, con il suo
stesso successo, ha
peggiorato e non migliorato
le cose.
IV.

Conclusione: progresso
e transizioni






Se c’è un’idea connessa
con il mondo moderno, anzi
situataci centro di esso,
questa è l’idea di progresso.
Ciò non vuol dire che tutti
abbiano creduto nel
progresso. Nella grande
discussione ideologica tra
conservatori e liberali
che precedette la Rivoluzione
francese, ma soprattutto in
quella che la segui, il succo
della posizione conservatrice
stava nel porre in dubbio che
i cambiamenti che l’Europa e
il mondo stavano conoscendo
potessero essere considerati
progresso, o piu precisamente
che il progresso fosse un
concetto importante e
significativo. Tuttavia, come
sappiamo, furono i liberali ad
essere i banditori di
quell’epoca e ad incarnare
quella che sarebbe diventata
nel secolo xix l’ideologia
dominante dell’economia-
mondo capitalistica, la quale,
per parte sua, esisteva già da
lungo tempo.
Non c’è da stupirsi che i
liberali credessero nel
progresso. L’idea di
progresso giustificava l’intera
transizione dal feudalesimo al
capitalismo. L’idea di
progresso legittimava la
rottura dell’opposizione
persistente nei confronti
della mercificazione di ogni
cosa. L’idea di progresso
tendeva a spazzar via tutti gli
aspetti negativi del
capitalismo sulla base della
convinzione che i benefici
sopravanzassero, e di gran
lunga i danni. Dunque non
c’è proprio da stupirsi che i
liberali credessero in questa
idea.
Ciò che stupisce è che i
suoi grandi oppositori
ideologici, i marxisti - gli
antiliberali, i portavoce delle
classi lavoratrici oppresse -
credessero nel progresso con
una passione almeno
altrettanto accesa dei liberali.
Senza dubbio, questa fede era
a sua volta a servizio di un
importante scopo ideologico.
Giustificava le attività del
movimento socialista
mondiale sulla base del fatto
che esso incarnava il corso
inevitabile dello sviluppo
storico. Inoltre la
proposizione di questa
ideologia sembrava un fatto
particolarmente acuto, perché
significava adoperare le
stesse idee della borghesia
liberale per sconfiggerla.
Vi erano sfortunatamente
due piccoli difetti nel fatto di
abbracciare in modo
apparentemente così astuto, e
certo entusiastico, questa fede
del secolo nel progresso. Se
l’idea di progresso
giustificava il socialismo,
essa giustificava anche il
capitalismo. Difficilmente si
potevano cantare osanna al
proletariato senza prima avere
distribuito lodi alla borghesia.
I famosi scritti di Marx sull'
India offrono un’ampia
dimostrazione di questo fatto,
ma in verità lo stesso
Manifesto del Partito
Comunista ne è una prova.
Inoltre essendo la misura del
progresso una misura
materialistica (e come i
marxisti avrebbero potuto
dissentire su questo?) esssa
avrebbe potuto essere rivolta
- e in effetti è stata rivolta,
negli ultimi cinquant'anni -
contro tutti gli «esperimenti
di socialismo». Chi non ha
sentito condannare l'Urss
sulla base del fatto che il suo
tenore di vita è più basso di
quello degli Usa? E, per
giunta, nonostante le
millanterie di Chruscév, non
c'è ragione di ritenere che
questa disparità cesserà di
esistere tra cinquantanni.
Il fatto di avere
abbracciato da parte marxista
un modello evolutivo di
progresso è stato una enorme
trappola, di cui i socialisti
hanno cominciato ad
accorgersi solo di recente; ed
è questo uno degli elementi
della crisi ideologica che è
stata parte della generale crisi
strutturale dell’economia-
mondo capitalistica.
È semplicemente falso
che il capitalismo come
sistema storico abbia
rappresentato un progresso
rispetto ai precedenti sistemi
storici che distrusse o
trasformò. Mentre scrivo
queste cose, sento già il
tremore che accompagna il
senso della bestemmia, e
temo la collera degli dei,
perché anch’io sono stato
forgiato nello stesso
calderone ideologico dei miei
compagni, e anch’io ho
pregato agli stessi altari.

1. Mito e realtà del


progresso.

Uno dei problemi che


sorgono quando si analizza il
progresso è costituito dalla
unilateralità di tutte le misure
proposte per esaminarlo. Si
dice che il progresso
scientifico e tecnologico è
innegabile e sbalorditivo, ciò
che è sicuramente vero,
soprattutto se si considera che
la maggior parte del sapere
tecnologico è cumulativa. Ma
non consideriamo mai
seriamente quanto sapere
abbiamo perduto nel raggio
d’espansione mondiale
dell’ideologia universalistica.
O, se lo facciamo,
cataloghiamo questo sapere
perduto sotto l’etichetta della
saggezza pura. Tuttavia, ai
semplici livelli tecnici della
produttività agricola e
dell’integrità biologica,
abbiamo scoperto più tardi
che certi metodi di azione
umana scartati uno o due
secoli fa (secondo
un processo imposto dalle
élites illuminate alle masse
arretrate) spesso devono
essere riproposti perché si
rivelano più, e non meno,
efficaci. A un livello più
importante scopriamo alle
estreme «frontiere» della
scienza avanzata il tentativo
di introdurre alcuni
presupposti trionfalmente
respinti un secolo fa, o
addirittura cinque secoli fa.
Si dice che il capitalismo
storico abbia trasformato le
possibilità meccaniche
dell’umanità. A ciascuna
erogazione di energia umana
ha corrisposto una quantità
sempre maggiore di effetti
prodotti; e anche ciò è
certamente vero. Ma non
calcoliamo fino a che punto
ciò ha significato
per l’umanità accrescere o
non piuttosto ridurre
l’erogazione totale di energia,
che ciascuna persona
separatamente o tutte
collettivamente all’interno
dell’economia-mondo
sono state chiamate ad
investire, sia per unità di
tempo, sia nel corso della loro
vita. È così sicuro che il
mondo sia meno opprimente
sotto il capitalismo storico
che sotto i sistemi precedenti?
Vi sono ampi motivi per
dubitarne, come dimostra
l’assimilazione all’interno dei
nostri più forti super-io della
coazione al lavoro.
Si dice che in nessun
sistema storico precedente la
gente abbia vissuto una vita
materialmente così comoda, e
che mai prima abbia avuto un
ventaglio di differenti
esperienze di vita simile a
quello di cui può disporre nel
sistema attuale. Ancora una
volta, questa affermazione
suona vera, come dimostra
qualunque paragone si possa
fare con la vita dei nostri
immediati predecessori.
Tuttavia, i dubbi su questo
piano sono fortemente
aumentati nel corso del
nostro secolo, come mostrano
i nostri frequenti riferimenti
attuali al tema della «qualità
della vita», o la nostra
consuetudine di rapporti con
l’anomia, l’alienazione, le
malattie mentali. Si dice,
infine, che il capitalismo
storico abbia prodotto un
aumento massiccio della
soglia di sicurezza degli
uomini, contro l’offesa e la
morte che possono venire
da pericoli endemici (i
quattro cavalieri
dell’Apocalisse) e contro le
imprevedibili fiammate delle
violenza. Ancora una volta
questo è indiscutibile a livelli
particolari (nonostante la
recente riscoperta dei pericoli
della vita urbana). Ma
è davvero sostenibile a livello
generale, ancora oggi, e
anche senza considerare la
spada di Damocle della
guerra nucleare?
