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50 sfumature di congiuntivo

Come evitare figuracce sui social network


Di Emilia Urso Anfuso
Indice

La lingua madre
L’Italia è la nazione più ignorante al mondo
Anno o Hanno? L’errore più comune
C’è e ce: differenze da memorizzare
“Ce ne” oppure “Ce n’è”?
Un po, un pò o un po’?
D’accordo o daccordo?
Da evitare come la peste
Orrori e omissioni
Il refuso, questo sconosciuto
T9 e funzione “Modifica” sui social
Nel dubbio meglio scrivere meno
La lingua madre

Quando si parla di “Lingua madre” o di “Lingua materna”, si intende il


processo naturale attraverso il quale gli individui, in maniera naturale e
spontanea, acquisiscono la capacità di parlare. Questo processo, si chiama
acquisizione linguistica, e accade in ogni parte del mondo al genere umano.
In pratica, si acquisisce la lingua che – generalmente parlando – parlano i
nostri genitori o le persone che ci crescono ed educano.
Il passo successivo, è quello dell’apprendimento delle regole grammaticali
e della sintassi, che si studiano durante il percorso scolastico.
Ci sono poi casi in cui i genitori – o chi si prende cura di un bambino –
parlano due, e a volte anche più di due, lingue. In questo caso, si può
decidere di far acquisire al bambino, in maniera naturale e spontanea, le
lingue conosciute, creando così uno stato di bilinguismo, che al giorno
d’oggi è molto utile, dal momento che viviamo in una società multi
culturale che spinge molte persone a trasferimenti in altre nazioni, non solo
per diporto ma anche per lavoro o scelta di vita.
Spiegato così, l’apprendimento della lingua, o delle lingue, madre, è un
giochetto da ragazzi, da affinare poi al momento dell’accesso al percorso di
studi.
Eppure, tanto facile non è, dal momento che una delle cose che appaiono
sempre più difficili, è trovare persone che abbiano la cosiddetta proprietà di
linguaggio.
Non basta, infatti, aver imparato a parlare. Se, ad esempio, si nasce in una
famiglia in cui si parla esclusivamente il dialetto del luogo, e poi a scuola si
prosegue con insegnanti che – a loro volta e non è cosa rara – parlano in
dialetto, ecco che si crea una crepa tra il saper parlare, e il non conoscere la
lingua madre.
La differenza è importante, dal momento che – solo in Italia - esistono
cinque categorie linguistiche, che sono i dialetti settentrionali, il friulano, il
toscano, dialetti centromeridionali, Sardo.
A queste cinque categorie linguistiche, si aggiunge anche la Lingua Ladina,
che si parla in Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Trentino e Veneto, ma non
deriva dalla lingua italiana, bensì da quella austriaca.
A parte questo, molto spesso persino nelle scuole si osserva un fatto molto
particolare: insegnanti che parlano in dialetto agli studenti.
Questa cosa può apparire normale ai più. Eppure non lo è. A cosa serve la
scuola? A istruire. A rendere edotti, informati e a sviluppare la cultura, la
conoscenza. In alcuni casi, è vero, il dialetto è parte della cultura di un
popolo. Se ne può parlare.
Magari inserendo lezioni apposite per approfondire le origini dei termini, la
loro storia. Ma parlare metodicamente in dialetto a giovani che devono
imparare – per esempio – la lingua italiana, non ha senso. Anzi.
Gli insegnanti che utilizzano il dialetto per insegnare agli studenti, creano
danni permanenti, anche perché proprio certe forme dialettali sono
scorrette. Ammissibili se si parla in dialetto, ma non traducibili in italiano.
Non a caso, anche in tempi recenti, diversi insegnanti hanno subito il
licenziamento a causa del fatto che, malgrado i richiami ricevuti,
continuassero a parlare in dialetto agli studenti. Misura eccessiva? Forse,
ma quegli studenti hanno diritto a conoscere al meglio la lingua italiana,
anche.
E se a cominciare dagli insegnanti questa conoscenza non c’è, è
comprensibile come non possa far bene al progresso della conoscenza dei
più giovani.
Imparare, capire, sapere. E’ un diritto di tutti. Ed è necessario imparare
bene, capire bene per sapere per sempre.
Le regole fondamentali della grammatica, per esempio, si imparano, si
acquisiscono, si memorizzano quindi, nella prima fase del percorso
scolastico. O almeno, si dovrebbe.
Il condizionale, purtroppo, è d’obbligo, dal momento che questo libro nasce
