Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
tempi di insistita
esaltazione delle virtu
«spontanee» del mercato e di
reiterate esortazioni a
liberare lo sviluppo delle
società capitalistiche da ogni
forma di «vincolo» che ne
impedisca la piena
espansione, può forse
sembrare estraneo allo
spirito dell’epoca, o persino
stravagante, sostenere che il
capitalismo è un sistema
storico, e cioè dotato, come
tutti gli oggetti storici, di un
percorso nel tempo e nello
spazio, di una vita che lo ha
portato a nascere, svilupparsi
e modificarsi, e che lo
porterà verosimilmente — in
una qualche forma, in un
qualche momento — anche a
morire, cioè ad essere
sostituito da
qualcos’altro che lo seguirà.
Questo di Immanuel
Wallerstein è davvero un
libro controcorrente, e non
soltanto perché unisce in
modo esplicito e senza
infingimenti l’analisi dello
storico a una forte tensione
morale. L’autore
ripercorre la storia di questo
universo spazio-temporale, di
questo «sistema-mondo» che
è stato ed è il capitalismo,
considerando anche le
ingenuità e gli errori di
coloro che hanno cercato di
analizzare il sistema con
atteggiamento critico.
Ai caratteri distintivi di
questa economia-mondo, che
ne hanno segnato la lunga
storia, dal secolo XVI fino a
oggi — la mercificazione
generalizzata, la crescente
ma non univoca
proletarizzazione del lavoro,
la sempre maggiore
unificazione dei mercati, la
costituzione di una rigorosa
gerarchia degli spazi
economici — si
accompagnano i
tratti politiche ideologici del
sistema: l’articolazione delle
etnie, delle nazionalità e degli
stati; la dinamica delle lotte
politiche e sociali, a
base classista o infra-
capitalistica; la nascita e lo
sviluppo dei
movimenti antisistemici, nella
duplice versione socialista e
nazionalistica; la crescita e
la funzione dei grandi
aggregati di sostegno
ideologico, dal zismo,
all’universalismo, al mito del
progresso.
Sostenuto da un
vastissimo retroterra di
conoscenze analitiche,
l’autore va accumulando nei
suoi lavori sul Sistema
mondiale della economia
moderna, il ragionamento è
qui sviluppato su un
registro di estrema sintesi. Lo
stesso linguaggio, di una
densità voluta e
ricercata testimonia lo sforzo
di abbracciare con un unico
sguardo una realtà storica
così multiforme e complessa.
Ocr e conversione a
cura di Natjus
Ladri di Biblioteche
Nuovo Politecnico 146
Collezione diretta da
Giulio Bollati
Titolo originale Historical
Capitalism
© 1983 Immanuel
Wallerstein
Copyright © 1985 Giulio
Einaudi editore s.p. a., Torino
ISBN 88-06-58677-7
Immanuel Wallerstein
IL CAPITALISMO
STORICO
Indice
Introduzione dell'autore
Nota del traduttore
Il capitalismo storico
I. La mercificazione di
ogni cosa: la produzione di
capitale
1. Mercati e capitali
2. Il regno dell'
accumulazione
3. La proletarizzazione
4. Mercati e
integrazione
5. Polarizzazione e
scambio ineguale
6. Concorrenza e
instabilità
II. La politica
dell’accumulazione: la lotta
per i benefici
1. Dalla sovranità
statale alle politiche
commerciali
2. Il diritto del lavoro
3. Imposizione fiscale e
spese statali
4. Economia-mondo e
stati-nazione
5. La lotta tra le classi e
le sue svolte
6. Le lotte tra capitalisti
7. I movimenti
antisistemici
III. La verità come oppio:
razionalità e
razionalizzazione
1. La differenziazione
etnica della forza-lavoro
2. Universalismo e
modernità
3. L'ambivalenza dei
movimenti antisistemici
4. La crisi del sistema
storico
IV. Conclusione:
progresso e transizioni
1. Mito e realtà del
progresso
2. Capitalismo e
socialismo
Appendice. II concetto di
«spazio economico»
Introduzione dell’autore
Molto è stato scritto sul
capitalismo, da parte di
marxisti e di altri nella
sinistra politica, ma la
maggior parte di questi libri
ha sofferto di qualche difetto.
A un primo
tipo appartengono le analisi
essenzialmente logico-
deduttive, che partono dalla
definizione di ciò che si pensa
il capitalismo sia nella sua
essenza, e guardano poi al
grado del suo sviluppo nei
vari luoghi e tempi. Un
secondo tipo si concentra
sulle trasformazioni,
presupposte di grande portata,
del sistema capitalistico in un
torno di tempo recente,
rispetto al quale il lasso di
tempo precedente funziona
come un contraltare
mitologizzato contro cui
descrivere la realtà empirica
del presente.
Il compito che mi sembra
urgente, e a cui ho dedicato in
un certo senso l'intero mio
lavoro piu recente, è di
vedere il capitalismo come un
sistema storico, nella sua
storia complessiva e nella sua
concreta realtà unitaria. Mi
pongo perciò lo scopo di
descrivere questa realtà, e di
delineare in modo esatto ciò
che in essa è continuamente
cambiato e ciò che non è
cambiato per nulla, cosicché
noi possiamo connotarla nel
complesso con un nome solo.
Credo, come molti altri,
che questa realtà sia un tutto
integrato. Ma molti di coloro
che sostengono questa tesi la
motivano sotto forma di un
attacco al supposto
«economicismo» di altre
posizioni, o al loro
«idealismo» culturale, o alla
eccessiva accentuazione dei
fattori politici, «volontaristici
». Queste critiche, in gran
parte per la loro stessa natura,
tendono a cadere nel peccato
opposto a quello che stanno
denunciando. Ho cercato
perciò di presentare nel modo
piu semplice e comprensibile
la realtà integrata nel suo
complesso, analizzando
successivamente la sua
espressione nei campi
economico, politico e
ideologico-culturale.
Mi sia concesso, infine, di
dire una parola su Karl Marx.
Egli è stato una figura
monumentale nella storia
intellettuale e politica
contemporanea. Ci ha lasciato
una grande eredità, che è
concettualmente ricca e
moralmente ispirata. Tuttavia,
laddove sostiene di non
essere, lui, un marxista,
dovremmo prenderlo più sul
serio, senza scrollarci
di dosso questa affermazione
come se si trattasse di un
bon mot.
Egli sapeva, a differenza
di molti di quelli che si sono
spesso autoproclamati suoi
discépoli, di essere un uomo
del secolo xix, la cui visione
era inevitabilmente
circoscritta da quella realtà
sociale. Sapeva, a differenza
di molti, che una
formulazione teorica è
comprensibile e utilizzabile
solo in rapporto alla
formulazione alternativa che
essa sta esplicitamente o
implicitamente attaccando,
mentre è del tutto irrilevante
rispetto a formulazioni che
riguardano altri problemi o
che si basano su altre
premesse. Sapeva, a
differenza di molti, che vi era
una tensione, nella
presentazione del suo lavoro,
tra la descrizione del
capitalismo come un sistema
perfetto (mai esistito nei fatti
storicamente) e l'analisi della
concreta realtà quotidiana del
mondo capitalistico.
Adoperiamo dunque i suoi
scritti nell’unica maniera
ragionevole - consideriamolo
un compagno di lotta, che ne
sapeva quanto lui ne ha
saputo.
Nota del traduttore
Nella traduzione dei
numerosi termini specifici, e
spesso di nuovo conio, che
connotano l’analisi di
Wallerstein ci si è attenuti al
criterio della massima
aderenza all’originale, anche
a costo di usare spesso
neologismi e di sacrificare
qui e là la scorrevolezza
stilistica, nell’intento di
conservare e restituire le
particolarità del
linguaggio dell’autore.
In particolare, non solo
world-economy è stato
tradotto con «economia-
mondo», ma anche world-
system è stato reso con
«sistemamondo» e world-
empire con «impero-mondo».
La parola commodification è
stata resa con
«mercificazione», anche se il
termine in Wallerstein
aggiunge qualcosa al
significato acquisito nella
tradizione marxista, nel senso
della sottolineatura dei
processi di mercato.
Anche per l’espressione
commodity chains si è
preferito il corrispettivo
letterale «catene di merci»,
che rende bene l’idea, a patto
di considerare che i legami
interni a simili catene sono,
per Wallerstein, molteplici, e
configurano piuttosto un
reticolo che non una catena
lineare. Il termine household,
di ciò non esiste un preciso
corrispettivo italiano, è stato
tradotto con l’espressione
«aggregato domestico».
Questi ed altri problemi di
traduzione sono stati discussi
con l’autore, con cui si è pure
concordato di aggiungere in
appendice a questa edizione
italiana la voce Spazio
economico, che Wallerstein
ha scritto per l'Enciclopedia
'Einaudi, e che costituisce un
utile riferimento per aver
presente la concezione
generale dei sistemi-mondo in
cui l’autore situa la sua
analisi del capitalismo
storico.
IL CAPITALISMO
STORICO
I.
La mercificazione di
ogni cosa: la
produzione di capitale
Il capitalismo è prima di
tutto e essenzialmente un
sistema sociale storicamente
determinato. Per comprendere
le sue origini, i suoi sviluppi,
le sue prospettive attuali,
dobbiamo guardare alla sua
realtà vivente. Possiamo
naturalmente cercare di
riassumere questa realtà in un
certo numero di definizioni
astratte, ma sarebbe stupido
poi adoperare
vicendevolmente simili
astrazioni per giudicare
e classificare la realtà.
Propongo perciò di provare,
al contrario, a descrivere ciò
che il capitalismo è
effettivamente stato nella
pratica, in che modo esso ha
funzionato come un sistema,
perché si è sviluppato nella
maniera in cui si è sviluppato,
e dove si sta dirigendo
adesso.
La parola capitalismo
deriva da capitale. Sembra
dunque legittimo supporre
che il capitale sia un elemento
chiave del capitalismo. Ma
che cos’è il capitale? In una
certa accezione, è soltanto
ricchezza accumulata. Ma
quando è adoperato nel
contesto del capitalismo
storico, il termine ha un
significato piu specifico. Esso
non si riferisce soltanto al
complesso dei beni
consumabili, o del
macchinario, o dei diritti
acquisiti sulle cose materiali
sotto la forma del denaro. Il
capitale, nel capitalismo
storico, continua
naturalménte a riguardare
quelle accumulazioni
prodotte dagli sforzi del
lavoro passato che non sono
state ancora spese, ma se
questo fosse tutto, allora ogni
sistema storico, via via fino a
quello dell’uomo di
Neanderthal, potrebbe
essere definito capitalistico,
dal momento che ciascuno di
essi ha avuto in qualche modo
simili quantità accumulate
che incarnavano il lavoro
passato.
Ciò che distingue il
sistema storico -sociale che
stiamo chiamando
capitalismo storico, è che in:
questo sistema storico il
capitale ha cominciato ad
essere investito in un
modo molto particolare: ha
cominciato ad essere
adoperato con l’obiettivo e
l’intento primario della sua
autoespansione. In questo
sistema, le accumulazioni
precedenti erano «capitale»
solo nella misura in. cui erano
adoperate per accumulare
altro capitale. Il processo era
senza dubbio complesso,
persino tortuoso, come
vedremo. Ma è questo
fine, implacabile e
curiosamente autocentrato,
del possessore di capitale -
l’accumulazione di un
capitale ancora maggiore -,
insieme con le relazioni che
questo detentore di capitale
ha dovuto stabilire con altre
persone allo scopo
di raggiungere il suo
obiettivo, che noi definiamo
capitalistico. Certo, questo
fine non è stato l’unico; altre
considerazioni si sono
intromesse nel processo di
produzione. Tuttavia la
questione è: quali
considerazioni hanno teso a
prevalere in caso di conflitto?
Tutte le volte che, nel corso
del tempo, è stata
l’accumulazione del capitale
a prendere sistematicamente
il sopravvento sugli obiettivi
alternativi, siamo autorizzati a
dire che stiamo osservando
un sistema capitalistico in
azione.
Naturalmente, anche in un
qualunque periodo precedente
è stato possibile che un
individuo o un gruppo di
individui decidesse di
investire capitale con
l’obiettivo di acquisire un
capitale ancora maggiore.
Ma, prima di un determinato
momento storico, non è stato
per nulla facile, per questi
individui, riuscire nel loro
intento. Nei sistemi
precedenti, il lungo e
complicato processo di
accumulazione del capitale
era quasi sempre bloccato in
un punto o nell’altro, anche
nei casi in cui esistevano le
condizioni iniziali - il
possesso, o la concentrazione
nelle mani di pochi, di una
certa quantità di beni non
consumati prima.
Il nostro ipotetico
capitalista ha sempre avuto
bisogno di ottenere l’uso del
lavoro, il che voleva dire che
vi fossero persone che
potessero essere convinte o
costrette a svolgere questo
lavoro. Una volta che si
fossero trovati i lavoratori e
prodotti i beni, questi beni
dovevano essere scambiati in
qualche modo, il che
comportava l’esistenza di
un sistema di distribuzione e
di un gruppo di compratori
che disponesse del necessario
per acquistare i beni. Inoltre,
i beni dovevano essere
venduti a un prezzo che fosse
maggiore dei costi totali
sostenuti dal venditore.
Questo margine di differenza
doveva, in aggiunta, essere
maggiore di quanto al
venditore serviva per la
propria sussistenza.
Bisognava che vi fosse, per
dirla con il nostro linguaggio
moderno, un profitto. Il
possessore del profitto
doveva poi essere capace di
conservarlo fino a che non si
presentasse una ragionevole
opportunità di investirlo;
dopo di che, l'intero processo
si ripeteva ripartendo dal
punto della produzione.
1. Mercati e capitali
L’economia del
capitalismo è stata dunque
governata dall’intento
razionale di massimizzare
l’accumulazione. Ma ciò che
era razionale per gli
imprenditori non lo era
necessariamente per i
lavoratori. E, cosa ancor piu
importante, ciò che era
razionale per tutti gli
imprenditori, in quanto
gruppo collettivo, non era
necessariamente razionale per
un dato imprenditore. Non è
sufficiente quindi dire che
ciascuno perseguiva i propri
interessi. Gli interessi
personali di ciascuno spesso
lo spingevano, del tutto
«razionalmente»,
a impegnarsi in attività via
via contradditorie. Il calcolo
dell' effettivo interesse
dilungo periodo divenne
perciò estremamente
complesso, anche se si evita
di considerare il grado in cui
la percezione da parte di
ciascuno del proprio interesse
fosse offuscata e distorta dai
complessi veli ideologici che
pure esistevano, e di cui
discuteremo piu avanti. Per il
momento, sostengo in via
provvisoria che il
capitalismo storico ha
effettivamente prodotto un
homo oeconomìcus, ma
aggiungo che egli fu, quasi
inevitabilmente un po’
confuso.
Vi sono stati tuttavia dei
vincoli «oggettivi» che hanno
limitato la confusione. Se un
individuo dato
commetteva continuamente
errori di giudizio economico,
per ignoranza, per stoltezza, o
per pregiudizio ideologico,
costui (questa azienda)
tendeva a non sopravvivere
nel mercato. La bancarotta è
stata il duro fluido detergente
del sistema capitalistico, che
ha costantemente costretto
tutti gli attori economici a
tenersi piu o meno nel solco
del lungo periodo,
pressandoli ad agire in modo
tale da produrre
collettivamente una sempre
maggiore accumulazione di
capitale.
Quando perciò diciamo
che stiamo descrivendo il
capitalismo storico, stiamo
descrivendo quel concreto
luogo integrato di attività
produttive, limitato nel tempo
e nello spazio, entro il quale
l’indefinita accumulazione di
capitar le ha costituito di fatto
l'obiettivo economico o la
«legge» che ha governato o
ha prevalso nell’attività
economica fondamentale. Si
tratta di quel sistema sociale
in cui quelli che hanno
operato secondo queste regole
hanno avuto un così grande
influsso su tutto il resto, da
creare le condizioni entro le
quali gli altri sono stati
costretti o ad adeguarsi a
quei modelli, o a subirne le
conseguenze. Si tratta di quel
sistema sociale in cui il
campo d’azione di queste
regole (la legge del valore) è
cresciuto sempre piu, coloro
che queste regole hanno
imposto sono divenuti sempre
piu intransigenti, e la loro
penetrazione nella fabbrica
sociale sempre piu grande,
anche se nel frattempo
l’opposizione sociale a queste
reg;ole è divenuta sempre piu
forte e organizzata.
