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CHE COS’È LA STORIA ECONOMICA E SOCIALE?

L’obiettivo del corso è introdurre il passaggio fondamentale dalla società pre-industriale alla
società industriale e, addirittura, al post industriale.
Che cos’è la storia economica e sociale? La prima cosa che dobbiamo sottolineare è che quando si
parla di un certo argomento, è interessante capire come si è sviluppata la disciplina che studia
quella tematica: la storia economica non è una disciplina che ha secoli di storia come disciplina
autonoma ma nasce nell’Europa occidentale tra fine 800 e inizio 900 nell’ambito di un
rinnovamento delle scienze sociali tra cui la storia, la sociologia, la storia economica. Questa
disciplina viene rinnovata all’incirca tra gli anni 30 e 60 e acquisisce altri arricchimenti: essa è
basata sul principio che l’approccio storico e storico-antropologico sono complementari e
interdipendenti. Gli studiosi di storia economica adottano un metodo detto “olistico”: è un
termine che deriva dal greco ed è un metodo che considera il tutto, l’intera società, cioè, non ci si
ferma ad analizzare un singolo dettaglio/aspetto; in modo meno formale, la storia economica si
può comprendere solo guardando ad una moltitudine di fattori che nella concretezza della vita
umana e della storia umana interagiscono continuamente tra di loro. Ad esempio, le nostre scelte
economiche non sono dettate solo dal desiderio di massimizzare il profitto ma ci sono molti aspetti
etici e psicologici che entrano nelle nostre scelte individuali. Bisogna capire che i concetti che per
noi sono pane quotidiano dell’economia e della società, nel medioevo e nell’antichità non lo erano
affatto dove il concetto di mercato e profitto erano totalmente ignorati per cui, per questo motivo,
bisogna studiare le società e le economie secondo i principi adeguati di quelle società: se
immaginiamo che un contadino russo del tardo medioevo ragionasse come Bill Gates non
capiremmo nulla; dobbiamo capire che il passato è come se fosse un paese straniero, spesso con
principi e condizioni diverse dalle nostre. Gli storici economici adottano questo metodo olistico
(che considera tutto) e credono che i comportamenti economici individuali e collettivi dipendano
anche da sistemi di valori sociali e culturali riconducibili alle tradizioni delle comunità a cui essi
appartengono: il senso di quello che stiamo dicendo è che per capire un’economia/una società
non basta guardare alle risorse materiali o a come si organizza una società ma bisogna capire quali
sono i valori di fondo, quali sono le realtà storiche. Per cui lo storico economico è distaccato
rispetto a quelle teorie economiche “molto teoriche ma poco pratiche/concrete”: immaginare che
tutto sia concorrenza per tutto o che il profitto sia sempre la guida dell’azione socio economica
non è sempre vero e più ci allontaniamo dall’età del capitalismo e della rivoluzione industriale,
meno questo è vero. Il problema è che oggi ci sono degli economisti storici che tendono ad
utilizzare dei modelli economici che vanno bene sì e no per l’epoca contemporanea e anche per
altre epoche, quasi come se certi concetti economici fossero a-storici e a-geografici cioè come se
certi concetti andassero bene sempre e ovunque ma non è così perché la storia e la geografia
contano.
Cosa intendiamo per cultura? Per cultura intendiamo “sistema simbolico che sorregge ogni
società”: i valori, le credenze, il tipo di relazione che si sono sedimentate nel corso della storia;
questo, naturalmente, non è dato una volta per tutte: la storia esiste perché questi rapporti e
valori possono evolvere. Questo approccio olistico complessivo e complesso, che va
contestualizzato storicamente e connotato geograficamente (non si possono usare gli stessi
principi sempre e dovunque), coglie la complessità e l’ampiezza dell’organismo sociale:
l’organismo sociale (società) è molto più che la somma di tanti individui poiché nella società
vediamo anche valori, attitudini e comportamenti che sono più della somma dei singoli
componenti; le società rispondono con alcune caratteristiche sono tipiche di una collettività e non
solo della somma dei singoli. Quindi, lo storico che sceglie questo approccio opta per una
metodologia basata su uno sguardo complessivo e induttivo, ovvero, non parte da una teoria e ne
deduce determinate riflessioni ma parte dall’analisi di casi concreti e risale induttivamente a delle

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generalizzazioni: studiare la storia e cos’è accaduto nel passato, pur consapevoli che la storia non è
mai uguale a se stessa, ci aiuta a capire le sfide del presente e ad immaginare il futuro non
ripercorrendo pedissequamente quanto è stato fatto in passato (perché non sarà mai uguale) ma
imparando, ragionando e riflettendo. Per cui, lo storico economico adotta uno sguardo
complessivo e induttivo partendo dai casi che consideri la sfera sociale, economica, la mentalità, il
costume e tutti quei fattori che profondamente e sistematicamente influenzano l’attività
economica (ciò significa che non si può ragionare solo secondo principi astratti ed economici); gli
studiosi si trovano a lavorare tra passato e presenti: essi sono figli dell’epoca in cui vivono ma lo
studioso deve adottare categorie che siano compatibili con le epoche che studiano. Se non si
opera secondo questo metodo, c’è un rischio enorme per gli storici definito “anacronismo”,
ovvero attribuire ad altre epoche dei concetti e interpretazioni che non sono adeguate a
quell’epoca: per la maggior parte delle società del passato e per una parte ancora significativa del
mondo attuale, il ruolo del mercato e del profitto è assai diverso da quanto abbiamo oggi nelle
società capitalistiche e ciò non vuol dire che non esistessero in assoluto questi concetti.
Abbiamo detto che lo scopo del nostro corso è capire come si svolge il passaggio dal preindustriale
all’industriale e questa evoluzione verso le società moderna è lenta, complessa, diversificata,
graduale fra permanenze e mutamenti. Vedremo come funzionavano le società ma per fare
questo dobbiamo capire che approccio viene utilizzato.
STRUMENTI E METODI INTERPRETATIVI
La storia economica come scienza sociale
Nel primo 800 l’industrializzazione comincia a trasformare in modo tangibile la vita quotidiana nel
Regno Unito e nell’Europa occidentale: la società sta subendo delle trasformazioni che non sono
quelle tradizionali ma sono senza precedenti per natura, intensità e rapidità. Ecco i primi passi che
muove una disciplina detta “sociologia” che possiamo definire come “la scienza che mira ad
esprimere, analizzare e spiegare il mutamento in corso nelle società europee di quei decenni”:
nasce la sociologia. Prima di vedere come, effettivamente, cambiano le società dobbiamo capire
quali sono le discipline che studiano tutto ciò.
Sulla base di tipi ideali ben diversi, alcuni sociologici cominciano a tracciare una distinzione tra
società tradizionali che sono tendenzialmente immobili, i cui mutamenti avvengono su tempi
molto lunghi e società tecnologiche (queste ultime erano in evoluzione ed è il motivo per cui la
sociologia nasce e studia queste cose). Questa affermazione è una semplificazione: non è che
prima sono tutti arretrati e poi sono tutti tecnologici perché la storia procede gradualmente ma
iniziano a intravedersi differenze significative. Per capire entrambe le società, allora, analizziamo la
seguente griglia tematica:
- Relazione economiche
- Organizzazione sociale
- Mentalità collettiva
Questa griglia tematica è coerente con l’approccio proposto: parliamo di economica, aspetti
sociali, cultura e mentalità.
Partiamo dalle società tradizionali: prima di tutto, non esiste una società tradizionale standard ma
esistono molte sfumature. In particolare, incominciamo dalle relazioni economiche dove abbiamo
alcuni aspetti fondamentali a partire dal fatto che la maggior parte dei membri (non la totalità)
della società tradizionali sono dediti all’agricoltura, all’allevamento, alla caccia e alla raccolta. Cosa
mirano a fare la maggior parte di costoro? La maggior parte di costoro mirano a soddisfare, su
piccola scala, le necessità e i bisogni collettivi e individuali per mezzo di autoproduzione di beni di
consumo e investimento: ciò significa che le famiglie cercano di produrre il più possibile da soli

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(autoproduzione) per autoconsumo e per beni di investimento (ad esempio, la vanga, la zappa).
Tutto ciò, questi beni di consumo elementari e questi beni di investimento sono necessari per
continuare i cicli riproduttivi delle piante e degli animali. In questo contesto, la divisione del lavoro
è ridottissima: si cerca il più possibile di coltivare tutto ciò che serve; si parla di pluri-attività a
seconda delle stagioni e dei terreni: la terra, in questo caso, è la ricchezza principale di ogni
comunità e, spesso, la terra non è suddivisa secondo criteri di proprietà individuale eguali ai nostri
ma è posseduta in solido (insieme) dall’intera comunità che la lavora secondo criteri e pratiche
tradizionali che garantiscono, per esperienza plurigenerazionale, la riproduzione annuale dei
prodotti necessari per la sopravvivenza della comunità stessa. Quindi sono scarsi i diritti individuali
di sfruttamento delle risorse naturali e, spesso, la spartizione dei raccolti e delle prede di caccia e
di pesca secondo principi solidali di proporzionalità o logiche redistributive che seguono gerarchie
sociali ben definite sono dominate e molto diffuse. Per cui abitazioni, strumenti di lavoro e
prodotti sono, per lo più, il frutto di un abile ma semplice utilizzo di risorse naturali e materie
prime disponibili in loco, ovvero, nell’ambiente locale; le tecnologie agricole sono elementari, gli
attrezzi sono, di fatto, dei prolungamenti degli arti. Anche le armi per la caccia e la guerra sono
elementari perché anche la guerra e la sfera militare possono essere analizzata come una forma di
produzione negativa quindi valutando lavoro, capitale. Tuttavia, non è tutto così elementare e
“arretrato”: ci sono anche delle attività di fusione e lavorazione dei metalli, della ceramica e
dell’edilizia urbana ma sono prerogativa di pochi artigiani più specializzati e questi artigiani godono
di uno status sociale superiore a quello del contadino. Complessivamente, quindi, non è che tutto
si esaurisca in quel mondo così arretrato ma è raro il capitale privato (anche se c’è) per cui anche
l’agronomia e le tecnologie agricole sono più arretrate rispetto ad oggi e la produttività del lavoro,
anche in presenza di poca tecnologia e pochi investimenti e poca specializzazione, è più bassa
rispetto ad oggi; la produzione molto più limitata rispetto ad oggi dipende dalle mutevoli
condizioni meteo-climatiche: ancora oggi l’agricoltura risente del meteo e del clima ma in passato
era ancora ancora più dura. In questo contesto le scorte di beni alimentari sono limitate perché la
maggior parte di quello che viene prodotto viene consumato da chi lo produce per l’autoconsumo
e per questo è difficile mettere da parte grandi scorte di alimenti e, spesso, queste scorte
richiedono una gestione comunitaria (comunità come perno della vita sociale). In questo contesto
tecnologicamente arretrato e socialmente ed economicamente povero, la carestia è il problema
maggiore perché quando, per ragioni meteo climatiche, belliche o politiche fallivano più raccolti,
essa diventava un rischio gravissimo. In queste società, non a caso, i leader devono garantire la
sopravvivenza fisica del gruppo cioè avere sufficientemente da mangiare: ecco perché “pane et
circense”, prima il pane e poi gli spettacoli. Il cibo non è garantito: la carestie erano il primo rischio
in quelle società; raramente le società tradizionali hanno riserve eccedenti rispetto alle razioni
alimentari quotidiane e, inoltre, poche sono le città, i villaggi spesso sono lontani, i trasporti sono
lenti e costosi, ci sono ostacoli doganale e fiscali per esportare cibo all’interno del territorio e tutto
ciò comporta delle relazioni commerciali episodiche anche tra comunità vicine. In queste società
tradizionali, gli scambi con estranei sono limitati a beni non riproducibili (sale e spezie non si
potevano autoprodurre ma si dovevano acquistare) o a beni tecnologicamente più evoluti
(prodotti di metallo, armi da fuoco) per cui, nelle società tradizionali, le relazioni di compravendita
non sono inesistenti ma sono limitate e rare. Inoltre, la moneta spesso non era utilizza, c’era
ancora il baratto e i salari venivano pagati in natura: non significa che la moneta non esistesse ma
era quando c’è un’unità di misura e di riserva di valore poiché la moneta poteva essere
tesoreggiata (tesaurizzata); questo era più frequente rispetto ad oggi anche per un motivo
psicologico e pratico poiché la moneta di un tempo era moneta di metallo prezioso (argento o
oro), il che induceva a tesoreggiare mentre oggi noi, normalmente, quando paghiamo con moneta
non usiamo oro e argento. Sono molto più frequenti rispetto ad oggi i doni e contro doni in natura
e in prestazioni lavorative: questo non significa che la moneta non esistesse ma significa che la

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moneta/denaro è usata meno frequentemente e la sua importanze è meno pervasiva rispetto alle
società successive. Spesso i beni passano di mano senza diventare merce ma come dono, come
assistenza o aiuto solidale perché in quella società un signore feudale, spesso, aiutava i servi della
gleba perché queste persone, se fossero morte, non avrebbero potuto lavorare nei suoi campi per
cui c’è una solidarietà nel senso di visione paternalistica (non democratica). E’ una società in cui il
denaro, mercato, scambio e transazioni commerciali sono meno frequenti rispetto ad oggi.
Per cui c’è una scarsità di capitale tecnico e una bassa produttività: come mai la produttività
agricola e industriale sono basse? Manca la specializzazione produttiva: cercare di produrre tutto
quanto possibile ovunque rende meno produttivo il terreno; inoltre il problema è anche legato alla
tecnologia (attrezzature meno evolute consentono minore produttività) e anche ad un aspetto
legato all’istruzione e alla sanità: una manodopera istruita e sana aumenta la produttività. Per cui
la scarsità di capitale tecnico e la bassa produttività del lavoro influenzano pesantemente gli stili di
vita di quella società, frenando la crescita demografica e i miglioramenti nella qualità della vita.
Per quanto riguarda l’organizzazione sociale nelle società tradizionali, essa è basata su tre aspetti:
- Parentela: essa assicura ai vincoli di sangue (consanguineità) il primato tra i legami sociali e
assicura altresì alle alleanze matrimoniali un ruolo di grande rilievo dal punto di vista del
collante sociale e culturale. “Parenti e affini sono inviluppati in un invisibile vasta rete di
rapporti di persone” che secondo il genere e l’età prevedono gerarchie, diverse
prerogative, diversi ruoli e diversi obblighi definiti e tramandati nel tempo dalla stretta
osservanza di usi identitari che sono particolarmente rilevanti. Quindi queste società sono
società molto meno individualistiche rispetto ad oggi, sono società in cui l’individuo esiste
ma si ragiona per corpi sociali che possono essere territori, ceti sociali, gruppi che
ottengono privilegi specifici; l’individuo è parte di una realtà più ampia, esso si percepisce
ed è percepito dagli altri, innanzitutto, come membro di un clan familiare e poi di una più
ampia realtà sociale. La solidarietà di parentela può aiutare gli individui o le singole famiglie
nei momenti più difficili come quando scoppia una carestia o una situazione di grave sotto
nutrizione: il diffuso solidarismo (in un contesto non democratico) frena di per sé la crescita
delle transazioni monetarie e, a maggior ragione, delle transazioni contrattuali sia per
quanto riguarda le risorse alimentari sia per quanto riguarda le prestazioni lavorative. Le
relazioni tra clan familiari influenzano ogni aspetto della vita sociale: rispetto alle nostre
società, la parentela è più rilevante (discorso sempre comparativo).
- Genere: il genere e i gruppi d’età attraversano orizzontalmente i legami di parentela e
affinità. Bambini, adolescenti, genitori, anziani di entrambi i generi formano altrettanti
gruppi con peculiari diritti e doveri: devono seguire comportamenti appropriati a seconda
della propria età e del proprio ruolo nella società. Chi non lo fa viene marginalizzato,
espulso o eliminato oppure vengono visti come streghe o maghi: bisogna seguire delle
norme non scritte e dei modelli imposti dal clero e dal cerimoniale del potere politico; chi
le infrange getta discredito su se stesso e sulla famiglia di provenienza e spesso va incontro
a delle punizioni nel contesto locale.
- Gruppi d’età
Questi tre aspetti erano molto più determinanti rispetto ad oggi: è chiaro che ancora oggi la
famiglia di provenienza è importante ma se guardiamo comparativamente, nel passato, erano più
importanti. Arriviamo al terzo punto, ovvero, le mentalità collettive: in queste società
l’analfabetismo è la regola generale, è dominante. Molte cognizioni empiriche sulla natura, frutto
di una paziente osservazione collettiva che si è trasmessa attraverso generazioni e che perciò viene
ritenuta autorevole (non su basi scientifiche ma perché me l’hanno trasmesso i miei genitori) è un
concetto molto importante che è radicalmente diverso da quello a cui ci ispiriamo oggi in cui tutto
è relativo. In queste società c’è un patrimonio tradizionale di più generazioni: di conseguenza, in

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queste società, l’innovazione è vista non solo come qualcosa di non voluto ma come qualcosa di
negativo, di pericoloso; gli innovamenti e mutazioni viene visto come qualcosa che minaccia
l’ordine costituito, l’ordine culturale, i fondamenti del vivere umano su cui tradizionalmente si
basa la società tradizionale. Lo spazio che poi sarebbe stato occupato dalla scienza, allora era in
buona parte occupato da una sorta di complessa mitologia delle origini assai remote: tutto ciò
concorre “a fondare la tradizione di un ordine fisico e metafisico nel quale sacro, magico e utile si
integrano fornendo all’uomo le necessarie rassicurazioni e quella stabilità che è la base della
società”.
Vediamo la stessa griglia tematica per le società tecnologiche: prima di tutto in queste società
prevale la tecnologia mentre nelle società tradizionali prevalgono gli elementi tradizionali. Nelle
società tecnologiche, si passa dal concetto più semplice di organizzazione al concetto di “sistema”:
un sistema è qualcosa di più complesso, che ha insieme più elementi e li tiene insieme in una
visione sistemica. Molto diverso è, ad esempio, il rapporto con l’ambiente: prima una natura
matrigna dettava i ritmi produttivi e condizionava la vita quotidiana mentre nelle società
tecnologiche ci troviamo di fronte ad una “fitta trama di meccanismi e organismi, di conoscenze
scientifiche in costante evoluzione e questa fitta trama si interpone tra gli uomini e natura con
l’intento di dominare e di sfruttare le risorse naturali dando forma ad un mondo parallelo
totalmente artificiale”. È una visione più proattivo dell’uomo rispetto alla natura: l’uomo non deve
accettare dati esterni e conviverci ma deve essere proattivo; è un atteggiamento differente in cui
vengono sfruttate di più le risorse naturali, “è una dinamica irrefrenabile e pervasiva che si afferma
almeno un secolo e mezzo fa”.
Tutto questo connota la modernità: nelle società tecnologiche le relazioni economiche non mirano
solo alla riproduzione di quegli equilibri su cui la società si basano, non si mira alla semplice
produzione per sopravvivere ma si mira alla crescente produzione (pensiamo al concetto del PIL): il
lavoro applicato a potenti fonti energetiche inanimate (carbone di miniera) assicura una crescente
produttività perché ci sono nuovi attrezzi, si dispone di molta più energia. Si fanno sempre più
importanti e dominanti le transazioni contrattuali, le quali sono favorite ad un ricorso maggiore al
denaro, al credito e alla moneta e, ovviamente, si sviluppa l’importanza del lavoro specializzato e
della divisione del lavoro. Il sistema capitalistico si afferma in occidente tra il 1815 e il 1914: il
proposito di intraprendere e produrre per vendere, non solo e non tanto per auto consumare, più
che consumare e riseminare quanto prodotto promuove dei valori sociali e degli stili di vita che
mutano le idee e comportamenti di fasce più ampie della popolazione riguardo alla produzione, al
consumo, distribuzione, risparmio e investimento. Precondizione fondamentale dell’economia di
mercato è la propriabilità dei terreni da parte di coloro che se ne riservano lo sfruttamento privato
con regole e con prassi di proprietà private che sono più analoghe a quelle di oggi: anche questi
aspetti economico giuridici sono importanti perché se ho dei terreni in proprietà esclusiva (privata)
e non sono tenuto a farci pascolare gli animali altrui secondo l’approccio comunitario, ma posso
farci ciò che credo, allora sono invogliato a fare degli investimenti e fare migliorie perché i benefici
anno a me. L’investimento di capitale fisso e circolante per coltivare nuove specie vegetali extra
europee (mais, patata, pomodori) e per migliorare diventa sempre più importante e ciò consente
anche una crescita demografica senza precedenti. Le conoscenze e le esperienze agronomiche
(capitale tecnico) si diffondono dove c’è una domanda potenziale: quando parliamo di crescente
capitale fisso investito sotto forma di animali da allevamento e da lavoro (concimi organici) è
molto importante perché gli animali (bovini) possono diventare sia beni di consumo sia beni
strumentali (forme di capitale fisso).
Anche gli imprenditori agrari ingaggiano manodopera secondo criteri più sofisticati e più spesso li
pagano in denaro: questo è importante perchè una maggiore circolazione del denaro dà più
respiro all’economica e contribuisce ad una monetarizzazione più sofisticata dell’economia stessa.

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Questi imprenditori/agricoltori cercano di combinare in nuove soluzioni la terra, il capitale e il
lavoro salariato, tre fattori che sempre più rispetto ai secoli precedenti si possono acquisire sul
mercato. Vendendo prodotti sul mercato, si incassano ricavi in moneta e procede questo processo
di monetarizzazione dell’economica: se questo utile netto, ricavato dal mercato è superiore dei
costi fissi e dei costi variabili, premia la fatica e i rischi assunti da quegli imprenditori/agricoltori e
quindi si verifica quell’incontro quotidiano tra domanda e offerta che origina prezzi per ogni merce
trattata sul mercato, facendo sì che questo meccanismo diventi un meccanismo dominante. Il
mercato di libera concorrenza dove, appunto, si incontrano domanda ed offerta tramite il
meccanismo dei prezzi e attraverso le transazioni che caratterizzano il mercato, è il luogo cruciale
del sistema economico e sociale capitalista: cresce il ruolo del mercato, del denaro, dei prezzi,
degli scambi e degli investimenti e anche delle ambizioni di ascesa economico sociale.
Per quanto riguarda l’organizzazione sociale: fondato sulla parentela, sul genere e sui gruppi d’età,
il mondo delle società tradizionali si caratterizza per strutture relativamente elementari e stabili
mentre le società tecnologiche sono più complesse e dinamiche perché hanno un’articolazione
complicata e le trasformazioni sono più rapide (non è che si faccia strame di questi aspetti
tradizionali ma ne entrano molti altri e i ritmi di trasformazione sono diversi). Pur non trascurando
le persistenze di cui sopra, ora c’è un’articolazione molto più complessa in ceti, in classi, in partiti
politici, in gruppi professionali, in sindacati, movimenti che non sono basati su elementi di sangue
(affini) ma su interessi e ideali condivisi. Queste società sono talmente più complesse che è difficile
trovare un elemento/collante che predomini sul resto, tanto è vero che si parla di “società liquida”
perché sono tanti i fattori da considerare (è difficile tracciare uno schema coerente); tuttavia, ci
sono alcuni aspetti che possiamo sottolineare: almeno un perno attorno cui ruotano queste
molteplici relazioni sociali è il binomio produzione-consumo che ha una forte influenza che va al di
là della sfera strettamente socio economica.
Concludendo, nelle società tradizionali, lo status individuale si ottiene con la nascita per cui è uno
status ascrittivo (cioè, si ascrive a qualcosa che preesiste all’individuo: vengo da quella famiglia e
quindi “sono”) mentre in quelle tecnologiche lo status individuale dipende largamente dalle
attività e dalle funzioni che ciascun individuo svolge e quindi è uno status acquisitivo: in base a ciò
che faccio, io sono. Cosa molto particolare è che questo status non è dato una volta per tutte ma è
passibile di cambiamento, la cosiddetta “mobilità sociale”, la quale può essere ascendente o
discendente perché possono esserci persone di umili origini che diventano figure importanti e
possono esserci nobili decaduti. Un'altra caratteristica delle società tecnologiche è la coesistenza
di diverse e molteplici élite spesso in contrasto tra di loro: comparativamente, in prospettiva
storica, nelle società più meritocratiche e meno tradizionali le classi dirigenti sono relativamente
più aperte e più mutevoli quindi le società tecnologiche sono “organismi assai complessi in
perenne mutamenti dei quali non è facile decifrare le dinamiche generali”. Da questa frase
emergono alcuni concetti: il concetto di organismo (ovvero, una realtà che tiene insieme in modo
funzionale diversi componenti), la complessità e dinamismo.
Per quanto riguarda il tema delle mentalità collettive, nonostante ovvi elementi di continuità con
le società tradizionali, nelle società tecnologiche tendono a prevalere conoscenze e opinioni
basate sulla razionalità, molto più di quanto non avvenisse nelle società tradizionali; c’è una
maggior inclinazione a considerare vero ciò che può essere comprovato dall’esperienza e dalla
ricerca scientifica. E’ ovvio che non tutto vada in questa direzione: oggi, ad esempio, assistiamo,
anche nelle società tecnologicamente più avanzate, a delle recrudescenze di pensiero
antiscientifico. Oggi tutto è relativo: nelle società anche più evolute e complesse ci possono essere
reazioni di un certo tipo ma il discorso è comparativo: se compariamo i criteri su cui si basano le
società tecnologiche e quelli su cui si basavano le società tradizionali, questa differenza è evidente
ma questo non significa che tutti fossero “retorici” nelle società tradizionali ma che oggi il peso
della scienza, della conoscenza e dell’esperienza comprovata nella società è molto maggiore

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rispetto al passato. Nelle nostre società, sempre a livello di comprensiva semplificazione, vi è una
più frequente analisi dei mezzi più adatti per ottenere certe finalità di carattere pratico; nella
produzione di beni e servizi ci sono continui mutamenti e continui aggiustamenti: il ritmo
dell’innovazione e del mutamento tecnologico, produttivo ed organizzativo è sempre più
incalzante per cui si sperimentano innovazioni. Tutto ciò viene definito come un “relativismo
strutturale permea la stessa intelaiatura sociale” perché il mutamento non è solo di pratiche
produttive e di forme organizzative ma è anche di pensiero e di ideali, secondo quello che viene
definito un “principio pervasivo e dominante del perseguimento in ogni azione dell’efficienza
massima”. Quindi è una fiducia tendenzialmente illimitata, comparativamente molto superiore
rispetto alle epoche precedenti, è una fiducia nella scienza e nelle tecnologia: la capacità nostra di
manipolare la natura è molto aumentata per cui questa fiducia nella scienza è una chiave per la
conoscenza universale di vari aspetti della vita, della natura, della società. Tutto questo si nutre di
una crescente rilevanza attribuita all’istruzione: non posso fare scienza, non possono produrre
conoscenza, non posso lavorare come capitale umano qualificato se non dispongo di una diffusa
preparazione a vari livelli, frutto di istruzione sempre più capillare e di qualità. Quindi l’istruzione
come la chiave per poter svolgere delle professioni prestigiose e ben retribuite che quindi vanno
viste nell’ottica dello status sociale e della prospettiva strettamente economica; per questo
motivo, soprattutto gli studi superiori sono un fattore di produzione sociale molto importante.
Questo non significa che nascere in una certa famiglia, godere di relazioni sia inutile ma significa
che, comparando con le società precedenti, il ruolo dell’istruzione e la mobilità sociale sono molto
superiori: resta, comparativamente, molto maggiore la possibilità di ascendere socialmente
rispetto a quanto accadeva prima. Grazie, quindi, allo spirito critico e al ruolo importantissimo
giocato dall’istruzione e dalla ricerca scientifica tecnologica, le società tecnologiche sono la culla di
idee che continuamente sfidano i paradigmi e le conoscenze già esistenti: è una società molto più
mutevole e meno tradizionale.
Passaggio dalla reciprocità degli scambi al mercato antagonistico impersonale
Uno dei mutamenti più importanti che avviene progressivamente, che è avvenuto nel corso
dell’età moderna e si è pienamente affermato nelle società industriali, è il passaggio dalla
reciprocità degli scambi al mercato antagonistico impersonale, tranne due parziali eccezioni:
quella olandese e quella inglese-britannica; tranne queste due eccezioni, l’organizzazione
economica delle società europee tra 400 e 800 è ancora in larga misura dominata dalle attività
rurali: la percentuale prevalente della popolazione vive e lavora in campagna, la percentuale
prevalente della produzione dell’attività economica (del PIL) è relativa alle attività agricole e rurali
(agricoltura, allevamento e ciniglia) e persino buona parte delle attività artigianali e manifatturiere
si collocano nel mondo rurale. Il patrimonio immobiliare è, in molte di queste società, ancora
considerato come la forma di ricchezza più prestigiosa e che consente maggiore ascesa non solo
sociale ma anche politica: non si può essere nobili se non si detiene la terra. È chiaro che non
possiamo generalizzare e dire solo così: se pensiamo alla storia del medioevo italiano e ai comuni
o alle repubbliche marinare potremmo smentire subito quanto detto perché è vero che le città
contavano ma avevano una posizione, per quanto rilevante e splendida, e svolgevano una
funzione minoritaria, molto diversa da quanto accade nelle società industriali, dove il mondo
urbano è quello che detta i ritmi e dove si sviluppano le grandi innovazioni ma soprattutto dove le
attività secondarie e terziarie diventano prevalenti rispetto alle attività primarie. Per cui se noi
intendiamo in senso dicotomico e “assolutistico” non capiremmo mai nulla perché non sono tutti
rurali e poveretti prima e non c’è la cancellazione del mondo rurale oggi ma le prevalenze e le
influenze sono cambiate quantitativamente e anche dal punto di vista dei valori e dello status
sociale. Senza ritenere che lo schema prevalente che stiamo tratteggiando sia l’unico neppure in
quelle società, possiamo dire che nella gran parte di queste società piccole e medie aziende

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contadine fossero la forma più diffusa e comune per sfruttare intensivamente i terreni mentre i
latifondi (grande proprietà) e le tenute usavano ampiamente un lavoro salariato e animali di
lavoro in grande quantità. Nonostante le differenze, entrambe queste forme, generalmente,
mirano a creare scorte di prodotti agricoli per nutrire i membri della famiglia e investire le sementi
nel ciclo produttivo successivo: se si mangia tutto il raccolto, significa non avere le sementi che
serviranno per seminare l’anno prossimo. Naturalmente, nel latifondo un ragionamento di questo
genere è molto più ad alto livello rispetto al caso del piccolo produttore ma, tendenzialmente,
prevale l’autoproduzione per l’autoconsumo: non significa che non c’è surplus (qualcosa in più di
ciò che serve per mantenersi in vita come nucleo famigliare) ma significa che il primo scopo, sia
per i ricchi che per i poveri, è questo. Questo comportamento, definito come “generalizzato”, ha
due conseguenze fondamentali sul piano macro-economico che ci aiuta a comprendere le macro
differenze tra le società tradizionali e le nostre società: circa la metà (3/4) del prodotto è
consumato e investito (usato per la semina l’anno successivo) in natura dal produttore stesso per
cui parliamo di autoconsumo e auto investimento. Il raccolto, nella misura in cui viene consumato,
è un bene di consumo mentre nella misura in cui una porzione viene messa da parte per la
seminagione dell’anno successivo diventa una forma di capitale che serve per la produzione
dell’anno dopo; questo vale anche per gli animali: nella misura in cui vengono macellati diventano
beni di consumo (carne) mentre nella misura in cui vengono usati per attività per il lavoro agricolo
o per la guerra o per i trasporti diventano beni capitali. Questa è una peculiarità degli animali
perché, per esempio, nei momenti di carestia, si macellavano le bestie che erano originariamente
utilizzate e concepite come beni capitali: macellare gli animali che, normalmente, servivano per il
lavoro civile o militate era un segno di tensione maltusiana tra risorse e popolazione perché aveva
delle conseguenze economiche perché l’anno seguente non si avrebbe avuto a disposizione
quell’animale. Anche i salari, sempre nell’ambito della prima conseguenza macro-economica,
spesso sono pagati in natura con generi di prima necessità. Concludendo, la maggior parte dei
raccolti e delle prestazioni non diventano merci e non vengono scambiati sul mercato con denaro
(questo è molto diverso da ciò che accade oggi): questa, però, non è la regola assoluta perché c’è il
mercato, c’è il denaro, ci sono lavoratori che vendono il proprio lavoro ma la prevalenza è in
questo senso. Per quanto riguarda la seconda conseguenza macro-economica parliamo di “una
gracilità strutturale del mercato inteso come luogo ideale e reale degli scambi”: la prima parte
della frase conferma quel che abbiamo proposto, ovvero, non dobbiamo ragionare in bianco o
nero ed estremizzare le contrapposizioni; “gracilità strutturale del mercato” significa che il
mercato è fragile e molto minoritario ma non è inesistente. La seconda parte della frase “luogo
ideale e reale degli scambi”: noi oggi parliamo di mercato azionario o del lavoro anche se molto
spesso si tratta di un luogo ideale ma il concetto di mercato nasce da realtà fisiche. Questa gracilità
strutturale è legata al fatto che la maggior parte dei piccoli e medi produttori non coltivavano
primariamente/tutt’uno per vendere almeno parte del raccolto, secondo criteri di profitto e
mercato. Vedremo che anche alcuni di questi quando riuscivano a produrre un piccolo surplus o lo
mettevano da parte o qualche volta lo portavano al mercato ma ciò accade raramente e quando
accade non è l’elemento che informa e dà il ritmo e la ragione d’essere di questo lavoro ma è un
elemento marginale (la prima motivazione è quella di autoprodurre per auto consumare). In molte
regioni d’Europa medievale, moderna e anche contemporanea per lungo tempo, la vendita di
prodotti agricoli era largamente casuale, imprevedibile e residuale perché concerneva solo le
scorte eccedenti d’autoconsumo e di auto investimento che potevano, in modo residuale,
diventare merce (non è questo il motivo fondamentale per cui si produceva!). Nelle regioni dei
latifondi, viste le dimensione delle proprietà dei terreni, era più normale, meno insolito e meno
casuale poter disporre di eccedenze da vendere per cui, pur ragionando per l’autoproduzione per
la loro famiglia, ci poteva essere un surplus (si produca più di quanto serve nell’immediato):
queste eccedenze vengono dirette verso scambi di mercato nei quali il denaro svolge un ruolo

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maggiore (stiamo delineando un quadro un po’ più sfumato e complesso). Analogamente,
nell’Europa centro occidentale, dove la natura dei terreni e le condizioni meteoclimatiche
consentivano talora rese maggiori (semino un chicco, la resa è quanti ne ottengo al raccolto e
maggiore è la produttività della terra e maggiore sarà la resa: una resa maggiore consente una
produzione maggiore e, a parità di altre condizioni, un’alimentazione più abbondante e variegata),
progressivamente, le carestie si fanno meno frequenti e gli scostamenti annuali rispetto alle medie
decennali delle rese sono minori: questo perché ci sono due aspetti di questa situazione europea
(delle aree più favorite dell’Europa centro occidentale) che vanno sottolineati. Non basta che
aumentino le rese ma un altro aspetto molto favorevole è che la loro variabilità di anno in anno
diminuisca: se la variabilità un po’ permane ma si attenua, c’è una situaizone più stabile, si può
ragionare sul medio lungo periodo, le emergenze alimentari si fanno meno frequenti (bisogna
quindi considerare questi due aspetti). In queste aree dell’Europa centro occidentale messe un
pochino meglio, anche progressivamente, alcune aziende piccole e medie producono più
frequentemente delle eccedenze che, pur senza essere la ratio principale del lavoro della famiglia
(pur senza essere il mercato e l’eccedenza la motivazione principale), si fanno un po’ più rilevanti
per cui possono essere vendute in cambio di denaro sul mercato più vicino; ovviamente è difficile
che un piccolo agricoltore vada a vendere sul mercato di Londra. Molto meno favorevole è la
situazione pedologica (della natura dei terreni) e meteoclimatica nell’Europa centro meridionale
sia per i piccoli e medi produttori ma anche per i latifondisti: qui i rendimenti medi sono più bassi e
le oscillazioni annuali dei raccolti sono più notevoli e queste sono due condizioni sfavorevoli.
Quindi, in queste aree è ancora più difficile prevedere le eccedenze e i prezzi perché la situazione è
più instabile: la variabilità, a seconda degli anni, per molti produttori, della condizione di venditore
o compratore sul mercato è un elemento di incertezza notevole perché un anno posso produrre
un’eccedenza e, dopo aver consumato quello che serve a me e al mio nucleo famigliare, posso
andare sul mercato come piccolo venditore ma può succedere che dopo qualche anno in cui i
raccolti vanno male posso trovarmi nella condizioni opposta in cui non solo non ho più eccedenza
da portare sul mercato ma potrei trovarmi in una condizione in cui l’autoproduzione non è
sufficiente per l’autoconsumo per cui sono costretto ad andare sul mercato per comprare il cibo
che mi manca; inoltre dovrò compiere questa azione nel momento più sfavorevole perché la
scarsità della produzione renderà i prezzi più elevati. Tutto questo contribuisce a spiegare perché,
in una certa letteratura popolare, spesso il mercato e la città sono vissute da parte dei rurali con
un certo stress: andare in città, nel mondo medievale, significa andare dove ci sono persone più
furbe, è un mondo denso di insidie. I prezzi, in una società di questo genere, spesso non svolgono
una funzione capitalistica fondamentale, ovvero, di orientare il comportamento dei produttori. Il
mercato di puro scambio dei cereali rendeva difficile ai contadini produrre per vendere e
funzionava ben diversamente dal mercato antagonistico a cui siamo abituati noi: quello di oggi è
un mercato antagonistico dove si incontrano/scontrano produttori, venditori e consumatori,
acquirenti; è un mercato impersonale, autoregolato che sarebbe prevalso ampiamente solo
successivamente a cominciare da alcune aree olandesi, fiamminghe e inglesi.
Le interazione e le interdipendenze tra le relazioni economiche e altri fattori ed attori
Vediamo ora alcune interazioni e interdipendenze in prospettiva storica tra relazioni economiche
ed altri fattori e attori delle società di cui stiamo parlando. Da questo punto di vista, le relazioni
economiche non possono essere analizzate in quanto realtà autoreferenziali: quell’omo
economicus che alcune teorie economiche sembrano porre al centro delle proprie riflessioni e dei
propri modelli, non ha alcun fondamento pratico perché l’omo economicus non esiste ma c’è un
uomo che svolge funzioni economiche ma in un contesto più ampio (le relazioni economiche non
sono qualcosa di assoluto ma le relazioni economiche esistono in quanto derivano dal
comportamento che un certo uomo ha, agendo in un certo contesto e in certe condizioni per cui

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va contestualizzata). In prospettiva storica, quindi, le relazioni economiche e gli attori economici
devono essere analizzati in quanto componenti di un macro insieme di relazioni sociali e culturali
che sono riconducibili almeno a quattro sottoinsiemi che sono tra loro interdipendenti. Ci
occuperemo ora dei quattro sottoinsiemi a cominciare dal primo, ovvero, l’ambiente. L’ambiente è
studiato dalle scienze naturali e dalle scienze geografiche e, nel corso dei decenni, si sono studiati
gli influssi tra la natura e la società, influssi complessi perché non vi è società senza un ambiente
naturale e senza una geografia ma è importante anche la freccia in senso opposto ovvero
l’influenza delle società e dell’uomo sul contesto naturale e geografico; l’antropocene è una fase
della storia in cui il peso e l’influenza dell’uomo e delle società umane sul pianeta è rilevante, con
questo termine si indica l’epoca geologica attuale in cui l’ambiente terrestre viene fortemente
condizionato dagli effetti dell’azione umana. C’è da tempo un’interazione tra fattori fisici e
antropologici, cioè, tra la situazione del pianeta (la posizione, il clima, la vegetazione, le acque, il
suolo, le risorse naturali) e i fattori antropologici (il popolamento, il tipo di insediamento, il tipo di
attività economiche). Vedremo che le attività industriali hanno, complessivamente, un impatto
molto significativo sul pianeta anche se l’impatto c’era da sempre. A fine 800, lo studio di questo
tipo di relazioni va nel contesto di una linea di un’atmosfera filosofica improntata al positivismo:
c’è una svolta in senso deterministico; determinismo significa, in parole povere, quando un fattore
viene ritenuto, nell’ambito di un’interpretazione storica, come pressoché totalmente
determinante di certi esiti. Secondo il determinismo di questo tipo, i fattori naturali sarebbero la
prevalente causa determinante di come si sviluppano le società, di come vivono gli uomini: i fattori
naturali sarebbe la principale spiegazione di come si formano gli spazi umani e di come si
sviluppano i comportamenti umani. Ad esempio, l’agricoltura israeliano è la dimostrazione del
fatto che condizioni sfavorevoli possano essere superate in qualche modo, viceversa l’Argentina va
incontro a cicliche crisi economiche finanziarie pur essendo un paese potenzialmente molto più
ricco di tanti altri paesi: questa è la dimostrazione che le dotazioni naturali non bastano. Questo
serve per dire che il determinismo è una chiave di lettura molto insidiosa, tanto è vero che,
progressivamente, superata quella fase tardo-ottocentesca, ci si rende conto che popolazioni
diverse in ambienti simili elaborano soluzioni differenti: in termini concreti, ciò significa che
l’ambiente influisce ma non determina in toto. Da un rigido determinismo ambientale si va verso
un più elastico e ragionevole possibilismo interattivo: c’è un’interazione tra ambiente e realtà
antropologica (uomo, società) e cresce l’importanza della freccia che dalla cultura e dalla società
va verso la natura.
Circa mille anni fa, all’inizio del secondo millennio, l’Europa è molto più spopolata rispetto ad oggi,
molto più diffusi sono i boschi, le foreste, i pascoli, le paludi e “l’Europa si presenta come un
insieme di ecosistemi in equilibrio spontaneo dove pochi e piccoli gruppi umani difendono gli spazi
vitali che si erano conquistati”: è una società con una bassissima densità demografica,
un’economica semplice e, in molti casi, di tipo curtense. In seguito, dopo il famoso “mille” (con il
nuovo millennio), assistiamo ad una fase di mutamento e di espansione delle società umane
definito come “il duro lavoro manuale di molte generazioni di contadini produsse suoli coltivabili
per nutrire una popolazione tendenzialmente in aumento”: ci sono elementi molto importanti in
questa affermazione perché noi stiamo parlando di una fase di conquista di terreno coltivabile da
parte di quelle società ma di lavoro manuale perché non abbiamo tecniche sofisticate e non
abbiamo un’agricoltura meccanizzata ma si utilizzano attrezzi agricoli di legno aiutati da qualche
animale. Tuttavia, è un lavoro importante: come si conquista terreno e come si dissoda terreno
prima non fertile? Ci sono disboscamenti per mettere a frutto/a coltura dei terreni, vengono
drenate e bonificate delle paludi, acquitrini per cui si estende la superficie coltivabile in
quell’Europa post anno “mille” e la popolazione comincia a crescere in modo significativo e
crescerà fino a quando non arriva la famosa peste nera di metà 300. Per cui questo periodo è
caratterizzato da una fame di espansioni e di riconquista di terreni ma ci sono anche delle vere e

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proprie colonizzazioni, si parla di frontiere medievali e ci sono nuove fondazioni di nuove località.
Fino a metà 800, la maggior parte della popolazione europea vive in villaggi e in case sparse in
aree rurali collinari e montuose: le città di grandi dimensioni sono rare e sono più piccole di oggi;
questo ha un fondamento economico ed ecologico perché non si poteva sostenere un eccessivo
concentramento di persone perché non si poteva nutrirle. Per questo motivo sono più frequenti i
piccoli e medi centri urbani demograficamente stabili grazie all’inurbamento di rurali perché le
città erano delle tombe perchè la mortalità urbana era superiore a quella rurale quindi per
mantenere una popolazione in una città bisognava consentire che almeno una parte della
popolazione rurale circostante si inurbasse: questo ci dimostra che la storia dell’umanità è una
storia di migrazioni di lunghissimo e breve percorso. Le città, normalmente, hanno tre funzioni:
- Sono sede di magistrature pubbliche, civili ed ecclesiastiche;
- Sono il luogo di produzione e di vendita di manufatti, tuttavia, tenendo conto che una parte
della produzione continua ad essere svolta nelle aree rurali; sono luogo di erogazione di
servizi per i cittadini e per i rurali circostanti.
- Sono il luogo di scambio di derrate eccedenti rispetto all’autoconsumo e sede di fiere
periodiche regolate dalle autorità in modo tale da attrarre mercanti stranieri e forestieri.
Ostacoli naturali e istituzionali (confini tra stati, dazi, le gabelle) intralciano movimento di merci a
medie e a lunghe distanze, favorendo lo sviluppo economico e urbanistico di città che hanno
collocazioni geografiche favorevoli come le città portuali e città interne situate lungo fiumi o canali
navigabili.
Tutto questo per dire che è molto importante la relazione tra ambiente e uomo perché mentre
intorno all’anno mille era più l’ambiente ad influenzare l’uomo (era l’ambiente a guidare l’uomo
nelle scelte), nel corso del tempo e con lo sviluppo della tecnologia, è diventato l’uomo ad avere
una maggior influenza sull’ambiente (l’uomo domina l’ambiente).
La seconda di queste sfere con cui poniamo in relazione la realtà economica è quella della
popolazione o sfera demografica (la struttura e la dinamica della popolazione): la popolazione è un
organismo molto complesso, soggetto a continui mutamenti che sono legati tanto a processi
naturali quanto a processi sociali e culturali; per processi naturali intendiamo natalità e mortalità, i
quali sono aspetti biologici-naturali mentre per processi sociali intendiamo unioni, matrimoni,
migrazioni. Ad esempio, c’è infatti un saldo naturale della popolazione, ovvero, la differenza tra
nati e morti; per vedere quanti siamo in un determinato spazio e in un determinato momento,
dobbiamo tenere conto del saldo naturale ma anche del saldo migratorio. La storia della
popolazione ha una sorta di spartiacque cronologico situato tra la metà del 700 e la metà dell’800:
la popolazione mondiale comincia ad aumentare in modo che da quel momento in poi è stato
ininterrotto, con diversi tassi di crescita e diverse velocità ma in modo senza precedenti perché
come vedremo, nell’epoca preindustriale, c’erano fasi di crescita della popolazione seguite da fasi
di diminuzione o di ristagno o di decrescita drammatica come il caso della peste nera (la peste
nera ha un elevatissimo tasso di mortalità: circa un quarto della popolazione europea muore). Con
questa rivoluzione demografica, questa situazione è cambiata rispetto al passato: non più fasi di
crescita alternata da fasi di tracollo o di decrescita ma è una crescita ininterrotta che è legata ad
aspetti medico sanitari e ad aspetti economici. Questo è un cambiamento straordinariamente
importante nella storia del mondo e dell’umanità: questa crescita, fin qui, ininterrotta, che si
manifesta in diversi modi, in diverse aree e in diverse epoche, coincide con migliori condizioni di
vita, con l’adozione di misure igienico sanitarie pubbliche e private che hanno diversi effetti sulla
natalità, sulla mortalità e sulla durata della vita media. Inoltre, la struttura della popolazione di
antico regime è diversa da quelle delle popolazioni dei secoli più recenti (dell’età industriale):
perché? Si parla di piramidi per età della popolazione, ovvero, si disegnano istogrammi che
rappresentano fasce d’età della popolazione: quanto più in quella fascia d’età nascono ed esistono

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tante persone, tanto più il rettangolo è ampio e viceversa; perché sono state chiamate “piramidi
per età”? Perché, per le età precedenti al periodo industriale, la forma era quella di una piramide:
nascono tanti bambini quindi la base della piramide ha un rettangolo ampio; in quelle società c’è
anche un’elevata mortalità perinatale (appena dopo la nascita) infantile e giovanile per cui la base
si restringe perché i rettangoli diventano più stretti. Questa è, esattamente, la raffigurazione di un
regime demografico di antico regime per cui questa piramide per età, con una base ampia che si
restringe rapidamente e un corpo centrale e una punta che vanno rapidamente restringendosi,
rappresenta una situazione in cui c’è un elevato tasso di mortalità e un elevato tasso di natalità:
nascono tanti bambini, tanti bambini quasi subito muoiono e non è semplice arrivare a mezza età
e anziani. La mortalità infantile, non a caso ancora oggi, è considerato uno degli indicatori del
livello di sviluppo di un paese o di una regione: in altre parole, i rischi che corrono e la fragilità
degli esemplari più giovani della nostra specie è un indicatore del fatto che quella comunità umana
è meno evoluta di altre. Se noi guardiamo ad una piramide per età di una società a noi vicina, oggi,
anche se si chiama ancora “piramide per età” è molto meno piramidale perché la base (le età più
giovanili) è più stretta, ovvero, si nasce di meno però si muore molto di meno in fase giovanile; le
fasce d’età intermedie sono robuste e molte più persone raggiungono l’età anziana e la vecchiaia.
Tutto ciò viene rappresentato in forma diversa dal punto di vista della piramide per età: questa
rappresentazione diversa è segno di due società significativamente differenti. Il processo che si
svolge in questo periodo si chiama “transizione demografica”, ovvero, passaggio da un regime
caratterizzato da alti tassi di natalità e mortalità ad un regime demografico caratterizzato da tassi
stabilmente più bassi. Naturalmente, tutto questo non avviene secondo un decreto-legge secondo
uno schema uguale ovunque ma avviene con notevoli analogie e differenze di modalità, di
intensità e di tempi in tempi diversi a seconda dei paesi e delle regioni: normalmente, prima
decresce la mortalità per la quale è più facile “trovare degli aiuti”, poi decrescono, adattandosi a
questo cambiamento iniziale, la natalità e le nuzialità che sono maggiormente influenzate da
fattori storico-culturali e sociali. Come può diminuire la mortalità? Oltre ad alcuni miglioramenti
del tenore di vita, una cosa importante è legato alla diffusione di vaccini: la diffusione di certe
vaccinazioni ha senz’altro consentito una drastica diminuzione della mortalità. Un ultimo aspetto
da sottolineare è l’allungamento della durata della vita media: è molto importante perché ciò ha
delle implicazioni di tipo culturale, politico, economico e finanziario (pensiamo a quanto sia
importante la spesa pensionistica: i regimi pensionistici sono destinati a creare dei problemi
perché saranno troppe le persone che dovranno essere sostenute e sempre meno le persone che
lavoreranno).
La terza sfera è quella delle istituzioni politiche e giuridiche e come essa si relazioni con i rapporti
economici. Queste istituzioni “definiscono le forme del potere e del suo esercizio, nonché le regole
positive e/o consuetudinarie che individui e gruppi umani devono osservare”: perché è opportuno
specificare l’accezione in cui stiamo usando il termine “positivo”? E’ un’accezione giuridico-
istituzionale, ovvero, in questo senso, positivo significa “storico”, che viene stabilito da qualche
autorità contrapposto a “naturale”: il diritto positivo è diverso dal diritto naturale. Il diritto positivo
è fondato da un legislatore e quindi è relativo ad un’epoca specifica e ad un contesto socio-politico
specifico/particolare per cui è diverso dal diritto consuetudinario. Per lungo tempo, durante
l’antico regime (età preindustriale), i poteri sovrani personali/locali (parliamo di re, imperatore ma
anche di vescovi-conti, feudatari, signori) erano basati sulla concessione di privilegi, ovvero, di
norme o di statuti particolari elargiti a beneficiari come città, corporazioni di arti e mestieri, casate,
gruppi sociali, singoli individui; i sovrani assegnavano benefici in cambio di fedeltà. Oggi, il termine
privilegio o privilegiato ha un’accezione negativa: i privilegi della casta o i privilegi dei professori
universitari, ovvero, indicano qualcuno che ottiene dei vantaggi indebiti e che creano, rispetto agli
altri, delle diseguaglianze. Nelle società preindustriali, questa accezione negativa è l’opposto: se
un sovrano concede a qualcuno un privilegio, questo non solo non è una cosa di cui vergognarsi

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ma, anzi, è un elemento fondamentale della mia identità, è un elemento di cui non solo mi avvarrò
a mio beneficio praticamente ma me ne darò vanto. I privilegi riconoscevano dignità graduate e
diversificate in un mondo che ignorava il concetto di uguaglianza, in un mondo caratterizzato da
rapporti diseguali tra superiori e inferiori; il concetto di equità e di giustizia è un concetto diverso
da allora: ciò non significa che fosse sempre e comunque agli antipodi rispetto ad oggi ma vuol dire
che molti aspetti erano differenti come, ad esempio, il rapporto tra individuo e gruppo di
appartenenza. Quelle società antiche sono società dette corporative, nel senso che lì,
l’interlocutore principale del sovrano/dell’autorità e il punto di riferimento delle persone che
vivevano in quelle società non era tanto l’individuo come nella nostra società ma il corpo di
appartenenza. Il corpo vuol dire, per esempio, il comune medievale che è la corporazione
d’eccellenza: nel comune medievale non ci stanno dentro tutti ma solo coloro che godono del
diritto di essere cittadini in quella particolare città oppure coloro che fanno parte di un certo
contado. Questo non significa che l’individuo non conti ma le coordinate mentali, i valori, le prassi,
gli atteggiamenti sono meno individualistici rispetto ad oggi e più connessi al gruppo di cui si fa
parte. Fino al primo 800, più raramente rispetto ad oggi, singoli individui sono pieni proprietari di
un immobile perché spesso sussistono stratificazioni di diritti di possesso e di diritti d’uso che
creano situazioni giuridiche e pratiche molto complesse: stratificazioni al cui vertice di solito c’è un
dominus (un signore) investito di una signoria feudale titolare del diretto dominio di quel bene; si
tratta di situazioni diverse da quelle a cui siamo abituati oggi e, inoltre, vi è un concetto di
proprietà privata che è spesso differente da quello tipico delle nostre società. I concetti di
proprietà e potere, in sintesi, sono diversi da quelli che abbiamo oggi. Un altro elemento da
considerare è che il concetto di stato come lo intendiamo oggi non è un concetto naturale ma è un
concetto positivo, formatosi storicamente e in modo complicato; il processo di
istituzionalizzazione dello stato è un processo molto complicato che nasce lentamente da una
molteplicità di particolarismi (poteri limitati, particolaristici, locali) e che tende molto
gradualmente e lentamente verso la generalizzazione di regole valide per tutti. Nel corso di questo
processo, ci sono spinte conservatrici, resistenze da parte di diversi ambiti di organizzazioni
normative e di potere che sono “gelose” delle loro prerogative giurisdizionali come le parrocchie,
comuni, feudi, diocesi, città e persino strutture statali di dimensioni più ridotte. Per cui lo stato
non è un’entità naturale ma lo stato si forma in diverse varianti, in modo spasmodico e complicato
e gli stati di cui parleremo in età preindustriale sono molto diversi dagli stati a cui siamo abituati
noi.
In quel complesso laboratorio istituzionale che costituisce l’Europa tra il 400 e il 700, ci sono molte
varietà di posizione: ci sono espressioni geografiche che non ancora hanno un’espressione
politico-istituzionale come l’Italia in cui vi sono tanti poteri mentre alcuni paesi come
Inghilterra/Gran Bretagna e Francia (anche se questo paese rappresenta il simbolo
dell’assolutismo regio, in realtà, il potere regio è fragile perché molte aree del paese non si
interessano del Re Sole) diventeranno qualcosa di più; ci sono quindi situazioni complicate e
diverse: è un’Europa in cui sono ancora le città stato, ci sono ancora dei feudatari importanti, ci
sono dei paesi che sono al centro di enormi imperi. Cerchiamo ora di riassumere in modo non
esaustivo ma in modo da dare un’idea di questa varietà di situazioni. I regimi politici, in questo
laboratorio politico istituzionale in Europa tra 400 e 700, possono essere riconducibili a cinque tipi
(ciò non vuol dire che tutti ricadano perfettamente in questa tipologia ma serve per sintetizzare):
le prime due sono il feudalesimo e le repubbliche patrizie; anche se molte diverse, in entrambi i
casi, il potere è controllato a titolo ereditario da un ristretto gruppo di casate nobiliari con delle
differenze. Il feudalesimo è tipico delle società soprattutto più rurali, il potere centrale è debole in
questi casi: non è più il feudalesimo di Carlo Magno ma ci sono ancora strumenti di matrice
feudale, ci sono signori locali. Che cosa farà crollare l’edificio feudale nell’Europa continentale?
Molte norme e prassi di ascendenza feudale vengono cancellate dalla Rivoluzione francese. Il

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potere centrale è debole, ci sono molteplici poteri locali e ci sono rapporti politici tipicamente
personali (servizio in cambio di protezione/concessioni). Le repubbliche patrizie, ad esempio
Venezia o Genova o la Svizzera, sono città stato oligarchiche (potere di pochi) anche con territori
significativi; il patriziato è una sorta di nobiltà/élite urbana di matrice spesso alto borghese. Nella
storia dell’Europa preindustriale c’è una repubblica oligarchica patrizia che diventerà potentissima:
le province unite, ovvero, l’Olanda. La terza e la quarta forma, invece, sono la monarchia assoluta
e il dispotismo illuminato: monarchia assoluta significa che questo potere tende a dominare e
sopravanzare altri poteri inferiori per cui la monarchia assolata, tendenzialmente, soppianta
progressivamente il feudalesimo che gradualmente e parzialmente declina per una serie di motivi.
Il primo motivo è l’affermazione tendenziale di un sovrano unico senza pari e senza limite, un
sovrano che è tale per diritto divino: ciò non vuol dire che possa fare tutto quello che vuole né
nella pratica né nella sfera del diritto perché un sovrano che tiene conto minimamente dei diritti e
delle richieste dei suoi sudditi si perverte nella figura del despota, ovvero, il tiranno, il quale può
essere ucciso. Un altro elemento che aiuta a capire l’affermazione delle monarchie assolute è la
creazione di eserciti permanenti, ovvero, non più eserciti che vengono creati e mantenuti solo
finché c’è la guerra in atto ma che rimangono in servizio anche durante un periodo di pace e
vengono anche spesso utilizzati come strumenti di mantenimento del potere costituito all’interno
del paese. Altro elemento è la formazione di burocrazie centrali e periferiche; tutto ciò significa
che assistiamo ad un ampliamento e ad una complicazione della sfera del potere regio e, in parole
povere, tutto ciò serve per definire le monarchie assolute. Il dispotismo illuminato compare verso
metà 700 nell’Europa centrale ed orientale, ovvero, in un Europa più arretrata rispetto a quella
occidentale: in questi paesi, parte dell’élite politica e intellettuale cerca di recuperare il ritardo
rispetto alle monarchie assolute dell’Europa occidentale attraverso processi a tappe forzate di
modernizzazione istituzionale, cioè, quello che gli economisti definiscono “top down” ovvero
riforme calate dall’alto (despoti illuminati). Il sovrano illuminato mirava ad instaurare un ordine
politico razionale, si valeva dei consigli di esperti (i filosofi politici), perseguiva la semplificazione
dei rapporti con i sudditi, assieme alla codificazione di norme per accrescere il prestigio e la
potenza dello stato. In questi paesi mancano capitali e scarseggia anche la borghesia
imprenditoriale che, con le debite proporzioni, era piuttosto robusta nella parte più occidentale
del continente per cui vengono adottate anche in campo economico misure dirigistiche: c’è quindi
una miscela di misure autoritarie che creeranno una tradizione di autoritarismo e di dittatura, c’è
una tradizione che va oltre i diversi regimi e che rimane in parte nella memoria storica dei popoli e
di queste nazioni. Spesso ci sono dei filosofi come consiglieri (Voltaire): chi detiene il potere ritiene
di sapere che cosa desiderino i sudditi per realizzarne la felicità (approccio dispotico illuminato).
L’ultima forma è il regime britannico, ovvero, la monarchia costituzionale: è una monarchia
ereditaria costituzionale in cui il potere appartiene ad un’aristocrazia autorevole, più aperta,
rispettata dalla popolazione perché non si era mai estraniata rinchiudendosi in una torre d’avorio
dai problemi concreti del paese. Nella monarchia costituzionale britannica, la burocrazia statale è
più snella e il parlamento è centrale, non è un’istituzione fine a se stessa ma è il luogo in cui si
confrontano/scontrano interessi tratti e rappresentati da una porzione più ampia della società
rispetto alle altre monarchie. È chiaro che nel 700 non sono rappresentati i ceti operai perché,
affinché questo accada, bisognerà attendere l’800 e 900 ma, tuttavia, non sono neppure
rappresentati soltanto i nobili o i grandissimi borghesi poiché c’è una parte della borghesia
importante; il parlamento è comunque il luogo della rappresentanza, dell’esposizione, del dialogo
e anche dello scontro tra interessi, poteri e figure/identità differenti che interagiscono e
cooperano. Questo sistema è un sistema rappresentativo, elettivo, elitario ma anche liberale: ci
saranno dei diritti che quei ceti medio/alti pretenderanno vengano rispettati e ne imporranno il
rispetto ai sovrani. Sovrani e parlamenti svolgono pienamente un ruolo di esclusivi produttori di
norme solo nel pieno 700, insieme con una serie di riforme di aspetti fondamentali della vita

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sociale associata come il prelievo fiscale, la sfera militare, gli eserciti, le corporazioni, le imprese
statali per superare il tradizionale particolarismo istituzionale e amministrativo tipico delle società
premoderne. Gradualmente, quindi, vengono attenuati o addirittura smantellati dei privilegi (come
li definivamo prima) e delle franchigie, delle immunità che nel 700 appaiono anacronistiche; si
cerca, gradualmente, di affermare rapporti più impersonali con i sudditi, ovvero, certi diritti
valgono per tutti e si fanno sempre più importanti relazioni di carattere giuridico-formale e
amministrativo per cui ecco affermarsi il catasto, la leva, il debito pubblico gestito secondo criteri
più trasparenti e la moneta cartacea. Fattori di questo genere porteranno in alcuni paesi al
tramonto della monarchia o ad una sua piena trasformazione in una monarchia formale che non
deterrà più il potere come la monarchia inglese. Frutti di questa evoluzione dello stato nell’Europa
occidentale sono, per esempio, la tripartizione e la separazione dei poteri: la distinzione tra potere
legislativo, potere amministrativo (esecutivo) e potere giurisdizionale. Ancora, si afferma il
principio della rappresentanza politica (il parlamentarismo) e il suffragio limitato: è limitato
perché, originariamente, c’era un vincolo censitario (bisognava avere una situazione economica di
un certo tipo) e un vincolo di genere per cui potevano votare gli uomini che avevano un certo
reddito e quindi pagavano le tasse; tra fine 800 e primi del 900, comincia un’altra storia con il
suffragio universale non solo maschile: 1893 in Nuova Zelanda votano le donne, nel 1928 in Gran
Bretagna vi è il primo suffragio universale, in Italia ciò avviene nel 1948.
Infine, l’ultima quarta sfera sono le gerarchie sociali: ogni società ha una gerarchia sociale più o
meno complessa con stratificazioni in ceti più o meno compatti al loro interno, classificabili entro
un sistema generale di gerarchie del prestigio che veniva accordato ai singoli e ai gruppi che ne
fanno parte. Le diseguaglianze di status sono effetto delle diverse posizioni sociali relativamente
all’esercizio del potere, all’onore pubblicamente riconosciuto, alla disponibilità di risorse
patrimoniale e di redditi derivanti da attività economiche considerate non disdicevoli (per
esempio, nell’antico regime, se si svolgevano arti meccaniche non si poteva aspirare a diventare
nobili o ad avere un’ascesa sociale) per cui non è solo la ricchezza che dà prestigio sociale.
Nell’Europa preindustriale, nell’ancien regime, l’appartenenza all’élite dipende soprattutto dal
principio ascrittivo, ovvero, il prestigio che deriva dall’etnia e/o dalla famiglia di provenienza; nelle
società tecnologiche e democratiche prevale il principio acquisitivo, una sorta di meritocrazia nel
mestiere legato al livello di istruzione raggiunto dall’individuo, pur con persistenze di elementi di
antico regime, di contaminazioni. Questa situazione delle società che si fondano maggiormente sul
principio acquisitivo, sono situazioni in cui la mobilità sociale (il cosiddetto ascensore sociale) è più
dinamica rispetto alle altre società. A partire dal 700, l’istruzione nell’Europa occidentale diventa il
maggior fattore di ascesa sociale perché consente ad una quota crescente di popolazione di
godere dell’opportunità di acquisire competenze e abilità che, altrimenti, le sarebbero precluse.
Concludendo, possiamo dire che “complesse e fra loro interagenti relazioni di carattere economico
si intrecciano con i quattro citati campi appena visti”: le varie interazioni tra relazioni economiche
e queste sfere danno esiti diversi a seconda delle peculiarità delle diverse società. C’è un legame
profondo tra cultura e ambiente: cultura significa “modo in cui gli uomini si rappresentano le
relazioni intessute nei e fra i diversi campi evocati”. La storia, dunque, non è solo un ramo del
sapere ma è “una forma intellettuale per comprendere il mondo” per cui è una sorta di prospettiva
critica per comprendere la nostra stessa vita ma ciò non vuol dire che la storia è magistra vitae ma
vuol dire che ci dà gli strumenti per affrontare problematiche, sfide, conoscenze. La cultura
esprime principi di appartenenza secondo modelli di comportmaneto collettivo che nel lungo
periodo vengono trasmessi con varie forme di comunicazione: la cultura è, in tal senso, connessa
strettamente all’ambiente. La cultura procede per tempi lunghi ma in parte è riformabile quando
viene a contatto con altre culture che essa influenza e dalle quali, a sua volta, è influenzata: ciò si
chiama “processo di acculturazione”.