proprio dall’idea di voler spiegare, una volta per tutte, ad adulti – spesso
laureati – le regolette fondamentali della grammatica italiana.
Verificare l’incompetenza di molti, in questo campo, oggi è molto facile:
basta accedere a un social network come Facebook o Twitter. Ma non solo.
Spesso, e da giornalista ritengo orrida questa tendenza, su diverse testate
nazionali si leggono obbrobri che nemmeno dalle persone più ignoranti
(ignorante è colui che ignora, non un’offesa) sarebbe concepibile accettare.
Eppure…
Ciò significa due cose: poca competenza linguistica, poca attenzione a ciò
che viene pubblicato. Le due cose messe insieme sono una miscela
esplosiva, perché un tempo un giornalista era un modello anche linguistico.
Oggi no, spesso non lo è. Peccato…
L’Italia è la nazione più ignorante al mondo
Cattive notizie per gli italiani: l’Italia, e quindi la popolazione italiana,
appaiono essere i più ignoranti di tutto il mondo occidentale sviluppato.
Non sono opinioni personali ma i dati evinti da una ricerca internazionale
recentemente pubblicata e sviluppata da un’agenzia che si occupa di
ricerche e sondaggi, l’inglese IPSOS MORI.
Secondo quanto è emerso da questa ricerca, che si basa sulla verifica del
Misperceptions Index – l’indice relativo alle percezioni errate rispetto alla
realtà – la stragrande maggioranza degli italiani non è in grado di percepire
in maniera corretta la realtà. Questa dispercezione, crea come conseguenza
l’impossibilità di fare scelte corrette. Un esempio tra tutti, è quello dato
dalla scelta migliore da fare quando si viene chiamati a votare per le
elezioni politiche.
Nella maggioranza dei casi, infatti, non avendo una percezione chiara degli
accadimenti reali, gli italiani votano “di pancia” come si suol dire, e non per
avere un’idea chiara e profonda di cosa si sceglie e perché.
Il filosofo francese Michel de Montaigne nel ‘500 scriveva “C’è
un’ignoranza da analfabeti e un’ignoranza
da dottori“. E’ un esempio fulgido di questo tipo di incapacità ad afferrare
concetti e realtà. Osserviamo infatti un fenomeno: pur non comprendendo i
fatti, le situazioni, difficilmente gli italiani
ammettono di non capire o non sapere, e arrivano a reazioni al limite
dell’arroganza, volendo dimostrare una preparazione e una capacità
intellettiva di cui non sono forniti.
Eppure, la popolazione italiana vanta un 7,5% di persone laureate. Ma
quanto il percorso di studi crea conoscenza, se il sistema dell’istruzione non
garantisce effettivamente la corretta acquisizione di nozioni e conoscenze a
secondo del percorso di studi intrapreso? In Italia, accadono cose
quantomeno bizzarre. A volte i test di ingresso alle facoltà universitarie,
vengono consegnate ai giovani che possono portarle a casa. Ciò significa
rendere possibile le risposte grazie alla ricerca sul web, non consentendo –
di fatto – di verificare l’effettiva preparazione dei candidati.
Che dire poi delle figuracce a cui assistiamo alla visione di certe
trasmissioni televisive molto popolari, come ad esempio “L’Eredità” in
onda ogni sera su Rai1?
Concorrenti laureati che non sono in grado di rispondere a domande del
tipo: “Qual è il capoluogo delle Marche”? E’ accaduto davvero, durante una
puntata, e tutti non sapevano dare la risposta. Non si provi però a dare la
giustificazione dell’emozione: ormai la gente sembra essere particolarmente
preparata a stare davanti a una telecamera. Molto meno preparata per
quanto riguarda nozioni basiche di cultura generale.
Eppure, questo problema appare poco palese a molti italiani, che – anzi – si
considerano persone di cultura, genericamente parlando, per il solo fatto di
esser nati in Italia, dove vive un popolo di “santi, poeti e navigatori” come
ebbe a dire Benito Mussolini durante un discorso - tenuto nel 1935,
esattamente il 2 Ottobre – contro l’Onu, che condannava l’Italia per il suo
intervento in Abissinia.
Sarà pure un popolo di poeti, quello italiano, ma la lingua italiana è –
diciamolo – parecchio mortificata. In special modo in questo particolare
periodo storico.
Mi auguro che in queste pagine ognuno trovi uno spunto per migliorare la
conoscenza della nostra bella lingua, e di trasmettere a qualcun altro quanto
si è appreso.
Senza riserve e senza vergogne. Perché “Nessuno nasce imparato”…come
si dice, sbagliando, in certi casi…
Anno o Hanno? L’errore più comune