Nell’adottare questa
descrizione di ciò che si
intende per capitalismo
storico, ciascuno di noi può
vedere e determinare da solo
a quale concreto luogo
integrato, limitato nel tempo e
nello spazio, ciò si riferisca. Il
mio personale punto di vista è
che la nascita di questo tipo
di sistema storico si collochi
nell’Europa della fine del
secolo xv, che il sistema si sia
col tempo espanso nello
spazio fino a coprire tutto il
globo verso la fine del secolo
xix, e che ancora
oggi comprenda il mondo
intero. Capisco che una così
frettolosa determinazione dei
limiti spazio-temporali possa
suscitare parecchi dubbi in
molte menti. Questi dubbi
sono tuttavia di due tipi
differenti. Di un primo tipo
sono i dubbi empirici. Era la
Russia dentro o fuori
l'economia-mondo europea
nel secolo xvi? Quando
esattamente l’Impero
ottomano fu incorporato nel
sistema-mondo del
capitalismo? Possiamo
considerare questa o quella
zona interna di uno stato dato
in un momento determinato
come
effettivamente «integrata»
nell’economia-mondo del
capitalismo? Queste domande
sono importanti in sé, ma lo
sono anche perché nel
tentativo di rispondervi siamo
costretti a rendere piu precise
le nostre analisi dei processi
del capitalismo storico.. Ma
non è questo il momento e il
luogo per rivolgere questi
numerosi quesiti empirici,
che sono soggetti a continuo
dibattito ed elaborazione.
C’è tuttavia un secondo
tipo di dubbio, il tipo che
riguarda l’effettiva utilità
della classificazione induttiva
da me proposta. Ci sono
quelli che non accettano che
si possa dire che il
capitalismo sia mai esistito se
non quando vi sia stata una
forma specifica di relazione
sociale nel luogo del lavoro,
quella cioè di un imprenditore
privato che impiega lavoratori
salariati. Ci sono quelli che
sostengono che dal momento
in cui un determinato stato ha
nazionalizzato le sue industrie
e proclamato la propria
adesione alle dottrine
socialiste, esso cessa, per
effetto di questi atti e come
risultato delle loro
conseguenze, di far parte del
sistema-mondo capitalistico.
Non sono quesiti empirici, ma
teorici. E cercheremo di
rispondervi nel corso della
discussione. Non cercheremo
tuttavia una risposta
deduttiva, che in questo
caso sarebbe poco incisiva.
Non ci sarebbe, infatti, un
dibattito razionale, ma
soltanto uno scontro di fedi
opposte. Risponderemo in
modo euristico, sostenendo
che la nostra ché comprende
in modo piu semplice ed
elegante ciò che attualmente
insieme conosciamo della
realtà storica, e perché ci
offre un’interpretazione di
questa realtà che ci rende
capaci di agire piu
efficacemente sul presente.
Esaminiamo dunque il
modo in cui il sistema
capitalistico ha effettivamente
funzionato. Sostenere che
obiettivo dell'imprenditore è
l’accumulazione del capitale
vuol dire affermare che egli
cercherà di produrre quanto
piu può di un determinato
bene e di porlo in vendita al
piu alto margine di profitto
possibile. Egli farà ciò,
tuttavia, tenendo conto di una
serie di vincoli economici che
esistono, come si dice, «nel
mercato». La sua produzione
totale è necessariamente
limitata dalla disponibilità
(relativamente immediata) di
cose come le materie prime,
la forza-lavoro, gli acquirenti,
e l’accesso al denaro per
espandere la sua base di
investimento. La quantità che
egli può produrre con profitto
e il margine di profitto cui
può aspirare sono
anche limitati dalla capacità
dei suoi «concorrenti» di
offrire lo stesso bene a prezzi
di vendita piu bassi: non un
qualunque concorrente in un
qualunque punto del mercato
mondiale, in questo caso, ma
quelli che si trovano negli
stessi immediati, più
circoscritti, mercati locali nei
quali egli effettivamente
vende (comunque questi
mercati siano definiti nel caso
in questione). L’espansione
della sua produzione sarà
anche limitata nella misura in
cui una accresciuta
produzione creerebbe un tale
effetto di riduzione dei prezzi
nel mercato «locale», che il
profitto totale
effettivo realizzato sulla
produzione totale ne verrebbe
effettivamente ridotto.
Tutti questi sono vincoli
oggettivi, vale a dire che
esistono anche in assenza di
qualunque tipo particolare di
decisioni da parte
dell’imprenditore dato o di
altri suoi concorrenti attivi
nel mercato. Questi vincoli
sono la conseguenza della
somma degli effetti del
processo sociale complessivo,
così come esso si svolge in
quel concreto momento e in
quel determinato luogo. Vi
sono sempre, naturalmente,
altri vincoli aggiuntivi, piu
esposti alla manipolazione. I
governi possono adottare, o
avere già adottato, varie
regole che in qualche misura
trasformano le opzioni
economiche e quindi il
calcolo del profitto. Un
determinato imprenditore può
essere il beneficiario o la
vittima delle regole esistenti.
Un determinato imprenditore
può cercare di persuadere le
autorità politiche a modificare
le regole la suo favore.
3. La proletarizzazione
4. Mercati e
integrazione
5. Polarizzazione e
scambio ineguale
Inizialmente, quando
questo processo cominciò, le
differenze geografiche erano
piuttosto piccole, e il grado
di specializzazione territoriale
limitato . Entro il sistema
capitalistico, tuttavia, tutte le
differenze esistenti (fossero
dovute a ragioni ambientali o
storiche) sono state
accentuate, rafforzate e
solidificate.
L' elemento cruciale di
questo processo è stato
l'intromissione della forza
nella determinazione del
prezzo. Certo, è un fatto che
l'uso della forza da parte di
uno dei soggetti di una
transazione di mercato per
aumentare il prezzo non fosse
un'invenzione del
capitalismo.
Lo scambio ineguale è
una vecchia pratica. Ciò che è
da notare, a proposito del
capitalismo come sistema
storico, è il modo in cui
questo scambio ineguale poté
essere nascosto; nascosto in
verità così bene, che gli stessi
oppositori espliciti del
sistema hanno cominciato a
rilevarne sistematicamente l'
esistenza solo dopo
cinquecento anni dalla sua
entrata in vigore .
La chiave per nascondere
questo meccanismo
fondamentale sta nella
struttura profonda
dell''economia-mondo
capitalistica: l’apparente
separazione, nel sistema-
mondo capitalistico, della
sfera economica (una
divisione sociale del lavoro a
livello mondiale con processi
di produzione integrata, tutti
operanti per la continua
accumulazione di capitale) e
la sfera politica (che si
compone apparentemente di
stati sovrani separati,
ciascuno autonomamente
responsabile delle decisioni
politiche entro la propria
giurisdizione, e ciascuno
dotato di forze armate a
sostegno della propria
autorità). Nel mondo concreto
del capitalismo storico, quasi
tutte le catene di merci di una
qualche importanza hanno
attraversato queste frontiere
statali. Non si tratta di una
innovazione recente. Essa si è
verificata fin dai primordi del
capitalismo storico. Di piu: il
carattere trans-nazionale delle
catene di merci è stato una
realtà effettiva del mondo
capitalistico del secolo xvi
allo stesso modo con cui lo è
di quello del secolo xx.
Come ha funzionato
questo scambio ineguale?
Partendo da una qualche
differenza effettiva del
mercato, causata o dalla
(temporanea) scarsità di un
processo di produzione
complesso, o da scarsità
artificiali create manu
militari, le merci si
spostavano da una zona
all’altra in modo tale che
l’area con il bene meno
«scarso» «vendeva» il
suo bene all’altra area a un
prezzo che rappresentava un
input (costo) effettivo
superiore a quello di un bene
dello stesso prezzo che si
muovesse nella direzione
inversa. Ciò che
effettivamente accadeva era
un trasferimento da una
zona all’altra di una parte del
profitto totale (o surplus)
prodotto.
Questa, appunto, è la
relazione tra centro e
periferia. Per estensione,
possiamo perciò definire la
zona che ci perde una
«periferia» e quella che ci
guadagna un «centro». E in
effetti, questi nomi non fanno
che riflettere la
struttura geografica dei flussi
economici.
È possibile così
riconoscere senza difficoltà
molti meccanismi che
storicamente hanno
accresciuto la disparità. Tutte
le volte che si è verificata
un’«integrazione verticale» di
due qualsiasi legami
all’interno di una catena di
merci, era possibile spostare
verso il centro un segmento
ancora piu grande di surplus
totale di quanto non fosse
stato possibile fino a quel
punto. In secondo luogo, lo
spostamento di surplus verso
il centro concentrava lì
capitale e rendeva disponibili
in modo sproporzionatamente
maggiore risorse per una
ulteriore meccanizzazione, sia
nel senso di permettere agli
imprenditori delle zone
centrali di ottenere vantaggi
competitivi addizionali nei
prodotti esistenti, sia nel
senso di permettere loro di
creare sempre nuovi prodotti
«rari» con i quali rinnovare il
processo.
La concentrazione di
capitale nelle zone centrali
creava insieme la base fiscale
e la motivazione politica per
costruire macchine statali
relativamente forti, capaci, tra
le molte altre cose, di
assicurarsi che le macchine
statali delle zone periferiche
divenissero o rimanessero
relativamente piu deboli.
Si potevano così
costringere queste strutture
statali periferiche ad
accettare, persino a
promuovere, all' interno della
loro giurisdizione, una
maggiore specializzazione nei
compiti piu bassi nella scala
gerarchica delle catene di
merci, utilizzando forze-
lavoro meno remunerate e
creando (rinforzando) le
relative strutture domestiche
che permettessero a simili
forze-lavoro di sopravvivere.
È così che il capitalismo
storico ha effettivamente
creato i cosiddetti livelli
storici di salario che sono
diventati così marcatamente
differenti nelle diverse zone
del sistemamondo.
Quando sosteniamo che
questo processo è avvenuto di
nascosto, intendiamo dire che
i prezzi effettivi sembravano
sempre e soltanto il frutto di
una contrattazione interna a
un mercato mondiale sulla
base di forze
economiche impersonali.
L'enorme apparato di forza
latente (usata apertamente
solo in modo sporadico, nelle
guerre e nelle colonizzazioni)
non ha avuto bisogno di
essere invocato in ciascuna
transazione separata, per
assicurare che lo
scambio fosse ineguale.
Piuttosto, l’apparato di
forza entrava in gioco solo
quando un livello esistente di
scambio ineguale veniva
significativamente posto in
discussione. Una volta
passata la fase acuta del
conflitto politico, le classi
imprenditrici mondiali
potevano fingere che
l’economia stesse operando
sulla base di pure
considerazioni di domanda e
offerta, senza spiegare come
l'economia-mondo fosse
storicamente arrivata a quel
punto particolare di rapporto
tra domanda e offerta, e quali
strutture in termini di forza
stessero sostenendo in quel
preciso momento le
«tradizionali» differenze tra i
livelli salariali e i livelli di
effettiva qualità della vita
delle diverse forze-lavoro
mondiali.
Possiamo ora tornare al
problema del perché vi sia
potuta essere una qualche
proletarizzazione. È
opportuno richiamare la
contraddizione fondamentale
tra l' interesse individuale di
ciascun imprenditore e
l’interesse collettivo di
tutte le classi capitalistiche.
Lo scambio ineguale, per
definizione, era al servizio di
questi interessi collettivi, ma
non era per nulla al servizio
di molti interessi individuali.
Ne segue che quelli i cui
interessi non erano
immediatamente tutelati in un
qualunque momento dato
(perché essi
guadagnavano meno dei loro
concorrenti) costantemente
cercavano di alterare le cose
in loro favore. Cercavano
cioè di essere piu competitivi
o incrementando l’efficienza
collettiva, o adoperando
qualche influenza politica per
crearsi qualche nuovo
vantaggio monopolistico in
qualche mercato.
6. Concorrenza e
instabilità
La politica
dell’accumulazione: la
lotta per i benefici
L’accumulazione
incessante di capitale fine a se
stessa può sembrare a prima
vista un obiettivo socialmente
assurdo. Essa ha avuto
tuttavia i suoi difensori, che
di solito l’hanno giustificata
in relazione ai benefici sociali
di lungo periodo che si è
sostenuto ne risultassero.
Discuteremo più avanti il
grado in cui questi benefici
sociali sono reali. Del tutto
indipendentemente da
qualsiasi beneficio
collettivo, tuttavia, è chiaro
che l’accumulazione di
capitale consente nel
frattempo l’opportunità e
l’occasione di un
consumo molto maggiore da
parte di molti individui (e/o
piccoli gruppi). Se questo
maggior consumo migliori la
qualità della vita di coloro
che ne traggono beneficio, è
altra questione, e anch’essa
sarà esaminata più avanti.
La prima questione che
porremo è: chi ottiene i
benefici individuali
immediati? Sembra
ragionevole affermare che la
maggior parte della gente non
abbia atteso di
compiere valutazioni circa i
benefici di lungo termine o la
qualità della vita, individuale
e collettiva, che risultava da
questo maggior consumo, per
decidere che valeva la pena di
lottare per i benefici
individuali immediati, che
erano così facilmente
disponibili. In effetti, questo è
stato il punto focale della
lotta politica interna al
capitalismo storico. E
ciò intendiamo dire, quando
diciamo che il capitalismo
storico è una civiltà
materialistica.
In termini materiali, non
solo i vantaggi sono stati
grandi per coloro che hanno
assunto una posizione di
comando, ma le differenze
nei vantaggi materiali tra il
massimo e il minimo sono
state notevoli, e via via
crescenti
nell’intero complesso del
sistema-mondo.
Abbiamo già analizzato i
processi economici che
spiegano questa
polarizzazione nella
distribuzione dei vantaggi.
Dobbiamo ora rivolgere
l’attenzione al modo con cui
le persone hanno agito
all’interno di un siffatto
sistema economico, per
ottenere vantaggi per sé e
sottrarne così agli altri.
Dovremo anche guardare al
modo con cui coloro che sono
stati vittime di simile cattiva
distribuzione hanno agito,
anzitutto per minimizzare le
loro perdite nel
funzionamento del sistema, e
in secondo luogo per
trasformare questo sistema
che era responsabile di
ingiustizie così manifeste.
1. Dalla sovranità
statale alle politiche
commerciali.
In che modo la gente, i
gruppi di persone, hanno
condotto le loro lotte
politiche nel capitalismo
storico? La politica consiste
nel cambiare i rapporti di
potere in una direzione piu
favorevole agli interessi di
qualcuno, e nel riorientare per
conseguenza i processi
sociali. Perseguirla con
successo vuol dire trovare
leve per il cambiamento che
consentano il massimo
vantaggio con il minimo
sforzo. La struttura del
capitalismo storico è stata tale
da annoverare tra le leve più
efficaci della regolazione
politica le strutture statali, la
cui stessa costituzione fu,
come abbiamo visto,
uno degli eventi istituzionali
fondamentali del capitalismo
storico. Non è un caso,
perciò, che il controllo del
potere statale (o la sua
conquista, quando era
necessario), sia
stato l’obiettivo strategico
fondamentale di tutti i
principali attori della scena
politica, lungo l’intero arco
del capitalismo moderno.
L’importanza
fondamentale del potere
statale nei processi
economici, anche quando
parliamo di processi
economici nel senso più
stretto del termine, risulta
impressionante, solo che si
guardi attentamente al modo
con cui il sistema
effettivamente ha funzionato.
Il primo e più elementare
oggetto del potere statale è
stato la
giurisdizione territoriale. Gli
stati avevano dei confini.
Questi confini erano
giuridicamente determinati,
da un lato da leggi dettate
dallo stato stesso, dall’altro
da un riconoscimento
diplomatico da parte di altri
stati. Certo, i confini
potevano essere contestati, e
lo erano regolarmente; cioè, i
riconoscimenti giuridici
provenienti dalle due fonti (lo
stato in questione e gli altri
stati) erano in conflitto.
Queste divergenze erano
risolte, in ultima istanza, o
con la trattativa o con la forza
(e l’eventuale acquiescenza
che ne seguiva). Molte
dispute hanno continuato a
svolgersi in forma latente per
periodi assai lunghi, anche se
pochissime sono durate più di
una generazione. Ciò che è
fondamentale è la costante
presunzione ideologica, da
parte di tutti, che simili
dispute si potessero sempre
risolvere, e che alla
fine sarebbero state risolte.
Ciò che era
concettualmente inaccettabile
nel sistema-stato moderno era
un esplicito riconoscimento di
una permanente
sovrapposizione
giurisdizionale. Il concetto di
sovranità era basato sulla
legge aristotelica del
«terzo escluso».
La dottrina filosofico-
giuridica rendeva possibile
fissare la responsabilità per il
controllo dei movimenti
attraverso le frontiere, dentro
e fuori degli stati in
questione. Ciascuno stato
aveva una giurisdizione
formale sulle proprie frontiere
per ciò che riguardava il
movimento di beni, di
capitale monetario, e di
manodopera. Perciò ciascuno
stato poteva incidere fino a un
certo grado sulle modalità di
funzionamento della
divisione sociale del
lavoro dell'economia-mondo
capitalistica. Inoltre, ciascuno
stato poteva costantemente
correggere questi meccanismi
semplicemente cambiando le
regole, a seconda del flusso
dei fattori di produzione
lungo le sue frontiere.