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LE SOCIETA’ PREINDUSTRIALI (1347-1720)
Dopo aver visto la parte introduttiva, una sorta di presentazione delle società tradizionali e delle
società tecnologiche, scendiamo un po’ più nei dettagli parlando di società preindustriali,
cominciando dalle campagne e vediamo il passaggio dai campi aperti e comuni alle recinzioni.
Iniziamo a vedere com’è organizzata l’agricoltura tradizionale: attorno alla metà del 400, circa
9/10 della popolazione europea vive in aree rurali; l’agricoltura non solo produce le scorte
alimentari fondamentali per la sopravvivenza della popolazione europea ma anche gran parte
delle materie prime, ad esempio, per l’industria più rilevante che è l’industria tessile. La condizione
socio-economica di coloro che vivono nelle campagne dipende anche dal titolo giuridico in base al
quale essi lavorano la terra: ciò vuol dire, ad esempio, se sono contadini liberi oppure no; da
questo punto di vista, l’Europa è divisa in due da una linea immaginaria che parte dal delta del
Reno (fiume franco-tedesco) e giunge fino a Trieste. Abbiamo un’Europa occidentale in cui la
maggior parte dei contadini sono liberi giuridicamente, dove il contadino coltiva la terra avendone
la proprietà o il possesso; molti contadini, però, non sono né proprietari né possessori della terra
che lavorano ma sono affittuari cioè prendono in affitto piccoli appezzamenti da proprietari di
piccoli/medi/grandi proprietà fondiarie. Infine, si possono gestire questi appezzamenti in base a
contratti parziari, il più tipico dei quali è la mezzadria: chi lavora si tiene la metà del prodotto del
suo lavoro mentre l’altra metà del raccolto va al proprietario. In Europa centro-orientale, spesso,
invece, i contadini non sono giuridicamente liberi perché vivono in una condizione definita “servitù
della gleba”: la servitù della gleba (gleba significa zolla e, per estensione, terra) non è la schiavitù
ma è una situazione di non libertà giuridica per cui questi servi sono legati alla terra che lavorano,
non hanno dignità di persone ma sono come “cose incorporate ai suoli”; questi individui
dipendono dai proprietari di quella terra, dai nobili: i nobili sono molto potenti e detengono poteri
e autorità che oggi ci aspetteremmo detenuti dallo stato e che vanno oltre il potere e l’influenza
privata poiché essi esercitano la giustizia, impongono tassazioni, organizzano la difesa e l’attività
economica. I contadini vivono in villaggi, lavorano poderi per produrre la gamma dei prodotti che
serve al loro fabbisogno famigliare e nel tempo residuo svolgono attività che servono al signore
(ad esempio, il sistema delle corvée assicurava vantaggi per il signore feudale che poteva disporre
di forza lavoro gratuita): solo raramente i contadini producono per lo scambio, per ottenere
moneta per comprare beni e servizi che non si possono autoprodurre. È quindi evidente che un
sistema di questo genere non induce né i servi della gleba né i signori/nobili a modernizzare e ad
innovare le tecniche agrarie perché, da un lato, i comportamenti economici delle famiglie serve
sono lontanissimi dal capitalismo, non hanno diritti di proprietà e di possesso, non esiste una
manodopera salariale, non c’è una divisione del lavoro e quindi non c’è una specializzazione per
accrescere la produttività: sappiamo che in questo contesto lo scopo della produzione è pressoché
esclusivamente quello del consumo diretto più che della vendita. Tutto ciò comporta poco lavoro
per unità di superfice e basso livello di rendimento: i servi, in questo contesto, cercano di
raggiungere quel livello di produzione che soddisfa la loro sopravvivenza e gli obblighi nei
confronti del proprietario, non c’è nessuno stimolo ad incrementare fortemente la produzione e,
di conseguenza, non c’è il desiderio di fare investimento in capitale fisso per cui l’innovazione è
impensabile e inconcepibile. Anche il signore/nobile, però, in un contesto del genere, non ha
stimoli perché la rendita fondiaria che ottiene questa nobiltà è garantita dalle condizioni giuridico
e socio-politiche perché c’è un sistema che garantisce il predominio sui servi. Ne deriva che né i
servi né i signori hanno interesse a modernizzare e innovare questa agricoltura: ciò non vuol dire
che siamo all’età della pietra ma significa che questo sistema non è favorevole alla crescita della
produttività, allo sviluppo economico e alla modernizzazione economica e sociale. Naturalmente ci
sono anche aspetti che possono avere qualche implicazione positiva: ad esempio, c’è una gestione
delle scorte alimentari parsimoniosa e quando una famiglia in un villaggio si trova in difficoltà, c’è

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una solidarietà tra famiglie omologhe per cui questo può essere una difesa, un aiuto nei momenti
di crisi; addirittura, anche i nobili, nei momenti di crisi, anche se non hanno particolare “affetto”
per i servi, possono decider di lasciar attingere alle loro riserve alcun famiglie di servi perché, se
queste morissero, perderebbero comunque la loro manodopera o una parte di essa. Per cui nelle
emergenze massime, anche i magazzini del signore possono essere utilizzati, previa autorizzazione
del signore medesimo, da parte dei servi. In occidente, invece, come vanno le cose? Abbiamo
detto che, giuridicamente, il quadro è diverso: questo è molto importante ma non esaurisce il
discorso. Molti contadini, anche in occidente, pur essendo in condizioni giuridiche ed economiche
un po’ più favorevoli, hanno una prospettiva esistenziale non così diversa rispetto all’Europa
orientale: i contadini, spesso, vivevano in condizioni quasi analoghe e, a volte, peggiori rispetto ai
contadini orientali pur rimanendo con quella differenza importante.
Vediamo come, tuttavia, in Europa occidentale, accanto ad un sistema di gestione della terra
piuttosto tradizionale, cominciano a farsi larghe in alcune aree delle forme di organizzazioni e degli
approcci alla terra e alla sua gestione innovativa che porteranno ad un’innovazione detta “nuova
agricoltura”. Vediamo la schematizzazione del territorio di una comunità agricola dell’Europa
occidentale, nel tardo medioevo, dove si gestisce la terra e si organizza il lavoro in modo
tradizionale: la prima differenza è quella tra common fields (campi comuni) e gli open fields (campi
aperti). Il cerchio più esterno rappresenta i terreni non coltivati, sono aree in cui c’è la brughiera,
c’è la boscaglia per cui rappresentano i campi comuni, ovvero, non sono di proprietà privata ma
sono di proprietà della comunità; i contadini della comunità qui possono fare cose utili che li
aiuteranno a sopravvivere: per esempio, possono raccogliere legname o portare il bestiame a
pascolare. Il cuore della comunità è rappresentato dagli open fields: questa situazione (questa
parte dei campi aperti) è divisa in tante parcelle (piccole porzioni di terreno, piccoli appezzamenti
di terreno) che si incastrano in modo casuale perché sono il risultato di una lunga storia in un
contesto in cui, spesso, il contadino ha uno o più appezzamenti vicini ma più spesso capita che il
contadino abbia degli appezzamenti separati l’uno dell’altro: questo avrà delle conseguenze
importanti nell’organizzazione del lavoro. Prima osservazione: i campi aperti si chiamano così
perché questi appezzamenti non sono delimitati da staccionate, da muri e non sono recintati per
cui sono campi di proprietà privata ma di un tipo di proprietà privata diversa da quella a cui noi
siamo abituati; per cui questi campi aperti sono piccoli appezzamenti di proprietà privata non
recintati e non delimitati fisicamente che sono diversi rispetto ai campi comuni: i campi comuni
non sono di proprietà privata ma della comunità, essi spesso non sono coltivati mentre quelli
aperti sono coltivati. Rimane comunque una proprietà privata diversa da quella tendenzialmente
esclusiva a cui siamo abituati oggi perché una morfologia nella distribuzione dei campi in questo
modo incentiva una gestione del lavoro di tipo comunitario: se ho appezzamenti lontani tra di loro,
ferma restando la proprietà privata dei vari appezzamenti, si organizza il lavoro agricolo in modo
tale che i vari proprietari cooperino e collaborino. L’organizzazione delle fasi e delle stagioni
lavorative è, in genere, di tipo comunitario: ciò significa che prima faremo questo campo, poi
proseguiremo in quello accanto e, finito il raccolto, quando sul terreno rimangono i residui, gli
animali di tutti i membri della comunità possono girare liberamente; questa è un’organizzazione
economica che, pur prevedendo la proprietà privata, ha forti elementi comunitari. Nella comunità
ciascuno può avere il proprio appezzamento, cerca di produrre ciò che è essenziale nei terreni
coltivabili e cerca di integrare con alcune risorse integrative che si possono trarre dai campi
comuni; è un sistema di organizzazione della comunità, della proprietà e del lavoro che non induce
molti proprietari a fare investimenti migliorativi perché se applico delle migliorie sul mio
appezzamento ma so che tra qualche mese dovranno pascolare le bestie dei miei vicino, questo è
un freno. Tuttavia, sempre restando in Europa occidentale, non ovunque è così: ad esempio,
progressivamente, i contadini che vivono vicini alle città e ai borghi più dinamici, a partire dal
quindicesimo secolo, cominciano a reagire allo stimolo che può venire da queste aree urbane di

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produrre cereali anche per il vicino e questo contribuisce a innescare una dinamica progressiva per
l’agricoltura: laddove si possono trasportare i raccolti e le derrate a luoghi di scambio
relativamente vicini e si possono traportare a buon mercato, ecco che si creano i mercati di
derrate i cui prezzi cominciano a funzionare come stimoli orientativi dei comportamenti produttivi
dei vicini contadini e/o imprenditori agrari; ecco che cominciano quindi ad emergere più
frequentemente attitudini verso la produzione per il profitto. Tra le metà del quattro e del cinque,
alcuni esponenti dell’aristocrazia europea occidentale incoraggiano contadini pionieri che creano
delle aziende accorpate, dei poderi (qualcosa che è diverso da quegli sparsi appezzamenti spesso
scollegati gli uni dagli altri poiché un podere è un’unità lavorativa omogenea con appezzamenti
organicamente collegati tra di loro e che hanno continuità e contiguità territoriale) di cui i
contadini hanno un utilizzo tendenzialmente molto più esclusivo secondo i principi di
“individualismo agrario”: mentre l’organizzazione common e open fields è tendenzialmente
comunitaria, pur caratterizzata da proprietà privata, qui parliamo, invece, di individualismo
agrario. Questa situazione tende ad essere una situazione diversa dal solidarismo delle servitù
collettive tipiche della comunità precedente, in base al quale il lavoro nei campi va svolto con
un’organizzazione comunitaria e collaborando; quindi meno open fields e più proprietà privata
individualistica e meno sfruttamento comunistico di pascoli, boschi e paludi.
Nel sistema degli open fields e nei sistemi tradizionali, spesso, si usava una rotazione biennali o
triennale con il maggese: normalmente, nelle economie che non sono arretratissime, si cerca di
non coltivare sempre in tutto il terreno che ho a disposizione la stessa coltura perché questo sfibra
il terreno per cui metà la coltivo e metà la lascio riposare (il cosiddetto maggese) perché il riposo
del terreno ne ricostituisce la fertilità; naturalmente, più complessa è la rotazione e minore è la
parte che verrà lasciata inutilizzata: ciò significa che una parte verrà coltivata con il frumento, una
parte a cereale e una parte lasciata a maggese. In un sistema tradizionale degli open fields, il suolo
coltivato è solo quello della metà o di un terzo: questo si collega a scelte economiche comunitarie
poco produttive. La necessità e l’opportunità di produrre cereali anche per la vendita non vuol dire
abolire l’autoproduzione per l’autoconsumo ma vuol dire produrre di più rispetto a ciò che serve: i
contadini delle aree più densamente popolate si emancipano dalle servitù collettive degli open
fields, spesso recintano o delimitano le loro proprietà e creano i poderi autonomi di cui dicevamo.
La maggior parte delle coltivazioni, per esempio, quelle cerealicole, ripetendosi di anno in anno
affaticano/sfibrano/depauperano il terreno e da qui deriva la necessità di far riposare il terreno
affinché si ricostituisca la sua fertilità; il terreno si fa riposare con il maggese, il quale può essere
nudo ovvero che la terra sta lì e non si fa nulla o lavorato nel senso che, per favorire il recupero di
fertilità, si va a lavorare con la vanga sul terreno. Questo va bene ma ha un limite: quella metà di
terreno che è destinato a maggese non dà nessun frutto: per questo, un’innovazione importante,
dal punto di vista agronomico, è che si tende a sostituire il maggese nudo o lavorato con una
soluzione alternativa che consenta di coltivare qualcosa (di avere un raccolto), aiutando, nello
stesso tempo, la ricostituzione della fertilità; questo avviene sostituendo il maggese con colture
diverse che abbiano delle caratteristiche che consentono di costituire la fertilità e queste colture
sono le piante foraggere (luppolo). Queste piante possono essere usate per due finalità:
ricostituire la fertilità quindi svolgere una funzione simile al maggese ma, al contempo, dare un
raccolto con la produzione di foraggio; l’altro risultato importante di questa sostituzione del
maggese con le piante foraggere è che, mentre ricostituisco la fertilità del terreno, produco un
raccolto di piante che possono essere usate per alimentare il bestiame bovino, il quale può essere
macellato, utilizzato per i lavori agricoli o per la guerra o per trasporti e, infine, produce delle
deiezioni tra cui il letame che è importante perché è un fertilizzante. L’Europa occidentale si
differenzia dall’Asia in questi secoli perché utilizza le deiezioni degli animali che servono per
fertilizzare i terreni dove si coltivano cereali mentre nelle società asiatiche si usavano le deiezioni
umane per fertilizzare i terreni. Si sta quindi creando, in alcune aree dell’Europa occidentale, una

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sorta di circolo virtuoso tra allevamento e agricoltura: l’agricoltura, tramite rotazioni più
complesse, produce le piante foraggere, le quali alimentano un allevamento, il quale produce
bestiame da lavoro, bestiame da macello e il letame che, a sua volta, va ad incrementare la fertilità
del terreno agricolo. Questa nuova agricoltura sarà caratterizzata da una maggior produttività, da
un forte legame tra agricoltura e mercato che supera l’autoproduzione per l’autoconsumo; ciò
consente di promuovere produzioni agricole utili non solo all’alimentazione umana ma anche alle
attività artigianali e proto industriali. Comincia ad affermarsi questa nuova agricoltura che poi
comincerà a diffondersi anche in altre aree dell’Europa: questo nuova agricoltura è caratterizzata
da una maggiore produttività (volumi di prodotti per ettaro superiori) e da un più forte legame tra
agricoltura e mercato che supera quell’autoproduzione per l’autoconsumo; questo tipo di
organizzazione agricola e queste disponibilità di conoscenze agronomiche nuove consentono di
promuovere produzioni agricole utili anche non solo all’alimentazione umana ma anche alle
attività artigianali e proto-industriali (la lana, il lino, i coloranti). Inoltre, questo nuovo tipo di
agricoltura consente un incremento di redditi ai contadini che sono diventati non meri contadini
ma sono diventati agricoltori e imprenditori agricoli: il fatto che questi contadini/agricoltori più
moderni percepiscano e producano, concede loro un maggior potere di acquisto che si può
esercitare anche sul mercato urbano delle manifatture; quindi maggior benessere tra i
contadini/agricoltori può significare anche un incremento della domanda di beni non primari (non
agricoli) e, di conseguenza, uno sviluppo economico dei settori artigianali e industriali.
Attenzione: rimane ancora predominante la forma tradizionale di organizzazione socio economica,
la cosiddetta “vita materiale”; questo tipo di organizzazione socio economica l’abbiamo già
conosciuto ma lo ripercorriamo con ulteriori chiarimenti. Per lo più, quello che abbiamo detto non
avviene nella maggior parte dell’Europa dove permane, invece, un ruolo scarso del mercato e della
produzione per la vendita, dove prevalgono i legami solidaristici, le servitù collettive stile open
fields, le attitudine autarchiche ad autoprodurre per auto consumare; è un contesto tecnologico e
agronomico più arretrato e i contadini mirano essenzialmente a produrre volumi costanti di
derrate che l’esperienza secolare ha dimostrato essere necessari per sopravvivere come individui e
come famiglia. Questo, in concreto, si traduce in coltivazioni promiscue, non specializzate di molte
specie complementari con i vincoli dettati dal clima e dal terreno; tutto ciò va nel senso
dell’autoconsumo domestico: ciò che viene prodotto tendenzialmente viene usato per l’auto
consumo domestico e per mettere da parte le sementi per seminare l’anno dopo. Si cerca di
evitare il più possibile il mercato: i contadini sono maldestri ad usare la moneta, è a disagio sul
mercato con i furbetti cittadini; solo le scorte eccedenti l’autoconsumo vengono portate sul
mercato o, prima di andare sul mercato, le eccedenze possono essere donate o prestate in natura
ai vicini o parenti per cui il mercato è l’ultima istanza a cui ci si rivolge quando si è auto consumato,
donato e prestato. Al mercato si va per ottenere moneta che è una riserva di valore e che serve
per pagare certe tasse e certi oneri; al mercato si va anche per comprare beni e servizi che non
sono auto producibili come il sale: tutto ciò che si può produrre da soli si cerca di produrli da soli.
Questo schema viene appunto definito “vita materiale” che è la forma di organizzazione socio-
economica prevalente ancora per lungo tempo nell’Europa tardo medievale e dell’età moderna. Se
c’è un deficit nelle scorte famigliari, a volte, interviene il solidarismo locale e tradizionale e solo
come estrema ratio (ultima spiaggia) si interviene nel mercato: sappiamo che quando i contadini
della vita materiale sono costretti ad andare sul mercato, quello è il momento per loro meno
favorevole perché vuol dire che in quel momento la scarsità è notevole e la domanda sul mercato
è più elevata del solito per cui l’incontro/scontro tra domanda ed offerta fa alzare i prezzi. Questo
insieme di relazioni economiche sociali e culturali è definito “vita materiale”: il circuito della vita
materiale ha un raggio limitato, questa gente si sposta per pochi chilometri intorno alla propria
comunità rurale che auto consuma 9/10 del prodotto e solo il residuo va sul mercato. Un’ultima
osservazione a questo proposito circa le dimensioni della proprietà: gli aristocratici, in questo

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contesto, tendono a mantenere grandi proprietà limitando la suddivisione dell’eredità tra i
membri delle loro famiglie; invece, tra i ceti medio bassi, spesso, soprattutto nelle fasi in cui la
popolazione aumenta, c’è una tendenza a frazionare ulteriormente la già piccola proprietà e gli
appezzamenti medi e piccoli vengono suddivisi per eredità e questa tendenza si accentua con
l’incremento demografico. Questa situazione favorisce l’impoverimento contadino e favorisce una
nuova figura, ovvero, quella del bracciante: il bracciante non ha nessuna proprietà tranne le
proprie braccia che offre per i lavori agricoli. (sono dei salariati poveri).
Abbiamo quindi visto il mondo rurale dominante in cui, in alcuni casi, emergono condizioni
innovative di modernizzazione parziale (nuova agricoltura) e abbiamo visto poi la vita materiale e
più tradizionale. Sappiamo che le società preindustriali sono rurali ma non esclusivamente perché
anche le città sono importanti: oggi, invece, la popolazione mondiale è un po’ più urbana che
rurale. Nelle società di cui stiamo parlando prevale nettamente il mondo rurale ma il mondo
urbano è molto importante sul piano economico, politico e anche scientifico: parliamo di città
come “metropoli e pulviscolo dei centri minori”; in quelle società avere 100 mila abitanti significa
essere una metropoli e questo perché le società di quel tipo non potevano permettersi di sottrarre
troppa popolazione al lavoro agricolo mentre oggi abbiamo delle megalopoli come Tokio che
raggiungono e superano decine milioni di abitanti. Nell’Europa di fine quattro e inizio cinquecento
le città sono distribuite in modo molto ineguale: ci sono delle regioni più urbanizzate come il sud
Inghilterra, Italia centrale e settentrionale, i Paesi Bassi, parti della Svizzera, la Padania. Dove più
facilmente si sviluppano le città? Non c’è una regola fissa ma i fiumi possono essere importanti per
favorire l’aggregazione di popolazione perché i fiumi servono per due cose: i trasporti e l’acqua
come fonte energetica per aumentare i mulini, i quali non servono solo per macinare il grano ma
servono anche nell’attività industriale artigianale come per alimentare le macchine tessili o per
sminuzzare minerali; anche le città sul mare o sui fiumi facilmente navigabili sono, spesso, le più
importanti come le Repubbliche Marinare Italiane, Amsterdam, Anversa e ci sono poi anche porti
fluviali molto importanti come Londra. Altre città si collocano su grandi catene montuose, ai piedi
delle quali si sviluppano città importanti perché su queste città convergono dei sistemi
intraregionali di strade, di fiumi, di canali e una città di questo tipo è Milano. Nella vita urbana di
antico regime preindustriale, ci sono tre caratteristiche che devono essere tenute presenti:
l’importanza della dimensione che non è paragonabile alle città di oggi ma è comunque rilevante
perché la popolazione urbana non produce da sé le proprie derrate per cui è richiesto,
strutturalmente, un sistema di approvvigionamento e di distribuzione che spesso è alimentato
dallo scambio monetario. Il secondo aspetto è la densità: l’interazione di un gran numero di
persone e la loro convivenza civile richiede un’organizzazione della giustizia. Il terzo aspetto è
l’eterogeneità del quadro urbano sul piano sociale, culturale ed economico: ci sono diversi gruppi
socio-economici che percepiscono e creano diversi redditi tra cui c’è la rendita fondiaria ed edilizia
dell’aristocrazia, c’è la rendita finanziaria sempre di una parte dell’aristocrazia, del patriziato e
della borghesia che dispone la moneta, ci sono i profitti dei mercanti e degli artigiani, dei
professionisti, dei notai, degli avvocati e ci sono i salari dei dipendenti che possono essere misti (in
natura) regolati da disposizioni pubbliche e da consuetudini antiche; c’è anche una servitù che non
è solo dei ricchissimi e potentissimi ma a volte è anche una servitù del ceto medio a cui viene
fornito vitto e alloggio. La città, quindi, è l’epicentro della divisione del lavoro, della circolazione
monetaria e degli scambi: le città sono i perni dell’economia di scambio, dell’economia di mercato
mentre le campagne sono il regno della vita materiale. Ci sono due tipi di mercato urbano: il
mercato pubblico e privato. Il mercato pubblico è quello sul quale avviene la compravendita per lo
più dei beni di prima necessità (alimentari): qui la compravendita è regolamentata dalle
magistrature municipali (dalla pubblica autorità) che mira a proteggere il consumatore dei beni di
prima necessità; il principio di fondo è evitare eventuali insoddisfazioni legate all’inadeguata
fornitura alimentare che può provocare un elemento di turbativa dell’ordine costituito. La

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pubblica autorità indica, quindi, il luogo, il calendario e gli orari in cui bisogna vendere in
trasparenza e in sicurezza determinati prodotti: vengono indicati anche i requisiti igienico sanitari,
pesi e misure; c’è poi il problema del giusto prezzo: i prezzi vengono periodicamente indicati e
pubblicati con i calmieri. In questo contesto sono importanti le aziende municipali specializzate in
determinati casi di emergenza come, ad esempio, la scarsità alimentare: cercano di mettere da
parte delle scorte pubbliche di alimenti fondamentali da poter usare nel momento della carestia.
Un luogo importante che può essere un mercato più grande sono le fiere che non sono quotidiane
ma sono occasioni di scambio ancora più solenni che hanno un bacino di provenienza di coloro che
vi accedono più ampi: oltre ai mercanti della città sede di fiera e del circondario, ne arrivano anche
da più distante; per attirare i mercanti esteri le autorità spendevano dazi e gabelle sulle merci
importate e, talvolta, per invogliarli a raggiungere luoghi lontani, ad essi si offrivano incentivi e
premi. Spesso queste fiere si organizzano in circuiti fieristici con scadenze e località prefissate che
vengono garantite dalle autorità pubbliche di una certa regione come le fiere della Champagne.
Per quanto riguarda il mercato privato, invece, soprattutto nel 400, nelle maggiori città cominciano
a sorgere delle botteghe di sola vendita di piccoli dettagliati, ovvero, botteghe simili ai negozi che
vediamo noi oggi. Queste botteghe sono sparse nei quartieri, vi si attua una contrattazione privata
e i prezzi nascono dal confronto antagonistico tra il venditori e l’acquirente senza un intervento né
della pubblica autorità municipale o statale né della corporazione di arti e mestieri (come nelle
botteghe artigiane); qui circola la moneta più velocemente e qui è maggiore la domanda di
bottegai di prodotti agricoli e manufatti domestici per poterli vendere e quindi i contadini delle
aree circostanti sono stimolati dalle richieste di questi negozianti. La graduale diffusione di queste
relazione ha avuto delle conseguenze: la moneta si muove entro circuiti di crescente ampiezza e la
sua velocità di circolazione cresce e la coltivazione di alcune specie e la produzione di manufatti
domestici che trovavano più facile sbocco presso i bottegai abituarono i contadini a prendere
domestichezza con gli scambi.
Concludiamo la parte sull’età preindustriale a partire dalla crescita della popolazione e di come
questo si sia intrecciato con l’individualismo agrario: circa dalla metà del 400 (un secolo dopo la
peste nera), in Europa, si manifesta, con differenze da area ad area, una crescita demografica
generalizzata che, in alcune regioni, si sarebbe poi arrestata a partire dal 600; non ci stupisce il
fatto che il grosso di questa crescita demografica sia rurale perché la maggior parte della
popolazione europea preindustriale risiedeva in campagna. Ci sono una serie di motivi che
spiegano e consentono questo fenomeno: dopo la tragica ma anche utile messe di uomini e donne
causate dalle peste, il riequilibrio tra esseri umani e risorse, diminuendo la manodopera e le
necessità alimentari, consente nel 400 di concentrare le coltivazioni e l’attività agricola nelle aree
più fertili, spesse quelle più vicino alle città: ciò consente, a parità di altre condizioni, una maggior
produttività. Un migliore rapporto tra risorse disponibili (terra sovrabbondante) e popolazione
(pochi contadini) consente un incremento dello standard di vita: la popolazione meglio nutrita si
sposa prima, si sposa più frequentemente perchè intravede concretamente possibilità e
prospettive maggiori e procrea di più per cui queste condizioni migliori consentono anche una
parziale diminuzione della mortalità infantile; tutto ciò è possibile perché stanno meglio le
puerpere (donna che ha partorito da poco, che può allattare e nutrire i figli) e le nutrici per chi
affidava i figli alle balie (diminuisce la mortalità infantile dipendente, in buona misura, dal
benessere delle madri). L’aumento della popolazione e una crescita proporzionale dei consumi
innesca una tensione tra domanda ed offerta di derrate alimentari e questo, in un sistema non
particolarmente produttivo con un’agricoltura ancora piuttosto tradizionale, crea tensioni
sull’offerta: di conseguenza, tra gli effetti economici, abbiamo che i prezzi tenderanno a salire; per
diversi decenni nel corso del 500, infatti, alcuni studiosi dell’epoca tra cui Bodin parlano di
“rivoluzione dei prezzi”. Quali sono i motivi che spiegano un incremento significativo dei prezzi?
Alcuni studiosi hanno puntato il dito su un’interpretazione collegata alla teoria quantitativa della

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moneta: in poche parole, arrivano in Europa grandi quantitativi di metalli preziosi (oro e argento)
dalle Americhe e tutto questo, sulla base dell’idea che il livello generale dei prezzi sia influenzato
dalla quantità di moneta circolante e dalla velocità di circolazione, contribuisce a premere sui
prezzi e a farli crescere. Questo ha avuto un ruolo secondo alcuni studiosi ma bisogna comunque
sottolineare il fatto caratterizzato dalla pressione demografica ed economica che proviene da una
crescente domanda e la non facile risposta dell’offerta: è una fase in cui crescono i prezzi non di
tutti i prodotti nello stesso modo, non in tutte le aree ugualmente perché non è una legge
matematica ma è un fenomeno da tenere conto. Questa situazione nelle campagne e intorno alla
città stimola un incremento di certe coltivazioni, specialmente quelle destinate ad essere portate
sul mercato: tutto ciò significa, almeno per una parte delle popolazione, una maggior capacità di
risparmio e di consumo e rappresenta lo stimolo alla produzione di manufatti e di servizi; inoltre,
la crescita demografica, legata ad un certo miglioramento generalizzato delle condizioni di vita, di
per sé comporta un incremento della domanda di edifici, case, chiese e l’indotto dell’edilizia:
allora, insieme con il tessile, il settore edile era spesso il più importante. Sappiamo anche, sempre
tra demografia ed economia, che le campagne non forniscono solo derrate alimentari e materie
prime ma forniscono anche, sul fronte demografico, esseri umani: famiglie e individui si inurbano
(abbandonano aree rurali) e vanno in città sperando in un miglioramento della loro condizione
economica; questo è molto importante per mantenere la demografia cittadina “in bolla” perché le
città erano delle tombe poiché la mortalità era più alta rispetto alle aree rurali per cui per
mantenere la popolazione urbana era necessario che ci fossero migrazioni interni dalle aree rurali
alle aree cittadine. Naturalmente, la crescita demografica ed economica è diversificata e non è
uguale in tutta Europa: nel 500 la maggiore crescita demografica si registra in Scandinavia, in
Russia, nelle Isole Britanniche, nei Paesi bassi (Olanda e Belgio) e questo comporta, entro certi
limiti, anche alcuni mutamenti nelle gerarchie demografiche. Il 600 è un secolo diverso: si parla
della crisi del 600 ma usare questa espressione in termini generici e generali è del tutto fuorviante
perché, prima di tutto, le condizioni sfavorevoli sono diversificate da zona a zona e poi nel 600
diminuisce la posizione relativa di alcuni paesi ma esplode quella di altri. Lo storico non applica dei
modelli generici e forzati ma deve vedere qui ed ora per cui il 600, in realtà, è tutt’altro che un
secolo di tracollo totale perché abbiamo una crescita demografica generale più blanda con alcune
situazioni drammatiche: per esempio, una zona d’Europa che vede un tracollo demografico ed
economico è quella tedesca perché la Germania, per alcuni decenni, è devastata dalle guerre e
dalle sue conseguenze, in particolare, dalla Guerra dei trent’anni per cui ci sono alcune regioni che
vengono desertificate dai conflitti; mentre l’area tedesca, l’Italia, la Spagna hanno i loro problemi,
ci sono, però, i Paesi Bassi e le isole britanniche che invece vedono crescere la popolazione.
Tornando, più in generale, alla crescita cinquecentesca e seicentesca della popolazione, la risposta
alla crescita degli essere umani che vanno nutriti è la seguente (la risposta alla sfida della
conservazione dell’equilibrio tra risorse naturali e uomini): rimettersi a coltivare delle terre che
negli anni erano state abbandonate perché la pressione demografica era stata inferiore; nel 500
quei contadini pionieri, che sono tra i protagonisti dell’incipiente individualismo agrario, si
trovano, con ripristini e disboscamenti, al centro di alcuni sviluppi positivi che, naturalmente, non
sono ovunque e non si verificano sempre allo stesso modo. Per quanto riguarda le condizioni
climatiche, contribuiscono, pur senza essere deterministicamente l’unica causa, alla
diversificazione europea e l’agricoltura dell’Europa nordoccidentale è favorita da incrementi della
produzione di cereali quasi doppi e, dall’altro aspetto, i rendimenti non solo crescono ma sono più
costanti nel tempo; quindi, senza voler generalizzare, a parità di superficie coltivata, significa che
spesso i contadini dell’Europa nordoccidentale ottengono una maggior quantità di cerali e la
ottengono con maggiore regolarità. Nelle area mediterranee, le scorte sono inferiori, più sovente
si hanno crisi di sottoproduzione fino ad arrivare a delle carestie, la produttività è spesso inferiore
per cui tutto ciò contribuisce a economie famigliari/domestiche più fragili; nelle aree mediterranee

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(nell’Europa mediterranea) per alimentare la popolazione urbana, si sviluppano delle regioni
granaio come la Sicilia, la Puglia e una parte del nord Africa. La maggiore capacità produttiva in
agricoltura dell’Europa nordoccidentale si manifesta indirettamente anche in un più significativo
incremento della popolazione urbana mentre, nel corso del 600, le città del bacino del
mediterraneo tendono a ristagnare e a decrescere dal punto di vista demografico. Un paese in cui
la popolazione urbana cresce notevolmente è l’Olanda: qui la popolazione urbana raggiunge una
percentuale all’epoca elevatissima, ovvero, il 40%; questo è un paese in cui, ad esempio, si
sviluppa un’economia integrata tra agricoltura, commercio, trasporti, produzione manifatturiera e
dove le tecniche ingegneristiche consentono di sottrarre ettari ed ettari di terreno al mare.
Brevemente, parliamo della “trappola maltusiana”: il termine deriva dall’economista inglese di fine
700 e inizio 800 Thomas Robert Malthus la cui tesi è stata approfondita e utilizzata da alcuni
storici. È molto importante la collocazione cronologica: egli vive tra fine 700 e inizio 800 e questo
periodo è importante perché in Gran Bretagna si sta verificando la rivoluzione industriale; egli
descrive, in prospettiva storica, i meccanismi del rapporto tra popolazione e risorse come si erano
sviluppati e manifestati nelle isole britanniche nei secoli precedenti proprio nel momento in cui, di
fatto, questi vincoli tra popolazione e risorse sono in corso di superamento grazie alla rivoluzione
industriale (per certi versi è un paradosso). In una sua opera molto importante, il “Saggio sul
principio di popolazione”, pubblicata nel 98, Malthus parte dalla constatazione storica
dell’aumento demografico britannico in corso in quegli anni e prevede che, sulla base
dell’esperienza dei secoli precedenti, se lasciata a se stessa, questa crescita demografica avrebbe
condotto il paese inglese alla catastrofe; questo perché Malthus legge la realtà dei secoli
precedenti e ritiene che quella sarà ancora la realtà da affrontare nei decenni successivi come se
“la crescita della popolazione e dei mezzi di sussistenza seguono, di fatto, due leggi e due ritmi
diversi: la popolazione cresce secondo una progressione geometrica mentre le risorse economiche
nelle società preindustriali crescono secondo una progressione aritmetica”. Questo significa che,
all’inizio, i due ritmi di crescita sono simili e sostenibili ma progressivamente la popolazione tende
a crescere più rapidamente e intensamente delle risorse economiche per cui prima o poi la
popolazione arriverà a toccare il “tetto delle risorse”. Quando la situazione è ancora favorevole e
sostenibile, l’aumento dei redditi dei ceti inferiori medio bassi li induce ad anticipare le nozze: l’età
al matrimonio delle donne è una chiave di controllo demografico importante in quelle società
perché, dato che la maggior parte della natalità avveniva all’interno del matrimonio, sposarsi
qualche anno prima o dopo significava che le donne avevano a disposizione più o meno anni del
loro periodo fertile per cui sposarsi prima significava portare all’interno del matrimonio anni più
fertili di quelli successivi; ci si sposa prima, ci si sposa di più e si fanno più figli. Sul medio periodo,
però, questa situazione significa che il rapporto maltusiano tra derrate disponibili ed esseri umani
da alimentare peggiora e questo innesca il processo opposto dell’immiserimento; secondo
Malthus, se lasciata se stessa, questa dinamica tipicamente ti stampo preindustriale avrebbe
portato ad una catastrofe perché molti si sarebbero impoveriti, ci sarebbero state guerre e
carestie con malattie. Questi, nel linguaggio maltusiano, sono i cosiddetti “freni positivi”, ovvero,
freni che si realizzano nella realtà se non si fa nulla: se vogliamo evitare che agiscano questi freni
positivi (cioè che aumenti la mortalità e il rapporto uomini e risorse si riporti in equilibrio
tragicamente) dobbiamo mettere in atto i freni preventivi come la castità prematrimoniale, il
ritardo dell’età al matrimonio e il celibato diffuso. I freni preventivi consentono di diminuire il
tasso di natalità e consentono alla società di non creare quella pressione maltusiana che avrebbe
innescano i freni positivi: la conclusione è che, toccato un certo livello, l’aumento demografico
nelle società preindustriali sarebbe stato frenato dall’aumento della mortalità conseguente alla
caduta del reddito pro-capite e che, a causa dell’incremento demografico, le fasi di crescita
economica sarebbero seguite da recessioni con contrazione dei redditi personali. Su questa base,
alcuni storici hanno utilizzato una cassetta degli attrezzi (un armamentario interpretativo) di

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stampo maltusiano per spiegare il rallentamento della crescita economica e demografica in Europa
tra fine 500 e inizio 600 e tra il 1620 e 1720 in cui ci sono pestilenze, guerre e carestie: muoiono
milioni di militari e di civili per la guerra, le spese belliche crescono, la spesa pubblica va fuori
controllo (ciò significa incremento di prestiti pubblici che sottraggono risorse che avrebbero
potuto essere investite in attività produttive e commerciali) e aumenta la pressione fiscale
impoverendo ampie fasce della popolazione. Inoltre, la guerra intralcia il commercio, distrugge
infrastrutture e la guerra preindustriale è più invasiva ma meno distruttiva perché non c’erano le
armi così devastanti tipiche del 900; le truppe sono anche spesso vettore di peste e di malattie
infettive perché si spostano da una parte all’altra dell’Europa. È un “secolo di ferro” che sarebbe
stato preparato tra fine 500, inizio 600 e tutto il 600 da un’asperrima tensione tra uomini e risorse:
questa viene appunto detta “trappola maltusiana”. In questa visione è interessante vedere come
reagisce il mondo rurale perché l’agricoltura sarebbe, infatti, l’epicentro del rovesciamento della
dinamica economica e demografica europea con una serie di processi involutivi: accade che, nel
corso del 500, l’aumento della popolazione porta ad un frazionamento dei poderi agricoli perché
aumentano gli eredi nelle famiglie del ceto medio basso e questo rende più difficile per ogni
singola famiglia avere di che sfamarsi a sufficienza; aziende agricole di dimensioni inferiori rispetto
alle dimensioni ottimali subiscono più frequentemente crisi di sottoproduzione. Ciò significa che
spesso questi contadini si trovano ad indebitarsi per integrare le scorte che non sono più sufficienti
e a volte devono, per far fronte ai debiti, cedere le loro particelle di terra per cui questo aumenta
vulnerabilità economica: alcuni diventano braccianti. Una quota crescente di popolazione
impoverita e senza terra che supera la domanda di manodopera significa, in termini di costo del
lavoro, che i salari diminuiscono perché c’è una sovrabbondanza di offerta di manodopera rispetto
alla domanda; insieme a questi fenomeni, un altro fenomeno da sottolineare come effetto di un
peggioramento diffuso è che la dieta alimentare di molti poveri peggiora e, in questo contesto, le
condizioni di difficoltà possono portare a mutamenti e cominciano a diffondersi due colture che
diventeranno importanti: le patate e il mais.
Abbiamo già parlato dell’individualismo agrario e sappiamo che c’è, soprattutto nei Paesi Bassi e in
Inghilterra, una precoce diffusione di questa situazione; per quanto riguarda gli aspetti tecnico-
organizzativi, abbiamo parlato della rotazione continua per cui si sostituisce al maggese tutta una
serie di piante foraggere e di legumi e ciò consente di accrescere la produzione di
quell’appezzamento (crescita quantitativa del prodotto) ma c’è anche la possibilità, con le piante
foraggere, di alimentare un circolo virtuoso tra agricoltura e allevamento. Inoltre, l’adozione della
rotazione continua delle colture accresceva la fertilità grazie all’azoto fissato nel suolo dalle radici
delle erbe e dei legumi e all’accresciuta massa di letame per concimare. Sottolineiamo
l’importanza dell’allevamento ovino, bovino ed equino: gli animali possono servire per diverse
finalità all’uomo perché possono servire per la guerra, per il lavoro nei campi, per i trasporti,
possono essere macellati, possono fornire pellame, il latte. In alcuni paesi, l’integrazione tra
mercato, agricoltura e attività non agricola è maggiore come in Olanda: qui la capacità di sottrare
al mare dei terreni non significa solo incremento della cerealicoltura perché l’Olanda dispone di
una flotta mercantile tale per cui essa ha la capacità di disporre di una percentuale più elevata
degli altri paesi di cereali dall’estero e libera terreno agricolo nazionale per colture di tipo
industriale che avrebbero fornito materie prime all’apparato artigianale e industriale del paese.
Per la prima volta, in Olanda, “l’agricoltura diventa un’attività economica volta sistematicamente
alla produzione per la vendita, esercitata da agricoltori che combinavano al meglio i fattori di
produzione”: non sono i primi e non sono gli unici però questo fenomeno assume per la prima
volta in Olanda un significato maggiore.
Prima di passare all’industria prima dell’industrializzazione e di concludere questa parte
preindustriale, abbiamo visto che, dall’inizio del 600, la maggior parte delle campagne europee
prosegue nella sua agricoltura tradizionale con la policoltura di sussistenza (la vita materiale):

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produrre quanto più possibile da se per evitare il mercato; tuttavia, in alcune aree (Olanda)
vediamo, invece, che un approccio differente si sta affermando e sta cambiando in parte
l’agricoltura. Abbiamo detto che il mondo rurale fosse la base/piedistallo su cui poggiavano le
società preindustriali però abbiamo anche detto che ci sono importanti realtà urbane e realtà non
agricole: si parla di “industria prima dell’industrializzazione” perché bisogna vedere come le
attività artigianali e industriali venissero svolte nel mondo precedente alla rivoluzione industriale.
È ovvio che quello che vedremo ora non è l’universo mondo in tutti i dettagli ma è una
semplificazione ragionevole fondata su studi storici di alcune delle principali forme di
organizzazione delle attività non primarie (non agricole); è evidente che ci sono forme contigue
una all’altra, che ciascuna forma si manifesta diversamente in diverse realtà: cerchiamo di
sintetizzare in modo induttivo partendo da una vasta gamma di studi sapendo che questi modelli
non esauriscono comunque la realtà ma ci aiutano a comprenderla meglio. Un primo termine: la
fabbrica otto/novecentesca tipica della rivoluzione industriale è un luogo dove si concentra
manodopera di operai e di dirigenti con l’ausilio di macchine e di tecnologie avanzate per
trasformare delle materie prime e dei prodotti semilavorati in merci per il consumo o in beni
capitali che vengono ripetutamente utilizzati; in realtà, il termine fabbrica ha un origine
cinque/seicentesca anche se poi non è la fabbrica che intendiamo noi perché è la bottega del
fabbro. Vedremo ora cinque forme prevalenti organizzative del lavoro non agricolo che sono
variamente compresenti in Europa, partendo dalla più semplice verso la più complessa/moderna:
la prima è una sorte di variante artigianale e industriale dell’autarchia agricola, ovvero, è
l’industria domestica rurale; è la forma primigenia più diffusa che si sviluppa all’interno del sistema
definito “vita materiale” per cui è simile all’autoproduzione per l’autoconsumo agricolo: i membri
della famiglia, nella loro casa rurale, trasformavano le materie prime tratte dalla coltivazione e
dall’allevamento con attrezzature molto elementari nei tempi morti del lavoro agricolo. Cosa si
produce? Non si producono tessuti pregiati ma tessuti di lana molto semplici, di lini, di canapa,
attrezzi e arredi di legno di bassa qualità, filamenti di cuoio, il pane, del formaggio, la carne salata
insaccata, l’alcool. Questo tipo di produzione può implicare qualche legame con il mercato ma si
tratta di legami residuali: la vendita di eccedenza è volta ad ottenere della moneta da trattenere
come una riserva di valore per i periodi di crisi o per pagare le tasse. L’impoverimento di molti
piccoli contadini senza terra o quasi che, però, hanno sviluppato una qualche competenza
artigianale diventa il prerequisito per lo sviluppo della proto industria rurale: un’attività in cui
alcuni mercanti-imprenditori urbani (persone che non limitano a svolgere un’attività mercantile
ma organizzano anche la produzione altrui) hanno l’idea di cosa può servire sul mercato e cercano
di far lavorare alcuni di questi contadini impoveriti che hanno un minimo know-how artigianale
per produrre dei beni che non sono prodotti di altissimo livello ma sono vendibili su un mercato di
medio livello; questi mercanti-imprenditori offrono a quelle famiglie impoverite, che sanno
lavorare i tessili, dei salari integrativi rispetto ai proventi delle attività agricole, ammesso che
ancora ne abbiano. Quindi, ci sono famiglie di contadini impoveriti che sanno svolgere del lavoro
artigianale e che hanno interesse ad ottenere questi salari integrativi; d’altra parte, ci sono i
mercanti imprenditori che hanno interesse a far produrre dei prodotti di qualità medio basso che
trovano mercato. Questa situazione di proto industria ci porta a sconfinare verso una secondo tipo
di organizzazione delle attività artigianale e industriali nel mondo preindustriale ed è la cosiddetta
industria a domicilio: una sorta di lavoro part time soprattutto di famiglie rurali su commessa da
parte del mercante-imprenditore. Questo sistema dell’industria a domicilio è un sistema integrato
tra città e campagna perché, da un lato, c’è il mercante-imprenditore che organizza e coordina la
complessa filiera produttiva di questo sistema nella sua bottega cittadina dove tiene il materiale
tessile greggio e semilavorato e il prodotto finito; a domicilio, nelle famiglie rurali, viene portato la
materia prima o semilavorata per essere filata e tessuta dalle famiglie contadine. Le fasi di
preparazione e di finitura dei tessuti, che in genere richiedono una competenza maggiore, spesso

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vengono svolte da membri di corporazioni urbane cioè da artigiani specializzati che lavorano in
città. È un sistema flessibile che, a seconda delle esigenze del mercato e a seconda della domanda,
si può espandere o limitare perché esso è basato molto più sul capitale circolante (scorte di
materie prime, semilavorati, prodotti finiti e salari) che non sul capitale fisso (tecnologia,
macchinari) come invece è tipico della fabbrica in cui l’investimento in capitale fisso è molto
maggiore. Un terzo tipo di organizzazione è quello della manifattura domestica: una piccola
impresa rurale indipendente dal mercante-imprenditore; sono artigiani indipendenti esperti di
tutte le fasi di una certa lavorazione che solo marginalmente sono impegnati nell’agricoltura.
Questi artigiani rurali sono più artigiani che contadini: mentre nell’industria a domicilio, il
contadino è, in primo luogo, contadino e poi integra il lavoro artigiano-operaio, qui è l’opposto. In
una sorta di abitazione-laboratorio, ha un certo capitale tecnico per filare e per tessere e ha una
manodopera fatta di suoi famigliari, da qualche operaio salariato e da qualche garzone; il prodotto
è di livello medio basso ed è ceduto poi a dei grossisti incettatori o venduto direttamente da questi
produttori presso le fiere e mercati circostanti. Veniamo così alla realtà delle corporazioni cittadine
autoregolate: quando abbiamo detto che nel lavoro a domicilio alcune fase preparatorie e di
finitura venivano delegate a degli artigiani specializzati urbani, stavamo parlando proprio di
questo. Le corporazioni sono una delle espressioni più tipiche della società intrinsecamente
corporativa che caratterizza le società preindustriali: le attività artigianali, commerciali e terziarie
delle città preindustriali sono tipicamente organizzate in gruppi chiusi, regolati da statuti
particolari ai quali le autorità pubbliche riconoscono valore normativo (queste sono le corporazioni
di arti e mestieri). I maestri artigiani, che hanno un know-how superiore a quello dei lavoratori
rurali, lavorano in botteghe in cui si produce su commissione, hanno con sé degli apprendisti e dei
garzoni e questi maestri artigiani sono iscritti ad una matricola chiusa, tenuta sotto controllo dalle
autorità cittadine e corporative: essi sottostanno a regole giurate che prevedono, per esempio,
tempi e modi delle lavorazioni, la trasmissione dei segreti dell’arte ai giovani apprendisti, bisogna
rispettare standard qualitativi, si stabiliscono livelli di guadagno. Le corporazioni sono ben più che
semplicemente delle organizzazioni lavorativi e organizzazioni della produzione: le corporazioni
sono entità assistenziali poiché se un maestro muore o si ammala e non può esercitare il suo
lavoro, la sua famiglia viene assistita dalla corporazione; sono realtà e identità religiose
importantissime e, a volte, sono state anche delle realtà politiche. La corporazione garantisce agli
artigiani matricolati il monopolio della produzione di quel prodotto e all’esercizio di quella
professione in quella città: impedisce la concorrenza non solo a chi non è iscritto ma anche tra i
membri. La corporazione, però, non è una realtà che si sposa con il dinamismo della società
industriale. Il quindi tipo è la manifattura accentrata: queste sono le meno diverse rispetto alle
fabbriche di cui noi parliamo. Sono delle organizzazioni, luoghi in cui la manodopera viene
accentrata: non si lavora più in botteghe con poche persone ma si accentra la manodopera. Le
manifatture possono essere private o promosse direttamente da un’autorità pubblica; spesso si
tratta di concentrazioni di manodopera che lavora come se fosse in bottega, ovvero, non
utilizzando gran che di capitale fisso, il quale però in alcuni casi è importante. Si trattava quindi di
casi relativamente rari di concentrazioni in un luogo di tutte le macchine e delle competenze
necessarie per la fabbricazione di un certo prodotto.
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (1720-1870)
Cominciamo a parlare delle prima rivoluzione industriale e partiamo dalla Gran Bretagna, in
particolare, dall’Inghilterra e, ancora più particolare, dal Lancashire che è contea di Manchester e
Liverpool. Una breve premessa: cosa intendiamo per rivoluzione? E’ un termine di origine
scientifica che deriva dall’astronomia e una rivoluzione può essere un fenomeno molto variegato:
la Rivoluzione francese, per esempio, è un fenomeno molto complesso che dura alcuni anni.
Quando parliamo di rivoluzioni nel senso di grandi trasformazioni dell’umanità, sul piano socio

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economico, delle risorse e dell’ambiente non parliamo di avvenimenti politici che si misurano in
giorni o settimane o anni ma parliamo di altre realtà; se dovessimo pensare che la rivoluzione
industriale sia un fenomeno che, in pochi giorni o pochi anni, cambia la realtà, questa non è la
rivoluzione industriale: se dovessimo pensare che in pochi giorni l’Inghilterra da un paese ancora
prevalentemente rurale sia diventato un paese prevalentemente industriale, non è questa la
rivoluzione industriale. La rivoluzione industriale o, millenni prima, la rivoluzione agricola neolitica,
non sono fenomeni che cambiano rapidamente una società ma richiedono anni, decenni e
addirittura secoli o millenni per cui è una rivoluzione in un altr’accezione perché, da un lato,
cambiano profondamente e in modo definitivo la storia dell’umanità e la storia del pianeta e,
dall’altro lato, la portata del mutamento (la sua profondità) è tale da cambiare molte situazioni in
modo tendenzialmente radicale. La rivoluzione industriale è un fenomeno, se guardiamo ai tempi,
di evoluzione più che di rivoluzione in senso stretto perchè viene preparata nei secoli precedenti,
ci impiega a manifestarsi e ad affermarsi decenni e secoli (non è una rivoluzione come la
Rivoluzione francese) ma ha delle conseguenze enormi ed è proprio in questo senso che possiamo
parlare di rivoluzione. L’altro aspetto da considerare è relativo al fatto perché la Gran Bretagna?
Perché la rivoluzione industriale è un fenomeno cominciato, nella sua forma più significativa,
inizialmente in Inghilterra e poi altri paesi prima in Europa e poi fuori dall’Europa hanno iniziato ad
emulare (seguire) il caso inglese; per cui cominciamo dall’Inghilterra perché la rivoluzione
industriale inglese è incominciata in Inghilterra e, in particolare, in alcune sue contee.
Abbiamo menzionato la rivoluzione agricola neolitica, la quale è, prima della rivoluzione
industriale, l’altra fase storica in cui l’umanità cambia in profondità: la rivoluzione agricola
neolitica è quella trasformazione ancora più lenta e graduale (qui parliamo di millenni) che ha
portato all’invenzione dell’agricoltura e dell’addomesticazione degli animali; prima non si
produceva volutamente ciò che si mangiava ma si viveva cacciando e/o raccogliendo i frutti
spontanei della terra: ad un certo punto alcuni gruppi umani cercano di produrre volontariamente
quei frutti spontanei e di addomesticare e allevare gli animali invece di cacciarli ed ucciderli. Tutto
questo ha cambiato in modo “sconvolgente” la vita umana nel senso che è cambiato il rapporto
tra gli uomini e la natura in tempi molto lunghi: è un processo che coinvolge varie aree del mondo,
a volte attraverso migrazioni e altre volte in modo autonomo (come nelle Americhe). Questa
trasformazione ha delle implicazioni che vanno ben oltre il modo di nutrirsi e di procacciarsi il cibo
perché essa ha implicazioni politiche, demografiche, culturali ed economiche; demografiche
perché una serie di società che sono in grado di procurarsi cibo in questo modo possono
moltiplicare il loro numero: in poche parole, ci si può riprodurre di più, si potevano mantenere più
persone, la società comincia a farsi più articolata, iniziano ad emergere gruppi sociali (leader
politici, intellettuali, sacerdoti) che svolgono funzioni di lavoro intellettuale (attività che non erano
di mero lavoro manuale e fisico) per cui comincia a stratificarsi la società e comincia a complicarsi
il quadro del potere e delle istituzioni umane. Paragonabile alla rivoluzione agricola neolitica per
importanza e vastità per l’impatto che ha avuto sulla storia dell’uomo e del pianeta c’è solo la
rivoluzione industriale che ha cambiato le società che sono state da essa interessata poiché queste
società da prevalentemente agricole diventano società dedite prevalentemente ad altre attività
legate al settore secondario e terziario; molti fattori concorrono a stimolare una rivoluzione
industriale e molte saranno le conseguenze: le implicazioni sono enormi sul piano culturale,
politico, intellettuale, economico, energetico, naturale e naturalistico: alcuni studiosi hanno
favorito l’affermazione del concetto di “antropocene”, ovvero, l’epoca geologica caratterizzata
dall’impatto dell’uomo sulla realtà del nostro pianeta.
Partiamo dalla realtà britannica in cui, a fine 700, la siderurgia britannica produce un prodotto pro-
capite che l’Europa avrebbe raggiungo solo attorno 1870 mentre il tessile britannico lavora una
quantità di cotone grezzo pro-capite che l’Europa avrebbe raggiunto solo attorno al 1885; la
popolazione agricola britannica a fine sette è pari solo al 53% contro una media europea di circa

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80%. Questi dati ci dimostrano come, a fine 700, la Gran Bretagna stesse diventando la prima
nazione industriale: questa è la prima volta che un paese diventa un paese industriale, ovvero, in
quel paese le attività industriali diventano il traino dell’economia e della società; ciò non vuol dire
che c’è solo l’industria ma vuol dire che, progressivamente, la maggior parte del PIL viene prodotto
nel settore secondario e nel terziario e la maggior parte della popolazione non è più dedita
all’agricoltura ma ad attività di questo genere. È un fenomeno che cambia la storia non solo
dell’Inghilterra ma la storia del mondo e del pianeta: siamo all’origine di quel mondo che oggi a noi
appare naturale ma che, in realtà, è il frutto della storia degli ultimi due secoli. Quale fu la genesi
di questo fenomeno britannico? È una complessa costruzione culturale, politica, sociale,
economica e tecnologica: la rivoluzione industriale sono i giacimenti di carbone, sono i giacimenti
di minerali ferrosi, le macchine a vapore, gli operai e gli imprenditori ma non sono solo queste
cose. Si può dire che questo fenomeno cominci, in modo più dinamico e significativo, attorno alla
metà del 700 anche se abbiamo premesse precedenti, è caratterizzato da trasformazioni graduali e
cumulative che cambiano gli assetti precedenti benché questi aspetti precedenti siano imbelli e
resistano; è un cambiamento globale e di civiltà ancora più radicalmente di quanto non lo fosse
stata la rivoluzione agricola neolitica. Mettiamo, allora, in collegamento questo discorso con quello
precedente: stiamo cercando di capire le origini, geograficamente e cronologicamente, ancorate e
delimitate delle società tecnologiche contrapposte alle società tradizionali; dopo aver capito cosa
si intende per rivoluzione e spiegato perché prima l’Inghilterra, cominciamo a vedere gli aspetti
salienti di questo fenomeno inglese, le precondizioni e qual è la varietà di fattori da tenere in
considerazione tra cui gli aspetti ambientali, infrastrutturali e istituzionali (questi sono dei fattori
che, insieme, spiegano perché l’Inghilterra per prima).
Cominciamo dagli aspetti ambientali e infrastrutturali (l’ambiente inglese e le infrastrutture di
collegamento): l’Inghilterra è un’isola per cui la Manica separa, difende e collega e il fatto che
l’Inghilterra non si potesse facilmente invadere ha avuto delle conseguenze sulle strutture militari
e istituzionali del paese; il mare quindi difende, separa ma può essere anche un collegamento con
le regioni continentali. Il mare è molto importante perché c’è una tradizione di pesca, una
tradizione di navigazione oceanica e marittima e di cabotaggio (navigare a vista sotto costa), c’è la
pirateria, la guerra di corsa, c’è il contrabbando e un’intensa attività di carattere mercantile.
L’ambiente, la natura e le risorse naturale non possono essere interpretate in senso
deterministico: l’ambiente conta ma non è l’unico elemento; ecco allora che la morfologia costiera
è importante: è importante avere molti fiumi facilmente percorribili e che abbiano una foce ad
estuario, per esempio, il Tamigi ha un percorso che rende possibile avere un grande porto a
Londra anche se quest’ultima non è una città marittima. In molti casi ci sono molteplici approdi
che stimolano i trasporti interregionali via mare che sono più a buon mercato e più sicuri: i
trasporti marittimi non sono solo quelli dall’Inghilterra alle colonie ma ci sono anche collegamenti
marittimi interregionali da un porto di una contea ad un’altra contea; in molte situazioni, in quelle
società, era possibile integrare trasporti via fiume o via canale o via navigazione di cabotaggio e
brevi trasporti terresti che erano i più costosi e insicuri: questo è un vantaggio non solo per il
commercio e i trasporti internazionali ma anche per quelli interni perché anche il mercato interno
è favorito dalla navigazione di cabotaggio. Inoltre, a differenza della Francia e dell’Italia, in
Inghilterra non ci sono grandi catene montuose ma troviamo un terreno pianeggiante o ondulato,
il quale favorisce i collegamenti stradali: tra il 1750 e il 1830 aumentano le strade; tuttavia, i
collegamenti stradali costano il doppio/triplo/quadruplo rispetto a quelli via acqua per cui per via
d’acqua, interna o marittima, viaggiano soprattutto le merci ingombranti o pesanti sui fiumi e
canali. Questa morfologia territoriale favorisce un’integrazione delle economie regionali in mercati
nazionali: verso metà 700, in Inghilterra, oltre ad un incipiente mercato nazionale dei cereali, si
cominciano a profilare mercati nazionali per alcune materie prime industriali, per alcuni generi di
importazione (legname, ferro, pece) e alcuni generi coloniali (cotone, te, cacao, caffè, zucchero);

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più lenta è, invece, l’affermazione di mercati nazionali per altri tipi di prodotti come quelli
deperibili, i quali venivano scambiati su scala regionale. Notevole è anche l’importanza del fatto
che le isole britanniche fossero ben posizionate rispetto ai Paesi Bassi e rispetto al nuovo mondo:
dagli 70 del 500 cominciano a svilupparsi delle colonie inglesi nel nord America tra cui, la prima, è
la Virginia e poi, all’inizio del 600, l’altro grande momento della colonizzazione è rappresentato dai
padri pellegrini, i quali lasciarono la madre patria per una causa religiosa (i padri pellegrini sono un
gruppo di privati cittadini inglesi di religione puritana ed è con loro che ha inizio il flusso
immigratorio che è poi proseguito nei secoli successivi, contribuendo ai primi sviluppi dei futuri
Stati Uniti d'America). Lo sviluppo del commercio transoceanico è importante nell’Inghilterra tardo
sei/settecentesca, il cosiddetto commercio triangolare, che ha alcune basi importanti: l’Inghilterra,
la Guinea (in Africa) e le Antille a cui si aggiungono le due colonie del sud New Orleans e del New
England. Cosa c’entrano in questo commercio triangolare l’Africa e le Antille? Che tipo di
commercio c’era? Si commerciavano gli schiavi africani e merci tipo canna da zucchero: questo
tipo di commercio, nel secondo 700, contribuisce alla crescita di alcune città marittime sulla costa
occidentale della Gran Bretagna mentre prima mancavano dei centri urbani di medie dimensioni.
Continuiamo nella descrizione e nell’analisi del quadro ambientale e del mondo rurale: ci sono
diverse aree rurali, ci sono terreni ondulati dove prevale l’allevamento e ci sono le terre
pianeggianti che sono più cerealicole. Qui ci sono esempi importanti di quello prima detto, ovvero,
del fatto che nell’Europa nordoccidentale ci sono terre più favorevoli e c’è un clima più favorevole
con rese più stabili e superiori; nella parte occidentale prevale l’allevamento, nelle terre ad est
abbiamo gli open fields mentre in quelle occidentali sono precoci le recinzioni (le enclosures). Le
recinzioni sono una tipica manifestazione di quella svolta verso l’individualismo agrario: sono un
fenomeno lungo e graduale che iniziano a fine 400 e all’inizio sono soprattutto volute non tanto
per aumentare la cerealicoltura ma per aumentare l’allevamento ovino e l’esportazione della lana;
Tommaso Moro ed altri ritenevano che un’espansione dell’allevamento potesse andare a
detrimento/a sfavore dei cristiani cioè che diminuissero gli spazi per la coltura cerealicola: in realtà
non era così perché l’Inghilterra era un paese a bassa densità demografica per cui c’era spazio per
tutti tanto è vero, tra il 1650 e il 1750, che l’Inghilterra divenne un paese esportatore di frumento.
Come si presenta la distribuzione della terra? Ci sono poche migliaia di famiglie benestanti anche
aristocratiche che detengono enormi tenute e praticano la primogenitura, ovvero, cercano di non
frazionare di generazione in generazione queste proprietà; poi ci sono più numerose proprietà
della nobiltà di provincia (la cosiddetta “gentry”) che ha vasti poteri. A fine 600 l’agricoltura inglese
e gallese si presenta come segue: ci sono notevoli riserve di terreni coltivabili, in molte aree si
produce per il mercato (carne, birra), la produttività del frumento è superiore, i raccolti sono più
stabili e l’estensione media dei poderi era di circa due/tre volte superiore a quella nelle altre aree
più avanzate d’Europa; inoltre, la maggior parte delle aziende agricole, tra fine 600 e inizio 700,
sono affittate in denaro, segno di una società e di un’economia moderna. Questo non vuol dire che
l’Europa continentale è il regno della tradizione e del sottosviluppo ma vuol dire che il quadro
strutturale delle campagne britanniche alle soglie della rivoluzione industriale era più avanzato.
Vediamo qualcosa sulla sfera della popolazione: la popolazione nelle isole britanniche cresce
lentamente tra il 1600 e 1750 ma nel secolo successivo quasi triplica con una forte accelerazione
all’inizio dell’800 anche se la dinamica non è uguale ovunque ma varia da contee a contee. La
localizzazione crescente di attività che attirano da aree rurali manodopera per il settore secondario
e terziario è un elemento importante; tuttavia, si tratta comunque di un processo graduale perché
non è che improvvisamente milioni di persone abbandonino le campagne e l’agricoltura per
trasferirsi nelle fabbriche urbane: per decenni il peso della popolazione agricola rimarrà
fondamentale. All’avvio della rivoluzione industriale, le campagne hanno un ruolo importante
perché offrono delle braccia (manodopera), anche in agricoltura si profilano cambiamenti tecnici,
economici e di mentalità che agevolarono e accompagnarono la rivoluzione industriale; da questo

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punto di vista, la rivoluzione industriale fu accompagnata da una notevole rivoluzione agraria e da
una notevole crescita demografica. La natalità e la mortalità mutarono nel tempo: dapprima
diminuì la mortalità per ragioni socio economiche e solo successivamente si adeguò la natalità
perché è soggetta ad influenze culturali più che biologiche: di conseguenza, la popolazione
aumenta significativamente e questo fenomeno prende il nome di transizione demografica;
questo non significa che tutto avvenga meccanicamente in modo lineare ma ci sono importanti
recrudescenze di mortalità come il tifo, il colera. Un mondo a sé è Londra: tra il 1690 e il 1800
conosce una notevole crescita demografica perché nessuna capitale europea ha una percentuale
così elevata sulla popolazione totale del paese ed essa è il perno del paese; tra il 1650 e 1750 si
stima che “uno su sei adulti inglesi abbia sperimentato Londra”: stiamo analizzando una società
preindustriale della vita materiale ma osserviamo che qui c’è una maggior mobilità e andare a
Londra per persone che provenivano da altre aree significa entrare in contatto con un mondo
differente, più monetizzato più ricco, incasinato. Londra ha un tasso di mortalità maggiore rispetto
a quello rurale e un tasso di natalità inferiore: il continuo aumento demografico di Londra non è
frutto solo di una crescita del saldo naturale ma, al contrario, è frutto di una continui immigrazione
da altre aree del paese. Il costante incremento demografico londinese tra 600 e 700 ha degli effetti
socio economici definiti “anticipatori” di quelli che poi saranno tipici della rivoluzione industriale:
questa crescita economica e demografica non avrebbe potuto verificarsi senza mutamenti nelle
aree rurali circostanti, ad esempio, nel secondo 600 vengono aboliti i divieti del movimento di
derrate agricole, si liberalizzano questi mercati, cresce l’infrastruttura dei trasporti per terra e per
acqua e questo è una condizione per l’approvvigionamento di cereali, carne, ortaggi, materie
prime per la costruzione, materie prime industriali. Già all’inizio del 700, il 20/25% della
popolazione londinese dipende dalle attività commerciali e marinare che si svolgono sul porto sul
Tamigi e queste persone hanno un potere d’acquisto alto insieme con quello degli addetti alle
manifatture urbane e a quello di molti bottegai: questo consente di aumentare la domanda
aggregata di beni e di servizi che da Londra si irradia in tutta l’Inghilterra meridionale.
Arriviamo ad un punto importantissimo: la storia economica è fatta di aspetti storici, culturali e
istituzionali per cui bisogna parlare di territorio, di ambiente, di risorse, di legami economici ma
bisogna parlare anche di aspetti istituzionali come la sovranità del parlamento e dell’Inghilterra
come monarchia costituzionale. All’inizio del 700 (alle soglie della rivoluzione industriale inglese),
la gran Bretagna ha quasi completato un processo istituzionale volto a rafforzare l’unità nazionale,
a controllare il potere del re e delle chiesa che rimangono eminenti ma non sono legibus soluti, a
limitare il peso politico dell’influente grande aristocrazia: questo è il risultato di un secolo in cui
sono avvenuti avvenimenti importanti dal punto di vista politico-istituzionale. La prima metà del
600 vede crescere la tensione tra la corona e il parlamento: il parlamento è importante perché è il
luogo in cui sono rappresentate le istanze, gli interessi e i valori di una parte della popolazione
inglese (ceti medi mercantili diversi dall’aristocrazia); una parte della rappresentanza
parlamentare vuole la tolleranza religiosa, vuole che si affermi un principio “no taxation without
representation” e principi giuridici essenziali come l’habeas corpus (l’autorità politica e
amministrativa non può effettuare degli arresti arbitrari). La tensione cresce e si arriva ad un
momento storico importantissimo nella storia britannica, ovvero, la guerra civile, che porta il re e
gli aristocratici contro il parlamento in cui vince Cromwell, espressione degli interessi del
parlamento degli Whig e nel 49 viene decapitato Carlo I Stuart; dopo i primi eredi della regina
Tudor, subentrò questa nuova dinastia di origine scozzese, gli Stuart, che avevano una visione
diversa da quella. C’è un breve periodo in cui la storia millenaria della monarchia inglese si
interrompe perché Cromwell è a capo di una repubblica oligarchia definita Commonwealth: è un
periodo importante in cui vengono varate delle norme importanti dal punto di vista del commercio
e delle attività cantieristiche poiché nel 1651 viene varato il primo atto di navigazione, il quale
chiude i porti inglese ai dominatori del commercio dell’epoca (gli olandesi) e incentiva la

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cantieristica inglese; nelle colonie verranno poi vietate quelle attività che potrebbero concorrere
con la madre patria e, grazie a questo provvedimenti legislativi, la marina mercantile inglese
diventerà sempre più aggressiva. Finisce il Commonwealth e c’è la restaurazione delle dinastia
Stuart: nel 1660 sale al trono Carlo II ma è sospetto di essere filopapale e filofrancese (essere per
la monarchia assoluta di stampo Luigi XIV). I ceti borghesi e affaristici liberali, in parlamento
rappresentanti dal partito dei Whig, sono contrari a questo riemergere dell’assolutismo e
vorrebbero la tutela di quei diritti prima definiti e una politica estera molto più aggressiva che
appoggiasse gli interessi mercantili di questi ceti; questi gruppi di pressione ottengono nel 79 lo
habeas corpus act, ovvero, una legge che tutela le libertà personali e impedisce le carcerazioni
arbitrarie. Tuttavia, nel 1685, la situazione degenera perché sale al potere Giacomo II che è
cattolico e apertamente filofrancese: gli Whig non accettano questa situazione e si appellano al
genero di Giacomo II, ovvero, Guglielmo d’Orange. Nell’88 Guglielmo sbarca sul suolo inglese con
la “pacifica e gloriosa rivoluzione”: non è una guerra civile, il parlamento nell’89 riconosce la
regina Mari e Guglielmo, il quale diventa Guglielmo III dopo, però, che i due sovrani hanno giurato
di rispettare il “Bill of rights”, ovvero, un documento che conferma le prerogative del parlamento
come la libertà di parole, “no taxation without representation”, il controllo della finanzia statale e
la proibizione al re di tenere un esercito stabile (il timore era che, disponendo di un esercito
stabile, il sovrano potesse usare le truppe per reprimere il dissenso o imporre una monarchia
assoluta). Quello che emerge da questo discorso è che la monarchia inglese è diventata una
monarchia costituzionale in cui il re conta ma i poteri del re sono limitati a favore di alcuni
inalienabili diritti dei sudditi e che il parlamento emerge come luogo deputato a legiferare in cui
vengono espressi interessi che porteranno ad una legislazione. Questa situazione ha anche un
pendant finanziario perché negli anni 90 viene consolidato il debito dello stato separandolo da
quello della famiglia reale: prima la famiglia reale e lo stato erano spesso tutt’uno; il
consolidamento non significa che ti ridò indietro i soldi ma avviene in un contesto di creazione di
fiducia, di rafforzamento e di riordinamento delle finanze pubbliche. Inoltre, nasce la banca di
Inghilterra che inizialmente, nel 1694, è una banca privata ma diventerà presto il perno del
sistema e viene organizzato un mercato per i titoli pubblici e titoli privati: la city inizia a diventare
un centro importantissimo dal punto di vista finanziario. La riorganizzazione finanziaria fa sì che la
fiducia dei cittadini nei confronti della monarchia e della sua finanza pubblica cresca: tutto questo
è importante e a questo vanno aggiunti aspetti sul sistema giudiziario caratterizzato dai giudici di
pace che applicano un tipo di diritto diverso da quello continentale, ovvero, il Common Law, un
sistema giuridico tipicamente anglosassone basato sulla consuetudine e sulla giurisprudenza
flessibile che tende a tutelare l’interesse privato dallo strapotere del potere pubblico e, al
contempo, a tutela l’interesse pubblico rispetto all’arbitrio dei più potenti privati. Ciò non significa
che la corona e l’aristocrazia non siano ancora potenti ma, tuttavia, c’è un maggiore
contemperamento di poteri e bilanciamento di poteri: lo spirito aristocratico rimane importante
ma viene bilanciato e interagisce con altri attori ed altri valori. Concludiamo su un altro aspetto
istituzionale, ovvero, quello di una serie di sviluppi che portano all’individualismo concorrenziale;
tre questioni si intrecciano sul piano istituzionale che verranno progressivamente normate dal
parlamento con speciali norme e che hanno conseguenze economiche fondamentali: le
enclosures, la regolamentazione del lavoro artigianale e dell’assistenza pubblica ai poveri e la
riforma (limitazione e poi soppressione) del diritto regio di concedere privative e monopoli.
Abbiamo già detto che le recinzioni sono una manifestazione di individualismo agrario e per
recinzioni non intendiamo solo il recintare, letteralmente, ma intendiamo un processo di
ricostituzione fondiaria molto complesso le cui origini sono tardo medievali (fine 400 e inizio 500);
le enclosures segnano la fine dell’epoca dei campi aperti e dei campi comuni quindi si può gestire
più privatamente la propria proprietà: ciò significa che, a parità di altre condizioni, determinati
interventi di migliorie sulla terra sono più appetibili perché non dovrò sottostare ad usi civici. C’è

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anche una cronologia e geografia complessa del fenomeno delle recinzioni: ad esempio, prima è
una prassi molto concreta e poi comincia ad essere accompagnata da norme giuridiche poiché nel
1608 abbiamo la prima norma esplicitamente pro-recinzioni e nel 1621 abbiamo il cosiddetto
Enclosures Bill, ovvero, la prima legge quadro che disciplinava organicamente la materia.
Soprattutto, nel secondo 600, le recinzioni si fanno non solo per il pascolo/allevamento (come
accadeva con le prime recinzioni precoci) ma anche per incrementare l’agricoltura intensiva
cerealicola, stimolata proprio dalla crescita dei prezzi dei cereali e da quelle politiche di premio
all’esportazioni; nel 1801 il parlamento inglese vara un “General enclosures act”, ovvero, una
legge quadro di ampio spetro in tema di recinzioni che uniformò la disciplina. Molte leggi speciali
(non quella generale) per varie zone a favore delle recinzioni vennero votate dal parlamento tra il
1760 e il 1819 parallelamente al periodo di massimo tasso di crescita della popolazione e al
periodo in cui vennero poste le basi per l’industrializzazione britannica. Le recinzioni, però,
possono comportare dei danni per i piccoli proprietari e per i piccoli contadini perché i campi
comuni aiutavano i più poveri a trovare piccole integrazioni che potevano dare una mano per
tirare avanti: chi viene danneggiato da questi processi di recinzione e ricomposizione fondiaria,
spesso, viene indennizzato e questo consente ad alcuni di questi piccoli proprietari di rinnovare
braccianti danneggiati dalla fine delle servitù del vecchio sistema di open e common fields; questi
indennizzi consentono loro di riorganizzarsi e di avviare delle piccole attività che avranno degli
sbocchi sul mercato: si rafforza un ceto di piccoli proprietari più dinamici. Un secondo aspetto di
questo incipiente e progressivo fenomeno di individualismo concorrenziale è quello che pertiene
alla regolamentazione del lavoro artigiano e all’assistenza pubblica ai poveri: nella classe dirigente
britannica, nel corso nel 700, emerge la consapevolezza che le attività più prospere sono quelle
non organizzate secondo criteri corporativi (non organizzate dalle corporazioni); questa è un
ulteriore spinta ad abolire le leggi vincolistiche in materia. Nella culla della rivoluzione industriale
inglese, la culla del Lancashire, il rapido incremento della produzione cotoniera è legato proprio
anche alla minore intensità dei freni tecnici e organizzativi che, invece, erano tipici dell’economia
organizzata secondo i criteri delle corporazioni. Ci sono interventi legislativi del parlamento ma
anche sentenze locali di giudici di pace molto importanti, sentenze che si esprimono contro il
ripristino delle vecchie norme corporative e a favore dell’abrogazione dei vincoli precedenti: ad
esempio, nel 1694 viene abolito lo “Statute of Artificers” che prime vietava ai figli dei contadini di
intraprendere una professione artigianale; in questo modo, viene ad essere legalizzato il
proletariato rurale che lavora nelle manifatture tessili. A fine 600 viene anche abolito
l’apprendistato: gli imprenditori possono utilizzare donne e bambini e possono molto più
liberamente cambiare attrezzature e macchinari delle loro imprese. Tutto ciò crea situazioni gravi
e dei conflitti socio-economici per cui bisogna fare qualcosa per attenuare le tensioni sociali e
accompagnare i poveri in una vita di resistenza e di sopravvivenza: queste tensioni socio
economiche vennero tenute sotto controllo tramite le “Leggi sulla povertà” secondo le quali ogni
parrocchia deve distribuire sussidi ai poveri con proventi tratti dall’imposta fondiaria. Nel 1662 la
legge “Act of settlement” lega i poveri alla parrocchia di origine o a quella di residenza: un povero
che fosse stato trovato fuori sede avrebbe potuto essere rispedito al mittente (al luogo di nascita o
di residenza); il povero viene quindi trattato come un vagabondo e come un potenziale
delinquente quindi devono essere segregati e tenuti sotto controllo: è una visione che durerà per
molto tempo. È interessante vedere come questa legge venisse attuata in modo diverso a seconda
delle realtà territoriali britanniche: le piccole municipalità, normalmente, si attengono
strettamente a questa normativa; i nascenti centri industriali come Manchester sono un po’ più
permissive perché hanno bisogno di manodopera mentre un posto in cui questa legge non viene
praticamente messo in atto è Londra perché era impossibile controllare i movimenti di migliaia di
poveri. Questo ci dimostra che quando si analizza un provvedimento normativo come una legge è
importante vedere il testo ma bisogna anche vedere come questo viene effettivamente messe in

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atto e quali sono le reazioni dei territori e contesti sociali che vengono ad essere interessati da
queste misure. Nel 1697, in un contesto di crescente dinamismo britannico, un decreto
governativo mitiga l’act of settlement lasciando, tuttavia, una parziale segregazione dei poveri
nelle aree scarse di manodopera; è evidente che, in una prospettiva di lungo periodo, questo
parziale blocco della mobilità della forza lavoro diventa anacronistico e insostenibile per cui, un
secolo dopo, viene formalmente e totalmente abrogato. Questo ha un significato economico
molto importante perché il lavoro diventa pienamente un fattore produttivo, ovvero, un fattore la
cui vendita e acquisto si fanno sul mercato. Terzo ed ultimo aspetto costitutivo di questo
fenomeno definito di “individualismo concorrenziale” è la limitazione e poi la soppressione del
diritto regio di concedere monopoli e privative commerciali in cambio di onoranze e di canone:
progressivamente, un gruppo di parlamentari inglesi di formazione mercantile manifestano la loro
contrarietà a queste monopoli e privative perché alteravano il funzionamento del mercato e questi
liberi privati imprenditori, che avevano già avviato attività affini, senza privilegi, si sarebbe trovati a
sostenere una situazione di concorrenza sleale. Nel 1624 il parlamento vara lo Statuto dei
monopoli che elimina ogni concessione regia e introduce il sistema dei brevetti che garantiva lo
sfruttamento economico di autentiche innovazioni e per un limitato periodo di tempo: l’idea dei
brevetti è quella che se concepisco un innovazione e ne posso trarne giovamento economico, ciò
costituisce uno stimolo alla creatività e alla capacità innovativa. Messe insieme tutte queste
graduali trasformazioni vanno complessivamente nella direzione di una crescente azione degli
individui e degli imprenditori e di una crescente concorrenza anziché di un controllo di essa e di
una sua prevenzione.
Facciamo un accenno anche alle gerarchie sociali: all’inizio dell’800, la Gran Bretagna è ancora una
società largamente rurale in cui circa 2/3 delle popolazione viene nelle contee rurali. Tuttavia è
una Gran Bretagna diversa dal resto d’Europa perché nel 600 essa aveva incominciato a sviluppare
una struttura sociale basata, da un lato, sul primato della grande proprietà (Lords e gentry) ma
basata anche sulla classe di agricoltori proprietari e sui fittavoli che investono capitale a rischio; nel
700, con l’accelerazione delle recinzioni, si crea un altro gruppo sociale di livello più basso che
perde, con la fine degli open fields, quei piccoli appezzamenti e quei vantaggi legati ai common
field e che diventano, quindi, dei braccianti, ovvero, persone che avevano nelle braccia l’unica
ricchezza sulla quale cercare di costruire la sopravvivenza della propria famiglia. Tutto ciò, quindi,
si collega al processo di privatizzazione (recinzione) dei suoli che le enclosures favoriscono e che si
incrementa dopo la guerra civile (1639-1649), guerra in cui la corona perdette il potere di impedire
la privatizzazione del latifondo; alla fine del 600, infatti, circa 3/4 della terra coltivabile inglese
appartiene a pochi proprietari aristocratici: da un lato, quindi, assistiamo ad un processo di
concentrazione della proprietà fondiaria ma, raramente, questi proprietari fondiari coltivano e
gestiscono/amministrano in prima persona poiché essi cedono la gestione della loro proprietà a
dei fittavoli, i quali pagano affitti in denaro e utilizzano i braccianti. Quindi nell’Inghilterra tardo
600 e settecentesca abbiamo diversi ceti rurali che sono ricchi o benestanti o, comunque, non
particolarmente mal messi: al vertice abbiamo la gentry, poi abbiamo dei contadini medi
proprietari (che erano stati quelli originati dal processo di indennizzo per il superamento dei
common e open fields), poi abbiamo dei piccoli proprietari intraprendenti e dei affittatoli agiati
che crescono di numero dovuto alle innovazioni agronomiche connesse al processo delle
recinzioni. Tutto quello che diciamo è collegato perché la storia procede in unico complicato filone
di sviluppo: in conclusione, il quadro socio economico britannico è più complicato e variegato che
non in Europa; nel corso del 700 la grande proprietà aristocratica cresce ulteriormente, molti
business (mercanti, banchieri ecc.) investono nella terrà perché la terra dà prestigio, dà la
possibilità di diversificare gli investimenti e quindi di diminuire il rischio e, inoltre, il processo di
nobilitazione richiedeva una base fondiaria importante.
Un ruolo importante nell’orientare valori e comportamenti della società è quello svolto dalla