“L'unica che non riesce ha comprendere credo che sia te”


(Commento a un mio post su Facebook, pubblicato il 15 Settembre 2018)
Partiamo da questo esempio pratico: cosa c’è che non va in questa frase? E’
uno degli errori grammaticali più comuni e diffusi. Molti italiani, infatti,
non sono in grado di distinguere tra congiunzione e verbo. Eppure sono
regole che si imparano alle scuole elementari…
Piccolo ripasso: cosa sono le congiunzioni? Cosa sono i verbi?
ATTENZIONE: ho scritto CONGIUNZIONI non CONGIUNTIVO.
Nella frase che stiamo esaminando, a parte la scorretta sintassi, che è la
struttura della frase, ma per ora analizziamo il palese strafalcione: il tizio in
questione, ha messo una H dove non doveva, e non è un refuso, come
molti ancora si ostinano a voler far credere. Si tratta di refuso, ad esempio,
quando per digitare troppo
velocemente sulla tastiera, si fa un errore immettendo una vocale diversa o
aggiungendo una lettera.
No, questo è proprio un errore grammaticale, tra i più diffusi e odiosi da
leggere: “…che non riesci HA comprendere”. In questo caso, il tizio ha
utilizzato il verbo “avere” al posto della congiunzione “a”.
Fa orrore pensare che molte persone cadano su errori di questo genere,
eppure…
I social poi, sono un’enorme cassa di risonanza anche per ciò che riguarda
errori di questo genere, che si perpetuano pericolosamente in una sorta di
effetto-specchio: se gli utenti dei social vedono scrivere costantemente
questo tipo di errori, e non si sentono forti delle proprie conoscenze in
materia e, inoltre, se nessuno li corregge, ecco che l’errore diviene
incorreggibile: la gente si convince di scrivere in italiano corretto.
Ecco quindi una prima cosa da tenere bene a mente:
“Ha” è la terza persona singolare del verbo “avere”.
NON si usa mai come congiunzione, semplicemente perché NON LO E’.
Il tizio in questione, avrebbe dovuto scrivere: “L’unica che non riesci A
capire…” Non è difficile.
A=congiunzione. Si usa in casi come questi:
“Sono andato A fare una passeggiata” oppure “Sei andata A casa” e così
via.
NON SI SCRIVE: “Sono andata HA fare una passeggiata” e men che
meno si scrive “Sono andata HA casa”.
Come ricordare questa semplicissima regola da scuola elementare?
A come E come O sono CONGIUNZIONI
Come dice lo stesso termine servono a CONGIUNGERE, a unire, una o
più PROPOSIZIONI.
RIPASSINO: vi ricordare le PROPOSIZIONI? Sono parole che ruotano
intorno a un verbo, o predicato verbale, che indica un’azione, una
condizione o uno stato del soggetto di cui si sta parlando.
Esempio: sono andata a fare una passeggiata. In questo caso intorno al
verbo “essere” (sono) e “andare” (andata) ruota la parola “passeggiata”
(proposizione) e la congiunzione “a”.
Non è difficile. Basta ricordare che, se davanti alla A o alla O ci si mette
una H ecco che quella vocale assume il ruolo di VERBO e non di
CONGIUNZIONE.
Non è possibile scrivere “Sono andata HA fare una passeggiata” perché,
volendo tradurre questa bizzarra quanto scorretta frase, avremmo: “Sono
andata AVERE FARE una passeggiata”. Una frase che appare simile a chi
tenta di parlare in italiano, essendo straniero…Ma nemmeno.
Chiaro ora?
Per non dimenticare:
- La H si mette davanti alle vocali A ed O solo se si deve scrivere
il verbo AVERE alla prima persona singolare o alla seconda
persona singolare.
HANNO fatto…HA fatto…HA detto…HA un mazzo di fiori in mano…
HO sonno…HO avuto paura…HO visto… e così via.
Da questi esempi, ecco scaturire un altro errore che al solo leggerlo fa
venire le bolle verdi a chi ben conosce la lingua italiana: Anno, scritto
SENZA LA H significa ESCLUSIVAMENTE l’anno in corso, il periodo
di 12 mesi che va da Gennaio a Dicembre e quindi NON si scrive MAI per
intendere il verbo avere come in questo esempio: “Hanno portato il nuovo
televisore”.
Hanno e non Anno, in questo caso, per carità!
Se invece volete fare gli auguri il 31 Dicembre, ecco che scriverete: “Buon
ANNO”!
SENZA, ovviamente la H.
Non azzardatevi mai più a scrivere “Buon Hanno”! Perché se continuerete a
farlo, soprattutto sui social, perpetuerete questo tragicomico errore al punto
da convincere i dubbiosi che sia la forma CORRETTA!
Ecco, invece, quando e come utilizzare la terza persona singolare del verbo
Avere: “Lei HA una borsa nuova” oppure “HA tre mele in mano”… e così
via.
Per memorizzare meglio:
A=CONGIUNZIONE (Emilia è andata A fare una passeggiata)
HA=VERBO AVERE TERZA PERSONA SINGOLARE Emilia HA
fatto una passeggiata)
Ne deriva quindi una regoletta facile da memorizzare.
Se io devo solo congiungere due parole, NON dovrò mettere la h davanti
alla vocale che serve a congiungere. Se invece all’interno della frase devo
inserire il verbo avere, allora quella vocale – A e O – dovrà essere scritta
inserendo prima la H: Ho e Ha… Io Ho lei Ha…
E’ facile. Non si può sbagliare. Andiamo avanti con gli strafalcioni più
diffusi.
C’è e ce: differenze da memorizzare