Di solito discutiamo di
simili controlli di frontiera
contrapponendo la totale
assenza di controlli (libertà di
scambio) e la totale assenza
di liberi movimenti
(autarchia). In effetti, la
politica statale è rimasta in
pratica, quasi sempre e quasi
dappertutto, in mezzo a questi
due estremi. Inoltre, vi sono
state politiche specifiche del
tutto differenti, a seconda che
il movimento riguardasse i
beni, il capitale monetario o
la manodopera. In generale, il
movimento della manodopera
ha avuto maggiori restrizioni
di quello dei beni e dei
capitali.
Dal punto di vista di un
dato imprenditore, situato in
un punto qualunque di una
catena di merci, la libertà
di movimento era auspicabile
nella misura in cui
l’imprenditore era
economicamente competitivo
nei confronti di altri
produttori degli stessi beni
nel mercato mondiale.
Ma nella misura in cui tale
condizione non c’era, vari
vincoli di confine contro i
produttori rivali potevano
alzare i costi di questi ultimi,
e risolversi in un beneficio
per un produttore altrimenti
meno efficiente. Fino a che,
per definizione, in un mercato
in cui vi sono molteplici
produttori di un dato bene,
una maggioranza è meno
efficiente di una minoranza,
esiste in quel mercato una
pressione costante a porre
vincoli al libero movimento
delle merci lungo le frontiere.
Quando tuttavia la minoranza
più efficiente
sia relativamente ricca e
potente, si verifica una
costante controspinta ad
aprire le frontiere, o piu
specificamente
certe frontiere. Perciò la
prima grande lotta, in verità
feroce e costante nel tempo,
si è sviluppata a proposito
della politica doganale degli
stati. Inoltre, dal momento
che tutti i gruppi di produttori
(ma in particolare quelli
grandi e potenti) erano
direttamente interessati non
solo alle politiche doganali
degli stati in cui era
fisicamente situata la
loro base economica (fossero
o no questi stati quelli di cui
essi erano cittadini), ma alle
politiche doganali di molti
altri stati, tali produttori
avevano interessi politici da
perseguire contemporaneament
in un numero elevato, e
spesso elevatissimo, di stati
diversi. Il concetto per cui
bisognava restringere il
proprio interessamento
politico alle vicende
del proprio stato era del tutto
inaccettabile per coloro che
perseguivano
l’accumulazione del capitale
per i propri interessi.
Naturalmente, un modo
per intervenire sulle regole
relative alla permeabilità
delle frontiere era quello di
cambiare le frontiere
effettive, attraverso
l’annessione totale di uno
stato da parte di un altro
(unificazione,
Anschluss, colonizzazione), o
la conquista di qualche
territorio, o ancora la
secessione o la
decolonizzazione. Il fatto che
le modificazioni di frontiera
avessero conseguenze
immediate sui fattori della
divisione sociale del lavoro
nell’economiamondo è stato
tenuto in grande
considerazione da tutti quelli
che favorivano o
contrastavano i singoli
cambiamenti di frontiera. Il
fatto poi che le mobilitazioni
ideologiche attorno alla
definizione delle entità
nazionali potessero rendere
più o meno possibili certi
specifici cambiamenti
di frontiera ha dato un
immediato contenuto
economico ai movimenti
nazionalistici, in quanto sia
coloro che li appoggiavano
che quelli che li avversavano
sapevano già quali sarebbero
state le specifiche politiche
statali che sarebbero seguite
ai progettati cambiamenti di
frontiera.
Il secondo elemento del
potere statale di fondamentale
interesse per le attività del
capitalismo storico è stato il
potere legale degli stati nel
determinare regole che
governassero i rapporti sociali
di produzione entro la loro
giurisdizione territoriale. Le
moderne strutture statali si
sono arrogate questo diritto a
revocare o modificare un
qualunque insieme di rapporti
consuetudinari. In materia di
legge, gli stati non
riconoscevano alcun vincolo
al loro campo d’azione, che
non fosse autoimposto.
Anche quando
certe costituzioni statali
particolari hanno dovuto
pagare un pedaggio
psicologico a vincoli
derivanti da dottrine basate
su leggi religiose o naturali,
esse hanno riservato a un
qualche corpo
costituzionalmente definito, o
a una qualche persona, il
diritto di interpretare queste
dottrine.
2. Il diritto del lavoro.
3. Imposizione fiscale e
spese statali.
Un terzo elemento nel
potere degli stati è stato il
potere di imporre tasse. La
tassazione non è stata certo
un’invenzione del capitalismo
storico; anche le precedenti
strutture politiche usavano
l’imposizione fiscale come
fonte di entrate per le
macchine statali. Ma il
capitalismo storico trasformò
la tassazione in due sensi.
Innanzitutto, una regolare
imposizione fiscale è
divenuta la fonte principale,
anzi di gran lunga
preponderante, di entrate,
statali, di contro alle entrate
derivanti da una requisizione
irregolare ottenuta con la
forza da parte di persone
interne o esterne alla struttura
giurisdizionale formale dello
stato (ivi compresa la
requisizione da parte di altri
stati). In secondo luogo, la
tassazione è stata un
fenomeno in costante
espansione, lungo il corso
dello sviluppo storico
dell’economia-
mondo capitalistica, se
paragonata al valore totale,
creato o accumulato. Ciò ha
significato che gli stati hanno
avuto grande importanza, dal
punto di vista delle risorse da
essi controllate, non solo
perché tali risorse hanno
permesso loro di accrescere
l’accumulazione di capitale,
ma perché esse sono state
distribuite, e sono entrate
perciò, direttamente o
indirettamente, in un processo
di ulteriore accumulazione di
capitale.
Il potere di imporre tasse
ha attratto ostilità e resistenze
attorno alla struttura statale,
percepita come una sorta di
spersonificato furfante che si
appropriava del frutto
del lavoro altrui. Ciò a cui
bisogna sempre porre mente è
che vi erano forze esterne al
governo che spingevano in
direzione di particolari forme
di tassazione, o perché il
processo avrebbe prodotto
una redistribuzione
direttamente a loro favore, o
perché avrebbe permesso al
governo di creare economie
esterne che avrebbero
migliorato la loro
posizione economica, o
ancora perché avrebbe
penalizzato altri, in modo da
risultare economicamente
favorevole a quelle forze. In
breve, il potere di imporre
tasse è stata una delle vie più
immediate attraverso le quali
lo stato ha direttamente
sostenuto il processo di
accumulazione di capitale a
favore di certi gruppi
piuttosto che di certi altri.
I poteri redistributivi dello
stato sono stati trattati quasi
sempre con riferimento al
loro potenziale egualizzatore.
È questo il tema del «Welfare
state». Ma la redistribuzione è
stata usata molto più
largamente come
meccanismo per polarizzare
la distribuzione che non come
strumento per far convergere
le entrate effettive. Tre sono
stati i principali meccanismi
che hanno accresciuto la
polarizzazione delle
ricompense, ben al di là di
quella che già sarebbe
risultata dal susseguirsi delle
attività del mercato
capitalistico.
Innanzitutto i governi
sono stati in grado di
accumulare, attraverso il
processo di tassazione, grandi
quantità di capitale, che
hanno poi redistribuito a
persone o gruppi già
largamente possessori di
capitali, attraverso la
concessione di sussidi statali.
Questi sussidi hanno
assunto la forma di esplicite
erogazioni di denaro,
abitualmente col pretesto di
remunerare un servizio
pubblico (il che ha
comportato essenzialmente
un sovrapagamento rispetto al
valore di mercato dei servizi).
Ma essi hanno anche preso
una forma meno diretta, per
la quale lo stato si è accollato
i costi dello sviluppo di certi
prodotti, che potevano essere
presumibilmente
ammortizzati da successive
vendite convenienti, per poi
cedere al costo nominale
quell’attività esattamente al
momento in cui era finita la
fase costosa dello sviluppo.
In secondo luogo, i
governi sono stati in grado di
accumulare grandi quantità di
capitali attraverso canali di
tassazione, formalmente
legali o spesso resi tali, che si
sono poi rivelati altrettante
chiocce sotto cui covare una
grande quantità di sottrazioni
di fondi pubblici; sottrazioni
illegittime, ma di fatto
incontrastate. Questo furto
delle entrate pubbliche,
insieme con le corrotte
procedure di tassazione
privata ad esso connesse, ha
costituito, una delle fonti
principali dell’accumulazione
di capitale nel corso
del capitalismo storico.
Infine, i governi hanno
ridistribuito in direzione dei
ricchi utilizzando il principio
della individualizzazione: del
profitto e della
socializzazione del rischio.
Lungo tutta la storia del
sistema capitalistico, quanto
più grande è stato il rischio e
piu ampia la perdita, tanto più
è stato vero, che i governi
hanno proceduto nella
direzione di prevenire
la bancarotta e persino di
restituire le perdite, anche
solo allo scopo di evitare lo
scompiglio finanziario.
Mentre queste pratiche di
redistribuzione antiegualitaria
sono state il lato di cui il
potere statale si vergognava
(nel senso che i governi erano
in una qualche misura
imbarazzati per queste attività
e cercavano di tenerle
nascoste) la costituzione di un
capitale sociale generale da
parte dei governi è stata
invece motivo di vanto, ed è
anzi stata presentata come un
compito essenziale dello stato
nel mantenimento del
capitalismo storico.
Le spese essenziali per la
riduzione dei costi di
molti gruppi di proprietari-
imprenditori - cioè l’energia
di base, i trasporti,
l’infrastruttura informativa
dell’economia-mondo - sono
state ampiamente sviluppate e
sostenute coi fondi pubblici.
Mentre è senza dubbio vero
che moltissime persone hanno
derivato qualche beneficio da
questo capitale sociale
generale, non è vero che tutti
ne abbiano derivato un eguale
beneficio. Il vantaggio si è
accresciuto sproporzionatamen
per coloro che erano già
proprietari di grandi quantità
di capitale, dal momento che
esso era determinato da un
sistema di tassazione ben più
egualitario di quanto non
fosse la distribuzione dei
benefici.
Perciò la costituzione di
un capitale sociale generale è
servita ad accrescere
l’accumulazione di capitale e
la sua concentrazione.
Infine, gli stati hanno
creato, o hanno cercato di
creare, un monopolio della
forza armata. Mentre le forze
di polizia erano predisposte
soprattutto al fine di
mantenere l’ordine interno
(cioè l’accettazione da parte
della forza-lavoro dei ruoli e
delle ricompense ad essa
assegnati), gli eserciti sono
stati i meccanismi attraverso i
quali gli imprenditori di uno
stato hanno potuto
influenzare direttamente la
possibilità, da parte dei loro
concorrenti situati in altri
stati, di invocare la protezione
delle proprie macchine
statali. Questo punto ci
conduce all’ultimo, decisivo,
carattere del potere statale.
Anche se i tipi di potere che
ogni stato ha esercitato sono
stati simili, il grado del potere
che la singola macchina
statale ha avuto è variato
enormemente da stato a stato.
Gli stati si sono situati in
una gerarchia di potere
effettivo che non può essere
misurata né partendo dalle
dimensioni e dalla coerenza
delle loro burocrazie e dei
loro eserciti, né dalle
autoaffermazioni ideologiche,
ma che deve essere correlata
con le effettive capacità di
accrescere nel tempo la
concentrazione di capitale
accumulato nelle proprie
frontiere, in contrapposizione
a quello degli stati
rivali. Questa effettiva
capacità ha voluto dire la
possibilità di contrastare le
forze militari ostili; la
possibilità di adottare norme
favorevoli al proprio interno,
e di ostacolare gli altri stati
che volessero fare lo stesso; e
infine la possibilità
di reprimere la propria forza-
lavoro e di indebolire le
capacità dei rivali nel fare la
stessa cosa. La vera misura
della forza degli stati è nel
loro successo economico di
medio periodo. L’esplicito
uso della forza da parte della
macchina statale per
controllare la forza-lavoro
interna - una tecnica, questa,
costosa e destabilizzante - è
piu spesso il segno della
debolezza della macchina
statale che non della sua
forza. Le macchine statali
davvero forti, sono state
capaci, in un modo o
nell'altro, di controllare la
propria forza-lavoro con
meccanismi più sottili.
Vi sono dunque molti
modi differenti con cui lo
stato ha costituito un
meccanismo fondamentale
per massimizzare
l'accumulazione di capitale.
Secondo la sua ideologia, il
capitalismo avrebbe dovuto
comportare un’attività
degli imprenditori privati
libera da ogni interferenza
delle macchine statali. Ma in
pratica questo non è mai stato
vero. È del tutto inutile
chiedersi se il capitalismo
avrebbe potuto prosperare
senza un ruolo attivo dello
stato moderno. Nel
capitalismo storico, infatti, i
capitalisti hanno fatto
affidamento proprio sulla
capacità di utilizzare a
proprio vantaggio le
macchine statali, nei vari
modi che abbiamo analizzato.
4. Economia-mondo e
stati-nazione.
Un secondo mito
ideologico è stato quello della
sovranità. Lo stato moderno
non è mai stato un’entità
politica completamente
autonoma. Gli stati si sono
sviluppati e costituiti come
parti integranti di un sistema
interstatale, che era un
insieme di regole entro cui gli
stati dovevano operare, e un
insieme di legittimazioni
senza le quali essi
non avrebbero potuto
sopravvivere. Dal punto di
vista della macchina statale di
un qualunque stato preso in
esame, il sistema interstatale
ha rappresentato una serie di
vincoli per la sua volontà.
Questi vincoli stavano nelle
pratiche della diplomazia,
nelle regole formali che
presiedevano
alle giurisdizioni e ai contratti
(diritto internazionale), e
nelle limitazioni circa il modo
e le circostanze in cui fare la
guerra. Tutti questi vincoli
contrastavano di fatto con
l’ideologia ufficiale della
sovranità. La sovranità,
tuttavia, non è mai stata
intesa nel senso di totale
autonomia. Il termine ha
voluto piuttosto significare
che esistevano limiti
nella legittimazione
dell’interferenza da parte di
una macchina statale su
un’altra.
Naturalmente, le regole
del sistema interstatale non
erano sostenute dall’accordo
o dal consenso, ma dalle
volontà e dalle capacità degli
stati più forti di imporre le
loro restrizioni, prima di tutto
agli stati più deboli, e in
secondo luogo tra di loro. Si
ricordi che gli stati sono stati
situati in una gerarchia di
potere. Il fatto stesso di
questa gerarchia ha costituito
la più importante limitazione
all’autonomia degli stati.
Certo, la situazione generale
avrebbe potuto tendere verso
una completa scomparsa del
potere degli stati, nella misura
in cui la gerarchia fosse
culminata con un picco sulla
piramide, piuttosto che con
un altopiano sulla sua cima.
Questa possibilità non è
stata solo ipotetica, se è vero
che la dinamica della
concentrazione del potere
militare ha portato a ricorrenti
tentativi di trasformare il
sistema interstatale in un
impero-mondo.
Se questi tentativi non
hanno mai avuto successo nel
capitalismo storico, ciò è
avvenuto perché la base
strutturale del sistema
economico e gli interessi
dichiarati dei
maggiori accumulatori di
capitale si sono opposti con
grande energia a una simile
trasformazione
dell’economia-mondo in
un impero-mondo.
Prima di tutto,
l’accumulazione di capitale
era un gioco che
rappresentava un incentivo
costante per l’ingresso
nella competizione di sempre
nuovi soggetti, e dunque vi
era sempre qualche
dispersione delle attività
produttive suscettibili di
maggior profitto. Perciò, in
ogni momento,
erano parecchi gli stati che
tendevano ad avere la base
economica per essere
relativamente forti.
Secondariamente, gli
accumulatori di capitale in
ciascuno stato utilizzavano le
proprie strutture statali per
essere aiutati e assistiti
nell’accumulazione del
capitale, ma anch’essi
avevano bisogno di un
qualche livello di controllo
contro le proprie
strutture statali. Infatti, se la
loro macchina statale
diveniva troppo forte, poteva,
per ragioni di equilibrio
politico interno, sentirsi libera
di rispondere alle pressioni
interne che si sviluppavano in
senso egualitario. Contro
questa minaccia, gli
accumulatori di capitale
avevano bisogno di agitare
l’altra minaccia, di poter
raggirare la propria macchina
statale, stringendo alleanze
con altre macchine statali.
Questa minaccia era possibile
solo fino a quando nessuno
stato do minava
completamente sugli altri.
Queste considerazioni
hanno costituito la base
oggettiva del cosiddetto
equilibrio delle forze;
espressione questa che vuole
significare che molti stati forti
e medio-forti del sistema
interstatale in ogni fase hanno
teso a stringere alleanze (o se
necessario, a sovvertirle) così
che nessuno stato potesse
riuscire a conquistare tutti gli
altri.