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chiesa anglicana, soprattutto, a livello di contee; è interessante sottolineare come alcuni sviluppi
religiosi (in particolare la riforma) avessero comportato due conseguenze socio-economiche e
culturali: la prima, più semplice e materiale, riguarda il fatto che le confessioni protestanti
aboliscono il culto della Madonna e dei Santi e ciò porta ad una riforma del calendario liturgico e
all’abolizione di numerose feste, per cui, indirettamente, porta all’incremento del numero dei
giorni lavorativi (ma anche all’incremento del reddito). Inoltre, la riforma protestante favorisce la
diffusione dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione; aumenta la possibilità di informazione per
i cittadini non solo in quanto componenti di una comunità politica e sociale ma anche in quanto
attori economici per cui, da un lato, l’incremento dell’opportunità di informazione politica, sociale,
ideologica è una maggior indipendenza dell’opinione pubblica ma ci sono anche delle implicazioni
economico-tecnologiche perché aumenta il numero dei testi scritti e pubblicati in inglese anziché
in latino, si punta alla chiarezza espositiva perché il destinatario non è solo l’élite dei più colti e
ricchi ma anche un ceto medio e ciò ha delle implicazioni anche dal punto di vista tecnico perché ci
sono testi tecnici e la trasmissione della conoscenza tecnica è più agevole. Abbiamo quindi la
prima opinione pubblica, un precoce sviluppo della stampa quotidiana e periodica che fa pressioni
politiche e anche un maggior sviluppo delle implicazioni tecnologiche: quali sono, però, le cause di
ciò? Tutto ciò, in primo luogo, deriva dal fatto che nelle confessioni protestanti il rapporto tra Dio e
il credente è più diretto e la parola di Dio (la Bibbia) va letta più direttamente da parte del
credente: in altre parole, nel cattolicesimo il ruolo del sacerdote come intermediario tra Dio e il
fedele è maggiore e le letture sacre vengono mediate da questa figura; naturalmente, c’è un clero
anche nel mondo protestante ma viene molto più incentivata la lettura diretta delle sacre scritture
che, in quelle società, è un elemento di stimolo fortissimo all’alfabetizzazione. La conoscenza,
l’alfabetizzazione, la lettura e la scrittura sono elementi indirettamente poderosi di sviluppo
economico e di agevolazione dello sviluppo economico.
Nel complesso, fin qui, prima di passare ai settori economici, abbiamo visto che la Gran Bretagna
del XVIII secolo è, comparativamente, rispetto al resto dell’Europa, pervasa da un’ansia di
miglioramento, di mutamento e di progresso: in questa Gran Bretagna così dinamica, però,
convivono anche tradizione e mutamento (vecchio e nuovo) più produttivamente e facilmente che
in Europa; parliamo di sfumature e non di 0 o 100. Abbiamo già detto che l’organizzazione
economica del settore agricolo, nella Gran Bretagna del 700, è diversa da quella della gran parte
dell’Europa continentale ed è stata in forte evoluzione: certamente nel 700 la gran parte della
ricchezza inglese è ancora prodotta in agricoltura e ancora la maggior parte della popolazione vive
in campagna; abbiamo già accennato ai grandi progressi dell’agricoltura inglese settecentesca
grazie all’individualismo agrario e alle novità agronomiche (maggior produttività, maggese
sostituito nei campi coltivati con piante foraggere, selezione dell’allevamento, le prime macchine,
il peso medio degli ovini e dei bovini che cresce, l’aumento della produzione dei cereali). Sotto
l’aspetto organizzativo, l’agricoltura inglese settecentesca era caratterizzata dalla presenza
dominante della figura del farmer (fittavoli imprenditori agricoli): la stipula di contratti d’affitto di
lunga durata permetteva loro di fare investimenti migliorativi sulle terre e di poterne raccogliere i
frutti; si parla di “affitti fissi in denaro” perché i farmers, dovendo pagare ai proprietari canoni
annui in moneta, sapendo già cosa dovranno pagare al proprietario, incrementano i proventi
dell’attività produttiva e tutto quello che producono in più è un guadagno che rimane a loro. Oltre
ai fittavoli, la gentry si occupava della gestione e dello sfruttamento economico delle loro terre.
Quindi, a differenza dell’Europa continentale, nella Gran Bretagna settecentesca, gli agricoltori-
imprenditori sono la maggioranza e i contadini tradizionali la minoranza, la maggior parte della
produzione agricola è destinata allo scambio, al mercato delle derrate alimentari e agricole si
aggiunge quello incipiente dei fattori produttivi, il pagamento dei salari agli operai agricoli in
moneta diventa sempre più diffuso fino ad essere la regola e le grandi dimensioni delle aziende
(enclosures e la rotazione più articolata delle colture) agevola l’integrazione positiva tra agricoltura

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e allevamento. C’è una stabilità nei prezzi e una capacità di produrre adeguata per lungo tempo
almeno fino al 1760 mentre dopo il 1760 la crescita della popolazione britannica crea delle
tensioni tra consumo e produzione e ciò porta ad un incremento dei prezzi. Tra fine 600 e 1776
cresce l’export di cereali britannici verso l’Europa: questo è importante non solo perché è un
segno di successo per l’agricoltura cerealicola britannica ma perché le entrate in valute pregiate
vengono utilizzate per acquistare materie prime e semilavorati dall’estero che poi vengono
arricchiti di valore e riesportati con profitto da imprenditori.
Facciamo brevemente una riflessione: stiamo vedendo come la società inglese, già prima della
rivoluzione industriale, avesse già intrapreso una strada di complessiva trasformazione e
modernizzazione: alcuni considerazioni vanno nella direzione di sottolineare come i processi siano
comunque graduali ma anche cumulativi e non si può parlare di rivoluzione industriale parlando
solo di macchine, di imprenditori o di operai; per capire perché l’Inghilterra è la prima ad
industrializzarsi ci siamo occupati di risorse naturali, conformazione del territorio, di trasporti, di
infrastrutture ma anche di agricoltura e istituzioni: dobbiamo ora parlare delle trasformazioni
industriali e tecnologiche in questi settori industriali in senso stretto.
Cominciamo adesso a parlare di manifatture tessili pre-rivoluzione e poi con la rivoluzione
industriale: se c’è un’industria che rappresenta il simbolo dell’industrializzazione inglese è proprio
quella del cotone. Com’era organizzata la manifattura tessile prima della rivoluzione? Dalla
seconda metà del 400, l’Inghilterra supera i Paesi Bassi come maggiore esportatore di tessuti di
lana per cui c’è una lunga tradizione nel settore laniero. Tra il 500 e il 700 il primato britannico si
consolida in questo campo: si amplia la gamma dei prodotti, la qualità cresce e ci si approfitta di
quell’iniezione di manodopera e di capitale umano che le guerre di religione e le rivolte in Francia
e in Olanda fecero emigrare verso l’Inghilterra e tra costoro vi erano anche persone dotate di
competenze; aumenta il consumo di materie prime e il numero di pecore allevate che forniscono
la materia prima a questa industria. Com’è organizzato il lanificio che, nel settore tessile, è per
secoli l’industria più importante? La forma di organizzazione prevalente è il lavoro a domicilio (put
in house system), poi ci sono forme di industria domestica e poi ci sono alcune manifatture
accentrate. Il lavoro a domicilio è un sistema di organizzazione del lavoro e della produzione che
ha molti vantaggi perché l’imprenditore non investe pesantemente in capitale fisso ma i suoi
investimenti sono in capitale circolante (scorte, salari per lavoratori); questo sistema, in condizione
di mercato normale, è molto conveniente perchè quando la domanda cresce si porta alle famiglie
contadine che svolgono il lavoro artigianale più materia prima e/o prodotto semilavorato mentre
quando il mercato va nell’altro senso si diminuiscono questi approvvigionamenti a chi deve
produrre il prodotto finito per cui, tutto sommato, non c’è un forte investimento in capitale fisso
ed è un sistema piuttosto agile e funzionale. Dove emerge il limite strutturale del lavoro a
domicilio? Emerge quando, come avviene proprio in Inghilterra del secondo 700, la domanda di
prodotti tessili (in quel caso il cotone più della lana) cresce per un periodo lungo e intensamente
perché il lavoro a domicilio, quando deve aumentare la produzione, ha due strade teoriche: la
prima è che il mercante imprenditore porti ai singoli nuclei rurali di lavoratori più materia da
lavorare ma questo può non bastare e si rende necessario incrementare la produzione ricorrendo
alla seconda strada, ovvero, quella di assoldare un maggior numero di famiglie; tuttavia, queste
due strade hanno dei limiti se ci deve spingere per un aumento intenso di domanda piuttosto
avanti su queste strade: l’incremento della produzione da parte della singola famiglia di contadini-
artigiani può essere stimolato con l’incremento del cottimo ma questo può avere un effetto
opposto perché, siccome l’ottica delle famiglie contadine non è quella di massimizzare i profitti ma
è quello di raggiungere con minor fatica un livello sufficiente di reddito, se si innalzano, per
stimolare a maggior lavoro i lavoratori, i cottimi, questi possono ottenere il livello che a loro
interessa prima e addirittura diminuire la produzione. Questo quindi non è uno stimolo e si punta
sull’altra strada, ovvero, quella di aumentare il numero dei lavoratori e delle famiglie; tuttavia,

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sappiamo che questo è un sistema decentrato, ovvero, un sistema in cui i prodotti semilavorati
vanno portati a tante famiglie che sono sparse sul territorio e questo crea una gabbia di costi:
diventa troppo costoso e complesso per l’imprenditore far recapitare e poi recuperare più
materiali presso le famiglie operaie. Questo significa che, come avviene nella seconda metà del
700, quando c’è una domanda che si incrementa sensibilmente nel lungo periodo, il lavoro a
domicilio che andava bene nel contesto precedente mostra i suoi limiti e questo sarà uno dei
fattori che spingerà alcuni imprenditori a cambiare sistema, a non cercare più solo di incrementare
la produzione nell’ambito del vecchio sistema di lavoro a domicilio ma di creare un sistema nuovo
e diverso (la fabbrica). Questa svolta avverrà non tanto nel settore laniero ma nel settore
cotoniero anche se la lana è stata, per lungo tempo, la culla del settore tessile inglese e ha
dominato: quali sono le origini del cotonificio? Nel secondo 500, alcuni profughi fiamminghi e
francesi usano il cotone insieme con il lino e la canapa per produrre fustagni scadenti e a buon
mercato: questo è un primo piede che il cotone mette nella realtà inglese. Nel 600 vengono
importante dall’India orientale delle cotonate (tessuti di cotone) semilavorate che poi vengono
stampate e rifinite in Inghilterra; ricordiamo che il commercio triangolare comprende anche la
tratta dei neri che vengono utilizzati nelle piantagioni di cotone nelle Antille e nelle colonie
meridionali di quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti: ciò significa che l’offerta di materia
prima di cotone grezzo in Gran Bretagna aumenta ed è importante perché il cotone grezzo non si
può, per ragioni climatiche, coltivare sul suolo britannico. Qui bisogna sottolineare un episodio
importante: il successo che le cotonate indiane, rifinite in Inghilterra, aveva sul mercato inglese
preoccupa un gruppo di attori economici in grado di esercitare una certa influenza sul parlamento
(una serie di industriali lanieri) perché temono che la concorrenza delle tele indiane possa erodere
le loro quote di mercato per cui ottengono, nel 1701 e poi nel 1721, due provvedimenti legislativi
dal parlamento che vietano l’importazione delle stoffe dall’India e l’importazione delle cotonate
grezze (vengono vietate le importazioni di prodotti semilavorati e prodotti finiti dall’India). Sembra
un successo per chi produce tessuti di lana ma, in realtà, questa situazione stimola una reazione
negativa perché, constatato per alcuni decenni come questi tessuti fossero di successo, alcuni
imprenditori inglesi decidono di imitare in toto i prodotti indiani nella loro madre patria (in
Inghilterra): importare la materia prima (la cui importazione non era vietata) per produrre
cotonate britanniche. Non a caso, il trend e l’importazione di materia prima cotoniera cresce
fortemente dopo il 1730: già prima delle innovazioni tecnologiche delle macchine tessili a partire
dal 1780, i tessuti misti di cotone hanno un successo crescente e dopo il 1780 il cotonificio diventa
il settore trainante per eccellenza. Questo, però, non è l’unico settore perché un settore che
richiede attenzione è quello delle attività minerarie e metallurgiche: tra il 1688 e 1750, l’estrazione
di carbone raddoppia: l’Inghilterra e il Galles estraggono 800 chilogrammi pro-capite di carbone e
questi livelli verranno raggiunti soltanto un secolo più tardi nel paesi della Germania e Stati Uniti.
Inoltre, nel settore minerario si riproduce una struttura socio-organizzativa simile a quella
dell’agricoltura: qui c’è una peculiarità britannica rispetto al continente perché, per secoli, nel
continente europeo, la proprietà della superfice terrestre è privata ma ciò che sta sotto è
sottoposto al controllo del sovrano che ha diritto ad una parte dei proventi dell’attività mineraria
mentre in Inghilterra è diverso perché il proprietario fondiario può liberamente sfruttare le risorse
minerarie; i gestori delle miniere sono simili ai farmer dell’agricoltura inglese: pagano un canone e
organizzano la gestione delle miniere (sono, di fatto, degli imprenditori) appaltando a capi mastri
la gestione stessa, i quali ingaggiano minatori a cottimo misto (simili ai braccianti). All’inizio del 700
vengono introdotti importanti innovazioni per l’estrazione delle risorse minerarie e per la
metallurgia: queste innovazioni hanno una cronologia molto più precoce rispetto all’introduzione
delle innovazioni nel settore cotoniero. Cosa succede? Da alcuni decenni, in Inghilterra, il carbone
di legna che veniva usato nelle attività metallurgiche diventa insufficiente e più costoso: la scarsità
del carbone di legna e l’incremento di prezzo è uno stimolo ad incentivare lo sfruttamento di

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un’altra risorsa, ovvero, carbone di miniera; si tratta di una situazione oggettiva che crea degli
stimoli che possono essere sfruttati, da un lato, perché l’Inghilterra ha le risorse rispetto ad altri
paesi che non hanno queste risorse e, dall’altro lato, l’Inghilterra seppe organizzare uno
sfruttamento adeguato di queste risorse di cui abbondava. Il carbone di miniera era usato da
tempo, ad esempio, per il riscaldamento delle abitazioni ma il problema è usarlo in modo
adeguato e tecnologicamente e produttivamente efficace in alcune attività economiche importanti
come nella fusione dei metalli che porta all’ottenimento di leghe metalliche; nella siderurgia, il
carbone serve anche ad un’altra funzione che è quella di legarsi con il metallo ferroso per creare
una lega ferrosa che, a seconda del contenuto di carbonio nella lega, può assumere diverse
caratteristiche e diverse denominazioni: ad esempio, il ferro dolce ha poco carbonio. Il problema è
che utilizzare il carbone di miniera invece che il carbone di legna nella fusione del minerale ferroso
non è semplice perché non basta usare il carbone di miniera per produrre calore ma bisogna
anche mischiarlo nell’impasto e trovare la ricetta non è semplice: ci sono tanti tentativi finché nel
1709 si riesce a separare il carbonio dall’acqua e dalle impurità che caratterizzano il carbone di
miniera e a produrre il “carbon coke” che diventerà la base per ottenere una fusione di minerale
ferroso con il carbone di miniera. È un esito importante ma non definitivo sia dal punto di vista
tecnologico del metodo della fusioni sia dal punto di vista economico perché bisognerà fare molti
perfezionamenti e anche aspettare che questo processi diventi economicamente più vantaggioso;
è un’affermazione lenta quella del carbon coke nella metallurgia. Nel 1760 la maggior parte dei
fonditori usa ancora il carbone di legna; tuttavia, nel 1785, il prezzo del carbone di legna è ormai
proibitivo e l’80% delle ferriere utilizza il carbon coke. La siderurgia, però, non è fatta solo di
fusione perché il metallo ferroso deve essere lavorato e purificato (il processo di affinamento): nel
1783 Henry Cort escogita un forno a riverbero e il sistema del puddellaggio per raffinare la ghisa
liquida; l’incremento nell’uso del carbon coke consente una localizzazione delle ferriere vicino ai
giacimenti carbone e anche una maggiore integrazione delle diverse fasi lavorative: gli impianti
siderurgici saranno infatti i primi stabilimenti industriali ad elevata concentrazione di capitale fisso.
A questo discorso va legato quello del simbolo della rivoluzione industriale, ovvero, la macchina a
vapore, la quale si lega al carbone: la macchina a vapore nelle sue prime manifestazioni
elementari, la pompa a vapore, viene utilizzata tra fine 600 e inizio 700 nelle industrie minerarie
perché le industrie minerarie (soprattutto le miniere di carbone) vanno drenate dall’acqua e
prima, per drenare l’acqua dalle miniere, si usava la forza animale: la pompa a vapore consente di
superare questa situazione. Savery nel 1667 elabora la prima pompa a vapore utilizzata nelle
miniere, nel 1717 Newcomen elabora una pompa a vapore più evoluta, più grande e più potente:
nonostante l’iniziale scarsa efficienza termica, queste pompe a vapore sono un grande successo
fino all’avvento della figura di James Watt. James Watt non è uno scienziato ma è un meccanico e
inventa il condensatore separato che aumenta il rendimento e diminuisce il consumo di fonte
energetica; la macchina a vapore viene brevettata nel 69. Egli si mette in società con Boulton, un
mercante di ferramenta: Watt va avanti con le sue ricerche, perfeziona gli aspetti tecnici mentre
Boulton si occupa di avviare la commercializzazione del nuovo motore destinato al drenaggio
dell’acqua nelle miniere; viene rinnovato il brevetto e la Boulton & Watt diventa la ditta di
riferimento in questo settore avviando prima la commercializzazione e poi ottenendo grande
successo con ulteriori perfezionamenti: per esempio, dal moto rettilineo della macchina a vapore
al moto rotatorio. Perché questo è importante? Perché in questo modo il motore a vapore diventa
il primo potente motore universale in grado di sostituire il mulino a d’acqua e grazie a ciò sarà
possibile applicare la macchina a vapore non solo alla fabbrica ma anche ai trasporti: ciò ci darà la
dimensione dell’importanza della macchina a vapore del carbone che verrà assunto come fonte di
energia il carbone su vastissima scala.
Stiamo vedendo, quindi, un processo di crescita e di trasformazione su un ampio fronte e
cerchiamo ora di capire come questa crescita settecentesca, ancora con le caratteristiche

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preindustriali, diventerà poi crescita nell’ambito della rivoluzione industriale. Tra fine 600 e 1770
c’è una sorta di “incubazione della rivoluzione industriale”: crescono infrastrutture e i settori
economici britannici costantemente. È diminuita la percentuale delle persone impiegate in
agricoltura, è aumentata la forza lavoro maschile nel settore industriale, è sensibilmente diminuita
la percentuale (non il valore assoluto) della ricchezza consumata perché ciò significa che una parte
(una percentuale) crescente della risorse economiche viene investita in infrastrutture, in capitale
fisso e in capitale circolante per cui i consumi aumentano perchè in molte fasce delle popolazione
inglese il reddito disponibile cresce; la crescita complessiva di ricchezza non si traduce solo in un
utile incremento dei consumi ma anche in un incremento degli investimenti. Inoltre, aumenta
anche la percentuale della spesa pubblica sulla domanda aggregata perché anche lo stato deve
accrescere le proprie funzioni. La Gran Bretagna ha visto crescere la produzione di reddito a causa
di un miglioramento complessivo, nel settore agricolo, nell’allevamento, nella manifattura, già
prima della rivoluzione industriale: l’Inghilterra, nella fase finale dell’epoca preindustriale, è un
paese che si sta inconsapevolmente preparando per il decollo dell’economia industriale; non è una
storia dell’età preindustriale piatta quella dell’Inghilterra ma è già in crescendo: il settore agricolo
è motore del cambiamento economico e la trasformazione (il dinamismo di Londra) influisce sui
mutamenti rurali per cui c’è crescita dei mercati regionali, miglioramenti di produttività, di
conoscenze tecnologiche, maggiore libertà nella mobilità dei fattori di produzione, carbon coke
ecc. Molti imprenditori, comparativamente rispetto all’Europa, hanno più facile accesso al credito
nazionale e internazionale: ciò significa basso costo del denaro e consente di migliorare i processi
prodottivi; inoltre, vi sono risparmi di tempo e di costi nel trasferimento delle merci ingombranti
grazie allo sfruttamento delle acque interne (infrastrutture, fiumi navigabili): questo consente di
diminuire gli investimenti in capitale circolante nelle scorte e di incrementare quelli in capitale
fisso. Tra fine 600 e metà del 700 c’è un incremento di reddito reale, una proporzionale crescita
della domanda aggregata e una maggiore diversificazione dei prodotti richiesti: non solo la bruta
crescita quantitativa ma anche una nuova articolazione di consumo. Nel primo 700 il reddito
medio pro-capite dei lavoratori britannici è superiore rispetto agli europei ed è corrisposto
interamente in denaro: in una società comparativamente più aperta, l’emulazione tra ceti diventa
un elemento di stimolo ulteriore da tenere in considerazione; questa emulazione concorre alla
crescita settecentesca e allo sviluppo economico industriale.
Torniamo alle tecnologie: ci aspettiamo un’accelerata in direzione della siderurgia tessile ma, in
realtà, cominciamo dalle tecnologie nel mondo rurale perché, ancora una volta, la base è qui: la
possibilità di depositare brevetti e di godere, per un certo tempo, dei proventi derivanti dal loro
esclusivo sfruttamento economico, promuove in Inghilterra, fin dal primo 700, un grappolo di
invenzioni e di innovazioni. Si può accennare ad una distinzione tra invenzione ed innovazione:
invenzione è una novità tecnico scientifica idonea ad un successivo impiego pratico; l’innovazione
è il perfezionamento di strumenti e tecniche che possano migliorare l’efficienza complessiva del
sistema economico. Ci si aspetta che il mondo rurale sia meno toccato dalle innovazioni ma non è
così: più lento è il processo innovativo nell’agricoltura ma esiste. Nel 1701 Jethro Tull perfeziona la
seminatrice con diverse versioni e con adattamenti che consentono un migliore e più ampio
utilizzo e inventa la zappatrice trainata da cavalli, nel primo 700 abbiamo l’aratro di Rotherham
importato dai Paesi Bassi, la cui evoluzione continua fino al 1785 con ulteriori trasformazioni
ottocentesche; sempre nel corso del XVIII secolo abbiamo il voltafieno, la mietitrice, la
trebbiatrice: anche nel mondo rurale, nel corso del 700 e fino a metà 800, c’è un profondo
cambiamento tecnologico, oltre che organizzativo e giuridico, nelle aziende agricole più moderne
della Gran Bretagna e c’è un’incipiente meccanizzazione che fa aumentare il divario con
l’agricoltura europea. Il primo paese, però, che meccanizzerà la propria agricoltura sono gli Stati
Uniti.
Abbiamo già accennato all’impiego del motore a vapore: il motore a vapore è usato, dapprima,

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nelle miniere di carbone e nelle ferriere; la siderurgia tradizionale usava come motori i mulini a
d’acqua per cui una prolungata siccità poteva significare il fallimento dei proprietari e la miseria
degli operai: l’impiego della macchina a vapore non solo permise agli stabilimenti siderurgici di
funzionare senza interruzioni ma anche di disporre in modo concentrato di sufficiente energia e a
buon mercato da poter riunire in un solo impianto le tre fasi di forno, fucina e officina, che erano
rimaste separate fino alla seconda metà del 700. L’utilizzo della macchina a vapore è conveniente
rispetto all’utilizzo precedente della forza umana e animale però bisogna avere soldi e capitali
sufficienti per un investimento iniziale: se c’è questa precondizione, allora è conveniente farlo. A
parità di costo, il rendimento della macchina a vapore è maggiore e crescente, rispetto al lavoro
umano e animale, nel corso del 700 per cui la macchina a vapore consente economie di costo nel
settore dei beni di largo consumo. Non è solo, però, la fabbrica tessile, la miniera, la siderurgia ma
è importante l’applicazione della macchina a vapore ai trasporti: la locomotiva; il treno/la ferrovia
non nasce con la rivoluzione industriale perché di ferrovie ce ne erano state per secoli,
soprattutto, in aree minerarie: erano strade ferrate solo che la propulsione dei vagoni era
assicurata dall’uomo e dai cavalli. Il treno esiste ma quello che cambia è il treno trainato dal
motore a vapore, ovvero, dalla locomotiva: il successo pieno sarà ottenuto nel 25 con George
Stevenson con il quale, per trasportare il carbone di miniera, abbiamo il primo collegamento
compiuto e poi nel 30 abbiamo la Liverpool-Manchester che trasporta non solo carbone ma anche
passeggeri; inoltre, anche i battelli a vapore iniziano a farsi strada: le pesanti motrici a vapore
furono sistemate anche su battelli per muovere ruote a pale laterali lungo fiumi e canali.
Vediamo le innovazioni tecnologiche nel tessile: anche qui abbiamo la macchina a vapore. Il
cotone diventa il settore trainante in ambito tessile per innovazione e dinamismo e non la lana:
perché? I motivi sono: materia prima, prodotto finito e la natura della materia prima rispetto al
tipo di macchine utilizzate. La materia prima è diversa: la lana è una fibra tessile di origine animale
mentre il cotone è una fibra tessile di origine vegetale; dal punto di vista ecologico, è più facile
incrementare (è meno costoso) la produzione di una materia prima di origine vegetale che non
animale. Per quanto riguarda il prodotto finito, in quei decenni abbiamo visto che il cotone è
molto richiesto perché è di moda, consente una diversificazione stagionale e anche perché di
cotone saranno alcuni capi di abbigliamento tipici del mondo lavorativo; inoltre, le prime macchine
tessili non sono perfette e perfezionate perché spesso scartano e strappano ma la fibra tessile di
cotone è, per sua natura, più resistente e meno delicata della lana. Questi sono tre elementi che
spiegano perché il cotone invece della lana. Per quanto riguarda il procedimento, la cronologia
delle innovazioni tessili va nel senso di sfide e risposte tra fasi lavorative: ci sono due fasi
lavorative fondamentale in un’industria tessile tra cui la filatura e la tessitura; la materia prima
grezza deve essere prodotta in fili (filatura) e poi i fili verranno messi insieme per creare il tessuto.
Si creano successivi squilibri di manodopera e di produttività tra filatura e tessitura e questo
innescherà dei processi di un certo tipo: nel 1733, ad esempio, viene inventata la navetta volante
che accelera la produttività del telaio e questo squilibra ulteriormente il rapporto di produttività
tra tessitura e filatura perché la tessitura è più avanzata e dinamica; ciò significa che colore che
producono il filo faticano a produrre filo a sufficienza per alimentare chi tesse il tessuto per cui si
crea una strozzatura definita “collo di bottiglia”. Questo crea uno squilibrio e una pressione sulla
tessitura: ci vogliono 5/6 filatori nel sistema tradizionale per alimentare il lavoro di un tessitori e
questa situazione richiede un mutamento. Tra il 1760 e il 1780, una serie di invenzioni danno una
svolta alla filatura: nel 1764 viene inventata la spinning jenny che fa meccanicamente il lavoro
manuale prima svolto da operari e artigiani: è una macchinetta a buon mercato che consente ad
una sola persona di fare molto più filato rispetto a prima. È un successo rapido non solo in Gran
Bretagna ma anche all’estero e nel 70, infatti, viene brevettata; nel 69 viene inventato il filatoio
idraulico più grande e costoso alimentato dall’energia idraulica. La jenny produceva un filo meno
resistente che si poteva usare solo per la trama mentre il filatoio idraulico produceva un filo più

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forte e ritorto che può essere usato sia per la maglieria sia per l’ordito dei tessuti di cotone; nella
seconda metà degli anni 70 viene inventata la mula, la quale è un incrocio tra le due macchine
precedenti che consente di produrre entrambi i fili. Nel 90 viene inventata una mula automatica,
mossa da una ruota idraulica ma con ben 300 fusi: è una macchina che ha successo, rapida e si
diffonde anche con la macchina a vapore, non più alimentata dalla ruota idraulica; quest’ultimo è
un passo avanti importante perché non solo aumenta la produttività ma anche perché le industrie,
svincolate dalla dipendenza e dalla vicinanza dall’acqua, si possono concentrare nell’area di
Manchester e Liverpool. Tutto ciò concerne alla filatura che, stimolata all’inizio da questo
squilibrio, non solo si adegua ma, addirittura, ribalta le condizioni: è la filatura, dopo alcuni
decenni, a trovarsi in condizioni di vantaggio e ad esercitare pressione sulla tessitura i cui progressi
sono più lenti. La spoletta volante si diffonde più ampiamente solo nella seconda metà del secolo e
fino al 1800 non vi è nulla di particolare; cominciano poi ad apparire dei telai semiautomatici e
solo negli anni 40 dell’800 i telai meccanici raggiungono la perfezione tecnica e diventano un
sistema di tessitura più conveniente e confacente rispetto a quello dei tessitori artigianali:
diminuisce il costo di produzione e diminuisce la necessità di impiegare una manodopera
particolarmente qualificata come era quella dei tessitori artigianali. Le altre operazioni di
finissaggio rifinitura si meccanizzano in tempi più lenti: un accenno merita la vicenda dei luddisti
dello Yorkshire dove alcuni lavoratori preoccupati e arrabbiati nel timore di perdere il lavoro a
causa delle nuove macchine (macchine del finissaggio) si ribellano e metto in atto una serie di
episodi di danneggiamento delle macchine; questo accenno è importante per far capire come la
modernizzazione che, complessivamente, spesso, porta un vantaggio per la collettività, tuttavia,
comporta anche degli sconfitti e delle sofferenza secondo il principio di distruzione creatrice: una
serie di innovazioni consentono nuove opportunità e un miglioramento complessivo ma
comportano anche dei danni per chi, invece, traeva vantaggio e guadagno da equilibri e tecnologie
precedenti.
Questo è un quadro che vede nell’Inghilterra, prima ancora all’interno degli equilibri precedenti
che pur stanno mutando, ancora una crescita di tipo preindustriale avanzata e poi iniziare uno
sviluppo di tipo industriale: arriviamo quindi alla definizione che “L’Inghilterra è il primo paese
industriale” che non è una mera descrizione ma, per la prima volta, nella storia dell’umanità, una
comunità si occupa in primo luogo e produce la propria ricchezza nell’ambito delle attività di tipo
secondario, aspetto che cambierà enormemente un sacco di aspetti della vita inglese dapprima e
dell’umanità. Il 1851 è una data simbolo perché viene inaugurata la grande esibizione universale
del Cristal Palace, uno straordinario edificio di acciaio e cristallo che è il simbolo del concetto e
della realtà della Gran Bretagna come fabbrica del mondo. A metà 800, in Gran Bretagna, che è già
una nazione industrialmente matura, si producono circa 2/3 del carbone mondiale, metà della
ghisa, il 70% dell’acciaio, metà del tessuto di cotone prodotto in modo industriale e il 40% delle
macchine utensili: essa è la “fabbrica del mondo”. Anche in altri paesi europei e anche in qualche
paese extraeuropeo si comincia a capire che questa crescita inglese non è solo una realtà
strettamente economica e confinata solo in alcuni settori come il cotone ma questa
industrializzazione sta cambiando moltissime cose, sta influenzando la strategia e la guerra, le
relazioni sociali e via di seguito; ecco quindi che si pone il problema di emulare la Gran Bretagna:
essa, a partire da alcune sue contee, è il primo caso di industrializzazione che cambia la Gran
Bretagna stessa e gli equilibri mondiali sul piano economico, politico e militare e questi
cambiamenti si rendono sempre più evidenti per cui diventano una sfida per molti altri paesi.
Vedremo quindi come l’emulazione dei paesi dell’Europa continentale cambierà la mappa anche
industriale dell’Europa e poi del mondo. Tra il 1801 e il 1851, la popolazione inglese quasi
raddoppia perché questi decenni non sono caratterizzati solo da macchine e tessuti ma c’è una
modernizzazione dell’agricoltura senza la quale probabilmente non sarebbe stato possibile
spostare i britannici dalle campagne alle città e alle industrie urbane: cambia anche la struttura

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demografica inglese perché c’è un forte inurbamento soprattutto nel 1840 quando, per la prima
volta, la popolazione urbana britannica è superiore a quella rurale; a livello mondiale, invece, la
popolazione urbana ha leggermente superato quella rurale solo negli ultimi anni (solo all’inizio del
XXI secolo): la Cina è stato il paese che ha contribuito a ciò. Abbiamo quindi un inurbamento in
Inghilterra e un incremento demografico delle città industriali: la popolazione si sposta verso
settori a maggiore produttività (dall’agricoltura all’industria) e negli anni 40 c’è una significativa
immigrazione dall’Irlanda. Come mai proprio negli anni 40 ci sono questi emigranti dall’Irlanda?
Una malattia della patata, alimento base della società irlandese, ha conseguenze devastanti:
migliaia di morti e molti irlandesi abbandonano la patria. Questi cambiamenti demografici e
geografici sono importanti perché aumenta il numero e il peso demografico delle maggiori città di
provincia (non solo Londra o Manchester) e ciò significa che c’è un intreccio tra sviluppo
economico e sviluppo urbano: non c’è solo la crescita londinese; città industriali, porti, empori
commerciali, centri di servizio attraggono queste città di vario genere e attraggono la popolazione
rurale circostante. Attorno al 1830, l’industria supera l’agricoltura nella formazione della ricchezza
nazionale: la Gran Bretagna è diventata un paese con un’economia prevalentemente industriale
(ciò non significa che l’agricoltura non conti più nulla); il tasso annuo di sviluppo del reddito
agricolo si fa meno significativo rispetto al corrispettivo tasso di crescita del reddito industriale.
Agli inizi dell’800 quello che noi avevamo chiamato come “crescita settecentesca” (crescita
importante ma ancora nell’alveo delle economie preindustriali) è diventato “sviluppo”: la ricchezza
globale britannica cresce di circa 3 volte nella prima metà dell’800; il tenore di vita medio cresce
anche sensibilmente a partire dagli anni 20, soprattutto nei decenni successivi: i benefici della
crescita di ricchezza complessiva, pur goduti in primo luogo dai ceti imprenditoriali e dai
benestanti, cominciano a lasciar avvertire i propri frutti anche ai ceti operai e a chi non è
particolarmente in alto nella scala sociale. Che a ciò si arrivi agevolmente e senza sofferenze non è
vero: questi miglioramenti che ci sono stati nel corso dell’800 sono giunti dopo anche sfruttamenti
e sofferenze.
Un tema importante è il tema dell’assenza di barriere all’ingresso: questo non c’entra niente con il
liberismo perché non si parla di assenza di barriere all’ingresso delle merci in Gran Bretagna ma si
intende dire che, in quel contesto, l’entità degli investimenti per entrare in un determinato settore
industriale era, non trascurabile, ma neppure enormemente proibitivo; queste innovazioni
tecnologiche non erano a costo zero ma non sono tecnologie avanzate o impianti di enormi
dimensioni che richiedevano investimenti particolarmente cospicui. Nella prima metà dell’800,
infatti, lo sviluppo industriale britannico è favorito proprio da questo scarso capitale necessario da
investire per entrare nei settori produttivi; molte innovazioni sveltiscono i ritmi di produzione,
uniformano i prodotti, assicurano economie nelle materie prime e nei tempi di produzione,
esigono minore energia per unità di prodotto. Alla fine del 700, l’investimento maggiore è la
macchina a vapore che, certamente, costa (costa come impiegare in un anno 125 operai) ma
rende 8 volte di più: la seconda rivoluzione industriale, invece, è caratterizzata da alta tecnologia,
maggiori legami con la scienza e dimensione degli impianti maggiori per cui comprare una
macchina a vapore è sì oneroso e impegnativo ma, tuttavia, non è tanto oneroso e impegnativo
come impiantare o sviluppare una centrale elettrica o un impianto siderurgico. Inizialmente la
macchina a vapore viene utilizzata in comparti a più elevata intensità di capitale fisso: l’industria
estrattiva e l’industria siderurgica; a sua volta, però, l’estrazione di carbone a buon mercato
stimola l’investimento in macchine a vapore e si crea una sorta di circolo virtuoso perché sarà più
facile alimentare le macchine a vapore; inoltre, questo significa anche estendere la
meccanizzazione con la macchina a vapore a settori non subito coinvolti da questa
meccanizzazione a vapore, per esempio, il cotonificio: anche le successive innovazioni del filatoio,
inizialmente, vengono alimentata dall’energia idraulica e poi dal vapore. Se analizzati in
prospettiva storica, questi investimenti della macchina a vapore sono meno selettivi e meno

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problematici di quanto saranno successivamente: sono state fatte delle stime che dimostrano
come ciò non fosse, naturalmente, alla portata di chiunque ma non sono richiesti investimenti di
una portata tale da fungere forte elemento di selezione (c’è una selezione ma non così
drammatica). Tra il 1770 e il 1830, in sostanza, in Gran Bretagna si può diventare imprenditori
senza dover disporre di grandissime risorse finanziarie: bisogna avere del denaro da investire,
certamente, ma non in quantità enorme e le imprese, una volta iniziata la loro produzione, spesso
si potevano alimentare reinvestendo i profitti significativi che cominciavano a fare. Abbiamo prima
accennato al capitale fisso e vediamo il ruolo e il peso del capitale fisso: per certi versi, la
rivoluzione industriale, dal punto di vista tecnologico ed economico, può essere anche definita
come il trionfo del capitale fisso perché aumenta la produttività grazie alle macchine anziché alla
manodopera e i macchinari riducono la necessità di manodopera; il capitale fisso sono gli attrezzi,
le macchine, macchinari complessi, gli edifici i quali sono tutti elementi che caratterizzano la
rivoluzione industriale perché quest’ultima è proprio la rivoluzione delle macchine. Quindi,
particolarmente importanti sono i macchinari nel settore siderurgico e meccanico che richiedono,
comparativamente, maggiori investimenti in capitale fisso rispetto al cotone dove, invece, è
importante anche il capitale circolante (scorte di materie prime o prodotti finiti, salari, crediti alla
clientela) ma che comunque anche il capitale fisso gioca un suo ruolo perché ci sono le macchine
prima alimentate dalla ruota idraulica e poi dalla macchina a vapore. Naturalmente ci sono fasi e
problemi perché, per esempio, fino al 1830, a causa della notevole ed elastica offerta di
manodopera a buon mercato, dovuta alla decadenza nel tradizionale sistema del lavoro a
domicilio, alla crescita demografica e all’immigrazione irlandese, il costo del lavoro resta basso per
cui questo significa che gli investimenti in capitale fisso ci sono ma non sono importanti. Un
aspetto importante quando si parla di capitale fisso e di macchinari è quello delle fonti
energetiche: la macchina a vapore, prima di essere alimentata dal vapore, era alimentata tramite i
mulini ad acqua, i quali, prima di essere sostituti dal vapore, vengono comunque perfezionati
perché vengono introdotte le turbine. Anche nei cotonifici ci sono incrementi di capitale fisso e
delle concentrazioni nelle fabbriche di tutte le fasi preparatorie, di filatura, di tessitura, di finitura
e di finissaggio: ciò significa che gli stabilimenti crescono di dimensioni e di complessità e hanno
più capitale fisso.
Altri investimenti importanti sono i cosiddetti investimenti infrastrutturali: dall’inizio dell’800,
grossi capitali vengono investiti in infrastrutture viarie per costruire e per la manutenzione di vie
d’acqua; nei primi decenni dell’800 c’è la cosiddetta “frenesia di canale”, ovvero, di costruire canali
interni. I canali sono fondamentali per creare un mercato nazionale: sui canali non si trasportano
tanto merci pregiatissime ma merci di basso valore intrinseco e unitario e ingombranti che, per
diventare profittevoli nell’attività commerciale devono essere commerciate in grandi quantità; c’è
una specializzazione che si fa strada nei trasporti: c’è la navigazione di cabotaggio, la navigazione
sulle acque interne, le strade, le ferrovie a traino di cavalli ma anche le ferrovie come le
intendiamo oggi e, soprattutto negli anni 40, ci sono investimenti enormi e risorse economiche che
vengono indirizzate verso il settore ferroviario. Tutto ciò comporta innovazioni nel settore
finanziario, comporta grande movimentazioni di materiali e comporta anche una certa
riorganizzazione nella gestione di queste imprese ferroviarie perché si occupano di diverse cose
contemporaneamente tra cui i treni, le infrastrutture, il trasporto merci e il trasporto passeggeri.
La Gran Bretagna, tra il 30 e il 50, è il primo paese a creare compiutamente una propria rete
ferroviaria, seguita dal Belgio.
Una riflessione importante va anche fatta sul tema del legame tra impresa, credito e moneta: fino
alla metà dell’800, la maggior parte delle imprese britanniche sono ancora a carattere individuale
o familiare, ovvero, c’è una sostanziale coincidenza tra la proprietà e la gestione; questo ha diverse
spiegazione storiche perché nel 1720 abbiamo il “Bubble Act”, ovvero, la legge relativa alla bolla
finanziaria che si era verificata negli anni precedenti perché queste compagnie speculative che si

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legavano ai commerci coloniali avevano lasciato sul lastrico una bella quantità di investitori per cui
le società anonime, che erano state legate a queste speculazioni, avevano visto crescere in modo
abnorme una bolla, ovvero, delle quotazioni di mercato non collegate a realtà economiche
sottostanti solide per questo si parla di bolla. Era stata varata questa norma a causa dei danni e
della rovina di alcuni investitori e questo Bubble Act del 1720 prevedeva solo società in nome
collettivo dove ciascun socio rispondeva solidalmente per le obbligazioni della società; non è che
non ci siano più società per azioni a responsabilità limitata: esse esistevano ma la loro costituzione
non era semplice né agevole né a buon mercato e la responsabilità limitata verrà introdotta solo
negli anni 50 e 60 dell’800 in modo normato e strutturalmente organico (quelle società che hanno
un capitale frazionato in azioni che sono liberamente trasferibili sul mercato). Ancora nel 1885,
però, le SRL (join-stock company) erano minoritarie: questo ci fa capire come certi sviluppi siano
lenti e graduali. L’identità tra impresa e famiglia limitò le fonti di approvigionamento di capitali a
facilitazioni prestate da grossisti agli industriali loro fornitori e all’autofinanziamento derivante
dalla mancata o parziale distribuzione di utili, posto che ai soci era generalmente liquidata ogni
anno una percentuale fissa dalla somma inizialmente investita; a parte il reinvestimento dei
profitti, la principale forma di finanziamento fu lungamente rappresentata dal credito commerciale
a breve offerto dai banchieri. Per costruire tratte ferroviarie e gestirle ci voleva molto denaro per
cui spesso si rastrellava questo denaro emettendo azioni: titoli di società assicurative e ferroviarie,
emessi a partire dagli anni 30, attraggono investimenti e speculazioni da parte di banchieri, di
mercanti, di industriali ma anche di possidenti redditieri. Un cenno va fatto al tema della moneta e
della sterlina, la quale diventerà uno degli elementi cruciali della potenza economico finanziaria
britannica: negli anni tra fine 700 e inizio 800, periodi di guerre protratte e costose portano, in
genere, i governi a stampare moneta. In questo periodo viene sospesa la convertibilità della carta
moneta emessa dai banchieri inglesi in oro perché la spesa militare aumenta (quindi aumenta la
spesa pubblica) e, per pagare lo stipendio ai soldati, gli eserciti e le navi, ci voleva tanto denaro
quindi se ne stampa sempre di più e troppo rispetto alle riserve auree e argentee per cui c’è il
rischio di non averne a sufficienza se tutti si presentassero chiedendo la conversione in metalli
preziosi; in queste condizioni, quindi, si deve sospendere la convertibilità della carta moneta:
come conseguenza, c’è un’inflazione di mezzi di pagamento, i prezzi e salari aumentano e il debito
pubblico aumenta. Questa è una situazione che si può accettare dal punto di vista inglese in una
fase di eccezionalità di emergenza bellica ma non può durare in eterno: ecco quindi che la moneta
(la sterlina), deteriorata negli anni precedenti, nel 1816 viene rivalutata, nel 1819 con il Peel Act
viene ancorato il valore della sterlina all’oro e si limitano le emissioni delle banconote alle
disponibilità di metallo presso le banche (naturalmente non è un ancoraggio e una corrispondenza
totale ma vengono posti dei limiti). Alcuni studiosi, in realtà, hanno sottolineato come, più che
l’ancoraggio all’oro, quel sistema detto “sistema aureo” era incentrato, certamente, sull’oro ma
anche sulla sterlina che, essendo la Gran Bretagna la fabbrica del mondo, di fatto, rendeva la
sterlina la moneta dominante negli scambi e nelle attività economiche internazionali: detenere
sterline ti consente di comprare tutto; la Gran Bretagna, quindi, inaugura questo sistema aureo
(Golden standard) adottato poi dalla maggior parte dei paesi che semplifica i rapporti
internazionali per tutto l’800. Nei secondi anni 10 e all’inizio degli anni 20, intanto, la Banca di
Inghilterra, nata iniziamene come una banca privata ma che stava sempre più acquisendo un ruolo
centrale e di controllo del sistema monetario e bancario britannico, aveva rimpinguato
sensibilmente le proprie riserve auree e viene quindi reintrodotta la convertibilità della sterlina in
oro: questo è possibile per i due motivi appena menzionati perché, da un alto, le emissioni
vengono tenute sotto controllo dato che non è più in guerra e, dall’altro, le riserve vengono
nuovamente arricchite. Tutto questo ha fatto pensare a molti studiosi che un paese come
l’Inghilterra che stava sviluppando le proprie capacità produttive non potesse basarsi soltanto su
quella notevole ma limitata e controllata disponibilità di sterline collegata all’oro: questo avrebbe

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potuto indurre una forte e insidiosa deriva deflazionistica, ovvero, di scarsità di mezzi di
pagamento rispetto alla notevole mole di transazioni economiche; in realtà, questo rischio,
secondo alcuni studioso, non si realizzò perché accanto alle sterline carta moneta c’è il credito e i
depositi bancari, ovvero, un sistema ben oliato e che riesce ad alimentare lo sviluppo economico e
il dinamismo britannico. Il fabbisogno di mezzi di pagamento, quindi, sarebbe coperto dalle
banconote e dalle aperture di credito delle banche di Londra e della provincia: qui arriviamo ad un
momento importante, ovvero, al ruolo e alla natura delle diverse banche. Negli anni 30 abbiamo
una rete di banche classificate in quattro livelli tra loro collegati e distinti: abbiamo Joint Stock
Banks che sono società in nome collettivo che accettano depositi a vista e breve termine utilizzati
da commercianti; abbiamo su un altro livello i Bill Brokers e le Discount House dove le prime sono
delle aziende individuali mentre le seconde sono, invece, delle società per azioni: scontano
cambiali di commercianti industriali che venivano poi riscontate presso le Joint stock banks. Nel
terzo livello c’erano i Merchant bankers e le Expected House che erano aziende individuali e
familiari, avallarono effetti cambiari facilitandone la cessione e lo sconto; infine, abbiamo le
Colonial Banks e le Foreing Banks attive nei settori connessi con la navigazione, il commercio
coloniale e le attività all’estero. È un sistema con il vantaggio di essere un sistema efficiente in
quanto a informazioni e relazioni perchè è un sistema basato sulla fiducia degli operatori e tra gli
operatori: questo ha un significato economico importante perché tutto ciò diminuisce il rischio e il
costo del denaro e questo è un vantaggio per chi deve prendere a prestito dei capitali; Londra
attrae capitali esteri e diventa la prima piazza bancaria e finanziaria del mondo. Tra il 33 e il 44, la
legislazione bancaria venne affinata e perfezionata, i biglietti della banca di Inghilterra hanno corso
legale cioè che devono essere accettati in pagamento: la banca di Inghilterra manovra il tasso di
sconto in modo tale da gestire anche la situazione monetaria e finanziaria ed essa, di fatto, diventa
l’istituto di risconto finale, ovvero, la banca di tutte le altre banche. Nel 44 abbiamo altre riforme
che permettono una regolamentazione ancora più precisa nell’emissione cartacea contro le
speculazioni per cui la banca di Inghilterra, che svolge una funzione monetaria e bancaria, diventa
il perno del sistema. Naturalmente non c’è solo la banca di Inghilterra: essa svolge una funzione
monetaria rigidamente regolata abilitando la banca di Inghilterra ad emettere circa 14 milioni di
sterline senza obbligo di riserva e i biglietti eccedenti questa soglia devono essere completamente
coperti in monete o lingotti d’oro di riserva. Ci sono circa 280 altre banche che, allora, emettevano
banconote e non c’era, come ora, un’unica banca come la BCE: altre banche, meno importanti
della banca di Inghilterra, emettevano altre banconote e ancora nel 1900 ci sono circa 60 banche
in Inghilterra che possono emettere banconote ma pian piano vanno a scomparire. C’è una
questione nell’importanza della manovra del tasso di sconto perché, così facendo, la banca
centrale può espandere o contrarre la massa monetaria circolante. Questo sistema si regge
sull’oro e sulle riserve metalliche e quindi sui biglietti emessi dalla banca di Inghilterra e dalle altre
banche ma anche sul credito e sui depositi.
Aggiungiamo qualcosa sulle reazioni della società al capitalismo industriale: facciamo riferimento
al fatto che ci sono ceti operai che soffrono notevolmente, si diffonde il malcontento, ci sono
episodi di sangue come il massacro di Peterloo negli anni 20, il malcontento operaio aumenta
perché si percepivano salari da fame per orari di lavoro impegnativi (oltre le 60 ore settimanali) e
in condizioni precarie; in alcuni casi il cambiamento della residenza e del ritmo di lavoro è
traumatico: uomini, donne e bambini non si adattano spontaneamente al lavoro di fabbrica e alla
vita in città motivo per il quale ci furono delle leggi sul lavoro che prevedevano la prigione per gli
operai che rompessero il contratto di lavoro. Le città spesso sono città in cui ci sono condizioni
igienico-sanitarie ed economiche molte dure, sono caratterizzate dallo smog (fumo che deriva
dall’utilizzo del carbone di miniera), servizi pubblici ed igienici carenti e talvolta assenti, spazi di
incontro che non esistono, famiglie numerosissime che vivono in una o due stanze. Dopo il 1830,
questo intenso influsso di abitanti delle aree rurali e di irlandesi fa innalzare la mortalità per il

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colera, per il tubo, per la tubercolosi, per le malattie esantematiche dei bambini. Ci sono dei
mutamenti: progressivamente si comincia a godere, anche al di fuori della cerchia ristretta dei
ricchi, di certi benefici della maggiore ricchezza complessivamente prodotta per cui ci sono dei
miglioramenti che toccano fasce ampie delle popolazione. Ci sono anche delle riforme politiche di
un certo interesse: nella prima metà dell’800 i periodici malcontenti e malesseri sociali fanno
sorgere anche in una parte della borghesia un’attenzione verso i ceti popolari per cui l’idea è che
se si vuole mantenere la nuova economia industriale in funzione bisogna evitare che gli ultimi
vengano vessati; nella borghesia, alcuni cominciano a porsi il problema di come, senza sovvertire
l’ordine socio economico e politico, dare spazio anche agli interessi e alle richieste dei meni
abbienti e di coloro che lavorano più duramente. Negli anni 30 il movimento diventa più politico e
comincia a farsi largo l’idea dello sciopero generale e del sindacato: non è un sindacato
pienamente maturo ma è l’idea di un’associazione di gruppi che rappresentassero gli interessi dei
lavoratori. Nel 1832 viene approdato il Reform Bill, ovvero, una riforma importante dei collegi
elettorali uninominali: il problema che stava emergendo è che in una società, ormai largamente
industrializzata, la rappresentanza politica non è più rispondente alla realtà della demografia e
dello geografia residenziale inglese, ovvero, si sono sviluppati dei borghi putridi che erano dei
luoghi un tempo importanti in termini demografici ed economici ma che in quell’epoca sono stati
svuotati dalle migrazioni e dalle trasformazioni dell’economia inglese. È chiaro, quindi, che la
geografia dei collegi elettorali deve essere rifatta: bisogna assegnare più seggi alle città che sono
più popolate e diminuire il numero dei seggi attribuite alle contee rurali; inoltre, potranno votare i
maschi con almeno 10 sterline di entrata annua. Interessante è anche tornare su un argomento già
trattato, ovvero, i mutamenti socio economici profondi che si verificano tra il 1800 e il 1830
spingono il parlamento a rivedere la politica di assistenza ai poveri e alla classe operaia industriale:
nel 1834 vengono fondate le Work House parrocchiali in cui le autorità riuniscono disoccupati che
vengono impiegati con salari minori rispetto a quelli del mercato; prevale ancora una mentalità
per cui il povero è, sostanzialmente, un fannullone che va istituzionalizzato e controllato a
beneficio degli interessi borghesi. Già alla fine del 700 si era riformato il vecchio sistema delle Poor
Loos ed era subentrato il sistema di Speenhamland che da questa località viene estesa a tutta la
Gran Bretagna: questi poveri vengono trattenuti nei luoghi d’origine e l’onere di finanziare
l’assistenza a costoro grava sui proprietari fondiari; è una mossa a favore degli imprenditori che, in
questo modo, possono pagare salari minimi senza che venga messa a rischio la sopravvivenza dei
nuclei famigliari più poveri perché costoro, è vero che percepiscono salari bassi, ma possono
sopravvivere.
Questo è un quadro sommario per tratteggiare il fenomeno della rivoluzione industriale inglese
nella sua complessità tecnologica, economica, geografica, demografica, sociale, politica. Vediamo
un ultimo aspetto, prima di vedere l’emulazione continentale, che ci porta a capire come mai
l’Inghilterra, toccato il culmine a metà 800 come fabbrica del mondo, comincerà un declino:
dobbiamo intendersi su cosa voglia dire passare dal primato al declino perché non è un declino
assoluto ma relativo. Il problema è che negli anni 30, 40, 50 e primi anni dell’800, l’Inghilterra e gli
inglesi erano al culmine del loro potere e dominio economico ma, successivamente, altri paesi
raggiungono la Gran Bretagna e la superano e in alcuni settori le imprese britanniche verranno
superate. Vediamo come, per certi versi, lo stesso successo inglese stimola l’emulazione altrui ed
altri paesi sapranno approfittare di questi vantaggi per raggiungerla e superarla: un primo passo
importante è quello che vedrà la Gran Bretagna dominare ma anche subire il libero scambio
internazionale. La Gran Bretagna ha un mercato interno ricco e importante ma non enorme quindi
l’export di manifatture industriali è strategico per lo sviluppo britannico fin dal primo 800,
nonostante l’Inghilterra avesse una tradizione in parte protezionistica; vengono varate in quegli
anni, nel 1815, anche delle leggi (le Corn Law) di protezione contro le importazioni a buon mercato
di cereali perché i produttori cerealicoli ancora erano ben rappresentati nel parlamento eletto con

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la geografia dei seggi vecchi e forte è la protezione per i prodotti industriali. Intanto, però,
cominciano, a livello di opinione pubblica, a diffondersi punti di vista differenti: le opinioni libero
scambiste vengono allo scoperto; un propugnatore del libero scambio è David Ricardo, il quale
ritiene che i dazi sul grano mantenessero artificiosamente elevati i prezzi dei beni di prima
necessità e quindi dei salari (questo non contraddice quanto detto prima in riferimento ai bassi
salari perché non stiamo parlando di alti o bassi in assoluto): egli dice che senza i dazi sulle
importazioni di cereali, i cereali potrebbero essere importati da paesi che li farebbero pagare
meno di quelli indigeni-inglesi e, di conseguenza, i beni di prima necessità (il pane) costerebbe di
meno per cui gli operai potrebbero essere pagati un po’ meno perché salari inferiori sarebbero
comunque sufficienti a comprare un pane che costa meno di quello che costa a causa delle Corn
Law. La situazione, quindi, secondo Ricardo, in questo modo, danneggia gli interessi industriali, i
quali se potessero pagare dei salari inferiori potrebbero esportare ancor più di quanto già non
facevano: si sta quindi profilando un conflitto di interessi tra gli interessi agrari e quelli industriali.
Nel 22 si cominciano a fare strada alcuni abbassamenti e attenuazioni di dazi doganali sulle
materie prime e sui prodotti industriali, vengono attenuati i famosi atti di navigazione, soppressi
alcuni proibizioni, nel 33 viene abolita la schiavitù, vengono introdotte maggiori regolamentazioni
sul lavoro femminile e infantile e vengono abbassati ulteriormente alcune tariffe doganali.
Tuttavia, perché si potesse davvero cambiare registro definitivamente e strutturalmente ci
volevano dei passi più robusti perché gli ostacoli all’adozione di un’organica politica
liberoscambista erano due: il primo è la finanza pubblica dello stato inglese perché il gettito delle
dogane (il gettito della politica protezionistica) era una voce importante del bilancio statale
inglese; se si vuole impostare un cambiamento e cancellare le politiche protezioniste, bisogna
trovare cespiti alternativi per lo stato rispetto alle dogane: ci vuole, quindi, una riforma fiscale
generale, la quale avverrà introducendo l’imposta sul reddito e avviando a soluzione il tema
dell’ammortamento del debito pubblico. Secondo elemento che ostacola una riforma in senso
libero scambista era il tema che viene risolto dal Reform Bill: c’era ancora una notevole influenza
politica degli interessi fondiari che, nella società inglese, contavano meno rispetto ai decenni
prima ma che, non essendo ancora stata mutata la geografia elettorale inglese, venivano ad essere
sovra rappresentati nel panorama dei collegi elettorali e quindi dei seggi parlamentari inglese; la
riforma elettorale del 32 porta, cambiando la geografia dei seggi, in parlamento molto più
numerosi rappresentanti degli interessi industriali e mercantili liberisti. Tutto ciò, insieme con la
mobilitazione di opinione pubblica, nel 42 il conservatore Robert Peel vara una riforma solo
abbozzata precedentemente dai governi liberali: vara i provvedimenti di liberalizzazione culminati
nel 46 con l’abolizione totale delle Corn Law e nel 49 degli atti di navigazione; nella prima metà
dell’800 emerge sempre di più il ruolo fondamentale del movimento delle merci (la bilancia
commerciale), dei proventi dai servizi e il peso crescente dei profitti degli investimenti all’estero.
Questa forte dipendenza dall’estero è un vantaggio per certi versi ma è anche un limite perché fa
dipendere una parte della prosperità britannica da altri attori politici, economici e commerciali:
con la metà del secolo, oltre alla manifattura, la vera forza della Gran Bretagna diventa sempre di
più quella dei servizi, delle riesportazioni coloniali, dell’esportazione di capitali perché si produce
talmente tanta ricchezza che i capitali finanziari vengono sì reinvestiti nelle imprese ma vengono
esportati all’estero; così facendo, gli investitori di questi investimenti diretti esteri ci guadagnano
ma questi capitali, in parte, vanno anche a creare ricchezza all’estero e contribuiscono a creare
delle condizioni favorevoli in alcuni dei paesi recettori di questi investimenti diretti esteri. Questo è
un primo elemento che mostra come il successo stesso della Gran Bretagna, in qualche misura,
comporti anche delle esportazione di capitale e di conoscenze che in alcuni paesi troveranno
terreno fertile e alimenteranno la concorrenza. Qui c’è un discorso complesso riguardo ai vantaggi
e agli svantaggi relativi di “coloro che arrivano per primi e poi successivamente ad
industrializzarsi”: in poche parole, chi arriva per primo (la Gran Bretagna) ha dei vantaggi perché

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sceglie la sua strada, all’inizio non si deve confrontare con paesi più avanti di lei, può commettere
degli errori e riprovare. Tuttavia, ci sono anche degli svantaggi perché non si hanno esempi
precedenti a cui fare riferimento e, con il tempo, quelle che erano state le innovazioni iniziali
possono diventare meno adeguate per cui ho investito capitale in tecniche che potrebbero essere
in fasi successivi meno competitive rispetto ad altre innovazioni più recenti; inoltre ci può essere
una tendenza a rallentare l’innovazione mentre altri possono trarre spunto dagli errori e/o dagli
esempi positivi della Gran Bretagna e, nel cercare di emulare la Gran Bretagna, possono sviluppare
degli strumenti che possono rivelarsi vantaggiosi che la Gran Bretagna non aveva. Questo non
significa che la Gran Bretagna tracolli ma, nei settori più importanti della produzione della seconda
rivoluzione industriale, saranno altri paesi a dominare: un relativo declino legato sia alla crescita di
altri paesi che hanno anche più risorse sia ad un relativo declino interno della Gran Bretagna che è
più lenta a prepararsi alle fasi successive dello sviluppo industriale.
L’EMULAZIONE CONTINENTALE: L’EUROPA INDUSTRIALE (1830-1914)
Comincia un processo complesso, ciascun paese con le proprie caratteristiche, di trasferimento
tecnologico parziale, di riorganizzazione economica e di acquisizione di capitali che consente ad
alcuni paesi di imboccare una strada simile a quella britannica. Ci sono delle condizioni che
favoriscono il fatto di potersi avviare su questa strada come l’esistenza di riserve di produttività in
agricoltura, la disponibilità di carbone e di ferro, acqua corrente, buone vie di comunicazione, più
bassi costi di trasporto, porti sull’Atlantico, collegamenti con i maggiori centri commerciali e
finanziari internazionali, elevate specializzazione di base nella manodopera artigianale, sistema
legale dei brevetti, livelli elevate di alfabetizzazione: non tutti i paesi hanno questi requisiti ma
hanno almeno alcuni di questi elementi. Belgio, Svizzera, Francia e parte della Germania
cominceranno in questi primi decenni mentre il resto dell’Europa tra cui l’Italia dovranno aspettare
la parte conclusiva del secolo per industrializzarsi durante la seconda rivoluzione industriale. Ci
sono aspetti culturali, sociali, istituzionali e tecnologici che possono favorire il fenomeno di
emulazione continentale, la quale avviene anche grazie a delle migrazioni di alcuni tecnici inglesi:
in quel periodo, le tecniche si muovevano, più che attraverso i libri e le conoscenze teoriche,
attraverso le persone. Vedremo come si concretizzeranno questi fenomeni di emulazione
continentale a partire dal caso belga, il primo caso in cui compiutamente un paese riesce ad
emulare il caso britannico: il Belgio è il primo paese industriale del continente. Il Belgio è un paese
giovane e plurisecolare: ci sono componenti, di quello che poi, a partire dal 1830, diventerà la
monarchia costituzionale belga, che hanno una storia economica prestigiosa fin dal medioevo. Il
Belgio nasce nel 1830: c’è una storia medievale fatta di signori, conti e duchi; nel 600 fino ai primi
del 700, il futuro Belgio sarà sotto il dominio della Spagna mentre ai primi del 700 passa sotto il
dominio di un’altra potenza asburgica, l’impero austro-ungarico; in epoca napoleonica, il Belgio
viene occupato e dominato da Napoleone (dalla Francia) e la vicenda di Napoleone è molto legata
al Belgio perché in questo paese è avvenuta la battaglia di Waterloo. Dopo il congresso di Vienna
che risistema la mappa europea, il Belgio, insieme con il Lussemburgo, viene unito all’Olanda:
questa situazione non è gradita a tutti i belgi perché l’Olanda è vero che è un paese ricco ma ci
sono profonde differenze economiche, religiose e culturali per cui il Belgio nel 1830 riesce a
staccarsi dall’Olanda e diventa un paese indipendente con la struttura istituzionale e costituzionale
di una monarchia costituzionale, simile al caso britannico. Quando si parla del Belgio, dobbiamo
ragionare sia sul lungo che sul breve periodo sia prima che dopo il 1830 perché, ad esempio, nel
1810, in questo paese, il prodotto industriale pro-capite è secondo solo a quello britannico: ciò
significa che già prima della nascita formale del Belgio, quest’aera aveva una sua entità industriale,
un’economia dinamica e modernizzata/industrializzata in modo significativo; il Belgio sarebbe poi
stato in cima alle classifiche per tutto l’800 e sarebbe stato una potenza industriale ed economica
importante. Quali sono alcuni degli elementi che contribuiscono a spiegare il precoce ed intenso

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sviluppo industriale del Belgio? Ci sono vantaggi legati alla posizione che, però, non dobbiamo
interpretare in senso deterministico perché la geografia non determina da sola il successo
economico: esso è vicino alla Gran Bretagna ed è vicino ad aree confinanti che sono interessanti
dal punto di vista economico come i Paesi Bassi, la Francia del nord e l’Alta Renania. Inoltre, il
Belgio ha una dotazione di fattori di produzione e di risorse naturale che è non troppo dissimile
dalla Gran Bretagna: ciò non significa che per industrializzarsi uno deve per forza vantare la stessa
“natura” socio-economico, la stessa struttura e le stesse dotazioni di risorse della Gran Bretagna; il
Belgio dispone il carbone che è il pane della prima rivoluzione industriale, è ricco di ferro, ha dei
grandi fiumi che aiutano i trasporti interni nonostante le sue piccole dimensioni. Oltre ad un
passato glorioso, il Belgio ha anche una solida tradizione di manifattura tessile in città e in
campagna tanto è vero che il famoso concetto di “proto industria” era stato coniato dagli studiosi
studiando alcune aree del futuro Belgio; c’è anche un punto di forza istituzionale rappresentato
dalla monarchia, la quale nel 35 avrebbe promosso la Banca centrale (Banque de Belgique) e,
inoltre, una certa élite pre belga già nel 22 aveva fondato quella che sarebbe divenuta il potentato
economico del paese, ovvero, la Societe Generale de Belgique (la prima banca d’affari europea).
Tra il 34 e il 43, il paese vede, ricalcando il percorso britannico seppure su dimensioni ridotte, la
costruzione di una reta ferroviaria: la rete ferroviaria belga è la prima che viene completata sul
continente; in questo caso è interessante vedere il rapporto tra stato e privati riguardo a queste
importanti iniziative infrastrutturali: lo stato fa le spese di impianto e gestisce la rete. Questa
costruzione è importante perché il Belgio sarà meglio collegato con i vicini mercati e polarizza
(attrae verso di sé), con evidenti vantaggi economici e logistici, i traffici tedeschi verso la Gran
Bretagna. Abbiamo detto che c’è una lunga tradizione imprenditoriale e manufatturiera: la valle
della Mosa vede crescere, in questi decenni, la sue tradizionali industrie siderurgiche e
metalmeccaniche; ci sono tre grandi imprese tecnologicamente avanzate non distanti da quelle
più importanti della Gran Bretagna, tra cui, la Cockerill: alcuni imprenditori tecnici e attori
economici britannici si spostano verso altre realtà, impiantano nuove iniziative industriali e
mettono a frutto il loro know-how. La Cockerill ha 2000 operai, vi si lavora con alti forni, con
laminatoi e profilatoi, officine meccaniche, cantieri navali per cui è un primo esempio continentale
di integrazione verticale perché si ha il controllo da parte dell’impresa stessa di tutte le fasi
lavorative: si va dalla fusione del minerale per ottenere il metallo e poi le successive lavorazioni e
si va dalla materia prima al prodotto finito; non è sorprendente che nel 1835, proprio nelle officine
metalmeccaniche della Cockerill, venga prodotta la prima ferroviaria continentale. Queste imprese
sono finanziate da capitalisti industriali, da banche ma anche dallo stato per cui c’è un’interazione
e uno sforzo da parte di più attori che non ha nulla a che vedere con situazioni di socialismo ma
vede lo stato essere comunque, sia pure in un contesto fortemente capitalistico, un promotore e
accompagnatore importante di sviluppo. Interessante è anche la modernizzazione della gestione
dei giacimenti carboniferi che sono una delle risorse più importanti di cui dispone il paese ma non
c’è solo la siderurgia: c’è una lunga tradizione tessile e l’importanza dell’altra industria trainante
della prima rivoluzione industriale che è quella del cotone; dal 1300 la regione di Gand ha
un’intensa attività di panni lana e, a partire dal 700, proprio con la tipica struttura della proto
industria, in questa regione si sviluppa un’intensa attività di produzione di tele di lino. Attorno al
1770, alcuni mercanti imprenditori iniziano a stampare a colori (a rifinire) delle cotonate importate
dall’India: questo nuovo settore si organizza in modo più “industriale” con grandi manifatture
accentrate e non con tante botteghe decentrate con il put in house system (la manodopera è
concentrata in uno stabilimento di medio-grandi dimensioni); questo tipo di produzione (questo
cotone stampato) ha successo tanto all’interno del mercato belga quanto all’estero e, nello stesso
tempo, contribuisce alla formazione di una classe imprenditoriale esperta tecnicamente sul piano
gestionale: questo è un preannuncio importante per una successiva affermazione del settore
cotoniero con una piena e compiuta impostazione industriale. Dal 1821, ad esempio, viene creato

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un grande trust verticale tessile di Baeuvens che controlla, secondo una filiera verticale
concentrata, la fabbricazione di filatoi e di telai, l’importazione di materia prima, la fase della
filatura (quando dalla materia prima si producono i fili), la tessitura, la tintura e la
commercializzazione; abbiamo non solo tutta la filiera produttiva dall’importazione della materia
prima alla commercializzazione del prodotto finito con le varie fasi lavorative ma abbiamo la
fabbricazione dei macchinari che servono in queste fasi lavorative. Ci sono fasi di difficoltà, ad
esempio, alla fine del periodo napoleonico ma, tuttavia, dal 1820, Gand riprende e torna ad essere
il maggior polo cotoniero dell’Europa continentale. Ci sono sviluppi nel settore liniero e laniero:
anche qui c’è una lunga tradizione nella città di Verviers, anche qui inizialmente la tecnologia era
importata con ulteriori innovazioni in sede locale, si creano fabbriche moderne, cresce la
produttività e si concentrano le attività e ad integrarle verticalmente: siamo in un contesto ormai
diverso da quello preindustriale fatto di tante botteghe artigiane e/o del put in house system. Il
Belgio quindi vede, tra la fine del 700 e inizio del’800, seppure con alcune difficoltà, affermarsi un
ampio fronte produttivo di stampo industriale, tecnologicamente avanzato, organizzato secondo
criteri più moderni che consentono un incremento di produzione e di ricchezza per cui, infatti, il
PIL belga aumenta. Quali sono le caratteristiche fondamentale dell’industrializzazione belga? Le
caratteristiche fondamentali dell’industrializzazione belga sono la precocità dovuta al facile
accesso alla tecnologia innovativa inglese, l’intraprendenza imprenditoriale dei suoi imprenditori
privati con quell’interazione positiva con l’attore monarchico (lo stato), l’ampia disponibilità di
capitali poiché a partire dagli anni 30 le banche accrescono i loro legami con il settore industriale e
la propensione all’esportazione che aumenta costantemente nel corso dell’800 anche durante le
fasi di complessivo e generalizzato protezionismo. Durante, invece, i 20-25 anni di libero scambio
che caratterizzano la storia economica dell’Europa tra il 61 e l’87, il Belgio conosce una
ristrutturazione della sua struttura produttiva: ad esempio, perdono colpi il cotonificio e lanificio,
aumenta la produzione liniera e di canapa, c’è una crisi agricola ma aumenta la produzione e
l’esportazione dei prodotti siderurgici, del carbone, dei prodotti chimici, del vetro e dei macchinari.
Possiamo affermare, in conclusione, che nel 1860 il Belgio era il paese continentale più
industrializzato e, ancora mezzo secolo dopo, conservava il suo primato mentre la seconda
rivoluzione industriale vedeva il diffondersi molto più ampio in Europa di uno sviluppo industriale
significativo e vedeva paesi del continente raggiungere livelli produttivi e organizzativi che il Belgio
aveva già raggiunto.
In qualche misura paragonabile per le piccole dimensioni ma molto diverso dal Belgio per
dotazione di fattori è la Svizzera: si parla di “un’eccezione al modello inglese” perché se il Belgio
aveva alcune significative analogie rispetto al caso britannico, la Svizzera, seppure anch’essa molto
precoce, è molto diversa perché non ha sbocchi sul mare per cui ciò rende più difficile il
commercio e l’importazione di quelle materie prime e risorse energetiche che richiedevano una
commercializzazione su vasta scala; un altro aspetto riguarda la dotazione di fattori di produzione
e di risorse: abbiamo visto che la Gran Bretagna è ricca di diverse risorse come il Belgio mentre la
Svizzera non ha significativa dotazione di risorse naturali e di risorse energetiche (non ha carbone,
non ha ferro) per cui tutto ciò avrà delle implicazioni importanti tanto è vero che la prima fase
dell’industrializzazione elvetica sarà tessile e non si userà quasi per niente la macchina a vapore. La
Svizzera vede già dal secondo 700 incrementarsi le sue attività di manifattura domestica rurale:
l’agricoltura svizzera, anche per ragioni geografiche e di natura del territorio, è povera e i contadini
hanno bisogno di redditi integrativi che possono trarre dalle attività tessili; insieme agli svantaggi
geografici, c’è, però, anche qualche vantaggio geografico legato alla posizione rispetto a mercati
interessanti come quello francese o dell’area germanica sui quali avviare le esportazioni. Un altro
elemento che contribuisce a spiegare questa crescita della manifattura domestica rurale nel
secondo 700 è l’assenza e la debolezza delle corporazioni che sono un’istituzione urbana e non
rurale; teniamo conto anche che a metà dell’800 la Svizzera avrebbe consolidato una propria

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unione doganale, postale e monetaria che avrebbe favorito la creazione di un mercato nazionale.
Circa la posizione della Svizzera, la sua orografia e la morfologia del territorio svizzero
sostanzialmente montuoso con valli, questo può costituire una difesa naturale rispetto ad
un’invasione di prodotti dall’estero. Queste sono, quindi, le precondizioni che spiegano come mai
tra fine 700 e inizio 800, con una tipologia di attività e con un modello di sviluppo diverso, anche la
Svizzera intraprenda un percorso di modernizzazione e di industrializzazione. Partiamo dal cotone:
a fine 700, si rifiniscono i filati importati dalla Gran Bretagna mentre attorno al 1825 vengono
importati dei filatoi moderni e la Svizzera comincia a poter fare a meno del filato di cotone
importato dall’estero per cui si sviluppano sul suolo elvetico attività che prima non c’erano e che
rendevano necessaria l’importazione del filato dalla Gran Bretagna. Il cotonificio (ma in generale
l’industria svizzera) salta la fase del vapore: questo perché importare il carbone, a causa della sua
posizione e della sua natura territoriale, era troppo costoso per cui, dal punto di vista energetico,
queste attività industriali cotoniere e tessili si alimentavano sviluppando l’energia idraulica
(l’abbondanza dei corsi d’acqua favorì lo sfruttamento dell’energia idraulica, migliorando
l’efficienza tecnologica dei mulini). Da questo punto di vista, ci sono sviluppo importanti con
adattamenti tecnologici da parte di tecnici e imprenditori svizzeri di alcune macchine tessili, si crea
una nicchia per le stoffe pregiate che ha pochi concorrenti (tessuti operati, nastri, pizzi) con una
crescita delle esportazioni; anche se si continuano ad usare telai a mano e filatoi idraulici non
concentrati in opifici di medio grandi dimensioni ma sparsi nelle aree rurali, c’è, tuttavia, un
incremento produttivo. Ci sono alcuni principi di fondo che spiegano e caratterizzano questo
successo cotoniero: lavorazioni tecnicamente accurate in opifici di piccole dimensioni, l’elevata
qualità dei prodotti e una forte propensione all’esportazione; principi simili caratterizzeranno
anche il settore serico (della seta) e anche altri settori non tessili. Oggi, se parliamo di Svizzera, le
più celebri attività produttive sono, oltre ai pizzi di San Gallo, l’orologeria e le attività finanziarie
bancarie (il mercato finanziario). Cominciamo con l’orologeria: un terzo settore di grande
importanza è quello dell’orologeria che può avere delle caratteristiche organizzative, qualitative ed
energetiche simili a quelle appena elencate. Nel corso dell’800, la tradizione elvetica di produrre
orologi fa salti di qualità e fa dei passi avanti perché, soprattutto a partire dal 1840, c’è una
standardizzazione delle componenti e un utilizzo di macchine e di utensili di precisione e questo è
importante perché l’industria orologiera è un’industria di precisione che crea un know-how delle
competenze nella meccanica fine che poi potranno essere estese ad altri settori: c’è quindi un
cambiamento nella procedura di montaggio, si supera la vecchia dispersione produttiva tipica delle
epoche precedenti e si mantiene quella tipica dimensione artigianale di raffinatezza del prodotto
orologiero con, però, un tasso di competenza industriale e di presenza tecnologica molto maggiore
rispetto a prima; in questo periodo, infatti, inizia la produzione degli orologi da polso. Il problema è
che alcune ditte producono una produzione standardizzata e relativamente più a buon mercato
per rispondere ad una domanda che cresce ma come mai cresce la domanda di orologi? Ci sono
delle motivazioni socio-economiche e legate allo stile di vita: in primo luogo, il lavoro in fabbrica
deve essere misurato con l’affermazione del nuovo approccio all’organizzazione del lavoro,
ovvero, quella che viene definita “taylorista” per cui il lavoro deve essere cronometrato,
l’organizzazione deve essere di un certo tipo, bisogna avere consapevolezza dei tempi di lavoro;
quindi da un lato è il tipo di lavoro che si svolge in fabbrica che richiede questi nuovi tipi di orologi
ma c’è anche un altro aspetto che riguarda l’orario dei trasporti: con l’affermazione dei tram e dei
treni con le loro stazione è evidente che bisogna andare in stazione con un’idea dell’orario. Di
conseguenza, questi aspetti richiedono più orologi: questa è una bella spinta per l’industria
orologiera svizzera che ha un insieme di tradizione artigianale che persiste e di novità
tecnologiche-organizzative e di mercati più industriali; abbiamo anche un incremento delle
infrastrutture viarie tra il 1805 e il 1830: passi alpini, battelli fluviali o ferrovie. Tutto ciò fa sì che
nel 1850 la Svizzera è una tra le aree più industrializzate dell’Europa e qui cominciano anche a