Lasciatemi dire che, come
minimo, non è per nulla
evidente che vi sia più libertà,
più eguaglianza e più
fraternità nel mondo d’oggi di
quanta ve ne fosse mille anni
fa. Si potrebbe
ragionevolmente sostenere
che è vero il contrario. Non
cerco di dipingere in modo
idilliaco i mondi che hanno
preceduto il capitalismo
storico. Erano mondi di
piccola libertà, di poca
eguaglianza, di scarsa
fraternità. L’unica questione è
se il capitalismo storico abbia
rappresentato in questo senso
un progresso o un regresso.
Non sto parlando di
paragoni tra le crudeltà
relative. Sarebbero difficili da
stabilire, e lugubri al tempo
stesso, anche se non v’è
ragione di essere ottimisti
circa il possibile primato del
capitalismo storico in questo
campo. Il mondo del secolo
xx può menar vanto di aver
esibito alcuni talenti di
straordinaria raffinatezza in
questa antica arte. Né
mi riferisco allo spreco
sociale crescente e davvero
incredibile che è stato la
conseguenza della gara per
l’incessante accumulazione di
capitale: uno spreco che può
cominciare a rasentare la
soglia dell’irreparabile.
Voglio piuttosto limitare
il mio ragionamento ad
alcune considerazioni
materiali, e non riferite al
futuro della società, ma al
periodo effettivamente
vissuto dall’economiamondo
capitalistica. Il ragionamento
è semplice quanto audace.
Voglio difendere l’unica
proposizione marxista
che anche i marxisti ortodossi
tendono a seppellire con
vergogna: la tesi
dell’immiserimento assoluto
(non relativo) del proletariato.
Sento gli amichevoli
rimbrotti: «Di sicuro non stai
dicendo sul serio; certamente
vuoi dire immiserimento
relativo. Forse che l’operaio
industriale non sta mille volte
meglio adesso che nel 1800?»
L’operaio industriale, sì, o
almeno molti operai
industriali. Ma gli operai
industriali rappresentano
ancora una parte
relativamente piccola della
popolazione mondiale. La
parte preponderante delle
forze-lavoro mondiali, che
vive nelle zone rurali o si
sposta tra queste ultime e le
«bidonvilles» ai margini delle
città, sta peggio dei suoi
antenati di cinquecento anni
fa. Mangia meno bene, e
certamente in modo meno
equilibrato. Anche se ha
maggiore probabilità di
sopravvivere al primo anno di
vita (a causa dell’effetto
dell’igiene sociale, intrapresa
per proteggere i privilegiati),
dubito che le aspettative di
vita della maggioranza della
popolazione mondiale a un
anno siano maggiori di
quanto lo fossero prima.
Sospetto che scopriremmo il
contrario, se cominciassimo a
raccogliere dati di questo
genere. Sicuramente queste
persone lavorano più
duramente - più ore al giorno,
all’anno, nel corso della vita.
E dato che fanno ciò per una
ricompensa totale minore, ciò
vuol dire che il tasso di
sfruttamento è
cresciuto fortemente.
Sono costoro anche
maggiormente oppressi dal
punto di vista politico e
sociale, oltre che più sfruttati
economicamente? È difficile
dirlo. Come ha detto una
volta Jack Goody, la scienza
sociale non ha ancora
inventato un «euforimetro».
Le piccole comunità in cui la
maggior parte della gente
conduceva la propria
esistenza nei precedenti
sistemi storici comportavano
una forma di controllo sociale
che certamente vincolava le
scelte delle persone e il
mutamento sociale. E questo
sembrava a molti un elemento
di effettiva oppressione. Gli
altri, che erano più
soddisfatti, pagavano la loro
contentezza con una visione
ristretta delle potenzialità
umane.
La costituzione del
capitalismo storico ha
comportato, come tutti
sappiamo, la drastica
riduzione, o perfino
l’eliminazione totale, del
ruolo di queste piccole
strutture di comunità. Ma che
cosa ne ha preso il posto? In
molte zone, e per lunghi
periodi, il compito
precedentemente svolto dalle
strutture comunitarie è stato
assunto dalle «piantagioni»,
cioè dal controllo oppressivo
di strutture
politicoeconomiche di grandi
proporzioni dominate da
«imprenditori». Le
«piantagioni» dell’economia-
mondo capitalistica - basate
che fossero sulla schiavitù, la
prigionia, la mezzadria
(obbligatoria o per contratto),
il lavoro salariato, ecc. -
difficilmente si possono
considerare come una
struttura che concedesse
spazio all’individualità. Senza
dubbio esse sono esistite
anche prima, nella storia
dell’umanità; ma mai prima
furono usate in modo così
vasto per la
produzione agricola (in
quanto distinta dall’attività
mineraria e dalla costruzione
di infrastrutture di grandi
dimensioni; queste attività,
peraltro, hanno teso in
passato a interessare
un numerò di persone molto
minore, in termini
complessivi).
Anche laddove le
precedenti, più lasche,
strutture di controllo
comunitario non furono
sostituite da una di queste
forme di controllo diretto e
autoritario dell’attività
agricola che abbiamo appena
compreso sotto la definizione
di «piantagioni», la
disintegrazione delle strutture
comunitarie nelle zone rurali
non fu percepita come una
forma di «liberazione»,
perché era inevitabilmente
accompagnata, e spesso
direttamente causata, da un
controllo sempre più forte da
parte delle strutture statali
emergenti, le quali si sono
rivelate sempre meno
disposte a concedere
autonomia al produttore
diretto circa i processi di
decisione locale. La pressione
si è sempre esercitata nel
senso di imporre una crescita
della quantità di lavoro
immesso, e una crescita della
specializzazione di questa
attività lavorativa (che, dal
punto di vista del lavoratore,
indeboliva la sua posizione
negoziale e accresceva la
monotonia).
Né questo è tutto. Il
capitalismo storico ha
sviluppato una cornice
ideologica oppressiva e
umiliante, quale mai era
esistita prima, e che oggi
definiamo con i termini
«sessismo» e «razzismo». Mi
spiego: sia la posizione di
dominio degli uomini sulle
donne che la xenofobia
generalizzata erano molto
diffuse, pressoché universali,
nei sistemi storici precedenti,
come abbiamo già osservato.
Ma il sessismo è divenuto
qualcosa di più della
posizione di dominio degli
uomini sulle donne, e il
razzismo qualcosa di più
di una xenofobia
generalizzata.
Il sessismo in questo caso
ha significato relegare le
donne nella sfera del lavoro
non produttivo, doppiamente
umiliante, perché il lavoro
effettivo loro richiesto veniva
se possibile intensificato,
mentre il lavoro produttivo
diveniva nell'economia-
mondo capitalistica, per la
prima volta nella storia
umana, la base delle
legittimazione del
privilegio. Ciò ha costituito
un «doppio legame» che non
era possibile sciogliere
all’interno del sistema.