Che l'equilibrio delle
forze fosse mantenuto da
qualcosa di piu dell’ideologia
politica, lo si può vedere se si
considerano tre esempi nei
quali uno stato è riuscito a
conquistare temporaneamente
un periodo di dominio
relativo, o di «egemonia»,
sugli altri stati forti,
all’interno del sistema
interstatale. I tre esempi sono
l’egemonia delle Province
Unite (Olanda) alla metà del
secolo xvii, quella della Gran
Bretagna alla metà del secolo
xix, e quella degli Stati Uniti
alla metà del secolo xx.
In ciascuno di questi casi,
l’egemonia arrivò dopo la
disfatta di un concorrente che
aspirava alla conquista
militare (gli Asburgo, la
Francia, la Germania).
Ciascuna egemonia fu
suggellata da una «guerra
mondiale», una lotta di
proporzioni enormi, basata su
scontri terrestri, fortemente
distruttiva, di una durata
intermittente di circa
trent’anni, che coinvolse le
maggiori potenze militari del
tempo. Esse furono
rispettivamente la guerra dei
trent’anni (1618-48) le guerre
napoleoniche (1792-1815), e i
conflitti del secolo xx
sviluppatisi tra il 1914 e il
1945 che si potrebbero
propriamente concepire come
una sola, lunga «guerra
mondiale». Si deve notare
che, in ciascun caso,
il vincitore era stato prima di
tutto una potenza
marittima, già prima della
«guerra mondiale», ma che
aveva trasformato se stesso in
una potenza terrestre proprio
per vincere questa guerra
contro un’altra potenza
terrestre storicamente forte,
che sembrava voler tentare di
trasformare l’economia-
mondo in un impero-mondo.
La base di quella vittoria,
però, non è stata militare.
La realtà principale era di
ordine economico: la capacità
degli accumulatori di capitale
situati nello stato in questione
di competere con successo
con tutti gli altri nel mercato
delle tre principali sfere
economiche - la produzione
agroindustriale, il commercio
e la finanza. Più esattamente,
per brevi periodi, gli
accumulatori di capitale nello
stato egemone furono capaci
di essere più efficienti dei
loro concorrenti situati in altri
stati forti, e di conquistare
così mercati anche entro le
aree «di casa» di questi altri
stati forti. Ciascuna di queste
egemonie fu breve. Ciascuna
è arrivata alla fine molto più
per ragioni economiche che
per ragioni politico-militari.
In ciascun caso, il triplice
vantaggio economico
temporaneo si è scontrato con
due duri scogli della realtà
capitalistica. Prima di tutto, i
fattori che
avevano contribuito a una
maggiore efficienza
economica potevano sempre
essere copiati da altri: non da
quelli che erano veramente
deboli, ma da coloro che
disponevano di una forza
intermedia; e i nuovi venuti,
in un determinato processo
economico, tendevano a
trarre vantaggio dal fatto
di non dovere ammortizzare
lo stock più vecchio. In
secondo luogo, il potere
egemonico aveva tutto
l’interesse di mantenere
ininterrotta l’attività
economica e tendeva perciò a
comprare la pace sociale con
un processo di redistribuzione
interna. Col passare del
tempo, ciò portava a
ridurre la competitività e per
conseguenza a far cessare
l’egemonia. Inoltre, la
conversione del potere
egemonico in un potere con
«responsabilità» militari
terrestri e marittime di gran
lunga maggiori comportava
per lo stato egemone
un carico economico sempre
più pesante, dissolvendo così
il basso livello di spesa statale
per armamenti che era
stato caratteristico della fase
precedente la «guerra
mondiale».
Perciò, l’equilibrio' delle
forze - che si imponeva tanto
agli stati deboli che a quelli
forti - non era un
epifenomeno politico che
potesse essere facilmente
accantonato. Esso era
radicato nel modo stesso con
cui il capitale veniva
accumulato nel capitalismo
storico. D’altro canto,
l’equilibrio delle forze non
era soltanto un rapporto tra
macchine statali, perché gli
attori interni ad ogni singolo
stato agivano regolarmente al
di là delle proprie frontiere,
direttamente o tramite
alleanze con altri attori interni
di qualche altro luogo. Perciò,
nel valutare la politica di uno
stato dato, la distinzione
interno/esterno era del tutto
formale, e non ci è di grande
aiuto per cercare di capire
come le lotte politiche
effettivamente si
svilupparono.
Ma in effetti, chi ha
combattuto contro chi? Non è
una domanda così ovvia
come si potrebbe pensare, se
si tiene conto delle pressioni
contraddittorie interne al
capitalismo storico. La lotta
più elementare e in certa
misura più ovvia è stata
quella che ha opposto i
piccoli gruppi che
traevano grandi vantaggi dal
sistema e il complesso delle
sue vittime. Questa lotta si è
sviluppata con molti nomi e
sotto molte forme. Tutte le
volte che sono state tracciate
in modo molto chiaro le linee
di demarcazione tra coloro
che erano gli accumulatori di
capitale e coloro che
costituivano la loro forza-
lavoro in un determinato
stato, abbiamo avuto la
tendenza a definire questa
lotta come una lotta tra
capitale e lavoro. Queste lotte
di classe hanno avuto luogo
in due sedi: nel campo
economico (tanto sul luogo
effettivo del lavoro, quanto
nel più largo e amorfo
«mercato»), e nel campo
politico. È chiaro che nel
campo economico vi è
stato un immediato,
comprensibile conflitto
diretto di interessi. Quanto
maggiore era la
remunerazione della forza-
lavoro, tanto minore era il
surplus destinato a
costituire il «profitto». Certo,
questo conflitto è stato spesso
attutito da considerazioni di
più lungo periodo e di più
larga scala. Sia il singolo
accumulatore di capitale che
la sua forza-lavoro avevano
interessi comuni contro altri
loro simili situati in qualche
altro punto del sistema. E una
maggiore remunerazione
della forza-lavoro poteva in
certe circostanze ritornare
agli accumulatori di capitale
sotto la forma di profitto
differito, tramite l’accresciuto
potere d’acquisto
complessivo nell’ambito
dell’economia-mondo. Ma
nessuna di queste
considerazioni poteva mai
eliminare il fatto che
la divisione di un dato surplus
fosse a somma zero, e che
quindi la tensione sarebbe
stata per forza continua. Essa
ha trovato perciò una costante
manifestazione nella
competizione per il potere
politico entro i vari stati.
Tuttavia, dal momento
che, come sappiamo, il
processo di accumulazione di
capitale ha portato a una
concentrazione geografica in
certe zone, e dal momento
che lo scambio ineguale alla
base di ciò è stato reso
possibile dall’esistenza di un
sistema interstatale
contenente una gerarchia di
stati, e dal momento che le
macchine statali hanno
qualche potere relativo di
alterare il funzionamento del
sistema, allora la lotta tra
accumulatori mondiali di
capitale e forza-lavoro
mondiale ha trovato una
espressione importante anche
negli sforzi di vari gruppi per
arrivare al potere dentro gli
stati in questione (in quelli
più deboli), per poter poi
utilizzare il potere statale
contro gli accumulatori di
capitale situati negli stati più
forti. Dove ciò è successo,
abbiamo in genere parlato di
lotte antimperialiste
(nel linguaggio del secolo
xx). Senza dubbio, anche qui,
la questione era spesso
offuscata dal fatto che le linee
interne a ciascuno dei due
stati coinvolti non
coincidevano perfettamente
con le spinte di base della
lotta di classe nell’economia-
mondo nel suo complesso.
Certi accumulatori di capitale
negli stati più deboli e certi
segmenti di forza-lavoro in
quelli più forti trovavano un
vantaggio di breve periodo
nel definire gli esiti politici in
termini puramente nazionali
piuttosto che in termini di
classe-nazione. Ma le grandi
spinte alla mobilitazione di
movimenti «antimperialisti»
non sarebbero state possibili,
e per conseguenza non
sarebbe stato realizzato alcun
obiettivo, per quanto limitato,
se non ci fosse stato un
contenuto di classe della lotta,
e se esso non fosse stato
adoperato,
almeno implicitamente, come
tema ideologico.
Abbiamo anche osservato
che il processo di formazione
dei gruppi etnici è stato
interamente legato a quello di
formazione della forza-lavoro
negli stati in questione, e ha
fatto da dura regola per
l’assegnazione di un posto
nella dislocazione delle
posizioni all’interno delle
strutture economiche. Perciò,
ovunque ciò sia avvenuto in
modo più violento o ovunque
le circostanze abbiano
determinato più acute
pressioni di breve periodo in
direzione della
sopravvivenza, la lotta tra gli
accumulatori di capitale e i
settori
maggiormente oppressi della
forza-lavoro ha teso a
prendere la forma di conflitti
linguistici, razziali e culturali,
dal momento che simili
connotati avevano un'alta
correlazione con
l'appartenenza di classe. Dove
e quando tutto questo è
avvenuto abbiamo in genere
parlato di conflitti etnici o di
nazionalità. Ma, proprio come
nel caso delle lotte
antimperialistiche, anche se
sul breve periodo simili
formazioni mescolavano
alcuni segmenti di più larghi
raggruppamenti di classe,
queste lotte raramente
avrebbero potuto essere
vittoriose se non fossero state
capaci di mobilitare i
sentimenti che emergevano
dalla sottostante lotta di
classe per l' appropriazione
del surplus prodotto
all'interno del
sistema capitalistico.
Tuttavia, se facciamo
attenzione solo alla lotta di
classe, che è stata certamente
fondamentale, finiremo col
perdere di vista un'altra lotta
politica che ha assorbito
almeno altrettanto tempo ed
energie nel capitalismo
storico. Il sistema
capitalistico è stato infatti un
sistema che ha contrapposto
gli uni agli altri tutti gli
accumulatori di capitale. Dal
momento che il modo per
perseguire la
continua accumulazione di
capitale era quello di
realizzare i
profitti provenienti
dall'attività economica contro
gli sforzi antagonistici che
altri operavano per realizzare
gli stessi profitti, nessun
singolo imprenditore avrebbe
mai potuto essere più che un
alleato volubile di qualunque
altro imprenditore, pena
l’eliminazione di entrambi
dalla scena della concorrenza.
6. Le lotte tra
capitalisti.
Imprenditore contro
imprenditore, settore
economico contro settore
economico, gli imprenditori
di uno stato contro quelli di
un altro, quelli di un gruppo
etnico contro quelli di un
altro; la lotta è stata continua
per definizione. E questa lotta
continua ha preso
costantemente una forma
politica, esattamente a causa
del ruolo centrale degli stati
nell'accumulazione di
capitale, che abbiamo prima
descritto. Talvolta queste
lotte interne agli stati sono
state solo lotte relative al
personale delle macchine
statali e alle politiche statali
di breve periodo. Talvolta,
invece, le lotte si sono
sviluppate attorno a più larghi
obiettivi «costituzionali», per
determinare le regole con cui
condurre le lotte di breve
periodo e quindi la
probabilità che fosse l’una o
l’altra fazione a prevalere.
Tutte le volte che tali lotte
sono state di natura
«costituzionale», esse hanno
comportato una più vasta
mobilitazione ideologica. In
questi casi abbiamo sentito
parlare di «rivoluzioni» e di
«grandi riforme», e le parti
soccombenti hanno spesso
fornito etichette obbrobriose
(ma analiticamente
improprie) . Nella misura in
cui le lotte politiche, diciamo
così, per la «democrazia» o
per la «libertà» contro il
«feudalesimo» o la
«tradizione» non sono state
lotte di classi lavoratrici
contro il capitalismo, esse
sono state essenzialmente
lotte tra accumulatori di
capitale per l’accumulazione
di capitale. Lotte del genere
non sono state il trionfo di
una borghesia «progressiva»
contro strati reazionari, ma
lotte infra-borghesi.
Naturalmente, l’uso di
parole d’ordine ideologiche
«universalizzanti» a favore
del progresso è stato
utilizzato politicamente. È
stato un modo di associare la
mobilitazione della lotta di
classe a uno degli
schieramenti della lotta
fra accumulatori di capitale.
Ma questo vantaggio
ideologico è stato spesso
come un’arma a doppio
taglio, che ha scatenato le
passioni e ha indebolito i
controlli repressivi nella lotta
di classe. È stato questo,
ovviamente, uno dei problemi
costanti degli accumulatori di
capitale nel capitalismo
storico. Essi sono stati
costretti dal
funzionamento stesso del
sistema ad agire in solidarietà
di classe tra loro contro gli
sforzi della forza-lavoro per
perseguire i suoi interessi
antagonistici; ma
contemporaneamente a
combattersi senza sosta gli
uni contro gli altri, sia sul
terreno economico che su
quello politico. È esattamente
ciò che chiamiamo una
contraddizione interna al
sistema.
Molti osservatori, avendo
notato il fatto che vi sono
lotte diverse dalla lotta di
classe che assorbono gran
parte dell’energia politica
erogata, hanno tratto da
questa osservazione la
conclusione che l’analisi di
classe non fosse
così necessariamente
rilevante al fine di una
comprensione della lotta
politica. È una conclusione
curiosa. Sembrerebbe
più sensato concludere che
queste lotte politiche a base
non classista, lotte cioè fra
accumulatori per ottenere
vantaggi politici, siano state
la dimostrazione di una grave
debolezza politica strutturale
mostrata da questi
accumulatori in quanto
classe, nel procedere delle
loro lotte di classe su
scala mondiale.
Queste lotte politiche si
possono definire lotte per dar
forma alle strutture
istituzionali dell'economia-
mondo capitalistica, così da
costruire il tipo di mercato
mondiale il cui
funzionamento avrebbe
favorito in misura più o
meno forte, certi particolari
attori economici. Il
«mercato» capitalistico non è
mai stato un dato, e tanto
meno una costante. E stata
una creazione regolarmente
reinventata e riaggiustata.
In ogni singolo momento,
il «mercato» è stato costituito
da una serie di regole o di
divieti risultanti dalla
complessa interrelazione di
quattro grandi settori
istituzionali: i vari stati, legati
in un sistema interstatale; le
varie «nazioni», sia quelle
pienamente riconosciute, sia
quelle in lotta per simile
generale riconoscimento (ivi
comprese quelle subnazioni
che sono i «gruppi etnici»),
connesse agli stati da rapporti
non facili e incerti; le classi,
caratterizzate da un profilo
professionale in evoluzione e
da oscillanti gradi
di consapevolezza; e infine le
unità di messa in comune
dei redditi, raccolte in
aggregati domestici composti
di molte persone occupate in
varie forme di lavoro o in
grado di procurarsi reddito da
fonti molteplici, e in rapporti
non facili con le classi.
Non c'è stato nessun
punto di riferimento fisso in
questa costellazione di forze
istituzionali. Non vi è stata
alcuna entità «primordiale»
che tendesse a prevalere
contro le forze istituzionali
sostenute dagli accumulatori
di capitale, in associazione o
in conflitto con la lotta della
forza-lavoro per contrastare l'
appropriazione del prodotto
economico. I confini di
ciascuna variante di una
forma istituzionale, i «diritti»
che essa era, legalmente o di
fatto, in grado di rivendicare,
cambiavano da zona a zona
nell’e-conomia-mondo e
secondo un andamento
insieme ciclico e secolare.
Se un osservatore attento
vuole riuscire a dipanare
questo groviglio istituzionale,
per prendere la strada giusta
egli deve tenere ben presente
che nel capitalismo storico gli
accumulatori non avevano
oggetto che si collocasse più
in alto deE?ulteriore
accumulazione, e che le
forze-lavoro non potevano
avere per conseguenza
oggetto che si collocasse
più in alto della propria
sopravvivenza e della
riduzione del peso da
sopportare. Quando si sia
tenuto presente questo
fatto, si sarà in grado di
riempire di senso, in misura
notevole, la storia politica del
mondo moderno.
7. I movimenti
antisistemici.
In particolare, si potranno
cominciare ad apprezzare
nella loro complessità le
posizioni circonlocutorie e
spesso paradossali, o
contraddittorie, dei
movimenti antisistemici
che sono emersi dal
capitalismo storico.
Cominciamo dal problema
più elementare. Il capitalismo
storico ha operato all’interno
di un’economia-mondo, ma
non all’interno di uno stato-
mondo. Tutto al contrario.
Come abbiamo visto,
le pressioni strutturali hanno
giocato contro ogni
costruzionedi uno stato-
mondo. All’interno di questo
sistema, abbiamo posto in
evidenza il ruolo cruciale dei
vari stati -allo stesso tempo
delle strutture politiche dotate
di maggiore potere, come di
quelle a potere più limitato.
Perciò ristrutturare gli stati in
questione ha rappresentato
per le forze-lavoro la via più
promettente per migliorare la
propria posizione, ma insieme
e allo stesso tempo una via
di valore limitato.
Dobbiamo cominciare col
precisare che cosa può voler
dire l’espressione
«movimento antisistemico».