Ecco uno degli errori che si leggono con maggiore frequenza: c’è al posto
di ce.
In molti casi, questo è un tipico errore da “correttore”, quell’elemento
integrato sulle tastiere virtuali di Smartphone e Tablet, che sta uccidendo
quel poco di italiano corrente ancora in circolazione.
Molte persone, pur conoscendo la differenza tra “c’è” e “ce” lasciano la
frase con l’errore, e questo provoca la solita reazione a catena: chi non è
certo che sia un errore, lo riproduce, facendo a sua volta danni a catena.
Vediamo quindi quando utilizzare “C’è” e quando inserire nella frase “Ce”.
Partiamo con “Ce”, che è un cosiddetto morfema – tranquilli non morde… -
un piccolo elemento grammaticale che, unito a una parola, funge da
complemento o da rafforzativo. Senza voler entrare troppo nei tecnicismi,
ecco alcuni esempi pratici:
“Questa rosa CE l’ha regalata sua sorella”
“Quanti CE ne sono dentro quel cestino”?
“CE la devo fare a tutti i costi”!
Ecco tre esempi di come e quando va usato il morfema CE.
Vediamo ora quando va usata, invece, la forma contratta del costrutto CI
E’.
Quando è giusto scrivere C’E’?
Ecco gli esempi pratici:
“Oggi C’E’ il sole” – nella forma non contratta “Oggi ci è il sole”
“Non C’E’ nulla da fare” - nella forma non contratta “Non ci è nulla da
fare”
“C’E’ vento” - nella forma non contratta “Ci è vento”
È chiaro da questi esempi, che contraendo il costrutto CI E’ viene fuori
C’E’ che nulla ci azzecca con CE che, come abbiamo visto, è solo una
particella rafforzativa che si inserisce all’interno di una frase.
Anche queste due regole non sono affatto difficili da comprendere e
nemmeno da memorizzare. E faranno la differenza tra chi conosce la lingua
italiana e chi no.
“Ce ne” oppure “Ce n’è”?
Anche in questo caso, si tratta di particelle che intervengono alla
costruzione delle frasi, spesso usate come rafforzativo.
Partiamo con qualche esempio:
“CE NE fossero di persone come te”!
In questo caso, quando NE è senza apostrofo, come nel caso appena
descritto, rappresenta semplicemente un rafforzativo all’interno della frase,
che altrimenti si potrebbe anche scrivere così: “Ci fossero persone come te”
ma, come è palese, perde di forza.
Mai e dico mai scrivere: “CENE sono” o “CENE fossero”. “Cene”
significa esclusivamente la parola “Cena” ma al plurale. Eppure, molto
spesso, si trova questo errore persino su qualche quotidiano.
Ecco invece un esempio di come e quando va usato CE N’E’ che è la forma
contratta di “Ce ne è”.
“CE N’E’ tanta di gente stasera”.
Quindi: se dobbiamo solo rafforzare un concetto, una frase, ecco che
dobbiamo usare CE.
Se invece vogliamo usare la forma contratta di CE NE E’, dobbiamo usare
CE N’E’.
Semplice, anche questa volta, comprendere e memorizzare queste regolette
di base della lingua italiana.
Basterebbe mettere un poco di volontà e di desiderio di migliorarsi, per non
fare figure barbine, sui social ma non solo, dal momento che ormai persino
laddove ci si aspetterebbe una profonda conoscenza della lingua e quindi
della grammatica italiana, si trovano strafalcioni che nemmeno i bambini
delle elementari sono autorizzati a scrivere.
Un po, un pò o un po’?