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svilupparsi ed incrementarsi attività terziarie come la tradizione finanziaria ma nasce anche il
turismo e cresce l’agricoltura; da questo punto di vista, le più tradizionali produzioni della Svizzera
sono il cioccolato, il latte condensato e i latticini: tutto ciò ci porta verso un’attività agroalimentare
importante. Inoltre, nella seconda metà dell’800 e con l’approssimarsi della seconda rivoluzione
industriale, diventano importante la chimica e la farmaceutica; questo per dire che, in sostanza, la
Svizzera diventa anche esportatrice di know-how, di competenze e di capitali verso altre aree
dell’Europa: alcuni imprenditori svizzeri, ad esempio, saranno protagonisti di alcuni dei primi passi
di industrializzazione in Alsazia e in Italia per la nascita della filatura del cotone. Lungo il XIX secolo,
il modello svizzero consente una crescita equilibrata del paese senza traumi profondi: a fine 800, è
uno dei paesi leader e, nonostante le dimensioni, il PIL è analogo a quello britannico e belga; ci
sono alcuni indici degli standard di vita elevati della popolazione come, per esempio, una bassa
mortalità infantile o un elevato consumo di zucchero o anche la densità di telefoni e automobili
rispetto alla popolazione che sono segni di livelli di vita elevati. C’è una trasposizione di questo
crescente benessere anche dal punto di vista demografico che simboleggia questa crescita di
benessere, di ricchezza e di industrializzazione svizzera: la Svizzera è stata per secoli un paese di
emigrazione perché la povera agricoltura svizzera non consentiva a tutti gli abitanti del paese di
vivere nei loro cantoni e induceva molti svizzeri ad abbandonare la loro patria e ad andare per il
mondo svolgendo funzioni lavorative militari al servizi di altri paesi (professione dei mercenari
svizzeri); da fine 800 e per tutto il 900, la Svizzera diventa, invece, un paese di immigrazione ed
incarna il successo economico svizzero. Quali sono, riassumendo, alcune delle cause socio-culturali
della crescita economica che, soprattutto dal 1830, arricchisce la Svizzera? L’istruzione e un
elevato livello di alfabetizzazione sono importanti: è una popolazione alfabetizzata, ingegnosa,
innovativa e intraprendente addestrata da tempo a lavori specializzati in un contesto artigianale
per cui possiamo sintetizzare questo aspetto parlando di un’elevata qualità e di un’ampia
disponibilità di capitale umano; inoltre, manca il carbone ma si può sfruttare l’energia idraulica per
cui si contengono, in questo modo, i costi fissi e, da fine 800, la Svizzera potrà approfittare di una
nuova forma di energia, ovvero, l’elettricità: parliamo di forma e non di fonte perché le fonti
energetiche sono l’acqua, il sole, il carbone, il petrolio che vengono usate per produrre energia, la
quale ha varie forme come il calore, il moto e l’elettricità (l’elettricità non nasce nella seconda
metà dell’800 tanto è vero che il termine elettricità ha un’origine antica perché deriva da come i
greci chiamavano l’ambra “electron”, la quale è una resina che gli antichi notarono che sfregando
tessuti e oggetti sulla resina questi acquisivano una loro dinamicità: questi principi vennero
studiati nel 700). Cosa succede nella seconda metà dell’800? Succede che la produzione di energia
elettrica diventa molto più agevole, la si può produrre in grandi quantità, la si può conservare e la
si può trasportare; l’energia elettrica può essere prodotta a partire da diverse fonti: ci possono
essere delle centrali elettriche urbane, si può produrla con il carbone ma si può produrla anche per
paesi come la Svizzera e l’Italia poveri o privi di carbone a partire dall’acqua e questa prende il
nome di energia idroelettrica, la quale diventa una grande chance per alcuni paesi come la Svizzera
e l’Italia che non hanno il carbone. La Svizzera, quindi, passerà dall’energia idraulica con la ruota
idraulica, salterà la macchina a vapore e il carbone e a fine secolo avrà una significativa produzione
idroelettrica. Infine, concludendo i punti di forza di questo paese, anche l’export è importante
perché gli svizzeri sono esportatori che puntano su prodotti di pregio in un momento storico
favorevole ovvero il primo mercato di massa mondiale e anche la tradizione del risparmio è
importante perché consente di avere un costo del denaro più basso. Inoltre, all’inizio del secolo, la
coesistenza di redditi agricoli e dei redditi che provenivano dalle manifatture domestiche consente
di mantenere bassi i salari nelle fasi iniziale di industrializzazione: tutto questo, insieme anche alla
qualità elevata e all’alone di prestigio che circonda i prodotti svizzeri, contribuisce alla crescita
industriale del paese.
Il terzo caso è la Francia, definita come “il lento gigante”, la quale, nella seconda metà del 700,

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aveva mostrato alcuni segnali di crescita economica e attorno alla metà del 700 poteva,
addirittura, apparire quasi candidata ad un industrializzazione non molto meno di quanto lo
potesse essere la Gran Bretagna; da questo punto di vista, la Francia non venne aiutata dai traumi
economici, finanziari, sociali e politici dell’età rivoluzionaria e dell’età napoleonica. Vediamo alcuni
aspetti della realtà francese per capire come, pur non essendo particolarmente in ritardo a metà
700, la Francia, nella prima metà dell’800, abbia già accumulato un ritardo con tempi di sviluppo
più lenti di quelli britannici e di quelli belgi. Partiamo quindi dalla popolazione: la popolazione
francese è numerosa, nel 1801 la Francia è il paese più popoloso d’Europa ed il primo paese a
completare il processo di transizione demografica perché vede i tassi di natalità e mortalità
scendere progressivamente verso tassi più bassi; è quello, infatti, che nel corso dell’800 tra i paesi
europei crescerà di meno perché i tassi di fecondità e di mortalità diminuiscono quasi
contemporaneamente con un minore distacco temporale rispetto a quante accade normalmente
perché, in genere, l’incremento della popolazione avveniva perché prima scendeva la curva della
mortalità e solo successivamente scendeva quella della fecondità e della natalità. In Francia,
questa discesa è più precoce e quindi il completamento della transizione demografica è più
precoce; a tamponare gli effetti negativi della diminuzione della natalità abbiamo un incremento
nella durata di vita e un processo di immigrazione. Aumenta anche la popolazione urbana a causa
dell’industrializzazione ma anche del sovrappopolamento delle campagne e da ciò ne derivano
quattro conseguenze economiche-sociali: abbiamo un processo di inurbamento nei centri non solo
delle grandi città ma anche nei centri piccoli e medi che crebbero di dimensioni, c’è un incremento
della produzione agricola grazie ad una maggior produttività, c’è una diminuzione dell’artigianato
a domicilio rurale e una crescita del controllo della fecondità nel mondo rurale. Per quanto
riguarda l’agricoltura, la Francia, se paragonata alla Gran Bretagna e al Belgio, ha un ritardo
agronomico perché, per esempio, la sostituzione completa del maggese con le piante foraggere è
più lenta, la percentuale di terreno coltivato è più bassa; questo non significa che la Francia sia
arretrata in assoluto e ovunque sul piano agricolo ma, complessivamente, è meno avanzata e
meno moderna dei paesi che abbiamo menzionato. Nel corso dell’800 ci sono due sistemi agrari
distinti, ovvero, quello del nord caratterizzato da grandi poderi affittati dove si produce
essenzialmente per la vendita e un duplice sistema meridionale che vede due agricolture
prevalentemente contadine ma con sbocchi e finalità diverse: una prima è di sussistenza (piccoli
proprietari che vanno poco sul mercato) ma anche una piccola agricoltura contadina che, invece, è
attenta al mercato; nei decenni centrali dell’800 in Francia assistiamo ad una lenta e faticosa
modernizzazione dell’agricoltura per cui vediamo come è in ritardo rispetto ad altri paesi. Un
aspetto importante riguarda il territorio perché la Francia è un paese ampio, morfologicamente
compatto e diverso dalla forma della Gran Bretagna perché la Gran Bretagna è lunga e stretta
mentre la Francia è detta “esagono”: i punti interni della Francia profonda sono molto più distanti
dai punti interni della Gran Bretagna, per esempio, dalle coste; questo comporta anche differenti
strategie e diverse strutture di comunicazione e di trasporto. Tra il 30 e il 60, gli investimenti
fondamentali nel settore delle comunicazioni favoriscono la creazione di un mercato nazionale nel
paese più ampio dell’Europa continentale: la Francia, in questo senso, ha già una grande tradizione
che risale non solo all’età napoleonica ma già al 700 precedente perché nel 1747, per esempio,
viene fondata la prima scuola tecnica e si crea un buon sistema viario tipicamente centripeto (che
punta verso un centro che è Parigi) per cui c’è quindi una struttura raggiera che da Parigi va verso i
porti e le frontiere; certamente poi l’epoca di Bonaparte incrementa fortemente queste creazioni
e questo consolidamento e sviluppo del sistema viario. C’è un salto di qualità successivo negli anni
20-40: aumenta la rete interna di vie d’acqua e questo ha delle implicazioni finanziarie importanti
perché c’è un finanziamento dei canali e cooperano a questo finanziamento non solo i privati ma
anche lo stato e le grandi banche parigine; successivamente irrompe sulla scena un nuovo tipo di
trasporto, ovvero, il treno e anche qui c’è la collaborazione stato-privati perché lo stato concede

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l’utilizzo degli impianti per 99 anni, acquista partecipazioni azionarie nelle società ferroviarie,
favorisce processi di fusione e di concentrazione tra queste società e assicura agli azionisti dei
rendimenti minimi garantiti per alcuni decenni. La peculiarità geografica e istituzionale della rete
ferroviaria francese stimola lo sviluppo di tecniche e di modelli organizzativi e gestionali nuovi che
diventeranno esemplari in Europa: tra il 52 e il 60 vengono completate le grandi linee sempre da
Parigi a raggiera ma anche linee trasversali che non necessariamente puntano su Parigi e questo
consente un importante e moderno collegamento tra le regioni industriali che, in Francia, sono
piuttosto periferiche, e i centri di consumo. Di conseguenza, l’abbattimento dei costi che è
consentito dalle economie esterne sotto forma di minori costi di trasporto significa maggiore
sviluppo del mercato interno e anche merci francesi più concorrenziali all’estero. Facciamo un
altro passo avanti e parliamo di risorse naturali, energie e tecnologie: la Francia è un paese che
sviluppa la sua industria carbonifera e la macchina a vapore più lentamente; la Francia è un paese
più ricco d’acqua della Gran Bretagna per cui la necessità di puntare su fonti energetiche
alternative è minore: ancora a metà 800 i mulino producono circa 2/3 della potenza motrice. La
penetrazione del vapore è più lenta ed è dovuta sia alla grande abbondanza d’acqua sia al fatto
che il carbone di miniera qui è più costoso per due ragioni, una materiale e una culturale:
l’estrazione è più difficile per la posizione delle miniere e per la qualità del carbone di miniera
francese ma anche per un pregiudizio culturale. Tra gli anni 20 e 30 dell’800 comincia una crescita
del settore metalmeccanico con locomotive, filatoi, telai, motori per piroscafi anche grazie ad un
certo protezionismo doganale e, contemporaneamente, vediamo ancora affaticare il settore
carbonifero che si collega ad un certo ritardo nella siderurgia francese: la Francia era stata, in
realtà, anche abbastanza precoce perché, per esempio, aveva impiantato il primo altoforno
all’inglese sul continente europeo nel 1785 che era stato creato da un inglese migrato; quindi la
Francia era stata anche precoce ma poi le vicende rivoluzionare e napoleoniche rallentano: parte
piuttosto presto ma poi rallenta e le grandi imprese siderurgiche moderne si affermano
pienamente in Francia solo dopo 1870 (quasi un secolo dopo). Per quanto riguarda le industrie
tessili, invece, c’è un modello britannico che viene emulato e tra il 1780 e il 1830 la filatura del
cotone comincia ad assumere una struttura industriale già prima della rivoluzione francese:
c’erano stati immigrati britannici che avevano portato il know-how e stimolato innovazioni; poi il
periodo delle rivoluzione francese e l’età napoleonica comportano, invece, delle difficoltà e una
ripresa graduale dopo il 1815 soprattutto per il mercato interno e localizzandosi poi nella regione
dell’Alsazia: c’è già una tradizione settecentesca perché si rifinivano le cotonate indiane, le quali
hanno successo e progressivamente si impiantano nuove attività locali di filatura e di tessitura (la
modernizzazione non avviene improvvisamente ma incrementando e sviluppando radici che già ci
sono). Il cotonificio alsaziano, simile a quanto accade in Belgio, stimolò la strutturazione di un
indotto (per produrre cotone servono altre cose) che comprendeva un indotto sulle meccaniche
per creare le macchine per filare e tessile e un indotto sulla chimica per il candeggio; ecco che
l’Alsazia diventa una regione industriale e dal 45 in avanti diventerà ancora più importante dal
punto di vista industriale con sviluppi siderurgici, lanieri, il cappellificio, le cartiere, le raffinerie di
zucchero. Nel lanificio, linificio e setificio l’adozione di filatoi meccanici è stata più lenta e tardiva
rispetto al cotonificio per tre ragioni: il cotone aveva parzialmente sostituito il lino e la lana e la
larga disponibilità di manodopera rurale a basso costo aveva ritardò la meccanizzazione e
concentrazione della filatura oltre ad esserci delle difficoltà tecniche da superare. L’ultimo
comparto tessile a dotarsi di macchine è stato quello del lino e ancora più lenta è stata la
diffusione di telai automatici, stante la larga disponibilità di attrezzi manuali nelle case contadine e
il basso costo della manodopera rurale. Dai primi dell’800 si diffuse il telaio di Jacquard, ovvero, un
attrezzo ancora manuale utilizzato per le stoffe operate e nel setificio; il telaio meccanico idraulico,
già noto in Alsazia, si diffuse più lentamente. Abbiamo già accennato agli aspetti legati al capitale
finanziario e creditizio: la Francia ha comunque attività importanti però dobbiamo partire da una

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relativa arretratezza rispetto a quella britannica perché alla fine del 1815 la moneta in Francia, se
comprata alla Gran Bretagna, svolge un ruolo minore come intermediario degli scambi; l’economia
francese è meno monetarizzata di quella britannica e la sua circolazione è ostacolata da un’infinità
di vecchie monete divisionali che hanno un valore intrinseco minore rispetto a quello nominale
(sono monete di bassa qualità). C’è una maggiore attitudine di molti francesi a
tesoreggiare/tesaurizzare la moneta: siccome erano ancora monete d’oro e d’argento, invece che
immetterle nel circuito produttivo ed economico, venivano tenute da parte come se fosse un
tesoro; inoltre, la produzione della Zecca era insufficiente e c’era una minore propensione ad
accettare le banconote al di fuori della metropoli: nelle aree rurali c’è una minore fiducia nella
banconote perché lì non c’è il metallo prezioso. Tutto ciò crea una minore modernità, rallenta
l’avvento di un mercato monetario moderno e la nascita di un sistema creditizio capillare: questo
non significa che non ci siano investimenti significativi perché, ad esempio, una parte dei capitali
accumulati con il commercio coloniale del 700 viene impiegata nelle prime industrie e nel credito;
dal punto di vista finanziario e monetario, la rivoluzione francese crea notevoli turbative poiché ad
un certo punto non ci sarà più il franco e non ci sarà più la moneta ma si useranno gli assegni:
Napoleone tenta di rilanciare il credito agganciando il franco all’oro (il Gold Standard) e fondando
la Banca di Francia ma la situazione non è semplice. Fino al 1870, le società anonime sono
relativamente meno diffuse che altrove: la maggior parte degli investimenti nelle imprese
commerciali e industriali vengono da patrimoni familiari degli imprenditori e dal reinvestimento
dei profitti; le società anonime, più che finanziare imprese industriali, vengono a finanziare le
imprese infrastrutturali tra cui le ferrovie. I banchieri francesi, del resto, non ambivano a sostenere
le industrie: le potenti banche d’affari private si occupavano del finanziamento del debito pubblico
e del sostegno al commercio internazionale. Nel complesso, possiamo dire che molti francesi
preferiscono l’investimento sicuro e garantito in titoli di stato anziché in capitale di rischio
(comprare azioni, investire in imprese): questo è un freno allo sviluppo economico industriale.
Un’ultima osservazione da questo punto di vista è il commercio internazionale e l’andamento del
reddito nazionale: la Rivoluzione francese e l’età napoleonica, essendo epoche di guerra, frenano
le relazioni con l’estero e nel 1806 c’è un embargo commerciale francese contro la Gran Bretagna
tendente ad isolare l’economia inglese, bloccandone le importazioni e le esportazioni da e nel
continente. Dopo la fine dell’età napoleonica riprendono gradualmente le importazioni di materie
prime (cotone, carbone, lana) per alimentare una crescente industria francese; spesso vengono
introdotte misure protezionistiche per i manufatti che frenano le importazioni di prodotti stranieri
almeno fino al 1860. La bilancia commerciale francese, quindi, sarà in avanzo fino al 61 ma poi,
con il cambiamento delle politiche commerciali, sarà in deficit fino alla vigilia della prima guerra
mondiale: nel 60, infatti, a partire da un trattato commerciale tra Francia e Gran Bretagna, si
introduce una politica libero scambista; questa avrà pregi e difetti per la Francia perché questo
consentirà forti importazioni dall’estero, favorirà una depressione dell’agricoltura tenendo conto
che nel 1885 ancora 2/3 dei francesi viveva in campagna. La depressione agricola fa diminuire la
domanda di beni industriali e rallenta la dinamica economica complessiva tra il 55 e l’85 mentre
negli anni 90 verranno introdotti dei dazi protettivi che aiuteranno una graduale ripresa
dall’agricoltura. Va fatta un’ulteriore osservazione: ci sono anche le guerre che cominciano ad
inasprire i rapporti franco-tedeschi infatti nel 1870 c’è una guerra importante tra la Francia e la
Prussia che vedrà una sconfitta di Napoleone III con gravi conseguenze interne da cui nascerà il
secondo Reich (il primo Reich è il Sacro Romano Impero medievale, il secondo Reich è questo con
Bismarck e Guglielmo e il terzo reich è quello nazista hitleriano); cosa accade in Francia? In Francia
c’è una pesante instabilità interna e c’è anche una decurtazione territoriale perché la Francia
perde due territori importanti dal punto di vista economico: l’Alsazia e la Lorena. Un raffronto
degli indici della ricchezza media individuale prodotta in Francia con quelli belgi e svizzeri mette in
luce il lento progresso dell’economia transalpina: la caduta delle protezioni daziarie, dopo il 1860,

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rivela la debolezza del sistema economica francese; inoltre, tra il 75 e il 94 la Francia è invasa di
beni industriali e di derrate alimentari perché è una fase di libero scambio: questo favorisce i
consumatori francesi perché hanno a disposizione maggior varietà di beni e a prezzi più favorevoli
ma non è molto favorevole nei confronti di una parte dei produttori francesi. Gli indici del PIL pro-
capite francese mostrano un divario importante rispetto a quelli britannici, belgi e svizzeri: questa
lentezza sortisce anche una crescita del tenore di vita medio più lunga e protratta nel tempo
(meno rapida). Concludendo, un mix di vincoli e di limiti caratterizzano la storia economica
francese: le grande dimensioni geografiche e demografiche, un’agricoltura comparativamente più
arretrata volta generalmente ad assicurare la sussistenza almeno fino alla metà del secolo, una
relativa maggiore arretratezza del sistema creditizio e monetario, una cultura e mentalità più
favorevole all’impiego del risparmio in investimenti di basso rischio, le dimensioni del debito
pubblico che comportano una più elevata percentuale di gettito fiscale usato per il servizio del
debito pubblico e una domanda interna più depressa per la dinamica demografica più blanda e per
un più lento incremento del reddito pro-capite.
La Seconda Rivoluzione industriale
Prima di imboccare la strada della seconda rivoluzione industriale, facciamo delle considerazioni in
ambito di rivoluzione industriale: siamo partiti dalla Gran Bretagna e abbiamo iniziato a vedere
l’emulazione continentale; la prima rivoluzione industriale è quella delle macchine tessili che ha
nel cotone e nella siderurgia della ghisa le sue industrie trainanti e che ha il suo simbolo nella
macchina a vapore. Quello di cui parleremo, la seconda rivoluzione industriale, è un fenomeno in
parte diverso che avrà altri settori trainanti: questo non significa che i cotonifici, la ghisa e la
macchina a vapore non contino più nulla ma vuol dire che la maggior parte delle innovazioni
(energie, risorse, finanze) si concentreranno, in modo particolare, sui nuovi settori che
diventeranno quelli più trainanti dell’economia. Questo comporterà anche un cambiamento non
solo di settori trainanti ma anche una natura nuova del rapporto tra produzione industriale,
tecnologia e scienza e una nuova geografia dello sviluppo: a cavallo tra 800 e 900 diventeranno
dominanti due paesi non ancora citati, ovvero, la Germania e gli Stati Uniti. Vediamo ora cosa
significa parlare di scienza e di tecnica al servizio dell’industria: non sminuendo l’intelligenza di
Watt e di altri inventori, stiamo dicendo che la loro intelligenza innovativa e creativa si esprimeva e
si estrinsecava in forme differenti sulla base di conoscenze, di prassi e premesse culturali diverse
da quelli di cui progressivamente tratteremo per cui si passa dall’empirismo alla scienza. La scienza
era nata prima dell’800 perché abbiamo scienziati nell’antichità, abbiamo concetti medici, fisici che
risalgono all’età romana o greca, abbiamo la rivoluzione scientifica del 600 con Galileo, Newton e
Harvey ma, tuttavia, nella seconda metà dell’800, c’è un accrescimento di spessore scientifico della
tecnologia e della conoscenza generale: dall’empirismo precedente (tentativi ed errori) tipico di
quella tecnologia visibile si arriva all’applicazione dei risultati della ricerca scientifica e di principi
scientifici più sofisticati nella chimica e nella fisica per cui si parla di tecnologia invisibile perché
deriva dalla scoperta di fenomeni invisibili perché non vedo gli elettroni, gli atomi, le molecole o i
batteri. Quali sono quindi i settori trainanti della seconda rivoluzione industriale? Abbiamo il
settore elettrico, la siderurgia dell’acciaio, la chimica organica, la meccanica, il settore
automobilistico e, collegato a quest’ultimo sul fronte energetico, il settore petrolifero perché
l’automobile non è alimentata da un motore a vapore ma da un motore a scoppio che, a sua volta,
è alimentato dai derivati del petrolio; sono settori in cui la conoscenza scientifica e tecnologica si
tramuta e diventa innovazioni ed invenzioni radicalmente nuove il cui successo commerciale
stimola ulteriori ricerche ed innovazioni: c’è un effetto cumulativo anche sull’organizzazione e sulla
gestione delle imprese per cui queste innovazioni non rimangono fine a se stesse ma attivano una
serie di mutamenti anche sul piano gestionale e innovativo (la seconda rivoluzione industriale,
infatti, sarà caratterizzata dalla rivoluzione manageriale con una maggiore e sistematica

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separazione tra proprietà e gestione). Vediamo più nel dettaglio questi settori trainanti e partiamo
dalla siderurgia: ci sono diversi tipi di ferro e l’acciaio è molto importante ed esso non è inventato
nella seconda rivoluzione industriale ma è conosciuto da secoli; per secoli, però, l’acciaio era
difficile a prodursi in grandi quantità, difficile a prodursi in qualità omogenea e molto costoso (era
quindi difficile produrne tanto, buono e a prezzi accettabili): per secoli, infatti, l’acciaio è stato
utilizzato soprattutto per le armi (le armi bianche) oppure per limitate produzioni di strumenti
chirurgici. Cosa inventa la seconda rivoluzione industriale in termini siderurgici di acciaio? Inventa
l’acciaio a buon mercato e producibile in grandi quantità: ci sono diversi metodi di vario genere
finché se ne afferma uno in particolare, l’acciaio basico, che ha anche un sottoprodotto, i fosfati,
che verranno utilizzati nella fertilizzazione dei campi; in sostanza, tra il 50 e il 70, la produzione
mondiale di acciaio aumenta di ben 8 volte per cui significa che l’acciaio verrà usato molto più di
prima perché se ne può produrre in grande quantità e a prezzi più abbordabili e viene usati senza
precedenti nella cantieristica, la quale produce navi e affini. Importante è la produzione
metalmeccanica che serve per le ferrovie sia per i vagoni che per le infrastrutture e i binari;
bisogna anche menzionare la produzione cantieristica con scafi e motore a vapore ad alta
pressione. Anche la chimica è importante ed esisteva da secoli per l’utilizzo nell’industria cotoniera
(la chimica aveva saputo creare artificialmente la soda, l’acido solforico e il cloro) ma ora la varietà
dei prodotti chimici diventa più rilevante: contribuisce alla scoperta e all’utilizzo dell’acciaio in
leghe e serve anche per sfruttare meglio e più ampiamente zinco, nichel, magnesio, alluminio; nel
1856 un chimico inglese sintetizza l’anilina, la quale diventerà base per sviluppi fondamentali e, in
particolare, per un nuovo settore fondamentale che è quello dei coloranti artificiali. Abbiamo molti
esperimenti di scienziati che aprono una nuova serie di conoscenze e di nuovi settori produttivi
specialmente in Germania e in Svizzera dapprima ma poi anche negli Stati Uniti e tra questi ne
nominiamo quattro: i principi attivi farmaceutici, gli esplosivi (dinamite), i reagenti fotosensibili e le
fibre sintetiche. La materia prima di base di quasi tutti i nuovi processi è il catrame minerale che è
un sottoprodotto del carbon coke; ci sono tante implicazioni non solo industriali ma anche per
l’agricoltura con la fertilizzazione artificiale che, insieme con la nuova refrigerazione industriale, la
liofilizzazione di molti cibi, la pastorizzazione dei prodotti agricoli e dell’allevamento stimolarono
miglioramenti nelle pratiche agricole. Arriviamo quindi all’elettricità: nel tardo 700 e inizio 800,
abbiamo tutta una serie di scoperte teoriche che solo dopo alcuni decenni verranno tradotte in
applicazioni economicamente vantaggiose e sfruttabili; nel 1821, l’inglese Faraday inventò il
motore elettrico e, dieci anni dopo, la dinamo. Fra gli anni 40 e 70, il principale uso industriale
dell’elettricità è quella del telegrafo (serve per trasmettere informazioni con il telegrafo): nel 1876
Alexander Bell, uno scozzese emigrato negli Stati Uniti, inventa il telefono che aveva una
fondamentale implicazione elettrica. Negli anni 80, una figura enorme, dal punto di vista
dell’intreccio tra capacità inventiva e capacità imprenditoriale, diventa dominante, ovvero,
Thomas Alva Edison, il quale oltre ad essere noto per la lampadina elettrica ad incandescenza ha
fatto molto altro come il fonografo, è stato un pioniere nella generazione e nella distribuzione
dell’energia per l’illuminazione pubblica e privata; nel 1882 Edison è l’autore della prima centrale a
New York: Edison è una figura fondamentale perché è un genio e un inventore ma fu anche una
figura fondamentale perchè univa a questo genio inventivo una capacità imprenditoriale, ovvero,
egli non si limita ad inventare o a brevettare le sue invenzioni ma cerca anche di dare loro uno
sbocco commerciale e industriale. Non tutti, però, riconoscono appieno il genio di Edison come, ad
esempio, il suo collaboratore Nicola Tesla perché lo accusava di aver inventato poco da solo e di
trarre beneficio dall’intelligenza dei suoi collaboratori. La produzione di corrente alternata e del
trasformatore consente di trasferire anche a lunga distanza l’energia elettrica per l’illuminazione
privata e pubblica e per l’attrazione nei trasporti (il tram e il treno traggono beneficio
dall’alimentazione elettrica); l’elettricità entra in fabbrica con nuovi settori industriali, ad esempio,
l’elettrochimica e l’elettromeccanica ma in fabbrica, ancor più che per il suo contributo a nuovi

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settori industriali, l’elettricità diventa fondamentale perché alimenta la catena di montaggio. Oltre
che in fabbrica, l’utilizzo dell’elettricità può anche cambiare anche il lavoro a domicilio e le piccole
botteghe artigiane perché ora certi lavori che prima erano esclusivamente manuali possono essere
svolti con l’ausilio di piccole macchine alimentate ad elettricità. Abbiamo menzionato l’importanza
dell’ingegneria meccanica perché dopo il 1840 un settore sempre più importante è il settore
ferroviario: le linee ferroviarie, l’infrastruttura tra cui tracciati, ponti, stazioni e poi il cosiddetto
materiale rotabile tra cui le locomotive e i vagoni; questo significa stimoli per l’industria edilizia,
stimoli per l’industria siderurgica e proprio per l’ingegneria meccanica. Grandi investimenti nel
settore ferroviario significano anche sviluppo di società anonime quotate in borsa per costruire e
gestire le imprese ferroviarie: queste cominciano a diventare delle public company, ovvero,
imprese ad azionariato diffuso il cui azionariato è sparso e diffuso tra il pubblico dei possibili
acquirenti di azioni; queste imprese spesso sono gestite da manager e non c’è una famiglia.
Sempre nel campo dell’ingegneria, un altro sviluppo importante è quello dei piroscafi che
cambiano i tempi delle comunicazione, dei trasporti marittimi e fluviali e le stazze: si passi dai
piroscafi in ferro e in ghisa ai piroscafi in un ferro più qualitativo che è l’acciaio; vengono costruite
grandi navi di ferro mosse da motori di crescente potenza che facevano a meno del vento per
spostarsi. Sempre nel campo della meccanica, ci sono poi innovazioni fondamentali nell’editoria:
per secoli come si produceva la carta? Si produceva a partire dalla macerazione degli stracci
mentre in quest’epoca si comincia a produrre la carta a partire dalla pasta di legno e poi ci sono
progressi anche nella stampa, ad esempio, con la stampa con i rulli e la composizione grafica con la
linotype: questo significa tempi tecnici ridotti e si moltiplica anche la diffusione delle notizie
attraverso i quotidiani; questo è importante perché il settore industriale dell’editoria non ha un
significato solo di per sé ma l’editoria (giornali, libri, riviste) veicola idee, informazioni, conoscenze,
intrattenimento per cui tutto ciò ha un duplice significato perché le informazioni e le idee che
vengono veicolate dall’editoria hanno un impatto sulla società e sull’economica così come il
passaggio, nel tardo 400, dai manoscritti alla stampa ebbe un’importante impatto economico sulle
idee, sulla storia e sull’economia. Ancora, le macchine da cucire sono importanti a partire dalla
metà dell’800: è fondamentale per il rilancio delle attività domestiche ma anche perché
adattamenti successivi di queste macchine vengono messi in atto per alcune industrie importanti
come nella selleria, nell’industria dei guanti e dei finimenti, nella legatoria e nell’industria delle
calzature dove si usano delle macchine da cucire adattate all’esigenza. Concludiamo questo
discorso con i nuovi trasporti: i mezzi di trasporto alternativi a quelli con motore a vapore tra cui la
bicicletta (1885) e l’auto con il motore a scoppio; siamo negli anni 70 e 80 con Daimler e Benz e
abbiamo un motore scoppio a quattro tempi con un carburatore che miscela benzina ed aria. È
difficile immaginare un settore industriale che abbia avuto un impatto più importante di quello
automobilistico nel 900 sotto l’aspetto tecnologico, produttivo, l’assunzione di manodopera: la più
importante fabbrica del settore automobilistico è quella di Ford da cui derivano i termini fordista e
fordismo.
Dobbiamo tenere in considerazione anche un ruolo che cresce per quanto riguarda un importante
attore politico, istituzionale e socio-economico: lo stato; il ruolo dello stato cresce in diverse realtà
e per diversi aspetti e cresce dappertutto nei paesi che si sono industrializzati: l’azione statale è un
ambito che, per i motivi che vedremo, cresce con l’industrializzazione e con la seconda rivoluzione
industriale. La prima industrializzazione era stata, almeno nel caso inglese, caratterizzata da uno
stato relativamente leggero: la famosa azione della mano invisibile secondo la quale la crescita e
generalizzazione degli scambi promuove la divisione del lavoro e consente ai singoli e alle imprese
di perseguire il proprio massimo tornaconto nell’acquisto e nella vendita dei fattori produttivi,
delle merci e dei servizi e così facendo arricchisce la società nel suo complesso; la mano invisibile
di questo capitalismo era stata in Gran Bretagna, insieme ad un certo ruolo dello stato, il motore
della crescita e dello sviluppo mentre il governo britannico era improntato soprattutto al “laissez

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faire”. Tuttavia, persino nella Gran Bretagna liberoscambista e liberista di quei decenni, lo stato
era tutt’altro che assente sia pure secondo uno schema indiretto e più leggero: ci sono leggi
quadro sulla privatizzazione della terra fin dal 1621, le famose abolizioni dei monopoli di
concessione regia, un sistema fiscale unificato, codici e politiche commerciali; per cui anche se in
maniera leggera e indiretta, il ruolo dello stato non è poco significativo. Persino nell’Inghilterra
della prima rivoluzione industriale, lo stato svolge un ruolo e occupa uno spazio importante; per
molti economisti, tuttavia, questa Gran Bretagna che ha uno stato leggero che non interviene
direttamente ma che crea le precondizioni diventa il modello esemplare mentre, per alcuni versi, è
un’eccezione perché le condizioni inglesi sono abbastanza eccezionali (fuori dalla norma) perché
sono le condizioni di chi è già in vantaggio: la Gran Bretagna è unica e irripetibile per la sua storia e
perché è partita in vantaggio per cui quel mainstream nel pensiero economico che vede nel laissez
faire britannico l’unica via possibile allo sviluppo industriale è superato poi dai fatti. Secondo
questo mainstream del pensiero economico, nel secondo 800, gli episodi, i modelli e i fenomeni di
chi si discosta dal laissez faire britannico viene viste come innaturale e da condannare. Non stiamo
dicendo “inglesi solo privati e niente stato mentre negli altri paesi tutto stato e niente privato”
perché non è così: anche accettando l’idea che comparativamente la Gran Bretagna abbia
un’esperienza più leggera e più improntata al laissez faire, il caso britannico è atipico e irripetibile;
non sono atipici coloro che vengono dopo se decidono di discostarsi ma dobbiamo tenere conto
delle condizioni irrepetibili del primato inglese. L’Inghilterra, infatti, da un lato detiene un
monopolio tecnologico nel cotone e nella siderurgia e questo ha un duplice effetto: frena i
concorrenti perché crea delle barriere all’ingresso per cui i concorrenti fanno fatica ad entrare e
poi consente elevati profitti per gli imprenditori inglesi per cui molti imprenditori inglesi possono
autofinanziarsi perché i loro profitti sono elevati, cosa che, invece, sarà molto più difficile per
imprenditori di paesi che arriveranno dopo; inoltre, la Gran Bretagna ha una flotta mercantile
senza pari in quei decenni e questo apre un enorme mercato internazionale. I paesi che si
industrializzano dopo la Gran Bretagna e che la emulano, inizialmente, applicavano almeno in
parte anche delle ricette protezionistiche ma soprattutto i paesi ritardatari che si
industrializzeranno nel secondo 800 (tra cui la Germania) devono ricorrere a “fattori sostitutivi”
nell’impianto dell’economia industriale perché non possono utilizzare le condizioni e le dotazioni
di fattori da cui aveva tratto benefici la Gran Bretagna per cui dovranno dotarsi di nuovi strumenti
e di nuove condizioni, le quali saranno: un ricorso più o meno marcato al protezionismo, un
incremento della spesa pubblica sia per sovvenzionare settori industriali sia per produrre
commesse a favore delle proprie nascenti industrie, la creazione del credito mobiliare di
investimento nelle società anonime industriali (un tipo di credito per finanziare a più lungo
termine le imprese industriali) e una più diretta gestione statale di alcune imprese industriali. Ci
sono precondizioni importanti perché, ad esempio, tra la fine del 700 e 1860, abbiamo l’abolizione
dei residui feudali, vengono introdotte e perfezionate istituzioni di diritto civile a favore
dell’uguaglianza giuridica degli uomini per cui i rapporti tra esseri umani diventano contrattuali
(non ci sono più i servi della gleba e i signori feudali) e la tutela della proprietà privata come forma
dominante dello sfruttamento di risorse anziché di quelle forme comunitarie. Nell’Europa
continentale c’è una tradizione regolativa dei mercati interni e del commercio estero che era tipico
già dell’epoca delle monarchie assolute occidentali e del dispotismo illuminato dell’Europa centro-
orientale: c’è una riflessione teorica e una politica amministrativa a favore dell’intervento dello
stato in economia ma ciò non significa totale occupazione dell’economia da parte dello stato ma
significa uno stato non solo che crea le regole del gioco ma che interviene più pesantemente. Una
figura importante in questa riflessione teorica ottocentesca è Friedrich List, un economista
prussiano, secondo il quale le imprese industriali dei paesi dell’Europa continentale che
intraprendono il loro percorso di crescita, di fronte ad un totale laissez faire, correrebbero il rischio
di essere soffocate dalla concorrenza britannica: bisogna quindi proteggere, fare sì che queste

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possano crescere e consolidarsi e che si possa favorire una trasformazione in senso industriale
dell’economia nazionale; ciò significa sostegni finanziari, commesse statali, sussidi e anche un più
diffuso intervento nelle tariffe doganali protezionistiche sull’import a favore della produzione
indigena e della produzione locale ma anche sull’export contro le uscite di prodotti considerati
strategici. Nel corso dell’800, sappiamo che la storia europea è stata caratterizzata da
un’alternanza tra prevalere di scelte protezioniste e prevalere di un periodo libero scambista tra il
1860 e gli anni 70; nel 1879, la Germania avvia più apertamente la fine del liberoscambismo con
una tariffa protettiva sui prodotti industriali e sui prodotti agricoli che cambia il verso della storia
europea. A partire dagli 80 dell’800, diverse forme di intervento dei poteri politici delle nazioni più
arretrate prendono piede e il primo ambito di azione diretto di intervento è la raccolta di grandi
capitali finanziari: in Europa, tenendo conto di quelle che sono le nuove industrie trainanti che
richiedono più investimenti, c’è una carenza di risparmio spontaneo per investire nelle
infrastrutture (cosa che non si era verificata in Inghilterra perché c’era maggiore abbondanza di
capitale che andava più spontaneamente verso i settori in cui c’era bisogno di investire); vengono
quindi introdotte politiche fiscali che gravano sull’agricoltura, prestiti pubblici nazionali e
internazionali e anche la partecipazione attiva dei governi attraverso la spesa pubblica proprio nel
settore ferroviario. Un secondo ambito di intervento importante è dato dall’istituzionalizzazione di
sistemi bancari capaci di controllare credito e monete e di finanziare le grandi imprese: ci sono,
per esempio, nuove e più rilevanti banche centrali abilitate dal governo ad emettere moneta
fiduciaria (le banconote) e anche l’autorizzazione ad aprire istituti creditizi privati in forma di
società anonime. In Belgio e poi in Germania ci sarà il trionfo delle banche universali o miste, le
quali concedono credito commerciale e crediti mobiliare (di breve e di più lungo periodo); c’è un
legame crescente tra grande banca e impresa industriale: questo è importate per portare le risorse
necessarie e per nutrire la crescita industriale di questi paesi. Queste banche vengono sviluppate
perché ci sono necessità di aiutare a chiudere un divario perché c’è bisogno di difendersi e di
convogliare delle risorse finanziarie del risparmio che, spontaneamente, non andava dove era
richiesto: quando, con la seconda rivoluzione industriale, diventeranno sempre più importanti dei
settori industriali che richiederanno grandi investimenti, stabilimenti più grandi e macchinari più
costosi, avere questi istituti finanziari sarà vantaggioso: ciò non vuol dire che l’Inghilterra resterà a
piedi ma vuol dire che chi li ha sviluppati in un contesto differente ne potrà trarre vantaggio. Un
altro intervento pubblico importante è il fattore lavoro: nel secondo 800 in tutti i paesi che si
stanno industrializzando cresce la tensione sociale perché l’industrializzazione, oltre ad avere molti
aspetti positivi, crea anche tensioni, insoddisfazioni, sofferenze per cui aumentano le lotte
sindacali e la pressione da parte di porzione dell’opinione pubblica radicale o democratica fa sì che
si comincino a porre dei quesiti e si cerchino di soddisfare delle esigenze che prima non erano
nemmeno prese in considerazione; questo è importante perché questo processo di crescita del
ruolo statale nella seconda metà dell’800 è particolarmente marcato nei paesi che devono
recuperare ma caratterizza tutti i paesi, compresa la Gran Bretagna, perché la trasformazione in
senso industriale e moderna della società comporta delle maggiori esigenze gestionali da parte
dello stato e comporta anche, per evitare tensioni e sovversioni socio-politiche, bisogna attenuare
le sofferenze e i malcontenti legati alle trasformazioni socio-economiche che derivano dal
processo di industrializzazione: in tutti i paesi una nuova società industriale richiede più stato e più
amministrazione. A partire dagli anni 70 molti parlamenti dei paesi europei intervengono con
nuove normative che limitano l’età lavorativa (10-13 anni al massimo), vietano il numero di ore
lavorative giornaliere e settimanali, vietano il lavoro notturno per i minori e per le donne,
introducono l’assistenza per le lavoratrici gestanti, tutelano il tema dell’igiene e della sicurezza sul
lavoro, si introducono pensionamenti oltre i 65 anni, assicurazioni contro le malattie e gli incidenti
sul lavoro; una serie di misure rilevanti che denotano come gli stati assumano nuovi compiti e
nuove funzioni.

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In questo contesto generale, c’è un caso importante che è quello tedesco: abbiamo detto che fino
al 1870-71 non si può parlare di Germania come di una nazione che si esprime in uno stato
unitario. Tuttavia, la Germania ha già da tempo in atto dei processi interessanti e partiamo
dall’inizio dell’800: tra il 3 e il 13, sotto il largo predominio francese in larghe porzioni del territorio
tedesco, c’è un ammodernamento politico, sociale e giuridico con la fine del feudalesimo
aristocratico, secolarizzazione dei principati ecclesiastici, fine della servitù della gleba, fine delle
corporazioni, della distinzione della proprietà tra nobiliare e non e delle differenze giuridiche tra
ceti; quindi c’è una modernizzazione sociale e giuridica che non significa però eguaglianza. La
Germania è un’area nella sua totalità largamente poco industrializzata: nel 1800 solo la Renania, la
Sassonia, la Slesia e la regione di Berlino hanno degli insediamenti artigianali proto industriali
piuttosto significativi; dal punto di vista demografico, nel corso dell’800, la natalità è più dinamica
rispetto a quella francese e progressivamente vedremo in atto un processo di inurbamento e di
crescita di alcune città importanti. Una pagina importante nella storia della modernizzazione
economica tedesca è relativa allo Zollverein, ovvero, all’unione doganale: con il congresso di
Vienna nel 1815, la Prussia (più importante delle componenti politiche pre secondo Reich) ottiene i
maggiori bacini carboniferi, le aree proto industriali situate in Renania e in Vestfalia e le maggiori
vie commerciali; per aumentare l’interscambio tra le sue diverse zone, viene introdotta un’unica
tariffa doganale per cui la Prussia diventa, nelle sue sparse componenti, un’unica area
commerciale. La Prussia comincia a diventare un punto di riferimento sul piano doganale e
commerciale: contro la Prussia c’è un’altra potenza germanofona, l’Austria, che tenta di
promuovere un’unione doganale tra sé e alcune regioni tedesche ma, tuttavia, questo tentativo
fallisce; la Prussia sembra quindi guadagnare spazio e allarga la sfera del suo mercato comune.
Contro questa aggressiva politica commerciale prussiana, una quindicina di piccoli stati della
Germania centrale promuove un’associazione intermedia: nel 1829 viene ratificato un accordo di
unificazione, a partire dal 33, dell’associazione doganale del nord con quella del sud e nel 33 la
Prussia, la Baviera, la Sassonia, il Wurtemberg e il Hesse Kassel firmano quello che dal 34 diventerà
lo Zollverein che significa “unione doganale”. Tutti gli stati tedeschi, progressivamente, negli anni
successivi, aderiranno a questa unione doganale per cui si crea una sorta di Germania economica
prima di quella politica e istituzionale con un’unica frontiera tariffaria esterna e questo stimolerà
alcune imprese svizzere a spostare i loro stabilimenti entro i confini dello Zollverein per
approfittare di questo ampio mercato unificato tedesco e non subire gli effetti della tariffa esterna
(di fatto queste diventano imprese multinazionali). Il mercato comune viene rafforzato dalla
costruzione delle ferrovie e quindi anche qui vediamo una costruzione di una rete che ha
caratteristiche diverse perché quello tedesco non è ancora uno stato autonomo e unitario per cui
ci sono diverse soluzioni al problema di come impiantare e gestire questi collegamenti ferroviari
nel rapporto stato-privato tra cui soluzione alla belga, alla francese e, in qualche caso, alla
britannica con solo intervento privato. La Germania, però, prima di diventare il leader della
seconda rivoluzione industriale con gli Stati Uniti, deve attraversare delle fasi di crescita e ci sono
alcuni prerequisiti materiali e sociali che spiegano perché, sia pure non procacissimamente, essa
diventa la leader: abbiamo un vasto mercato comune, abbiamo una rete ferroviaria che
costituiscono sicuramente dei prerequisiti per l’avvio dell’industrializzazione; inoltre, tra il 30 e il
50, il volume delle esportazioni tedesche raddoppia e alcune industrie sorgono su basi moderne
lontano dai vecchi centri tradizionali grazie alla disponibilità del carbone come materia prima e
grazie alla macchina a vapore che sostituiva i meccanismi mossi dalla mano dell’uomo, dagli
animali e dall’acqua. L’emancipazione dei servi della gleba comporta un vantaggio economico
perché c’è più spazio per operai liberi: l’emancipazione dei servi avviene negli anni 30 nella
Germania occidentale e un ventennio più tardi circa nelle aree più orientali; questa emancipazione
consente un incremento di produttività agricola e una maggiore mobilità della manodopera perché
ciò significa che ci sono moltissimi contadini che si possono spostare: non necessariamente vanno

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tutti in città e in industria ma possono farlo. Abbiamo poi il superamento del maggese,
l’aggiornamento agronomico per cui tra il 1810 e il 1865 la Germania conosce una crescita del
prodotto agricolo medio annua di circa il 2%; continuano ad essere importanti i cosiddetti
latifondisti Junker che possono approfittare di una notevole influenza sociale e politica, del basso
costo dei loro fattori e, inoltre, approfittano dei nuovi collegamenti dei nuovi trasporti.
L’agricoltura conosce un rallentamento dopo gli anni 60 a causa dell’immissione sul mercato
tedesco dei cereali russi e americani a prezzi inimitabili nonostante la tariffa doganale e una
ripresa poi tra fine 800 e la vigilia della Prima guerra mondiale anche grazie ad un’estesa
applicazione delle macchine e dei fertilizzanti (la Germania è una delle culle dell’industria chimica).
Gli Junker sono soprattutto influenti e importanti nella parte orientale della Germania mentre
nella Germania occidentale vi è un’agricoltura di villaggio contadino più libera ma meno dinamica.
Gli anni dal 48 al 73 vengono definiti come quelli dell’incubazione dello sviluppo: attorno alla metà
del 1800, la Germania produce ed esporta prevalentemente materie prime e derrate dell’est e
comincia ad esportare manufatti industriali che, però, vengono venduti non tanto nei paesi più
avanzati quanto nelle aree dell’Europa centro orientale; tra il 52 e il 57 c’è un boom che trasforma
in profondità il paese: il comparto cotoniero adatta le più avanzate tecnologie inglese, si sviluppa
anche se più lentamente l’industria della lana e del lino, nel 51 abbiamo le leggi minerarie
prussiane che consentono maggiore libertà di intrapresa e notevole impulso all’estrazione del
carbone e del ferro con aggiornamenti tecnologici delle miniere grazie a risorse statali ma anche
private persino straniere e anche investimenti delle banche. Dal 50 c’è una crescita notevole della
domanda di prodotti siderurgici: tra il 50 e il 70 c’è un salto di qualità ma non ancora una profonda
trasformazione; tra il 50 e il 70 c’ un boom di esportazione di materie prime e di prodotti
semilavorati dagli stati tedeschi verso l’estero e più lento è l’incremento dell’esportazione dei
prodotti finiti: ciò vuol dire che la Germania sta incubando un proprio sviluppo economico di alto
livello ma è ancora un paese in via di sviluppo. La classe politica di questi stati preunitari capisce
che lo sviluppo economico va sostenuto e persino programmato stimolando la ricerca scientifica e
l’istruzione tecnica, riorganizzando le imprese, limitando e controllando la concorrenza. Durante il
periodo 60-79 libero scambista, la Germania conclude trattati bilateri moderatamente
protezionistici per cui non aderisce in toto al liberoscambismo; dopo il 79 vengono erette solide
barriere protezionistiche e la Germania tende a vendere in dumping all’estero: il dumping è
quando qualcuno, per ragioni politiche o per non perdere quote di mercato all’estero, vende
sottocosto ma come si fa a vendere sottocosto e a non fallire? Per essere competitivo all’estero,
alcune imprese vendono all’estero a prezzi inferiori a quelli di mercato e a quelli che sarebbero
necessari per poter sopravvivere e lo fanno per non perdere quote di mercato o per ragioni
politiche; in genere, si può compensare questa perdita economica, pur di non perdere quote di
mercato all’estero, se ho delle condizioni particolarmente favorevoli all’interno, ovvero, se ho un
mercato protetto nel mio paese che mi consente di vendere a prezzi più alto di quelli di mercato
normali quindi guadagnando ciò che ho perso all’estero. In Germania, l’industria pesante e i grandi
latifondisti pretendono e chiedono, avendo ancora grande influenza in parlamento e presso i
governi prussiani, di essere difesi dai cereali russi e di prodotti industriali concorrenti: si crea,
quindi, una sorta di alleanza innaturale e nel 1879 la Germania istituisce una tariffa protezionista
particolarmente elevata e questa è una chiara manifestazione di nazionalismo economico; la fase
successiva, 73-96, invece, è quella che porta dalla crescita allo sviluppo. Quindi, nel 71 abbiamo
visto l’unione politica: la Germania è un paese in via di sviluppo molto avanzato e sta facendo
colossali investimenti industriali; in questi anni, il passaggio da una crescita ad uno sviluppo più
maturo è sostenuto anche dalle politiche di conservatorismo illuminato di Otto Von Bismarck che
si rende conto che se si vogliono mantenere le basi tradizionali della società e della politica
tedesca bisogna concedere qualcosa ai ceti popolari e bisogna fare delle riforme. Tra il 70 e il 90
cresce la produzione agricola (fertilizzanti, sementi selezionate, macchinari) e l’industria continua a

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crescere sia tessile (il cotonificio completa la meccanizzazione delle tessitura e si sviluppano
sensibilmente sia la manifattura serica che il lanificio) che siderurgica grazie al sistema dell’acciaio
basico stimolata dalla necessità delle ferrovia, dall’industria meccanica, dall’elettromeccanica,
dalla cantieristica; c’è anche una crescita urbana per cui si sviluppa l’edilizia, l’impresa di servizi
come la distribuzione di energia elettrica, di gas, elettrificazione, tram, telegrafi e telefoni e,
inoltre, importante è la chimica (la chimica cresce in cinque differenti settori: la chimica di base, i
fertilizzanti agricoli artificiali, il catrame e i coloranti sia minerali che artificiali, gli esplosivi e i
cosmetici insieme ai prodotti farmaceutici).
Dobbiamo vedere come la Germania ormai non è più paese in via di sviluppo ma va ad occupare in
tempi rapidi una posizione di primato che la porrà nei settori trainanti della seconda rivoluzione
industriale a fianco degli Stati Uniti: ciò non significa che la Gran Bretagna diventi un paese povero
ma significa che Germania e Stati Uniti, nei nuovi settori (chimica, acciaio, settore elettrico ecc.),
diventano paesi più trainanti della Gran Bretagna. Tra il 70 e il 1913 la Germania comincia ad
esportare un minor numero di derrate a favore di una maggiore percentuale di prodotti industriali
ad alto valore aggiunto: significa che la qualità della produzione tedesca cresce e la natura di
questa produzione cambia per cui esportare prodotti semilavorati o derrate alimentari dà un’idea
di un’economia meno sofisticata e meno tecnologicamente avanzata rispetto alla produzione di
prodotti industriali ad alto valore aggiunto. La Germania, a partire dal 1880, è ormai in una
dinamica di sviluppo equilibrato ed è in corso di accelerazione: quali possono essere alcune delle
causa e/o delle caratteristiche salienti del successo tedesco? La produzione tedesca si caratterizza
per una forte propensione alle grandi dimensioni con grandi imprese e grandi stabilimenti mentre
il secondo aspetto riguarda i continui e ingenti investimenti in tecnologia; il terzo aspetto è lo
strettissimo legame tra l’industria, il settore bancario creditizio e la finanza: le banche tedesche
avevano un ruolo fondamentale non solo concedendo credito alle imprese industriali ma entrando
con i propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese tedesche e
contribuendo attivamente alla loro gestione. Infine, un altro aspetto da sottolineare è la frequenza
e la rilevanza degli accordi e delle combinazioni; negli anni 70, anni della Grande Depressione
legata al ristagno e alla diminuzione dei prezzi, calano i prezzi e calano i profitti e una delle risposte
tedesche è proprio la creazione di cartelle per controllare il mercato e manipolare i prezzi: sorgono
queste cartelle per mitigare le alterazione dei prezzi e mantenerli superiori ai costi di produzione,
diminuendo la concorrenza, e serviranno anche per decidere le quote di produzione e le quote di
mercato. Vediamo l’importanza del settore creditizio nell’economia tedesca: il legame tra moneta,
credito, finanza e investimenti è uno degli aspetti più importanti dello sviluppo economico
tedesco; prima del 1871 (anno in cui nasce la Germania come secondo Reich, ovvero, viene
unificata, sotto la leadership di Otto Von Bismarck, quella molteplicità di stati pre Germania unita
per cui la Germania diventa una realtà politica istituzionale unitaria), nell’area tedesca vi era una
situazione complessa perché coesistevano molte monete metalliche e biglietti di banca emessi da
istituti statali e da banchieri privati: nel 71-73 avviene una razionalizzazione e c’è un passaggio al
monometallismo aureo (gold standard) dopo il pagamento dei danni di guerra francesi. Nel 75 c’è
un riordino nel sistema di emissione e viene fondata la Reichsbank, ovvero, la banca centrale del
secondo Reich: è una situazione non troppo dissimile da quella britannica perché è un’istituzione
privata, per quanto riguarda la proprietà della banca, ma anche pubblica perché svolge funzioni
che vanno ben al di là dell’attività creditizia di una banca privata; svolge anche ordinariamente
attività di credito commerciale ma la sua attività più importante è quella di essere la banca delle
banche. Tra il 70 e il 73 c’è un boom delle banche tedesche e, in particolare, ne emergono tre tra
cui una ancora oggi celeberrima, ovvero, la Deutsche Bank che non va confusa con la banca
centrale perché è una banca privata che svolge funzioni non di banca centrale perché quel ruolo è
svolto dalla Reichsbank (oggi la banca centrale tedesca è la Bundesbank); le tre banche più
importanti che emergono sono quindi: la Deutsche Bank, la Dresdner Bank e la Commerz und

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disconto-bank: queste banche svolgono funzioni molteplici tanto è vero che si chiamano anche
banche universali o miste ma la loro specialità è l’investimento a lungo termine nel settore
industriale che è un investimento diverso dal credito commerciale. In nessun altro paese,
l’alleanza tra banchieri ed imprenditori industriali è stata così stretta e così determinante per gli
esiti dell’economia nazionale: le banche giocano un ruolo decisivo in un paese che non ha le
tradizioni commerciali della Gran Bretagna o della Francia e che era, inizialmente, ancora arretrato
sul piano manufatturiero. Dobbiamo notare che la Gran Bretagna, in un’epoca precedente, è la
prima industria del mondo, per decenni ha pochi rivali e si industrializza in un’epoca in cui
certamente ci vogliono capitali, le tecnologie sono importanti ma non parliamo di settori ad
altissima intensità di capitale fisso e ad altissimo tasso tecnologico scientifico; inoltre, l’Inghilterra
ha una lunga tradizione di trionfi commerciali e di intensa attività commerciale, il che significa che
parecchi capitali, dalle attività mercantili e anche dalla proprietà fondiaria, in un paese dinamico e
attivo, quasi spontaneamente erano confluiti verso le nascenti attività industriali che
necessitavano di minori capitali finanziari (ne andavano di più e più spontaneamente e ne erano
necessari di meno). In Germania, invece, non ci sono quelle condizioni così favorevoli perché non
c’è una tradizione mercantile come quella britannica e quest’epoca in cui si sviluppa la Germania è
un’epoca in cui ci vogliono capitali più consistenti: tutto ciò necessita di banche forti nel credito
industriale che suppliscano le carenze di altre genere e queste banche non solo forniscono le
risorse finanziarie ma i banchieri siedono nei CDA delle S.P.A. industriali e commerciali e viceversa;
quindi c’è non solo un legame finanziario-creditizio ma una compenetrazione con acquisti di
capitali azionari. Queste banche, che si espongono significativamente nei confronti del settore
industriale e che in questo settore inviano e fanno radicare i loro rappresentanti, sono banche che
favoriscono le concentrazioni industriali e i cartelli: perché? Perché, così facendo, si diminuisce il
rischio legato alla concorrenza e quindi il rischio di fallimenti e di difficoltà diminuisce: io ti presto
del denaro e cerchiamo di fare in modo che i tuoi utili siano il più possibile elevati e stabili nel
tempo; anche il mondo delle banche, poi, conosce dinamiche di concentrazione e di fusione. Il
ruolo delle banche nel modello di sviluppo tedesco è importante e le banche contribuiscono in
modo determinante al superamento delle strozzature che avrebbero potuto e, in parte, avevano
ostacolato e reso più difficile il salto dalle vecchie alle nuove forme organizzative tecnologiche
(dimensioni degli stabilimenti, più elevata importanza del capitale fisso), le quali sono
caratteristiche tipiche della seconda rivoluzione industriale nei suoi settori perché per costruire
un’impresa chimica e uno stabilimento competitivo ci vogliono molti soldi e grandi investimenti
nella struttura di capitale fisso e nella ricerca; la diversa natura economica e storica dell’area
tedesca rispetto all’area britannica, il relativo ritardo tedesco e i diversi momenti in cui questi due
paesi si industrializzano in modo compiuto e matura (prima rivoluzione industriale per la Gran
Bretagna e la seconda rivoluzione industriale per la Germania): tutti questi fattori spiegano la
tempistica e la natura diversa dello sviluppo tedesco. Un’ultima osservazione importante riguarda i
contraccolpi sociali del mutamento economico e tecnologico: tra il 1840 e il 1915, la Germania, da
paese essenzialmente agricolo tradizionale, si trasforma in una potenza industriale di primo ordine
in Europa: in questa epoca, in Europa, la potenza industriale in senso stretto è la Germania ancora
di più della Gran Bretagna che, nei settori della seconda rivoluzione industriale, è importante ma
non leader come la Germania, la quale è leader nel settore terziario, nel commercio
internazionale, nel settore dei servizi come quelli assicurativi. Questa trasformazione tedesca non
avviene senza costi economico, sociali ed umani: c’è un certo malessere sociale nelle aree rurali ed
urbane perché è una trasformazione profonda; per tenere sotto controllo e attenuare il disagio dei
discendenti impoveriti (i servi della gleba), vengono varate delle norme: nel 90-91, le terre
demaniali in queste aree vengono suddivise in poderi e vengono concessi a questi esponenti non
ricchi del mondo rurale. Dopo il 1879, c’è una svolta protezionistica che vede alleati e a premere
sui governi e sui parlamenti tedeschi i grandi Junker produttori di cereali e i grandi industriali

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dell’acciaio: questa tariffa doganale ha un significato economico perché protegge due settori che
economicamente e politicamente sono ancora influenti ma queste tariffe hanno anche un
significato finanziario cruciale per il bilancio pubblico perché si impongono queste tariffe doganale
per finalità protezionistiche ma anche per ottenere un gettito significativo. Una parte di questi
introiti fiscali che derivano dalla scelta protezionista viene utilizzata dal conservatore illuminato
Bismarck per finanziarie misure di politica sociale che sono definibili come welfare state: per le
attività marginali alla fabbrica vengono rivitalizzate le corporazioni non perché ci fosse un ritorno
al passato ma perché si riteneva che alcune attività che non necessitavano di una forte spinta
industriale e di fabbrica potessero essere sostenute da questo nuovo spirito corporativo; inoltre,
vengono introdotte pensioni di vecchiaia, provvidenze per le malattie degli operai, forme di
assistenza per gli infortuni sul lavoro, sussidi di disoccupazione. Nel 1890, si va verso la fine
dell’era di Bismarck e la scomparsa di Bismarck pone fine alla sua realpolitik, la quale significa una
politica dura ma realistica che non nutriva ambizioni eccessivi, non aveva connotazioni ideologiche
eclatanti ma si basava su un sano pragmatismo e sapeva cogliere i limiti della potenziali
opportunità che si presentavano: per Bismarck, ad esempio, l’idea non era tanto quella di fare
concorrenza su scala mondiale alla dominatrice dei mari e delle colonie ma era quella di esercitare
un’egemonia sul quadro politico europeo continentale per evitare che qualcuno prendesse troppo
potere a danno degli interessi tedeschi sullo scacchiere continentale europeo. A questa visione di
Bismarck, subentra una più rozza politica di potenza tipica dell’era guglielmina, dal nome del kaiser
Guglielmo: Guglielmo vuole un’affermazione più eclatante e marcata della Germania per cui si
isola diplomaticamente e vuole varare una politica di potenza molto più esplicita e più rozza, ad
esempio, Guglielmo promuove un’intensa costruzione di una grande marina da guerra che non
poteva non essere letta come una sfida al dominio britannico sui mari. Questo isolamento
diplomatico e questa sua politica più rozza, molto nazionalista e duramente militarista, è acuito
anche dalle guerre doganali e dalla tariffa iperprotezionista del 1903.
Vediamo un altro grande paese che si industrializza ancora più tardi senza arrivare ai livelli della
Germania e che vedrà una storia diversa dai paesi visti fino ad ora: passiamo a quella vicenda
eccezionale che porta dal feudalesimo al capitalismo e poi al socialismo reale o comunismo,
ovvero, la Russia. La Russia è un paese che ha una storia molto diversa da quella dell’Europa
occidentale perché è una storia diversa culturalmente, geograficamente, dal punto di vista
climatico, dal punto di vista religioso: la Russia è un grande impero ma non un impero coloniale nel
senso tradizionale di paese europeo che va oltre mare e costruisce degli imperi coloniali in Africa o
in Ansia o in America ma è un impero continentale, è un impero non marittimo ma terrestre. La
Russia conquista una serie di territori che dall’area moscovita e ucraina si estende sempre più
verso la Siberia e l’area del Caucaso; oltre a questo, poi, abbiamo anche l’esperienza verso
l’occidente come la costruzione di una capitale simbolo dell’apertura parziale verso l’occidente
come San Pietroburgo. Che cos’è la Russia verso metà dell’800? La Russia del 1850 è ancora una
società feudale che sfrutta, con tecniche arretrare, un ambiente ricco di risorse naturali e lo
sfrutta, essenzialmente, facendo ricorso al lavoro e vige ancora la servitù della gleba, la quale
mette a disposizione dei signori/nobili russi una manodopera gratuita non di alto livello
qualitativo. La Russia, politicamente, non è una monarchia costituzionale ma è un’autocrazia in cui
la figura centrale è quello dello zar che esercita un potere autocratico, insieme ai consiglieri. Per
quanto riguarda la densità demografica in Russia, la Russia era un paese sottopopolato perché ha
un territorio enorme: la Russia è il paese più vasto al mondo dal punto di vista geografico; attorno
a metà 800, ci sono solo tre città con più di 100.000 mila abitanti che sono Mosca, Kiev e San
Pietroburgo. Il 95% circa della popolazione è una popolazione che vive nelle aree rurali: è una
società fortissimamente polarizzata perché c’è un’élite aristocratica che controlla la terra e che ha
una notevole influenza politica e c’è una massa povera di contadini dispersa nei villaggi e molti di
questi sono, appunto, servi della gleba (non sono schiavi ma non sono liberi); la nobiltà, quindi,

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controlla molti uomini che non sono liberi ma sono servi legati alla terra: questi uomini sono
controllati dai nobili che possono affittarli, venderli, spostarli, punirli, deportarli e li fanno lavorare
in modo preciso sfruttando il loro lavoro. L’agricoltura è, in questo contesto, il settore dominante e
anche arretrato: dato che il 95% della popolazione vive in campagna e svolge attività agricola,
questa affermazione ci fa comprendere che questa agricoltura è arretrata perché significa che la
produttività del lavoro agricolo e di questa agricoltura è molto bassa e quindi per nutrire la
popolazione è necessario che gran parte di essa sia impegnato nell’agricoltura; le economie più
avanzate che hanno agricolture più avanzate tendono ad impiegarvi molta minore percentuale
della propria manodopera perché l’agricoltura è più avanzata e quindi la produttività è superiore.
Vediamo quindi le caratteristiche di questa agricoltura largamente incentrata su una cerealicoltura
estensiva a bassa produttività; è difficile, sia per l’epoca e sia per il territorio e il clima, il trasporto
a distanza delle derrate perché larga parte del territorio russo ha un clima dura: questi motivi
mantenevano l’agricoltura allo stadio della produzione per l’autoconsumo. C’è però poi una
minima commercializzazione dell’economia rurale ma gli stessi nobili non sono particolarmente
evoluti: l’ignoranza contabile e agronomica dei nobili è spesso crassa; c’è un mosaico di terre
contadine mescolate in modo poco funzionale a quelle signorili. Possiamo dire che la struttura
politico-sociale e l’organizzazione agricola del paese non stimola l’innovazione e la
modernizzazione in agricoltura né da parte dei signori feudali che si trovano già in mano le chiavi
verso la rendita fondiaria grazie alla struttura socio-politica del paese perché possono contare sulla
manodopera a buon mercato della servitù della gleba (non hanno nessun incentivo alla
modernizzazione) né da parte di coloro che lavorano la terra il cui orizzonte esistenziale è il
sopravvivere con le loro famiglie. Naturalmente, non tutta l’agricoltura russa è uguale ma ci sono
alcune aree un po’ più evolutive, per esempio, più avanzata è l’agricoltura della Russia del sud
dove ci sono dei contadini liberi che lavorano dei poderi loro concessi dallo stato: qui comincia una
faticosa ma più evoluta sostituzione del maggese nelle rotazioni triennali con rotazioni più
complesse. C’è un evento storico che rappresenta un momento di svolta per il mondo russo e per
la sua classe dirigente che rivela, sul piano della potenza strategico militare, l’arretratezza del
paese alla quale non si può ovviare se non cominciando a riformare le strutture sociali per poi
passare alla modernizzazione economica: questo evento storico e bellico di metà 800 è la guerra di
Crimea tra il 1854-1856 in cui la flotta zarista si rivelò inferiore al naviglio nemico inglese e
francese (due leader hanno invaso la Russia tra cui Napoleone e Hitler). Per essere una grande
potenza militare non basta avere denaro o tanti uomini ma bisogna disporre di un apparato
industriale che consenta di fare un salto di qualità negli armamenti e nella logistica: il ritardo
tecnico-organizzativo dell’esercito e della marina russa è conclamato; ci si rende conto che se si
vuole essere competitivi anche a livello militare bisogna modernizzarsi e cambiare la società russa.
Alessandro II, lo zar, si rende conto che c’è necessità di emancipare i servi non perché fosse un
riformista ma perché si rende conto che una società così ingessata non avrebbe mai potuto fare un
salto di qualità della produttività e della produzione economica; non è facile, però, questo in un
modo molto diverso da quello occidentale: c’è il timore che si possano alimentare delle rivolte
rurali e delle sovversioni per cui, da un lato, attenuare il giogo sulla servitù della gleba poteva
essere positivo ma, dall’altra parte, c’era il timore che si potesse innescare un mutamento
incontrollabile. La classe dirigente, infatti, è tutt’altro che monoliticamente votata alle riforme: una
parte della nobiltà teme che una crescita dei settori industriali e commerciali potesse minare il suo
predominio politico ed economico basato sul controllo della terra in modo stretta; c’è una
profonda frattura in Russia: ci sono anche molti intellettuali che sono contro l’industrializzazione
perché era vista come estranea ai valori culturali, storici e religiosi del paese. Tutto questo rende la
modernizzazione tutt’altro che semplice: tuttavia, prevale la linea riformista e tra il 58 e il 68 si
assiste ad una graduale abolizione della servitù della gleba e ad una serie di misure che affrontano
la questione della piccola proprietà del terreno. Questo ultimo aspetto (l’abolizione graduale della

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servitù della gleba e la distribuzione della terra) è importante: è evidente che l’abolizione della
servitù della gleba abbia delle implicazioni giuridiche, umane, storiche, economiche e sociali
importanti perché è una precondizione per sviluppi successivi; tuttavia, liberare dalla servitù delle
persone comporti un loro miglioramento dal punto di vista socio-economico: queste persone non
saranno più servi, qualche volta la loro condizione migliora subito ma non è sempre così perché in
alcuni casi può peggiorare perché prima, seppur in un contesto di non libertà e di sfruttamento,
l’essere sottomessi poteva comportare un piccolo aiuto. La riforma agraria che ha luogo in quei
decenni in Russia comporta anche delle questioni sociali importanti: i nobili, spesso, vogliono
vendere parte delle loro terre e dei loro latifondi perché vogliono colmare i loro debiti e i
contadini, spesso, non vogliono acquistare queste terre perché, inizialmente, molti di loro non
hanno le risorse finanziarie ed economiche; questo, in alcune aree del paese, comporta una
diminuzione delle superfici coltivate e una diminuzione del volume di derrate prodotte. Tutto
questo è importante perché ci dà la dimensione della complessità della storia, ovvero, un
provvedimento (l’abolizione della servitù) che pur ottiene degli effetti, non significa un successo
ovunque perché la storia è complicata: l’abolizione della servitù della gleba è una tappa
importante nella modernizzazione della Russia ma non significa che tutti e subito ne traggano un
immediato beneficio. Dopo la riforma prevalgono due tipi fondamentali di sfruttamento del
terreno: il latifondo in mano ai nobili che persiste e le terre cosiddette del mir che sono i villaggi
che sono, invece, controllate da alcuni di quei contadini ex servi. La bassa produttività che,
tuttavia, caratterizza queste terre e questi piccoli poderi contadini dei mir e la produzione
insufficiente fanno sì che alcuni di questi titolari di piccoli appezzamenti cerchino lavoro anche
come braccianti presso i latifondisti: in alcuni casi, quindi, con nuove caratteristiche giuridiche,
sociali ed economiche si riproducono situazioni che non sono così distanti da quelle di prima. Ci
sono però anche dei progressi produttivi perché, ad esempio, ci sono aree in cui si incrementa la
produzione, aumentano gli scambi localmente, aumenta l’export: negli anni 70 dell’800, per
esempio, una parte dell’Europa è invasa di grani extraeuropei, i quali vengono dagli Stati Uniti,
dove l’agricoltura si fa molto più avanzata e produttiva non sfruttando una manodopera che
scarseggia ma sfruttando le macchine, e dalla Russia dove questa produzione, invece, è basata
sulla convenienza della manodopera a basso costo. Senza voler sopravvalutare l’immediatezza e la
capillarità della modernizzazione agricola russa, resta il fatto comunque che, in alcune aree, alcuni
riescono ad ottenere dei risultati significativi e tra questi c’è una minoranza contadina
intraprendente costituita dai famosi kulaki che prestano a usura; ci sono quindi anche dei
miglioramenti grazie a questi contadini kulaki che aumentano le loro risorse finanziarie e le proprie
proprietà fondiarie arricchendosi a danno anche di una nobiltà indebitata e a danno del
proletariato rurale. In Russia, che pur rimane un paese a bassa densità demografica, ci sono, però,
dei mutamenti demografici importanti: c’è una crescita demografica che comporta il processo di
urbanizzazione ma anche una migrazione interna, la quale vanno verso la Siberia e i territori
dell’Asia centrale. Complessivamente, quindi, la Russia di fine 800 è una Russia che vede anche
degli importanti mutamenti strutturali nel mondo rurale e agricolo, un certo aggiornamento
agronomico almeno in alcuni ambiti e una progressiva crescita della produttività della
cerealicolture. Tra le aree che affondano le radici delle loro tensioni e sofferenze in quest’epoca,
ovvero, quando l’impero russo si espande, c’è una zona la cui guerra ha segnato anche negli ultimi
decenni la storia della Russia con sofferenze enormi e ricadute terroristiche: la Cecenia. Per
quanto riguarda le manifatture, invece, si passa dalla manifattura tradizionale all’industria: in
Russia, in questi decenni, vi è un processo di modernizzazione anche industriale però, in un paese
così ampio e variegato, si svolge lentamente. Pietro il Grande e i suoi successori avevano
contribuito ad alimentare una tradizione di manifatture di tipo tradizionale (di tipo ancien regime)
e non è un caso che, ai primi dell’800, mentre in Inghilterra le cose si stavamo muovendo in senso
industriale, la Russia non usasse praticamente né carbone di miniera né vapore: la manifattura era