La parola movimento implica
una qualche fiducia collettiva
in un obiettivo che non sia
solo di natura passeggera. Di
fatto, naturalmente, proteste
in qualche modo spontanee, o
sommosse di lavoratori, sono
accadute in tutti i sistemi
storici conosciuti. Esse sono
servite da valvole di sicurezza
nei confronti della collera
repressa; o talvolta, più
verosimilmente, da
meccanismi che hanno posto
un minimo di limiti
ai processi di sfruttamento.
Ma, in generale, la ribellione
come tecnica ha funzionato
solo ai margini dell’autorità
centrale, e in particolare
allorché le burocrazie centrali
erano in fase di
disgregazione.
La struttura del
capitalismo storico ha però
modificato alcuni di questi
dati. Il fatto che gli stati
fossero situati in un sistema
interstatale ha significato che
le ripercussioni delle
ribellioni o delle sommosse
fossero avvertite, spesso assai
rapidamente, oltre i confini
della specifica giurisdizione
politica in cui si verificavano.
Le cosiddette «forze esterne»
avevano perciò forti motivi
per venire in aiuto delle
macchine statali assaltate. Ciò
ha reso le ribellioni
più difficili. D’altro canto,
l’influenza degli accumulatori
di capitale, e quindi delle
macchine statali, nella vita
quotidiana dei lavoratori è
stata di gran lunga più
pesante nel capitalismo
storico che nei precedenti
sistemi storici. L’incessante
accumulazione di capitale ha
portato a continue pressioni
per ristrutturare
l’organizzazione (e la
dislocazione) del lavoro, per
accrescere la quota di lavoro
assoluto, e per determinare la
ricostruzione psico-sociale
della forza-lavoro. In questo
senso, per la maggior parte
delle forze-lavoro mondiali,
la disgregazione, il
disorientamento, e lo
sfruttamento sono stati via via
maggiori. Allo stesso tempo,
la disgregazione sociale
métteva in crisi i modi
rappacificanti della
socializzazione.
Complessivamente, perciò, le
motivazioni a sostegno della
ribellione divenivano più
forti, nonostante il fatto che le
possibilità di successo fossero
forse oggettivamente più
basse.
Fu questa straordinaria
tensione a portare alla grande
innovazione nella tecnica
della ribellione che si
sviluppò nel capitalismo
storico. È solo nel secolo xix
che cominciamo ad assistere
alla creazione di strutture
persistenti e burocratizzate,
nelle due grandi varianti
storiche dei movimenti
antisistemici: i movimenti
operai-socialisti, e i
movimenti nazionalisti.
Entrambi i tipi di movimenti
parlavano un linguaggio
universale - essenzialmente
quello della Rivoluzione
francese: libertà, eguaglianza
e fraternità. Entrambi i
movimenti si vestivano
dell’ideologia
dell’Illuminismo -
l’inevitabilità del progresso,
intendendo con ciò
l’emancipazione umana
giustificata dagli intrinseci
diritti dell’uomo. Entrambi si
rivolgevano al futuro contro il
passato, al nuovo contro il
vecchio. Anche quando
veniva invocata una
tradizione, essa veniva
invocata come base di una
rinascita.
Ciascun tipo di
movimento aveva, è vero, un
nucleo differente, e di
conseguenza un differente
luogo d’origine. I movimenti
operai-socialisti ponevano al
centro della loro attenzione i
conflitti tra i lavoratori
salariati urbani, privi di terra
(i proletari) e i proprietari
delle strutture economiche in
cui essi lavoravano (la
borghesia). Questi movimenti
insistevano sul fatto che la
distribuzione della
ricompensa del lavoro era
fondamentalmente diseguale,
oppressiva e ingiusta. Era
naturale che tali movimenti
emergessero dapprima in
quelle parti dell’economia-
mondo che avevano
una forza-lavoro industriale
consistente - in particolare,
nell’Europa occidentale. I
movimenti nazionalisti
ponevano invece al centro
dell’attenzione i conflitti tra i
numerosi «popoli oppressi»
(definiti a partire da
caratteristiche linguistiche e/o
religiose) e specifici «popoli»
dominanti entro una certa
giurisdizione politica: i primi
erano dotati di diritti politici,
opportunità economiche e
forme legittime di espressione
culturale di gran lunga minori
dei secondi. Questi
movimenti insistevano sul
fatto che la distribuzione dei
«diritti» fosse
fondamentalmente diseguale,
oppressiva e ingiusta. Era
naturale che questi movimenti
emergessero in primo luogo
in quelle zone semiperiferiche
dell'economia-mondo, come
l’Impero austro-ungarico, in
cui la distribuzione diseguale
dei gruppi etnico-nazionali
nella gerarchia della
dislocazione della forza-
lavoro era del tutto evidente.
In generale, fino a una
fase molto recente, questi due
tipi di movimenti si sono
considerati assai diversi,
talvolta finanche tra loro
antagonisti. Le alleanze tra di
essi erano concepite come
tattiche e temporanee;
tuttavia, fin dall’inizio, è
impressionante il grado con
cui entrambi i tipi
di movimenti hanno
condiviso certe somiglianze
strutturali. In primo luogo,
dopo una considerevole
discussione, sia i movimenti
operai-socialisti che quelli
nazionalisti hanno preso la
decisione fondamentale di
strutturarsi in forme
organizzate, e la decisione
concomitante che il loro
obiettivo politico piu
importante fosse la conquista
del potere statale (anche
quando, come nel caso di
certi movimenti nazionalisti,
ciò comportava la creazione
di nuovi confini statali). In
secondo luogo, la decisione
circa la strategia -
la conquista del potere statale
- richiedeva che questi
movimenti mobilitassero
forze popolari sulla base di
una ideologia antisistemica,
cioè a dire rivoluzionaria.
Erano contro il sistema
esistente, e il sistema
esistente era in effetti il
capitalismo storico, che era
costruito sulle diseguaglianze
basilari, tra capitale e lavoro e
tra centro e periferia, che quei
movimenti cercavano di
superare e sconfiggere.
Naturalmente, in un
sistema ineguale, vi sono
sempre due vie attraverso le
quali un gruppo situato in
basso può cercare di uscire
dalla sua condizione. Esso
può cercare di ristrutturare il
sistema, così che tutti abbiano
eguali condizioni; o può,
semplicemente, cercare di
spostarsi in una condizione
piu alta all’interno della
distribuzione ineguale. Come
sappiamo, i movimenti
antisistemici, a prescindere
dal fatto di avere posto al
centro della propria
attenzione obiettivi egualitari,
hanno sempre avuto al loro
interno elementi il cui
obiettivo, all’inizio o alla
fine, è stato solo quello di
possedere una «mobilità
verso l’alto» all’interno della
gerarchia esistente. I
movimenti stessi sono sempre
stati consapevoli di ciò. Essi
hanno tuttavia teso a
impostare questo problema in
termini di motivazioni
individuali: la purezza di
cuore contrapposta ai traditori
della causa. Ma quando,
analizzando le cose, i
«traditori della causa»
appaiono onnipresenti in ogni
momento particolare dei
movimenti in questione, così
come essi si sono
storicamente sviluppati, allora
si è portati a cercare una
spiegazione in termini di
strutture piuttosto che di
motivazioni. La chiave del
problema può essere in effetti
nella decisione strategica
fondamentale di fare della
conquista del potere statale il
fulcro delle attività del
movimento. Questa strategia
ha avuto due conseguenze
essenziali. Nella fase di
mobilitazione, ha spinto
ciascun movimento ad
addentrarsi in una serie di
alleanze tattiche con gruppi
che non erano in alcun modo
«antisistemici», al fine di
rafforzare il proprio obiettivo
strategico. Queste alleanze
hanno modificato la struttura
dei movimenti antisistemici
stessi, anche allo stadio della
mobilitazione. Cosa ancor più
importante, la strategia ha alla
fine avuto successo, in molti
casi.
Molti di questi movimenti
hanno conquistato in parte, o
anche completamente, il
potere statale. Questi
movimentivittoriosi si sono
allora confrontati con la realtà
delle limitazioni del potere di
tutti gli stati interni
all’economia-mondo
capitalistica. E hanno
scoperto che erano
costretti dal funzionamento
del sistema interstatale a
esercitare il loro potere in
forme che modificavano gli
obiettivi « antisistemici» che
erano stati la loro ragion
d’essere.
Tutto ciò sembra così
ovvio che c’è da chiedersi
con stupore perché i
movimenti abbiano basato la
loro strategia su un obiettivo
così evidentemente
autodistruttivo. La risposta è
semplicissima. Data la
struttura politica del
capitalismo storico, essi
avevano poco da scegliere.
Non sembrava vi fosse alcuna
strategia alternativa più
promettente. La conquista del
potere statale prometteva
almeno di cambiare in
qualche modo i rapporti di
forza tra i gruppi contendenti.
Come a dire che la conquista
del potere rappresentava una
riforma del sistema. Le
riforme in
effetti miglioravano la
situazione, ma al prezzo di
rafforzare il sistema in quanto
tale.
Possiamo perciò
riassumere il lavoro svolto
dai movimenti antisistemici
nel mondo lungo l’arco di
centocinquant’anni come un
puro e semplice
rafforzamento del capitalismo
storico tramite il riformismo?
No, perché la politica del
capitalismo storico è stata
qualcosa di più della politica
dei vari stati. È stata
soprattutto la politica del
sistema interstatale. I
movimenti antisistemici sono
esistiti fin dall’inizio non solo
come entità individuali, ma
come un insieme collettivo,
anche se mai organizzato
burocraticamente (le varie
internazionali non hanno mai
incluso la totalità di questi
movimenti). Un fattore
chiave nel determinare
la forza di un qualunque
movimento è stato sempre
costituito dall’esistenza di
altri movimenti.
Gli altri movimenti hanno
fornito al movimento in
questione tre tipi di supporti.
Il più ovvio è stato il supporto
materiale, forma d’aiuto utile
ma forse tra le meno
significative. Una seconda
forma è stata quella di un
supporto diversivo. La
possibilità da parte di uno
stato forte di intervenire
contro un movimento
antisistemico situato in uno
stato più debole, per esempio,
è stata sempre subordinata al
numero di altre cose da fare
tra le sue immediate scadenze
politiche. Nella misura in cui
uno stato era assillato da un
movimento antisistemico
locale, esso era meno
in grado di preoccuparsi di un
movimento antisistemico
lontano. Il terzo e più
importante supporto si è
verificato a livello di
mentalità collettive. I
movimenti imparavano
ciascuno dagli errori degli
altri, erano incoraggiati
ciascuno dai successi tattici
degli altri. E gli sforzi dei
movimenti su scala mondiale
riguardavano l’ambiente
politico mondiale in generale
- le aspettative, le analisi delle
possibilità.
Nella misura in cui i
movimenti aumentavano di
numero e accrescevano i
propri successi tattici, essi
sembravano più forti, come
fenomeno collettivo; e
siccome sembravano più
forti, lo erano davvero.
L’accresciuta forza
collettiva su scala mondiale
serviva a condizionare le
tendenze «revisionistiche»
dei movimenti che avevano
conquistato il potere statale -
non più di questo, ma non
meno di questo - e questa
forza collettiva è stata più
gravida di conseguenze
nell’indebolire la stabilità
politica del capitalismo
storico, di quanto non lo
sia stata la somma degli
effetti di rafforzamento del
sistema causati dalla
conquista del potere statale
via via realizzata da parte dei
singoli movimenti.
Infine, un altro fattore è
entrato in gioco. Allorché le
due varietà di movimenti
antisistemici si sono estese (i
movimenti operai-socialisti
da pochi stati forti a tutti gli
altri, e i movimenti
nazionalisti da poche zone
periferiche a tutto il resto) la
distinzione tra i due tipi di
movimenti è diventata sempre
più labile. I movimenti
operai-socialisti hanno
scoperto che le tematiche
nazionalistiche erano
essenziali per i propri sforzi
di mobilitazione e per
l’esercizio del potere statale.
Ma i movimenti nazionalisti
hanno scoperto il contrario:
che al fine di mobilitare e di
governare con successo, essi
dovevano canalizzare le
aspirazioni della forza-lavoro
verso una ristrutturazione
egualitaria. Quando queste
tematiche hanno cominciato a
sovrapporsi fortemente, e le
forme organizzative
differenziate hanno
cominciato a scomparire e a
coalizzarsi in una struttura
sola, la forza dei movimenti
antisistemici, specie come
un’unica entità mondiale
collettiva, è cresciuta
straordinariamente.
Uno dei punti di forza dei
movimenti antisistemici è
consistito nel fatto che essi
fossero arrivati al potere in un
gran numero di stati. Ciò ha
cambiato gli sviluppi della
politica del sistema-mondo.
Ma questa forza è stata anche
una debolezza, dal momento
che i cosiddetti regimi post-
rivoluzionari hanno
continuato a funzionare come
parti della divisione sociale
del lavoro del capitalismo
storico. Essi hanno perciò
funzionato, volenti o nolenti,
sotto le incessanti pressioni
derivate dal fatto di doversi
muovere verso una continua
accumulazione di capitale. Le
conseguenze politiche sul
piano interno sono state la
prosecuzione
dello sfruttamento della
forza-lavoro, anche se in
molti casi in una forma
ridotta e addolcita. Ciò ha
portato a tensioni interne di
una varietà analoga a quella
riscontrata in altri stati che
non erano «post-
rivoluzionari», e ha prodotto
a sua volta la formazione di
nuovi movimenti
antisistemici all’interno di
questi stati. La lotta per i
benefici ha proceduto dentro
questi stati post-rivoluzionari
allo stesso modo che altrove,
perché entro la cornice
dell’economia-
mondo capitalistica, gli
imperativi
dell’accumulazione hanno
operato attraverso tutto il
sistema. I cambiamenti
intervenuti nelle strutture
sociali hanno alterato la
politica dell’accumulazione,
ma non sono stati in grado di
por fine ad essa.
All’inizio abbiamo
rinviato la risposta alle
domande: quali sono stati i
benefici reali del capitalismo
storico? Quanto è cambiata la
qualità della vita? Dovrebbe
essere chiaro, adesso, che non
vi è una risposta univoca.
Dobbiamo chiederci «per
chi?». Il capitalismo storico
ha comportato una gigantesca
costituzione di beni materiali,
ma anche una gigantesca
polarizzazione delle
ricompense. Molti ne hanno
beneficiato enormemente, ma
molti di più hanno conosciuto
una sostanziale riduzione del
reddito reale complessivo e
della qualità della vita. La
polarizzazione ha
avuto anche, naturalmente,
una dimensione spaziale, e
così in certe aree è potuto
sembrare che essa non
esistesse. Anche questa è
stata una conseguenza della
lotta per i benefici.
La geografia del beneficio
è cambiata spesso, e ciò ha
mascherato la realtà della
polarizzazione. Ma nell'intera
realtà del tempo-spazio
attraversato dal capitalismo
storico, l’incessante
accumulazione di capitale ha
voluto significare l’incessante
crescita del divario reale.
III.
Il capitalismo storico è
stato, lo sappiamo,
prometeico nelle sue
aspirazioni. Per quanto il
cambiamento scientifico e
tecnologico sia stato una
costante storica
dell’attività umana, è solo con
il capitalismo storico che
Prometeo, che c’è sempre
stato, è stato «liberato dalle
sue catene», secondo la
definizione di David Landes.
L’immagine collettiva di
fondo che abbiamo
cominciato ad avere di
questa cultura scientifica del
capitalismo storico è stata che
essa fosse propugnata da
nobili cavalieri, costretti a
combattere contro la tenace
resistenza delle forze della
cultura «tradizionale», non
scientifica. Nel secolo xvii
c’era Galileo contro la
Chiesa. Nel secolo xx, c’era il
«modernizzatore» contro il
mullah. In ogni punto, si è
detto che c’era sempre la
«razionalità» contrapposta
alla «superstizione», e
la «libertà» contrapposta alla
«oppressione intellettuale».
E tutto ciò è stato considerato
come un processo
parallelo (persino identico)
alla rivolta intrapresa nel
campo dell’economia politica
da parte dell’imprenditore
borghese contro il
proprietario terriero
aristocratico.
L’immagine di fondo di
una lotta culturale su scala
mondiale si è basata su una
premessa implicita. Si è
trattato di una premessa
relativa al tempo: la
«modernità » era considerata
temporalmente nuova, mentre
la «tradizione»
era temporalmente vecchia e
antecedente rispetto alla
modernità; in verità, nelle
versioni forti di questa
concezione, la tradizione era
astorica e perciò praticamente
eterna. Questa premessa era
storicamente falsa e perciò
fondamentalmente erronea.