Allo stesso modo, il
razzismo non è stato in questo
caso l'odio o l’oppressione
verso lo straniero, verso
qualcuno che stesse fuori dal
sistema storico. Tutto al
contrario, il razzismo è stato
la stratificazione della forza-
lavoro dentro il sistema
storico; e il suo obiettivo è
stato di trattenere i
gruppi oppressi all’interno del
sistema, non di espellerli
fuori di esso. Esso ha
costituito la giustificazione
per la bassa remunerazione
del lavoro produttivo,
nonostante il primato che
veniva riconosciuto a parole a
questo tipo di lavoro
nella determinazione del
diritto a una ricompensa. Si è
ottenuto questo scopo
identificando il lavoro a piu
bassa remunerazione con il
lavoro di piu bassa qualità. E
dal momento che ciò era dato
per definizione, nessun
cambiamento della qualità del
lavoro ha mai potuto sortire
altro effetto che quello di
cambiare la forma
dell’accusa, anche se
l’ideologia dichiarava di
offrire la ricompensa di una
mobilità individuale come
corrispettivo di uno sforzo
individuale. E anche questo
era un «doppio legame»
impossibile da sciogliere.
Sia il sessismo che il
razzismo sono stati processi
sociali che affidavano alla
«biologia» il compito di
definire la posizione sociale.
Dal momento che la biologia
era una realtà socialmente
non modificabile, in tutti i
sensi di questa espressione,
ne risultava, in apparenza,
una struttura che era si di
origine sociale, ma che non
poteva essere socialmente
eliminata. Naturalmente, le
cose non stavano davvero
così. Era vero piuttosto che la
struttura del sessismo e del
razzismo non poteva e non
può essere smantellata senza
smantellare l’intero sistema
storico che ha creato
questi processi e che è stato
mantenuto in modo
determinante dal loro
funzionamento.
Perciò vi è stato, sia in
termini materiali che
psicologici (sessismo e
razzismo) impoverimento
assoluto. Ciò ha comportato,
naturalmente, un divario
crescente nel consumo del
surplus tra il 10-15 per cento
che costituisce lo
strato superiore della
popolazione dell' economia-
mondo capitalistica e tutto il
resto. Se abbiamo avuto la
sensazione che così non
fosse, ciò è dovuto a tre
motivi. Il primo è
che l'ideologia meritocratica
ha davvero funzionato nel
senso di rendere possibile una
considerevole mobilità
individuale, o persino la
mobilità di singoli segmenti
etnici e/o professionali di
forza-lavoro. Ciò è accaduto,
però, senza stravolgere nella
sostanza l' andamento
generale
dell'economiamondo, dal
momento che la mobilità
individuale o per piccoli
gruppi è stata controbilanciata
da una crescita
delle dimensioni dello strato
piu basso, ottenuta o per il
tramite di una assimilazione
di nuove popolazioni entro l'
economiamondo, o attraverso
tassi di crescita demografica
differenziati.
La seconda ragione per
cui non abbiamo riconosciuto
il divario crescente sta nel
fatto che le nostre analisi
storiche e sociali si sono
concentrate su ciò che stava
accadendo all’interno dei
«ceti medi» - cioè di quel 10-
15 per cento dell' economia-
mondo che consumava più
surplus di quanto ne
producesse. Qui c’è stato
davvero un appiattimento
relativamente forte della
curva interna a questo
settore, tra la parte alta in
senso stretto (meno dell'1 per
cento della popolazione
totale) e i segmenti
propriamente «medi», o
quadri (il resto del 10-15 per
cento cui ci si è riferiti). Gran
parte delle politiche
«progressiste» degli ultimi
secoli del capitalismo storico
è consistita nella
considerevole diminuzione
delle diseguaglianze nella
distribuzione del plusvalore
tra quei piccoli gruppi che se
lo spartivano. Le grida di
trionfo di questo settore
«medio» per la riduzione del
divario tra sé e l'1 per cento
sovrastante hanno mascherato
la realtà del divario crescente
tra essi e il rimanente 85 per
cento.
Infine, vi è una terza
ragione per cui il fenomeno
del divario crescente non è
stato al centro delle nostre
discussioni collettive. È
possibile che, negli ultimi
dieci o ventanni, sotto la
spinta della forza collettiva
dei movimenti antisistemici
mondiali, e per l’avvicinarsi
della curva economica
all’asintoto, vi sia stato un
rallentamento della
polarizzazione assoluta
(anche se non ancora della
polarizzazione relativa).
Anche questo dovrebbe però
essere sostenuto con cautela,
e situato nel contesto di uno
sviluppo storico di
cinquecento anni di crescente
polarizzazione assoluta.

2. Capitalismo e
socialismo.

È essenziale analizzare le
realtà che hanno
accompagnato l'ideologia del
progresso perché, se non lo
facciamo, non possiamo
accostarci in modo
intelligente all’analisi
delle transizioni da un
sistema all’altro. La teoria del
progresso evolutivo
comportava non soltanto
l’affermazione per cui il
sistema che veniva dopo
dovesse essere migliore del
precedente, ma anche
l’affermazione per cui
qualche nuovo gruppo
dominante avrebbe sostituito
il gruppo
dominante precedente.
Perciò, non solo il
capitalismo costituiva
un progresso sul feudalesimo,
ma questo progresso era
ottenuto essenzialmente
tramite il trionfo, il trionfo
rivoluzionario, della
«borghesia» sulla
«aristocrazia terriera» (o sugli
« elementi feudali »). Ma se il
capitalismo non era
progressista, qual è il
significato del concetto di
rivoluzione borghese? C’è
stata una rivoluzione
borghese, e se sì, ve n’è stata
una o tante? Abbiamo già
sostenuto che l’immagine di
un capitalismo storico
scaturito dal rovesciamento di
una aristocrazia arretrata da
parte di una borghesia
progressista è sbagliata. Al
contrario, l’immagine
sostanzialmente corretta è
quella per cui il capitalismo
storico è stato messo in vita
dagli esponenti di una
aristocrazia terriera che
trasformò se stessa in
borghesia, perché il
vecchio sistema si stava
disgregando. Piuttosto che
lasciare che la disgregazione
proseguisse verso fini incerti,
essi si impegneranno in una
radicale opera di chirurgia
strutturale per poter
mantenere a anzi accrescere
significativamente la
loro capacità di sfruttare i
produttori diretti.
Se tuttavia questa nuova
immagine è giusta, essa
modifica radicalmente la
nostra percezione dell’attuale
transizione dal capitalismo al
socialismo, da un’economia-
mondo capitalistica a un
ordine-mondo socialista. Fino
ad ora, la «rivoluzione
proletaria» è stata modellata,
più o meno,
sulla «rivoluzione borghese».
Così come la borghesia
rovesciò aristocrazia, allo
stesso modo il proletariato
avrebbe rovesciato la
borghesia. Questa analogia è
stata il pilastro fondamentale
dell’azione strategica del
movimento
socialista mondiale.
Ma se non vi è stata
nessuna rivoluzione borghese,
ciò vuol dire che non c’è stata
o non ci sarà nessuna
rivoluzione proletaria?