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promossa dallo stato e dai nobili su basi feudali per cui lo stimolo che ne deriva alla società è
molto limitato e la società russa è una società priva o quasi di quel ceto che invece, altrove, era il
più dinamico, ovvero, la borghesia; ci sono dei passi avanti perché ci sono degli incrementi di
produzione manifatturiera anche perché c’è una maggiore pressione che viene dall’incremento
demografico ma siamo ancora nell’ambito di condizioni tradizionali e anche piuttosto limitate
quantitativamente. Lo stesso utilizzo in queste manifatture, di stampo ancora feudale, della
manodopera servile è vantaggioso in termini strettamente economico-finanziari ma poco utile dal
punto di vista della qualità della manodopera (in termini di capitale umano) perché questa
manodopera servile non è preparata e non ha competenze; tanto è vero che alcuni dei primi
imprenditori un po’ più moderni in Russia chiedono espressamente di poter fare a meno della
manodopera servile messa a disposizione dallo stato in collaborazione con i nobili perché puntano
ad una manodopera libera, salariata, meno incompetente e ad un’incipiente meccanizzazione. Così
come, per esempio, negli Stati Uniti, la schiavitù non interessa agli industriali, i quali hanno
bisogno di manodopera qualificata; l’unico settore in cui si notano degli avanzamenti significativi in
questa fase ancora tradizionale è il cotonificio. Tuttavia, quanto abbiamo visto sul piano sociale e
militare, questa presa di coscienza della necessità di un passo avanti ha delle implicazioni anche
sul piano industriale e manifatturiero: vedremo come l’intervento statale influenzerà, insieme con
alcuni intervieni privati ma limitati, lo sviluppo industriale della Russia. L’attore principale è lo
stato e questo è un elemento tipico della Russia perché lo stato è fondamentale nell’economia
non solo quando la Russia diventa una potenza comunista (non solo nell’unione sovietica dove lo
statalismo collettivista è l’unico che può detenere i mezzi di produzione e non c’è più proprietà
privata) ma questo ruolo dello stato affonda le proprie radici già nell’epoca zarista dove sussisteva
un capitalismo russo e non c’era il comunismo: ciò significa che ci sono elementi nella storia di
alcuni paesi che, pur sotto regimi e fasi storiche diverse, mantengono una loro rilevanza di fondo;
la storia economica russa è caratterizzata prima, durante e dopo il comunismo da una fortissima
presenza dello stato nell’economia. Un primo settore in cui l’intervento statale si dimostra
fondamentale è il settore ferroviario: in un paese enorme, dal clima complesso, così diversificato
come la Russia, la costruzione di collegamenti ferroviari diventa fondamentale per ragioni
economiche, strategiche. Inizialmente compagnie private agiscono su concessione statale ma poi
cresce l’intervento statale: nei primi anni del 900, lo stato gestisce il 70% e la Transiberiana, una
delle più importanti linee ferroviarie di tutto il mondo, è totalmente sotto gestione statale. Sotto il
primo ministro De Witte, aumenta l’intervento statale in economia: cosa c’è dietro a questo
crescente intervento statale? C’è l’idea di favorire l’industrializzazione anche a tappe forzate non
lasciandola in mano a privati che, in assenza di una borghesia moderna, non si sarebbe facilmente
sviluppata perché c’è una visione di fondo secondo la quale favorire l’industrializzazione, oltre a
sostenere l’esercito e la potenza strategica, è fondamentale per avviare a soluzione il problema del
mondo rurale: ecco quindi investimenti finanziari e tecnologici stranieri che vengono non solo
accettati ma anche stimolati, investimenti russi statali nelle infrastrutture, una crescente politica
protezionista e anche una crescente pressione fiscale sul mondo contadino contenendone i
consumi per drenare risorse che possono essere investite dallo stato centrale nelle infrastrutture
viarie e nella creazione di impianti industriali moderni. Quindi, in Russia, la domanda pubblica si
sostituisce pressoché totalmente a quella privata già nell’epoca zarista per cui sostituisce lo
stimolo economico che, invece, nella maggior parte del mondo occidentale, era venuto dalle
interazioni di mercato tra domanda ed offerta privata: anche in Europa occidentale il ruolo dello
stato era stato rilevante ma qui molto di più perché qui non c’è una borghesia abbastanza
intraprendente che possa agire da attore protagonista e da stimolo fondamentale ma ci vuole lo
stato. La manodopera spesso è inefficiente e indisciplinata in Russia e spesso i possidenti non
desiderano intraprendere investimenti industriali: questo spinge il governo a ricorrere ad
imprenditori stranieri abili conoscitori e gestori di nuove tecniche industriali per cui si attirano

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apertamente/esplicitamente investimenti in siderurgia meccanica e si costruisce, in questo modo,
un modello di sviluppo che sostituisce una manodopera abbondante ma di cattività qualità con il
fattore capitale; questa è la spiegazione di quegli impianti e di quelle imprese molto moderne che
potrebbero sembrare sorprendenti in un contesto così arrestato. Comincia, così, un’industria
moderna che si affianca alla tradizione artigianale dei mir che persiste perché è sia difficile
unificare un mercato interno enorme come quello russo (per molto tempo non c’è un vero
mercato interno unitario) e poi perché i salari di questo artigianato dei mir sono bassi e quindi
sono, per certe attività, concorrenziali. La limitatezza e la complessità di questo modello non
significa che non vi siano dei successi: a partire dal 1890 c’è un incremento tumultuoso
dell’industrializzazione russa con un tasso di crescita dell’8% che non ha paragoni nell’800
europeo; prevalgono quindi grandi imprese con grandi investimenti in capitale fisso e con
localizzazioni accentrate, alcune delle quali sono molto moderni. Sono però come delle macchie di
leopardo: industria siderurgica, metallurgica, metalmeccanica, settore petrolifero e anche
qualcosa nel credito; spesso, la concentrazione di trust e cartelli sono notevoli: nel settore
petrolifero e in quello del credito si affermano dei veri e propri trust mentre nella metallurgia la
combinazione di cartelli, attuando la concorrenza, permise di espandere le esportazioni. Comincia
anche ad intravedersi un ceto borghese anche se, naturalmente, non siamo ai livelli dell’Europa
occidentale: vediamo come la Russia zarista, pur nella sua complessità, eterogeneità ed
arretratezza ha anche delle punte di eccellenza e ha innescato delle dinamiche di
modernizzazione; alcuni storici, infatti, sostengono, ad esempio, che la Russia pre rivoluzione russa
fosse un paese con le sue peculiarità avviata verso una modernizzazione che, se non vi fosse stata
l’interruzione e lo stravolgimento di impostazione comunista, avrebbe portato ad una
modernizzazione molto più equilibrata ed efficace. Per quanto riguarda il settore creditizio,
inizialmente dominato dalle banche di deposito, dal 1870 ha visto nascere le banche commerciali;
le casse rurali e le banche municipali, istituti piccoli a carattere locale, completavano la struttura
creditizia russa. Dal 1870, la finanza russa incontra crescenti problemi: l’aumentato fabbisogno di
risorse per bilanciare il bilancio dello stato (gli investimenti esteri, dovuti al finanziamento delle
infrastrutture pubbliche e delle imprese, crescono e si orientano verso il debito pubblico) e gli
interventi infrastrutturali decisi dal governo portano i ministri del Tesoro a emettere cartamoneta
soggetta a rapido deprezzamento rispetto al rublo d’argento utilizzato nel commercio; nel
tentativo di tenere sotto controllo il valore della moneta, nel 1897 anche la Russia adotta il Gold
Standard e solo la Banca Imperiale può emettere cartamoneta. Quindi, ai primi del 900, ci sono
grandi progressi industriali in Russia ma, tuttavia, ben lungi dall’essere uniformi nell’economia per
cui cresce, in questa Russia in trasformazione, il divario tra attività tradizionali e attività più
moderne.
Prima di uscire totalmente dall’Europa, vediamo qualcosa sull’economia dell’Italia: la storia
economica dell’Italia è ben più lunga e profonda di quella dell’Italia unita, ovvero, l’unificazione
italiana non è la nascita della storia economica italiana; però, la nascita di un nuovo paese segna
l’avventa e la comparsa in scena di un nuovo attore che è, appunto, lo stato unitario così come
nell’area tedesca si era visto lo stato del secondo Reich. Nel 1861, l’Italia è uno dei paesi più
popolosi dell’Europa centro-occidentale perché ha circa 25-26 milioni di abitanti: la popolazione è
in larga misura rurale; c’è ancora una diffusa e prevalente arretratezza socio-economico e
culturale: il 75 e l’80% della popolazione è analfabeta e solo il 5 per 1000 della popolazione sa
comunicare per iscritto in italiano letterario. La mortalità infantile è molto elevata e larga parte
della popolazione vive su diete povere e squilibrate che comportano, ad esempio, malattie da
avitaminosi come la pellagra; inoltre, il suffragio è limitato ed è concesso ai maggiori possidenti.
L’economia italiana è eterogenea e complessivamente arretrata: quasi il 60% della ricchezza
nazionale è prodotta nel settore primario (agricoltura, allevamento, pesca), il settore terziario è
circa il 22% e solo il 20% della ricchezza nazionale è prodotto nel settore secondario che, peraltro,

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è poco industriale e molto più artigianale; il livello del reddito medio pro-capite è minore a quello
dei paesi più avanzati e la percentuale di popolazione attiva nel settore primario è elevata: in Italia
siamo attorno al 65%, in Germania attorno al 50%, in Francia al 48% e in Gran Bretagna al 20% e
questo ci dà l’idea di come fossero le condizioni economiche sociali del paese perché la Gran
Bretagna è già un paese industriale maturo, la Francia e le Germania sono per strada mentre
l’Italia è molto indietro. L’economia italiana è divisa in diversi mercati ed è piuttosto caotica
perché ci sono ancora eredità degli stati preunitari, ci sono diverse monete, dazi municipali, elevati
costi di trasporti ed essa risente anche di una serie di elementi sfavorevoli ad un avvio di un
processo di crescita industriale: ha un’agricoltura poco produttiva perché pochi sono i suoli adatti
alla coltivazione, il clima è sfavorevole, l’arretratezza agronomica è diffusa, mancano e
scarseggiano macchine e fertilizzanti; non solo l’Italia cerealicola non può esportare ma non si
raggiungono spesso neppure i volumi di cereali adeguati ai consumi interni. Il basso livello di
reddito del settore predominante (dell’agricoltura) e la sperequazione nella sua distribuzione
(perché c’è una varietà di situazioni con i latifondisti al sud, la piccola proprietà e la mezzadria nel
centro nord e pochi fittavoli, capitalisti ed imprenditori agricoli nella valle padana) sono un limite
per due cose importanti: il consumo e il risparmio; se c’è meno ricchezza in giro ci saranno meno
risorse da spendere per consumare e meno risorse da risparmiare per poi, eventualmente,
tramutare questo risparmio in investimento. Inoltre, l’Italia è un paese povero di risorse naturali,
in particolare, di come giacimenti di carbone e di ferro che sono fondamentali e favoriscono la
siderurgia e il ricorso massiccio alla macchina a vapore: è quindi un quadro non favorevole. Negli
anni 60, il governo centrale è ancora improntato ad una visione liberoscambista di stampo
cavouriano, prettamente liberale piemontese, che aiuta poco le imprese private: si estendono,
infatti, a tutto il paese le dogane liberoscambiste piemontesi e ciò significa una crisi per molti
prodotti locali; la maggior parte dei politici italiani riteneva che l’Italia, in quella precisa fase
storica, dovesse specializzarsi nell’esportazione di determinati prodotti agricoli, la cui produzione
le era più congeniale, per pagare le importazioni industriali: queste esportazioni erano la seta
greggia o semilavorata, i vini da taglio, l’olio, gli agrumi, lo zolfo ma, tuttavia, le esportazioni
rimanevano comunque inferiori alle importazioni. Nella seconda metà degli anni 70 e fino alla fine
degli anni 80, anche l’agricoltura italiana è colpita da queste importazioni di grani teneri per la
panificazione dalla Russia e dagli Stati Uniti i cui prezzi sono inferiori, per diversi motivi, di certa il
30%; questa situazione comporta una crisi, soprattutto nel nord, del frumento italiano e qui ci
sono diverse reazioni: se, da un lato, i latifondisti del sud richiedono e otterranno una politica
protezionista d’accordo con alcuni industriali, dall’altro lato, nel nord si accetterà di mutare la
propria agricoltura e di modernizzarla introducendo innovazioni come il foraggio per i bovini, la
barbabietola e i pomodori e intensificando colture preesistenti come la patata, la vite e la canapa.
Quindi, questa del nord è un’agricoltura che si farà più orientata al mercato e aumenta la ricchezza
prodotta dall’agricoltura; nella fase liberoscambista 61-87, l’85% dell’export sono, infatti, materie
prime agricole. Appurato questo indirizzo inizialmente liberoscambista e appurata questa
arretratezza generale dell’economia italiana, quali misure vengono assunte dai primi governi
unitari per sostenere ed incentivare lo sviluppo industriale? In primo luogo, una serie di misure
che non sono solo e prevalentemente economiche ma di contesto, le quali possano favorire ed
accelerare l’unificazione del mercato nazionale: dal 1862, l’unione monetaria è importante infatti il
modello è quello della lira piemontese d’oro e d’argento a base decimale con monete divisionali in
bronzo e vengono fissate le parità fra la nuova lira italiana e le monete dei vecchi state preunitari
che, peraltro, continuano a circolare; un’altra precondizione importante è che dal 62 vengono
uniformati i pesi e le misure sulla base del sistema metrico decimale e nel 65 viene varato un
codice di commercio che regola organicamente le relazioni commerciali e la costituzione delle
società. Importanti sono anche gli interventi infrastrutturali e circa 1/4 della spesa pubblica, tra il
61 e l’81, è proprio destinata a questo tipo di interventi (ferrovie e quant’altro). Abbiamo anche un

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primo caso di intervento governativo in una singola impresa, la famosa Terni: c’è un’impresa
privata fondata nell’84 da un gruppo di capitalisti guidati da Breda e in questo modo l’Italia cerca
di svincolarsi dalle importazioni britanniche e francesi di lastre d’acciaio per navi, soprattutto dopo
la Triplice Alleanza dell’82. Ci sono degli interventi pubblici per migliorare l’immagine all’estero
dell’Italia che hanno delle ricadute economiche: per esempio, lo sviluppo di cantieri navali per le
necessità dell’esercito e della flotta. Soprattutto, però, è un ambito pre economico rilevante per
l’economia ad attirare la nostra attenzione, ovvero, il problema dell’educazione, della
scolarizzazione e dell’alfabetizzazione: l’Italia era un paese che aveva dei tassi molto elevati di
analfabetismo e, in un paese di questo genere, la spesa per l’istruzione di base equivale ad un
investimento infrastrutturale perché ha un’importanza paragonabile alla costruzione di strade e
ferrovie; questo è importante e non possiamo limitarci ad una valutazione meramente economica
di questo aspetto perché, in questo modo, si formano cittadini, si migliora il livello culturale e la
capacità di queste persone di leggere e di scrivere. La fase 1887-1915 è caratterizzata da una
svolta protezionista: nei primi anni 80 abbiamo i primi interventi statali in cui si promuove
l’insediamento di società estere che possono assicurare produzioni strategiche (multinazionali che
si radicano nel contesto italiano), viene varato un piano decennale di aiuti per la cantieristica e, nel
rinnovo delle convenzioni con le società ferroviarie, lo stato impone una quota di locomotori
nazionali che non sono economicamente convenienti (perché sono più costosi) ma sono scelte
strategiche. Nel 78 era stata introdotta, intanto, una tariffa cautamente protezionistica per i
cereali, lo zucchero, i filati e i tessuti di lana e cotone ma è nell’87 che, in un contesto che sta
cambiando anche a livello europeo, si verifica la svolta protezionista: cereali, latticini, bestiame,
siderurgia, filati di cotone vengono protetti. In questi anni, quindi, vediamo che c’è un intervento
protezionistico, c’è un intervento dello stato diretto e indiretto a favore di imprese varie e c’è
anche una diminuzione del prezzo del carbone; tuttavia, questi tre elementi messi insieme non
sono sufficienti ad avviare uno sviluppo solido e sano dell’industria dell’acciaio italiana che si
verificherà soltanto a partire dal 1895: questo ci dice quanto fosse fragile questo settore,
inizialmente, in Italia. In questi decenni, il maggior contributo alla crescita industriale e nazionale
viene non da questi settori dell’industria pesante ma viene dal cotonificio: le barriere doganali
inducono produttori cotonieri svizzeri, francesi e tedeschi a muoversi verso la Lombardia; a partire
dal 96, si comincia ad esportare cotonate italiane non, ovviamente, nei mercati più avanzati ma
verso aree meno evolute e meno ricche come i Balcani, la Turchia, il Corno d’Africa e l’America
latina per cui dal 90 al 15 l’export di cotone italiano aumenta di una trentina di volte. Cosa accade
sul mercato interno? Sul mercato interno, una maggior ricchezza agricola si riflette positivamente
su altri settori perché degli agricoltori meglio in arnese possono incrementare i propri consumi, in
primo luogo di prodotti tessili, e quindi viene anche a stabilizzarsi la domanda di beni di massa non
strettamente indispensabili; anche nel settore agricolo ci sono dei miglioramenti perché ci sono le
prime macchine, vengono utilizzati i fertilizzanti chimici, ci sono novità agronomiche e, dal
momento che sta crescendo la produttività grazie alle nuove innovazione, si può liberare quella
manodopera sottoccupata dal settore agricolo: questi lavoratori agricoli non più necessari
all’agricoltura italiana non vanno tanto nel settore industriale ma emigrano per cui migliaia di
persone lasciano l’Italia e vanno negli USA, in America latina, in Argentina (il quartiere della Boca è
un quartiere dove si erano stabiliti molti emigrati dalla Liguria). Tutto questo si traduce in un netto
incremento di produttività agricola non come i paesi più avanzati ma c’è comunque un processo di
crescita: crescono i redditi delle persone che vivono in campagna e lavorano nell’agricoltura,
crescono i loro consumi e crescono i loro risparmi depositati presso le banche. Nel 96 termina la
famosa Grande Depressione dei prezzi in cui la produzione e i prezzi risalgono e ripartono e questo
è un vantaggio per i paesi con un basso costo della manodopera come l’Italia: come mai tra il 76 e
il 96 ci fu questo fenomeno di ristagno e declino dei prezzi? Quello che si sta verificando è un
fenomeno di incremento del numero dei produttori e delle quantità prodotte per cui in ultima

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analisi i prezzi possono scendere quando c’è un fenomeno di sovrapproduzione: si affacciano sui
mercati più produttori, più prodotti per cui c’è sovrapproduzione e, a parità di altre condizioni,
questo comporta un declino dei prezzi. Cosa succede quindi in Italia? Il tessile viene ulteriormente
aggiornato e rafforzato, si consolida una siderurgia ciclo integrale dal rottame e l’elettricità diventa
molto importante nell’industria e nell’artigianato del nord: l’Italia è un paese povero di carbone
per cui si diffonde una norma forma energica rappresentata dalle centrali idroelettriche perché
l’Italia è un paese ricco di acqua. Vengono fondate, inoltre, due banche miste dette banche alla
tedesca che sono il Credito Italiano e la Banca Commerciale (la Comit e la Credit), fondate del 94:
ci sono capitali anche stranieri e queste banche sostengono le società anonime industriali con
aperture di credito, con acquisto di azioni e obbligazioni ma anche con partecipazioni dirette di
loro rappresentanti nel CDA, proprio come le banche tedesche, per cui si tratta di una legame
stretto. Nel 1905 scade la concessione per le società private che gestivano la rete ferroviaria e
quasi tutte le linee vengono nazionalizzate: non siamo di fronte ad un esproprio perché vengono
pagati degli auto indennizzi e, a questo scopo, vengono impiegate gli avanzi di bilancio che erano
stati ininterrottamente accumulati a partire dal 1898; in questo contesto aumenta la domanda
interna di materiale ferroviario e gli investimenti ferroviari sono tra le voci maggiori della spesa
pubblica di questa età (ultimi anni dell’800 e primo decennio fino alla Prima guerra mondiale) che
viene definita come “età giolittiana”, età di sviluppo economico anche se ancora lontano dalle
leadership. Le risorse finanziarie messe in circolo dal ministero del tesoro, attraverso la
nazionalizzazione delle ferrovie, perché ci sono questi indennizzi pagati ai privati, vengono investiti
da alcuni di questi privati nel nuovo settore della produzione e della distribuzione dell’energia
elettrica. Nel 1911 la Banca d’Italia costringe le maggiori banche nazionali a salvare le due maggiori
imprese siderurgiche: l’intervento pubblico, quindi, a sostegno di imprese che stanno fallendo, è
una lunga tradizione e questo è un momento importante perché l’Ilva e il Piombino vengono
salvate in questo modo; il ruolo dello stato sta quindi crescendo e gli spazi statali stanno
crescendo: lo stato gestisce anche la prima rete telefonica per la guerra. Arriviamo alla Prima
guerra mondiale che vuol dire, in Italia e non soltanto, una fortissima mobilitazione nazionale:
tutte le risorse umane, materiali, energetiche, organizzative devono essere messe in campo per
sostenere lo sforzo bellico dei soldati al fronte della guerra; parte importante di questa
mobilitazione generale è la mobilitazione industriale: c’è un’assidua regolazione amministrativa
delle imprese, lo stato deve garantire materie prime, fonti energetiche e manodopera, le grandi
imprese siderurgiche e meccaniche diventano grandi imprese approfittando di una legislazione che
prevede agevolazioni fiscali, la chimica serve per gli esplosivi, i motori per gli automezzi
dell’esercito, gli aerei (Francesco Baracca, morto durante la Prima guerra mondiale in un duello
aereo). Questo sforzo enorme ha quindi delle implicazioni politiche, organizzative, amministrative
ed economiche; l’Italia esce provata da questo sforzo notevole, le industrie italiane hanno
contribuito allo sforzo bellico e un’industria che ha tratto benefico dalla guerra è la FIAT (Fabbrica
Italiana Automobili Torino), la quale diventa una potenza industriale significativa.
L’INDUSTRIA FUORI D’EUROPA: I PRIMI PAESI EXTRAEUROPEI AD INDUSTRIALIZZARSI
Usciamo ora dall’Europa: il primo paese extraeuropeo ad industrializzarsi sono gli Stati Uniti, il
quale ha una matrice culturale analoga a quella europea mentre il primo paese ad industrializzarsi
che non sia di matrice occidentale è il Giappone. Il Giappone diventerà una potenza economica di
enorme rilevanza: il Giappone, nel secondo dopo guerra, per decenni, sarà il secondo PIL al mondo
con l’economia di maggiore dimensione dopo gli Stati Uniti; oggi non lo è più ma è proceduto,
oltre che dagli Stati Uniti, dalla Cina ma rimane uno dei protagonisti assoluti dell’economia
mondiale, in termini quantitativi e qualitativi. Questo è solo uno dei due motivi per cui è così
importante il caso giapponese: l’altro motivo è che l’industrializzazione e la modernizzazione del
Giappone dimostrano che, per la prima volta nella storia dell’umanità, per industrializzarsi non

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bisogna essere occidentali, bianchi e di matrice giudaico cristiana; il Giappone, quindi, è il primo
caso di un paese non occidentale che si industrializza. Il fenomeno giapponese è particolare
perchè unisce, da un lato, il mantenimento di radici tradizionali ad una marcata modernizzazione
e, nello stesso tempo, vediamo anche che il Giappone, con tutte le cautele, passa dal feudalesimo
all’età industriale in pochissimi decenni: per capire cos’è l’industrializzazione e la modernizzazione
giapponese dobbiamo, prima di tutto, capire qualcosa riguardo al Giappone pre rivoluzione Meiji,
ovvero, prima di quel fenomeno che negli anni 60 dell’800, comporta molti aspetti tra cui l’avvio di
una modernizzazione. Il Giappone, prima della rivoluzione Meiji (governo illuminato) è un paese,
per secoli, isolazionista e di stampo feudale: il Giappone viene definito come “un paese chiuso in
movimento”, ovvero, un paese chiuso di impronta feudale molto gerarchizzato ed ingessato ma
anche avendo già, al proprio interno, alcuni elementi di dinamismo che possono contribuire a
spiegare la modernizzazione successiva. Nel 1543, i portoghesi arrivano per la prima volta sulle
coste giapponesi e avviano relazioni commerciali; nel 1639, il Giappone chiude totalmente i propri
porti e potranno entrare nel paese solo poche navi cinesi e olandesi autorizzate che venderanno
armi da fuochi, occhiali, munizioni e tabacco. Cosa succede e com’è organizzato questo paese che,
a partire dal 600, si chiude per circa due secoli? Il potere politico non appartiene più all’imperatore
che rimane come figura ma, essenzialmente, come leader religioso: il potere politico appartiene ad
una sorta di capo militare chiamato “shogun” e questa carica/posizione è monopolizzata per quasi
tre secoli, dal 1603 al 1868, da una sola famiglia nobile, ovvero, i Tokugawa. In questo modo, con
questa chiusura e con questo isolazionismo, la classe dirigente giapponese guidata dai Tokugawa
ritiene di preservare il paese dagli influssi religiosi, culturali, tecnologici e politici straniere; si
perpetua per secoli un assetto sociale basato sul feudalesimo e sulle caste, le quali sono una forma
di stratificazione sociale: è una società rigida, meno mobile e meno suscettibile di mobilità sociale
ascendente o discendente, per esempio, è proibito cambiare residenza o occupazione o
professione. I Tokugawa non sono gli unici ad esercitare il potere in Giappone ma sono molto
potenti: tra il 1500 e il 700, un quarto del Giappone appartiene ai Tokugawa mentre il resto è
diviso tra poco meno di 250 feudatari grandi nobili detti “daimyo”, i quali esercitano un potere
assoluto nei loro feudi, sui propri sottoposti esercitano un diritto di vita e di morte, battono
moneta, esigono imposte, organizzano eserciti, sono tutti signori della guerra; i daimyo (l’alta
nobilita) hanno al proprio servizio una nobiltà minore che ha un nome più noto, ovvero, i samurai,
i quali sono spessi guerrieri ma ci sono anche dei burocrati e degli amministratori. L’economia
giapponese, come tutte le economie di quell’epoca, è un’economia basata sull’agricoltura un po’
diversa dalla nostra: è un’agricoltura che, in primo luogo, produce riso e anche altri prodotti come
cereali, produce la soia e produce il tè; molto importante, soprattutto nelle aree vicine al mare, è
la pesca: ancora oggi il pesce è un elemento cruciale nella dieta giapponese e questo contribuisce,
ad esempio, che le affezioni cardiovascolari dei giapponesi siano molto meno frequenti rispetto al
mondo occidentale infatti la medicina giapponese è molto più avanzati in settori come l’oncologia
e l’ematologia che non nel settore della cardiologia. In alcune aree, molto importanti sono anche
la filatura e la tessitura simile all’industria a domicilio vista in Europa nel 500/600/700; ci sono
alcune ma poche manifatture accentrate, la maggior parte della popolazione è rurale, i contadini
di solito detengono la terra solo in uso e non in proprietà e danno circa metà del riso che
producono al daimyo per cui prestano la propria opera sulle terre del daimyo un po’ come le
corvée dell’economia curtense e dell’economia feudale dell’Europa occidentale (sono realtà molto
diverse ma che hanno anche delle analogie). Naturalmente ci sono anche le città e il Giappone è
una realtà in cui le città sono importanti economicamente perché ci sono mercanti e artigiani che,
anche qui, sono organizzati in corporazioni e che prosperano commerciando i raccolti dei daimyo e
dei samurai i quali, per ragioni di prestigio sociale, non possono commerciare perché era ritenuto
non adeguato al loro rango sociale: oltre a commerciare, i mercanti prestano denaro a questi
nobile che spesso si indebitavano; il problema è che questi mercanti non possono nobilitarsi a

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differenza di quanto accadeva in Europa. I centri urbani, però, non sono importanti solo perché vi
si svolgono funzioni non agricole ma sono anche piuttosto numerosi e ci sono città numerose: il
Giappone non è una landa rurale e desolata ma questo è un fattore di evoluzione importante; la
città che, allora, si chiamava Edo che poi diventerà Tokyo, era una delle città più grandi ed evolute.
Nelle città cresce il numero dei mercanti che offrono derrate e manufatti e cresce anche il numero
dei banchieri che prestano a usura; anche nelle campagne ci sono degli elementi di dinamismo: in
campagna non sono gli artigiani e i mercanti a rappresentare l’elemento più dinamico ma sono i
contadini più abili che accrescono il proprio controllo sulla terra e che diventano i maggiorenti
locali delle comunità rurali. Quindi, il senso di questo discorso è che, nonostante la politica
fortemente conservatrice ed isolazionista dei Tokugawa, nel lungo periodo, il dinamismo
intrinseco alla società giapponese non può essere bloccato o soffocato per cui non si può evitare
che in città e in campagna cresca quella che potremmo definire come una borghesia interessata
agli scambi e al credito che rimane, finché vige il regime dei Tokugawa, in condizioni di inferiorità
sociale e culturale (non possono essere considerati alla pari dei nobili) anche se questa borghesia,
oltre a prestare denaro ai nobili, comincia a controllare quote crescenti della ricchezza fondiaria e
mobiliare. Con la metà dell’800 le cose iniziano a cambiare in modo più drastico sia all’interno che
all’esterno (mutamenti interni che, però, si legano anche a fenomeni esteri) e, ad esempio, nel
1853, l’orgoglioso nazionalismo giapponese ha termine perché succede che il commodoro
americano Perry arriva in un porto giapponese e impone le proprie condizione alle autorità
giapponesi (in queste decenni, gli Stati Uniti stanno conquistando il continente americano ed essi
si sono impadroniti di quello che oggi sono gli Stati Uniti e sono arrivati alla costa ovest e quindi il
Giappone rappresenta uno scalo importante verso l’Asia per gli Stati Uniti): nel 54 viene concesso
agli Stati Uniti di poter risiedere e commerciare in due porti minori; questo è importante perché,
successivamente, anche Gran Bretagna, Francia e Olanda ottengono condizioni analoghe. Questa
situazione non è priva di ripercussioni all’interno del paese ma c’è una reazione della nobiltà
nazionale, specialmente di quella che aveva un’impostazione nazionalistica: nel 1864, l’imperatore
(che di fatto è un leader religioso) deve firmare un trattato che abolisce l’autonomia doganale
giapponese fino al 1899 e questo possiamo definirlo come un trattato umiliante perché il
Giappone, che si riteneva superiore ai paesi occidentali, viene costretto da questi paesi occidentali,
visti come espressione di volgarità, a sottostare ad un’umiliazione nazionale poiché l’imperatore
giapponese non è più in grado di esercitare la sua potestà doganale. Queste sono le premesse
interne ed esterne (di politica interna e di politica internazionale) sullo sfondo delle quali nel 1867
sale al potere il giovane imperatore Mutsuhito: la situazione è matura perché si apra una guerra
civile tra filoimperiali e Tokugawa, i quali avevano tolto il vero potere politico alla figura
dell’imperatore; in questa guerra c’è la scelta di che cosa fare rispetto all’aggressione straniera e
come reagire (modernizzarsi o chiudersi ancora di più in se stessi) ma c’è anche la lotta di potere
tra fazioni e tra visioni costituzionali ed istituzionali pro shogun o pro imperatore. Vince la linea
filoimperiale ed è la cosiddetta rivoluzione o restaurazione Meiji: rivoluzione perché porterà ad un
mutamento e darà l’avvio ad un processo di modernizzazione del paese e di revisione sociale e
costituzionale e restaurazione perché viene restaurato il potere dell’istituzione imperiale per cui
l’imperatore torna ad essere colui che detiene il potere non solo religioso ma anche politico e si
pone fine allo shogunato. Naturalmente, la situazione è tutt’altro che risolta perché c’è
malcontento popolare, malcontento in una parte dell’élite, il commercio internazionale aveva
sortito effetti difficili da sopportare per una parte della popolazione, la bilancia commerciale è in
disavanzo, c’è un deflusso di argento dal paese: è una situazione difficile e non è facile da
controllare ma è anche una situazione che prelude all’avvio della modernizzazione del paese. È
una modernizzazione che non si può solo interpretare in chiave economica ma che ha premesse
sociali, istituzionali e culturali: l’imperatore, prima di tutto, sceglie una nuova capitale non più la
tradizionale Kyoto del vecchio sistema feudale ma la nuova Tokyo e, inoltre, abolisce anche la

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vecchia struttura feudale per cui la società giapponese di un tempo non esiste più e tutti i sudditi
sono uguali di fronte alla legge; ciò non significa né che i protagonisti dell’economia e della società
feudale vengono eliminati né che questa nuova uguaglianza giuridica comporti uguaglianza socio-
economica-politica ma è importante che non ci sia più una società feudale ma una società in cui i
sudditi sono uguali di fronte alla legge. Viene ristabilita la libertà di movimento per gli uomini e per
le merci (cosa che nelle società organizzata per caste non era così) e viene anche liberalizzato
l’accesso ai mestieri e alle professioni abolendo le corporazioni. Tuttavia, i protagonisti dell’epoca
precedente (i nobili, i daimyo e i samurai) non spariscono, anzi, il nuovo potere giapponese si
rende conto che non solo sarebbe traumatico e poco giusto eliminare queste persone ma non
sarebbe neppure nell’interesse del nuovo sistema per cui queste persone vengono incluse nel
nuovo sistema con un ruolo diverso: vengono erogate a loro favore delle pensioni che non
sostituiscono l’egemonia sociale, culturale, economica e politica che esercitavano all’epoca del
feudalesimo precedente ma fanno si che si sentano ancora parte del sistema e che abbiano un ubi
consistam adeguato; infatti, molti di questi daimyo e samurai diventeranno protagonisti della
nuova economia privata: diventeranno finanzieri, dirigenti d’azienda e imprenditori. Il governo,
oltre a ciò, prende anche delle misure di carattere economico: viene instaurata una forte imposta
sull’agricoltura secondo la quale un terzo dei proventi viene pagata in moneta e questa ha sia una
funzione di procurare un gettito alle autorità ma anche di favorire la monetarizzazione
dell’economia; inoltre, il governo adotta una serie di misure che favoriscono forti aumenti di
produttività nel settore agricolo inviando degli esperti all’estero, istituendo scuole agrarie,
inviando nelle varie province istruttori agrari, favorendo la diffusione di concimi chimici, la
costruzione di infrastrutture per l’irrigazione (ricordiamo che il riso è l’alimento base per cui è
chiaro che le strutture di irrigazione per le risaie sono fondamentali) e tutto ciò fa sì che, tra il 1880
e il 1917 c’è un forte aumento della produzione agricola. Questa è solo una parte dell’azione
governativa perché lo scopo ultimo è quella dell’industrializzazione: lo scopo del governo è quello
di creare le condizioni che poi, alla fine, possano consentire l’industrializzazione; tra il 68 e il 90, lo
stato finanzia le imprese o fondandole o assumendone il controllo se già esistenti. Il Giappone
adotta alcune delle esperienze tecniche britanniche e statunitensi favorendo l’afflusso dall’estero
di ingegneri, tecnici, insegnanti, operai specializzati tutti stipendiati dal governo; l’approccio del
governo giapponese è molto pragmatico perché non c’è un’ideologia per cui lo stato è meglio del
privato o viceversa ma si cerca di fare tutto il possibile per mettere ogni risorsa sul piatto e favorire
lo sviluppo. Dal 1870, il Giappone ha un’esperienza di politica economica eccezionale: c’è un
vecchio ceto fondiario di matrice feudale che si trasforma in una nuova forma di potenza
finanziaria privata, dalle terre contadine si trae il denaro attraverso l’imposizione fiscale per gli
investimenti infrastrutturali; inoltre, si architettano delle norme giuridiche e delle prassi in base
alle quale la terra passa ad un solo erede per cui questo comporta la stabilizzazione delle
dimensioni delle aziende agricole, facilita la ricomposizione agraria, suscita però anche imprese
artigiane/industriali nelle campagne (perché chi non eredita la terra deve darsi da fare per trovare
redditi alternativi) e favorisce l’inurbamento di rurali che cercano posti di lavoro non agrari in città.
Il governo, inoltre, favorisce ulteriormente altri settori come quello dell’istruzione (prima
l’istruzione primaria poi anche quella professionale e l’università), favorisce l’avvio di attività
industriali e fonda un importante agenzia per il commercio estero che favorisce l’export: oltre agli
ex nobili, nella rivoluzione industriale giapponese agiscono anche uomini di livello sociale inferiori
(agricoltori, mercarti, artigiani innovativi). Tutto questo, in pochi decenni, fa del Giappone non
ancora una delle massime potenze economiche come avverrà nel secondo dopo guerra ma esso
sta diventando un paese più moderno e, tuttavia, ciò sta accadendo senza cancellare le tradizioni
ma, anzi, la modernizzazione del Giappone può avvenire in tempi così rapidi (una transizione
diretta dal feudalesimo all’industrialismo) perché il Giappone si tiene ancorato in parte alle sue
tradizioni e alle sue istituzioni tradizionali: è un cambiamento, comparativamente con l’Europa

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occidentale, molto più rapido ma anche graduale e accompagnato dalle solide basi della tradizione
e il primo perno di questa tradizione è il modello culturale e socio-economico della famiglia; c’è
quindi una sintesi tra mantenimento della tradizione e adattamento alla modernità, la quale viene
emulata rispetto all’esterno in termini giapponesi. È vero che il ruolo dello stato è fondamentale,
ma, ciononostante, il sistema dell’economia privata si basa su società finanziarie in accomandita
per azioni che controllano un gran numero di imprese minori: in genere, la società madre è
governata dal capo famiglia e gli altri componenti della famiglia si occupano delle società minori
oppure entrano in politica a sostegno degli interessi familiari; questo sistema è detto “zaibatsu” ed
è basato su famiglie di mercanti e burocrati, tradizionalmente dediti alla gestione dei feudi in
epoche precedenti, con una mentalità orientata al successo capitalistico e al rispetto degli indirizzi
governativi. Il sistema oltre ad assicurare di ingenti risorse finanziarie in capo a pochi gruppi
familiari assicurava anche una dispersione delle attività produttive nel territorio. Verso fine secolo,
una decina di grandi famiglie (otto famiglie) controlla metà del capitale investito nell’economia
giapponese; non dobbiamo però fraintendere il livello societario con la strutturazione delle
produzioni sul territorio, ovvero, il modello di sviluppo giapponese coniuga questa forte
concentrazione finanziaria oligopolistica con un’elevata dispersione delle attività industriali sul
territorio: come mai? Fino al 1930 si cerca di evitare una concentrazione industriale troppo
marcata e tumultuosa nelle periferie urbane per evitare il conseguente ed eventuale malessere
socio-culturale che sempre si abbina ai processi di inurbamento: è una scelta consapevole che
concentra il livello di proprietà e non concentra così tanto il livello di produzione di impianti;
buona parte della manodopera industriale, nei primi decenni, resta nei villaggi e nelle campagne
dove si erano moltiplicate piccole-medie imprese: è una crescita economica adatta a soddisfare
pragmaticamente dei bisogni in lenta evoluzione a partire dalla tradizione verso la modernità.
Teniamo anche conto che un graduale miglioramento del tenore di vita consente tensioni sociali
sopportabili: c’è stress ma c’è una gradualità, c’è un accompagnamento e un contemperamento di
nuovo e vecchio, di innovazione e tradizione che aiuta a tenere sotto i livelli di guardi le tensioni e
le difficoltà. Ciascuno è integrato entro un sistema di relazioni socio-economiche e culturali basato
sul legame familiare e sullo spirito di disciplina/gerarchico tipicamente giapponese: in altre parole,
la società giapponese di questi decenni è una società molto meno individualistica rispetto a quelle
occidentali e molto più gerarchizzata e disciplinata; c’è un forte sfruttamento del lavoro, specie
femminile che però è compensato dalla stabilità dell’impiego e dalla progressione gerarchica delle
funzioni nell’ambito dell’impresa che dà certezza. Attenzione: il ruolo dello stato è pragmatico e
per niente ideologicamente dirigista perché lo stato, dopo aver avviato certe imprese industriali,
quando sono solide, le cede a privati. Il Giappone non vuole produrre in casa propria o acquistare
all’estero subito gli impianti più moderni ma si importano, invece, le attrezzature tecnicamente più
utili che servono per lo stadio di sviluppo di un paese; si compensa ciò che non è ad altissimo
livello con un forte sfruttamento del lavoro operaio e, in questo modo, si può cercare di
rivaleggiare con le imprese più avanzate. Il Giappone è peculiare anche per quanto riguarda il
commercio internazionale: inizialmente esporta materie prime e derrate (come la Germania),
subentra e soppianta l’Italia come massimo produttore di semilavorati di seta e poi si cominciano
ad esportare manufatti tessili; teniamo presente che nella fase precedente in cui si esportavano
materie prime e derrate, gli introiti di questa esportazione consentivano di acquisatre tecnologie
occidentali per sviluppare altri settori come quello della manifattura tessile. Solo dopo aver
costruito una solida base industriale, il Giappone si lancia in una più spinta diversificazione delle
attività; inoltre, il Giappone trarrà anche giovamento, qualche decennio più tardi, della neutralità a
cui si attenne nel corso della prima guerra mondiale e questa neutralità consente al Giappone di
acquisire crescenti sbocchi esteri in quei mercati che non erano più alimentati dalle potenze
europee, le quali, essendo in guerra, con i loro prodotti non erano più in grado di alimentare
questi mercati. Il Giappone è anche un paese che sta crescendo in termini di aspirazioni

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strategiche e di ideali nazionalisti, colonialisti ed espansionisti: il nazionalismo imperialista
giapponese, nei decenni di fine 800 e inizio 900, vede tre guerre vittoriose in Ansia tra cui nel 94-
95 contro la Cina, nel 4-5 contro la Russia e nel 31 con l’invasione della Manciuria. Fino qui emerge
che tra il 1868 (rivoluzione Meiji) e il 1938, lo sviluppo giapponese è un fenomeno continuo,
sostenuto e in corso di rafforzamento e ampliamento: l’economia giapponese è un esempio di
sviluppo economico diretto dal governo e dalla burocrazia ma non esclusivamente statalista; un
elemento cruciale di questo sviluppo è l’accettazione, almeno iniziale, del ruolo di paese
economicamente arretrato senza complessi di inferiorità: il Giappone non chiede capitale
finanziario estero, non imita il modello di consumo europeo, non coltiva esorbitanti e immediate
ambizioni industriali, non sogna di far meglio subito dei paesi più industrializzati ma procede
pragmaticamente passo dopo passo. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il Giappone è
ormai tra le più importanti potenze industriali al mondo anche se non come gli Stati Uniti e delle
Germania. Quali sono alcuni dei segreti del successo giapponese, ovvero, un paese che, in pochi
decenni, unendo modernizzazione e ancoraggio alla tradizione, è stato in grado di effettuare una
transizione dal feudalesimo alla potenza industriale? In primo luogo possiamo nominare una
permanente capacità di imparare, di acquisire dagli altri e di imitare; dall’occidente si prende solo
ciò che è indispensabile che serve tecnologicamente ma permane la tradizione culturale,
l’organizzazione sociale, l’etica del lavoro di impostazione pre Meiji. Il gruppo è maggior del
singolo, la cooperazione e l’armonia sono più utili dell’antagonismo e la competizione sfrenata, il
rispetto per la gerarchia e per le differenze di rango, le relazione personali che fanno premio sugli
stessi rapporti giuridici. Grazie a tutte queste cose, il Giappone diventa moderno ma non tradisce
la sua identità culturale pre industriali ma, anzi, proprio questo mantener fede a questa tradizione
è ciò che ci consente di capire come sia stato possibile un fenomeno di così rapida
modernizzazione. Concludiamo sul Giappone con qualche considerazione sulla Seconda guerra
mondiale e sul dopo guerra: il Giappone subisce una sconfitta devastante perché la guerra si
conclude con i due bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki. Gli Stati Uniti sono una
potenza occupante e il Giappone diventa una sorte di protettorato americano: gli Stati Uniti erano
arrabbiati con il Giappone per l’attacco giapponese a Pearl Harbor (base navale) nel 1941 per cui
gli Stati Uniti vogliono riformare il Giappone imponendo una costituzione democratica,
l’imperatore non è più una figura divina ma diventa il capo di una monarchia costituzionale, il
Giappone rinuncia all’esercito e vengono incrementate le relazioni con gli Stati Uniti; gli occupanti
americani avviano anche una democratizzazione dell’economia giapponese. Tuttavia, è solo un
processo parziale: certamente c’è una modernizzazione in senso democratico e occidentale
dell’organizzazione del business ma, tuttavia, accade una cosa importante: nel 1949 in Asia nasce
una nuova versione di un paese molto importante che cambia gli equilibri strategici e ideologici
mondiali perché viene proclamata la Cina comunista, ovvero, la Repubblica popolare cinese e
questo cambia gli equilibri mondiali perché la Cina, agli occhi degli Stati Uniti, diventa una seconda
potenziale minaccia comunista al benessere capitalista e democratico per cui il Giappone, non solo
deve essere ridimensionato, ma deve essere ancora più saldamente, proseguendo su quelle
riforme, portato dalla parte occidentale (un Giappone prospero con le sue tradizioni ma di chiara
impostazione capitalista e democratica serve molto più di un Giappone sottomesso agli Stati Uniti
ma poco autonomo); quindi il Giappone ritorna sovrano in un contesto diverso perché le riforme
americano non vengono azzerate ma in parte, però, inverte la rotta: ricompone dei vecchi
potentati economici ma permane un diffuso azionariato popolare per cui non ci sono più gli
zaibatsu ma ci sono i cosiddetti keiretsu che raggruppano verticalmente o orizzontalmente aziende
minori sotto una grande impresa dominante. Nell’economia giapponese, però, si diffonde lo
schema di organizzazione aziendale di tipo americano: qui si pongono le basi per il boom
economico giapponese del secondo dopo guerra; tra il 53 e il 77, il commercio nazionale si
moltiplica di quattro volte: in questo fenomeno così importante, il Giappone si ritaglia un ruolo da

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protagonista ed è in grado di diventare un signore dell’export mondiale vendendo all’estero molto
più di quanto importi perché i suoi prodotto tecnologicamente avanzati hanno prezzi
concorrenziali, il Giappone rimane protezionista e il governo mantiene i consumi interni
relativamente bassi. Il Giappone diventerà una delle grandissime potenze economiche mondiali
anche proponendo dei modelli di organizzazione che sono significativi come il famoso toyotismo. Il
Giappone, con la rivoluzione e restaurazione Meiji, avvia un percorso di rapido ma anche graduale
passaggio da una società feudale con un’economia preindustriale ad una società più moderna non
necessariamente uguale a quella occidentale con un’economia fortemente industrializzata: dopo
la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, il Giappone diventa un paese ancora più forte dal
punto di vista economico fino ad occupare, per alcuni decenni, la seconda posizione quanto a
dimensioni del prodotto interno lordo; oggi, però, il Giappone è la terza economia del mondo
perché è stata superata dalla Cina. Gli ultimi venti anni non sono stati molti brillanti in quanto a
performance economiche del paese perché, a partire dalla fine del XX secolo fino ad oggi, il
Giappone ha conosciuto una fase di prolungata stagnazione economica legata ad una serie di
aspetti contingenti e altri più strutturali: si è parlato, inizialmente, di un “decennio perduto” che
poi è diventato un ventennio abbondante; i motivi sono tanti perché ci sono state delle crisi
economiche finanziarie, ci sono degli aspetti strutturali sottostanti come, ad esempio, il fatto che la
demografia giapponese è una demografia poco dinamica, ovvero, il Giappone è uno dei paesi più
vecchi al mondo: si tratta quindi di una popolazione che ha dei problemi nella sua composizione
tra popolazione attiva e popolazione dipendente e, inoltre, una popolazione in larga misura
anziana è una popolazione che ha dei consumi, delle attitudini e un modo di pensare diverso da
quello dei paesi più giovani.
Il secondo caso da analizzare sono gli Stati Uniti e qui si parla del trionfo del diverso: gli Stati Uniti
sono un paese atipico e particolare. Possiamo osservare la diversità di questo paese anche oggi
perché, ad esempio, gli Stati Uniti hanno un sistema elettorale completamento diverso per quanto
riguarda l’elezione del presidente da quanto accade nelle altre democrazie; inoltre, c’è anche una
situazione costituzionale particolare perché la costituzione degli Stati Uniti solo in parte norma il
passaggio di potere tra i presidenti: molta parte del passaggio di consegna è lasciata alle scelte di
consuetudine e di stile dei presidenti uscenti. Per quanto riguarda il sistema elettorale
statunitense, il presidente non viene eletto sulla base dei voti popolari in senso diretto, ovvero,
non diventa presidente chi prende più voti alle elezioni perché non si contano i voti popolari
semplicemente sommandoli e chi ne ha uno in più diventa presidente ma i voti popolari contano
in relazione al collegio elettorale: gli Stati Uniti sono un paese federale diviso in 50 stati e, ad ogni
stato, sulla base delle condizioni demografiche, sono attribuiti un tot di voti in questo collegio
elettorale (in base alla popolazione, ogni stato invia a questo specifico collegio elettorale, che
eleggerà il presidente, i propri delegati). Quindi succede che se in uno stato si premia anche un
solo voto in più a livello popolare, tutti i grandi elettori di quel collegio elettorale che poi eleggerà
il presidente vanno a quel candidato; chi prende più voti a livello nazionale non necessariamente
diventa presidente perché come questi voti sono distribuiti tra i vari stati. In poche parole, il
sistema elettorale americano è definito come indiretto: il presidente degli Stati Uniti non viene
eletto in maniera diretta dalla popolazione, ma è formalmente votato dai cosiddetti grandi elettori
che sono a loro volta eletti dai cittadini del proprio Stato. Per quanto riguarda il trionfo del
successo, gli Stati Uniti hanno delle origini coloniali complesse britanniche ma non solo: nel 1607
gli inglese fondarono la loro prima colonia, la Virginia; un più saldo controllo del territorio è stato
realizzato solo negli anni venti: i padri pellegrini hanno dovuto vedersela con i coloni olandesi e
svedesi giunti prima di loro e soprattutto con i francesi. Si mette in moto una forte tensione tra
una parte dei coloni e la madre patria inglese: in realtà, pochi coloni, inizialmente, volevano
l’indipendenza perché desideravano avere maggior voce in capitolo, maggiore rappresentanza
politica e ripresero uno dei grandi principi della rivoluzione inglese e della trasformazione

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costituzionale e socio-economica inglese del 600, ovvero, il “no taxation without representation”;
tutto ciò porta, nel 1783, alla dichiarazione di indipendenze. Raggiunta l’indipendenza, nel 1787
viene data la costituzione e nel 1789 viene varato il primo governo federale presieduto da George
Washington: il federalismo si afferma lentamente negli Stati Uniti e non tutti sono d’accordo
perché una parte significativa della società americana non vuole un governo federale (il
federalismo è, partendo da diversi e molteplici componenti, gli stati, un unico stato federale,
ovvero, significa unire l’autonomia di singoli stati su certi argomenti però non ciascuno per conto
proprio ma sinergia e unità su grandi tempi. Coesistono nel federalismo un certo grado di
centralismo, di accentramento su certi temi e l’esistenza di un potere centrale federale con un più
elevato grado di autonomia per regioni). Nel 1790, la popolazione ammonta a circa 4 milioni di
persone: è un paese ancora in larga misura agricolo, dedito alla pesca, al commercio, al trasporto
marittimo e all’estrazione per cui c’era poca industria; alla fine del 700, tuttavia, la flotta
mercantile statunitense era seconda solo a quella inglese. C’è anche un’agricoltura negli stati del
sud, come la Virginia, di piantagione che è diversa dall’agricoltura a cui eravamo abituati in
Europa: l’agricoltura di piantagione, cotone, riso, tabacco, zucchero di canna è un’agricoltura per
l’export (il cotone è quello più importante) ed essa ha una peculiarità perché in queste piantagioni
viene utilizzata la manodopera schiavile. In una città, invece, come New York si concentrano le
attività del terziario avanzato, ovvero, intermediari finanziari e mercantili, banchieri, assicuratori,
armatori; c’è quindi un’economia non ancora al livello di quella inglese ma che va verso una
maggiore complessità. Fino al 1840 circa prevalgono ancora le piccole imprese familiari che sono
simili alle industrie a domicilio viste in Europa: trasformano derrate alimentari, conservano carni,
lavorano il legno, mobili, orologi, scarpe, cappelli; tuttavia, ci sono anche degli aspetti interessanti:
la precoce adozioni di filatoi e telai idraulici che poi faranno un salto di qualità e verranno, anziché
a mano, mossi dal vapore. Ci sono degli esempi precoci in alcuni stati americani di fabbriche
moderne dove, in modo peculiare, lavorano soprattutto donne e gli Stati Uniti dimostrano, in
qualche misura, quasi da subito, alcune peculiarità: per esempio, gli inventori americani
migliorano macchine importate dalla Gran Bretagna soprattutto mirando ad accrescere la velocità
per ottenere un prodotto maggiore in tempo uguale. La mola piuttosto significativa di investimenti
tecnologici favorisce, nel corso degli anni, la diffusione delle società anonime che sono ricche di
capitali raccolti tra molti investitori (sono le nonne delle public company che non sono in mano
alla pubblica autorità ma sono in mano al pubblico della popolazione e l’azionariato è diffuso tra
un numero notevole di azionisti); sovente, il rendimento ottimo dei capitali investiti nell’industria
cotoniera è uno stimolo a moltiplicare le innovazioni e a diffondere la meccanizzazione in tutte le
varie fasi del lavoro. Rispetto all’Europa, gli Stati Uniti hanno una carenza di manodopera rurale e,
inoltre, hanno una maggiore libertà di iniziativa dal punto di vista imprenditoriale: non ci sono i
monopoli dei paesi occidentali, la tradizione di licenze, di privati, di apprendistato, di corporazioni;
di conseguenza, la cultura manufatturiera mira a fabbricazione di prodotti tramite l’utilizzo diffuso
di macchine per economizzare il lavoro e mira a continui guadagni di produttività che si legano ad
un’intensa accumulazione di capitale tecnico: ciò vuol dire che sempre più negli Stati Uniti si mira a
utilizzare macchine e macchinari. Dobbiamo tenere conto di un fatto molto importante, ovvero,
che negli Stati Uniti, rispetto all’Europa, due fondamentali fattori di produzione sono fra di loro
invertiti nel rapporto reciproco e questi due fattori di produzione sono il lavoro e la terra: perché?
Tanta terra e poca manodopera: negli Stati Uniti la manodopera scarseggia per quella che è la
dimensione progressivamente accresciuta del paese e per quella che è l’entità progressivamente
accresciuta dell’economia; un modo per integrare la manodopera, soprattutto in certe attività
lavorative, è quello di importare gli schiavi: la manodopera schiavile è conveniente per molti versi
ma ha anche degli svantaggi perché è una manodopera poco qualificata, ovvero, gli schiavi vanno
bene dove si svolgono funzioni elementari, dove serve qualità del capitale umano, invece, gli
schiavi non servono. La relativa scarsità di manodopera ha due conseguenze molto importanti

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nella storia degli Stati Uniti che cambiano l’economia e la società americana: la prima conseguenza
riguarda il fatto che il sistema di produzione americano punterà progressivamente sempre più
sulle macchine (dai primi dell’800 andiamo verso il cosiddetto American System of manufacturing
che porta alla standardizzazione, intercambiabilità dei pezzi e al taylorismo e questo filone di
sviluppo americano che mira a risparmiare lavoro e ad aumentare la produttività culmina poi
nell’espressione tipica dell’industria americana, ovvero, il fordismo con la catena di montaggio)
mentre la seconda conseguenza riguarda l’incentivazione dell’immigrazione; quindi, da un alto, si
cerca di risparmiare l’utilizzo di manodopera incrementando l’utilizzo delle macchine ma, dall’altro
lato, la risposta più semplice è quella di far arrivare nel paese immigrati infatti gli Stati Uniti sono
anche detti “terra dell’opportunità” e un “crogiuolo”, ovvero, un contenitore in cui si immettono
tante componenti diversi tra cui gli irlandesi, gli italiani ecc. Per quanto riguarda la terra, gli Stati
Uniti hanno una riserva illimitata di terra perché essi iniziano dalla costa est e poi si espandono
verso il West, il Middle West e il Far west e arrivano da costa a costa: la terra costa poco e la
riserva è sconfinata infatti ancora oggi, negli Stati Uniti, la densità demografica è ancora bassa;
mentre in Europa c’è, spesso, sovrabbondanza di manodopera e scarsità relativa di terra, negli
Stati Uniti è l’opposto. Ciò detto, l’aumento della domanda legata anche all’incremento
dell’immigrazione dall’Europa amplia il mercato: gli Stati Uniti, nella seconda metà dell’800,
diventano il più ampio e profondo mercato mondiale e fin dal primo 800 sempre più
frequentemente, l’industria americana si orienta verso una produzione di massa, standardizzata,
organizzando fasi di produzione a catena e quello che oggi chiamiamo “consumismo” comincia
proprio a manifestarsi nel tardo 800 e primo 900 negli Stati Uniti. La suddivisione delle operazioni
di lavoro in un processo continuo ed integrato si manifesta pienamente con la catena di montaggio
ma ha una storia secolare: compare negli Stati Uniti almeno dal 1782 con il famoso mulino di
Oliver Evans e lo stesso Evans è una figura poliedrica perché migliorò anche la macchina a vapore
ad alta pressione e diverse macchine tessili. Un altro inventore è Eli Whitney che inventa la
sgranatrice del fiocco di cotone e, come conseguenza, il prodotto giornaliero aumenta di oltre 45
volte ma è anche una figura importante per la produzione delle prime armi da fuoco leggere con
elementi standardizzati e intercambiabili, dopo aver costruito la prima fresatrice industriale; le
armi leggere sono importanti per due motivi: primo perché gli Stati Uniti conquistano milioni di
terra sottraendoli alle popolazioni indigene ma c’è anche un secondo aspetto più tecnologico ed
economico, ovvero, che nella costruzione di armi portatili si sviluppano competenze di meccanica
fine e nel settore delle serrature e delle chiavi che poi avranno ricadute in altri ambiti. La
specializzazione del lavoro, con alta intensità di capitale tecnico, si avvia proprio nella
meccanizzazione delle armi grazie alle commesse statali perché bisognava armare quei soldati che
poi andavano a conquistare e a controllare i territori sottratti agli indiani: dal settore delle armi,
degli orologi e delle serrature, questi nuovi metodi produttivi si estendono alla metalmeccanica
anche per aratri, trebbiatrici e seminatrici. Attorno al 1820, oltre il 70% della popolazione è
impiegata in agricoltura e nell’allevamento: alla fine degli anni 60, ancora circa il 50% degli
americani era occupata nel settore primario; gli Stati Uniti, però, sono un paese particolare perché
l’ovest (il west) fa del mondo rurale americano un caso raro di disponibilità quasi infinita di fattore
terra e, dopo la fase autarchica del dissodamento dei suoli vergini e dell’impianto delle
coltivazioni, i coloni producono derrate da vendere a grandi mercanti e banchieri che le
trasferiscono dove c’è maggiore domanda di queste derrate, ovvero, sui ricchi mercati urbani
dell’est: ci sono, infatti, due frontiere, ovvero, quella dell’ovest che si espande ma anche quella dei
mercati urbani delle grandi città tra cui New York. Fiumi e canali, scavati per collegare più fiumi a
porti marittimi, che richiedono grandi investimenti e grandi competenze ingegneristiche,
diventano vie di comunicazione fondamentali per i trasporti indipendenti che movimentavano le
derrate, il carbone e i minerali; anche le ferrovie diventeranno un’epopea importante e una realtà
significativa: nel 1830, per integrare i collegamenti tra porti fluviali, canali, porti marittimi si

79
cominciarono a costruire le prime strade ferrate. In questo contesto, a partire dagli anni 40,
l’agricoltura americana, per quella carenza di manodopera e spinta dai collegamenti con il
mercato, comincia a fare ampio uso di utensili e di macchine prodotte industrialmente (stimolo
all’agricoltura ma stimolo anche all’industria) per cui l’economia statunitense, nei primi decenni
dell’800, è un caso peculiare di un avvio di industrializzazione dovuta per quell’inversione dei due
fattori produttivi. Attorno a metà secolo, gli Stati Uniti sono tripartiti, dal punto di vista economico,
e abbiamo:
- Il nord-est specializzato nell’industria, nel grande commercio e nella finanza, oltre che
nell’agricoltura ortofrutticola e nel settore lattiero-caseario;
- L’ovest (dal Texas al Michigan) che è specializzato nella produzione di cereali, mais e carne
da macello;
- Il sud specializzato nella produzione di cotone.
Il nord vende prodotti industriali all’ovest, il quale invia derrate al sud via acqua; il sud esporta
verso l’Europa la maggior parte della produzione di piantagione attraverso il porti e i mercanti del
nord. Dobbiamo fare attenzione all’importanza sia intrinseca che più generale delle ferrovie che,
fra il 30 e il 50, consente di collegare più strettamente le tre regioni economiche e, soprattutto,
mette in relazione diretta le vaste pianure centrali produttrici di cereali, mais e carne con l’area
industriale altamente urbanizzata del nord-est. Nel 48, in California, viene scoperto l’oro da parte
di un immigrato svizzero, il quale scopre delle pepite in un fiume californiano: questa è la prima
corsa all’oro e causa un aumento di immigrazione, spostamenti interni, migranti da fuori Stati Uniti
che si muovono verso est con pionieri, coloni e cercatori d’oro; l’incremento di produzione d’oro
americana, da un lato, rafforza la preferenza per l’oro come metallo di riserva a garanzia della
circolazione di carta prodotta dalle banche e questo sostiene anche, in base alla teoria quantitativa
della moneta, l’aumento dei prezzi agricoli e industriali.
Dal 47 al 55, arrivano ogni anno circa 300.000 persone negli Stati Uniti e da Londra, in particolare,
in quegli anni arrivano anche notevoli capitali per le grandi società impegnate nella costruzione di
ferrovie: non solo capitali nazionali ma anche stranieri. Si sta delineando, in questi anni, però,
anche un conflitto di interessi che vede, da un alto, alcune migliaia di latifondisti meridionali che
controllano circa 4 milioni di schiavi, che esportano le materie prime industriali (tabacco, cotone,
riso, zucchero) e che con queste esportazioni coprono circa la metà del valore di tutte le
esportazioni statunitense: per costoro, la libertà di commercio e il mantenere la schiavitù per i loro
interessi è fondamentale; dall’altro lato, ci sono gli imprenditori del nord che sostengono
l’industria, il commercio, la cantieristica: per costoro, la manodopera schiavile non interessa, anzi,
costoro sono a favore di politiche doganale protezioniste e di investimenti federali nei canali e nei
collegamenti (investimenti infrastrutturali). Questo significa che, alla base della guerra civile, oltre
che ideali, ci sono anche interessi legittimi: i latifondisti del sud pagano tasse fondiarie salate ma
sono molto innervositi dal fatto che i proventi di queste tasse (queste imposte) non vengano
investiti a loro favore ma a favore degli industriali e, per di più, gli industriali del nord non sono a
favore della schiavitù e sono a favore di politiche doganali che li sfavorirebbero perché i latifondisti
sono per l’esportazione; bisogna quindi comprendere che alle origini della guerra di secessione 61-
65 non ci sono solo ideale ma anche profondi interessi economici. La guerra civile è un momento
cruciale per più di un motivo e la figura centrale di questo evento della storia americana è
Abraham Lincoln: Lincoln e la guerra civile sono due figure fondamentali che hanno portato
all’abolizione della schiavitù che non significa eguaglianza sul piano sociale, polito ed economico
ma significa abolizione di un istituto giuridico che limitava fortemente la libertà personale e
giuridica dei neri; la guerra di secessione, però, non è solo il passaggio verso la liberazione dei neri,
la quale è una liberazione complessa perché lo stesso Lincoln non era, inizialmente, a favore della
piena emancipazione dei neri ma, ciononostante, è stato un grande presidente non solo per

80
questo ma anche per aver mantenuto uniti gli Stati Uniti dato che, durante la guerra, gli stati del
sud si sono staccati dagli Stati Uniti e hanno iniziato questa guerra civile: Lincoln è importante
perché non ha consentito la separazione dei confederati. La guerra di secessione americana è
importante, oltre che per questi due motivi, anche per un altro motivo perché questa guerra è
stata la prima guerra nella storia dell’umanità in cui la dimensione industriale ha giocato un ruolo
determinante: il nord aveva le industrie, aveva le ferrovie, aveva le strutture economiche e
logistiche più adatte per impegnarsi in una guerra che fece mezzo milione di morti (la battaglia
Gettysburg fu decisiva); a differenza del nord, i cosiddetti “unionisti”(i soldati blu), quelli del sud
detti i “confederati” (soldati grigi) non avevano le strutture economiche e logistiche che aveva il
nord per cui è la prima guerra che viene decisa dal potenziale industriale. La guerra di secessione
fu importante anche in prospettiva futura: certi investimenti nelle ferrovie si incrementano
ulteriormente dopo la guerra di secessione, il nord perse uomini e risorse ma sfruttò ampiamente
la chance di incremento e di sviluppo ulteriore dell’economia determinata dalla guerra e dalle sue
conseguenze; il sud, invece, crollò perché aveva strutture e un’economia meno adeguate e la
situazione sociale, politica ed economica soffrì molto questa sconfitta. Gli Stati Uniti che escono
dalla guerra di secessione sono, innazittutto, ancora gli Stati Uniti d’America (aspetto cruciale nella
storia politica, economica, culturale e ideologica del paese) e sono anche un paese che, ormai in
larga misura industrializzatosi, si lancia verso la performance straordinaria di fine secolo, verso
un’economia di grande dinamismo e di enorme potenza e verso imprese di grandi dimensioni: gli
Stati Uniti sono sulla strada per diventare, a partire da questi decenni, la prima economia
industriale del mondo e leader dei settori trainanti della seconda rivoluzione industriale insieme
con un paese europeo, ovvero, la Germania. Dal 1865 al 1914, assistiamo ad uno sviluppo
ininterrotto e su vasta scala in tutti e tre i settori dell’economia: nell’agricoltura e nell’allevamento
con l’espansione nelle pianure centrali e nella California, nell’industria pesante (non tanto
l’industria tessile ma l’industria pesante) perché gli Stati Uniti diventano il leader mondiale nella
produzione dell’acciaio e anche nel settore terziario e, in particolare, nel settore bancario,
assicurativo e nei trasporti. Non è solo una questione di sviluppo economico, il quale si collega con
un poderoso sviluppo demografico: tra il 1839 e il 1919 la popolazione statunitense cresce di circa
6 volte e quindi, anche da questi punto di vista, si può capire come mai gli Stati Uniti diventano il
primo vero mercati di massa; sappiamo che un mercato di massa non si crea solo sulla base dei
numeri della popolazione perché un mercato ha necessità, oltre che di persone, che queste
persone posseggano potere d’acquisto: un grande mercato di massa non si basa solo sul fatto che
aumenti la popolazione ma è legato anche alla condizione economica di questi uomini e donne,
ovvero, al fatto che cresca la ricchezza e che una parte di questa ricchezza venga, sottoforma di
potere d’acquisto, spesa dalle persone sul mercato. e questo è ciò che accade negli Stati Uniti.
Abbiamo quindi la crescita della demografia accompagnata ad una crescita rapida della ricchezza
pro-capite disponibile in America per ogni americano: questo non vuol dire che tutti siano ricchi
ma che si sta diffondendo un relativo benessere perché la ricchezza pro-capite disponibile in
America è superiore ad altri paesi e crescente nel tempo. C’è un progresso tecnico e organizzativo
in tutti i settori: le tecniche non sono solo le tecniche meccaniche e le tecnologie in senso stretto
ma ci sono anche le tecniche d’affari; nasce una pubblicità in senso moderno, nascono i grandi
magazzini tipici delle realtà urbana, la vendita per corrispondenza che servono il mondo rurale:
tutto questo accelera la realizzazione di un vero mercato nazionale in espansione che aumenta
all’aumentare, anche, della popolazione per cui anche l’immigrazione diventa molto importante da
questo punto di vista. La manodopera americana, il cui trionfo sarà con il fordismo, percepiva
salari medi più elevati quindi maggiore potere d’acquisto e quindi maggiore domanda aggregata.
Dal 1870, il vapore sempre più prende il sopravvento sull’energia idraulica che è meno efficace;
teniamo conto che gli Stati Uniti sono un paese ricchissimo di risorse naturali e, in particolare,
nella regione dei grandi laghi, grandi disponibilità di carbone di buona qualità e facilmente

81
sfruttabile (a buon mercato), risorse minerarie: tutto ciò diminuisce i costi di produzione e, insieme
con i traporti a buon mercato che sono il frutto degli investimenti e degli sviluppi infrastrutturali,
contribuisce a diminuire i prezzi dei prodotti, il che rafforza l’incremento della domanda che veniva
dai fattori prima menzionati. Tutti questi elementi concorrono nel determinare un poderoso
ampliamento/incremento senza precedenti, neppure in Inghilterra nella prima rivoluzione
industriale, del mercato: è il primo vero mercato di massa. A partire dal 69 le ferrovie collegano,
per la prima volta, l’Atlantico al Pacifico e questo è anch’esso un fattore che contribuisce
all’ampliamento del mercato nazionale; dal 47 era iniziato lo sfruttamento commerciale del
telegrafo, fondamentale non solo per comunicazioni private/personale ma anche per ragioni
economiche: si diffondono in questo modo, molto più rapidamente, notizie sui prezzi, sulle merci e
sui mercati. C’è quindi un insieme di fattori che favorisce l’avvento della fabbrica:
- Una crescente offerta di carbone a buon mercato
- La disponibilità di macchine a vapore più potenti
- La possibilità di raggiungere molti mercati di sbocco senza forti limitazioni stagionali, in
tempi prevedibili e con costi molto più bassi
- La possibilità di comunicare, anche lontano, più rapidamente grazie al telegrafo ma anche
grazie, a partire dagli anni 80, al telefono
- La costante crescita della domanda interna dovuta ad una vivace e dinamica della
popolazione e ad un incremento costante del reddito pro-capite
Un miglior utilizzo del fattore lavoro, in combinazione ottimale con impianti e attrezzature più
moderne e più grandi e con una logistica più avanzata nella gestione delle materie prime, dei
semilavorati e dei prodotti finiti, favorisce determinati sviluppi ma pone anche nuove questioni
organizzative inedite e sfide organizzative mai vissute prima; da questo punto di vista, il settore più
bisognoso di organizzazione, coordinamento e controllo degli uomini e degli impianti è quello delle
ferrovie a causa delle grandissime dimensioni delle imprese ma anche perché l’azienda ferrovia si
occupa di molte cose tra cui trasporto merci e passeggeri ma anche di treni e di locomotive e
anche della costruzione di binari, stazioni, case cantoniere: tutto questo rende molto più
complessa la gestione di un’impresa. Quindi le ferrovie richiedono una gestione diversa e non è un
caso che, in Inghilterra e soprattutto poi negli Stati Uniti, proprio dal settore ferroviario, compare
una figura nuova rispetto all’imprenditore tradizionale che è quella del manager, ovvero, colui che
gestisce insieme ad altri: un alto dirigente stipendiato impegnato a tempo pieno nella gestione
dell’azienda (questo si collega alla separazione tra proprietà e gestione); la rivoluzione
manageriale, quindi, comincia proprio nel settore ferroviario e, nel settore ferroviario, una delle
imprese più importanti è la Pennsylvania Railroad che gestiva che rete ferroviaria. Insieme a tutto
ciò, c’è anche un’importanza crescente delle università e, in particolare, dei politecnici. Le grandi
imprese tendono a crescere e ad acquisire una crescente importanza non solo economica sul
mercato e sociale ma sono anche molti influenti sul piano politico e in qualche caso si dice che
certe corporation fecero i presidenti del tardo 800 e del primo 900 perché influivano molto sulla
politica e non sempre sono ben viste: si parlava, all’epoca, dei cosiddetti baroni che depredavano
l’economia e la società tanto erano potenti. Le grandi imprese americano, spesso, si organizzano in
gruppi informali per tenere sotto controllo la concorrenza, incrementare i propri profitti,
aumentare il controllo sull’acquisizione di materie prime e semilavorati e sulla
commercializzazione dei prodotti finiti; si creano degli agglomerati di potenza economica e anche
di potere politico che sono enormi. L’adozione di macchine a ciclo continuo, che producono
un’enorme quantità di pezzi, induce le imprese a riversare su mercati interni e internazionali una
parte crescente della produzione spesso accompagnando quest’attività con un’assistenza tecnica
ai clienti, per esempio, in tutta una serie di prodotti che non semplicemente si vendono ma c’è la
manutenzione, l’assistenza ai clienti, il servizio per i ricambi ma anche il credito per gli acquisti:

82
non solo vediamo incrementi quantitativi enormi ma anche cambiamenti qualitativi
nell’organizzazione e nel rapporto impresa-clientela. A partire dal 65 negli Stati Uniti come in
Europa aumentano le tariffe doganali: il mercato interno viene riservato ai produttori nazionali;
nella seconda metà degli anni 70, l’agricoltura americana, molto produttiva, sfrutta anche le
opportunità del mercato nazionale perché, grazie alle nuove capienti e più veloci navi a vapore, si
possono esportare i cereali, che venivano coltivati in grandi quantità grazie alle macchine agricole
nelle grandi pianure centrali, verso l’Europa dove, insieme con i grani della Russia, invadono i
mercati dei paesi europei che non erigono le loro barriere doganali. È interessante notare come,
pur essendoci questa grande espansione del mercato interno con numeri e con un potere
d’acquisto senza precedenti, il mercato interno però non basta tanto è il poderoso incremento
della produzione statunitense (il mercato interno non era sufficiente ad assorbire i crescenti
volumi dei prodotti agricoli e industriali) quindi l’export di materie prime, di derrate, di manufatti
industriali e di macchina è superiore alle importazioni. Come spesso accade, interessi economici e
commerciali si connettono ad interessi politico-strategici: la necessità di sostenere e tutelare
l’export delle proprie imprese spinge verso una politica estera meno isolazionista e le relazioni
sempre più strette con il sud America, con il Giappone e con la Cina contraddistinguono l’avvio di
una politica estera attenta agli interessi economici del paese; inoltre, nel 98, la vittoriosa guerra
contro la Spagna permette agli Stati Uniti di allargare la loro influenza diplomatica ed economica
sulle Filippine, su Guam, su Portorico, su Cuba e su Panama. Vediamo che nell’ultimo decennio
dell’800 c’è una poderosa espansione e trasformazione dell’economia americana: le fusioni e
incorporazioni di società diminuiscono il numero delle imprese per cui le imprese diminuiscono
non perché c’è una contrazione economica ma perché molte imprese si espandono e inglobano/si
fondono con altre imprese (la diminuzione del numero delle imprese è frutto di una politica di
oligopoli di fatto); mentre in Inghilterra avevamo parlato dell’assenza di barriere all’interno,
ovvero, per gli imprenditori entrare in settori come l’industria tessile non presupponeva degli
investimenti enormi, negli Stati Uniti la situazione è diversa: le barriere tecnologiche all’ingresso e
l’integrazione fra le imprese, di fatto, spingono, per volontà degli operatori e per oggettivi vincoli
di carattere tecnologico ed economico, verso una tendenza oligopolistica se non, addirittura,
monopolista. Tutto questo mette a repentaglio un principio fondamentale dell’economia e
dell’identità culturale ed economica americana, ovvero, il principio della libera concorrenza non
perché interviene lo stato ma perché lo strapotere organizzativo, economico, tecnologico e
politico di certe grandi imprese riduce gli spazi di concorrenza e questo apre una ferita e innesca
delle reazioni politiche, culturali, sociali ed economiche: una parte dell’opinione pubblica e alcuni
uomini d’affari che non appartengono alle grandi corporations chiedono che si intervenga con
norme federali che tengano sotto controllo le grandi imprese ed evitino che queste prendano
troppo potere a livello produttivo, economico, politico e socio-culturale. In pratica, si chiede una
legislazione anti-trust e a fine anni 80, vengono varate delle norme anti-trust che, sebbene non
ottengano grandi risultati sul piano pratico, hanno, però, una grande importanza sul piano storico
perché nel 1888 abbiamo l’Interstate Commerce Act e nel 1890 lo Scherman Act: sono due leggi
che vogliono limitare la formazione di questi grandi potentati ma gli effetti sono limitati fino al
1914 con il Clayton Act; tuttavia, nonostante tutte queste norme, continuano processi di
formazione di holdings sempre più robuste tra fine 800 e inizio 900 perché questi potentati
riescono ad aggirare una parte di questa normativa. Ci sono, però, anche dei successi sul fronte
dell’anti-trust perché per spezzare il monopolio di due giganti come la Standard Oil e la American
Tobacco dovette intervenire la Corte Suprema (gli effetti positivi non derivano direttamente da
queste legislazioni ma dalle sentenze della Corte Suprema), la quale è la Corte costituzionale degli
Stati Uniti.
LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE FRA 800 E 900

83
La globalizzazione non nasce nel 900 perché già l’Impero romano, per esempio, era una forma di
globalizzazione e l’espansione coloniale tardo medievale e della prima età moderna è anch’essa
una forma di globalizzazione: a cavallo tra fine 800 e inizio 900 c’è qualcosa di più. Quest’epoca è
l’epoca dell’apogeo, ovvero, il massimo livello di predominio europeo nel mondo: è l’apogeo dello
strapotere economico europeo per primato di produzione industriale e di dominio commerciale
nel mondo nonostante ci siano questi nuovi concorrenti tra cui gli Stati Uniti e il Giappone. Come
primo aspetto, soffermiamoci sulla formazione di un mercato mondiale: il volume delle transazioni
aumenta di circa 3,3% l’anno sebbene i prezzi internazionali delle merci esportate fossero
diminuiti tra il 73 e 96 (Grande Depressione) e sebbene, dagli anni 80, le difese doganali dei
manufatti e delle derrate di base si fossero acuite. Dobbiamo considerare che la crescente
domanda aggregata, sviluppatasi nei paesi più avanzati, è sostenuta da una continua crescita dei
livelli dei redditi medi pro-capite in questi paesi e da una crescita della popolazione urbana: ancora
una volta, vediamo come fenomeni economici, sociali e demografici si connettono. Sappiamo che,
dopo decenni di duri confronti socio-economici e di sfruttamento di larghe fasce della popolazione
anche in Europa, il benessere non tocca tutti ma anche in una parte dei ceti medio-bassi e dei ceti
operai si sta meglio per cui il reddito medio si alza e c’è più potere d’acquisto per consumare; gli
abitanti delle città, anche i meno abbienti, hanno degli standard di vita e di consumi maggiori per
due motivi: da un alto, tendono a comprare sul mercato tutti i beni e tutti i servizi rispetto alle
persone che vivono in campagna che, invece, producono per l’autoconsumo e, dall’altro lato, a
parità di reddito, gli abitanti delle città tradizionalmente si permettono livelli di consumo superiori
alle persone che vivono, ceteris paribus, nelle aree rurali. In questa parte sulla prima
globalizzazione noi colleghiamo, oltre ad alcune nuove nozioni, parecchie delle osservazioni già
dette in precedenza: l’esistenza di grandi reti ferroviarie europee e americane, collegate con i porti
in cui arrivano navi più grandi, più veloci e con noli (costi dei viaggi) minori, favorisce una crescita
del processo di integrazione economica mondiale avviato dalla Gran Bretagna a metà 800 con
l’eliminazione delle dogane e la libera circolazione internazionale delle merci; oltre il 90% del
grande commercio intercontinentale si svolge per via marittima: abbiamo quindi l’importanza dei
collegamenti marittimi tra i continenti ma, all’interno dei continenti, importanti sono i canali, i
fiumi e le ferrovie. Senza queste infrastrutture e queste tecnologie che consentono tali
infrastrutture, la situazione sarebbe stata molto meno favorevole: noi stiamo valutando un
incremento della domanda in varie parti del mondo, una maggior capacità produttiva e una
capacità di collegamento e di comunicazioni. Facciamo un ulteriore passo avanti: a partire dagli
anni 70, le popolazioni originarie dell’Europa che si erano trasferite al di fuori del continente
europeo andando a colonizzare aree extraeuropee a clima temperato aumentano i loro rapporti
con i mercati della madre patria europea per un insieme di ragioni favorite dalle nuove reti
ferroviarie e dai piroscafi a vapori. Perché è importante parlare di clima temperato, quali saranno
queste aree a clima temperate e come mai questi europei che stanno in altre aree vogliono
incrementare i rapporti con la madre patria? Prima di tutto, è importante parlare di clima
temperato perché ci sono condizioni di vita più favorevoli: è irragionevole pensare che milioni di
europei vadano a colonizzare aree con climi poco favorevoli mentre i climi temperati simili a quelli
da cui provenivano li attraggono perché ci sono, oltre a condizioni più attrattive, maggiori
opportunità di lavorare e sopravvivere. Queste aree sono il sud Africa, l’Argentina, l’Australia, il
Canada, Nuova Zelanda: come mai, però, questi potenziali consumatori europei-extraeuropei
incrementano gli interscambi con i paesi di origine? Perché queste popolazioni vogliono
mantenere uno stile di vita simile a quello dei paesi da cui provengono per cui, certamente,
approfittano delle nuove condizioni dei paesi di insediamento ma vogliono mantenere i consumi e
quindi vogliono importare prodotti dall’Europa richiedendo servizi europei: per importare beni e
servizi, ovviamente, questi europei-extraeuropei dovranno offrire qualcosa in cambio. Quindi, tra
la seconda metà dell’800 e l’inizio del 900, oltre 20 milioni di europei vanno in queste aree a clima

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temperato, costituiscono un gran numero di potenziali consumatori di prodotti industriali e di
servizi europei al di fuori dell’Europa. Apriamo una parentesi che ci dà l’idea di come i processi
storici raramente avvengono dall’oggi al domani: abbiamo sottolineato l’importanza dei nuovi
piroscafi a vapore e la diffusione del vapore in questo tipo di commercio ma dobbiamo fare
attenzione perché non è che in pochi anni tutto cambi perché, solo negli anni 90 dell’800, il
tonnellaggio delle navi a vapore a elica supera quello delle navi a vela che, per tutto il secolo,
rimangono le prime protagoniste. Quindi, le zone temperate extraeuropee ricevono forza lavoro
dai paesi europei meno progrediti e ricevono capitale finanziario, capitale tecnico e capitale
umano dalle aree più evolute dell’Europa: come si articolano questi scambi? In Europa,
cominciano ad arrivare grandi quantità di merci di relativamente basso valore specifico in cambi di
manufatti, di macchine e dei servizi che servono per esportare questi prodotti: l’abbattimento dei
noli marittimi sulle lunghe distanze, l’apertura dei canali di Suez (1868) e di Panama (1904)
facilitano le interazioni commerciali sulle lunghe distanze; inoltre la comparsa di navi frigorifere,
frutto del progresso scientifico tecnologico, permettono di aggiungere alle tradizionali esportazioni
di minerali pregiato d’alto valore intrinseco come l’oro grandi quantità di cereali, farine e carni
congelate: queste produzioni consentono a molti di quegli emigrati di accrescere il loro tenore di
vita e quindi di diventare abituali acquirenti di manufatti industriali e servizi europei. Non c’è solo
questo circuito che coinvolge gli emigrati europei nei paesi a clima temperato ma c’è anche un
commercio che coinvolge i paesi tropicali che producono i prodotti coloniali tra cui le spezie, il tè, il
caffè, il cacao, la gomma, lo zucchero di canna; inoltre, ci sono casi anche singolari come il Perù
che entra in certi circuiti commerciali perché lì viene prodotto un fertilizzante naturale particolare,
ovvero, il guano peruviano. In questo contesto molto più integrato di prima globalizzazione, i dazi
eretti in Europa per proteggere le agricolture nazionali influenzano e danneggiano anche
produzioni che si svolgono molto più lontano: per esempio, i dazi che proteggono lo zucchero di
barbabietola danneggiano lo zucchero da canna da zucchero giamaicano, i coloranti chimici
europei danneggiano i coloranti naturali tropicali. Nei paesi tropicali, la situazione in questi circuiti
è diversa rispetto a quella dei paesi extraeuropei a clima temperato perché hanno una bassa
produttività agricola, mobilitano le loro risorse più abbondati e più a buon mercato che sono, di
fatto, la terra e la manodopera e si specializzano in una sola merce la cui domanda aumenta
rapidamente sul mercato internazionale; in questi contesti, poiché l’aumento dell’offerta si ottiene
facilmente senza grossi investimenti in capitale fisso, i prezzi all’origine non possono che diminuire
a favore non dei produttori tropicali ma dei mercanti e degli industriali europei: esempi concreti
sono l’estensione delle piantagioni di caucciù in Malesia e il cacao nel Ghana che diventa il
maggior produttore mondiale. L’integrazione del mercato internazionale, quindi, consente un
tendenziale livellamento dei prezzi dei prodotti coloniali e la fine della pluralità dei produttori
dislocati nei diversi continenti che, invece, era tipica dell’epoca coloniale sei-settecentesca: ad
esempio, gli Stati Uniti diventano il maggior esportatore di cotone e di tabacco e per alcuni
decenni diventano quasi monopolisti nell’export del grano anche se, dai primi del 900, vengono
sostituiti dall’Argentina e dal Canada; il Giappone, per esempio, in questi decenni, diventerà il
maggiore esportatore di tè e di seta.
Un aspetto interessante di ques’epoca è quello delle guerre doganali e delle rivalità tecniche e
commerciali: la maggiore offerta di derrate in Europa, provenienti da aree extraeuropee a prezzi
inferiori, in condizioni normali di mercati aperti, avrebbe provocato la riorganizzazione di larga
parte dell’agricoltura europea secondo i criteri del mercato concorrenziale: se io produttore
europeo sono meno competitivo, in condizioni di mercato aperto, secondo di criteri dell’economia
di mercato concorrenziale, se non riesco a ridurre i costi e a trovare qualche soluzione che mi
renda più competitivo, devo dedicarmi ad altro; questo avviene in parte in Gran Bretagna e in
Danimarca, la quale era un’importante produttore di cereali ma, quando arrivano i cereali russi
che costano di meno, anziché erigere barriere doganali, decidono di puntare su qualcos’altro con

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un allevamento più moderno e industriale che produce il burro. In altri paesi europei, però, in cui il
peso politico ed economico degli interessi agrari e anche industriali è maggiore, laddove gli
interessi agrari riescono ad esercitare un’influenza politica, non si accetta questa situazione di
mercati aperti e la ristrutturazione ma si fa altro: in alcuni paesi, con pressioni politiche,
l’agricoltura europea evita radicali riconvensioni, dalla cerealicoltura ad altre coltivazione,
puntando sulle tariffe protettive, ovvero, adottando politiche protezionistiche che spesso
collegano l’agricoltura all’industria pesante come in Italia e in Germania dove gli Junker e i
produttori di acciaio si collegano; come spesso accade, però, il protezionismo innesca delle
reazioni, infatti, c’è una reazione a catena di conflitti commerciali che, a volte, arrivano fino alle
guerre doganali. Solo la Gran Bretagna resta liberoscambista e, in parte, la Danimarca: l’opinione
pubblica in Gran Bretagna, dato che gli interessi agrari non sono più particolarmente importanti,
non accetta che i prezzi degli alimentari possono salire e quindi adotta una politica
liberoscambista. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un duplice mercato internazionale, ovvero,
quello inglese e dei paesi vicini all’Inghilterra e quello dei paesi in via di industrializzazione che
varano dei regimi doganali che disincentivano gli scambi e che favoriscono, invece, relazioni
commerciali preferenziali con dei partener politicamente e diplomaticamente affini. Certamente, i
consumatori inglese beneficiano dei prezzi industriali minori rispetto all’Europa continentale ma,
tuttavia, l’apparato produttivo britannico fatica a tenere le dimensioni e le posizioni acquisite
durante il trentennio liberoscambista perché c’è una forte concorrenza di altri paesi. A fine 800,
quindi, possiamo dire che il nazionalismo economico prevale sul liberalismo concorrenziale in
Europa e negli Stati Uniti; oltre all’adesione a politiche protezioniste o liberiste, allora la questione
più importante è quella del ruolo degli stati a sostegno e a promozione dello sviluppo economico
nazionale: finanziamento di infrastrutture, promozione di un’armatura industriale essenziale,
promozione delle industrie cantieristiche dell’acciaio di un certo tipo e l’attenuazione dei disagi
sociali, umani e politici legati all’industrializzazione nei settori meno efficienti. Tutto questo è un
elemento importante che si collega all’altro intervento che è quello dell’inasprimento delle
aliquote doganali e del ruolo del stato nell’economia. Abbiamo accennato al fatto che, per aggirare
questi vincoli protezionistici, alcuni dei maggiori gruppi industriali tentano, per il superamento di
questi ostacoli alla circolazione internazionale dei prodotti, di aprire direttamente degli
stabilimenti all’interno di paesi protezionistici: questa è l’origine delle imprese multinazionali che
non esportano beni e servizi ma trasferiscono capitale finanziario e tecnologico piuttosto che
merci finite. In questo contesto, aumentano le rivalità economiche tra paesi europei e cresce
fortemente un paese come la Germania, la quale strappa alla Gran Bretagna il primato industriale
in Europa a partire dalla siderurgia dell’acciaio: l’Inghilterra non tracolla però non è più la fabbrica
del mondo anche se rimane leader nella cantieristica mercantile, nei servizi finanziari, bancari e
assicurativi. L’impatto degli Stati Uniti sugli equilibri del commercio internazionale è minore non
perché l’entità dell’economia statunitense sia ridotta ma perché gli Stati Uniti si concentrano sulle
due grandi frontiere interne, ovvero, quella del West e quella della crescita demografica e dei
consumi nelle città della costa orientale; l’attitudine statunitense a sostituire l’importazione di
manufatti stranieri con prodotti nazionali di uguali qualità ma di prezzo inferiore, contribuisce a
rallentare, rispetto al massimo potenziale, il volume di interscambio con l’estero e contribuisce
allo sviluppo di nuove industrie americane (l’elettromeccanica, la chimica organica e dei coloranti,
l’auto, gli aerei). Le imprese statunitensi sono imprese importanti nei commerci internazionali di
quest’epoca e, naturalmente, per alimentare un apparato industriale senza precedenti come
quello statunitense, aumenta l’importazione negli USA di materie prime industriali come lana,
seta, gomma, cuoio e pelli.
In questo contesto globale, vediamo le origini del sottosviluppo e del secondo colonialismo:
sappiamo che nella seconda metà del 400 e nei due secoli successivi, gli europei stabilizzano e
istituiscono un dominio su popolazioni di altri continenti per motivi tecnici, concettuali,

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organizzativi, finanziari, economici e militari; si stabiliscono rapporti complessi tra l’Europa e altre
civiltà e culture sulla base di una disparità: l’aggressione europea e l’espansione europea causa
remissione e anche dei processi di resistenza armata ma, tuttavia, l’Europa, nella maggior parte dei
casi, prevale affermando la sua superiorità tecnica e concettuale mediante il diritto, il potere e
l’organizzazione. Per quanto riguarda il rapporto tra popolazione totale dei domini coloniali e
popolazione europea, nel 1760 le popolazioni dei diversi domini coloniali ammontavano a 27
milioni di abitanti mentre l’Europa ne contava circa 130 milioni; nel 1830, quando la
decolonizzazione di gran parte delle Americhe aveva ridotto ad un terzo la superficie del dominio
coloniale europeo (la superficie coloniale era diminuita perché si è verificata la decolonizzazione
delle Americhe), le popolazioni colonizzate con 205 milioni superavano quelle dell’Europa che ne
contava 180 milioni senza la Russia mentre nel 1913 la popolazione coloniale è un terzo della
popolazione mondiale: la massima espansione di abitanti e di superficie dominata dagli europei si
ha nel 1938. Inoltre, tra il 1760 e il 1938, l’assetto coloniale ha subito due importanti
trasformazioni: l’America si è emancipata dalla Gran Bretagna e dal binomio iberico (portoghesi e
spagnoli) e cede il primato coloniale ad un altro continente, ovvero, all’Asia; il secondo aspetto
riguarda il fatto che, dal 1830, il primato del controllo dell’uomo bianco sul mondo passa dagli
spagnoli agli inglesi. Che conseguenze ha tutto ciò sul commercio? Nel 1790 quello che poi sarebbe
stato definito Terzo Mondo esporta in Europa circa 400.000 tonnellate di merci di cui il 90% erano
prodotti agricoli: zucchero di canna, cotone greggio, caffè, spezie, tè, cacao, seta greggia, tabacco;
nel 1913, le merci importate in Europa ammontano a 20 milioni di tonnellate e mutano anche le
proporzioni fra i prodotti (non solo quantità ma anche qualità). Diminuisce lo zucchero a causa
della concorrenza dello zucchero di barbabietola prodotto in Europa, diminuiscono l’indaco
(colorante naturale), i tessuti, i metalli preziosi perché i coloranti artificiali e i tessuti industriali
prodotti in Europa prendono sempre più piede ma aumentano le sostanze oleose, i cereali, la
carne, i concimi. La diversificazione dei prodotti importati dalle colonie è influenzata da tre diversi
aspetti:
- La progressiva industrializzazione europea, con il ridurre i costi di produzione dei manufatti,
ne rende quasi impossibile l’esportazione dei manufatti dalle colonie: questa è una base
per l’inondazione nelle periferie con prodotti industriali europei e statunitensi.
- L’innalzamento del tenore di vita in Europa: di conseguenza, crescono gli sbocchi per i
prodotti tropicali che fino al primo 800 erano consumati dalle élite ed erano stati
considerati beni di lusso esotici.
- L’abbattimento progressivo dei costi di trasporto sulle lunghe distanze: questo punto
rafforza i primi due punti.
In conclusione, a 70 anni circa dall’avvio della decolonizzazione (1947 India e Pakistan), come mai
c’è una durevole arretratezza del Terzo Mondo? Non ci sono delle risposte automatiche ma si
possono fare delle considerazioni: possiamo dire che la diffusone delle nuove tecniche agricole
britanniche nel sud del mondo è ostacolata da condizioni climatiche diverse da quelle della fascia
temperata europea e nordamericana; 9/10 del Terzo Mondo, infatti, si collocano in aree che
hanno climi equatoriali e tropicali che ostacolano o impediscono le coltivazioni tipiche delle zone
temperate come i cereali mentre è molto più facile ambientare in Europa prodotti di origine
extraeuropea come il riso, il mais, la patata. La comparativamente più bassa densità demografica
dell’Europa rispetto a molte aree dell’Asia e dell’Africa fa sì che in Europa lo stimolo ad usare
macchina agricole è maggior non perché gli europei siano più intelligenti ma perché ne hanno più
necessità e questo ha come conseguenza un incremento della produttività dell’agricoltura; in Asia
orientale, la densità della popolazione rurale è circa doppia e impedisce la sostituzione di lavoro
con tecnologia perché ce n’è necessità. Inoltre, politiche economiche che vennero adottate dai
governi metropolitani (governi della madre patria) incentivano la produzione nelle colonie di

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semilavorati e di derrate che hanno minor valore aggiunto e minori competenze (banane, caffè,
cotone, spezie, cacao). Infine, quattro limitazioni caratterizzano ovunque le relazioni commerciali
fra colonie e madre patria:
- I prodotti coloniali sono esportabili solo nella madre patria che, a sua volta, può riesportarli
- Le colonie possono importare solo dalla madre patria che ne trae vantaggio
- Le colonie non possono produrre materie prime e manufatti industriali in concorrenza con
la madre patria per non danneggiarla
- Le relazioni commerciali, creditizie e di trasporto tra le colonie e la madre patria sono
riservate alle imprese metropolitane
In contraddizione con l’ideologia liberale trionfante nell’800 nell’economia britannica, nel corso di
quello stesse secolo alle economie coloniali è precluso ogni sviluppo autonomo ed equilibrato.
L’EUROPA TRA UNA GUERRA E L’ALTRA (1914-1945)
Vediamo l’Europa nella Prima guerra mondiale: in questa guerra ci sono elementi innovativi, la
durata, il numero dei combattenti, l’estensione spaziale e, inoltre, lo sforzo ha comportato una
mobilitazione generale di risorse materiali, umane e organizzative in un gran numero di paesi
senza precedenti per cui questo comporta il fatto che, da un lato, ci sia un intervento
dell’amministrazione statale per la mobilitazione e la gestione di un quantità di risorse senza
precedenti e, dall’altro, un fenomeno di questo genere provochi in molti paesi alterazioni ed effetti
politici, sociali, economici, demografici, ideologici e di mentalità senza precedenti. Per quanto
riguarda le conseguenze demografiche, aumentano i morti tra civili e militari ma diminuiscono
anche i concepimenti per le condizioni della guerra e questo significa che c’è un deficit
demografico: escludendo la Russia, fra morti e non nati, alla fine della guerra, mancano all’appello
30 milioni di persone; a questo aggiungiamo che milioni di morti, in collegamento con le vicende
militari, sono causati dalla spagnola: tra il 17 e il 19 si parla di 20 milioni di morti e questa è una
pandemia che non origina direttamente dalla guerra ma che i movimenti di truppe e la
sottovalutazione per motivi strategici del morbo ha contribuito fortemente. Per quanto riguarda la
conseguenze politico-istituzionali, cambia in modo significativo la stessa carta geografica
dell’Europa: tra il 19 e il 26 (Trattato di Versailles) c’è un adattamento e mutamento politico
diplomatico con nuovi confini e conflitti locali a base nazionalistica strettamente legati alla
ridefinizione dei confini. La Prima guerra mondiale segna formalmente la fine di tre imperi
importanti nella storia dell’Europa, ovvero, l’impero austro-ungarico, l’impero russo e l’impero
ottomano: in particolare, l’impero austro-ungarico non esisterà più e nasceranno poi l’Austria e
l’Ungheria e diverse componenti balcaniche e italiane dell’ex impero diventano indipendenti
oppure passano ad altri paesi; l’impero russo non tracolla ma perde dei territori e si trasforma: la
Russia non esiste più nella sua forma tradizionale zarista ma diventa comunista e lo sarà per un
settantennio. Quindi crollano o si trasformano questi tre grandi imperi e ciò comporta un
cambiamento della cartina geografica europea; inoltre, ci sono tensioni a base nazionalistica in
alta Slesia con i tedeschi contro i polacchi, in Turchia abbiamo il genocidio armeno, abbiamo
tensioni tra Russia e Polonia, tra Russia e nuovi stati baltici che poi verranno riassorbiti dall’Unione
Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale. La Russia stessa, inoltre, vede la guerra civile perché
prima della definitiva affermazione del potere comunista c’è la guerra civile con l’armata rossa
contro le armate bianche (quelle nobiltà filo-zarista) sostenute dagli occidentali; anche l’Italia ha
delle questioni con la Jugoslavia, l’Istria e va ricordato quanto accade in Irlanda con l’indipendenza
irlandese. Oltre a questi sconvolgimenti geopolitici e alle tensioni, nei paesi vinti ci sono
sconvolgimenti a livello di quadri politici tradizionali, di tensioni sociali, della contrapposizione
politica e ideologica tra chi sostiene il sistema liberale e capitalista e le incipienti e già affermate
forze socialiste e comuniste: ci sono episodi di scontri sanguinosi come in Italia il biennio rosso e

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dure repressioni in Germania dove inizia a farsi notare il personaggio di Hitler. Inoltre, ci sono
anche tutti quei nuovi stati sorti dalla dissoluzione dell’impero austro-ungarico o dalla
decurtazione del territorio zarista: in questi paesi non c’è una profonda tradizione politica e sociale
perché manca un personale politico di qualità e mancano soldi ceti dirigenti borghesi che
potessero costituire una sorta di fascia intermedia tra la tradizionale aristocrazia fondiaria e la
massa dei contadini poveri; sono paesi in cui l’analfabetismo è diffuso, la disoccupazione è a livelli
elevati e manca un’opinione pubblica: sono paesi, per lo stessa storia, potenzialmente suscettibili
di instabilità e di tensioni interne. Anche in paesi più avanzati ci sono crisi istituzionali e
parlamentari importarti per cui si va verso regimi autoritari e questo accade, ad esempio, in Italia
che vede, nei primi anni 20, affermarsi Mussolini e il fascismo; dopo la Seconda guerra mondiale,
per motivi in parte legati alle tensioni e trasformazioni acuite e innescate dalla Prima guerra
mondiale, si rafforzano e nascono movimenti politici conservatori di natura particolare, ovvero,
non più il conservatorismo elitario tradizionale ma movimenti che avevano una larga base
popolare e nazionalista: non sono movimento pro élite ma coinvolgono larghe masse popolari (il
fascismo, ad esempio, ha goduto di un sostegno popolare diffuso così come Stalin e Lenin). C’è
un’eccezione nell’Europa centrale, in quest’area che ha poca storia liberaldemocratica, ovvero, la
Cecoslovacchia, la quale era una democrazia parlamentare che, nel secondo 800, era stato il primo
polo di modernizzazione economica e di industrializzazione in quell’area con una borghesia
intraprendente e con un’istruzione e un alfabetismo diffusi. In Spagna, fino al 31, c’è la dettatura di
De Rivera poi abbiamo la fase repubblicana con una repubblica fortemente orientata verso
politiche di sinistra e arriviamo poi alla guerra civile molto violenta, tra il 36 e il 39, in cui ci fu una
contrapposizione di schieramenti tra le democrazie liberali che sostenevano il governo e le forze
fasciste e naziste che sostenevano Francisco Franco; in Portogallo, dal 26, c’è la dittatura di
Salazar. Questo serve per sottolineare come, anche per la Seconda guerra mondiale, quasi in tutta
l’Europa, tra il 20 e il 30, il liberalismo parlamentare è in grave difficoltà e sovente scalzato e
sostituito da regimi autoritari o apertamente dittatoriali: l’eccezione sono una serie di paesi
dell’Europa nord-occidentale che mantengono la loro tradizione politica incentrata sul parlamento
tra cui l’Olanda, il Belgio, la Gran Bretagna, la Francia e i paesi della Scandinavia. Per quanto
riguarda le conseguenze sociali, la Prima guerra mondiale ebbe effetti enormi sugli effetti sociali e,
di conseguenza, per questo motivo, li ebbe anche sulle condizioni di politica interna di molti paesi.
Una figura importante che è inedita nella storia europea è quella dell’ex combattente reduce: nel
1918, decine di milioni di giovani, fortemente provati dalla guerra di trincea, fecero ritorno alle
loro case segnati da questa brutale esperienza collettiva che li aveva lungamente messi di fronte
alla morte come evento normale. Al ritorno dal fronte, i reduci trovano una società molto
polarizzata che non sempre li accoglie bene: c’è un ristretto gruppo di nuovi ricchi molti dei quali,
improvvisatisi commercianti, imprenditori e fabbricanti, hanno sfruttato la particolare congiuntura
interna mentre altri rischiano o perdono la vita sui campi di battaglia. Al polo sociale opposto, c’è
la maggioranza delle vittime degli effetti economici della guerra: chi percepisce redditi fissi, a causa
dell’inflazione che caratterizza la fase post bellica (il reddito fisso è intaccato dall’inflazione), ha
visto diminuire il potere d’acquisto reale di questi redditi e anche chi ha dei titoli subisce degli
svantaggi; anche il mondo rurale non viene risparmiato dalle conseguenze economiche della
guerra. Ci sono varie persone che, sul piano economico e psicologico, si sentono arrabbiate,
frustate e danneggiate. C’è poi una massa cosiddetti fannulloni, marginali e di persone scontente e
che vivono con poco che si organizzano in movimenti politici, sindacati e partiti di massi che hanno
la veste di nuovi eroi reduci che cercano un posto di lavoro: costoro, in vari modi, cominciano a
premere sul mondo politico portando alla ribalta la questione economica e sociale della
disoccupazione. Questo ci lega alle conseguenze economiche: sono state distrutte infrastrutture di
varie genere (infrastrutture viarie, porti, edifici, impianti, scorte) soprattutto nella Francia del Nord
e nel Belgio, ci sono state distruzioni nelle campagne dove, tra l’altro, oltre alle distruzioni

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materiali, c’erano state le conseguenze del fatto che molti contadini avevano dovuto andare a
servire abbandonando le loro attività agricole. Si stima che le materie prime, capitali e lavoro
sprecati e distrutti durante la Prima guerra mondiali siano stati uguali alla ricchezza che l’Europa,
senza la Russia, avrebbe prodotto in tre/quattro anni di pace. Alle distruzioni di questo genere,
dobbiamo aggiungere un aspetto finanziario importante, ovvero, l’abbandono o la perdita degli
investimenti esteri di paesi come la Gran Bretagna e la Francia che erano stati grandissimi
investitori all’estero ed erano stati, fino a quel momento, grandi creditori: questo accade perché,
in primo luogo, questi paesi per acquistare beni, servizi e materie prime che servono per lo sforzo
bellico devono cedere crediti o, loro volta, si devono indebitare, Per esempio, la Gran Bretagna
cede parte degli investimenti all’estero per finanziarie la guerra e subisce anche danni ingenti alla
flotta mercantile e, inoltre, ci sono anche riacquisizioni e vendite forzate che annullano la ricchezza
estera della Germania nei paesi nemici; un caso importante è quello della Francia che perse circa
2/3 degli investimenti diretti esteri: una parte fu liquidata come abbiamo visto per la Gran
Bretagna ma gli svantaggi maggiori si concentrano soprattutto nel settore del debito pubblico e
delle partecipazioni azionarie in quei paesi dove sono avvenute radicali trasformazioni istituzionali
come in Russia postrivoluzionaria perché il nuovo regime comunista non hanno alcuna intenzione
di onerare degli impegni che erano stati presi da un regime che loro avevano sovvertito. Un altro
grande problema che tocca in modo particolarmente drammatico la Germania ma tutti questi
paesi in generale è quello dell’inflazione, tipica delle fasi belliche e post belliche dopo guerre di
lunga durata: come mai l’inflazione? Perché i governi, per finanziare lo sforzo bellico, oltre ad
imporre le tasse, stampano moneta per cui si trova in circolazione una quantità di mezzi di
pagamento, dovuta a queste emissioni cartacee, eccessive rispetto a quella che è la situazione: c’è
quindi un significativo aumento della massa monetaria e questo porta ad una diminuzione del
valore della moneta. C’è poi anche un emissione di titoli del debito pubblico sottoscritto, spesso,
dalle banche per finanziare la guerra: tutto ciò causa una situazione di forte indebitamento e forte
incremento della massa monetaria. Alla fine della guerra, il fardello per le finanze pubbliche
aumenta ulteriormente perché i governi si trovano a pagare pensioni e provvidenze varie per
orfani, vedove, mutilati, reduci invalidi che non potevano tornare al lavoro: questo ha diverse
conseguenze perché comporta una riorganizzazione burocratica e, inoltre, nei bilanci pubblici, fra
le spese ordinarie, la corresponsione di pensioni rende ancora più difficile il ritorno al pareggio fra
entrate e uscite comportando un peggioramento della situazione finanziaria. Per i paesi sconfitti
(Germania, Austria-Ungheria e Turchia), agli oneri del debito e delle pensioni si aggiungono gli
oneri di guerra e le riparazioni di guerra specialmente per la Germania che già era stata punita
duramente perdendo delle colonie, l’Alsazia, la Lorena e la Saar.
Finita la Prima guerra mondiale, c’è un difficile ritorno alla normalità e il rapporto tra stato e
iniziativa economica privata (imprese private) dopo la guerra muta: in primo luogo, la guerra fa
aumentare molto il potere pubblico di regolazione economica e sociale e questo non significa che
l’Europa diventi comunista ma che il ruolo dello stato cresce; lo stato, anche dopo la fine della
guerra, continuerà, con qualche cambiamento, a controllare e a regolare una parte dell’economia,
inizialmente, con l’utopia e nell’illusione di poter rispristinare le condizioni pre-belliche. Quali sono
le condizioni post belliche che si cerca di superare e di ripristinare l’ante bellico? A partite dal 20, ci
sono alcuni problemi comuni a tutti i paesi europei reduci dalla guerra:
- Bisogna ricostruire infrastrutture e capitale tecnico (macchine) distrutti o danneggiati;
- Bisogna rientrare dall’inflazione, ricostituire le riserve auree e di valute estere convertibili
in oro per poter tornare alla base aurea della moneta e rispristinare il sistema monetario
che, per gran parte dell’800, aveva dominato, ovvero, il Golden Standard;
- Bisogna gestire i debiti di guerra interni ed esteri e le riparazioni per gli sconfitti;

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- Bisogna ridurre l’eccesso di capacità produttiva che si era determinati in certi settori che
avevano alimentato lo sforzo bellico come il settore metalmeccanico, chimico,
automobilistico, cantieristico, aeronautico;
- Bisogna affrontare la disoccupazione dilagante reperendo risorse per sussidi pubblici a
orfani, vedovi, invalidi;
- Bisogna limitare anche le importazioni più costose e contingentare gli scambi
internazionali.
In realtà, la Prima guerra mondiale non aveva solo distrutto, in quantità enorme, ricchezza reale
ma aveva anche avviato lo smantellamento di un sistema di relazioni economiche e finanziarie
internazionali perfezionate a partire dal liberoscambismo britannico: abbiamo nuovi paesi
creditori e nuovi debitori che un tempo erano stati nuovi creditori; la Gran Bretagna e la Francia,
con la guerra, da esportatori di beni, servizi e capitali (da creditori che ricevevano pagamenti in
oro), diventano paesi debitori mentre gli Stati Uniti diventano il primo paese esportatore di beni e
servizi con molti capitali da investire e diventano il primo credito mondiale e, inoltre, il Gold
Standard viene abbandonato dal momento della sospensione della convertibilità in oro della
sterlina quando stava per scoppiare la guerra. Modificazioni strutturali, simili a quelle che si
verificano nei flussi internazionali di merci e di capitali, si verificano anche per i movimenti di
manodopera e c’è un andirivieni di uomini e donne in Europa. Cambiano alcune cose anche al di
fuori dell’Europa perché, per esempio, gli Stati Uniti, che erano stati per decenni idrovore di
uomini e di emigrati, dal 21, in un nuovo contesto politico e demografico, introducono limitazioni
(non più di 150.000 immigrati per anno) e quotizzazioni nonostante essi siano stati fin dall’inizio
della loro storia un paese di immigrazione; dal 23 al 25, anche in Australia e in Canada vengono
introdotti dei provvedimenti discriminatori su base di nazionalità, razza e occupazione. In Europa,
complessivamente, c’è un lento e difficile ritorno alla produzione agricola e industriale ai livelli
prebellici: in Germania, in Francia, in Belgio e in altri paesi la produzione industriale era di circa 1/3
inferiore a quella del 1913. Se guardiamo ad un quadro economico mondiale, le difficoltà che i
grandi paesi industriali esportatori europei avevano attraversato durante il periodo bellico e negli
anni successivi non sono prive di conseguenze su scala mondiale perché, impegnatissimi nel
finanziare e nell’implementare lo sforzo bellico, questi paesi perdono la leadership negli
investimenti diretti esteri, diventano da creditori a debitori ma perdono anche quote di mercato e
questo ha ulteriori conseguenze: le relazioni internazionali sono complicate dagli enormi debiti
interalleati di guerra dovuti soprattutto alla Gran Bretagna e agli Stati uniti mentre, sul piano dei
mercati, ci sono paesi che rimangono neutrali come il Giappone che possono sostituire in aree e in
mercati extraeuropei le merci, i beni e i servizi europei che non vengono più esportati in quei
paesi. In questo contesto di recupero, un aspetto importante riguarda la parziale restaurazione del
sistema aureo che non sarà più, però, il Gold Standard ma diventa il sistema cambio aureo: nel 25
la sterlina viene nuovamente agganciata all’oro, grazie ad un cospicuo prestito dagli USA; la
caratteristica per cui si parla di sistema cambio aureo è che, oltre le monete e le valute nazionali,
non vengono più esclusivamente cambiate direttamente in oro ma ci sono delle monete chiave
nelle quali si possono convertire delle monete periferiche: le monete chiave sono il dollaro, la
sterline e il franco francese per un certo periodo. Quindi abbiamo l’oro ma, come passaggio
intermedio, si possono anche convertire monete nazionali non direttamente in oro ma in queste
monete chiave. Nei secondi anni 20, una serie di sviluppi tecnologici e la diffusione dei moderni
processi costruttivi anche nei paesi di recente industrializzazione fa aumentare la platea dei
produttori mondiali di certi beni: questo significa che si allarga l’offerta sul mercato mondiali e
stiamo parlando di prodotti elettrici, di prodotti petroliferi, del settore motoristico con il motore a
quattro tempi e diesel, del rayon (seta artificiale). Gli Stati Uniti approfittano di questa congiuntura
ma anche il Giappone che è diventano un concorrente dell’Europa su molti mercati periferici;

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inoltre, quelle difficoltà ad importare forniture dall’Europa, oltre a favorire paesi esportatori come
gli USA e il Giappone, favorisce il sorgere di industrie locali in aree come il Sudamerica, l’Australia,
la Nuova Zelanda e il Sud Africa.
Siamo alle soglie degli anni 30: abbiamo visto che l’Europa faticosamente si rimette in piedi con
forti tensioni economiche, politiche e sociali per cui nel biennio 25-26 la ricostruzione è più o
meno completa ovunque e il commercio internazionale era in ripresa; quasi ovunque, però, in
Europa, la ricchezza pro-capite è ancora inferiore al 1913. Gli Stati Uniti vivono addirittura anni
ruggenti di crescita e, oltre alle grandi industrie, c’è anche un ceto medio che aumenta i propri
consumi e che investe in borsa. Ci avviciniamo alla grande crisi degli anni Trenta e anche al crollo
di Wall Street: queste due cose sono connesse ma non possiamo dire che Wall Street è stata
l’unica causa della grande depressione perché la grande depressione è frutto di tanti fattori e
certamente la fine dell’ascesa borsistica gioca un suo ruolo. Tra 24 e il 29 ottobre del 1929, Wall
Street subisce perdite pesantissime: crolla il corso dei titoli che era mediamente raddoppiato tra il
1926 e il settembre del 29 per una serie di motivi come l’ascesa della classe media e il fatto che le
imprese, anziché tenere da parte della liquidità, la investono in buona misura per guadagnare
ulteriormente; questa raddoppio del corso dei titoli avviene anche grazie agli investimenti
speculativi di finanzieri europei mentre negli Stati Uniti aumentano i consumi tipici della classe
media (radio, fonografo, macchine fotografiche, auto, frigoriferi, aspirapolveri, lavabiancheria). Un
tracollo così importante che interessa non solo grandi investitori ma anche una platea piuttosto
ampia di piccoli e medi investitori significa danni che si diffondono nel cuore della società: i primi
ad essere colpiti sono gli agenti di cambio (brokers) e le banche che avevano prestato denaro, per
speculazioni di borsa, ai privati e alle imprese ma vengono colpite anche famiglie della classe
media. Molte imprese industriali, assicurative e di servizi, che fin dal 28 avevano investito in borsa
attratte dai grandi rendimenti, con il crollo del corso delle azioni e delle obbligazioni esse perdono
oltre la metà dei capitali liquidi investiti e ciò comporta delle conseguenze anche molto gravi sugli
equilibri finanziari di queste imprese. E’ una situazione che coinvolge diversi protagonisti tra cui
grandi imprese, imprese di medio piccole dimensioni, famiglie, operatori professionali di borsa e
del settore finanziario: questo è importante perché significa che ci sono sofferenze socio-
economiche in diverse comparti della società e dell’economia americana. Una società e
un’economia che aveva già i suoi problemi quando tutto andava bene perché, prima del crollo di
Wall Street (ecco perché Wall Street non è l’unica causa), dal primo agosto del 29 era iniziata una
discesa dei prezzi all’ingrosso delle materie prime soprattutto minerarie e agricole nelle maggiori
piazze internazionali e ciò aveva comportato una diminuzione dei prezzi delle merci importate
negli Stati Uniti e questo, a sua volta, aveva accelerato la diminuzione dei prezzi delle merci
interne: quest’ultima situazione, a sua volta, aveva quindi indotto le imprese industriali, a corto di
liquidità, a vendere le scorte di materie prime nella convinzione di poterle poi riacquistare a prezzi
più bassi; di fatto, quindi, abbiamo un forte incremento dell’offerta a prezzi costantemente in
diminuzione e, di conseguenza, un attendismo della domanda (in una fase di deflazione, sono
indotto ad aspettare perché i prezzi immagino che scenderanno e quindi comprerò le materie
prime e quant’altro successivamente quando sarà più conveniente): tutto questo alimenta una
sorta di spirale involutiva, che sarà aggravata dal tracollo di Wall Street, che causa una forte
diminuzione del volume degli affari e, ad esempio, nel fiorente mercato dell’auto nordamericano
che non aveva paragoni tra marzo e dicembre del 29 le vendite calano dell’83% perchè le banche
tagliano i crediti al consumo. Teniamo anche conto che il mondo agricolo USA era in difficoltà già
da tempo perché, durante la Prima guerra mondiale, le agricolture dei paesi europei avevano
sofferto e le loro produzioni agricole erano diminuite drasticamente: c’erano aperti quindi nuovi
spazi di mercato per gli agricoltori americani che erano, invece, cittadini di un paese impegnato
nella guerra ma non toccato nel proprio territorio; quindi molti agricoltori americani si indebitano
per poter effettuare degli investimenti produttivi e per approfittare di una congiuntura di mercato

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che è particolarmente favorevole: qui succede che, successivamente, i produttori europei si
riprendono per cui le opportunità di mercato, in realtà, sono piuttosto brevi e ci sono molti
produttori agricoli americani che si sono indebitati e che ora si trovano di fronte ad una situazione
in cui i prezzi e gli spazi di mercato diminuiscono e i prezzi dei prodotti sono in discesi per cui c’è
un’evidente sovrapproduzione. Tutto ciò fa che sì che al 29 e ai primi anni 30 c’è una parte non
insignificante della società americana, ovvero, il mondo agrario, che si trova già da anni in
difficoltà: ecco quindi che vediamo una sofferenza economica e sociale negli USA nei primi anni 30
molto rilevante che si manifesta con forme di povertà molto marcate infatti abbiamo 1/4 della
popolazione attiva è disoccupato, abbiamo un crollo della produzione, un crollo degli investimenti.
Ci sono delle misure anticrisi prese dal governo per immettere liquidità nel sistema economico ma
le prime misure prese dal presidente Hoover non ottengono grandi risultati e, in alcuni casi, sono
controproducenti. Tra il 29 e il 32 crolla il prezzo del grano gettando ancora più in crisi il mondo
rurale che ancora importante economicamente e politicamente; inoltre, la disoccupazione nel 29
pre crisi era il 3,7% e nel 33 era il 25%. I corsi azionari continuano a scendere e il minimo storico è
nel giugno del 32 per cui continuano a scendere per 3 anni ma, naturalmente, in un’economia
integrata il crollo di Wall Street contagia anche le piazze europee: dall’inizio degli anni 30 ci sono
delle insolvenze e fallimenti a catena e i numerosi licenziamenti comportano un crollo della
domanda di prodotti industriali e la diminuzione dei prezzi che coinvolge l’agricoltura; diminuisce
la ricchezza prodotta e distribuita e diminuisce anche il gettito fiscale e ciò causa dei disavanzi nei
bilanci pubblici in un’epoca in cui la regola era quella del bilancio in pareggio. Dieci anni dopo la
fine della guerra, vengono ripristinati e ripotenziate istituzioni e meccanismi ideati per
l’emergenza bellica e poi per ritornare all’economia di pace (c’è quindi l’intervento dello stato): è
una crisi senza precedenti che, inizialmente, negli Stati Uniti, viene affrontata secondo i criteri
dell’ortodossia con poco intervento statale ma non basta perché la crisi diventa una depressione e
una parte dell’opinione pubblica chiede che si facciano passi nuovi e che si adottino meccanismi e
approcci in parte inediti; abbiamo quindi la pressione dell’opinione pubblica contro i metodi
tradizionali nell’affrontare una crisi così senza precedenti perché la disoccupazione e la deflazione
non si erano mai presentate così intensamente lungo prima: questo sortirà in primo luogo il New
Deal, ovvero, una politica progressista con lo stato che, pur senza intaccare il capitalismo, diventa
il protagonista perché esso, quando l’economia non si rimette in senso da sé perché la crisi è
troppo pesante, deve intervenire creando condizioni generali più favorevoli agli imprenditori
privati ma anche intervenire direttamente con iniziative che rilancino l’economia, la domanda e
distribuiscano potere d’acquisto. Nel 33 Franklin Roosevelt, eletto nell’anno precedente, svaluta il
dollaro, pur senza sganciarlo dall’oro per rilanciare l’economia e avvia una politica economica e
sociale dirigista definita New Deal che introduce una serie di misure in materia di disoccupazione,
anzianità, cassa mutua malattia, orario di lavoro, salario minimo, lavoro minorile, preleva risorse
dalla tassazione dei grandi patrimoni, innalzamento dell’aliquota; una politica di misure di lavori
pubblici è importante perché l’idea era che con queste opere si creasse lavoro e, soprattutto, si
distribuissero stipendi a persone che poi sarebbero state in grado di consumare e di esprimere una
domanda sul mercato rilanciando l’economia. Misure anticrisi vengono adottate con alcune
differenze anche nei diversi paesi e tra queste ci sono:
- L’abbandono del Gold Standard e la svalutazione delle valute nazionali: i prezzi non
aumentano e il commercio interno ed estero continuano a declinare
- L’avvio di grandi lavori pubblici con elevati impiego di manodopera
- I controlli dei cambi per evitare deficit della bilancia dei pagamenti
- Tariffe protezioniste per dissuadere le importazioni o come ritorsione commerciali verso
stati diventati protezionisti

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- Politiche orientate allo sfruttamento autarchico delle risorse nazionali e dei prodotti del
paese
- Trattati commerciali con i maggiori partner
Nel 33-34, alcuni governo tra cui quello tedesco, italiano e russo varano una politica di riarmo e di
incremento degli armamenti che ha una ricaduta politico-strategica ma che ha anche una rilevanza
economica perché per produrre armi ci vogliono l’acciaio e componenti tecnologiche per cui è uno
stimolo importante. Prima di passare ai totalitarismi soffermiamoci su un paese importante che è
un esempio di un tipo di politica che nel periodo tra le due guerre anticipa scelte successive in altri
paesi: la Svezia. Che tipo di politiche vennero messe in atto dalle autorità svedesi tra le due
guerre? Il governo fu ininterrottamente in mano al partito socialdemocratico e per fronteggiare la
crisi economica che colpì anche la Svezia non vennero scelte né politiche protezionistiche né
politiche deflazionistiche ma quello che si scelse di fare su una cosa innovativa e atipica per
l’epoca, ovvero, regolare la spesa pubblica per controbilanciare le fluttuazioni economiche: l’idea
era quella di una politica anticiclica, che poi sarebbe stata utilizzata da quasi tutti i governi,
lavorando sulla moneta, sulla fiscalità, sul tasso di sconto, sugli impieghi statali sostitutivi in caso di
disoccupazione, dichiarando apertamente che lo stato doveva sostenere l’economia nei momenti
difficili come quelli degli anni Trenta e varando una politica di lavori pubblici con prestiti redimibili.
Questo tipo di politica vale particolarmente nei momenti di difficoltà ma può essere adattata e
invertita anche nei momenti più favorevoli: ad esempio, a partire dal 1935 quando si assistette ad
una significativa ripresa economica, i lavori pubblici vennero sospesi o rallentati; si trattava
comunque di una politica anticiclica e la Svezia è la prima ad attuare in modo attivo ed efficace
questa politica anticiclica. Tra i paesi più industrializzati, negli anni 30, solo la Gran Bretagna non
smise di crescere mentre per paesi come il Belgio, la Francia, la Svizzera, gli Stati Uniti fu un
periodo delle cosiddette “vacche magre”. Gli stessi Stati Uniti subirono una dura depressione
economica: le politiche rooseveltiane (New Deal) ottennero dei risultati importanti ma ci fu una
seconda, anche se meni intensa, crisi economica e gli Stati Uniti, pur avendo in parte recuperato,
entrano nella Seconda guerra mondiale (nel 1941) senza aver ancora recuperato il livello di
produzione industriale e il PIL precedente la grande depressione e questo significa che il pieno
recupero dei livelli produttivi pre grande depressione avverrà solo grazie allo sforzo produttivo a
sostegno delle truppe americane e delle truppe alleate; questo ha indotto alcuni storici economici
a sottovalutare l’utilità e il successo del New Deal perché essi dicono che il New Deal non riportò
l’economia americana dove essa si trovava prima della grande depressione ma, tuttavia, a questa
osservazione critica si contrappone il fatto se senza il New Deal, probabilmente, la depressione
economica sarebbe stata ancora più grave. Possiamo quindi dire che quasi tutti i paesi occidentali
soffrono duramente.
La situazione è un po’ diversa per i paesi totalitari e qui introduciamo il totalitarismo: prima
introduciamo alcuni concetti generali, ovvero, una sorta di carta di identità dei paesi totalitari nel
loro insieme e poi vedremo i tre casi dell’Unione Sovietica, l’Italia fascista e la Germania nazista in
cui vedremo che, pur tra enormi differenze, questi tre paesi possono vantare l’etichetta di
“totalitari” pur essendo agli opposti dello spetro politico e ideologico. Vediamo la carta d’identità
generale dei totalitarismi come esperienza comune all’Unione Sovietica, all’Italia fascista e alla
Germania nazista: possiamo definire il totalitarismo come un “tragico esperimento senza
precedenti nel passato attuato da un partito rivoluzionario guidato da un capo carismatico che,
dopo aver conquistato con la violenza il monopolio del potere politico, instaurò un regime a
partito unico fondato sul terrore e sulla demagogia populista, assoggettò la popolazione
irregimentandola in organizzazioni proprie e impose la propria ideologia come una religione
politica di massa”. Prima di tutto si parla di “tragico esperimento” perché la tragicità è dimostrata
dalla storica, dalla letteratura, dalla poesia e dalla cinematografia mentre si parla di esperimento

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perché è un qualcosa di sperimentale che non segue canoni tradizionale per questo non ci sono
“precedenti nel passato”; c’è un “partito rivoluzionario” e c’è un “capo carismatico” e il primo
capo carismatico è Mussolini: la violenza è intrinseca a questi movimenti con cui si ottiene il
monopolio del potere politico, ovvero, lì chi comanda è solo quel leader carismatico sulla base di
quella forza politica e ideologica (per questo si parla di totalitarismo perché è totalizzante). Alcuni
sostengono che il totalitarismo italiano fu un totalitarismo imperfetto perché in Italia, anche sotto
il tallone fascista, rimasero due istituzioni influenti, ovvero, la monarchia e la chiesa a differenza,
invece, di Hitler che non solo è cancelliere ma è anche capo dello stato e la chiesa cattolica e
luterana in Germania viene totalmente asservita: in Italia, la chiesa rimane come un’entità
importante perché, per esempio, ci sono i patti lateranensi e ciò significa che il fascismo, pur da
una posizione di predominio e di forza, deve comunque interagire con la chiesa cattolica e la
monarchia in cui il capo dello stato rimane il monarca e non il dittatore. La definizione dice
“instaurando un regime a partito unico” in cui non c’è democrazia e c’è un solo partito (fascista,
nazista, comunista): questo regime viene “fondato sul terrore e sulla demagogia populista” per cui
è caratterizzato da una totale compressione delle libertà con la violenza esplica ma anche con la
minaccia della violenza; questo regime “assoggettò la popolazione irregimentandola in
organizzazioni proprie”, ovvero, si organizza la popolazione in strutture predisposte per creare
consenso e anche, se necessario, terrore e queste organizzazioni proprie sono la scuola. Infine, si
“impone la propria ideologia come una religione politica di massa”: l’ideologia è molto importante
e qui non è un normale conservatorismo o una normale linea reazionario ma c’è di più perché si
vuole coinvolgere ma l’ideologia è una religione politica di massa, ovvero, qualcosa che coinvolge.
Ogni regime totalitario ha sei elementi distintivi:
1. Il partito e la sua ideologia;
2. L’assoggettamento e il controllo delle forze armate: le forze armate sono molto più che
uno strumento nelle relazioni tra stato e stato in guerra o nelle attività strategiche ma
diventano uno strumento fondamentale di controllo della politica interna;
3. L’organizzazione di una polizia segreta e la repressione/eliminazione fisica degli oppressori:
KGB in Russia, la Gestapo in Germania e l’OVRA in Italia;
4. La propaganda insistita, la censura (abolizione della libertà di pensiero e di stampa) e il
controllo dei mass media;
5. Il culto della personalità del capo, identificato come un eroe-dio mitico;
6. Il controllo dell’economia attraverso una politica economica dirigista e/o di pianificazione
che limita e programma l’economia di mercato o la sostituisce del tutto con una gestione
burocratica delle relazioni economiche interne e con l’estero.
Cominciamo a vedere qualcosa sull’Unione sovietica: la rivoluzione bolscevica avviene nel 1917
durante la Prima guerra mondiale e questo non è casuale perché alcune contraddizioni e tensioni
insite alla Russia zarista già preesistenti vengono ad essere esacerbate dallo sforzo bellico. In
realtà, le condizioni russe dal punto di vista socio-economico, alle soglie della rivoluzione russa,
erano comunque migliorate ed erano evolute rispetto a decenni prima perché nel 1917, alla vigilia
della rivoluzione russa, le infrastrutture pubbliche e industriali, grazie al ruolo svolto dello stato,
erano notevolmente cresciute, il paese presentava industrie anche moderne e l’economia e la
società russa erano cresciute anche se erano più indietro rispetto ai paesi più avanzati: nonostante
questa crescita del paese, resta comunque una struttura sociale e agricola ancora arretrata con
un’agricoltura tradizionale. In un primo tempo, dopo aver preso il controllo del potere centrale,
Lenin crea i consigli operai chiamati Soviet nelle fabbriche per controllare la gestione dei
proprietari ma, tuttavia, la reazione dei proprietari lo induce ad una scelta più drastica: nel 1918
Lenin nazionalizza le banche, le grandi industrie, le aziende che commerciano con l’estero e
cancella il debito pubblico estero ereditato dallo zar che, come abbiamo detto, danneggia in modo

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particolare la Francia; nel 1917 viene abolita la proprietà delle terre dei latifondisti e del clero, due
grandi nemici dei comunisti bolsceviti e vengono concesse ai mir (ai villaggi). Nel 1918, dopo aver
riconosciuto la piccola proprietà contadina, in un secondo momento, Lenin opta per lo
sfruttamento collettivistico del suolo abolendo anche la piccola proprietà contadini. Per
sopprimere il mercato, si organizzano gli ammassi pubblici dei prodotti di base e la distribuzione in
natura delle derrate alimentari (questo si chiama comunismo di guerra perché siamo ancora in
guerra): è una catastrofe economica con il blocco totale del sistema economico russo perché i
contadini reagiscono, i quali, pur di non sottostare ad un regime così duro che li priva di ogni
singola possibile decisione, decidono di boicottare, di bruciare le sementi, di bruciare le derrate.
Lenin si rende conto che bisogna allentare le redini anche perché in questa fase, nel 1921 e negli
anni successivi, c’è un duplice problema: da un lato, bisogna rimettere in modo l’economica e,
dall’altro, bisogna evitare che il malcontento sempre più diffuso, acuito ulteriormente dal
comunismo di guerra, metta a repentaglio la presa di potere da parte dei bolscevichi perché è un
sistema che non è ancora consolidato. C’è quindi un problema sia di ripresa economica sia di
stabilità politica per cui viene varata la NEP, ovvero, la Nuova Politica Economica: ripristina la
piccola proprietà contadini, ripristina le piccole imprese industriali mentre le grandi imprese
vengono affidate a gestori, ripristina la moneta e niente più distribuzioni in natura e i piccoli
produttori artigianali e contadini possono vendere direttamente una parte della loro produzione
ma non tutta. I risultati sono buoni sul piano economico perché i volumi di produzione aumentano
e hanno successo i Kulaki, ovvero, contadini più benestanti e più intraprendenti che trainano
questa ripresa. Si pone però un problema: Stalin, subentrato a Lenin nel 1922, ha il timore che
questi kulaki possono rappresentare una quinta colonna del capitalismo e una possibilità di
restaurare ciò che si era cancellato e questo, per i comunisti, non era accettabile perché erano
contro al libero mercato, della proprietà privata con ampi spazi di manovra; Stalin, dopo che il
paese si è ripreso e il potere si è consolidato, pone fine alla NEP, collettivizza violentemente la
terra e stermina i kulaki nei gulag. A partire dal 1928, vengono stabiliti i “piani quinquennali”,
ovvero, viene inaugurata una politica di pianificazione economica sistematica della produzione e
distribuzione della ricchezza, la quale era basata su tre principi base:
- Lo spirito di partito;
- Il centralismo democratico che prevedeva una divisione delle responsabilità fra centro e
periferia;
- Il principio settoriale: ogni impresa dipende da un ministero tecnico a seconda della natura
della produzione.
Nel primo piano quinquennale, dal 1928 al 1933, si concentrano le risorse nell’industria pesante,
scompaiono i settori privati ancora esistenti e nel 1930 si procede alla collettivizzazione delle terra
completata in dieci anni; da quel tempo compaiono i kolkoz, grandi fattorie cooperative e i sovkoz,
fattorie statale: nei kolkoz si operano i depositi per l’ammasso obbligatorio, si paga il noleggio
delle macchine e si pagano le imposte e i kolkozziani (membri del kolkoz) si dividono ciò che c’è in
più rispetto a questi obblighi e hanno anche dei piccoli appezzamenti individuali i cui frutti possono
essere venduti. Le industrie sono raggruppate in trust che comprendono imprese appartenenti allo
stesso settore produttivo o in combinat che integrano verticalmente le aziende. Gli effetti del
primo piano sono impressionanti dal punto di vista della produzione: l’industria diventa il primo
settore dell’economia russa in pochi anni e, in particolare, lo sforzo concentrato sulla produzione
di beni strumentali (investimenti tecnici) moltiplica la capacità produttiva del sistema. La Russia
subisce l’attacco nazista nonostante abbia accordato il patto Molotov-Ribbentrop e sia stata
alleata temporaneamente della Germania: Stalin si dimostra un leader perché resiste
all’operazione Barbarossa anche grazie alla dimensioni enormi di questa terra. Alla fine della
Seconda guerra mondiale, che all’Unione Sovietica costò 17 milioni di morti e distruzioni di

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infrastrutture e abitazioni civili, la Russia conquista una parte dell’Europa orientale, rifiuta nel 1947
l’offerta del piano Marshall e rilancia la pianificazione economica, infatti, la Russia diventerà un
colosso strategico e un’enorme potenza atomica. Tra il 30 e il 60, l’economia sovietica cresce e la
Russia si rafforza pur con un’economia diversa meno basata sui consumi privati ma più basata
sull’esercito mentre dal 60 all’89 c’è un progressivo ristagno; dopo l’89 c’è una fase molto
complessa in cui crolla l’impero sovietico, c’è un decennio (quello degli anni 90) di vero e proprio
disastro economico con il dimezzamento della ricchezza prodotta annualmente, il reddito pro-
capite è ridotto ad 1/3, incremento di alcolismo, la vita media diminuisce a causa della povertà e
delle condizioni economiche. Successivamente c’è una parziale ripresa con l’ascesa al potere di
Putin, il quale restaura una certa solidità del potere centrale, l’immagine del paese e anche
l’economia si riprende sia grazie al nuovo governo e anche per un altro motivo: oggi il punto di
forza dell’economia russa sono il petrolio e i gas naturali (la Russia dipende dalle risorse
energetiche) per cui ciò significa che quando i prezzi di queste risorse energetiche a livello
internazionale sono elevati, la Russia guadagna e questo è ciò che accade alla fine degli anni 90;
questo aiutò Putin a rimettere in sesto l’economia russa. Oggi la situazione in Russia è complessa
perché, pur con il cambiare dei regimi, in alcuni paesi, alcuni elementi di fondo rimangono
relativamente costanti perché, per esempio, nella Russia zarista, comunista e post comunista, il
ruolo dello stato nell’economia è comunque sempre rilevante anche se in modo diverso: l’eredità
permanente dello statalismo sovietico ha distrutto la società civile negandola per anni; il
radicamento della democrazia è difficile in un mondo orfano di un’identità collettiva dove i flussi
del denaro e del potere condizionano le istituzioni economiche e sociale emergenti. La Russia
attuale, nominalmente democratica, somiglia in modo impressionante allo zarismo novecentesco.
Per quanto riguarda il fascismo in Italia, invece, nel 1922, l’economia italiana sta lentamente
riguadagnando stabilità: cresce la produzione agricola e riprende anche l’emigrazione verso la
Francia, il Belgio e Lussemburgo; nel 1924, il governo fascista salvò dal fallimento il banco di Roma
e creò un istituto di credito per le opere di pubblica utilità e, per la prima volta nella storia italiana,
quell’anno segnò un reddito prodotto dal settore industriale che quasi eguagliò il reddito tenuto in
agricoltura: ciò significa che sta crescendo l’importanza del settore industriale. Nel 1927, l’Italia
ripristina il Gold Standard e nel 1928 abbiamo la quota 90, ovvero, il cambio della lira contro la
sterlina: è una scelta di carattere finanziario di rivalutare la lira e dire che la lira è una moneta
forte; questo ha delle implicazioni sia favorevoli che sfavorevoli sull’economia reale perché
all’estero i nostri prodotti costano di più. In questi anni il governo abbandona una politica liberista
fino allora praticata varando anche un dazio sui cereali (protezionismo) e bandisce la battaglia del
grano con l'obiettivo di raggiungere l’autosufficienza produttiva dell'alimento base della
popolazione per non dover dipendere da massicce importazioni: il ripristino del dazio sui cereali fa
salire il prezzo interno, stimola la produzione e fa diminuire le importazioni; questo ha degli effetti
positivi sulla cerealicoltura ma anche indiretti perché stimola, per esempio, le imprese che
producono trattori, macchina agricole e fertilizzanti. Inoltre, importante è anche la legge per la
bonifica integrale che vede una cooperazione fra lo stato e i proprietari fondiari per prosciugare
paludi e acquitrini e trasformarli in campagne coltivate. Ci sono, però, anche dei danni perché,
innanzitutto, l’allargamento delle colture cerealicolo avviene contro e a danno di altre colture e
l’accresciuto prezzo del pane, mentre i salari ristagnano o diminuiscono, fa diminuire il consumo di
derrate e manufatti perché si deve spendere una quota superiore del proprio reddito per
acquistare il pane e quindi c’è meno denaro per fare altri tipi di acquisti. Alla fine degli anni 20,
abbiamo una situazione, dal punto di vista del legame tra mondo finanziario, creditizio, bancario e
mondo industriale, simile a quella tedesca: le banche miste italiane sono gli azionisti di controllo
delle maggiori imprese industriali; il crollo di Wall Street significa difficoltà anche per le banche
miste italiane che detenevano i titoli americani, ne dissesta i bilanci e mina la fiducia dei
depositanti. C’è quindi un rischio concreto che si scatenasse una corsa al ritiro dei depositi e che il

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deficit di liquidità potesse portare al fallimento a catena dei maggiori istituti di crediti per cui il
governo, di conseguenza, solleva le banche dalla necessità di svendere i titoli industriali che esse
detenevano e, alla fine del 1931, Credit e Comit cedono le loro partecipazioni ad una società
finanziaria controllata dalla Banca d’Italia e si impegnano a cessare l’attività come banche miste: il
loro ruolo passa ad una nuova istituzione detta IMI (Istituto Mobiliare Italiano), al capitale della
quale concorsero l’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni), l’INPS (Istituto Nazionale Previdenza
Sociale) e la cassa depositi e prestiti. Nel 1933 entra in scena l’IRI (Istituto per la Ricostruzione
Industriale), diventa una protagonista fondamentale della nostra economia e viene incaricata della
riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria, delle attività industriali cedute dalle banche
miste. Dobbiamo notare due aspetti: nel 1933 l’Italia è governata Mussolini e, nello stesso, negli
anni 30, a livello mondiale con un’eccezione, c’è in atto la grande depressione e questo è un
esempio in cui, in un paese non democratico, viene utilizzato il ruolo dello stato per sostenere e
rilanciare l’economia appunto con l’introduzione dell’IRI; c’è un’eccezione perché l’unico paese
che non risente di questa depressione è la Russia perché essa non è più nel circuito capitalista e
non ha più relazioni economiche con questi paesi. Nel 1934, i pacchetti di controllo azionario di
Comit, Credit e Banco di Roma vanno all’IRI, la quale, sorto nel 33 come un istituto transitorio
temporaneo di salvataggio e smobilizzo, nel 37 diventa organo permanente di gestione delle
partecipazioni azionarie dello stato nel settore commerciale, industriale e creditizio fino ai primi
anni 90. A partire dagli anni 30, per quanto attiene il tema della statalizzazione dell’economia,
ovvero, del ruolo dello stato nell’economia, l’Italia è seconda al mondo alla Russia. Gli anni 30
sono anni difficili e i soli comparti industriali in crescita sono la siderurgia, la meccanica e la
gomma e, inoltre, le chiusure doganali all’estero creano danni e problemi agli esportatori italiani
industriali ed agricoli; ci sono anche difficoltà sociali perché la disoccupazione e la diminuzione dei
salari hanno effetti depressivi sulla domanda interna. La Seconda guerra mondiale vede un’Italia
molto meno preparata rispetto alla Prima guerra mondiale perché il complesso militare e
industriale italiano non funziona: mentre l’Italia aveva retto l’urto e aveva rafforzato la propria
economia nella Prima guerra mondiale, qui l’Italia è impreparata e lo si vede sul campo perché i
soldati in Russia, in Albania e in Grecia hanno scarpe di cartone, armi inadeguate e non sono messi
nelle condizioni di operare come si deve.
Per quanto riguarda il nazionalsocialismo tedesco (1933-1945), la sconfitta nella Prima guerra
mondiale aveva avuto delle conseguenze importanti e anche punitive: in quest’epoca abbiamo la
repubblica di Weimar che è una repubblica socialdemocratica governata da socialisti e alleati di
centro-sinistra a partire dal 1919. Allo strapotere del governo e della burocrazia dell’età
guglielmina (periodo precedente che era succeduta all’età bismarckiana), subentra un maggior
ruolo del parlamento e dei partiti politici che, però, sono fortemente osteggiati dalle forze
conservatrici che, invece, sono per politiche dure di ordine e di ristabilimento della dignità
nazionale sconfitta in guerra e che vedono nella concretezza del governo e della burocrazia la vera
via per la Germania. Nel 1920, il centrosinistra perde le elezioni e nel 1922 viene ucciso Rathenau,
industriale illuminato di origine ebraica a favore della partecipazione operaia alla gestione delle
imprese ministro degli Esteri che lavora pacificamente per diminuire il peso delle riparazioni di
guerra ma che è, agli occhi dell’estrema destra, un uomo debole perché la Germania non deve
patteggiare ma deve ottenere con la forza. Nel 1921 erano state addebitate riparazioni per 33
miliardi di dollari con annualità proibitive alla Germania la quale, in preda all’iperinflazione, smise
già di pagare alla fine del 1922; nel 1923, Belgio e Francia invadono la Ruhr per costringere la
Germania a pagare le riparazioni e la Germania deve inviare dei treni di carbone come parziale
pagamento. Nell’aprile del 1923, il debito tedesco viene ristrutturato e dilazionato: l’inflazione
continua e nel febbraio del 24 viene cambiata la moneta garantita da riserve auree fornite dai
vincitori e, in particolare, dagli Stati Uniti ma si raffreddano i prezzi e al nuovo marco si attribuisce
il contenuto aureo prebellico. Gli anni 23-28 sono relativamente più tranquilli sia sul piano politico

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che sul piano economico finanziario anche perchè si consolida un ragionevole compromesso sulle
riparazione e, inoltre, i grandi investimenti americano favoriscono una sensibile ripresa. Il partito
nazionalsocialista hitleriano che, nel 23, aveva tentato il colpo di stato di Monaco, facilmente
represso dalle autorità, si converte alla legalità ma è una conversione strumentale e, inizialmente,
è ancora un partito debole: cambia tutto la crisi del 29 e la grande depressione perché gli effetti
della crisi di Wall Street, con il drastico ritiro degli investimenti americani dal paese, nel causare
fallimenti a catena di banche e imprese, diffuse sfiducia e malcontento nella repubblica. Alle
elezioni del 1930, i nazionalsocialisti vincono e c’è una sorta di guerra civile tra formazioni
paramilitari di destra e di sinistra che accresce il prestigio delle SA (squadre d’assalto) presso gli
elettori conservatori; nel gennaio 1933, il presidente Hindenburg affida a Hitler la formazione di un
governo con il centro destro: Hitler mette subito fuori legge il partito comunista, ottiene
l’investitura popolare attraverso nuove elezioni, scioglie i partiti tranne il suo e centralizza il
sistema politico tedesco. Nel 1934 muore Hindenburg e Hitler cumula alla carica di cancelliere
quella di presidente della repubblica, concentrando ogni potere nelle sue mani (totalitarismo).
Dopo il 31, la situazione comincia a cambiare anche sul piano economico perché inizia una forte
ripresa dell’economia: nel 32 la disoccupazione era al 44% mentre nel 34 siamo al 14% e nel 38 al
meno dell’1%. Come si ottiene questa situazione che, tra l’altro, rafforza il potere del regime? È un
forte intervento statale nell’economia dietro a quello russo per intensità: si combina capitalismo e
pianificazione economica, la quale, però, non influenza la distribuzione del reddito; Hitler lancia un
grande piano di lavori pubblici con immediati effetti sull’economia e sull’occupazione. Dalla fine
del 34, il focus va largamente sul riarmo e sui preparativi per la guerra: abbiamo quindi un
aumento della spesa pubblica mentre c’è una pianificazione economica selettiva in cui prezzi e
salari, il commercio estero imperniato su rapporti bilaterali e su baratti, quando possibile, per
evitare il pagamento in denaro, controllo del cambio e del costo del denaro venivano decisi dal
governo; aumenta il prelievo fiscale per spostare risorse da destinare dai consumi alla produzione
di beni e capitali: tutto ciò senza intaccare il capitalismo. Tra il 29 e il 39, la quota dei consumi
privati sul PIL passa dal 52% al 74% mentre la spesa pubblica militare sul PIL passa dal 3% al 23%: il
governo, di fatto, diventa il più grande consumatore ed investitore in Germania; le relazioni
commerciali ed economiche con l’Europa centrale e i Balcani diventano sempre più importanti e si
offre loro la possibilità di pagare con materie prime e con derrate le importazioni di macchinari e
di utensili tedeschi: questa penetrazione economica apre la strada alla successiva conquista
politica e militare dei paesi partner. Nel 38-39, Austria e Cecoslovacchia vengono annesse al Reich
hitleriano e il primo settembre 1939 la conquista della Polonia avrebbe innescato lo scoppio della
Seconda guerra mondiale. La Seconda guerra mondiale rappresenta un punto di svolta importante
nella storia del 900 perché comporta la sconfitta del nazifascismo, il ridimensionamento del
nazionalismo giapponese e l’emergere/il rafforzarsi di due grandi potenze come gli USA e l’Unione
Sovietica prepara l’avvio di quello che sarà per diversi decenni l’equilibrio internazionale che fa da
sottofondo a decenni di storia. La Seconda guerra mondiale è una guerra senza precedenti per
estensione mondiale, per durata e per capacità distruttiva non solo per l’introduzione dell’arma
atomica ma anche per il normale utilizzo dei bombardamenti e l’aviazione diventa una realtà
fondamentale e di capacità distruttiva per cui il potenziale distruttivo della nuova aviazione è
superiore a prima. Fu una guerra generale con mobilitazione altrettanto generale sia militare che
civile totale: furono convolti civili e militari e, in molti casi, mi seguirono guerre partigiane contro
le truppe tedesche come avvenne in Italia. E’ una guerra che ha avuto i prodromi della Prima
guerra mondiale ma ancora più importanti e con una contrapposizione ideologica di civiltà per cui
si può parlare di una guerra di civiltà: ovviamente c’erano degli interessi economici ma non c’è
dubbio che tra la contrapposizione ideologica tra il totalitarismo nazifascista e le democrazie
occidentali con l’aiuto comunista quale fosse la parte giusta e quale abbia vinto la guerra. Rispetto
alla Prima guerra mondiale, c’è una pianificazione ancora maggiore e un controllo centralizzato