Questo errore è frequentissimo, anche da chi vanta una buona conoscenza


della lingua italiana.
Si scrive: “Un po” oppure “Un po’” o “Un po’” con l’apostrofo finale?
La forma corretta è l’ultima: si scrive con l’apostrofo sulla O. il perché è
presto detto.
Po’ è la contrazione della parola POCO. È un cosiddetto troncamento di
parola. Invece di scrivere “Un poco” si usa spesso scrivere Un po’.
La parte che si tronca, quindi, deve essere sostituita dall’apostrofo, che
indica la caduta della sillaba finale.
Per memorizzare meglio:
Po, significa semmai il nome del fiume Po.
Po’, scritto con la O accentata, non si usa mai nella lingua italiana.
L’unica forma corretta per contrarre la parola POCO è quindi Po’ con
l’apostrofo finale.
Anche in questo caso, non è affatto difficile evitare di fare errori grossolani
e apparire competenti nella nostra lingua madre. Anzi, più che competenti –
che è un gradino più in alto del semplice conoscer bene la propria lingua
madre – qui si tratta di conoscere quelle regole che sono la base
fondamentale della lingua italiana.
Sono troppe le persone, nel nostro paese, che parlano quasi esclusivamente
in dialetto, per poi scrivere in maniera quasi del tutto incomprensibile. È
come vivere in una nazione che è abitata da cittadini di tante nazioni
diverse: una vera e propria Torre di Babele.
D’accordo o daccordo?