Le varie culture, le varie
«tradizioni» che sono fiorite
all’interno dei confini spazio-
temporali del capitalismo
storico, non sono state più
primordiali di quanto lo
fossero le varie cornici
istituzionali. Sono state a
pieno titolo una creazione del
mondo moderno, una parte
della sua impalcatura
ideologica. Legami tra le
varie «tradizioni» e i gruppi o
le ideologie che avevano
preceduto il capitalismo
storico, certo, ve ne sono
stati, nel senso che queste
«tradizioni» sono state spesso
costruite usando alcuni
materiali storici e intellettuali
già esistenti. Di più, l'
affermazione di simili legami
trans-storici ha svolto una
funzione importante per l'
aggregazione di gruppi nelle
lotte politiche e economiche
interne al capitalismo storico.
Ma se vogliamo capire le
forme culturali che queste
lotte hanno assunto,
non possiamo permetterci di
prendere le «tradizioni» per il
loro valore apparente, e in
particolare non possiamo
permetterci di pensare che le
tradizioni siano davvero
«tradizionali».
1. La differenziazione
etnica della forza-
lavoro.
3. L’ambivalenza dei
movimenti
antisistemici.
Si potrebbe pensare che le
forze-lavoro mondiali siano
state immuni da questa
ambivalenza, non essendo
mai state invitate a «mangiare
alla tavola del signore». Di
fatto, tuttavia, le espressioni
politiche delle forze-lavoro
mondiali, i movimenti
antisistemici, sono state
fortemente caratterizzate dalla
stessa ambivalenza. I
movimenti antisistemici,
come abbiamo già notato, si
sono ricoperti dell’ideologia
dell’Illuminismo, che è stato
esso stesso un
prodotto diretto dell’ideologia
universalistica. Essi perciò
hanno preparato per sé la
trappola culturale in cui si
dibattono da sempre: cercare
di scalzare le basi del
capitalismo
storico, proponendosi
strategie e obiettivi di medio
termine che derivano
esattamente dalle «idee delle
classi dominanti» che essi
cercano di distruggere.
La variante socialista dei
movimenti antisistemici ha
sempre avuto a che fare, fin
dall’inizio, con l’idea del
progresso scientifico. Marx,
volendo distinguersi dagli
altri socialisti che definiva
«utopisti», affermava di
volere il «socialismo
scientifico». I suoi scritti
ponevano l’accento sui modi
in cui il capitalismo era
«progressivo» rispetto a ciò
che lo aveva preceduto. Il
concetto per cui il socialismo
sarebbe arrivato prima nei
paesi più «avanzati»
suggeriva un processo per cui
il socialismo sarebbe scaturito
da (e come reazione a)
un’ulteriore avanzata del
capitalismo. La rivoluzione
socialista avrebbe così tratto
ispirazione dalla «rivoluzione
borghese», e sarebbe venuta
dopo di essa.
Alcuni teorici successivi
sostennero persino che fosse
compito del socialismo
contribuire dapprima al
compimento della rivoluzione
borghese, in quei paesi in cui
non si era ancora verificata.
Le successive differenze
tra la Seconda e la Terza
Internazionale non
comportarono un disaccordo
su questa parte
epistemologica, che entrambe
condividevano. In effetti, sia i
socialdemocratici che i
comunisti, una volta al
potere, hanno teso a dare
grande priorità all’ulteriore
sviluppo dei mezzi di
produzione. Lo slogan di
Lenin secondo cui «il
comunismo è eguale il
socialismo più
l’elettricità» campeggia ancor
oggi su enormi striscioni
nelle strade di Mosca. Nella
misura in cui questi
movimenti, una volta
al potere - fossero
socialdemocratici o comunisti
- hanno realizzato le parole
d’ordine staliniane del
«socialismo in un paese solo»
essi si sono concentrati tutti,
di conseguenza, nel
proseguire il processo di
mercificazione di ogni
cosa che è stato così
connaturato
all’accumulazione generale
del capitale. Nella misura in
cui essi sono rimasti tutti
all’interno del sistema
interstatale - anzi hanno
lottato per rimanervi, contro
tutti i tentativi di espellerli -,
tutti hanno accettato e
rafforzato la realtà del
dominio su scala mondiale
della legge del valore.
«L’uomo socialista» è
sembrato sospettosamente
simile a quello di un
taylorismo che intanto
dilagava.
Vi sono state,
naturalmente, ideologie
«socialiste» che hanno
dichiarato di respingere
l’universalismo illuministi-
co, e hanno invocato varie
specie «indigene» di
socialismo, per le zone
periferiche dell’economia-
mondo. Nella misura in cui
queste formulazioni erano
qualcosa in più che
pura retorica, esse
sembravano di fatto dei
tentativi di adoperare come
unità di base del processo di
mercificazione non i nuovi
aggregati domestici che si
ripartivano il reddito, ma più
grandi entità comuni che
erano, si sosteneva,
più «tradizionali».
Dappertutto, questi tentativi,
anche quando sono stati una
cosa seria, si sono risolti in un
fallimento. In ogni caso, la
maggior parte dei movimenti
socialisti del mondo ha teso a
denunciare questi tentativi
come non socialisti, come
forme di nazionalismo
culturale retrogrado.
A prima vista, il versante
nazionalistico dei movimenti
antisistemici, perla forte
centralità della tematica
separatistica, sembrerebbe
meno soggiogato
dall’ideologia
dell’universalismo. Uno
sguardo più attento, però,
smentisce questa impressione.
Certo, il nazionalismo ha
avuto inevitabilmente una
componente culturale, nella
quale specifici movimenti
sostenevano il rafforzamento
delle «tradizioni» nazionali,
di una lingua nazionale,
spesso di un
retaggio religioso. Ma ha
costituito, il nazionalismo
culturale, una resistenza
culturale alle pressioni degli
accumulatori di capitale? In
effetti, due elementi
fondamentali del
nazionalismo culturale hanno
teso verso una direzione
opposta. Il primo è consistito
nel fatto che l’unità scelta
come contenitore della
cultura tendeva ad essere lo
stato, che era a sua volta una
componente del sistema
interstatale. Era spesso
proprio questo stato ad essere
investito di una
cultura «nazionale».
Praticamente in tutti i casi ciò
comportava una distorsione
della continuità culturale,
spesso molto forte. In quasi
tutti i casi, la rivendicazione
di una cultura nazionale
racchiusa in uno stato
comportava inevitabilmente
una soppressione delle
continuità, almeno nella
stessa misura di una loro
riaffermazione. In tutti i casi,
ciò rafforzava le strutture
statali, quindi il sistema
interstatale, quindi il
capitalismo storico come
sistema-mondo.
In secondo luogo, uno
sguardo comparato alle
riaffermazioni culturali tra
tutti questi stati chiarisce che
mentre esse sono state diverse
nella forma, sono state
tendenzialmente identiche nel
contenuto. I morfemi di
ciascuna lingua erano
differenti, ma il vocabolario
cominciava a convergere. I
rituali e le teologie delle
religioni del mondo potevano
magari essere rinvigoriti, ma
cominciavano a differire
sempre meno nel loro
contenuto effettuale rispetto
alle fasi precedenti. E gli
antecedenti
dell’atteggiamento scientifico
venivano riscoperti sotto le
forme più disparate. In breve,
la maggior parte del
nazionalismo culturale è
stato una gigantesca sciarada.
Ancor più, il nazionalismo
culturale, allo stesso modo
che la «cultura socialista», è
stato spesso il principale
sostenitore dell’ideologia
universalistica del mondo
moderno, che è stata così
offerta alle forze-lavoro
mondiali in una forma ad esse
più appetibile. In questo
senso, i movimenti
antisistemici hanno spesso
funzionato da intermediari
culturali dal potente verso il
debole, alterandone, piuttosto
che rafforzarne, le fonti di
resistenza più radicate.
Le contraddizioni poste
dalla strategia di conquista
dello stato da parte dei
movimenti antisistemici,
combinate con l’accettazione
tattica dell’epistemologia
universalistica, hanno avuto
serie conseguenze per questi
movimenti. Essi hanno
dovuto fronteggiare sempre
più il fenomeno della
disillusione, e la loro più forte
risposta ideologica è stata la
riaffermazione della
giustificazione centrale del
capitalismo storico: il
carattere automatico e
inevitabile del pro-gresso, o
come va oggi di moda dire in
Urss, la «rivoluzione
scientifico-tecnologica».
Cominciato nel secolo xx,
e sviluppatosi con crescente
forza a partire dagli anni
sessanta, il tema di un
«progetto delle civiltà», come
ama definirlo Anouar Abdel-
Malek, ha cominciato a
rafforzarsi. Mentre per molti
il nuovo linguaggio delle
«alternative endogene» è
servito da pura variante
verbale dei vecchi temi del
nazionalismo culturale
universalizzante, altri
riconoscono un contenuto
epistemologico
effettivamente nuovo a questo
tema. Il «progetto delle
civiltà» ha riaperto la
domanda se esistano davvero
verità metastoriche. Una
forma di verità, che rifletteva
le realtà del potere e gli
imperativi economici del
capitalismo storico, si è
sviluppata e ha pervaso il
globo. E vero, e lo abbiamo
visto. Ma quanta luce getta
questa forma di verità sul
processo di declino di questo
sistema storico, e ancor più
sull’esistenza di effettive
alternative storiche ad un
sistema storico basato sulla
incessante accumulazione di
capitale? Qui sta la questione.
Conclusione: progresso
e transizioni
Se c’è un’idea connessa
con il mondo moderno, anzi
situataci centro di esso,
questa è l’idea di progresso.
Ciò non vuol dire che tutti
abbiano creduto nel
progresso. Nella grande
discussione ideologica tra
conservatori e liberali
che precedette la Rivoluzione
francese, ma soprattutto in
quella che la segui, il succo
della posizione conservatrice
stava nel porre in dubbio che
i cambiamenti che l’Europa e
il mondo stavano conoscendo
potessero essere considerati
progresso, o piu precisamente
che il progresso fosse un
concetto importante e
significativo. Tuttavia, come
sappiamo, furono i liberali ad
essere i banditori di
quell’epoca e ad incarnare
quella che sarebbe diventata
nel secolo xix l’ideologia
dominante dell’economia-
mondo capitalistica, la quale,
per parte sua, esisteva già da
lungo tempo.
Non c’è da stupirsi che i
liberali credessero nel
progresso. L’idea di
progresso giustificava l’intera
transizione dal feudalesimo al
capitalismo. L’idea di
progresso legittimava la
rottura dell’opposizione
persistente nei confronti
della mercificazione di ogni
cosa. L’idea di progresso
tendeva a spazzar via tutti gli
aspetti negativi del
capitalismo sulla base della
convinzione che i benefici
sopravanzassero, e di gran
lunga i danni. Dunque non
c’è proprio da stupirsi che i
liberali credessero in questa
idea.
Ciò che stupisce è che i
suoi grandi oppositori
ideologici, i marxisti - gli
antiliberali, i portavoce delle
classi lavoratrici oppresse -
credessero nel progresso con
una passione almeno
altrettanto accesa dei liberali.
Senza dubbio, questa fede era
a sua volta a servizio di un
importante scopo ideologico.
Giustificava le attività del
movimento socialista
mondiale sulla base del fatto
che esso incarnava il corso
inevitabile dello sviluppo
storico. Inoltre la
proposizione di questa
ideologia sembrava un fatto
particolarmente acuto, perché
significava adoperare le
stesse idee della borghesia
liberale per sconfiggerla.
Vi erano sfortunatamente
due piccoli difetti nel fatto di
abbracciare in modo
apparentemente così astuto, e
certo entusiastico, questa fede
del secolo nel progresso. Se
l’idea di progresso
giustificava il socialismo,
essa giustificava anche il
capitalismo. Difficilmente si
potevano cantare osanna al
proletariato senza prima avere
distribuito lodi alla borghesia.
I famosi scritti di Marx sull'
India offrono un’ampia
dimostrazione di questo fatto,
ma in verità lo stesso
Manifesto del Partito
Comunista ne è una prova.
Inoltre essendo la misura del
progresso una misura
materialistica (e come i
marxisti avrebbero potuto
dissentire su questo?) esssa
avrebbe potuto essere rivolta
- e in effetti è stata rivolta,
negli ultimi cinquant'anni -
contro tutti gli «esperimenti
di socialismo». Chi non ha
sentito condannare l'Urss
sulla base del fatto che il suo
tenore di vita è più basso di
quello degli Usa? E, per
giunta, nonostante le
millanterie di Chruscév, non
c'è ragione di ritenere che
questa disparità cesserà di
esistere tra cinquantanni.
Il fatto di avere
abbracciato da parte marxista
un modello evolutivo di
progresso è stato una enorme
trappola, di cui i socialisti
hanno cominciato ad
accorgersi solo di recente; ed
è questo uno degli elementi
della crisi ideologica che è
stata parte della generale crisi
strutturale dell’economia-
mondo capitalistica.
È semplicemente falso
che il capitalismo come
sistema storico abbia
rappresentato un progresso
rispetto ai precedenti sistemi
storici che distrusse o
trasformò. Mentre scrivo
queste cose, sento già il
tremore che accompagna il
senso della bestemmia, e
temo la collera degli dei,
perché anch’io sono stato
forgiato nello stesso
calderone ideologico dei miei
compagni, e anch’io ho
pregato agli stessi altari.
2. Capitalismo e
socialismo.
È essenziale analizzare le
realtà che hanno
accompagnato l'ideologia del
progresso perché, se non lo
facciamo, non possiamo
accostarci in modo
intelligente all’analisi
delle transizioni da un
sistema all’altro. La teoria del
progresso evolutivo
comportava non soltanto
l’affermazione per cui il
sistema che veniva dopo
dovesse essere migliore del
precedente, ma anche
l’affermazione per cui
qualche nuovo gruppo
dominante avrebbe sostituito
il gruppo
dominante precedente.
Perciò, non solo il
capitalismo costituiva
un progresso sul feudalesimo,
ma questo progresso era
ottenuto essenzialmente
tramite il trionfo, il trionfo
rivoluzionario, della
«borghesia» sulla
«aristocrazia terriera» (o sugli
« elementi feudali »). Ma se il
capitalismo non era
progressista, qual è il
significato del concetto di
rivoluzione borghese? C’è
stata una rivoluzione
borghese, e se sì, ve n’è stata
una o tante? Abbiamo già
sostenuto che l’immagine di
un capitalismo storico
scaturito dal rovesciamento di
una aristocrazia arretrata da
parte di una borghesia
progressista è sbagliata. Al
contrario, l’immagine
sostanzialmente corretta è
quella per cui il capitalismo
storico è stato messo in vita
dagli esponenti di una
aristocrazia terriera che
trasformò se stessa in
borghesia, perché il
vecchio sistema si stava
disgregando. Piuttosto che
lasciare che la disgregazione
proseguisse verso fini incerti,
essi si impegneranno in una
radicale opera di chirurgia
strutturale per poter
mantenere a anzi accrescere
significativamente la
loro capacità di sfruttare i
produttori diretti.
Se tuttavia questa nuova
immagine è giusta, essa
modifica radicalmente la
nostra percezione dell’attuale
transizione dal capitalismo al
socialismo, da un’economia-
mondo capitalistica a un
ordine-mondo socialista. Fino
ad ora, la «rivoluzione
proletaria» è stata modellata,
più o meno,
sulla «rivoluzione borghese».
Così come la borghesia
rovesciò aristocrazia, allo
stesso modo il proletariato
avrebbe rovesciato la
borghesia. Questa analogia è
stata il pilastro fondamentale
dell’azione strategica del
movimento
socialista mondiale.
Ma se non vi è stata
nessuna rivoluzione borghese,
ciò vuol dire che non c’è stata
o non ci sarà nessuna
rivoluzione proletaria?
Nient’affatto, né dal punto di
vista logico, né da quello
empirico. Vuol dire però che
dobbiamo accostarci al tema
della transizione in modo
differente. Dobbiamo
innanzitutto distinguere tra
cambiamento
tramite disgregazione e
cambiamento controllato, ciò
che Samir Amin ha definito la
distinzione tra «decadenza» e
«rivoluzione», tra il tipo di
«decadenza» che egli sostiene
sia avvenuta con la caduta di
Roma (e che, dice, sta
avvenendo ora) e quel
cambiamento più controllato
che è avvenuto nel passaggio
dal feudalesimo al
capitalismo.
Ma non è tutto, perché i
cambiamenti controllati (le
«rivoluzioni » di Amin) non
sono necessariamente
«progressivi», come abbiamo
appena notato. Perciò
dobbiamo distinguere tra un
tipo di trasformazione
strutturale che lasciasse al suo
posto, o addirittura
accrescesse, le realtà dello
sfruttamento del lavoro, e un
tipo di trasformazione che
abolisse questo sfruttamento,
o quanto meno lo
riducesse radicalmente. Ciò
vuol dire che la questione
politica del nostro tempo non
è se vi sarà o meno una
transizione dal capitalismo
storico a qualcosa d’altro.
Questo è sicuro, per quanto vi
possano essere certezze in
simili cose. Il problema
politico del nostro tempo è se
questo qualcos’altro, l’esito
della transizione, sarà o no
fondamentalmente diverso,
dal punto di vista morale, da
ciò che abbiamo ora; se sarà o
no un progresso.