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delle ricorse economiche ancora più marcato: questo, però, non nasce dal nulla ma deriva ed è
facilitato dai decenni precedenti, ovvero, da quello che era accaduto nella Prima guerra mondiale
e dagli anni Trenta quando, per contrastare la grande depressione, i governi erano intervenuti
nelle economie. Dal punto di vista economico, lo sforzo bellico opera in tre principali direzioni:
- Aumentare la produzione e abbiamo visto che gli Stati Uniti recuperano e superano i livelli
produttivi ante crisi proprio grazie al poderoso incremento della produzione;
- Contenere i consumi privati a favore dei consumi pubblici;
- Rinunciare a nuovi investimenti tralasciando il rinnovo delle infrastrutture del capitale
tecnico logorato.
Lo sforzo maggiore è quello statunitense: producono, utilizzano e distribuiscono agli alleati un
terzo di tutti i mezzi utilizzati nella guerra. A causa della guerra, la produzione agricola statunitense
aumenta del 5,5% l’anno mentre quella industriale del 15% e, inoltre, ci sono massicci nuovi
investimenti nelle attività produttive e nell’industria bellica. La capacità produttiva dell’industria
aumenta del 50% rispetto a prima delle guerra mentre tra il 42 e il 45 un quinto della ricchezza
nazionale americana è prestata/affittata, sottoforma di scorta e di materiali, alle potenze alleate e
all’Unione Sovietica. In Gran Bretagna, metà della ricchezza annua è destinata a finanziare la
guerra e, ancora dopo il primo conflitto mondiale, si perdono attività all’estero, ci si indebita, si
logora il capitale tecnico e diminuisce di circa un quinto il consumo dei privati. La Germania fa uno
sforzo enorme: fino agli ultimi mesi di guerra, l‘economia tedesca trae vantaggio dai pesanti tributi
imposti, sotto varie forme, ai territori occupati, vengono fatti lavorare i prigionieri. Per la Russia
l’impegno è enorme e, per certi versi, maggiore di quello americano perché la Russia vive la guerra
sul proprio territorio a differenza degli Stati Uniti: la Seconda guerra mondiale viene definita in
Russia come la grande guerra patriottica. L’invasione tedesca (l’operazione barbarossa) devasta il
paese, il territorio e l’economia russa perde la metà del proprio potenziale industriale entro i primi
anni di guerra: crolla il livello di vita, ci sono intere regioni o città che vivono in condizioni
spaventose; c’è una reazione forte perché lo stato riorganizza l’industria lontano dal fronte, nella
zona degli Urali, dove trasferisce milioni di operai e lavoratori. Nel 1945, la produzione industriale
russa è ancora di circa il 7/8% inferiore rispetto al 39. Si stima che, nel secondo conflitto mondiale,
si siano avuti tra i 37 e i 44 milioni di morti di cui 17 militari: è impressionante la percentuale di
civili che sono morti e questo conferma quanto detto all’inizio perché c’è un potenziale distruttivo
delle armi e ciò impatta a conseguenze spaventosamente importanti sulla popolazione civile. La
Seconda guerra mondiale ha un po’ meno diffuse ma importanti conseguenze territoriali, le quali
toccano due grandi paesi tra cui la Germania che viene divisa in due e cessa di essere la prima
potenza economica del continente e la Russia che, invece, recupera territori e si amplia. La
divisione della Germania in due ha delle conseguenze economiche importanti: la Germania
federale (Germania ovest) resterà una grande potenza europea dal punto di vista economico ma il
suo potenziale economico in quei decenni viene ad essere ridotto. Gli Stati Uniti escono dalla
Seconda guerra mondiale in modo diverso rispetto all’uscita dalla Prima guerra mondiale perché
hanno recuperato appieno il loro potenziale economico e sono il vero leader dell’occidente
democratico e capitalista sia sul piano economico che sul piano ideale e militare perché sono la
prima potenza atomica: è un paese che è consapevole di poter e di dover guidare il mondo libero
rispetto ad altre forme di organizzazione economica e politica. Gli Stati Uniti hanno
consapevolezza della loro leadership sul piano strategico: non è più un paese che pensa di
ritornare ad una sorta di isolazionismo ma è un paese che assume coscientemente la leadership di
una parte del mondo e vuole essere una super potenza. Già verso la fine della Seconda guerra
mondiale abbiamo degli eventi che denotano questa consapevolezza perché, nel luglio del 44, a
Bretton Woods, ci si rende conto che bisogna evitare un ritorno alle condizioni post Prima guerra
mondiale ed evitare che il ritorno alla pace causi disagi, sofferenze, tensioni simili a quelle dei

100
primi anni 20. A Bretton Woods è stato deciso di creare la Banca Internazionale per la costruzione
e lo sviluppo (BIRS) detto anche Banca mondiale per incoraggiare investimenti all’estero a lungo
termine, di creare il Fondo monetario internazionale (FMI) che avrebbe svolto un ruolo
fondamentale per mantenere la stabilità dei cambi fra le valute e per risolvere i problemi collegati
alla bilancia dei pagamenti e di promuovere la liberalizzazione degli scambi internazionali per cui
non più politiche nazionalistiche o protezionistiche per cui nel 47 nascerà il General Agreement on
Tariffs and Trade (GATT) che nel 95 diventerà l’organizzazione mondiale del commercio (WTO).
RICOSTRUZIONE, SVILUPPO E MATURITA’ (1945-1973)
Abbiamo già detto che gli aiuti americani contribuiranno a riavviare le economie europee e le
esportazioni europee per controbilanciare le importazioni di derrate e di materie prime. Il
potenziale distruttivo della Seconda guerra mondiale è stato superiore a qualunque evento bellico
degli anni precedenti: la Seconda guerra mondiale però non sarebbe stata tale senza le rivoluzioni
industriali precedenti perché questa capacità distruttiva è il frutto diretto di una capacità
industriale e tecnologica senza precedenti; la ricostruzione è quindi molto impegnativa che, però,
sarà anche relativamente rapida. L’Europa, alla fine della Seconda guerra mondiale, ha danni
maggiori rispetto a quelli registrati dopo la Prima guerra mondiale in vari campi come quello
mercantile, industriale, agricolo: abbiamo aree in cui si fa fatica a mangiare, c’è scarsità di cibo, ci
sono alcune aree della Germania in cui si torna al baratto, mancano riserve auree, valute, credito
internazionale per cui tutto questo impedisce l’importazione di beni indispensabili; i bilanci sono in
deficit, l’indebitamento interno ed estero è a livelli elevatissimi perché c’è stato uno sforzo
enorme per pagare la guerra, c’è sovrabbondanza di carta moneta rispetto al volume degli scambi
e questo genera pressioni inflazionistiche. Molto diversa è la situazione statunitense per i motivi
già visti: c’era stato un grande aumento della produzione con riassorbimento della disoccupazione
totale. Tra il 44 e il 47, l’UNRRA soccorre l’Europa: l’Europa viene aiutata ma non si è ancora
ripresa perché la situazione è ancora complessa. Qui interviene un momento importante nella
storia del secondo dopo guerra: nel giugno del 47, l’ex generale Marshall pronuncia un discorso
importante in un cui annuncia il piano ERP (european recovery programm) noto come Piano
Marshall, ovvero, un piano sostenuto dai paesi più ricchi per aiutare la ripresa e il miglioramento
delle condizioni socio economiche in alcune aree sofferenti. Il piano Marshall è un’offerta di aiuti
economici ai paesi europei, non solo a quelli occidentali ma anche a quelli centro-orientali ma
questi ultimi rifiutano questo aiuto e questi sono i prodromi della Guerra Fredda; contrariamente a
quanto avvenuto con le paci post grande guerra, questa volta gli Stati Uniti aiutano in modo
importante anche gli sconfitti: questo è importante perché capiscono è un bene per tutti. Ci sono
motivazioni economiche e strategiche di questo gesto americano (parliamo di altruismo
interessato): le motivazioni economiche riguardano il fatto che si voleva evitare a tutti i costi che la
mancanza di riserve valutarie e la diffusa sofferenza economica nei paesi europei, che erano i
naturali destinatari dei prodotti americani, portasse questi ultimi all’autarchia e al protezionismo;
la motivazione strategia riguarda il fatto che, proprio dopo aver sconfitto il nazifascismo, emerge la
contrapposizione tra i due blocchi (comunismo contro capitalismo liberaldemocratico) ed ecco che
aiutare la ripresa economica e sociale nell’Europa occidentale diventa un momento importante
perché, prima di tutto, in paesi dove le condizioni socio-economiche sono migliori, è più
improbabile che gli ideali comunisti facciano breccia e poi perché aiuti così significativi creano dei
legami e dei debiti, anche dal punto di vista politico, che consolidano nel cuore dell’Europa il
fronte occidentale. Tra l’aprile del 48 e la metà del 53, il governo americano traferisce in Europa
15,7 miliardi dollari di cui una dozzina a fondo perduto (gratis) ripartiti proporzionalmente al
volume del commercio estero dei diversi paesi: la prima è la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia,
l’Olanda, la Germania, la Grecia, l’Austria. Non è solo l’entità delle cifre e degli aiuti ma anche le
modalità della loro gestione perché il piano Marshall prevede la cooperazione tra i destinatari

101
degli aiuti riuniti nell’OECE: gli Stati Uniti promuovono un processo di collaborazione a livello
europeo. Questo contribuisce a rilanciare l’economia europea: la ripresa europea però non è solo
il risultato degli aiuti americani perché c’è stata anche una fortissima reazione positiva, una forte
resilienza e una forte capacità di agire alle difficoltà; gli Stati Uniti, quindi, contribuiscono a
riavviare le economie europee a promuovere l'esportazione in modo da controbilanciare le
importazioni di derrate agricole di materie prime. Per quanto riguarda le politiche di sostegno alla
ripresa, le misure messe in campo dai governi europei dalla fine degli anni 40 stimolano
un’energica spinta al rilancio delle rispettive economie attraverso un’inedita combinazione di
pubblico e privato definita come “economia mista”. Abbiamo visto i fallimenti del ripristino
dell'economia della belle époque tardo otto e inizio 900 nel periodo tra le due guerre, la necessità
di agire diversamente, il New Deal, i socialdemocratici in Svezia, le politiche fortemente
interventiste e dirigiste della Germania: c’è bisogno di qualcosa di nuovo e un po’ di questi esempi
vengono messi a frutto come base teorica ed economica che starà a fondamento della nuova
economia mista che caratterizzerà i 25 anni d’oro e questa teoria economica di guida è la teoria di
Keynes. L’idea di fondo è che, anche sulla base dell’esperienza dei primi anni Trenta, un’economia
in preda allo squilibrio profondo non è in grado di autocorreggersi per riportarsi in equilibrio: pur
rimanendo all’interno del capitalismo, c’è bisogno che il governo svolga una funzione più proattiva,
deve stimolare l’impiego di fattori disponibili ma inutilizzati (il risparmio per gli investimenti e la
manodopera inutilizzata). Economia mista vuol dire un’economia pienamente capitalista in cui,
però, i ruoli dell’attore pubblico e dell’attore privato sono più fortemente cooperativi: il ruolo dello
stato è un ruolo più interventista (non è dirigismo) e crea delle condizioni favorevoli alle imprese.
Si sarebbero così evitate crisi economiche catastrofiche operando attraverso tre leve:
- La politica monetaria: aumentare o diminuire l’offerta di moneta e di credito. In
un’economia che è in difficoltà/in recessione, si aumenta l’offerta di credito mentre in
un’economia che tende a surriscaldarsi si alza il costo del denaro.
- La spesa pubblica, attraverso deficit di bilancio, per distribuire reddito e creare domanda
aggiuntiva;
- Diminuzione/aumento della pressione fiscale per sostenere il risparmio e la domanda.
Moneta, spesa pubblica e fisco sono tre leve fondamentali. Le linee generali di politica economica
perseguite dai diversi governi sono riconducibili ai seguenti principi:
- Concentrare gli investimenti nelle industrie di base, così da ottenere incrementi di
produttività, di volumi prodotti e di esportazioni.
- Favorire il risparmio e agevolare il credito per gli investimenti
- Investire risorse pubbliche
- Controllare l’inflazione attraverso la leva fiscale sulla domanda tassando i profitti non
reinvestiti e contenendo i salari
- Promuovere le esportazioni e contenere le importazioni perché, fin al 51, i paesi europei
mancavano di riserve di dollari (della valuta di riferimento dei pagamenti internazionali) e
dell’oro per aumentare il commercio internazionale.
La ricostruzione in questo modo è più rapida nonostante il punto di partenza fosse
drammaticamente impegnativo rispetto alla Prima guerra mondiale. Ci sono anche degli sviluppi
politico, economico, sociali riformisti che sono importanti che caratterizzano un po’ tutto l’Europa
occidentale:
- Il suffragio universale, il sistema elettorale proporzionale, regimi assembleari reputati
garanti dei principi democratici, governi in posizione di soggezione rispetto alle assemblee
parlamentari: il peso del parlamento (potere legislativo) è superiore al potere esecutivo.

102
- La realizzazione di riforme economiche strutturali come la nazionalizzazione di grande
industrie e di servizi
- La ricostituzione dei sindacati, programmi di protezione e di copertura dei rischi sociali dei
lavoratori, l’introduzione di assegni familiari e dei meccanismi di scala mobile.
Ci sono paesi che sono più avanti sotto questo profilo come la Gran Bretagna dove il rapporto
Beveridge sull’architettura del 44 è la base per la creazione del Welfare State che viene messo in
atto ed implementato dal governo di Clement Attlee.
Si va verso un’economia mista: la ricostruzione favorisce un generale sviluppo economico dei primi
anni 50 almeno fino alla metà degli anni 60 e anche fino ai primi degli anni 70; gli aiuti americani,
la crescente liberalizzazione degli scambi fra partner europei, gli investimenti migliorativi delle
tecniche produttive e l’azione dei governi spiegano come la ricostruzione abbia potuto favorire
l’avvento di questo processo di generale sviluppo economico. L’economia mista di ispirazione
keynesiana ha essenzialmente cinque obiettivi:
- Il pieno impiego (nessun disoccupato)
- L’utilizzo dell’intera capacità produttiva: impianti che possano lavorare a pieno regime
- La stabilità dei prezzi: un costante potere d’acquisto per rendita, interesse, profitto e
salario
- L’aumento dei salari legato a miglioramento della produttività del lavoro: gli incrementi
salariali devono essere legati agli incrementi di produttività del lavoro. In poche parole, il
compenso del fattore lavoro deve essere proporzionale alla sua efficienza: tu lavori meglio
e tu avrai di più.
- L’equilibrio della bilancia dei pagamenti
È interessante notare come le politiche anticicliche viste a partire dalla Svezia restano importanti
ma a questo obiettivo di attenuare le oscillazioni cicliche congiunturali (espansione e recessione)
subentra o si affianca un obiettivo ancora più ambizioso, ovvero, la programmazione della crescita
nel lungo periodo che non è la pianificazione comunista ma è una programmazione economica che
cerca di programmare la crescita economica sul lungo periodo mobilitando il più possibile
competenze e risorse. Le politiche anticicliche tendono ad attenuare gli effetti negativi della
congiuntura economica: quando l’economia sta tirando bisogna evitare il surriscaldamento
dell’economia o l’inflazione (politiche che non facciano esagerare) mentre quando c’è un ristagno
o recessione dell’economia, bisogna intervenire in senso opposto cercando di dare benzina
all’economia quindi credito più agevole, politiche sulla spesa pubblica per lavori pubblici e
agevolazioni fiscali. L’accoglimento della teoria e della prassi dello sviluppo, favorito dal governo, è
un elemento importante perché pone la questione del ruolo statale nel favorire una distribuzione
perequata del benessere su tutta la popolazione: in particolare, cresce il ruolo del governo nel
trasferimento di ricchezza drenata attraverso lo strumento fiscale; furono approvate leggi sui salari
minimi, sull’edilizia pubblica, sull’istruzione obbligatoria, sulla sanità e sulla prevenzione sociale.
Questa economia mista è inaugurata con la nazionalizzazione di imprese strategiche: settore
elettrico, gas, carbone, assicurazioni, banche ma anche auto, imprese o linee aeree, trasporti,
acciaio.
Sottolineiamo alcuni aspetti generali dei famosi venticinque anni d’oro, dal 49 fino alla crisi
petrolifera del 73, in cui l’economia europea e, più in generale, quella mondiale sperimenta una
crescita e un ottimismo senza precedenti. La liberalizzazione degli scambi internazionali è decisiva
perché l’ammontare di derrate agricole, di materie prime metalliche ed energetiche, di
semilavorati e di prodotti finiti scambiati fra paesi continua ad aumentare senza interruzioni. La
crescente produzione di merci e servizi destinata sia alla domanda interna che estera è il risultato
di grandi investimenti di capitale tecnologico e dell’aumento della manodopera nel settore

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secondario e nel terziario, dovuto tanto alla crescita della popolazione quanto allo spostamento da
settori a bassa produttività come l’agricoltura a settori ad alta produttività. L’agricoltura
statunitense e britannica che, all’epoca, impiegavano circa il 9% e il 4,5% degli occupati nel
primario, avevano già completato la trasformazione strutturale nella prima metà del 900 mentre in
paesi come l’Italia, la Francia, la Germania, il Giappone, a metà degli anni 50, le percentuali di
popolazione agraria erano ancora tra il 16% in Germania e tra il 35% in Italia e in Giappone.
Inoltre, i governi avviarono processi di meccanizzazione dell’agricoltura e di aggiornamento
agronomico delle tecniche produttive: in Europa e in Giappone ci sono importanti progressi nel
settore primario e per alcuni anni l’incremento di produttività agricola è più rapido di quello della
produttività industriale ma ciò non contraddice quanto detto prima perché i livelli di partenza
erano più bassi ma c’è comunque un incremento importante in questi paesi. Tra il 50 e il 70, in
paesi come quelli dell’Europa occidentale e nel Giappone, una grande percentuale di ricchezza
viene accantonata per essere reinvestita in modo produttivo anziché essere subito consumata:
questo consente gli incrementi di produttività. Gli investimenti in tecnologia stimolano la
produttività del lavoro e la crescita economica complessiva; aumentano quindi molto gli
investimenti, i risparmi ma aumenta anche il consumo e aumenta notevolmente la produzione di
beni di consumo durevole come l’automobile, gli elettrodomestici, le bici. In Europa occidentale si
compie quel processo di seconda rivoluzione industriale che già era stato perfezionato negli Stati
Uniti e in parte in Gran Bretagna che, invece, qui era ancora in una fase iniziale. Mentre il Europa i
in Giappone il settore economico più dinamico iniziava ad essere il secondario, negli Stati Uniti,
dove quel mercato si era già sviluppato all’inizio del 900, il settore protagonista inizia ad essere il
terziario; inoltre, negli Stati Uniti, in quegli anni, le leggi antitrust e la supervalutazione del dollaro
fino al 1971, spingono gli investimenti americani verso l’Europa e il Giappone e questo ha dei
vantaggi per i paesi che accolgono questi investimenti.
Dobbiamo fare una menzione per l’Italia paese industriale post Seconda guerra mondiale: l’Italia
45-47 è un paese in difficoltà perché è un paese in crisi economica, politica e sociale. Ancora il 50%
della popolazione economicamente attiva è in agricoltura, l’inflazione è fuori controllo, c‘è un
deficit del bilancio dello stato molto marcato, manca capitale fisso e capitale circolante, le città
sono bombardate, mancano le infrastrutture. Dal 47 inizia il rilancio: credito agevolato,
agevolazioni fiscale e la svalutazione della lira rispetto al dollaro favoriscono le esportazioni e
questo perché ci sono agevolazioni fiscali per chi esporta e, inoltre, una moneta forte significa che
se degli stranieri devono acquistare i beni che io produco li pagano di più perché il cambio per loro
non è favorevole per cui una moneta forte (che ha una valutazione elevata) non favorisce le
esportazioni e viceversa. Inoltre, arrivano anche gli aiuti del piano Marshall che favoriscono
l’acquisto di macchine utensili, di carbone, di petrolio, di cereali ai quali si aggiungono anche
spontanee iniziative nazionali di aggiornamento tecnico e di riorganizzazione di grandi industrie
siderurgiche, metalmeccaniche, elettriche, della gomma sia pubbliche che private (è un paese
dinamico che vuole riprendersi e che è attivo). Nel 49 il PIL supera i livelli precedenti la guerra, la
lira è stabilizzata e il bilancio è in pareggio: aumenta la domanda e questo stimola ulteriormente
investimenti tecnologici. Tra il 52 e il 63 il triangolo industriale Milano-Torino-Genova vede un
primo solido ciclo di sviluppo economico ed industriale italiano tanto è vero che si parla di
“miracolo economico italiano”. Tra il 52 e il 58 sono soprattutto fattori interni a stimolare questa
crescita mentre dal 58 in avanti sarà anche e soprattutto il MEC (Mercato Comune Europeo) a
stimolare ed offrire nuovi sbocci e quindi grandi successi alle esportazioni italiane. Non tutti i
settori hanno lo stesso sviluppo e godono delle stesse opportunità perché ci sono settori che
restano arretrati come l’edilizia, l’agricoltura al centro sud, il commercio all’ingrosso e al minuto. Il
reddito medio pro-capite, indicatore di benessere, in Italia nei primi anni 60 è in crescita ma è
ancora poco oltre la metà di quello medio dell’Europa occidentale e nel 63 viene sfiorato il pieno
impiego. Durante il ciclo economico 52-63 la politica economica dei governi italiani di centro e poi

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di centro-sinistra, favorisce più direttamente e più intensamente alcuni settori produttivi come la
siderurgia, l’industria metalmeccanica, l’industria petrolifera, l’energia elettrica, il metano. L’IRI è
protagonista ed è ancora un fattore dinamico dell’economia ma in luce ci sono quei problemi che
porteranno alla degenerazione clientelare e al progressivo appesantimento della finanza pubblica
legata al fatto che l’IRI non è solo un competitor sul mercato ma si deve fare carico di finalità
sociali e di sviluppo economico nazionale, ovvero, intervenire in aree che non avessero un livello di
sviluppo economico paragonabile a quello delle aree più avanzate. Ci sono fenomeni importanti
come l’emigrazione dal sud verso l’estero e verso il nord Italia e dalle aree periferiche del nord
verso le grandi città industriali. Importanti, quando si parla di migranti, sono anche le rimesse e
questo favorisce una crescita del reddito pro-capite al sud perché le famiglie dispongono di più
risorse in parte prodotte al nord e rimesse al sud. Nel 57 viene istituito il ministero delle
partecipazioni statali con il compito di coordinare l’azione delle maggiori imprese pubbliche, ci
sono politiche a favore del Mezzogiorno e nel 62 abbiamo la nazionalizzazione delle imprese tra
cui l’ENEL; a metà degli anni 70 il sistema delle imprese a partecipazione statale occupa circa
700.000 persone e produce una buona parte della ricchezza industriale italiana. Tuttavia, stanno,
in questi anni, crescendo le pressioni politiche e l’invadenza dei politici che si affiancano ai
manager: l’IRI diventa un pachiderma ipertrofico e troppo clientelare con perdite colossali che
vengono addossate ai contribuenti italiani e questo significa indebitamento per sostenere imprese.
Dopo la crisi congiunturale del 63, riparte lo sviluppo per un altro decennio circa e in questa
ulteriore fase di sviluppo non è più solo il triangolo industriale ma anche la cosiddetta Terza Italia
con l’Emilia, Toscana, Triveneto, Marche dove non sono tante le grandi industrie le protagoniste
ma lo sono i distretti industriali. Nel 69 c’è il cosiddetto “autunno caldo” in cui le forze sindacali
sollevano, in modo più forte e convinto, il tema dell’adeguamento dei servizi sociali in un paese
ormai evoluto come era l’Italia ma ancora contraddistinto da relazioni sociali tipiche di una società
preindustriale: nel 69 furono quindi aumentate le pensioni, nel 70 venne varato lo statuto dei
lavoratori che tutelava maggiormente la posizione dei lavoratori in fabbrica e nel mondo del
lavoro e tra il 68 e il 72 vennero varate una serie di misure dai governi e dai parlamenti per
accrescere e migliorare i trattamenti economici per i disoccupati e per le lavoratrici in maternità;
nel 72 venne varato una riforma importante della politica della casa e nel 78 viene istituito il
servizio sanitario nazionale. L’agricoltura è il settore che, complessivamente, è più penalizzato
dalla politica economica dello stato italiano in questi decenni: il sostegno ai prezzi agricoli
penalizza i consumatori senza promuovere trasformazioni strutturali apprezzabili nella nostra
agricoltura che, avendo la superficie media per podere più bassa d’Europa, non può avvalersi delle
economie di scala. Questa fase complessiva di crescita, nonostante alcune battute d’arresto e con
alcune crescenti tensioni sociali e politiche, si chiude con la crisi petrolifera. Vediamo poi come
prosegue questa vicenda italiana tra fine 900 e qualcosa riguardo alla nostra situazione: la
ricchezza prodotta in Italia cresce significativamente negli anni 60 e nei primi anni 70 con dei ritmi
elevate tipici di un’economia in rapido sviluppo; dalla metà degli anni 70 i ritmi di crescita
diminuiscono e l’economia italiana cresce più lentamente ma non è solo una questione di
cambiamenti quantitativi (statistiche e dati percentuali) ma sono anche i mutamenti strutturali
qualitativi a mutare: ad esempio, ci sono profonde trasformazioni sul piano strutturale dove il
contributo dei settori economici e la formazione del PIL mutano. In questi anni cresce anche il
ruolo della pubblica amministrazione dal punto di vista dimensionale e funzionale: abbiamo
elencato poco fa tutta una serie di sviluppo legati al Welfare che richiedono un’amministrazione
più attiva e più efficiente. Tra il 77 e l’83 c’è una crisi pesante che interessa larga parte della
grande industria italiana: alcune aziende in crisi vengono tenute in vita dallo stato (questo
accrescerà il deficit e il debito pubblico) e alcuni grandi imprese varano una politica di
assorbimento e di fusioni che ne fa crescere le dimensioni e anche la loro quota di mercato
interno. A fine anni 80, lo stato controlla una parte significativa del sistema industriale italiano tra

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cui l’elettricità, gas, acqua, miniere, trasporti, comunicazioni, settore metallurgico e c’è una
significativa concentrazione di attività produttive: per la prima volta, quasi un secolo dopo quanto
era successo negli Stati Uniti, si pone in modo urgente la questione di regolamentare l’offerta e di
affrontare il tema dell’antitrust e, nel 1990, infatti, viene varata una prima organica legge antitrust.
Oltre ai salvataggi di imprese, ci sono state misure come le pensioni baby, ovvero, mandare in
pensione dipendenti pubblici in età giovane e dopo poco tempo di lavoro e questo è deteriore sul
piano finanziario: negli anni 80 esplode il debito pubblico come conseguenza di queste misure e
anche perché nazionalizzare le imprese aveva un costo. Possiamo dire che il Welfare State costa e
questo è un problema di tutti perché l’Europa ha una determinata quota di popolazione mondiale
per una determinata quota di produzione del PIL mondiale ma la quota di spesa per il Welfare è
più elevata di queste quote: questo significa che l’Europa occidentale si deve porre un problema di
sostenibilità di questo Welfare. Negli anni 80 quindi esplode il debito pubblico, l’inflazione tocca
anche il 15% tra il 70 e l’85 e questo fa aumentare la spesa pubblica per interessi perché il debito
pubblico richiede il servizio del debito pubblico, ovvero, il pagamento degli interessi: sono
situazioni che non sono particolarmente favorevoli. Negli anni 90, sotto la pressione di questi
eventi e la necessità di tamponare questa situazione, abbiamo momenti importanti come
l’ingresso nell’euro e, in riferimento alla nazionalizzazione delle imprese, vengono varate delle
cospicue privatizzazioni la cui motivazione sarà duplice: rispondere agli stimoli europei e ad una
maggiore competitività e diminuire l’esposizione e ridurre il debito pubblico; infatti, tra fine secolo
e primi anni di questo millennio, una serie di governo tecnici di centro sinistra riescono a riportare
sotto controllo il debito pubblico anche se la depressione l’ha fatto di nuovo cadere. I dati sulla
performance italiana negli ultimi vent’anni sono preoccupanti perché, se paragonati al contesto
europeo, sono deludenti: tutto questo dovrebbe richiamare l’attenzione sul fatto che non è
possibile imputare a fattori meramente contingenti le nostre carenze economiche ma ci sono altri
aspetti come una pubblica amministrazione inadeguata, scarsità o carenza di investimenti, capitale
umano non abbastanza adeguato, dimensioni delle imprese; si tratta di un insieme di fattori che
vanno al di là delle singole scelte di un governo o dell’altro e che toccano il sistema nella sua
complessità.
Cosa succede dopo il 73 a livello europeo e mondiale? Lo shock petrolifero è un punto di
conclusione della lunga fase di crescita ma è anche un punto di partenza per alcune osservazioni:
in realtà, i prezzi del petroliero greggio erano già saliti significativamente da due/tre anni e questo
aveva cominciato ad alimentare l’inflazione. Lo shock petrolifero, legato alle vicende belliche e
strategiche del medio-oriente della guerra arabo-israeliana, comporta l’embargo e una serie di
scelte per cui i prezzi aumentano ulteriormente: non bisogna vedere questo aspetto della guerra e
dell’embargo come un mutamento improvviso perché i prezzi erano già saliti e già da qualche
tempo i paesi produttori e l’OPEC stavano conducendo delle politiche per riprendere in mano il
controllo della loro ricchezza di petrolio ridimensionando lo strapotere delle sette sorelle. Questo
serve per dire che quello che succede nel 73 non è un fulmine ma è un rafforzamento di quanto
era già in atto. C’è una febbre inflazionistica senza precedenti in periodi di pace che si collega
anche ad una fase di difficoltà economica: questa fase di inflazioni coincide con una diminuzione
della domanda aggregata e della produzione tanto è vero che si parla di stagflazione, ovvero, la
fusione tra stagnazione economica e inflazione per cui tratta di un fenomeno senza precedenti che
non si è mai visto. Questa febbre inflazionistica contagia tutto il mondo e dura una decina di anni
fino all’84: dall’82 il prezzo del petrolio comincia a rallentare e anche l’inflazione rallenta.
L’inflazione ha una serie di conseguenze importanti (ha dei contraccolpi):
- Deprime il valore delle monete misurato in dollari, la valuta di riferimento per i pagamenti
internazionali a sua volta ancorata all’oro. Il 15 agosto del 71, il presidente americano

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Nixon sospende la convertibilità del dollaro in oro ed è la fine di una storia millenaria e
l’oro diventa una merca qualsiasi, per quanto rara e pregiata.
- I valori delle singole monete fluttuano liberamente secondo le condizioni del mercato
(gioco domanda/offerta delle valute preferite per fare e ricevere pagamenti internazionali),
ma il dollaro continua a essere la moneta di riferimento per le altre monete sul mercato
internazionale
- Un altro effetto dirompente riguarda i bilanci statali: il rallentamento della crescita
economica (minor gettito delle imposte) e l'aumento della spesa pubblica (per effetto della
crescita dei prezzi salari) causano in tutti i bilanci statali deficit annuali più o meno pesanti
perché, appunto, diminuiscono le entrate e crescono le uscite. Il caso peggiore, da quanto
punto di vista, è il caso italiano in cui il deficit diventa marcato: se questa situazione si
protrae, il deficit si trasforma in debito pubblico. Il deficit è il disavanzo e, accumulando
disavanzo, devo indebitarmi.
- Sul mercato dei capitali, la concorrenza alla imprese da parte dei governi, bisognosi di
risorse per finanziare i loro deficit di bilancio, rende molto più oneroso il costo del denaro.
- La crescita del debito pubblico e, insieme, dei tassi di interesse corrisposti dagli stati
aggrava ulteriormente i disavanzi perché il servizio del debito pubblico cresce.
- In quel decennio, la disoccupazione tende ad aumentare ininterrottamente e in molti paesi,
dopo l’83, la disoccupazione, anche quando l’economia riparte, non cala in modo
proporzionale.
Come si risponde al deficit strutturale? Una delle strade è quella di privatizzare industrie e poi
servizi pubblici e questo accade in molti paesi come Gran Bretagna, Spagna, Italia: mentre,
mediamente, le politiche di privatizzazione sono intense e precoci nei paesi che hanno dei governi
di centro destra o di destra, in Italia c’è un’eccezione perché le grandi privatizzazioni degli anni 90
avvengono sotto governi tecnici appoggiati in larga misura da partiti di centro sinistra e questo
perché, da un lato, c'è una certa responsabilità nel rendersi conto delle difficoltà del paese da
parte di alcune forze del centro sinistra e, nello stesso tempo, ci sono dei vincoli sia finanziari sia di
carattere europeo che sono pressoché ineludibili. La privatizzazione delle industrie può avvenire
per diversi motivi in generale e possiamo avere delle ragioni ideologiche e motivi finanziari come
in Italia perché lo stato vendendo imprese che prima deteneva (privatizzando) incassa del denaro
senza avere degli oneri di mantenimento di queste imprese. Negli anni 80, nel mondo delle
imprese private ci sono moltissime fusioni e acquisizioni anche tra imprese di paesi diversi e la
rilocalizzazione delle attività manifatturiere anche al di fuori dei paesi più sviluppati. Ci sono diversi
fenomeni in tempi più o meno lunghi come, ad esempio, il fatto che a partire dalla metà degli anni
60, l'Europa e gli Stati Uniti cominciano a perdere sul piano delle industrie tessili avendo perduto
metà degli addetti che contavano trent’anni prima e, alla fine degli anni 60, comincia un processo
graduale simile anche per la siderurgia elettronica di prima generazione con spostamenti da
regioni di antica industrializzazione a paesi di più recente sviluppo come Giappone, Corea del Sud,
India e Spagna. È una tendenza generale che riguarda tutti i settori ma è un regresso che riguarda
in particolare i settori a basso relativamente basso contenuto tecnologico. All'origine delle
localizzazione industriali agiscono tre fattori:
- Differenti livelli salariali, collegati a ben diversi livelli di vita: certi salari bassi non sono
proponibili nei paesi più avanzati e sono, invece, proponibili e quasi ambiti dai lavoratori di
paesi molto più poveri in cui il costo della vista è inferiore
- Disponibilità o meno di manodopera addestrata
- Abbattimento delle dogane su prodotti industriali esteri, con dimezzamento delle tariffe tra
i primi anni 50 ai primi anni 70.

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Gli shock petroliferi degli anni 70 (oltre allo shock petrolifero del 73 legato alla guerra arabo-
israeliana, abbiamo lo shock petrolifero a fine anni 70 in Iran, paese islamico, in cui c’è la
rivoluzione degli ayatollah che sovverte il potere dello shah, amico dell’occidente, e questo porta
ad una situazione di shock) inducono i paesi sviluppati occidentali ad incrementare le loro
esportazioni per tentare di controbilanciare, almeno in parte, con entrate valutarie, il maggior
esborso/la maggior spesa per l’acquisizione del petrolio. Gli Stati Uniti sono il paese che
maggiormente ha accresciuto la loro propria quota di esportazione e, in quegli anni 80/90, quasi il
40% del PIL mondiale è esportato da Stati Uniti, UE e Giappone. La globalizzazione, inizialmente,
interessa soprattutto una cerchia relativamente ristretta dei paesi evoluti in cui vive una
percentuale relativamente ristretta, circa il 20%, della popolazione mondiale, la quale detiene
complessivamente una quota di ricchezza significativa. Importante è il tema degli investimenti
diretti esteri: tutto questo aumenta l’interdipendenza tra i paesi evoluti. Come vedremo, nella
globalizzazione interverrà il ruolo fondamentale di paesi come la Cina, l’india, le quattro tigri
asiatiche. I miglioramenti nelle comunicazioni e nei trasporti accentueranno e faciliteranno il trend
alla delocalizzazione delle strutture produttive e all’incremento delle relazioni economiche
internazionali. Protagoniste ancora una volta e più ancora degli investimenti esteri volti alla
delocalizzazione sono le multinazionali: tra il 75 e il 92, i loro addetti nel mondo passano da 40 a
73 milioni e in quel periodo le multinazionali svolgono circa 2/3 del commercio mondiale che
consiste in trasferimenti da una filiale all’altra. Questo per dire che le multinazionali sono potenti e
portano anche ricchezza, lavoro, competenze in paesi dove queste realtà non sarebbe state tali.
L’UNIONE EUROPEA TRA PASSATO E FUTURO
La creazione dell’Unione europea, prima dell’avvio del processo di unificazione, ha cambiato la
storia dell’Europa. Cominciamo dalle origini dell’Unione Europa tra il 1948 e 1972: verso la fine
della guerra, molte forze democratiche europee come intellettuali, politici, figure imprenditoriali
capiscono che bisogna superare quella contrapposizione tra i due nazionalismi di Francia e
Germania che, tra il 1870 e il 1945, hanno insanguinato il vecchio continente per ben tre volte;
inoltre, in questa fase Comincia una guerra atipica, ovvero, la guerra fredda. Le condizioni
delineatasi dalla fine delle guerra, spingono i paesi europei verso l’integrazione sotto l’incentivo
del piano Marshall: non umiliare la Germania, creare un fronte di paesi democratici stabili
politicamente e ricchi dal punto di vista economico per prevenire il contagio comunista
nell’Europa occidentale. Questo è il quadro di riferimento generale in cui abbiamo la necessità di
porre fine al bagno di sangue ripetuto in Europa (necessità di un approccio cooperativo anziché di
rivendicazione e di punizione) e un contesto internazionale che vede, da un lato, forze capitaliste e
liberaldemocratiche e, dall’altro, forze comuniste basate su un sistema non democratico. Dopo 70
anni di guerra, a partire dal 1945 questo non è più successo per cui l'Unione Europea è un
fenomeno che comunque ha garantito pace e prosperità con tutte le sue imperfezioni. Nel 48
viene varata l'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OCSE) per coadiuvare la
gestione e cooperare con il piano Marshall promuovendo la liberalizzazione dei commerci
attraverso l'eliminazione di tre ostacoli: l’inconvertibilità delle monete, le restrizioni quantitative
alle importazioni e i pesanti dazi all'entrata. Nel 49 nasce la NATO stipulata a Washington che
assicura un ombrello militare anti URSS ai paesi dell’Europa occidentale mentre nel 50 nasce
l'Unione Europea dei Pagamenti (UEP) che permette di semplificare le relazioni monetarie fra
paesi aderenti, utilizzando come valuta di riserva l'oro e i dollari dispensati dal piano di aiuti; in tal
modo era assicurata la piena convertibilità delle valute e facilitata la ripresa di scambi multilaterali.
Nello stesso anno la Francia, povera di carbone, propone di mettere in comune la grande riserva di
minerali tedesco a prezzi concordati per due motivi: disporre della materia prima energetica
basilare per la produzione di acciaio e controllare quei settori siderurgici e meccanici che, a far
tempo dalla seconda rivoluzione industriale, in Germania erano stati protagonisti delle politiche di

108
potenza ed armamento. Le 52 viene istituita la CECA, ovvero, la Comunità Europea del Carbone e
dell'Acciaio che elimina i dazi doganali e decide i prezzi e le quote di produzione: è un primo
passaggio che porterà ad un forte incremento di produzione nei vent'anni successivi. Per la prima
volta, dopo circa un secolo, paesi che si erano brutalmente scontrati, che avevano registrato
milioni di morti e la cui produzione era sterminata, cercavano, in un contesto nuovo, di mettere a
frutto un approccio nuovo: basta guerra ma collaboriamo per la pace in primo luogo e per la
prosperità in secondo luogo. Inoltre, in Europa, tra il 50 e il 56, si era formato il Benelux ovvero
un'unione doganale tra Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo che aveva eliminato ogni dazio fra i tre
paesi e questi tre paesi erano stati con altri tre paesi, Francia, Italia e Germania, i fondatori della
CECA. Nel 55 si studia con maggiore attenzione la possibilità di approdare a qualcosa di più della
CECA, ovvero, ad un'unione economica più completa e nel 57 i sei paesi che avevano fondato la
CECA stipulano a Roma il trattato EURATOM per coordinare il nascente settore strategico
dell’energia nucleare e, soprattutto, per la CEE (Comunità Economica Europea) o MEC (Mercato
Comune Europeo) che avrebbe abolito i dazi fra i sei paesi e favorito, entro 15 anni, la libera
circolazione dei prodotti industriali agricoli, dei servizi, delle persone e del capitali difesi da una
comune tariffe esterna. Non è ancora l’EU perché arriva fine secolo ma sono gli esordi di questo
approccio rappresentati dal mercato comune europeo che è stato ideato dal francese Jean
Monnet. Parallelamente a provvedimenti volti ad eliminare restrizioni e ostacoli al libero
commercio, si prevedono interventi miranti a superare forti squilibri territoriali, settoriali, sociali
fra le regioni dei sei paesi. Le istituzione ideate per procedere verso l'integrazione sono la Banca
Europea degli Investimenti (BEI) che avrebbe fatto credito alle aree meno sviluppate e alle imprese
da ammodernare e il Fondo sociale che avrebbe contribuito alle spese per la formazione e
riqualificazione professionale sopportate da ogni stato membro. Per sostenere i redditi del settore
primario, garantendo prezzi remunerativi, e per migliorare la produttività dell'impresa agricola è
stato creato un Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia Agricola (FEOGA). Tra 57 e il 68 il
processo di integrazione della CEE procede soprattutto eliminando gli ostacoli al libero commercio:
questo è parte di un processo più ampio di liberalizzazione delle relazioni economiche
internazionali che è fondamentale per assicurare pace e prosperità e che è l'opposto di quello che
era accaduto negli anni del primo dopoguerra. Nel 68, con un anno e mezzo di anticipo rispetto al
termine inizialmente previsto, funziona in modo soddisfacente un mercato comune dei prodotti
industriali agricoli di quasi 200 milioni di consumatori; la tariffa doganale comune decisa verso
l'esterno, già in partenza liberoscambista, viene ulteriormente attenuata. Nel 73 c'è un evento
importante, ovvero, il primo allargamento: da sei diventano novi e i primi tre paesi ad entrare
sono La Gran Bretagna, la Danimarca e l’Irlanda. Gli allargamenti hanno diverse implicazioni
perché cambiano la carta geografica (interessi, timori, amicizie), ci sono diversi livelli socio-
economici (reddito medio, dimensioni del PIL), ci sono diversi tradizioni culturali (lingua, cultura).
Per quanto riguarda la politica di bilancio, dobbiamo tracciare alcuni punti: il volume del bilancio
comunitario è relativamente modesto perché ammonta a meno di 1,5% della somma totale del PIL
dei paesi membri: questo è dovuto alla competenza esclusiva nazionale sui maggiori capitoli della
spesa pubblica e all’impossibilità di emettere i titoli del debito pubblico. Dopo qualche inutile
tentativo di sostituire i contributi finanziari dei singoli stati con risorse proprie, nel 1970 vengono
approvate disposizioni che cambiarono la logica di funzionamento del bilancio e i contributi
nazionali fissi vengono sostituiti da entrate proprie, il cui tetto è fissato dagli Stati membri:
- Dazi doganali
- Prelievi variabili sulle importazioni di prodotti agricoli
- Quota dell'imposta sul valore aggiunto (IVA)
Anche queste risorse, però, si rivelano insufficienti per fronteggiare i molti e crescenti bisogni della
comunità per cui c’è bisogno di aumentare le contribuzioni: la Gran Bretagna, tuttavia, si rifiuta, si

109
oppone subito e chiede di attenuare il suo contributo (la Gran Bretagna è entrata nella comunità
europea essenzialmente per trarre benefici della liberalizzazione commerciale, economica e
finanziaria senza un vero desiderio di partecipare ad una costruzione federale). Nell’88 c’è una
riforma radicale importante del bilancio che, tuttavia, rimane sempre di dimensione ridotte: viene
decisa una radicale riforma del bilancio a partire da una quarta risorsa identificata in un contributo
di ogni paese proporzionale al PIL e questa è una misura che mette i 12 paesi su un piano di reale
parità.
Concludiamo con le tappe dell’ampliamento che sono importanti per capire come è cambiata,
sotto diversi punti di vista (dimensioni geografiche, popolazioni, reddito, lingua, cultura, religione),
l’Unione Europea. Negli anni 80 entrano a far parte della comunità i tre paesi mediterranei
relativamente più arretrati: La Grecia, la Spagna e il Portogallo. Nei primi anni 90, i dodici paesi
hanno circa 330 milioni di abitanti (circa 9/10 della popolazione dell’Europa occidentale) e circa il
40% di quella dei paesi sviluppati. C'è una totale libertà di circolazione dei fattori della produzione
(persone, servizi e capitali) che viene raggiunta il primo gennaio 1993; il libero movimento delle
persone suppone che sia possibile stabilirsi temporaneamente o definitivamente in un qualsiasi
paese della comunità del quale non si è cittadini per prestarvi lavoro o per soggiornarvi, anche
dopo aver raggiunto l'età della pensione. L'Europa accelera la propria integrazione economica e
politica negli anni 80 e negli anni 90 ma c'è un evento che cambia la storia dell’Europa, ovvero, il
crollo del muro di Berlino derivante dalla fine dell'impero sovietico nell’89. La riunificazione della
Germania scombina l'equilibrio faticosamente raggiunto: la nuova Germania unificata, con i suoi
80 milioni di abitanti e il 30% del PIL europeo, assume un peso decisivo nel contesto della
comunità e dell’Europa intera per cui rievoca un fantasma che si credeva ormai scomparso.
Questo però non avviene, ovvero, non saltano gli equilibri per un insieme di fattori: certamente
per un grande leader tedesco Helmut Kohl, perché ci furono anche altri grandi leader europei che
seppero gestire questa situazione e anche perché gli Stati Uniti furono favorevoli a questo. La
risposta alla sfida si traduce in un rafforzamento delle istituzioni europee: appoggiata dalla Gran
Bretagna, La Germania promuove e ottiene l'ingresso di Austria, Svezia e Finlandia, tre paesi ricchi
che bilanciano le più arretrate economie mediterranee e viene progettata una politica di
stabilizzazione dei paesi ex comunisti del centro Europa, accettati nella NATO dapprima creando
non poche tensioni con la Russia e, nel 2004, nell’Unione. Nel 90 in Lussemburgo è stata stipulata
una convenzione tra Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna che
prevedeva la progressiva abolizione dei controlli di frontiera tra i paesi firmatari, compresa la
libertà di movimento per quei cittadini extra comunitari che legittimamente varcano la frontiera di
uno qualsiasi dei paesi della comunità. Anche l’itinerario di avvicinamento alla moneta unica è
stato difficile: il primo piano al riguardo è stato elaborato fin dal 1970, nel 72 è stato creato il
Sistema Monetario Europeo (SME) per contenere gli effetti della svalutazione del dollaro e per
evitare le fluttuazioni e l’ECU diventa l'unità di conto delle finanze e delle relazioni fra monete dei
paesi CEE. Nemmeno il passaggio dall’ECU, unità di conto e monete ideale, alla moneta unica
effettiva chiamata euro, è stato semplice e un'accelerazione decisiva in questo senso viene dal
trattato di Maastricht (1991) entrato in vigore nel 93 che cambia il nome della Comunità
Economica Europea in Unione Europea. L'integrazione dei paesi ex comunisti centro europei dal
2004 Pone dei problemi e dei costi significativi per l'allargamento: il divario economico, sociale,
istituzionale, politico, culturale e tecnologico è talmente grande che impegnerà una grossa parte
dei fondi comunitari in interventi volti ad attenuare il divario tra regioni e tra settore dei nuovi
entrati rispetto ai quindici. Oggi siamo ad un momento di svolta perché la Gran Bretagna sta
uscendo e ci sono paesi nel cuore dell’Europa che non rispettano alcune regole elementari dello
Stato di diritto e che era lento non l'assunzione di altre misure.

110
DALLA DECOLONIZZAZIONE AL TERZO MONDO
Il processo di decolonizzazione è un processo che ha cambiato la storia del mondo e la carta
geografica del mondo. In circa vent'anni, alla fine della Seconda guerra mondiale, si sgretola il
colonialismo europeo in due fasi: la prima, dal 46 al 51, è la decolonizzazione del continente
asiatico e la seconda, tra il 56 e il 63, abbiamo quella africana. Quando parliamo di
decolonizzazione bisogna fare una valutazione di più lungo periodo: ad esempio, un continente
aveva già conosciuto un processo di decolonizzazione precedente, ovvero, il continente
americano: tra fine sette e inizio 800 prima la decolonizzazione del Nord America (nascono gli Stati
Uniti) e poi dell’America Latina per cui la decolonizzazione non è una novità mentre ora questo
fenomeno assume dimensioni di rilevanza. Nel 1955 c'è un altro evento importante collegato al
tema della decolonizzazione ed è la conferenza di Bandung in cui spiccano tre leader Nehru
Sukarno e Nasser: una trentina di paesi asiatici condannano ogni forma di oppressione coloniale e
sollecitano il riequilibrio delle relazioni tra nord e sud; in questo modo prende forma uno
schieramento di nazioni che condividono l’esigenza di tramutare la recente indipendenza in vera e
propria autonomia e di avviare una crescita economica. Nel 1961 il gruppo di Bandung, a cui si è
aggiunto la Jugoslavia, fa una scelta di non allineamento tra i due schieramenti impegnati nella
guerra fredda (quello liberaldemocratico capitalista e quello filosovietico comunista). I paesi ex
coloniali sono più numerosi e diversificati oltre che eterogenei e si dividono tra paesi ad economia
di mercato e paesi ad economia caratterizzata dalla programmazione economica centralizzata di
stampo sovietico. Nel 1965 all'ONU sono iscritte 120 nazioni di cui 70 sono nuove nazioni asiatiche
e africane: queste costituiscono il Terzo Mondo. Inoltre, nella sfera ONU proliferano le agenzie (la
UNICEF e la FAO): vengono firmati accordi e convenzioni tra paesi più avanzati e paesi in via di
sviluppo. Vediamo le implicazioni più strettamente economiche e le luci e ombre della prima fase
di sviluppo tra il 1946 almeno 1965: ci sono molte ombre perché ancora oggi ci sono paesi in
condizioni di sottosviluppo ma ci sono anche delle luci perché ci sono aspetti e alcuni
miglioramenti che vedono mutamenti importanti. Divenuti indipendenti, i paesi del terzo mondo si
impegnano complessivamente nell’avvio di processi di industrializzazione insieme ai programmi di
istruzione rapida per popolazioni largamente semianalfabete in modo da attenuare il grave ritardo
rispetto ai paesi del mondo sviluppato. C'è una vera e propria battaglia per l’istruzione che dà dei
buoni risultati e vediamone alcuni dati: il tasso di scolarizzazione di base migliora (questo tasso
esprime il rapporto tra coloro che sono iscritti a scuola e i ragazzi nella fascia 5-15 anni) perché nel
50 siamo al 26%, nel 1970 siamo a 62% e alla fine del 900 fino a all’80%. Aumenta anche il numero
degli iscritti alle scuole secondarie che sono quelle che producono i quadri del mondo del lavoro e
che costituiranno i ceti medi (scuole tecniche e professionali); poi c'è un livello di istruzione
superiore dell'accesso all’istituzione universitaria che darà origine all’élite. Questo è un fenomeno
molto diseguale non solo tra continenti ma anche tra paesi delle stesso continente: in alcuni casi
questo livello di studi universitari si forma non tanto nell’università indigene del paese ma nelle
università dei paesi che avevano colonizzato la nazione di provenienza (i figli dell’élite indiana
andavano a studiare in Gran Bretagna). Nel complesso, l'istruzione è superiore ad un andamento
significativo e ad una crescita esponenziale: per esempio, il numero degli universitari nel terzo
mondo, nel 1950, era circa un milione e alla fine del secolo erano arrivati ad essere 35 milioni. Tra
il 48 e il 65, il terzo mondo ad economia di mercato triplica il volume della produzione
manifatturiera grazie all'adozione di una politica di sostituzione delle importazioni, ovvero, si cerca
di produrre in patria quelle merci e quei prodotti, non di elevatissima qualità tecnologica o
merceologica, che prima si importavano per cui si inverte la tendenza che era stata tipica
dell'Ottocento e del primo 900: questa è un tipo di politica che si può completare senza grandi
investimenti e senza significativi importazioni di tecnologia troppo costose per cui sono politiche
produttive di relativamente agevole implementazione (sono alla portata di paesi non ricchi). Alla

111
fine degli anni 60 viene completata la sostituzione delle importazioni e questo comporta
inevitabilmente un rallentamento della crescita economica (delle attività manifatturiere) che
invece, nei quindici anni abbondanti precedenti, si era verificata anche in molti paesi del terzo
mondo ad economia di mercato: questo è dovuto anche da altri elementi come il protezionismo
dei paesi più sviluppati che cominciano a reagire alle esportazioni che alcuni paesi del terzo mondo
effettuavano verso più mercati avanzati di merci a basso valore aggiunto (i tessili o i prodotti dei
calzaturifici); un altro aspetto che contribuisce a rallentare questa prima favorevole dinamica
economica è la rigidità della domanda mondiale di tessili e di calzature (il grosso delle esportazioni
di questi paesi) e anche la dipendenza dalle società multinazionali occidentali che, dalla fine degli
anni 60, spostano nel terzo mondo alcune fasi delle loro lavorazioni che necessitano di
manodopera meno qualificata rispetto alle fasi più avanzate che invece, quando vi sono, vengono
più frequentemente mantenute nel mondo più sviluppato. Ci sono anche fenomeni negativi che
hanno effetti economici deteriori oltre che politici, sociali e culturali negativi: c'è molta corruzione
e ci sono tante industrie pubbliche nelle quali le risorse spesso vengono malamente utilizzate,
l’allocazione delle risorse non è efficiente, ci sono grandi sprechi e i risultati economici sono
scadenti; c'è anche una sotto utilizzazione della capacità produttiva delle installazioni che spesso
sono sovradimensionate rispetto ai volumi di prodotto che possono essere assorbiti dalla
domanda interna ed estera. Ci sono quindi dei problemi e a questo si aggiunge il famoso vincolo
demografico: l'esplosione demografica di una parte del mondo è un elemento importante per
ragioni ecologiche, sociali, economiche, demografiche. Nei primi anni 60 comincia ad emergere
un'inflazione demografica galoppante con un aumento medio annuo della popolazione pari al
2,3%: quali sono le cause di questo fenomeno? Le cause sono due: da un lato, abbiamo una
consistente diminuzione della mortalità infantile e, dall’altro, ci sono campagne di vaccinazione a
tappeto che si svolgono anche nei paesi del terzo mondo: questi fenomeni contribuiscono ad
innescare un boom demografico perché il tasso di natalità non si adegua rapidamente alla
diminuzione del tasso di mortalità e questo comporta un accrescersi/allargarsi del divario tra i due
tassi per cui si creano condizioni di difficoltà; l’effetto è quindi quello di un’esplosione demografica
e, di conseguenza, di un deficit di alimenti di base. Se attorno al 1940 il terzo mondo era
eccedentario in fatto di produzioni alimentari, dalla fine degli anni 40, con qualche eccezione, si
innesca e si manifesta un deficit cerealicolo crescente (è come se una torta venga lentamente
ingrandita ma improvvisamente il numero degli invitati aumenta a ritmi molto più rapidi e quindi è
inevitabile che alcuni restano senza fetta di torta o che le fette di torta vengono diminuite): il PIL e
la ricchezza crescono ma crescono con un ritmo molto maltusianamente inferiore rispetto a quello
della crescita della popolazione con numeri importanti. Nel frattempo stanno succedendo cose
importanti perché in quel tempo c'è un ulteriore boom della domanda di petrolio e questo innesca
una seconda suddivisione (oltre alla prima divisione tra i paesi ad economia di mercato e paesi ad
economia pianificata) tra paesi del terzo mondo che hanno risorse petrolifere affini e altri che non
le hanno. Un altro elemento di diseguaglianza è anche quello all'interno dei paesi del terzo mondo
che vede crescere il divario tra i cittadini e i rurali: spesso si verifica, in questi paesi, un processo di
inurbamento che ha effetti complessi perché, da un lato, si creano e si accentuano le favelas e le
bidonville mentre, dall'altro lato, molti vanno in città perché ritengono che lì vi siano più
opportunità (la città è vista come una terra di opportunità dove non sempre però questa
opportunità si realizzano). Inoltre la crescita dei prezzi del petrolio, sommandosi ad un inflazione
endogena in molti di questi paesi dovuta alla maggiore produzione agricola e manifatturiera dalla
fine degli anni 40, innescano un forte processo inflazionistico nei paesi del terzo mondo ad
economia di mercato molto superiore alla già significativa deriva inflazionistica di cui abbiamo
parlato trattando della stagflazione dei paesi ricchi: nei paesi del terzo mondo ad economia di
mercato, la deriva inflazionistica è molto più marcata che non nei paesi occidentali sviluppati.
Fino qui abbiamo descritto un quadro di luce e di ombra, un quadro complesso fatto di

112
miglioramenti di mutamenti, di difficoltà, di nuovi problemi di diversificazione ma facciamo un
passo avanti e trattiamo un gruppo di paesi che ha assunto una rilevanza sproporzionata rispetto
alle loro dimensioni e al loro peso storico: ci riferiamo alle quattro tigri asiatiche tra cui Hong Kong,
Singapore, Taiwan e la Corea del Sud. Perché questi paesi sono diventati così famosi al punto di
denominarsi tigri e perché vengono messi insieme? Per due motivi: sono così importanti perché,
da un lato, hanno ottenuto delle performance economiche e hanno avviato dei processi di
modernizzazione molto significativi per cui sono storie di successo che occupano posizioni
economiche nelle classifiche significative e, dall'altro lato, oltre alle loro performance, queste
storie di successo dimostrano che c'è una via di uscita dal sottosviluppo e questa via d'uscita viene
studiata, valutata e presa come ispirazione anche da paesi come la Cina e l'India il cui impatto
complessivo sull’economia globale sarebbe stato superiore. Le vicende delle quattro tigri asiatiche,
quindi, rappresentano un simbolo e una dimostrazione di come si possa uscire dal sottosviluppo:
non è una formula che vale per tutti e non è una via certa per tutti perché ciascuno parte con la
propria dotazione di fattori e con la propria storia ma è comunque un elemento di grande
rilevanza; in qualche misura questa vicenda delle quattro tigri asiatiche prosegue un fenomeno che
abbiamo affrontato sempre in aree asiatiche che costituì un esempio per molti paesi non
occidentali e non ancora sviluppato industrialmente, ovvero, il caso del Giappone che era stato il
primo paese non occidentale di civiltà non giudaico cristiana a industrializzarsi. In un quadro
complessivamente non semplice e negativo per il terzo mondo senza petrolio, l'eccezione dalla
metà degli anni 50 è costituita prima da Hong Kong, poi dalla Corea del Sud, da Singapore e da
Taiwan: trent'anni dopo questi paesi saranno già sviluppati ciascuno alla sua maniera. Questi
paesi, per costituire il gruppo delle tigri asiatiche, presentano aspetti comuni ma ci sono anche
differenze significative: tra i caratteri comuni ce ne sono alcuni negativi come il fatto che sono
paesi poveri e prive di risorse naturali ed energetiche, sono usciti devastati dalla Seconda guerra
mondiale, densamente popolati rispetto al mondo occidentale. Ci sono anche dei fattori comuni
pro come, ad esempio, la Corea e Taiwan, negli anni 30, avevano già avviato dei processi di
ammodernamento e miglioramento di molte attività agricole e industriali; Hong Kong e Singapore,
che hanno in comune il fatto di essere ex colonia inglese, hanno in comune anche il fatto di essere
delle città-stato ovvero sono grandi città con un limitato territorio intorno per cui il peso del
mondo rurale tradizionale in questi due paesi è molto limitato e quasi inesistente. Inoltre, Hong
Kong è precocemente dotato di un’elementare base industriale: già dalla fine della Seconda guerra
mondiale ci sono significative attività industriali relativamente diversificate (tessile, cemento, carta
e cantieristica). Anche la demografia deve essere vista con attenzione: la crescita demografica in
questi quattro paesi è minore che nel resto dell'asia per cui la pressione della popolazione sulle
risorse è più blanda; inoltre, in queste quattro tigre asiatiche l'analfabetismo è più basso e meno
diffuso che nel resto dell'asia ed è più bassa anche la percentuale di popolazione contadina sulla
popolazione totale: questi due elementi contribuiscono, comparativamente rispetto ad altri paesi
asiatici, ad una maggiore e più diffusa abilità e creatività tecnologica e ad un più forte senso
innovativo, tipico di queste quattro realtà. Un altro elemento importante è quello della relazione
tra stato, economia, tecnologia e società, ovvero, lo “stato per lo sviluppo”: lo stato, mentre
sostiene le imprese, impone loro di misurarsi sul mercati globale (lo stato sostiene le imprese nel
senso che lo stato aiuta le imprese ma le imprese devono fare il massimo per il benessere
nazionale e questo massimo si ricerca competendo ai massimi livelli sui mercati globali). La
crescita economica viene parallelamente ad un significativo incremento del tenore di vita e ad una
relativa perequazione dei redditi: questo non vuol dire che siano società egualitarie o che tutti
stiano bene ma lo stato organizza l'istruzione, la sanità, i trasporti, i servizi sociali i sussidi
alimentari per i disoccupati. Questa situazione poi si articola ulteriormente tra i quattro paesi: per
esempio ad Hong Kong e Singapore, che hanno assorbito una cultura di matrice britannica più
individualista e più capitalistica, le sperequazioni socio economiche sono maggiori che in

113
Giappone, in Corea e Taiwan. Ad Hong Kong, che nel 97 passa alla Cina, c'è una miscela importante
tra il ruolo dell'autorità pubblica e una certa flessibilità dei produttori manifatturieri di fronte al
mutare della domanda mondiale: a Hong Kong e a Singapore e si sviluppano particolari sistemi di
welfare che comprendono il sostegno abitativo per gli operai e questo favorisce gli operai ma ne
favorisce anche il controllo da parte delle autorità, attenuta la conflittualità sindacale e aumenta
anche la legittimità dello stato rispetto alla popolazione. Una fase importante per questi quattro
paesi è quello della crisi di fine secolo: la crisi economica asiatica di fine anni 90 ha effetti differenti
sulle quattro tigri e questo deriva da una serie di motivo come dalla diversa natura dei quattro
paesi, dalle loro economie, da quanto era accaduto negli anni precedenti perché alcuni paesi
avevano avviato una trasformazione i cui effetti si sarebbero rilevati perniciosi davanti alla crisi e
dalle scelte politiche dei governi. Ad Hong Kong si manifesta una bolla speculativa immobiliare e
un grave crollo di borsa che innesca una grave recessione; a Singapore la crisi è meno grave
mentre a Taiwan l’economia continua a crescere anche se più lentamente: questi due paesi non
avevano sacrificato la tradizionale competitività manifatturiera alla finanza globale e al settore
terziario come, invece, era avvenuto a Hong e in parte in Corea del Sud. La Corea del Sud è l’altro
paese insieme ad Hong Kong che subisce una crisi importante perché falliscono alcune tra le più
importanti conglomerate coreane, le Chaebol (le conglomerate sono grande compagnie che
riuniscono al loro interno aziende che si occupano anche di cose differenti). Come mai falliscono le
conglomerate? Da un lato, per motivi di inadeguatezza e non efficacia a livello di assetto e gestione
e, dall'altro, perché alcune delle tecnologie che avevano fatto la fortuna di aziende tecnologiche
coreane non tengono il passo rispetto ai concorrenti; c'è anche un terzo aspetto perché, proprio
negli anni precedenti la crisi, la classe dirigente coreana ha scelto di smantellare, in parte, le
tradizionali politiche economiche tipicamente implementate negli anni precedenti per cui una
svolta verso il liberismo di stampo occidentale e il non interventismo. Questo si dimostra non
tempestivo in un momento di crisi quando invece un intervento tempestivo della politica dei
governi si sarebbe potuto rilevare estremamente importante. C'è una fuga degli investitori
stranieri, c'è una pesante crisi monetaria e una pesante crisi finanziaria da cui poi si uscirà con
misure drastiche all'inizio del secolo imboccando una strada di notevole sviluppo e di notevole
ripresa economica che fa della Corea del Sud un paese sviluppato e di successo con una notevole
capacità tecnologica.
IL RISVEGLIO DEI DINOSAURI ASIATICI
Vediamo il dragone cinese dove, nella mitologia orientale, il dragone è un'entità benevola e
protettiva. La storia cinese è la storia di un paese che per le sue stesse dimensioni è qualcosa di
diverso dalla maggior parte di tutti i paesi del mondo: la Cina è enorme dal punto di vista
demografico perché ha un miliardo e 300 milioni di persone (verrà superato dall’India); certe
regioni industriali cinesi sono popolati come interi grandi paesi europei: questo è un impatto in
termini di mercato e la varietà delle situazioni da gestire e governare. Quello cinese è un modello
di modernizzazione e di crescita economica unico e senza precedenti che cerca di coniugare
residui di comunismo, dal punto di vista della struttura di potere e della prevenzione dell’anarchia,
ad un'economia fortemente in ascesa con elementi di capitalismo. Si tratta di una ricerca di una
sintesi virtuosa tra la pianificazione centralizzata e l'economia di mercato: nessuno ha mai fatto
qualcosa di simile. La Cina non è una super potenza a livello degli Stati Uniti ma è comunque una
protagonista: caratteristiche delle Cina sono la mancanza della democrazia e la dura compressione
dei diritti umani. L'ingresso della Cina nell'economia globale non è lasciato meramente alle forze
del mercato e agli investitori internazionali in cerca di opportunità ma è governato dallo stato con
misure di politica economica mirate e con riforme istituzionali importanti le quali hanno la
funzione di rendere la transizione sostenibile e compatibile con le condizioni, le esigenze e gli
interessi specifici del paese. Circa la storia cinese, la Cina ha subito occupazioni importanti perché

114
nel 31 la Manciuria viene occupata dai giapponesi e nel 37 il Giappone riprende la guerra di
conquista della Cina conquistando non tutto il territorio ma alcune province esterne e province in
cui ci sono attività industriali. In questo contesto si sviluppano delle forze rilevanti di resistenza e
di espressione di volontà di opporsi da parte della Cina a questa predominanza e invasione
giapponese: in particolare, le forze comuniste guidate da Mao Zedong si alleano e collaborano con
le forze nazionaliste cinesi e si uniscono in una guerra di liberazione e di resistenza all'occupazione
giapponese. Finita la seconda guerra mondiale e sconfitto l’occupante giapponese, abbiamo la fase
conclusiva della del guerra civile cinese in cui, tra il 45 e il 49, abbiamo i comunisti guidati da Mao
contro i nazionalisti del Kuomitang guidati da Chiang Kai-schek: Mao sconfigge il Kuomitang e nel
49 succedono due cose importanti perché il primo ottobre del 49 viene programmata la
Repubblica popolare cinese (il comunismo prende potere in Cina) e coloro che, invece,
appartengono alle forze sconfitte, protetti dagli Stati Uniti, si ritirano a Taiwan e danno vita ad una
Cina indipendente dalla Cine madre patria. Lo stato maoista, quindi, scaturisce dalla guerra di
liberazione e dalla guerra civile tra il 37 e il 49. La rivoluzione cinese può essere così riassunta con i
seguenti tre aggettivi: nazionalista, contadino e comunista. In un paese così grande, il partito
comunista cinese (PCC) è fondamentale ma all'interno del partito fondamentale risulta la
commissione militare del comitato centrale del PCC, la cui presidenza fu l’unica carica
ininterrottamente conservata da Mao sino alla morte: il partito con l'esercito controlla l'economia
attraverso una pianificazione centralizzata, controlla la società (controllava ogni angolo
dell’immenso paese) e, per la prima volta nella sua storia, la Cina assiste ad un controllo ramificato
sull’intero immenso territorio nazionale. In epoca maoista c'è una forte personalizzazione della
leadership politica: le decisioni del vertice vengono poi trasmesse, attraverso una catena di
comando, alla società e si diffondono nella società. Spesso vengono varate delle mobilitazioni
generali del partito e, tramite il partito, della popolazione su parole d'ordine che spesso si rivelano
laceranti e distruttive: solo così si spiega la straordinaria potenza distruttiva di parole d’ordine
come “il grande balzo in avanti” e “la rivoluzione culturale proletaria” nel 66 con un'esplosione di
violenza per riaffermare certe priorità ideologiche; queste mobilitazioni generali a volte spaccano
duramente lo stesso PCC e sono anche forme di riaffermazione o affermazione di aree del partito e
di componenti ideologiche e politiche a danno di altri. Mao esprime un comunismo ben diverso da
quello sovietico perché esprime la sua cultura e la sua esperienza personale di contadino e la sua
esperienza di combattente partigiano che vuole conservare al centro del sistema il PCC e rendere
la Cina forte e indipendente nel mondo dei due blocchi (dopo un iniziale schieramento a fianco
dell’Unione Sovietica, c'è un sostanziale allontanamento e c'è persino un piccolo e breve episodio
bellico) e avendo alle porte quattro tigri in rapido sviluppo economico e tecnologici. Secondo Mao,
uno dei cardini della Cina comunista deve essere la solidità della civiltà rurale con adeguamenti
industriali ma non ci deve essere nessuna vergogna ad avere una base solida rurale e contadina
agricola: vi è la necessità di sviluppare l’autosufficienza e l’autarchia contadina, assicurare il
primato ideologico del partito, allenare il popolo alla guerriglia per resistere ad eventuali invasori
che devono essere scoraggiati con l’avvio del processo che porterà all’ottenimento del deterrente
nucleare. Ci sono altre anime del partito comunista che collaborano con Mao ma cercano anche di
modificare le sue decisioni e introdurre elementi più moderni come ad esempio dagli anni 50 Deng
Xiaoping e Liu Shao-chi propongono e mettono in atto una linea più favorevole alla linea
dell’industrializzazione e della modernizzazione del paese secondo una programmazione
centralizzata di tipo sovietico. Chou en Lai, capo del governo, riesce a mediare tra le fazioni e
rafforza il complesso militare industriale cinese per cui rafforza il complesso produttivo e
scientifico tecnologico militare inteso come indispensabile presidio dell’indipendenza nazionale e
questo complesso militare industriale sopravvive indenne attraverso le molte bufere politiche e di
potere degli anni 60 e 70. Nel 76 muore Mao e c'è una lotta importante tra fazioni ma al potere va
Deng il quale riprende la sua vecchia idea che la prosperità economica e la modernizzazione

115
tecnologica rappresentano i pilastri del prestigio internazionale e delle dipendenze straniera.
L'idea di Deng è pragmatica e la sua filosofia viene espressa in una sua frase tipica “Non importa
che il gatto sia bianco o nero, l'importante è che mangi topi”: questo non significa diventare
capitalisti o democratici ma significa capire che bisogna modernizzarsi e bisogna cambiare. Dopo la
rivoluzione culturale, Deng intuisce che bisogna rilegittimare il PCC diffondendo tra la popolazione
il diritto di proprietà, miglior tenore di vita, maggior benessere e fondando attese di crescita
economica: questa è la svolta che imprime Deng e la imprime con pragmatismo non distruggendo
tutto quello che c'era ma cercando di rivederlo risistemarlo e integrandolo con nuovi elementi.
Vediamo come si organizza l'economia della Cina autarchica maoista per poi capire cosa succede
dopo: il primo decennio della Repubblica popolare cinese è un decennio difficile perché la Cina è
un paese molto povero e in questo primo si decennio si riesce comunque migliorare un po' il
tenore di vita e ad assicurare un'assistenza sanitaria molto elementare a gran parte della
popolazione. Questo favorisce una crescita demografica importante che si sarebbe interrotta dopo
circa un decennio dopo il tragico “grande balzo in avanti” nel 58 perché si innescherà una carestia
disastrosa. È una politica ideologica che aveva come finalità quella di raggiungere dei livelli
produttivi della Gran Bretagna (fare un grande balzo in avanti) per poi raggiungere la potenza
economica americana in una seconda fase. La popolazione viene divisa in gruppi di circa 5000
famiglie dotate di lotti di terreno, di cucine comuni e di acciaierie a conduzione familiare secondo
criteri di autarchia spinta: il risultato fu fallimentare e non solo falliscono questi tentativi ma crolla
la produzione e la distribuzione delle derrate agricole essenziali e ci fu una disastrosa pluriennale
carestia che causò 30 milioni di morti in quattro anni. Superata l'emergenza alimentare, a metà
degli anni 60, la natalità si impenna e raggiunge i livelli del primo 900: dal punto di vista
demografico, bisogna tenere sotto controllo una dinamica demografica che rischia di esplodere
ma, in realtà, già verso la fine del regime maoista c'è qualche ravvedimento e, infatti, nel 71 il
governo comincia ad esortare la popolazione e a fare meno figli; la svolta verrà poi con l'adozione
della politica del figlio unico a partire dall' epoca di Deng in cui il governo dispone delle rigide
norme di disposizione familiare perché bisogna tenere sotto controllo il numero di persone che
possono mangiare la famosa torta: non ci si può sposare prima dei 25 anni, si poteva generare un
solo figlio per coppia e ci sono incentivi significativi e pene pesanti. Quali sono stati gli esiti di
questa politica? Gli esiti sono complessi e variegati perché, da un lato, la dinamica demografica
cinese è stata rallentata ed è stata ricondotta sotto controllo secondo i desideri del partito: la torta
(il PIL) si è ingrandita e la popolazione è aumentata ma non in modo eccessivamente rapido (i
commensali non sono troppi). Questo viene ottenuto, però, con delle conseguenze perché c'è un
malcontento in alcune aree della società e, soprattutto nel mondo rurale, questo successo sui
numeri riguardo alla dinamica demografica ha un costo umano, etico e demografico: ha un costo
umano perché, soprattutto nelle aree rurali, le famiglie ritengono che avere un figlio maschio li
aiuterà di più per cui questo porta ad infanticidi e ad aborti selettivi per genere e per sesso perché
se si può avere un solo figlio si preferisce che il figlio sia maschio; propria questa selezione per
generi altera il normale rapporto tra i sessi alla nascita e, ad esempio, nella popolazione cinese
attuale uno dei temi importanti è la sproporzione tra maschi e femmine perché ci sono più maschi
e questo comporta dei problemi perché migliaia di cinesi maschi non trovano moglie. Poi c'è un
altro aspetto perché il rallentamento della crescita demografica in un paese che sta invecchiando
ha indotto le autorità a rivedere e a cancellare questa politica perché si tratta di attenuare gli
effetti socialmente dannosi di un eccessivo rallentamento delle nascite e di un troppo rapido
invecchiamento della popolazione. Tenuto conto delle disastrose condizioni economiche generali
della Cina del 1950, tra il 1950 e il 79 il PIL pro capite supera dell'80% la media dei paesi del terzo
mondo a economia di mercato; inoltre, dobbiamo anche considerare che la Cina non fruisce di
aiuti delle istituzioni internazionali né di investimenti dall’estero né esporta significative quote
delle sue produzioni manifatturiere. Vediamo come si verifica l'apertura al mondo della Cina che è