Ecco uno dei dubbi amletici che attanaglia molti italiani: si scrive
DACCORDO oppure D’ACCORDO?
Questo tipo di errore è molto comune, e lo realizzano un po’ tutti, anche
persone che vantano lauree e master. Ma a quanto pare, non è la cultura
generale a fare la buona grammatica.
Inizio col dire che la forma corretta è: d’accordo.
Per quale motivo? Perché si tratta di una elisione. L’elisione è la caduta
della vocale finale non accentata, che precede un’altra parola che inizia con
una vocale.
In questo caso, la vocale cade su queste due parole: di accordo. Un esempio
è: “Siamo di accordo” – italiano corretto – ma si preferisce scrivere “Siamo
d’accordo” per una forma ormai diffusamente utilizzata.
Per generare un unico termine quindi, si fa cadere la vocale finale in Di e la
si unisce alla parola successiva Accordo. Per unire le due parole,
accorpandole in una sola, ecco che serve l’apostrofo: d’accordo.
Anche in questo caso, non è necessario – anche se sarebbe cosa buona e
giusta farlo – memorizzare la regola dell’elisione, quanto memorizzare la
forma corretta: d’accordo. Non si scrive in altro modo.
Da evitare come la peste

Ecco ora, di seguito, una serie di veri orrori, da evitare come la peste se non
si vuol fare davvero la figura dell’emerito ignorante quando si scrive:
1) - stò – MAI con la o accentata – si scrive sempre STO
2) - sò – MAI con la o accentata – si scrive sempre SO
3) - pò – come abbiamo visto, si scrive con apostrofo finale – si scrive
sempre PO’
4) - quà – MAI con la A accentata – si scrive sempre QUA
5) - qual’è – MAI con l’apostrofo: si tratta di un TRONCAMENTO di
“Quale è”. Di conseguenza cade l’apostrofo - si scrive sempre “Qual è”
6) - ….. – TRE puntini MAI di più
7) - !!!!!!!! – un solo punto esclamativo: non riempite le frasi di punti
esclamativi
8) - Avvolte – Si scrive A VOLTE e MAI unito
9) - Gli dico – va bene solo se ci si riferisce a UN UOMO (al femminile LE
dico)
10) - Non c’è la faccio – come spiegato in precedenza, qui si deve scrivere
“Non CE la faccio”
Potrà apparire esagerato, eppure scrivere in maniera corretta, anche se si
tratta solo di post pubblicati su un social, fa davvero la differenza tra chi ha
assimilato bene le regole fondamentali della lingua italiana e chi pensa che
non sia poi così importante utilizzarla in maniera corretta.
Vanificare gli studi – peraltro certe regole si imparano alle elementari –
significa avere persino poco rispetto di se stessi.
Non si parla qui di diventare esperti linguisti, sofisti della lingua italiana,
no: si parla semplicemente di conoscere almeno quel po’ di regole che
abbiamo, in alcuni casi è meglio scrivere usando il condizionale, assimilato
durante il primo periodo del percorso scolastico.
Essere superficiali quando si tratta di grammatica, rende superficiale e
sciatta la persona. Basta un poco di interesse nei confronti di se stessi, e
degli altri.
Chi uscirebbe col cappotto al contrario o con le pantofole vecchie per
andare a fare shopping? È la stessa cosa…
Orrori e omissioni