Nient’affatto, né dal punto di
vista logico, né da quello
empirico. Vuol dire però che
dobbiamo accostarci al tema
della transizione in modo
differente. Dobbiamo
innanzitutto distinguere tra
cambiamento
tramite disgregazione e
cambiamento controllato, ciò
che Samir Amin ha definito la
distinzione tra «decadenza» e
«rivoluzione», tra il tipo di
«decadenza» che egli sostiene
sia avvenuta con la caduta di
Roma (e che, dice, sta
avvenendo ora) e quel
cambiamento più controllato
che è avvenuto nel passaggio
dal feudalesimo al
capitalismo.
Ma non è tutto, perché i
cambiamenti controllati (le
«rivoluzioni » di Amin) non
sono necessariamente
«progressivi», come abbiamo
appena notato. Perciò
dobbiamo distinguere tra un
tipo di trasformazione
strutturale che lasciasse al suo
posto, o addirittura
accrescesse, le realtà dello
sfruttamento del lavoro, e un
tipo di trasformazione che
abolisse questo sfruttamento,
o quanto meno lo
riducesse radicalmente. Ciò
vuol dire che la questione
politica del nostro tempo non
è se vi sarà o meno una
transizione dal capitalismo
storico a qualcosa d’altro.
Questo è sicuro, per quanto vi
possano essere certezze in
simili cose. Il problema
politico del nostro tempo è se
questo qualcos’altro, l’esito
della transizione, sarà o no
fondamentalmente diverso,
dal punto di vista morale, da
ciò che abbiamo ora; se sarà o
no un progresso.
Il progresso non è
inevitabile. Stiamo lottando
per ottenerlo. E la forma che
la lotta sta assumendo non è
quella del socialismo contro il
capitalismo, ma quella di una
transizione verso una società
relativamente senza classi
contro una transizione verso
un qualche nuovo modo di
produzione a base di classe
(differente dal capitalismo
storico, ma non
necessariamente migliore).
La scelta per la borghesia
mondiale non è tra il
mantenimento del capitalismo
storico e il suicidio. È tra una
disposizione «conservatrice»
da un lato, che si
concretizzerebbe in una
continua disgregazione del
sistema e nella conseguente
sua trasformazione in un
ordine mondiale incerto, ma
molto probabilmente più
egualitario, e, dall’altro lato,
un audace tentativo di
afferrare il controllo del
processo di transizione,
vestendo panni «socialisti», e
cercando di creare così un
sistema storico alternativo,
che manterrebbe in essere il
processo di sfruttamento della
forza-lavoro mondiale, a
beneficio di una minoranza.
È alla luce di queste
alternative politiche concrete
che si prospettano alla
borghesia mondiale, che
dovremmo considerare la
storia del movimento
socialista mondiale e la storia
degli stati in cui i partiti
socialisti sono giunti al potere
in una forma o nell’altra.
La prima cosa da
ricordare in questo ambito di
considerazioni è che il
movimento socialista
mondiale, anzi ogni forma di
movimento antisistemico,
così come ogni rivoluzione e
ogni stato socialista, sono
stati prodotti in tutte e per
tutto dal capitalismo storico.
Non erano strutture esterne al
sistema storico, ma la
secrezione di processi interni
al sistema. Perciò riflettevano
tutte le contraddizioni e tutti i
vincoli del sistema. Non
potevano e non possono fare
altrimenti.
I loro difetti, i loro
limiti, i loro effetti negativi
sono parte del bilancio del
capitalismo storico e non di
un ipotetico sistema storico,
quello di un ordine-mondo
socialista, che non esiste
ancora. L’intensità dello
sfruttamento del lavoro negli
stati rivoluzionari e/o
socialisti, la privazione delle
libertà politiche, la
persistenza del sessismo e del
razzismo sono tutte cose che
hanno molto più a che vedere
con il fatto che questi stati
continuano ad essere dislocati
nelle zone periferiche e
semiperiferiche
dell’economia-mondo
capitalista, che non con le
caratteristiche peculiari di un
nuovo sistema socialista. Le
poche briciole che sono state
a disposizione delle classi
lavoratrici, nel capitalismo
storico, sono sempre state
concentrate nelle
aree centrali. Ancora oggi ciò
è sproporzionatamente vero.
II giudizio sui
movimenti antisistemici e sui
regimi che essi hanno
contribuito a creare non può
perciò consistere nel valutare
se abbiano o meno create
delle «società buone».
La valutazione giusta può
consistere solo nel chiedersi
quanto grande sia stato il loro
contributo alla lotta mondiale
per far sì che la transizione
dal capitalismo si sviluppi
verso un ordine-mondo
egualitario e socialista. Qui i
conti si fanno
necessariamente piu ambigui,
a causa del funzionamento
contraddittorio dei processi
stessi. Ogni spinta positiva ha
comportato conseguenze
positive ma anche negative.
Ciascuna debolezza del
sistema in una direzione lo ha
rafforzato in altra direzione.
Non però necessariamente
allo stesso grado! La
questione è tutta qui.
Non c’è dubbio che il
contributo maggiore dei
movimenti antisistemici sia
consistito nella loro fase di
mobilitazione. Nell'organizzare
la ribellione, nel trasformare
la coscienza, essi sono stati
forze liberatorie; e i contributi
dei singoli movimenti in
questo senso sono divenuti
via via più grandi con il
passare del tempo, per il
meccanismo retroattivo degli
insegnamenti della storia.
Una volta che questi
movimenti hanno assunto il
potere politico nelle strutture
statali, essi hanno agito meno
bene, perché sono cresciute in
proporzione geometrica
le pressioni su di essi perché
modificassero la loro spinta
antisistemica; e queste
pressioni sono venute sia
dall’esterno che dall’interno
dei movimenti in questione.
Tuttavia, ciò non ha
significato un bilancio del
tutto negativo per questo tipo
di «riformismo» e di
«revisionismo». I movimenti
al potere sono stati in qualche
misura prigionieri
politici della loro ideologia e
perciò soggetti alla pressione
organizzata dei produttori
diretti all’interno dello stato
rivoluzionario e dei
movimenti antisistemici al di
fuori di esso.
Il vero pericolo viene
proprio ora, quando il
capitalismo storico giunge al
suo più completo
disvelamento - l’ulteriore
estensione della
mercificazione di ogni cosa,
la forza crescente della
comunità mondiale dei
movimenti antisistemici, la
continua razionalizzazione
del pensiero umano. È questo
pieno disvelamento che
condurrà al collasso
del sistema storico, che ha
prosperato fin qui perché la
sua logica si era realizzata
solo in parte. E più
esattamente, al momento del
suo crollo, e proprio perché
sta crollando, il potere
d’attrazione delle forze di
transizione sembrerà ancora
maggiore, e perciò l’esito
sarà più incerto. La lotta per
la libertà, l’eguaglianza e la
fraternità si protrarrà a
lungo e il luogo della lotta si
sposterà sempre più
all’interno della comunità
mondiale delle forze
antisistemiche.
Il comunismo è Utopia,
che vuol dire «in nessun
posto». Esso è l'avatar di
tutte le nostre escatologie
religiose: la venuta del
Messia, la seconda venuta di
Cristo, il nirvana. Non è una
prospettiva storica, ma un
mito dei nostri tempi. Il
socialismo, al contrario, è un
sistema storico realizzabile,
che potrà essere un giorno
posto in essere nel mondo.