Il progresso non è
inevitabile. Stiamo lottando
per ottenerlo. E la forma che
la lotta sta assumendo non è
quella del socialismo contro il
capitalismo, ma quella di una
transizione verso una società
relativamente senza classi
contro una transizione verso
un qualche nuovo modo di
produzione a base di classe
(differente dal capitalismo
storico, ma non
necessariamente migliore).
La scelta per la borghesia
mondiale non è tra il
mantenimento del capitalismo
storico e il suicidio. È tra una
disposizione «conservatrice»
da un lato, che si
concretizzerebbe in una
continua disgregazione del
sistema e nella conseguente
sua trasformazione in un
ordine mondiale incerto, ma
molto probabilmente più
egualitario, e, dall’altro lato,
un audace tentativo di
afferrare il controllo del
processo di transizione,
vestendo panni «socialisti», e
cercando di creare così un
sistema storico alternativo,
che manterrebbe in essere il
processo di sfruttamento della
forza-lavoro mondiale, a
beneficio di una minoranza.
È alla luce di queste
alternative politiche concrete
che si prospettano alla
borghesia mondiale, che
dovremmo considerare la
storia del movimento
socialista mondiale e la storia
degli stati in cui i partiti
socialisti sono giunti al potere
in una forma o nell’altra.
La prima cosa da
ricordare in questo ambito di
considerazioni è che il
movimento socialista
mondiale, anzi ogni forma di
movimento antisistemico,
così come ogni rivoluzione e
ogni stato socialista, sono
stati prodotti in tutte e per
tutto dal capitalismo storico.
Non erano strutture esterne al
sistema storico, ma la
secrezione di processi interni
al sistema. Perciò riflettevano
tutte le contraddizioni e tutti i
vincoli del sistema. Non
potevano e non possono fare
altrimenti.
I loro difetti, i loro
limiti, i loro effetti negativi
sono parte del bilancio del
capitalismo storico e non di
un ipotetico sistema storico,
quello di un ordine-mondo
socialista, che non esiste
ancora. L’intensità dello
sfruttamento del lavoro negli
stati rivoluzionari e/o
socialisti, la privazione delle
libertà politiche, la
persistenza del sessismo e del
razzismo sono tutte cose che
hanno molto più a che vedere
con il fatto che questi stati
continuano ad essere dislocati
nelle zone periferiche e
semiperiferiche
dell’economia-mondo
capitalista, che non con le
caratteristiche peculiari di un
nuovo sistema socialista. Le
poche briciole che sono state
a disposizione delle classi
lavoratrici, nel capitalismo
storico, sono sempre state
concentrate nelle
aree centrali. Ancora oggi ciò
è sproporzionatamente vero.
II giudizio sui
movimenti antisistemici e sui
regimi che essi hanno
contribuito a creare non può
perciò consistere nel valutare
se abbiano o meno create
delle «società buone».
La valutazione giusta può
consistere solo nel chiedersi
quanto grande sia stato il loro
contributo alla lotta mondiale
per far sì che la transizione
dal capitalismo si sviluppi
verso un ordine-mondo
egualitario e socialista. Qui i
conti si fanno
necessariamente piu ambigui,
a causa del funzionamento
contraddittorio dei processi
stessi. Ogni spinta positiva ha
comportato conseguenze
positive ma anche negative.
Ciascuna debolezza del
sistema in una direzione lo ha
rafforzato in altra direzione.
Non però necessariamente
allo stesso grado! La
questione è tutta qui.
Non c’è dubbio che il
contributo maggiore dei
movimenti antisistemici sia
consistito nella loro fase di
mobilitazione. Nell'organizzare
la ribellione, nel trasformare
la coscienza, essi sono stati
forze liberatorie; e i contributi
dei singoli movimenti in
questo senso sono divenuti
via via più grandi con il
passare del tempo, per il
meccanismo retroattivo degli
insegnamenti della storia.
Una volta che questi
movimenti hanno assunto il
potere politico nelle strutture
statali, essi hanno agito meno
bene, perché sono cresciute in
proporzione geometrica
le pressioni su di essi perché
modificassero la loro spinta
antisistemica; e queste
pressioni sono venute sia
dall’esterno che dall’interno
dei movimenti in questione.
Tuttavia, ciò non ha
significato un bilancio del
tutto negativo per questo tipo
di «riformismo» e di
«revisionismo». I movimenti
al potere sono stati in qualche
misura prigionieri
politici della loro ideologia e
perciò soggetti alla pressione
organizzata dei produttori
diretti all’interno dello stato
rivoluzionario e dei
movimenti antisistemici al di
fuori di esso.
Il vero pericolo viene
proprio ora, quando il
capitalismo storico giunge al
suo più completo
disvelamento - l’ulteriore
estensione della
mercificazione di ogni cosa,
la forza crescente della
comunità mondiale dei
movimenti antisistemici, la
continua razionalizzazione
del pensiero umano. È questo
pieno disvelamento che
condurrà al collasso
del sistema storico, che ha
prosperato fin qui perché la
sua logica si era realizzata
solo in parte. E più
esattamente, al momento del
suo crollo, e proprio perché
sta crollando, il potere
d’attrazione delle forze di
transizione sembrerà ancora
maggiore, e perciò l’esito
sarà più incerto. La lotta per
la libertà, l’eguaglianza e la
fraternità si protrarrà a
lungo e il luogo della lotta si
sposterà sempre più
all’interno della comunità
mondiale delle forze
antisistemiche.
Il comunismo è Utopia,
che vuol dire «in nessun
posto». Esso è l'avatar di
tutte le nostre escatologie
religiose: la venuta del
Messia, la seconda venuta di
Cristo, il nirvana. Non è una
prospettiva storica, ma un
mito dei nostri tempi. Il
socialismo, al contrario, è un
sistema storico realizzabile,
che potrà essere un giorno
posto in essere nel mondo.
Non vi può essere alcun
interesse verso un
«socialismo» che pretenda di
essere esso stesso un
momento «temporaneo» di
transizione verso l’Utopia.
L’unico interesse è per un
socialismo concretamente
storico, un socialismo che
soddisfi le caratteristiche
minime di un sistema storico
tendente a massimizzare
l’eguaglianza e la giustizia,
un socialismo che accresca il
grado di controllo della
propria vita da parte
dell’umanità (cioè la
democrazia), e che liberi
l’immaginazione.
Appendice
Il concetto di «spazio
economico»
Voce Spazio economico,
in Enciclopedia Einaudi,
XIII, Torino 1981, pp. 304-
13.
Cos’è un’economia e,
ancor prima, dov’è
un’economia? Proprio il porre
il problema in questi termini
suggerisce una discussione
sui problemi intorno ai quali
gli assunti a priori hanno di
solito preso il posto
dell’argomento ragionato.
Nel campo della teoria
economica due posizioni
fondamentali tendono a
determinare altrettanti modi
di concepire lo spazio
economico. Se si parte
dall’assunto che l’economia è
l’analisi di una serie di
attività umane universali, le
cui leggi possono, alla fin
fine, essere scoperte, lo
spazio (come il tempo)
diventa un elemento del tutto
secondario nella descrizione
di tali attività. Lo spazio - sia
esso fisico o politico-culturale
- si trasforma semplicemente
in un parametro aggiuntivo di
un caso specifico al quale si
ritiene possa applicarsi una
certa legge economica. Un
parametro neppure dei più
importanti. In tale tipo di
analisi si può parlare
tranquillamente di
«economia» senza
menzionare le specificità
spazio-temporali; è implicito
che ci si riferisce
all’economia di un’unità
politica (ad
esempio un’«economia
nazionale») oppure
all’economia di
un’area fisicamente
omogenea (ad esempio una
«regione naturale»). È il
punto di vista che emerge
dagli scritti della
maggior parte degli
economisti classici e
neoclassici, come anche
da quelli dei geografi e dei
sociologi dell’economia.
Per chi invece ritiene che
esistano diverse varietà di
economia, con sistemi di
funzionamento
significativamente diversi, la
precisazione dei caratteri
spaziali e temporali
rappresenta, per diverse
ragioni, un tratto
fondamentale dell’analisi.
Anzitutto, poiché i diversi
sistemi operano sulla base di
regole diverse, è importante
stabilire quale sistema di
regole operi in una
determinata situazione. In
secondo luogo, per procedere
a un’analisi specifica sul
piano storico, è necessario
chiarire i limiti di tempo e di
spazio entro i quali si ritiene
che l’azione sociale si svolga.
Questo punto di vista è tipico
di molte scuole di pensiero -
la scuola economica storicista
tedesca (con i suoi concetti di
Nationalökonomie e di
Volkswirtschaft),
l’istituzionalismo americano,
la storia economica delle
«Annales», le scuole che ad
essa si ispirano, l’ecologia
culturale e i marxisti
(quelli almeno che compiono
ricerche empiriche). Tutte
scuole che tentano di dare
spiegazioni «strutturali»
all’azione umana e che
attribuiscono un (o il) peso
determinate ai
processi economici
nell’influenzare tale azione.
Scuole che, d’altra parte,
partono dall’assunto che le
spiegazioni non
possano essere indipendenti
dalla storia, ossia universali,
ma che, al contrario, debbano
sempre collocarsi nello spazio
e nel tempo. Sono queste le
ragioni per cui, quando si
occupano di mutamenti di
lungo periodo o di vasta
portata, esse precisano, di
solito, le specificità temporali
e spaziali dei fenomeni cui si
riferiscono.
Accettare quest’ultima
posizione non significa però
rispondere alla domanda
iniziale: che cos’è
un’economia, e, anzitutto,
dov’è? Significa
semplicemente riconoscere
che, per le scienze sociali,
quel problema è
fondamentale ancor più che
importante. Per rispondere ad
essa occorre muovere da due
interrogativi di fondo: 1) che
cosa definisce i confini di
un’economia? 2) quali
caratteristiche qualitative
permettono di distinguere
un’economia da un’altra?
Separare logicamente i due
aspetti non è però così
semplice, anche se si tenterà
di farlo per esigenze di
chiarezza.
È probabilmente inutile
pensare a confini di spazio e
di tempo come se si trattasse
di due fenomeni distinti.
Conviene piuttosto istituire il
concetto di «confine
spaziotemporale » per
significare il (mutevole)
spazio fisico entro il quale si
svolge la storia naturale (o lo
sviluppo storico) di un dato
insieme di attività
economiche; entro il quale, in
altre parole, quello spazio ha
origine, cresce, si disintegra o
si trasforma.
Come è possibile
individuare tali confini
spazio-temporali? Il termine
'confine’ implica,
necessariamente, una
distinzione fra l’interno e
l’esterno. Una distinzione
che può essere logicamente
precisata sia ricorrendo ai
caratteri della stessa linea di
confine (una catena montuosa
difficile da attraversare, una
storica catastrofe come la
Morte Nera) sia precisando la
coesione e l’estensione delle
attività economiche,
all’interno di un piu vasto
contesto, in modo da scorgere
i loro limiti e giungere così a
individuare la linea di confine
che divide l’interno
dall’esterno.
Preferire il primo tipo di
approccio, cioè ricorrere ai
caratteri della linea di confine
per definire il confine stesso,
significa assumere (anziché
dimostrare) che tali
caratteri bastino da soli a
tener racchiuse le attività
economiche entro i confini. In
tal modo si finisce per
presumere che questi ultimi
influenzino le attività interne
in modi completamente
diversi da quelli con cui
influenzano le attività esterne.
Una presunzione difficile da
sostenere. Appare perciò più
logico partire da un insieme
di attività collegate fra loro e
risalire, empiricamente, ai
loro confini.
Parlando di attività
economiche ci si riferisce
normalmente alla produzione,
alla distribuzione e al
consumo di beni. Per
cominciare con la produzione
ci si può chiedere che genere
di relazioni esista fra la
molteplicità dei processi
produttivi. La risposta è che
esistono relazioni di
dipendenza che possono
assumere la forma di uno
stretto rapporto di
input/output all’interno del
sistema produttivo, ovvero di
rapporti dello stesso genere,
ma meno vincolanti. Nel
primo caso un processo
produttivo produrrà un
articolo (output) che sarà
utilizzato (o «consumato») da
un altro processo produttivo
(input). Nel secondo caso un
processo produttivo fornirà
un prodotto (output) che verrà
utilizzato (o «consumato»)
dai lavoratori di un altro
processo produttivo come
mezzo di sussistenza (e di
riproduzione della forza-
lavoro). In ogni caso, che il
vincolo sia rigido oppure
elastico, resta il fatto che vi è
un rapporto di dipendenza,
quindi che la relazione non è
affatto casuale, ma strutturale.
E il rapporto di dipendenza è
una categoria spazio-
temporale: eventuali difetti
dell’offerta di breve periodo
non significano
necessariamente l’assenza di
interdipendenze strutturali e
neppure che si traducano in
un’alterazione dei flussi
dell’offerta.
I confini spazio-temporali
di un’economia
corrispondono quindi ai limiti
(rilevabili empiricamente) di
un reticolo di processi
produttivi piu o meno
strettamente interdipendenti.
Tale complesso di attività
sarà necessariamente
caratterizzato da una
particolare divisione del
lavoro sociale che si può
definire come «una divisione
del lavoro» oppure come
«un’economia sociale». Il
problema che si pone
immediatamente a chi
definisca un’economia
sociale come quella operante
all’interno di determinati
confini spazio-temporali è
come questi confini si
colleghino e interagiscano
con quelli definiti da altre
dimensioni sociali, in
particolare dalla dimensione
politico-legale e da
quella culturale. Prima di
entrare nel merito di tale
questione è bene però
affrontare il secondo degli
interrogativi presentati in
precedenza: quali sono i
caratteri qualitativi che
permettono di distinguere
un’economia da un’altra?
Una distinzione classica è
quella fra articoli prodotti
come valori d’uso e articoli
prodotti come valori di
scambio, o come valori
prevalentemente d’uso o
prevalentemente di scambio.
Si tratta però di una
distinzione molto meno ovvia
di quanto non appaia a prima
vista. In primo luogo, i valori
d’uso sono fenomeni
socialmente determinati, e
le determinanti sociali
possono modificarsi, e
normalmente si modificano,
pur restando all’interno di
una stessa economia, a
seconda del posto occupato
dai partecipanti nella struttura
gerarchica o di classe. Inoltre,
la produzione per lo scambio
può benissimo essere
produzione per lo scambio di
valori d’uso. Al contrario, la
produzione di alcuni valori
d’uso può, in determinate
circostanze, ottimizzare un
processo di accumulazione
perseguito attraverso lo
scambio.
Volendo evitare di entrare
nel merito delle psicologie
sociali dei gruppi di
produttori, è necessario
andare alla ricerca di criteri
che derivino dai risultati e,
perciò, dalle condizioni dei
processi produttivi esistenti.
Tali criteri normalmente
includono le dimensioni
spazio-temporali del surplus
prodotto e utilizzato, nonché
il grado di centralizzazione
del controllo relativo alla sua
produzione e utilizzazione.
Una produzione, per
quanto semplice, implica
dimensioni spazio-temporali
più estese di quelle dell’atto
in sé. Sempre, e in ogni caso,
nel produrre si usano qui e
ora oggetti prodotti prima e
altrove, e i risultati produttivi
non vengono utilizzati
contestualmente, ma altrove e
piu tardi. In ciò consistono i
rapporti di dipendenza
strutturale interni a
un’economia sociale. In tal
modo ogni attività produttiva
genera determinate eccedenze
o «surplus» che nel loro
insieme compongono - in
forme specifiche diverse
a seconda delle caratteristiche
del sistema - il surplus sociale
dell’economia sociale, una
parte del quale non viene
impiegata semplicemente per
compensare il precedente
dispendio di energie umane:
di essa ci si appropria e si fa
uso in altro modo.
Di fatto, tale surplus
sociale è considerevole,
anche nel caso di popolazioni
che vivano di caccia e di
raccolta. Difficilmente le
dimensioni di tali surplus si
possono calcolare, senza
perdita di significato, per
mezzo di unità di misura che
si riferiscano a meno di un
anno oppure a meno di
qualche centinaio di acri.
Parimenti, non è
funzionalmente concepibile
che raggruppamenti umani
presentino un grado di
specializzazione nullo o vi sia
un’assoluta uguaglianza nei
consumi (in opposizione a
un’uguaglianza dei consumi
necessari). Tutto ciò per
sottolineare come anche nel
caso estremo di ipotetiche
unità sociali che formino
veri e propri minisistemi vi
siano divisione del lavoro,
ossia economia sociale, e
relazioni di scambio (anche
se solo di reciprocità) .