Non volendo fare di questo libro un pesante tomo di grammatica italiana, e


per non appesantire il lettore, mi limiterò in questo capitolo a elencare una
serie di orrori e omissioni che sono molto diffusi.
Il loro utilizzo fa della persona che scrive un perfetto ignorante – persona
che ignora – sulle regole basiche della grammatica italiana e della corretta
forma nello scrivere determinate parole di uso comune.
Elencherò quindi, come nel capitolo precedente, i termini sbagliati con,
accanto, la forma corretta.
Ecco la lista degli strafalcioni più diffusi: prima il termine scorretto e subito
dopo la forma corretta:
1) Se io sarei – è questo un errore grammaticale che ha a che fare col
congiuntivo – questo sconosciuto! – NON si scrive mai così, ma si scrive
SE IO FOSSI
2) Ke ai fatto? – primo: la K non si usa in sostituzione della ch, e in più
segue un altro errore madornale, quello di scrivere “ai” senza la H iniziale,
come spiegato nel capitolo dedicato a questa regola. Di conseguenza,
l’unica forma corretta è: Che hai fatto?
3) Buon hanno – stessa cosa, questa regola l’ho spiegata nel capitolo
dedicato. La frase corretta è: Buon Anno4) Pultroppo – questo termine va
scritto puRtroppo e mai con la L. E’ questa una deviazione dialettale molto
frequente.
5) Propio – la parola si scrive propRio. In pratica, è necessario inserire una
R anche nella parte finale del termine.
6) Ti penzo – errore che deriva spesso dai dialetti, la forma corretta è Ti
penSo
7) D’avvero – obbrobrio vero e proprio, si scrive davvero (in questo caso
non esiste elisione della vocale. E’ un termine vero e proprio e unico, non la
contrazione di due parole)
8) Addomani – altro orrore da evitare, si scrive staccato “A domani”
9) Per senpre – basterebbe ricordare la regoletta: davanti alla P e alla B si
mette la M
10) Un’abbraccio – quando si tratta di articolo indeterminativo maschile
singolare – UN – non si mette MAI l’apostrofo, si scrive Un abbraccio.
L’apostrofo, invece, si mette quando si usa l’articolo indeterminativo
femminile UNA. Ecco un esempio: “Un’altra” è la forma corretta.
11) Avvolte – si scrive sempre disgiunto: A volte
12) Apposto – si scrive disgiunto: A posto
13) Apparte – si scrive disgiunto: A parte
14) D'appertutto o dapertutto: si scrive solo ed esclusivamente: Dappertutto
Una volta presa confidenza con la corretta scrittura di questi termini,
saranno parte integrante del bagaglio culturale di chi scrive.
E se ogni tanto dovesse sorgere un dubbio, bè…basta rileggere queste
regole.
Il refuso, questo sconosciuto

La scusante del “refuso” che viene spesso avanzata da chi non accetta di
sentirsi correggere le forme errate utilizzate per scrivere sui social non
regge, e spiego perché.
Innanzitutto, un refuso è facilmente riconoscibile. È refuso una parola che,
sostanzialmente, è scritta utilizzando una lettera al posto di un’altra, spesso
per la velocità di digitazione sulla tastiera del PC o su quella virtuale di
Smartphone e Tablet.
Ecco qualche esempio:
scrivo “Andarw” al posto di “Andare” oppure “Fanni” al posto di “Fanno”.
Ecco, questi sono refusi. Parole scritte male per il solo fatto di aver digitato,
palesemente, la lettera che si trova accanto a quella corretta.
Quando, invece, l’errore proviene da ignoranza del soggetto che scrive –
ricordo ancora che “Ignoranza” significa ignorare, non sapere, e quindi non
deve essere presa come un’offesa – si capisce immediatamente.
Ecco esempi di parole scritte nella maniera non corretta:
“AnGhe” con la G al posto della C (Da evitare assolutamente).
“Taglier” – al posto del corretto Tailleur. “PuLtroppo” al posto del corretto
Purtroppo. “Il compiDo in classe”. Forma spesso dialettale ma scorretta. In
realtà si tratta del “CompiTo in classe”.
Piuttosto che scrivere cose orripilanti, meglio usare una forma diversa, tipo:
completo giacca e gonna…
Questi non sono refusi ma errori. O meglio: orrori. Che si perpetuano
attraverso la poca conoscenza della corretta scrittura di un termine, e che
spesso deriva da forme dialettali o da scarsa conoscenza del termine stesso.
T9 e funzione “Modifica” sui social