Non vi può essere alcun
interesse verso un
«socialismo» che pretenda di
essere esso stesso un
momento «temporaneo» di
transizione verso l’Utopia.
L’unico interesse è per un
socialismo concretamente
storico, un socialismo che
soddisfi le caratteristiche
minime di un sistema storico
tendente a massimizzare
l’eguaglianza e la giustizia,
un socialismo che accresca il
grado di controllo della
propria vita da parte
dell’umanità (cioè la
democrazia), e che liberi
l’immaginazione.
Appendice

Il concetto di «spazio
economico»





Voce Spazio economico,
in Enciclopedia Einaudi,
XIII, Torino 1981, pp. 304-
13.





Cos’è un’economia e,
ancor prima, dov’è
un’economia? Proprio il porre
il problema in questi termini
suggerisce una discussione
sui problemi intorno ai quali
gli assunti a priori hanno di
solito preso il posto
dell’argomento ragionato.
Nel campo della teoria
economica due posizioni
fondamentali tendono a
determinare altrettanti modi
di concepire lo spazio
economico. Se si parte
dall’assunto che l’economia è
l’analisi di una serie di
attività umane universali, le
cui leggi possono, alla fin
fine, essere scoperte, lo
spazio (come il tempo)
diventa un elemento del tutto
secondario nella descrizione
di tali attività. Lo spazio - sia
esso fisico o politico-culturale
- si trasforma semplicemente
in un parametro aggiuntivo di
un caso specifico al quale si
ritiene possa applicarsi una
certa legge economica. Un
parametro neppure dei più
importanti. In tale tipo di
analisi si può parlare
tranquillamente di
«economia» senza
menzionare le specificità
spazio-temporali; è implicito
che ci si riferisce
all’economia di un’unità
politica (ad
esempio un’«economia
nazionale») oppure
all’economia di
un’area fisicamente
omogenea (ad esempio una
«regione naturale»). È il
punto di vista che emerge
dagli scritti della
maggior parte degli
economisti classici e
neoclassici, come anche
da quelli dei geografi e dei
sociologi dell’economia.
Per chi invece ritiene che
esistano diverse varietà di
economia, con sistemi di
funzionamento
significativamente diversi, la
precisazione dei caratteri
spaziali e temporali
rappresenta, per diverse
ragioni, un tratto
fondamentale dell’analisi.
Anzitutto, poiché i diversi
sistemi operano sulla base di
regole diverse, è importante
stabilire quale sistema di
regole operi in una
determinata situazione. In
secondo luogo, per procedere
a un’analisi specifica sul
piano storico, è necessario
chiarire i limiti di tempo e di
spazio entro i quali si ritiene
che l’azione sociale si svolga.
Questo punto di vista è tipico
di molte scuole di pensiero -
la scuola economica storicista
tedesca (con i suoi concetti di
Nationalökonomie e di
Volkswirtschaft),
l’istituzionalismo americano,
la storia economica delle
«Annales», le scuole che ad
essa si ispirano, l’ecologia
culturale e i marxisti
(quelli almeno che compiono
ricerche empiriche). Tutte
scuole che tentano di dare
spiegazioni «strutturali»
all’azione umana e che
attribuiscono un (o il) peso
determinate ai
processi economici
nell’influenzare tale azione.
Scuole che, d’altra parte,
partono dall’assunto che le
spiegazioni non
possano essere indipendenti
dalla storia, ossia universali,
ma che, al contrario, debbano
sempre collocarsi nello spazio
e nel tempo. Sono queste le
ragioni per cui, quando si
occupano di mutamenti di
lungo periodo o di vasta
portata, esse precisano, di
solito, le specificità temporali
e spaziali dei fenomeni cui si
riferiscono.
Accettare quest’ultima
posizione non significa però
rispondere alla domanda
iniziale: che cos’è
un’economia, e, anzitutto,
dov’è? Significa
semplicemente riconoscere
che, per le scienze sociali,
quel problema è
fondamentale ancor più che
importante. Per rispondere ad
essa occorre muovere da due
interrogativi di fondo: 1) che
cosa definisce i confini di
un’economia? 2) quali
caratteristiche qualitative
permettono di distinguere
un’economia da un’altra?
Separare logicamente i due
aspetti non è però così
semplice, anche se si tenterà
di farlo per esigenze di
chiarezza.
È probabilmente inutile
pensare a confini di spazio e
di tempo come se si trattasse
di due fenomeni distinti.
Conviene piuttosto istituire il
concetto di «confine
spaziotemporale » per
significare il (mutevole)
spazio fisico entro il quale si
svolge la storia naturale (o lo
sviluppo storico) di un dato
insieme di attività
economiche; entro il quale, in
altre parole, quello spazio ha
origine, cresce, si disintegra o
si trasforma.
Come è possibile
individuare tali confini
spazio-temporali? Il termine
'confine’ implica,
necessariamente, una
distinzione fra l’interno e
l’esterno. Una distinzione
che può essere logicamente
precisata sia ricorrendo ai
caratteri della stessa linea di
confine (una catena montuosa
difficile da attraversare, una
storica catastrofe come la
Morte Nera) sia precisando la
coesione e l’estensione delle
attività economiche,
all’interno di un piu vasto
contesto, in modo da scorgere
i loro limiti e giungere così a
individuare la linea di confine
che divide l’interno
dall’esterno.
Preferire il primo tipo di
approccio, cioè ricorrere ai
caratteri della linea di confine
per definire il confine stesso,
significa assumere (anziché
dimostrare) che tali
caratteri bastino da soli a
tener racchiuse le attività
economiche entro i confini. In
tal modo si finisce per
presumere che questi ultimi
influenzino le attività interne
in modi completamente
diversi da quelli con cui
influenzano le attività esterne.
Una presunzione difficile da
sostenere. Appare perciò più
logico partire da un insieme
di attività collegate fra loro e
risalire, empiricamente, ai
loro confini.
Parlando di attività
economiche ci si riferisce
normalmente alla produzione,
alla distribuzione e al
consumo di beni. Per
cominciare con la produzione
ci si può chiedere che genere
di relazioni esista fra la
molteplicità dei processi
produttivi. La risposta è che
esistono relazioni di
dipendenza che possono
assumere la forma di uno
stretto rapporto di
input/output all’interno del
sistema produttivo, ovvero di
rapporti dello stesso genere,
ma meno vincolanti. Nel
primo caso un processo
produttivo produrrà un
articolo (output) che sarà
utilizzato (o «consumato») da
un altro processo produttivo
(input). Nel secondo caso un
processo produttivo fornirà
un prodotto (output) che verrà
utilizzato (o «consumato»)
dai lavoratori di un altro
processo produttivo come
mezzo di sussistenza (e di
riproduzione della forza-
lavoro). In ogni caso, che il
vincolo sia rigido oppure
elastico, resta il fatto che vi è
un rapporto di dipendenza,
quindi che la relazione non è
affatto casuale, ma strutturale.