La conoscenza sociale di
tali minisistemi è accidentale
e ipotetica, dal momento che
essi si palesano
storicamente solo quando
abbiano cessato di esistere
come sistemi sociali
autonomi. Fu infatti possibile
«osservarli» solo dopo che
furono incorporati in più vasti
sistemi sociali, nel momento
in cui conservarono solo il
guscio esteriore del
loro precedente modo di
esistenza. In analogia con il
principio di indeterminazione
di Heisenberg si deve perciò
notare che, per tali
minisistemi, lo stesso
processo di osservazione
presuppone un’anteriore
trasformazione radicale del
sistema osservato.
È noto, comunque, che in
essi vi era una
specializzazione dei compitti,
che vi erano disuguaglianze
nei consumi e surplus sociali.
Si può inoltre ipotizzare che,
dal momento che il surplus
era prodotto e consumato
entro ristretti margini di
spazio e di tempo, quanto li
distingueva dai più vasti
sistemi era la trasparenza del
processo di formazione dei
modelli di appropriazione e di
utilizzazione del surplus, e
che eventuali ritardi nei
consumi o alterazioni nell'
allocazione delle risorse
dovevano essere chiaramente
collegati a difficoltà insorte
nel processo produttivo. In tal
caso le circostanze politiche
erano tali che il surplus
prodotto di volta in volta
poteva consentire resistenza,
al massimo, di lievi scarti. Se
il caso o l'abilità portavano a
un significativo incremento
del surplus, il minisistema
poteva provvedere a
suddividerlo (riducendo così
il surplus del singolo), oppure
utilizzarlo per la creazione di
una gerarchia sociale più
complessa.
Di fatto, si ha conoscenza
diretta soltanto dei più vasti
sistemi (divisioni del lavoro)
che si potrebbero denominare
«sistemi mondo» (world-
systems), dove il termine
'mondo' indica ogni divisione
del lavoro comprensiva di
un’eterogeneità di gruppi
sociali discriminatili sia
verticalmente (culturalmente,
etnicamente, per nazionalità),
sia orizzontalmente (in
termini di classi sociali). Tali
sistemi mondo furono di due
tipi: alcuni sono stati
organizzati all’interno di un
unico sistema politico (un
imperium) dove
gerarchia militare e sociale
spesso coincidevano. In tal
caso la gerarchia poteva
continuare a sopravvivere
solo grazie alla continua
estrazione di un’eccedenza
raccolta nella forma di
una specie di sistema di
tributi imposti ai produttori
diretti, raggiungibili
nell’ambito dell’autorità
proclamata (confini spaziali)
di questo impero come
«mondo».
Il surplus indispensabile
al mantenimento di tale
gerarchia era naturalmente
assai più cospicuo di quello
necessario o possibile per un
minisistema. Ciò nondimeno
la dimensione del surplus
aveva certi, definiti, limiti
sociali indipendenti da quelli
eventualmente derivanti dal
numero dei produttori o dalle
condizioni della tecnologia.
Tali limiti erano dettati dai
bisogni di coloro che si
trovavano ai vertici della
gerarchia, a loro volta
commisurati alle esigenze
della conservazione del
potere. Se i ceti
dominanti avevano bisogno di
un surplus sufficiente a
ricompensare adeguatamente
i sostenitori e i funzionari che
con la loro opera ne
garantivano il potere, si
trattava pur sempre di un
fabbisogno relativamente
fisso. L’abituale
accaparramento di un surplus
eccedente l’ammontare
socialmente necessario non
favoriva certo la
conservazione del
predominio. I tributi
dovevano essere convogliati
verso il vertice della piramide
per essere poi ridistribuiti; nel
loro cammino verso l’alto
essi subivano diversi passaggi
di mano. Una delle principali
preoccupazioni dei ceti
dominanti degli imperi
mondo fu sempre quella di
assicurarsi la lealtà dei
funzionari addetti all’esazione
dei tributi. Ogni volta che
il frutto dell’imposizione
fiscale si concentrava nelle
loro mani sorgeva infatti il
pericolo della loro disonestà.
Incrementare il drenaggio di
surplus significava ingrossare
i depositi di ricchezza nei
punti di raccolta, in misura
progressivamente più elevata
a mano a mano che ci si
avvicinava al centro;
ricchezza che avrebbe potuto
fornire i mezzi per alimentare
un’eventuale ribellione. In
più, un sovraccarico di tributi
avrebbe portato anche alla
ribellione dei produttori
diretti.
Limitare il drenaggio di
surplus era quindi una
necessità politica per i ceti
dominanti, una volta
raggiunto il livello più
conveniente. Gli interessi dei
ceti dominanti (timorosi di
rivolte) e quelli dei produttori
(desiderosi di limitare l'
ammontare del tributo)
venivano così a coincidere
nel determinare una
resistenza strutturale a
progressi tecnologici di
qualche significato. Ciò non
vuol dire che non si
producessero circostanze
nelle quali i ceti dominanti,
specie agli inizi
dell’espansione imperiale,
potessero trarre profitto
dall’avanzamento
tecnologico; significa solo
che un illimitato sviluppo
tecnologico era politicamente
improbabile negli imperi
mondo.
Il modo di produrre
descritto, che potrebbe
chiamarsi «ridistributivo-
tributario», è in netto
contrasto con un modo
«accumulativo-capitalistico».
Nei sistemi mondo che non
avevano una struttura politica
centrale e che,
perciò, distribuivano il potere
militare in senso verticale
(anche se in maniera
sproporzionata), simili
costrizioni di natura politica
esercitate sull’accumulazione
non operavano dovunque, su
tutta l’estensione dei confini
spazio-temporali
dell’economia sociale. I
confini di quelle che
potrebbero chiamarsi
economie mondo erano molto
più estesi di quelli
di qualunque altra loro unità
politica; perciò contenimenti
della produzione di surplus
nell’ambito di una data unità
potevano essere eliminati
(come di fatto accadde)
mediante l’espansione della
produzione di eccedenze
all’interno di altre unità
politiche della medesima
economia mondo.
Tale sistema creava un
modo di produrre
caratterizzato da un’endemica
concorrenza. Chi produceva a
costi più bassi era
avvantaggiato; tale vantaggio
poteva poi tradursi
nell’eliminazione dei
produttori che non
finalizzavano la loro attività
all’espansione
dell’accumulazione. Lungi
dall’impedire l’espansione
del surplus, quel modo di
produrre era orientato,
strutturalmente, nel senso di
rimuovere gli ostacoli che si
frapponevano al processo di
produzione del surplus e al
processo di accumulazione.
Tale processo, tuttavia, che
trovava in sé i germi per la
sua espansione, dipendeva
dall’ininterrotta assenza di
una gerarchia politica
totalizzante, che avesse
l’interesse, e il potere, di
limitare la produzione del
surplus.
Si è ora in grado di
ritornare alla questione posta
all’inizio: che cos’è
un’economia e dove si
colloca? È una particolare
divisione del lavoro,
interdipendente in termini
sociali, che occupa uno
spazio-tempo determinato (e
in divenire), avente una delle
tre seguenti forme storiche (o
modi di produrre): 1)
minisistemi, con scambi di
reciprocità, una condotta
politica fondata sul lignaggio,
e una produzione di
eccedenze ridotta al minimo;
2) imperi mondo, con
meccanismi ridistributivi-
tributari, una condotta
politica imperiale e una
produzione di eccedenze
cospicua ma socialmente
limitata e controllata; 3)
economie mondo, con
meccanismi capitalistico-
accumulativi, senza una
struttura politica centrale, e
una produzione di eccedenze
unicamente limitata da
conflitti di classe con livelli
produttivi e capacità tecniche
comunque in continua
espansione.
Volendo collocare
temporalmente queste forme
storiche si può affermare che
i cosiddetti «sistemi mondo»
comparvero in concomitanza
con la rivoluzione neolitica;
prima di allora si pensa
comunemente che esistessero
solo dei minisistemi. Fu
proprio la scoperta
dell’agricoltura che
rese possibili (e necessarie)
nuove strutture economiche
di spazio-tempo. Sia gli
imperi mondo sia le
economie mondo videro la
luce in diverse parti della
Terra e, come videro la luce,
così pure perirono.
Nel lungo arco di tempo
che va da qualche migliaio di
anni a.C. fin verso il 1500
d.C., la storia del pianeta è
stata quella della difficile
coesistenza di questi tre modi
di organizzare lo spazio-
tempo economico. Passando
in rassegna la dinamica
interna di ognuna di queste
forme si possono scoprire i
modelli della loro interazione
nella storia.
I minisistemi, essendo di
limitate dimensioni e
richiedendo alla natura assai
poco per sopravvivere (è
questa la ragione per cui si è
fatto spesso ricorso
all’espressione 'economie di
sussistenza’ per descriverli),
nascevano e morivano con
grande facilità; in vario modo
essi furono le autentiche
effemeridi dell’uomo storico.
Anche quando non correvano
il rischio di venir inglobati
dai più potenti
sistemi mondo,
presumibilmente la loro
esistenza era di breve durata.
Osservazioni (per quanto
oblique) dell’attività
degli pseudo minisistemi del
xix e del xx secolo, compiute
da chi scrive, indicano una
probabilità di vita media dei
medesimi intorno alle sei
generazioni. La dissoluzione
interveniva a causa della loro
stessa crescita (condizioni
troppo favorevoli), di crisi
ecologiche (condizioni troppo
sfavorevoli), della loro
incorporazione (la prossimità
di un sistema mondo in
espansione). Una situazione
di equilibrio deve essere stata
decisamente inusuale. D’altra
parte, ciò che li rendeva
deboli come individui li
rafforzava come
specie. Impiantare un
minisistema non era difficile
e i processi di dissoluzione
dei grandi sistemi
obbligavano i piccoli gruppi a
riorganizzarsi in minisistemi.
Poiché, come, si vedrà, tale
dissoluzione non era.
infrequente, la rinascita dei
minisistemi non lo era da
meno. Poiché, inoltre, tali
minisistemi avevano confini
spazio-temporali di
dimensioni minime (da cui il
nome), se ne sono avuti
probabilmente più di un
milione nel corso della storia.
In condizioni favorevoli,
minisistemi confinanti fra
loro diedero certamente
luogo, e non raramente, a
economie mondo. La loro
esistenza è documentata
storicamente soprattutto dalle
testimonianze del passato
relative agli interscambi
commerciali, a lungo raggio,
condotti dalle comunità di
mercanti. È però
probabilmente vero che il
genere di fonti pervenute fino
a noi fa attribuire al capitale
mercantile un’importanza
superiore a quella
effettivamente avuta.
Le economie mondo
utilizzarono, nella loro
espansione geografica (da cui
la loro maggior perspicuità
storica), vie d’acqua che
rendevano più facili i
trasporti (oceani,
mari, fiumi). In un periodo
per il quale si ha scarsa
documentazione, si sa che
nacquero e rinacquero vaste
economie mondo - soprattutto
dopo il 500 a.C. circa -
intorno alle estese superfici
d’acqua costituite dal
Mediterraneo, dal Golfo
Persico, dall’Oceano Indiano
e dal mar della Cina.
L’assenza (per definizione) di
strutture politiche
centralizzate comporta che le
informazioni sui loro confini
spaziotemporali siano molto
carenti: scoprire
testimonianze che si
succedono nel tempo a
distanza di duecento o
trecento anni può essere
segno non di continuità bensì
di frequenti rinascite. Sulla
base di alcune circostanze è
possibile dedurre che simili
economie mondo (anche le
più estese, per non parlare
delle più modeste per le quali
non esiste alcuna vera
documentazione) erano
altrettanto fragili quanto i
minisistemi.
Simile fragilità sembra
plausibile. Da un lato, la
mancanza di un’autorità
politica centrale significava
che, al sopravvenire di una
qualsiasi avversità ecologica,
il sistema poteva crollare per
il ritiro di alcuni territori dal
processo di interazione.
D’altro canto il persistere di
condizioni favorevoli che
sollecitassero la fortuna
economica dei sistemi
costituiva- un invito ai
conquistatori dall’interno
(una singola unità politica che
si espandeva fino ad assorbire
il tutto) o dall’esterno
(incorporazione da parte di un
impero in espansione). In
ogni caso, l’economia mondo
cessava di esistere e si
trasformava, o si incorporava,
in un impero mondo. Sotto
l’urto di tali pressioni, è assai
dubbio che la loro durata
media potesse superare il
numero di sei generazioni già
indicato a proposito dei
minisistemi.
Da quanto è stato detto
emerge chiaramente che i
sistemi di gran lunga più
solidi sul piano organizzativo
(nel periodo che va dalla
rivoluzione neolitica al 1500
d.C.) furono gli imperi
mondo.. Di fatto la storia
mondiale, così come è scritta
per questo periodo, è quasi
esclusivamente la storia degli
imperi mondo e non solo
perché essi furono i sistemi
piu forti ma anche perché
essi, più degli altri,
registravano la cronaca dei
loro eventi. Il segreto del
controllo sociale stava nella
creazione di una burocrazia
eminentemente militare. Se la
vastità delle frontiere spazio-
temporali degli imperi era
diversa a seconda delle
caratteristiche del terreno e
delle relative tecniche, era
comunque evidente che poche
organizzazioni potevano
resistere alla spada
dell’imperatore (o a quella
dell’imperatore putativo). Per
quanto gli imperi mondo
siano stati i sistemi
organizzativi più potenti e più
duraturi della storia, essi non
riuscirono mai ad eliminare
definitivamente le forme
rivali; questo perché ogni
impero mondo, da noi
conosciuto, prima o poi si
dissolveva. I suoi punti deboli
stavano al suo interno, ed
erano strutturali, derivando
essi dalle contraddizioni
del modo di produrre.
Gli imperi mondo
tendevano a espandersi per
almeno tre ragioni: ai loro
confini vivevano popoli
effettivamente o
potenzialmente nemici, e
l’offesa costituiva spesso la
miglior difesa; in secondo
luogo, più gli imperi mondo
erano vasti, più frequenti
erano le decisioni di
espansione prese de facto
dalla gerarchia militare
periferica: espandersi
militarmente era nel suo
interesse anche se questo non
coincideva con gli interessi
del centro dell’impero. Infine
vi erano, sempre partiti in
conflitto al fine di assumere il
controllo del potere centrale,
e spesso il modo più sicuro
per garantire alla fazione o al
suo capo la fedeltà dei
quadri militari era impegnarli
in guerre espansionistiche. -
L’espansione tuttavia non
poteva superare certi limiti. A
mano a mano che l’impero
mondo si allargava
crescevano i costi logistici,
che si potevano sostenere
aumentando la pressione
fiscale. Ma anche così i costi
connessi all’occupazione di
nuovi territori potevano, a un
certo punto, eccedere
l’ulteriore capacità
contributiva (del centro o
dei margini dell’impero, non
ha importanza) utilizzabile.
Per di più, l’incremento dei
tributi alimentava il flusso di
ricchezza che scorreva lungo
la macchina burocratica a un
livello tale da stimolare la
predisposizione dei satrapi
locali alla ribellione o alla
secessione. L’effetto
combinato di tali ribellioni e
dell’alto tasso di sfruttamento
all’interno dell’impero (con il
relativo malcontento e la
relativa rovina ecologica)
innescava un ciclo di guerre
intestine che portavano,
cumulativamente, a un
processo di disintegrazione.
Queste le ragioni per cui
gli imperi funzionavano in
modo ciclico: a un periodo di
espansione seguiva sempre un
periodo di contrazione della
potenza e dell’estensione
territoriale. Dopo il periodo di
contrazione il ciclo
espansivo poteva rinnovarsi
grazie alla guida di nuovi
gruppi. Di tal genere sembra
essere stato il modello seguito
dalle cosiddette grandi
«civiltà», la cui continuità è
piu che altro un artificio
ideologico di chi l’ha
riscontrata. A ogni sua
contrazione l’impero mondo
abbandonava estesi territori
sui quali potevano rifiorire
minisistemi oppure economie
mondo. La storia di tali
territori non è altro che la
storia dell’alterno movimento
degli imperi mondo diretto
prima all’inglobamento e poi
all’abbandono di tali aree,
nelle quali agli altri sistemi si
succedevano così i sistemi
tributario-ridistributivi.
Il motivo per cui questo
complesso modello storico
non si è perpetuato
indefinitamente, ma è stato
sostituito da un altro verso il
1500 d.C., costituisce uno dei
maggiori interrogativi della
scienza sociale
contemporanea. Un problema
che, a seconda del punto di
vista, è stato visto
come transizione dal
feudalesimo al capitalismo o
come avvento della moderna
razionalità. Senza entrare nel
merito dei motivi che hanno
portato a tale mutamento, ci
si limiterà a descriverne le
caratteristiche essenziali.
L’economia mondo
dell’Europa del xvi secolo fu
diversa da ogni altra
precedente, per il semplice
fatto che essa sopravvisse.
Non si disintegrò e neppure si
ricostituì in impero mondo
(sebbene Carlo V abbia fatto
un valoroso tentativo in tal
senso), e non fu nemmeno
incorporata da un impero
mondo finitimo (nonostante
l’impero ottomano
sia arrivato fino alle porte di
Vienna). Al contrario, si
consolidò prog