Un capitolo a parte lo dedico al temibile correttore che tutti ormai abbiamo


come funzione della tastiera virtuale sui nostri Smartphone o Tablet, e che –
ci caschiamo tutti, nessuno escluso – ci fa scrivere errori paradossali, e non
solo di ordine grammaticale.
Il T9 di ultima generazione, infatti, non solo corregge eventuali errori, ma
tende spesso a “decidere” quale parola scrivere, contro la volontà
dell’essere umano che sta scrivendo.
Così, ecco che fuoriescono discussioni surreali, e fino a che si chatta tra
amici va anche bene, ma attenzione quando – per esempio – si scambiano
conversazioni su WhatsApp di tipo professionale: la figuraccia tremenda è
dietro l’angolo.
Tempo fa una mia cara amica avvocato, rispondendo a un cliente su una
chat di WhatsApp, scrisse “Minchionami domani” al posto di “Mi chiami
domani” e non per sua volontà: il correttore aveva deciso che la parola da
inserire fosse “Minchionami” e non “Mi chiami”. Nella fretta di inviare la
risposta, la mia amica
fece una figura barbina, ma fortunatamente ha un carattere aperto e
gioviale, e racconta ancora questo episodio ridendo a crepapelle.
Se si sta utilizzando una chat per motivi professionali, consiglio sempre di
andare con cautela, scrivere più lentamente e controllare il testo prima di
inviarlo.
Si eviteranno figuracce che, poi, sarebbero davvero difficili da rimediare.
Oggi comunque è possibile cancellare un testo inviato, per esempio su
WatthsApp semplicemente cliccandoci sopra fino a evidenziarlo: si apre
una casella che chiede se cancellarlo “per tutti”. In tal modo non apparirà
sulla chat della persona con cui si sta chattando. L’importante è accorgersi
in tempo dell’errore e cancellarlo prima che l’altra persona abbia
visualizzato la frase.
Oltre ciò, non va dimenticato che – per esempio su Facebook – è possibile
rimediare a eventuali errori e refusi, semplicemente utilizzando la funzione
“Modifica” che si trova a lato di ogni post o commento.
Se si rilegge un post appena scritto, o un commento a un post, e si nota di
aver scritto qualcosa nella forma sbagliata, ecco che si può utilizzare la
funzione “Modifica” che permette a tutti di non cadere nel
vortice delle castronerie grammaticali e di costruzione della frase che ormai
sono all’ordine del giorno.
Ricordiamoci sempre che non è affatto vero che “Non è importante come si
scrive ma cosa”: anche come si
crive è importantissimo, perché se si scrive male, si perde anche il senso e il
valore di quanto si scrive.
Oltretutto è bene fare una riflessione: andando avanti di questo passo,
resterà poco e nulla della lingua madre. Si sta generando un pastrocchio che
non è lingua italiana, ma lo sembra. A furia di perpetuare errori di questo
genere, si finirà per dover ammettere l’utilizzo di termini storpiati solo a
causa del loro largo uso tra la popolazione.
In pratica, i parlanti invece di tentare in ogni modo di parlare la lingua in
maniera corretta, ne generano una parallela, simile ma non la stessa. Col
tempo, si potrebbe verificare la stessa cosa che è accaduta, in certe nazioni
come la Cina, alla lingua inglese.
A furia di sbagliare la pronuncia di certi termini, si è creata una lingua che
non è esattamente l’Inglese ma a livello di suono lo sembra: l’Engrish. In
Cina persino certi cartelli informativi, anche negli aeroporti, sono scritti non
in Inglese bensì in Engrish, una neo lingua creata
attraverso i diffusi errori di pronuncia della lingua inglese in alcune nazioni.
Meglio non rischiare che la stessa cosa accada anche alla lingua italiana: ne
va della conservazione della Storia italiana, e non è certo un bene.
Nel dubbio meglio scrivere meno

Oggi la comunicazione tra persone, anche tra esimi sconosciuti, viaggia


fondamentalmente attraverso i social network.
I due social network più utilizzati sono Facebook e Twitter, ma anche
Instagram, seppur con modalità diverse, attraverso le immagini che
vengono però commentate, con tanto di strafalcioni di ogni sorta.
Anche molti rapporti lavorativi corrono quasi esclusivamente sulle onde
delle maggiori applicazioni di messaggistica e attraverso le chat dei social
network.
A mio parere, quando non si è certi se una parola o una frase vanno scritti in
un modo piuttosto che un altro, la regola generale è quella di semplificare,
non certo nel senso di contrarre al massimo i termini, con l’orrido metodo
che si è diffuso attraverso sms e chat, quanto usare le parole minime
indispensabili per costruire il concetto che si vuole scrivere.
Anche in questo caso quindi, vige la regola del: “Non è importante la
quantità quanto la qualità”.
Ad maiora.

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