E il rapporto di dipendenza è
una categoria spazio-
temporale: eventuali difetti
dell’offerta di breve periodo
non significano
necessariamente l’assenza di
interdipendenze strutturali e
neppure che si traducano in
un’alterazione dei flussi
dell’offerta.
I confini spazio-temporali
di un’economia
corrispondono quindi ai limiti
(rilevabili empiricamente) di
un reticolo di processi
produttivi piu o meno
strettamente interdipendenti.
Tale complesso di attività
sarà necessariamente
caratterizzato da una
particolare divisione del
lavoro sociale che si può
definire come «una divisione
del lavoro» oppure come
«un’economia sociale». Il
problema che si pone
immediatamente a chi
definisca un’economia
sociale come quella operante
all’interno di determinati
confini spazio-temporali è
come questi confini si
colleghino e interagiscano
con quelli definiti da altre
dimensioni sociali, in
particolare dalla dimensione
politico-legale e da
quella culturale. Prima di
entrare nel merito di tale
questione è bene però
affrontare il secondo degli
interrogativi presentati in
precedenza: quali sono i
caratteri qualitativi che
permettono di distinguere
un’economia da un’altra?
Una distinzione classica è
quella fra articoli prodotti
come valori d’uso e articoli
prodotti come valori di
scambio, o come valori
prevalentemente d’uso o
prevalentemente di scambio.
Si tratta però di una
distinzione molto meno ovvia
di quanto non appaia a prima
vista. In primo luogo, i valori
d’uso sono fenomeni
socialmente determinati, e
le determinanti sociali
possono modificarsi, e
normalmente si modificano,
pur restando all’interno di
una stessa economia, a
seconda del posto occupato
dai partecipanti nella struttura
gerarchica o di classe. Inoltre,
la produzione per lo scambio
può benissimo essere
produzione per lo scambio di
valori d’uso. Al contrario, la
produzione di alcuni valori
d’uso può, in determinate
circostanze, ottimizzare un
processo di accumulazione
perseguito attraverso lo
scambio.
Volendo evitare di entrare
nel merito delle psicologie
sociali dei gruppi di
produttori, è necessario
andare alla ricerca di criteri
che derivino dai risultati e,
perciò, dalle condizioni dei
processi produttivi esistenti.
Tali criteri normalmente
includono le dimensioni
spazio-temporali del surplus
prodotto e utilizzato, nonché
il grado di centralizzazione
del controllo relativo alla sua
produzione e utilizzazione.
Una produzione, per
quanto semplice, implica
dimensioni spazio-temporali
più estese di quelle dell’atto
in sé. Sempre, e in ogni caso,
nel produrre si usano qui e
ora oggetti prodotti prima e
altrove, e i risultati produttivi
non vengono utilizzati
contestualmente, ma altrove e
piu tardi. In ciò consistono i
rapporti di dipendenza
strutturale interni a
un’economia sociale. In tal
modo ogni attività produttiva
genera determinate eccedenze
o «surplus» che nel loro
insieme compongono - in
forme specifiche diverse
a seconda delle caratteristiche
del sistema - il surplus sociale
dell’economia sociale, una
parte del quale non viene
impiegata semplicemente per
compensare il precedente
dispendio di energie umane:
di essa ci si appropria e si fa
uso in altro modo.
Di fatto, tale surplus
sociale è considerevole,
anche nel caso di popolazioni
che vivano di caccia e di
raccolta. Difficilmente le
dimensioni di tali surplus si
possono calcolare, senza
perdita di significato, per
mezzo di unità di misura che
si riferiscano a meno di un
anno oppure a meno di
qualche centinaio di acri.
Parimenti, non è
funzionalmente concepibile
che raggruppamenti umani
presentino un grado di
specializzazione nullo o vi sia
un’assoluta uguaglianza nei
consumi (in opposizione a
un’uguaglianza dei consumi
necessari). Tutto ciò per
sottolineare come anche nel
caso estremo di ipotetiche
unità sociali che formino
veri e propri minisistemi vi
siano divisione del lavoro,
ossia economia sociale, e
relazioni di scambio (anche
se solo di reciprocità) .
La conoscenza sociale di
tali minisistemi è accidentale
e ipotetica, dal momento che
essi si palesano
storicamente solo quando
abbiano cessato di esistere
come sistemi sociali
autonomi. Fu infatti possibile
«osservarli» solo dopo che
furono incorporati in più vasti
sistemi sociali, nel momento
in cui conservarono solo il
guscio esteriore del
loro precedente modo di
esistenza. In analogia con il
principio di indeterminazione
di Heisenberg si deve perciò
notare che, per tali
minisistemi, lo stesso
processo di osservazione
presuppone un’anteriore
trasformazione radicale del
sistema osservato.
È noto, comunque, che in
essi vi era una
specializzazione dei compitti,
che vi erano disuguaglianze
nei consumi e surplus sociali.
Si può inoltre ipotizzare che,
dal momento che il surplus
era prodotto e consumato
entro ristretti margini di
spazio e di tempo, quanto li
distingueva dai più vasti
sistemi era la trasparenza del
processo di formazione dei
modelli di appropriazione e di
utilizzazione del surplus, e
che eventuali ritardi nei
consumi o alterazioni nell'
allocazione delle risorse
dovevano essere chiaramente
collegati a difficoltà insorte
nel processo produttivo. In tal
caso le circostanze politiche
erano tali che il surplus
prodotto di volta in volta
poteva consentire resistenza,
al massimo, di lievi scarti. Se
il caso o l'abilità portavano a
un significativo incremento
del surplus, il minisistema
poteva provvedere a
suddividerlo (riducendo così
il surplus del singolo), oppure
utilizzarlo per la creazione di
una gerarchia sociale più
complessa.
Di fatto, si ha conoscenza
diretta soltanto dei più vasti
sistemi (divisioni del lavoro)
che si potrebbero denominare
«sistemi mondo» (world-
systems), dove il termine
'mondo' indica ogni divisione
del lavoro comprensiva di
un’eterogeneità di gruppi
sociali discriminatili sia
verticalmente (culturalmente,
etnicamente, per nazionalità),
sia orizzontalmente (in
termini di classi sociali). Tali
sistemi mondo furono di due
tipi: alcuni sono stati
organizzati all’interno di un
unico sistema politico (un
imperium) dove
gerarchia militare e sociale
spesso coincidevano. In tal
caso la gerarchia poteva
continuare a sopravvivere
solo grazie alla continua
estrazione di un’eccedenza
raccolta nella forma di
una specie di sistema di
tributi imposti ai produttori
diretti, raggiungibili
nell’ambito dell’autorità
proclamata (confini spaziali)
di questo impero come
«mondo».
Il surplus indispensabile
al mantenimento di tale
gerarchia era naturalmente
assai più cospicuo di quello
necessario o possibile per un
minisistema. Ciò nondimeno
la dimensione del surplus
aveva certi, definiti, limiti
sociali indipendenti da quelli
eventualmente derivanti dal
numero dei produttori o dalle
condizioni della tecnologia.
Tali limiti erano dettati dai
bisogni di coloro che si
trovavano ai vertici della
gerarchia, a loro volta
commisurati alle esigenze
della conservazione del
potere. Se i ceti
dominanti avevano bisogno di
un surplus sufficiente a
ricompensare adeguatamente
i sostenitori e i funzionari che
con la loro opera ne
garantivano il potere, si
trattava pur sempre di un
fabbisogno relativamente
fisso. L’abituale
accaparramento di un surplus
eccedente l’ammontare
socialmente necessario non
favoriva certo la
conservazione del
predominio. I tributi
dovevano essere convogliati
verso il vertice della piramide
per essere poi ridistribuiti; nel
loro cammino verso l’alto
essi subivano diversi passaggi
di mano. Una delle principali
preoccupazioni dei ceti
dominanti degli imperi
mondo fu sempre quella di
assicurarsi la lealtà dei
funzionari addetti all’esazione
dei tributi. Ogni volta che
il frutto dell’imposizione
fiscale si concentrava nelle
loro mani sorgeva infatti il
pericolo della loro disonestà.
Incrementare il drenaggio di
surplus significava ingrossare
i depositi di ricchezza nei
punti di raccolta, in misura
progressivamente più elevata
a mano a mano che ci si
avvicinava al centro;
ricchezza che avrebbe potuto
fornire i mezzi per alimentare
un’eventuale ribellione. In
più, un sovraccarico di tributi
avrebbe portato anche alla
ribellione dei produttori
diretti.
Limitare il drenaggio di
surplus era quindi una
necessità politica per i ceti
dominanti, una volta
raggiunto il livello più
conveniente. Gli interessi dei
ceti dominanti (timorosi di
rivolte) e quelli dei produttori
(desiderosi di limitare l'
ammontare del tributo)
venivano così a coincidere
nel determinare una
resistenza strutturale a
progressi tecnologici di
qualche significato. Ciò non
vuol dire che non si
producessero circostanze
nelle quali i ceti dominanti,
specie agli inizi
dell’espansione imperiale,
potessero trarre profitto
dall’avanzamento
tecnologico; significa solo
che un illimitato sviluppo
tecnologico era politicamente
improbabile negli imperi
mondo.
Il modo di produrre
descritto, che potrebbe
chiamarsi «ridistributivo-
tributario», è in netto
contrasto con un modo
«accumulativo-capitalistico».
Nei sistemi mondo che non
avevano una struttura politica
centrale e che,
perciò, distribuivano il potere
militare in senso verticale
(anche se in maniera
sproporzionata), simili
costrizioni di natura politica
esercitate sull’accumulazione
non operavano dovunque, su
tutta l’estensione dei confini
spazio-temporali
dell’economia sociale. I
confini di quelle che
potrebbero chiamarsi
economie mondo erano molto
più estesi di quelli
di qualunque altra loro unità
politica; perciò contenimenti
della produzione di surplus
nell’ambito di una data unità
potevano essere eliminati
(come di fatto accadde)
mediante l’espansione della
produzione di eccedenze
all’interno di altre unità
politiche della medesima
economia mondo.
Tale sistema creava un
modo di produrre
caratterizzato da un’endemica
concorrenza. Chi produceva a
costi più bassi era
avvantaggiato; tale vantaggio
poteva poi tradursi
nell’eliminazione dei
produttori che non
finalizzavano la loro attività
all’espansione
dell’accumulazione. Lungi
dall’impedire l’espansione
del surplus, quel modo di
produrre era orientato,
strutturalmente, nel senso di
rimuovere gli ostacoli che si
frapponevano al processo di
produzione del surplus e al
processo di accumulazione.
Tale processo, tuttavia, che
trovava in sé i germi per la
sua espansione, dipendeva
dall’ininterrotta assenza di
una gerarchia politica
totalizzante, che avesse
l’interesse, e il potere, di
limitare la produzione del
surplus.
Si è ora in grado di
ritornare alla questione posta
all’inizio: che cos’è
un’economia e dove si
colloca? È una particolare
divisione del lavoro,
interdipendente in termini
sociali, che occupa uno
spazio-tempo determinato (e
in divenire), avente una delle
tre seguenti forme storiche (o
modi di produrre): 1)
minisistemi, con scambi di
reciprocità, una condotta
politica fondata sul lignaggio,
e una produzione di
eccedenze ridotta al minimo;
2) imperi mondo, con
meccanismi ridistributivi-
tributari, una condotta
politica imperiale e una
produzione di eccedenze
cospicua ma socialmente
limitata e controllata; 3)
economie mondo, con
meccanismi capitalistico-
accumulativi, senza una
struttura politica centrale, e
una produzione di eccedenze
unicamente limitata da
conflitti di classe con livelli
produttivi e capacità tecniche
comunque in continua
espansione.
Volendo collocare
temporalmente queste forme
storiche si può affermare che
i cosiddetti «sistemi mondo»
comparvero in concomitanza
con la rivoluzione neolitica;
prima di allora si pensa
comunemente che esistessero
solo dei minisistemi. Fu
proprio la scoperta
dell’agricoltura che
rese possibili (e necessarie)
nuove strutture economiche
di spazio-tempo. Sia gli
imperi mondo sia le
economie mondo videro la
luce in diverse parti della
Terra e, come videro la luce,
così pure perirono.
Nel lungo arco di tempo
che va da qualche migliaio di
anni a.C. fin verso il 1500
d.C., la storia del pianeta è
stata quella della difficile
coesistenza di questi tre modi
di organizzare lo spazio-
tempo economico. Passando
in rassegna la dinamica
interna di ognuna di queste
forme si possono scoprire i
modelli della loro interazione
nella storia.
I minisistemi, essendo di
limitate dimensioni e
richiedendo alla natura assai
poco per sopravvivere (è
questa la ragione per cui si è
fatto spesso ricorso
all’espressione 'economie di
sussistenza’ per descriverli),
nascevano e morivano con
grande facilità; in vario modo
essi furono le autentiche
effemeridi dell’uomo storico.
Anche quando non correvano
il rischio di venir inglobati
dai più potenti
sistemi mondo,
presumibilmente la loro
esistenza era di breve durata.
Osservazioni (per quanto
oblique) dell’attività
degli pseudo minisistemi del
xix e del xx secolo, compiute
da chi scrive, indicano una
probabilità di vita media dei
medesimi intorno alle sei
generazioni. La dissoluzione
interveniva a causa della loro
stessa crescita (condizioni
troppo favorevoli), di crisi
ecologiche (condizioni troppo
sfavorevoli), della loro
incorporazione (la prossimità
di un sistema mondo in
espansione). Una situazione
di equilibrio deve essere stata
decisamente inusuale. D’altra
parte, ciò che li rendeva
deboli come individui li
rafforzava come
specie. Impiantare un
minisistema non era difficile
e i processi di dissoluzione
dei grandi sistemi
obbligavano i piccoli gruppi a
riorganizzarsi in minisistemi.
Poiché, come, si vedrà, tale
dissoluzione non era.
infrequente, la rinascita dei
minisistemi non lo era da
meno. Poiché, inoltre, tali
minisistemi avevano confini
spazio-temporali di
dimensioni minime (da cui il
nome), se ne sono avuti
probabilmente più di un
milione nel corso della storia.
In condizioni favorevoli,
minisistemi confinanti fra
loro diedero certamente
luogo, e non raramente, a
economie mondo. La loro
esistenza è documentata
storicamente soprattutto dalle
testimonianze del passato
relative agli interscambi
commerciali, a lungo raggio,
condotti dalle comunità di
mercanti. È però
probabilmente vero che il
genere di fonti pervenute fino
a noi fa attribuire al capitale
mercantile un’importanza
superiore a quella
effettivamente avuta.
Le economie mondo
utilizzarono, nella loro
espansione geografica (da cui
la loro maggior perspicuità
storica), vie d’acqua che
rendevano più facili i
trasporti (oceani,
mari, fiumi). In un periodo
per il quale si ha scarsa
documentazione, si sa che
nacquero e rinacquero vaste
economie mondo - soprattutto
dopo il 500 a.C. circa -
intorno alle estese superfici
d’acqua costituite dal
Mediterraneo, dal Golfo
Persico, dall’Oceano Indiano
e dal mar della Cina.
L’assenza (per definizione) di
strutture politiche
centralizzate comporta che le
informazioni sui loro confini
spaziotemporali siano molto
carenti: scoprire
testimonianze che si
succedono nel tempo a
distanza di duecento o
trecento anni può essere
segno non di continuità bensì
di frequenti rinascite. Sulla
base di alcune circostanze è
possibile dedurre che simili
economie mondo (anche le
più estese, per non parlare
delle più modeste per le quali
non esiste alcuna vera
documentazione) erano
altrettanto fragili quanto i
minisistemi.
Simile fragilità sembra
plausibile. Da un lato, la
mancanza di un’autorità
politica centrale significava
che, al sopravvenire di una
qualsiasi avversità ecologica,
il sistema poteva crollare per
il ritiro di alcuni territori dal
processo di interazione.
D’altro canto il persistere di
condizioni favorevoli che
sollecitassero la fortuna
economica dei sistemi
costituiva- un invito ai
conquistatori dall’interno
(una singola unità politica che
si espandeva fino ad assorbire
il tutto) o dall’esterno
(incorporazione da parte di un
impero in espansione). In
ogni caso, l’economia mondo
cessava di esistere e si
trasformava, o si incorporava,
in un impero mondo. Sotto
l’urto di tali pressioni, è assai
dubbio che la loro durata
media potesse superare il
numero di sei generazioni già
indicato a proposito dei
minisistemi.
Da quanto è stato detto
emerge chiaramente che i
sistemi di gran lunga più
solidi sul piano organizzativo
(nel periodo che va dalla
rivoluzione neolitica al 1500
d.C.) furono gli imperi
mondo.. Di fatto la storia
mondiale, così come è scritta
per questo periodo, è quasi
esclusivamente la storia degli
imperi mondo e non solo
perché essi furono i sistemi
piu forti ma anche perché
essi, più degli altri,
registravano la cronaca dei
loro eventi. Il segreto del
controllo sociale stava nella
creazione di una burocrazia
eminentemente militare. Se la
vastità delle frontiere spazio-
temporali degli imperi era
diversa a seconda delle
caratteristiche del terreno e
delle relative tecniche, era
comunque evidente che poche
organizzazioni potevano
resistere alla spada
dell’imperatore (o a quella
dell’imperatore putativo). Per
quanto gli imperi mondo
siano stati i sistemi
organizzativi più potenti e più
duraturi della storia, essi non
riuscirono mai ad eliminare
definitivamente le forme
rivali; questo perché ogni
impero mondo, da noi
conosciuto, prima o poi si
dissolveva. I suoi punti deboli
stavano al suo interno, ed
erano strutturali, derivando
essi dalle contraddizioni
del modo di produrre.
Gli imperi mondo
tendevano a espandersi per
almeno tre ragioni: ai loro
confini vivevano popoli
effettivamente o
potenzialmente nemici, e
l’offesa costituiva spesso la
miglior difesa; in secondo
luogo, più gli imperi mondo
erano vasti, più frequenti
erano le decisioni di
espansione prese de facto
dalla gerarchia militare
periferica: espandersi
militarmente era nel suo
interesse anche se questo non
coincideva con gli interessi
del centro dell’impero. Infine
vi erano, sempre partiti in
conflitto al fine di assumere il
controllo del potere centrale,
e spesso il modo più sicuro
per garantire alla fazione o al
suo capo la fedeltà dei
quadri militari era impegnarli
in guerre espansionistiche. -
L’espansione tuttavia non
poteva superare certi limiti. A
mano a mano che l’impero
mondo si allargava
crescevano i costi logistici,
che si potevano sostenere
aumentando la pressione
fiscale. Ma anche così i costi
connessi all’occupazione di
nuovi territori potevano, a un
certo punto, eccedere
l’ulteriore capacità
contributiva (del centro o
dei margini dell’impero, non
ha importanza) utilizzabile.
Per di più, l’incremento dei
tributi alimentava il flusso di
ricchezza che scorreva lungo
la macchina burocratica a un
livello tale da stimolare la
predisposizione dei satrapi
locali alla ribellione o alla
secessione. L’effetto
combinato di tali ribellioni e
dell’alto tasso di sfruttamento
all’interno dell’impero (con il
relativo malcontento e la
relativa rovina ecologica)
innescava un ciclo di guerre
intestine che portavano,
cumulativamente, a un
processo di disintegrazione.
Queste le ragioni per cui
gli imperi funzionavano in
modo ciclico: a un periodo di
espansione seguiva sempre un
periodo di contrazione della
potenza e dell’estensione
territoriale. Dopo il periodo di
contrazione il ciclo
espansivo poteva rinnovarsi
grazie alla guida di nuovi
gruppi. Di tal genere sembra
essere stato il modello seguito
dalle cosiddette grandi
«civiltà», la cui continuità è
piu che altro un artificio
ideologico di chi l’ha
riscontrata. A ogni sua
contrazione l’impero mondo
abbandonava estesi territori
sui quali potevano rifiorire
minisistemi oppure economie
mondo. La storia di tali
territori non è altro che la
storia dell’alterno movimento
degli imperi mondo diretto
prima all’inglobamento e poi
all’abbandono di tali aree,
nelle quali agli altri sistemi si
succedevano così i sistemi
tributario-ridistributivi.
Il motivo per cui questo
complesso modello storico
non si è perpetuato
indefinitamente, ma è stato
sostituito da un altro verso il
1500 d.C., costituisce uno dei
maggiori interrogativi della
scienza sociale
contemporanea. Un problema
che, a seconda del punto di
vista, è stato visto
come transizione dal
feudalesimo al capitalismo o
come avvento della moderna
razionalità. Senza entrare nel
merito dei motivi che hanno
portato a tale mutamento, ci
si limiterà a descriverne le
caratteristiche essenziali.
L’economia mondo
dell’Europa del xvi secolo fu
diversa da ogni altra
precedente, per il semplice
fatto che essa sopravvisse.
Non si disintegrò e neppure si
ricostituì in impero mondo
(sebbene Carlo V abbia fatto
un valoroso tentativo in tal
senso), e non fu nemmeno
incorporata da un impero
mondo finitimo (nonostante
l’impero ottomano
sia arrivato fino alle porte di
Vienna). Al contrario, si
consolidò prog