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un apertura graduale, non è radicale o immediate ma è una fase senza la quale non si sarebbe
arrivati all’odierno modello cinese che unisce comunismo e capitalismo. Nei primi anni 80, sulla
base dell’approccio di Deng, inizia l’integrazione graduale della Cina nell'economia globale con
quattro Export Processing Zones, ovvero, zone economiche speciali legate al tema della
produzione per l'esportazione che vengono identificate presso Hong Kong, Taiwan e Macao. La
strategia iniziale è quella di farne trampolini per le esportazioni di prodotti cinesi e di offrire agli
stranieri una manodopera disciplinata a costi più bassi di quello occidentale, suoli a buon mercato
in cui costruire impianti e facilitazioni/ agevolazioni fiscali molto attrattive attraendo in questo
modo capitali e tecnologie estere per acquisire know-how e realizzare profitti in dollari e sterline
per riprodurre un certo tipo di modello di sviluppo e quindi per rilanciare l'economia cinese
secondo il nuovo modello. Sono zone legalmente isolate dal resto della Cina perché sono zone
sperimentali molto ben delimitate che non devono spargere il contagio del capitalismo nel resto
della Cina, ovvero, per impedire che il capitalismo portatovi dagli stranieri contamina sul resto del
paese. Questi tentavi sono cruciali perché segnano l’inizio concreto, dopo la presa del potere di
Deng, di una sperimentazione e l’imbocco di un percorso che va in una direzione nuova.
L'esperimento non funziona sia perché le multinazionali fruiscono di condizioni analoghe nel terzo
mondo con minore incognite politiche e maggiori infrastrutture sia perché le multinazionali erano
molto più interessate a penetrare nel mercato cinese per portarvi la loro cultura aziendale e creare
una rete di distributori e fornitori piuttosto che ottenere quanto la Cina offriva loro in quel
momento. Dopo qualche anno la Cina apre la maggior parte delle proprie regioni industriali sotto il
controllo della burocrazia statale (dello stato centrale) e regionale per cui non sono liberi tutti ma
ci sono aperture mirate: imprese giapponesi, americane ed europee si impianta in Cina e
cominciano a ricevere commesse pubbliche soprattutto nei settori a tecnologia avanzata. Tuttavia,
sino alla metà degli anni 90, gli investimenti occidentali e giapponesi sono minoritari rispetto a
quelli dei cinesi espatriati di Hong Kong e Taiwan che portano know-how non solo in senso tecnico
ma anche in senso manageriale ed esperienza dei mercati globali. Vengono così a crearsi delle
complesse reti relazionali e transnazionali di parentele e di comparaggi (insieme di persone tra cui
intercorre un rapporto non di parentela ma un legame molto stretto): comuni origini territoriali e
dialettali e grazie a questo sistema e a queste reti, negli anni 80 i fuoriusciti sono protagonisti
dell’avvio di un'armatura più moderna infrastrutturale della regione tra Hong Kong, Macao e il
Delta del fiume delle perle (Pearl River) con 80 milioni di abitanti (regione del Guangdong: regione
industriale importantissima). In risposta a questo successo della regione del Guandong, si innesca
una specie di competizione interna e la regione di Shanghai, da cui proviene larga parte del gruppo
dirigente governativo pechinese, nei primi anni 90, lancia una nuova regione economica di
sviluppo detta di Pudong che diventa rapidamente il principale centro dei servizi avanzati per le
imprese del paese. Dagli anni 90, il capitale comincia ad affluire da ogni parte del globo ma
soprattutto dai cinesi d'oltremare tra cui Singapore, California, New York, Canada e Australia. Nel
1992, Deng incoraggia la regione del Guangdong e la regione di Shanghai a imitare e superare le
quattro tigri: le autorità delle due regioni, prendendo alla lettera l’invito del presidente,
rivendicano una crescente autonomia economica, fiscale e creditizia per realizzare infrastrutture,
attirano insediamenti di imprese estere e fondano imprese in partecipazione con stranieri. Nel 93,
un emendamento della costituzione introduce il concetto fondamentale di “economia socialista di
mercato”: emerge un centro capitalista di imprenditori burocrati regionali essenzialmente
composti da funzionari di partito che, disponendo di risorse come responsabili di istituzioni
politiche, fondano quelle che vengono definite le “imprese collettive” partecipate da enti
governativi, da investitori regionali e da imprenditori privati. Questo capitalismo burocratico
decentrato distribuisce la percentuale sia gli alti livelli governativi non direttamente coinvolti nelle
operazioni sia gli alti ufficiali dell'esercito sia ai quadri locali del partito PCC la cui protezione è
fondamentale per aggirare i vincoli ancora vigenti dell'economia pianificata. In questa fase di

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fondamentale transizione, accanto alle tradizionali imprese di stato ci sono poi queste imprese del
capitalismo burocratico decentrato e anche delle imprese private alcune a partecipazione
straniera: questa è la fase di transizione che dura anni ma in questa fase cominciano ad emergere
dati importanti perché il tasso di sviluppo del PIL dal 79 al 2004 ha una media del 9,6% con punte
in singole annate fino al 13% o 14% per cui si tratta un ritmo di crescita alto e positivo e, inoltre, un
altro dato statistico che può misurare il benessere teorico dei cittadini o il livello economico della
popolazione (il PIL pro-capite) è cresciuto. Abbiamo quindi un ritmo di crescita alto con effetti
economici, sociali, politici, strategici, militari enormi e che è molto positivo per molti versi ma
pone anche dei problemi perché bisogna evitare surriscaldamento eccessivo dell’economia,
evitare l'inflazione, rivedere il modello di sviluppo con molte esportazione e molti investimenti
infrastrutturali. Tutto questo è impensabile senza la politica della “porta aperta” perché il paese si
sta aprendo (non in modo meramente liberaldemocratico capitalista) e questa politica della porta
aperta ha degli effetti enormi perché decreta la fine dell’isolamento cinese e prepara
l'introduzione nella costituzione del diritto inviolabile della proprietà privata, dello stato di diritto e
del superamento della pianificazione economica socialista. Le conseguenze della politica di Deng
pongono alcune grande questioni di grande peso:
- La prima è data dal massiccio esodo dalle campagne di alcune centinaia di milioni di cinesi
socialmente e culturalmente sradicati e in condizioni economiche precarie. Inoltre, le forti
distorsioni e disparità nella distribuzione del reddito tra regioni urbane e rurali che si
ripercuotono sul livello di consumo e, di conseguenza, sui livelli di vita degli appartenenti ai
due gruppi evocano un incombente dualismo.
- I sempre più frequenti conflitti tra Pechino e le province della fascia costiera derivanti dalla
larga autonomia concessa dal governo alle autorità provinciali in fatto di relazioni dirette
con l'economia internazionale sono un potenziale fattore di disgregazione di crisi politica.
- Il principale timore del potere centrale di Pechino è quello dell’eccesso di movimenti
centrifughi e qui, ad esempio, c’è anche alla lotta alla corruzione nelle periferie regionali.
- Le imprese pubbliche bassa produttività non trovano compratori né possono essere
liquidate.
- Accettare la diffusione di internet: internet è irrinunciabile dal punto di vista tecnologico
produttivo ma internet è anche un luogo complesso e contraddittorio dove si può
manifestare una certa libertà e questo non è per niente funzionale ad un sistema di potere
come quello cinese per cui c'è una contraddizione tra le necessità economiche
tecnologiche e la censura politica tant'è vero che alcuni di questi giganti di internet si sono
auto censurate pur di non perdere business in Cina.
- Oggi la Cina ha acquisito un altro primato, ovvero, il più ampio ceto medio al mondo
superando persino gli Stati Uniti
- C'è il tema delle questioni ambientali che ha una grande valenza anche politica perché,
soprattutto nelle aree urbane, c'è molto malcontento per gli elevatissimi livelli di
inquinamento che caratterizzano la città come Pechino e Shanghai tanto è vero che la Cina
si era anche per questo motivo messa in moto con Obama e con l’UE per il famoso accordo
di Parigi.
In questi ultimi anni pre pandemia, la Cina sta cercando di cambiare e adattarsi a nuove situazioni
dopo 40 anni che cresce a ritmi significativi: è importante capire che la leadership cinese sta
cercando di adattare la situazione alle nuove condizioni generali e uno di questi esempi è proprio
l’attenuazione, la revisione e l'abolizione della politica del figlio unico perché ci si è resi conto che
una popolazione che cresce poco e invecchia precocemente crea dei problemi per cui bisogna
cercare di riequilibrare il pendolo demografico.
L'altro gigante asiatico è l'India: l'India è un paese di enorme tradizione, è oggi la più grande

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democrazia al mondo ed è un paese che ha uno conosciuto uno sviluppo economico non come
quello della Cina ma comunque molto importante. Vediamo la storia indiana in epoca coloniale
britannica, ovvero, la storia dell’India East Indian Company: ai primi del 600, la convergenza tra lo
spirito imprenditoriale della classe media britannica e il mercantilismo della corona inglese porta
all’avvio dell'esperienza dell'Est Indian Company. Nel dicembre del 1600 oltre duecento banchieri
e mercanti londinesi avevano fondato l’East Indian Company: è una compagnia commerciale
privilegiata, ovvero, costituita da privati ma che ottiene dei privilegi e dei vantaggi formali da parte
dell’autorità regia e cominciano così dei viaggi mercantili con finalità commerciali che violano il
monopolio portoghese sull'India. L’India è una realtà complessa perché ci sono molti stati e
staterelli ma c’è anche l’impero dei Moghul, impero celeberrimo e atipico (non di religione indù
che poi dominerà ma di religione islamica) in cui il sovrano di stirpe imperiale Moghul accorda
all’EIC il diritto di commerciare e di costruire un emporio a Surat per cui comincia la storia dell’EIC
in India che continua ad aprire basi commerciali e a svolgere funzioni non sono commerciali ma
amministrative per conto dei sovrani dei molti principati e regni indiani: il volume d’affari aumenta
e si complica (diventa più ricca) l'azione della compagnia nel sud continente indiano. Cresce il
ruolo dell’EIC nella India però cresce anche il deficit commerciale inglese (si importa più di quanto
si riesca ad esportare): come si può saldare questo deficit? Esportando mezzi di pagamento,
ovvero, flussi d'oro e d'argento che, secondo la dottrina mercantilistica, impoveriva la Gran
Bretagna indebolendone l'economia. Nel 1701 e nel 1721 aumentano le pressioni da parte degli
allevatori di pecore dei mercanti di lana inglesi per cercare di porre rimedio all'importazione di
cotonate e semilavorati indiane che poi venivano rifinite e apprettate in Inghilterra: il Parlamento
approva due leggi contro l'importazione di queste cotonate per cui l’EIC, trovandosi ancora più in
difficoltà perché deve sostituire in parte questo proficuo commercio, rimedia iniziando un traffico
di oppio tra il Bengala e la Cina in cambio di te, porcellane e lacche cinesi che trovano crescente
popolarità sul mercato inglese d’Europa. L’EIC è più di un gruppo di mercanti perché ha strutture
finanziarie, esercito, un'organizzazione amministrativa sofisticata: tra 57 e 65 partecipa con le sue
truppe alla guerra di successione del Regno del bengala e, in cambio, ottiene la riscossione delle
imposte in tre stati indiani i cui i proventi delle esazioni serviranno per l'acquisto di merci destinate
alla madrepatria (merci da importare in Gran Bretagna) senza far uscire dal paese (dalla
madrepatria) oro e argento. Nel trentennio seguente, assolvendo sempre funzioni pubbliche
delegate dai sovrani indiani, l’EIC prende progressivamente il controllo politico dell'India del nord
est facendo adottare riforme fiscali in questi stati e introducendo principi del diritto comune
inglese come la proprietà privata della terra che non era tipica del mondo indiano. Addirittura, si
arriva a modificare la struttura socio economica tradizionale mirando ad ottenere qualcosa di non
troppo dissimile dalle enclosures: funzionari di stato indiani, fedeli alla compagnia, vengono
promossi al rango di proprietari terrieri all’inglese ma sono senza spirito imprenditoriale perché
non hanno una cultura di certo tipo per cui questa riforma giuridico-agraria simil britannica crea
dei latifondisti parassitari ed usurai che sono favorevoli alla Gran Bretagna che li ha beneficiati di
questa situazione ma sono odiati del resto degli indiani rurali le cui condizioni, invece, peggiorano
fortemente. Nel 1813 termina il monopolio dell’EIC tramonta anche l’attitudine di incivilimento e
prese il sopravvento una politica di sfruttamento: secondo principi di liberoscambismo ante
litteram, l'adozione di dazi minimi spalanca le porte alle importazioni di tela di cotone inglese che
soppiantano le manifatture locali con conseguenze socio-economiche devastanti per l’India rurale.
Finita l'esportazione tradizionale dei tessuti di cotone, ora esporta tessuti funzionali agli interessi
britannici come la tela di juta, il tè, il cotone grezzo e l'oppio contrabbandato in Cina: lungo tutto
l’800, il monopolio governativo della droga è una delle colonne dell'economia indiana e assicura il
secondo oggetto di entrata del bilancio pubblico indo-britannico. A metà 800, il commercio è visto
dagli inglesi come un motore della modernità e vengono fatti investimenti giganteschi nella
costruzione di strade ferrate sostenendo le acciaierie di casa (acciaierie inglesi); in alternativa, si

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sarebbe potuto, spendendo di meno, costruire una rete di canali di irrigazione per ottenere
sostanziali incrementi del volume di cereali e per approvvigionare una popolazione in costante
aumento. Le ferrovie impiantate dagli inglesi, oltre a beneficiare le ferriere, creano condizioni
molto complesse e difficili all'interno dell’India perché aprono dei mercati interni al subcontinente
indiano che prima erano protetti dalla geografia e della mancanza di rapide comunicazioni per cui
ci sono delle economie di villaggio che ora vengono raggiunte dai prodotti industriali inglesi e che
implodono perché, ad esempio, la produzione di cotone locale, secondo criteri tradizionali e
artigianali, è spazzata via. Il processo di penetrazione e conquista da parte dell’EC prosegue fino al
1857 quando nel Bengala i militari indiani (i sepoy) si rivoltarono perché non sopportano lo
stravolgimento degli usi e costumi imposti dalla Gran Bretagna: c’è una repressione violentissima
da parte di Londra e nel 58 viene varato dal parlamento britannico il Governement Act of India con
cui il Parlamento trasferisce alla corona tutti i diritti dell’EIC riducendo il paese allo stato di colonia
della corona britannica. La Gran Bretagna stimola le piantagioni di materie prime industriali come
juta e cotone e questo accentua lo squilibrio dell'agricoltura indiana e impedisce ai contadini di
coltivare secondo le proprie esigenze alimentari: questo contribuisce ad innescare una serie di
disastrose carestie verso fine 800. Abbiamo poi la Prima guerra mondiale e la Seconda guerra
mondiale e arriviamo alla decolonizzazione: dopo essere stata lungamente diretta da Londra,
l'economia indiana non può subito fare a meno delle relazioni con la Gran Bretagna. Nel 1947
abbiamo l’indipendenza subito contrastata perché nel 1947 non nasce l’India ma nascono due stati
per ragioni politiche e religiose: l'Unione Indiana e il Pakistan a seconda della religione professata
dalla maggior parte della popolazione rispettivamente induista e islamica. I capi di governo
succedutosi alla guida del paese (India indipendente) si diedero per obiettivo primario la crescita
dell'economia insieme all’equità sociale (attenuare le diseguaglianze socio-economiche). Per alcuni
decenni, pur non diventando affatto un paese comunista, l'India chiede e ottiene aiuto dai tecnici e
dagli economisti sovietici (dall’Unione Sovietica): piani quinquennali e pluriennali vengono varati a
partire dal 1950 con il modello sovietico (non c’è la collettivizzazione comunista dell’economia).
Quali sono gli scopi? Modernizzazione agricola, sviluppo di un’industria di base, trasporti e
infrastrutture, assistenza sociale, elettrificazione del paese non solo per l’industria pesante ma
anche a favore di una diffusa meccanizzazione dell’artigianato e delle manifatture domestiche;
altro elemento importante è l’iper-protezionismo, ovvero, protezionismo marcato: abbiamo un
forte intervento dello stato e della burocrazia e forte protezionismo. Il raggiungimento pieno di
questi obbiettivi è reso difficile da due elementi: costanti conflitti interreligiosi e politici e
l'incremento demografico serrato e rapido. Queste politiche continuano per molto tempo ma non
sono particolarmente efficaci: è vero che si sviluppano situazioni favorevoli ma negli anni 70
aumenta l'interesse per la cooperazione internazionale a favore della modernizzazione tecnologica
e degli investimenti in settori orientate all’esportazione. Questi sono i prodromi di una successiva
apertura verso l’interno e verso l'estero: nei primi anni 80, il governo indiano capisce che conviene
seguire la via intrapresa dalle quattro tigri, ovvero, abbattere le difese daziarie, aumentare i
prodotti da esportare, diminuire il peso della burocrazia e promuovere la concorrenza e
l'efficienza; per fare ciò, però, bisogna incentivare investimenti esteri diretti e favorire lo
spostamento di manodopera dal dominante e arretrato settore primario al secondario: il nuovo
indirizzo dà dei risultati interessanti perché il tasso di povertà inizia a diminuire. Nell’82 c'è un
evento rilevante perché viene erogato dal fondo monetario internazionale il prestito più
consistente mai erogato fino ad allora per 5 miliardi di dollari: questi soldi vengono utilizzati per
correggere gli squilibri della bilancia dei pagamenti causati dalla crisi petrolifera e per continuare
ad importare macchinari, attrezzature e materie prime per l'industria e tecnologia aggiornata per
lo sviluppo. Nel 1991, altro elemento simbolico, l’India entra nel WTO e si accelera il processo di
riforme economico fiscali e di liberalizzazione del mercato per cui diminuisce la presa dello stato
sull’economia; fino ad ora stiamo vedendo una serie di passi che vedono l'India entrare

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progressivamente e in modo più competitivo in un'economia globale. Un altro passo è quello della
convertibilità della rupia (la rupia diventa convertibile nelle maggiori valute) e, inoltre, aumentano
significativamente gli investimenti di capitale estero nelle imprese indiane, specialmente in quelle
orientate totalmente all’esportazione. L’economia regge questa liberalizzazione e l’India imbocca
in modo più deciso la strada dello sviluppo: dopo qualche titubanza, inizia a crescere anche il tasso
di crescita economica negli anni 90 tra il 4% e il 7%. Nell’India ci sono comunque grandi
diseguaglianze, ci sono sacchi di poter povertà, un indebitamento importante, c'è stata una
difficoltà della rupia ma tra fine 900 e inizio ventunesimo secolo ci sono stati anche degli sviluppi
importanti: ad esempio, importante è l’Information Technology (ICT); in India ci sono anche dei
centri di eccellenza universitaria e di formazione della classe diligente e ci sono molte attività di
servizi che vengono esportati perché, ad esempio, ci sono molti centralini. Il settore dei servizi è
precocemente sviluppato in India per diverse ragioni: la domanda che viene dagli altri due settori,
le trasformazioni tecniche e strutturali che inducono le imprese ad affidare all’esterno operazioni
tradizionalmente prima svolte in casa, l’incremento industriale che causa un più che proporzionale
incremento della domanda di prestazioni burocratiche, il ruolo delle riforme, incremento della
domanda estera. L’India, inoltre, è diventata un’importante impresa industriale perché ci sono
delle imprese importanti come le acciaierie. L’India non ha quindi conosciuto un processo di
sviluppo paragonabile, per intensità di ritmo e di dimensioni, a quello della Cina ma è comunque
un processo importante: l’India ha delle differenze significative rispetto alla Cina perché l’India è
una grande democrazia, è un paese che ha una dinamica demografica più intensa di quella cinese.
GLI USA DAL NEW DEAL ALLA GRANDE CRISI D’INIZIO MILLENNIO (1933-2015)
Cominciamo a vedere la dinamica demografica: dal 46 alla fine degli anni 50, c’è il vero e proprio
baby boom, ovvero, una notevole crescita della natalità dovuta al ricongiungimento delle coppie
separatasi in guerra, al miglioramento del tenore di vita che consente di celebrare più matrimoni e
precoci, al calo di mortalità infantile derivante anche dai migliori standard di vita anche delle
famiglie meno abbienti. Nel periodo 1940-2010, nessuno dei paesi più economicamente più
avanzati al mondo ha avuto una crescita demografica paragonabile a quella statunitense:
l’accelerazione di fine secolo, dopo un trentennio di graduale rallentamento della crescita
demografica (crescita più lenta), è dovuta all’immigrazione non solo degli europei ma soprattutto
da persone che provengono dal Messico e dai Caraibi; gli immigrati rappresentano il 17% della
popolazione attiva e il loro continuo arrivo ha influenzato i livelli dei salari mantenendoli piuttosto
stabili o abbassandoli. La bassa età media degli immigrati ispano-americani, che è quella più bassa
tra tutti i gruppi etnici, e la loro alta natalità sono dati che hanno indotto molti studiosi ad
ipotizzare che, attorno al 2025, gli immigrati possano rappresentare quasi un quarto della
popolazione. Nel settantennio di cui parliamo, gli americani sono cresciuti ma si sono anche
redistribuiti nelle nove macro regioni del paese: non dobbiamo solo guardare i numeri ma
dobbiamo vedere come la accresciuta popolazione statunitense si distribuisce nella realtà
geografica, sociale e territoriale del paese. La geografia umana è cambiata: movimenti interni e
migrazioni interne sono legate alla ricerca di lavoro presso imprese che, dagli anni 80, furono
incoraggiate ad aprire nuove sedi e nuovi reparti lontano dal New England e dalle aree più
industrializzate per cui il peso relativo alle nove macro regioni è cambiato in stretta correlazione
con il progredire/regredire delle attività economiche. Anche la geografia urbana è cambiata in
modo significativo: fino agli 50, i maggiori centri urbani erano concentrati nel nord est e nel
midwest (New York, Chicago) ma tra gli anni 60 e 70 vi fu un crescente esodo dalle metropoli per
insediarsi nelle suburban area o in nuovi agglomerati urbani. Dagli ultimi anni 70 stati e contee del
sud e dell’ovest cominciano ad investire risorse per sostenere le economie locali e le università.
Nel lungo periodo, gli stanziamenti finanziari e le agevolazioni per incoraggiare le imprese a
trasferirsi o impiantarsi nelle città e negli stati prima periferici premiano il sud e l’ovest: questo

121
avviene anche grazie ad una diversa modulazione delle imposte locali e di vincoli ambientali. Ecco
trionfare città come in Miami, Los Angeles, San Francisco, città del Texas: “le maggiori città sono
ormai diventate grumi metropolitani ad alta densità di abitanti dispersi in vasti arcipelaghi di
suburbi”. Oltre ai dati demografici, importanti sono anche quelli istituzionali: parlando del New
Deal, si sottolineano i durevoli effetti istituzionali del New Deal per cui il New Deal non è solo una
realtà che ha rilanciato l’economia americana o che ha attenuto l’impatto devastante della grande
depressione ma è anche una realtà che ha cambiato la società americana e, con la sua ampiezza, le
stesse istituzioni. Tra il 33 e il 38, per fronteggiare l’emergenza economica e sociale, Roosevelt
attivò 21 agenzie governative maggiori e molte altre minori, cambiando radicalmente le funzioni e
la percezione dello Stato federale in un paese che fino ad allora aveva una presenza della
burocrazia federale particolarmente snella. La capitale, Washington, concentra un grande potere
di intervento nell'economia e nella società e le dimensioni dell’amministrazione pubblica centrale
esplodono: il New Deal fu, anzitutto, una rivoluzione della pubblica amministrazione che integrò,
secondo metodi meritocratici, competenze e funzioni prima sconosciute o scollegate e, per la
prima volta, porta in prima linea (alla ribalta) scienziati, tecnici e figure che vengono dal mondo
cattolico e dal mondo ebraico, integrando così due gruppi socio religiosi che giocheranno un ruolo
importante. Lo stato interviene nell’economia realizzando grandi opere pubbliche
(l’elettrificazione diffusa lontano dalle città), creando una sorta di welfare state a vantaggio della
manodopera senza lavoro e riordinando l'agricoltura con una legge quadro. Larga parte della
popolazione americana appoggiava le politiche di Roosevelt ma la vera opposizione al New Deal
non venne tanto dal partito repubblicano quanto dalla Corte Suprema che boccia numerose
misure. L’approvazione del National Labor Relations Act cambiò le relazioni industriali negli Stati
Uniti promuovendo la razionalizzazione del commercio dell'industria, fissando il salario minimo e il
tetto massimo dell’orario settimanale di lavoro, venne istituita un’agenzia governativa: ci sono
quindi più tutele per la classe lavoratrice americana; i sindacalisti dei maggiori settori industriali si
unirono nella Committee for Industrial Organization (CIO) mobilitando gli operai con scioperi,
aumentando le iscrizioni ai sindacati che raddoppiano. Nel 47 circa 13 milioni di operai e di
impiegati aderivano ad un sindacato e la collaborazione tra stato e associazioni sindacali aveva
nettamente migliorato il tenore di vita di gran parte della manodopera anche se si comincia così ad
alimentare, nei conservatori e nelle aree più reazionarie del paese, l'idea che in America si
preparasse una rivoluzione comunista (la paura rossa): tra il 49 e 50, questa paura cresce perché in
questo periodo abbiamo la vittoria di Mao che trasforma la Cina in un enorme paese comunista, la
prima bomba atomica dei sovietici e lo scoppio della guerra di Corea. La risposta dell’America più
conservatrice è la famosa purga anticomunista che sarebbe durata fino al 56 con il famoso
maccartismo, dal nome di McCartney che avvia una vera e propria caccia alle streghe pubblicando
liste di impiegati del dipartimento di stato accusato di comunismo. Ad un certo punto c'è una
reazione dell’America meno estremista e questa reazione è guidata anche da Dwight D.
Eisenhower, il quale smaschera il gioco di McCartney e smantella questa visione eccessiva di una
lotta contro il comunismo che stava per prendere il sopravvento nel mondo per cui si ritorna ad
una situazione più equilibrata. Negli anni 50, il contesto è quello della nascente guerra fredda e nel
1940 a Washington 3,4 milioni lavoravano per gli stati e le comunità locali e nel 60 arrivavano a
quasi 9 milioni di persone; negli anni 70 si sarebbe arrivati a 15 milioni. Alla moltiplicazione dei
dipendenti pubblici concorre anche un forte aumento delle forze armate. Nel 65, la Social security
Act, varato dal successori di Kennedy (Johnson), approva nuovi programmi di assistenza medica. Il
sistema sanitario americano è molto diverso da quello europeo perché qui la salute è considerata
un diritto mentre in America la salute è considerato un bene per cui chi ha il posto di lavoro ha
anche un'assicurazione e l'assistenza medica è garantita da questo tipo di assicurazione. La riforma
dell’Obamacare (Affordable Care Act), ovvero, la legge sulle cure che induce l'accesso dei cittadini
statunitensi alle assicurazioni sanitarie e che aveva esteso a circa 31 milioni di altri cittadini privi di

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copertura ma e ancora oggi sotto attacco da parte delle forze più conservatrici. Il sistema
americano, che ha delle punte scientifiche di straordinaria eccellenza, dal punto di vista
dell'assistenza media, è molto deficitario e iniquo: non è solo molto iniquo perché lascia milioni di
persone prive di copertura sanitaria ma è enormemente più costoso degli altri per cui non è
efficiente perché è estremamente costoso. Possiamo definire questa società come una società in
subbuglio, ovvero, una situazione di instabilità, di tensione, di una certa confusione ma in questo
subbuglio si può si possono vedere i prodromi di mutamenti importanti e cominciamo da una dato
demografico: tra il 1940 e il 1970, 5 milioni di neri lasciarono gli stati del sud per trasferirsi verso il
nord in cerca di lavoro lasciando posti nel settore primario (settore primario) che si stava
meccanizzando verso il settore secondario e terziario. Questo acuisce il tema della segregazione
razziale che era stato tutt’altro che risolto dal passo avvenuto durante la guerra di secessione
americana con l’abolizione della schiavitù: essere liberi, dal punto di vista giuridico, non significa
essere in condizioni di parità economica, sociale e civile ed essere pienamente inseriti in società
perché ci sono stati, soprattutto al sud, in cui la segregazione non era solo un aspetto di fatto ma
era anche, dal punto di vista amministrativo e giuridico, concepita come tale (bagni separati, locali
separati, autobus separati). Questo nodo della segregazione razziale è evidente: negli anni ci sono
stati episodi violentissimi come vere e propri stragi di cittadini di colore; il nodo diventa sempre
più importante anche perché c’è comunque una parte della società non solo nera americana che
non è più disposta ad accettare passivamente. Tra il 57 e il 64, ci sono anni molto duri da questo
punto di vista perché nel 57 il presidente Eisenhower, che non era un uomo di sinistra ma era un
repubblicano attento agli sviluppi sociali, mandò le truppe federali in un liceo dello stato del sud
per garantire l’ingresso impedito a 9 studenti neri dalla guardia nazionale per questo è un
momento importante di affermazione del potere federale sugli stati del sud. Nel 64, invece, il
parlamento degli USA vota due leggi di emancipazione dei neri volute da un grande presidente
riformatore Lyndon Baines Johnson: queste due leggi furono il civil right act e il voting right act che
moltiplicarono gli elettori di colore nelle votazioni federali, in quelle statali e in quelle locali;
queste due leggi furono fondamentali ma non chiusero definitivamente la questione. Anche il
potere giudiziario, in alcuni casi, emise delle sentenze favorevoli alla desegregazione e tutto
questo arrivò in seguito ad un lotta di forze dell’universo di colore e la figura più famosa fu quella
del carismatico leader religioso e politico non violento Martin Luther King, ucciso nel 68 per
contrastare questa sua azione. A partire dal 69, il presidente repubblicano Richard Nixon, tuttavia,
adottò della misure che contribuirono a non frenare eccessivamente l’integrazione infatti
promosse la completa integrazione di tutte le scuole del paese scavalcando i governatori dei
singoli stati e suscitando forti resistenze nel suo stesso partito e al sud. Intanto i movimenti per
l’integrazione dei neri e per i diritti civili si collegavano con i movimenti giovanili che, nei campus
universitari, contestavano le forme di alienazione, di sfruttamento, di diseguaglianza al dominio
del sistema capitalistico che aveva negli USA la punta di diamante/il massimo della sua
espressione; neri e giovani universitari confluiscono quindi in un movimento di contestazione alla
guerra nel Vietnam che diventa un momento cruciale in senso negativo della società americana e
in questi movimenti confluirono anche forze afro-americane, nativi americani, indiani, pacifisti. Tra
il 65 e il 75 è il momento dell’abbandono di Saigon, nel Vietnam del sud gli Stati Uniti avevano
schierato quasi 9 milioni di soldati in una guerra durissima, in condizioni ambientali e strategico-
tattico difficili e 58 mila americani morirono nel Vietnam e un numero molto più ampio ne tornò
stressatissimo con gravi difficoltà psicologiche, propensione alla tossico dipendenza, sofferenze di
carattere psichiatrico ed emotivo. La controcultura giovanile è una controcultura che nasce dal
rifiuto dell’autoritarismo, del conservatorismo e di quel tipico puritanesimo della borghesia
americana: si propone invece il pacifismo contro la guerra del Vietnam e contro il militarismo
americano, l'egualitarismo, la libertà sessuale contro i costumi borghesi e il perbenismo; ci sono
fenomeni come la musica rock'n'roll, l’uso di droghe che spesso si collega a queste situazioni,

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l'abbigliamento casual e provocatorio, i figli dei fiori, Il fascino per le religioni orientali, in alcuni
casi se arrivano a vite condotte in comunità promiscue che sono l'opposto della famiglia borghese
americana: sono quindi delle sfide alla mainstream della società americana. La stessa tensione
nella comunità afroamericana, con la rivolta dei neri, diventa violenta con centinaia di sommossa
in tutto il paese e con a volte decine di morti per cui possiamo parlare di “una miscela di processi
socio culturali fuori controllo che colpiva l'immaginazione dell'opinione pubblica e ne induceva la
maggioranza a vedere il futuro con pessimismo”: questo subbuglio è complesso perché ci sono
manifestazioni violente ma ci sono anche espressioni di esigenze, alternative e sofferenze notevoli
a cominciare da quelle della comunità nera. Il problema è che, in questo contesto, una società
grande, forte e ricca come quella degli Stati Uniti non può rimanere in preda di un subbuglio di
questo genere e questo, in qualche misura, si lega anche ad una certa sofferenza economica e
sociale, ovvero, la seconda metà degli anni 60 non è più così prospera come i decenni precedenti
ed ecco quindi che, in qualche misura, si diffonde un pessimismo. In questo contesto quindi ci
sono coloro che contestano ma ci sono anche persone appartenenti al ceto medio (la maggioranza
silenziosa) che comincia a preoccuparsi, che comincia a vedere un futuro pessimista e che
vorrebbe maggiore tranquillità. C’è questa guerra che porta vittime, spese e tensioni: le spese
militari crescono non solo per questa guerra e ci sono spese molto in crescendo in relazione alle
forze di polizia statale e federale perché l'ordine pubblico è spesso minacciato; inoltre i bilanci
degli stati e dello Stato centrale e federale sono in rosso: il dollaro stava perdendo rispetto al
marco tedesco e lo yen giapponese, l'inflazione cresceva e alcune imprese straniere acquistano
partecipazioni e controllo di società statunitensi ho impiantano fabbriche sul suolo statunitense.
Inoltre dal 73 questo processo inflazionistico si acuisce ulteriormente e la crescita delle materie
prime e delle risorse energetiche tra cui il petrolio si collega al fenomeno della stagflazione per cui,
a parità di salari nominali, il potere di acquisto di molti di questi salari dei lavoratori statunitensi
diminuisce: se il salario nominalmente rimane stabile e il livello dei prezzi aumenta ecco che il
potere d’acquisto decresce. La disoccupazione, dopo decenni di quasi pieno impiego, comincia a
crescere e alimenta ulteriormente questo senso collettivo di insicurezza e di disagio (questo
subbuglio). Tutto ciò non può durare indefinitamente ed ecco che si prepara una risposta politica a
questo clima di confusione di principi e di valori patriottici da un lato e di declino della potenza
economica e strategica degli Stati Uniti (della reputazione di grande potenza) che perde la guerra
del Vietnam dall'altro: questa risposta politica viene con una serie di vittorie elettorali dei
repubblicani soprattutto negli stati del sud, con elezioni di governatori e assemblee legislative
statali (dei singoli stati) che appunto vedono il partito repubblicano trionfare; si hanno degli effetti
anche a livello nazionale perché nel 68 il repubblicano Richard Nixon, che era già stato sconfitto
all'inizio del decennio, batte il candidato democratico Hubert Humphrey. Vediamo quindi una
società che, attraverso spasmi anche violenti, si trasforma comunque e vediamo le dinamiche
economiche nel lungo andare: dal 38 al 2007 vediamo quattro cicli distinti di cui due più breve due
più lunghi. 38-47, 48-75 sono i due primi cicli che furono caratterizzati da tassi di sviluppo
economico, prima di allora e fino, ad oggi insuperati negli Stati Uniti: sono gli anni del trionfo del
modello americano, dell'immagine americana e della sostanza dell'economia americana; il terzo
ciclo 75-88 è caratterizzato dai rialzi dei prezzi internazionali delle materie prima tra cui petrolio a
causa della stagflazione: abbiamo un deficit della bilancia commerciale e dei conti pubblici e la crisi
di borsa tra 87 e 88 chiude questo periodo difficile sotto tutti i punti di vista come politico, sociale,
psicologico economico. Il quarto ciclo 89-2007 coincide con l'avvio di una profonda trasformazione
degli assetti socio economici negli Stati Uniti ma anche in una parte più ampia del mondo
occidentale. Prima di cominciare a vedere queste varie fasi, dobbiamo dire che la Guerra Fredda
verso la fine del terzo ciclo è economico svanisce per l'implosione dell'unione sovietica e del suo
impero. Gli Stati Uniti, inoltre, attraverso una fase importante perché smettono di essere il
principale creditore Dell'economia mondiale per trasformarsi in pochi anni il maggiore debitore.

124
Per quanto riguarda il decennio di grande sviluppo 39-47, il PIL in questo periodo cresce ad un
ritmo annuo molto significativo pari al più 6,6%: il motore della domanda fu il governo federale
perché, da un lato, c'è la continuazione delle politiche economiche del New Deal (33-44) che
avevano aiutato a contenere gli effetti della grande depressione ma anche e soprattutto il
poderoso sforzo che, tra il 41 e il 45, l'economia statunitense avrebbe svolto per finanziare non
solo il proprio impegno bellico enorme ma anche quello degli alleati (Francia Gran e Bretagna). Gli
effetti furono impressionanti: nel 45, in termini reali, il PIL era cresciuto del 70% rispetto al 39 e
viene raggiunto il pieno impiego. Inoltre, il presidente Roosevelt, che governò per 12 anni, e il suo
erede Truman (45-53) promossero una spettacolare redistribuzione della ricchezza verso il basso:
ciò non vuol dire che siamo in una versione degli Stati Uniti social-comunista ma vuol dire che
vengono introdotte delle correzioni che rendono più egualitaria la società americana; abbiamo
quindi provvidenze per i lavoratori, tasse con aliquote più elevate per ricchi e benestanti,
incremento dell'imposta di successione. C'è una crescita sostenuta dei salari che permette a molti
americani dei quartieri periferici e delle campagne di vivere in modo più decoroso e meno sofferto
di quanto avvenisse prima. La grande ricchezza che, tra i primi del 900 e il crollo di Wall Street, si
era concentrata in misura crescente nelle mani di alcune decine di famiglie ricche, dalla fine degli
anni 20 era stata sottoposta ad un'energica cura dimagrante: stiamo parlando di un modello
ancora fortemente capitalista con enormi differenze di reddito in cui però queste differenze
vengono in parte attenuate. Perché c'è questa cura dimagrante per i più ricchi? Il crollo di Wall
Street aveva tagliato i patrimoni finanziari: nel 29 il 70% dei dividenti distribuiti, prima della crisi,
dalle società quotate era stato incassato dall’1% degli azionisti (capiamo che c'era una forte
concentrazione anche se la cosa importante degli anni precedenti alla crisi era stata quella
diffusione tra gli azionisti che non sono solo i ricchi o le grandi imprese: questo è importante
perché poi l’impatto sarà significativo ma questo non significa che non ci fosse stata una forte
concentrazione delle azioni); inoltre, abbiamo un imposta federale progressiva sul reddito, votata
durante il primo mandato di Roosevelt, che porta il prelievo sui redditi individuali al 63% e poi
addirittura il 79% per i più ricchi e, infine, abbiamo l’inasprimento dell'imposta di successione. Dal
41, la politica economica di fortissima spesa statale guadagna un crescente consenso anche tra
l'elettorato repubblicano che, spesso, negli anni successivi, avrebbe votato e sostenuto a livello di
opinione pubblica per Roosevelt. Vengono votate misure come un fondo pensione per i pubblici
dipendenti, l'assicurazione contro la disoccupazione che diventano norme irrevocabili e i sindacati
ormai sono una parte importante del panorama politico sociale americano. Dal 47 comincia a
diffondersi un’edilizia di piccole case indipendenti nelle periferie dei centri abitati, le catene di
supermarket, si crea un ceto medio prima inesistente fatto di lavoratori dipendenti manuali e
intellettuali ben pagati in cui salari erano così alti da poter anche consentire alle loro mogli di non
lavorare fuori casa (nasce la figura del house wife). Spesso, l'automobile diventa un elemento
fondamentale e i consumi delle famiglie, appena finita la guerra, diventano la quota maggiore
della domanda aggregata, superando quella funzione della spesa pubblica: è un radicale
coinvolgimento che stava spostando verso il ceto medio il fulcro dell’economia. Stanno cambiando
le cose anche perché la situazione è mutata, la guerra è finita e se ne traggono i benefici perché
l'economia americana, grazie a questo sforzo bellico, si è fortemente ripresa e a questa fase di
grande sviluppo vediamo seguire i cosiddetti anni d'oro dell'economia americana tra il 48 e 73, i
quali coincidono, seppure con caratteristiche un po’ diverse, con quelli dell’Europa occidentale e
del Giappone tenendo però conto che gli Stati Uniti erano più avanti (avevano già concluso la loro
seconda rivoluzione industriale e si stavano avviando sulla strada di una significativa
terziarizzazione dell'economia). Nel biennio 48/49, in cui In Europa occidentale si avvia il piano
Marshall, le grandi imprese industriali americane e le grandi imprese americane della grande
distribuzione (nel settore terziario) completano il ritorno ad un’economia civile con tutto quanto
ciò implica per le loro strutture, la loro organizzazione e l'economia. Qui entriamo anche nel

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discorso del “soft power”, ovvero, quella forma di influenza politica strategica che non deriva solo
da l'essere forte dal punto di vista militare e strategico (cosa che gli Stati Uniti sono) e non solo
dalla potenza economica in senso stretto (produrre tanto, vendere molto e dominare i mercati con
i propri prodotti) ma c'è anche c'è anche questo modello del “American wave of life”, la cultura
americana, il romanzo americano, la cinematografia, la quale è uno strumento importantissimo di
soft power; il soft power, ovvero, il potere morbido è un modo di influire su altri paesi e sulle loro
popolazioni non con la forza o con la prepotenza economica ma anche convincendoli che il loro
modello di sviluppo è il migliore: c'è la penicillina che può curare le malattie, la Coca Cola, le serie
televisive , la letteratura , i fumetti, l'abbigliamento per cui tutto questo vede riversarsi verso
l'estero, con le merci americane, anche la cultura americana come un modello di vita. Le
tecnologie in senso meccanico e scientifico, le tecniche e le pratiche gestionale, i prodotti e
modelli di consumo in occidente e in Giappone imitano quelli statunitensi e questo non può non
avere un impatto anche sull’economia e sulla società americana oltre che in questi paesi. La
crescita economica degli Stati Uniti, che non ha più quei livelli elevati del decennio precedenti, non
va valutato solo in termini quantitativi ma, ad esempio, bisogna valutare anche la qualità del
capitale umano che è in crescita e l'impiego di manodopera meglio preparata: i 54 milioni di posti
di lavoro esistenti nel 45 sono 63 nel 50. L'accumulo di tecnologie di innovazioni produttive
derivate dalla ricerca ed allo sviluppo diventano sempre più importanti, il quale aveva anche una
derivazione bellica e si diffonde nell'industria americana e anche rimbalza in Europa occidentale in
Giappone: l’OAC corporations diventano sempre più centri di ricerca di innovazione e quando non
è sufficiente il laboratorio aziendale si collabora strettamente con le università e i loro laboratori;
c'è quella che viene chiamata una “circolazione di cervelli” che, non di rado, lasciano i laboratori
delle università e vanno a lavorare direttamente nei reparti delle grandi imprese per cui c'è una
situazione di positiva collaborazione. Tra il 49 e il 61, circa l' 80% delle risorse federali (statali) per
la ricerca vengono destinate al comparto difensivo che continua ad essere un elemento cruciale
dello sviluppo economico, tecnologico e scientifico americano: dobbiamo tenere conto di quanto
avviene nel mondo perché c'è la guerra di Corea (50-53) in cui all'inizio si teme possa essere una
terza guerra mondiale, c'è lo scontro/confronto freddo con il mondo comunista, c'è il lancio dello
sputnik, l'iniziale preminenza e vantaggio dell'industria aeronautica e dei satelliti sovietica. Dal 61
al 65, invece, sotto i presidenti democratici Kennedy e Johnson, la spesa per armamenti scese al
50% comprendendo anche le risorse per la NASA e rimasero a quel livello fino al 81; questo
significa che gli investimenti direttamente e già in partenza destinati da parte del governo federale
alla ricerca civile crescono. Questo, insieme a tutta una serie di investimenti e di ricerche da parte
delle imprese private, accresce la produttività del lavoro e abbatte nettamente la disoccupazione
maschile. Dobbiamo però considerare che, non di rado, la ricerca bellica (in campo strategico
militare) ha poi delle ricadute a volte nemmeno immaginate che comportano dei miglioramenti di
tecniche e conoscenze scientifiche per utilizzi civili: questo, in parte, è il caso di alcune componenti
che poi consentiranno di creare l’industria dei computer e la stessa internet ha origine, almeno in
parte, da questa ricerca. Così come alcuni sviluppi fondamentali nella navigazione satellitare e i
laser sono collegati ad una fase di forte sviluppo della ricerca bellica negli anni 80, le cosiddette
star wars, in cui l’amministrazione Reagan (amministrazione repubblicana fortemente
conservatrice e convinta della necessità di restaurare il prestigio americano all’estero) aveva
lanciato una sfida al rivale strategico sovietico con un sistema antimissile sofisticato chiamato
appunto star war. Questa vicenda è significativa e la motivazione è strategica: le guerre stellari,
però, non arrivarono mai a compimento perché questo sistema era troppo sofisticato tale per cui
non era realizzabile ma ci furono comunque degli effetti molto importanti: il primo fu di
costringere l’unione sovietica ad un ulteriore sforzo che non era in grado di sostenere (questo
contribuì a mettere in difficoltà ulteriormente un’unione sovietica già molto provata da questa
situazione) ma ci furono anche effetti sul piano economico/tecnologico interno perché, ad

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esempio, alcune delle tecnologiche che vennero studiate e non vennero applicate alle star wars
vennero poi sviluppate ed ebbero una ricadute sulle tecnologie e sulle conoscenze per utilizzi civili
e militari in altri contesti come GPS o laser. Nel periodo 48-73, il reddito reale medio annuo da
lavoro dipendente raddoppia e anche i redditi da rendite e da profitti aumentano sicché, in questo
periodo, la ripartizione relativamente più equa o meno iniqua, creata dalla pressione fiscale
rooseveltiana negli anni 30 e 40, non subì apprezzabili mutamenti: ci fu quindi, di pari passo, una
democratizzazione economica della società americana (non si tratta di una società egualitaria
comunista ma ci sono delle attenuazioni e degli sviluppi in questo senso). Nel 55 oramai una
maggioranza di famiglia aveva un auto che era anche uno status simbolo oltre che uno strumento
indispensabile e nel 70% delle abitazioni delle famiglie private americane c’era un telefono. Non
possiamo però comprendere il predominio e l’importanza dell’economia americana in una
prospettiva mondiale se non valutiamo il ruolo perno del dollaro: nel 44 gli accordi di Bretton
Woods scelgono il dollaro e ancorano le relazioni commerciali e finanziarie internazionali al dollaro
convertibile in oro e, per molti decenni, questo dollaro avrebbe permesso agli USA di dominare
l’economia mondiale e, anche oggi, dopo 49 anni dalla sospensione della convertibilità, il dollaro è
comunque uno strumento fondamentale economico e strategico. In questo periodi, gli industriali
americani investirono miliardi di dollari all’estero, facendo del paese il maggior creditore al
mondo: gli imprenditori americani stabilivano forti presidi industriali in Europa occidentale, le
valute estere entravano e uscivano liberamente dagli USA e Wall Street divenne il mercato
finanziario più importante e affollato di investitori stranieri. I risparmiatori tornano a puntare sulle
azioni e, a circa 25 anni dal crollo di Wall Street, il credito e la finanza statunitensi riguadagnano un
ruolo di grande prestigio e di assoluta centralità; la classe media riprende ad investire in borsa e al
crescente numero di privati investitori si aggiungono nuovi attori e nuove istituzioni finanziarie tra
cui, in particolare, i fondi comuni di investimento delle banche. Assistiamo ad una fase di crescente
ottimismo e di desiderio di poter godere sia materialmente che in termini di ostentazione/di status
simbolo di una gamma di beni e di servizi il cui consumo aveva anche un elevato valore simbolico
che non deve essere sottovalutato: si conferma quindi la leadership e la precocità di decenni
dell’economia nordamericana in fatto di produzione e consumo di massa; tra l’altro, il paese è
pressoché al livello del 1950 ed è pressoché totalmente elettrificato grazie anche agli investimenti
infrastrutturali del New Deal che avevano riassorbito disoccupazione ma che avevano arricchito le
infrastrutture statali e, naturalmente, questo aveva favorito la diffusione capillare e molto più
precoce rispetto all’occidente degli elettrodomestici: le famiglie americane ora coprono le
televisione, nel 52 viene prodotta una 33 giri o long play, nel 57 viene introdotta la rivoluzionaria
macchina fotografica della Polaroid che sviluppava e stampava le foto scattate pochi minuti prima
senza andare dal fotografo, le auto private diventano sempre più diffuse, abbiamo lo sviluppo dei
cibi surgelati che cambino il consumo di decine di famiglie, l’introduzione dell’aria condizionata, le
carte di credito (VISA, MASTERCARD) cominciano ad arricchire e a diventare cruciali. Per la prima
volta, nella storia degli Stati Uniti, una riduzione della disparità dei redditi tra lavoratori manuali,
quadri intellettuali e professionisti migliorò la qualità della vita sociale e culturale complessiva del
paese; in quegli stessi decenni, nel settore agricolo delle grandi fattorie industriali (big farms), si
ottennero incrementi di produttività in qualche caso largamente superiori a quelli dell’industria: la
manodopera impiegata nel settore calò molto per effetto dell’attrazione esercitata dall’industria e
dal terziario che erano costantemente in espansione e anche per la sostituzione del fattore lavoro
rurale nelle campagne con macchine. Bisogna tenere conto che macchine più potenti e più veloci,
sementi meglio selezionate e molti più concimi chimici incrementano l’efficienza e le rese del
grano raddoppiano, quelle del mais triplicano, la produzione di cotone greggio aumenta e, inoltre,
il governo federale continua a sostenere i redditi degli agricoltori con prezzi minimi garantiti:
anche il mondo rurale si trasforma e si modernizza (non è piè l’asse importante del paese ma è
comunque ancora significativo). Si va verso una progressiva terziarizzazione infatti la

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moltiplicazione degli scambi di merci accelerò anche la produzione e la vendita di servizi con
campagne pubblicitarie radiofoniche, televisive e sui giornali mai vista prima e poi c’è un ambito
nuovo o rafforzato come il cinema, teatro, i viaggi turistici, l’istruzione superiore che è vista come
un investimento in capitale umano, le comunicazioni sociali (radio, televisione, giornali), catene di
alberghi, ristoranti, lavanderie a gettone, le public libraries; anche i servizi pubblici che, rispetto ad
altri paesi, sono relativamente carenti, sono comunque in parte riorganizzati. A questa fase segue
una fase di crisi inteso non come tracollo americano ma come significative difficoltà con momenti
di trasformazione in cui si offrono delle opportunità: sappiamo che nella seconda metà degli anni
60, la politica johnsoniana sociale della Great Society, della Social Security, Medicare, diritti civili e
diritti di voto insieme con l’ingente spesa pubblica per la guerra in Vietnam e per gli aumenti di
salari concessi a operai ed impiegati, nel biennio 68-69 innescano un processo inflazionistico che
sfiora nel 1970 il 6%: c’è un eccesso di carta moneta e di carte di credito in circolazione per cui un
eccesso di mezzi di pagamento rispetto a quella che è l’entità dei beni acquisibili; nel 71 il
presidente Nixon si trova con un’inflazione quasi all’8% mentre nel 73 abbiamo le vicende
dell’embargo dei paesi arabi esportatori di petrolio, la stagflazione: c’è un ulteriore fiammata
inflazionistica e, nel 1980, 14,8% annuo inflazione negli Stati Uniti. Nei paesi importatori, Stati
Uniti in primis ma anche Gran Bretagna, comincia a diffondersi un’ideologia conservatrice sul
piano delle relazioni internazionali ma anche dell’organizzazione socio-economica interna: mettere
in ordine la propria casa, poca attenzione sociale e più attenzione ai valori tradizionali e
all’efficienza dell’economia, molto meno stato perché lo stato non è la soluzione come dice
Reagan nell’81 nel giuramento dichiarando che “Nella crisi che stiamo attraversando, il governo
non è la soluzione del nostro problema ma il governo è il problema” (ecco quindi un insieme di
fattori politici ed ideologici con l’idea che il privato è meglio anche se, nella realtà, l’ideologia viene
meno adattata alle situazioni); per Reagen è il mercato il grande taumaturgo dei politici liberali e
conservatori e degli economisti liberisti che stanno soppiantando la moda keynesiana che aveva
dominato per decenni. Secondo la visione reaganiana, l’amministrazione pubblica federale è
eccessivamente amplia per cui va diminuito il numero di impiegati burocrati, lo stato sociale
ereditato dal New Deal è troppo costoso/esteso, l’imposizione fiscale progressiva è troppo gravosa
sui redditi più alti e ne indebolisce le capacità di risparmio e di investimento per cui intralcia il
funzionamento del libero mercato perché i più ricchi devono poter risparmiare, investire,
spendere; le funzioni dell’amministrazione federale devono essere ridimensionate così come il suo
organico e deve essere messa in atto la cosiddetta “deregolamentazione” perché troppi lacci
frenano l’economia. Tra le soluzioni identificate dall’area reaganiana c’è la Laffer Curve, ovvero,
un’ipotesi avanzata da un’economista secondo cui al crescere delle aliquote e del prelievo fiscale
sulla ricchezza prodotta, le entrate pubbliche calavano o potevano calare: minor prelievo avrebbe
più che proporzionalmente accresciuto le entrate e lasciato nelle tasche dei contribuenti più
risparmio che, investito, avrebbe prodotto, in realtà, ricchezza. L’esito sarebbe stato più crescita
con meno stato: in realtà, questo viene realizzato solo in parte perché il taglio delle imposte
federali è un fatto (viene approvato) ma l’obiettivo di abbattere la spesa pubblica viene mancato
per una serie di motivi che sono legati alla forte spesa militare; inevitabilmente, quindi,
diminuiscono le entrate ma non diminuiscono le uscite per cui si ha un deficit del bilancio
pubblico. Per finanziare questo deficit, oltre il 5% del PIL, bisogna aumentare il rendimento del
Bond americani e un imponente flusso di capitali esteri arriva nelle casse del tesoro assetato di
liquidità: la domanda di dollari da parte di investitori esteri rivaluta però la moneta americana
causando un crollo nelle esportazioni e un boom delle importazioni. Le industrie manufatturiere
del nordest degli Stati Uniti ristagnano, l’agricoltura esportatrice va in difficoltà e, inoltre, il calo
dei prezzi del petrolio mette in difficoltà i produttori texani di petrolio; salari e stipendi
diminuiscono, il tasso di disoccupazione balza dal 5%/6% del 78-79 al 10% dell’82-83: 1 cittadino
americano su 4, in quegli anni iniziali dell’esperienza Reagan viene classificato come povero per cui

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c’è una sofferenza. Il disavanzo della bilancia commerciale assieme al crescente fabbisogno di
denaro per finanziare un debito pubblico enorme trasformano in breve il maggior paese creditore
al mondo nel più grande paese debitore, condizione che ancora nel giungo del 2015 continua a
sussistere. Tuttavia, così come dobbiamo riconoscere che la filosofia reaganiana si realizza solo in
parte e che soprattutto all’inizio ci furono non poche difficoltà, però, il liberismo reaganiano
contribuisce ad un ritorno di fiducia nei consumatori e negli investitori, taglia programmi federali
non sempre efficaci, ridimensiona la burocrazia governativa, mantiene basso il costo del denaro,
controlla la massa monetaria e non ostacola il crescente flusso di immigrati dalle aree centro e sud
americane perché sono una componente preziosa (una manodopera a basso costo) per la crescita
economica; solo i repubblicani più conservatori rimproverano a Reagan di non aver impedito, sul
piano economico, la perdita di controllo dei loro mercati finanziari nazionali a vantaggio di
investitori esteri e il fatto che, dai primi anni 80, le case automobilistiche giapponesi accrebbero la
loro penetrazione negli Stati Uniti e anche un settore prima importante come quello cotoniero si
avviò su una strada di declino. Abbiamo visto che la politica di supply-side reaganiana aveva
portato stabilmente in deficit la bilancia commerciale e aveva, d’altra parte, mancato l’obiettivo di
accrescere risparmio ed investimento che era proprio il fulcro di Laffer e della sua supply-side
economica. Fra l’altro, la deregolamentazione delle casse di risparmio locali, i cui depositi erano
stati garantiti dal governo federale, coinvolge molte piccole banche in pratiche speculative delle
quali era obiettivamente difficile valutare con cognizione di causa le implicazioni di rischio e, tra
l’88 e il 91, i fallimenti a catena di queste casse di risparmio locali costrinsero il governo federale,
in quanto garante, ad intervenire a favore dei depositanti con ulteriori esborsi che aggravano il
deficit di bilancio. Arriviamo quindi a parlare della New Economy: dall’88 al 2006 è il ciclo in cui
avviene “l’aggiustamento del sistema”. Nel 94, il presidente Clinton e il congresso a maggioranza
repubblicana varano il cosiddetto NAFTA, ovvero, un unione doganale con Canada e Messico che
crea un mercato comune di 450 milioni circa di consumatori; invece di proteggersi dall’aggressiva
e dinamica economia delle maggiori economie estere come il Giappone, la Germania e la Cina,
aderendo alle richieste dei sindacati vicine al partito democratico e favorevoli almeno ad una certa
dose di protezionismo, gli Stati Uniti scelgono di ampliare il mercato interno. Continuano
contemporaneamente quei processi di fusioni e incorporazioni che, da un lato, attenuano la
concorrenza (sappiamo che nella storia degli USA ci sono fasi in cui si alternano una certa
tendenza prevalente alle concentrazioni economiche e poi ad una certa reazione antitrust) e,
dall’altro, cercano di trarre vantaggio dalla vendita di attività acquisite in precedenza giudicate non
più sufficientemente produttive. Le grandi e medie imprese erano state travolte, fin dagli anni 80,
dall’esigenza di informatizzare sia i processi produttivi sia quelli gestionali sia quelli di informazione
e di relazione con il pubblico: parliamo di controllo numerico computerizzato, di codici a barre
identificative dei prodotti, fibre ottiche che diventano autostrade della comunione con Fax, Email, i
pc, i telefoni e tutto questo trasforma sia la vita quotidiana ma, in primo luogo, si comincia dalle
organizzazioni aziendali stesse; questo ha delle implicazioni sociali sul mondo del lavoro e sulla vita
di tutti i giorni importanti: di fronte a queste nuove tecnologie c’è un taglio brutale di milioni di
posti di lavori che spazzano via quanti non hanno preparazione tecnica aggiornata o aggiornabile
in tempi piuttosto rapidi, ovvero, coloro che non hanno un livello di istruzione o una posizione
protetta (le forze armate e la burocrazia pubblica) per cui molti soffrono. Le innovazioni quindi
consentono grandi incrementi di produttività e grandi benefici pubblici ma anche con costi umani,
sociali ed economici significativi nel senso che non tutti ne traggono immediatamente beneficio. La
globalizzazione e le tecnologie informatiche accelerano e cambiano il modo di fare affari, mentre
negli Stati Uniti e nelle altre grandi potenzi industriali vengono promossi abbassamenti delle
barriere doganali come strumento di rilancio dello sviluppo economico (WTO nel 95). Gli anni di
crisi, quindi, sono anche anni di trasformazione e ci avvicinano a questa fase della New Economy
(1988-2006), la quale è caratterizzata da un elevato tasso di modernizzazione tecnologica. In

129
particolare, in California, negli anni 80, una nuova generazione di imprenditori innovatori aveva
cominciato a lavorare ad una vera e propria rivoluzione tecnologia, ovvero, l’informatica che
presto avrebbe trasformato in larga misura le nostre vite quotidiane, il nostro stile di lavoro e
anche l’economia perché si pongono le basi per un enorme mercato di massa; computer,
microprocessori e telecomunicazioni vengono progressivamente sviluppati e raggiungono livelli di
interazione sempre superiori e più sofisticati: si fanno più efficienti e diventano abbordabili su
larga scala, ovvero, i loro costi di produzione (il loro prezzo al consumo) diventano tali da renderli
appetibili a molti. C’è quella che viene definita come una “galassia di metodi produttivi e di
prodotti innovatovi”: non bisogna vedere solo il prodotto in quanto tale ma anche l’impatto che
viene esercitato sui metodi produttivi. Tutto questo, quindi, comincia ad operare come un nuovo e
potente motore di sviluppo, prima di tutto, dell’economia statunitense e poi più in generale; in
pratica, si va progressivamente ad affiancare e a sostituire il cosiddetto paradigma fordista,
ovvero, quello che si era sviluppato negli impianti della Ford per cui c’è anche un mutamento
anche sociale e non solo produttivo. I personal computer, come il Mac della Apple lanciato nel
1984, e internet diventano un binomio importantissimo: possiamo dire che la massa critica fu
raggiunta verso la metà degli anni 90. È una dinamica di distruzione-creatrice: imprenditori
creativi/innovatori sono in grado di creare nuovi modi di produzione e nuovi prodotti/servizi che
creano nuove opportunità ma anche ne distruggono nell’ambito tradizionale. A sostenere le
neonate imprese iper-innovative in rapida crescita, con alta redditività potenziale e in cerca di
capitale, ci sono i cosiddetti Venture Capitalist, ovvero, attori finanziari pronti a sottoscrivere
quote di capitale di queste imprese e, spesso, in grado di ottenerne la maggioranza e il controllo.
Questo capitalismo, che opera cambiamenti e distrugge, espelle dall’economia ed indivia imprese
incapaci o non adeguatamente capaci di innovare; diversi operai fordisti, a fine carriera, nelle
regioni di prima industrializzazione della costa atlantica, pagano un prezzo importante e sono
coinvolti anche molti impiegati soprattutto i più anziani che sono meno recettivi all’esigenza di
adattarsi al nuovo metodo di computer e Internet: quando non vengono cacciati su due piedi,
spesso, vengono incentivati a prepensionarsi; per la prima volta, dalla fine della seconda guerra
mondiale, i colletti bianchi delle grandi corporation vedono minacciati i loro posti di lavoro. A
questa situazione di matrice tecnologia si affianca (questi due fenomeni si intrecciano e si
sostengono reciprocamente) la deregolamentazione reaganiana: interi quadri impiegatizi delle
grandi imprese furono smantellati mentre i manager trasformavano molte società in imprese
competitive low-cost. Addirittura, si parla di “sopravvissuti alle decimazioni” perché coloro che
mantengono il loro impiego, spesso, sono costretti a lavorare molte più ore e in modo più
stressante sia perché bisogna produrre con il massimo dell’impegno sia perché i nuovi mezzi
tecnologici consentono di lavorare a distanza e non solo nell’ufficio presso la sede centrale
dell’azienda. Aumenta anche il ricorso a costosi consulenti esterni, in alternativa, agli alti quadri
impiegatizi; molte società poi delocalizzano e organizzano una parte delle loro funzioni produttive
fuori dai confini nazionali e diminuiscono anche gli iscritti ai sindacati e gli stipendi: c’è quindi una
situazione molto complessa. Su questa situazione si inserisce la “grande crisi” di inizio XXI secolo: a
partire dal 2007, l’economia statunitense è stata, inizialmente, travolta da una crisi finanziaria e
bancaria che poi si è trasformata rapidamente in recessione con effetti importanti in termini di
disoccupazione che, nel febbraio 2008, era ancora al 4,8% e nell’agosto del 2009 siamo al 9,7%.
Questa crisi economica si diffonde anche nei paesi dell’UE e in Giappone un po’ differita: vengono
ad essere coinvolte anche, con tempi differiti, paesi come la Cina e l’India mentre, in questi ultimi
mesi, ci troviamo di fronte ad una nuova crisi di natura pandemica. Il 15 settembre del 2008 è una
data importante perché segna il fallimento della Banca d’affari americana (Lehman Brothers) e il
sistema bancario internazionale, a partire da quell’episodio, viene paralizzato da un tracollo della
fiducia reciproca. Nel 2007 c’è stato un prodomo di particolare importanza perché era stata
sottovalutata, inizialmente, la crisi dei “Subprime mortgage”, ovvero, dei mutui ipotecari (non di

130
prima qualità): negli USA, una serie di mutui ipotecari venivano concessi a persone che non
garantivano poi pagamenti puntuali delle rate di capitali ed interessi, ovvero, clienti
potenzialmente a rischio che in condizioni normali non avrebbero potuto godere di questi mutui
che, invece, se li vedono concedere per ragioni che diremo in seguito. È un settore creditizio a più
alto rischio di insolvibilità dal quale, fin dalla fine degli ultimi mesi del 2006, erano giunti crescenti
segnali di allarme e difficoltà; dal 97 a fine 2006,negli USA si era infatti verificato un boom edilizio
eccezionale per intensità e durata, ovvero, fuori dall’ordinario: i prezzi delle case crescono in
media del 7% deflazionato all’anno dal 98 al 2005 sotto la pressione della domanda di case
esercitata dal gran numero di titolari di questi mutui subprime. I titolari di mutui subprime, per il
primo biennio, pagavano un tasso ridotto e fisso che era molto alettate però, dall’inizio del terzo
anno, il tasso diventa variabile ed è indicizzato in base al mercato monetario: questo introduce
degli elementi di rischio per cui la sostenibilità dell’accresciuto ammontare del mutuo (delle rate)
dipende, a partire dal terzo anno, dagli aumenti del prezzo delle case (in poche parole, se all’inizio
del terzo anno poi il debitore non fosse riuscito a pagare puntualmente le rate dovute, avrebbe
restituito il capitale contraendo un nuovo mutuo di importo superiore a causa dell’accresciuto
valore dell’immobile ipotecato in precedenza). Il ribasso del tasso ufficiale di sconto (TUS), deciso
dal 2001 dalla Banca Centrale Americana, aveva moltiplicato la stipula di mutui prime (di più
elevata qualità/affidabilità) con persone solvibili facendoli evitare la domanda di case; c’è tuttavia
un problema: la rigidità dell’offerta (serve tempo per costruire una casa) contribuisce a creare una
crescita dei 20% dei prezzi entro il 2003. Da allora, ai mutuatari prime (quelli più puntuali e più
solvibili) si aggiunsero debitori a rischio di solvibilità, ovvero, i detentori dei subprime: quindi, se
valutiamo l’insieme dei mutui stipulati nel paese, la percentuale dei subprime passa dal 3% al circa
il 12/13% e ciò significa che si sono create delle condizioni in cui si è pericolosamente accresciuto il
numero di mutuatari a rischio (persone meno solide finanziariamente che si vedono concedere dei
mutui per i quali, però, la probabilità di non essere in grado di pagare le rate soprattutto dopo il
terzo anno cresce) per cui sta aumentando, già in questa fase, l’accumulo di rischio che poi
potrebbe esplodere. La domanda aggiuntiva dei nuovi acquirenti di case fece impennare i prezzi e
il rincaro degli immobili andava di paro passo con la concessione dei mutui subprime in un clima di
febbre speculativa (si sta creando una bolla). Nell’agosto 2002, George W. Blush aveva incitato, in
un suo famoso discorso, i suoi concittadini a stipulare mutui dichiarando che per chi fosse stato
privo del denaro sufficiente per comprare casa si doveva comunque semplificare ed agevolare la
documentazione e la procedura (cercare di ampliare il più possibile la gamma dei beneficiari e di
coloro che avessero potuto ispirare all’acquisto di una casa) e, naturalmente, questo comporta dei
rischi. Questa platea ampliata di possibili acquirenti di immobili ha bisogno di capitali e i capitali
per finanziare i compratori a basso reddito, nell’ambito di questa filosofia esposta da Bush,
sarebbero stati forniti da due grandi istituiti creditizi governativi che stipulavano mutui ipotecari e
recuperavano liquidità mediante la cosiddetta securitization, ovvero, la cartolarizzazione sul
mercato secondario: i due istituti creditizi governativi sono Fannie Mae & Freddie Mac; presi
insieme nel 2005, essi avevano risorse proprie pari a 64 milioni di dollari ma avevano concesso
mutui subprime per una somma enorme e sproporzionata pari a 5600 miliari di dollari. Cattini dice
“Nessuna istituzione finanziaria può evitare di fallire con un quoziente di 87,5 fra crediti concessi e
capitali propri”: è il sistema che si era lasciato andare in una direzione che era ineluttabilmente
vocato ad una situazione di grave pericolo, ovvero, una bolla che non avrebbe potuto reggere; il
tramonto di condizioni monetarie e finanziarie eccezionalmente favorevoli cominciò tra il quattro
e il sei quando la FED rialzò gradualmente il tasso di interesse allo scopo di raffreddare
un’economia che si stava surriscaldando (si manifestavano tensioni inflazionistiche). Il rincaro del
TUS rallentò la crescita dei prezzi delle case e accrebbe gli importi delle rate portando numerose
famiglie detentrici di mutui subprime (famiglie meno abbienti) al fallimento: ricordiamoci che nel
sistema sociale, giuridico ed economico americano anche le famiglie falliscono e non solo gli

131
imprenditori. Il circolo apparentemente virtuoso di cui abbiamo parlato si sta trasformando in un
circolo vizioso che funziona come segue: rate più pesanti, aumento delle percentuali di insolvenza
dei mutuatari, vendita di case che i debitori morosi o falliti hanno dovuto cedere alle istituzioni
finanziarie che avevano prestato loro denaro per cui il mercato immobiliare viene inondato di
immobili e questo provoca a sua volta una discesa dei prezzi a causa, appunto, dei moltissimi
immobili offerti in vendita. All’inizio del 2007, infatti, la crisi era nordamericana e sociale
essenzialmente: secondo FMI, le perdite causate dalle difficoltà del mercato immobiliare e dei
mutui ipotecari (subprime) ammontavano a circa 500 miliari di dollari e Cattini dice “Un’inezia
rispetto al patrimonio delle famiglie americane, valutato più di 60 mila miliardi” per cui è una
situazione difficile ma localizzata e circoscritta. In realtà, però, quel tema della securitization si
dimostra particolarmente pericoloso perché, in modo piuttosto coperto, senza dare troppo
nell’occhio, il potenziale distruttivo dei subprime era stato capillarmente diffuso nel sistema
bancario e finanziario internazionale attraverso un meccanismo non ortodosso (non tradizionale)
in questi campi ma nuovo che si chiamava “Originate and distribut”, ovvero, creare questi titoli e
poi non trattenerli fino alla scadenza ma distribuirli prima della scadenza con le cartolarizzazioni;
questo è un principio opposto a quello tradizionalmente osservato dalle banche commerciali che,
originariamente, veniva definito come “originate and hold”, ovvero, trattenere questi titoli: le
banche che concedono mutui ne mantengono la titolarità e il controllo fino alla scadenza per
quanto essa possa anche essere differita nel tempo: chiaramente queste diminuisce le opportunità
di guadagno per le banche ma è molto più cauto e prudente. Nel 99, alla fine della sua presidenza,
Bill Clinton aveva fatto approvare una radicale riforma bancaria che aveva spazzato via il
cosiddetto Banking Act, una legge importante nella storia finanziaria americana che era stata
approvata nel 1933 dall’appena insediato Roosevelt, dopo tutti i disastri che si erano verificati nel
settore bancario negli anni precedenti con banche che prestavano troppo allegramente: il Banking
Act aveva proibito alle banche commerciali di comprare e vendere titoli azionari perché, appunto,
l’esperienza del 29 aveva dimostrato che questo potesse essere molto rischioso. Ora questo
vincolo viene tolto e si passa ad un nuovo sistema evolutosi precedentemente nel corso degli
ultimi decenni del 900 (dal 1999) grazie a tre processi concomitanti: un aspetto giuridico-
legislativo (la deregolamentazione), un aspetto tecnologico (l’innovazione tecnologica: vendita dei
crediti a media e lunga scadenza per ottenere liquidità) e un aspetto economico internazionale (la
crescente mobilità internazionale del capitale finanziario poiché i titoli derivati dai titoli prime e
subprime erano infatti scambiati sul mercato inter-bancario nazionale che fa fare business e ha
delle implicazioni positive per certe banche e le loro élite gestionali ma aumenta molto i rischi).
Cos’è la securitization? Le banche impacchettano i mutui concessi e li vendono a società create ad
hoc, ovvero, apposta per questa finalità: queste società create ad hoc, a loro volta, emettono dei
titoli detti mortgage backed securities (titoli sostenuti e appoggiati su questi mutui), li fanno
valutare da agenzie di rating che ne stimano il rischio prima della vendita ad una vasta platea di
investitori internazionali (banche e società finanziarie, acquirenti delle azioni MBS); qui cominciano
dei problemi perché le agenzie di rating non sempre lavorano con la necessaria e rigorosa
attenzione. Ecco che il sistema funzionava come un vortice a moto perpetuo: le banche si
liberavano del rischio di credito vendendolo con questi pacchetti e incassavano liquidità utilizzata
per concedere nuovi mutui per cui alimentano ulteriormente il sistema, i cui crediti sarebbero poi
stati a loro volta impacchettati in questo sistema e venduti successivamente. Questo è il modello
“originate and distribute”: è un modello pericoloso che fa fare business e questo contribuì al
contagio, ovvero, a propagare crediti molto rischiosi (soprattutto quelli che derivavano dai mutui
subprime) nel vasto mercato finanziario globale grazie alle cosiddette Triple H (valutazioni a livello
massimo) espresse dalle agenzie di rating che, spesso, erano colluse dalle banche. Questi prodotti
erano difficilmente vendibili al singolo investitore ma sono titoli che vengono messi nelle ricette
dei fondi di investimento delle banche per cui le banche acquistano questi titoli che vengono

132
inseriti apposta in questi fondi di investimento spesso ceduti e consigliati ai proprio clienti senza
spiegazioni. Con le cartolarizzazioni quindi il rischio era sparpagliato nel mercato mondiale ma chi
erano i detentori di questi titoli che poi li ridistribuivano? Chi aveva comprato a mani basse quei
titoli tossici? Gli acquirenti erano state le banche, i fondi speculativi, i fondi monetari e compagnie
di assicurazione che poi li passano ai loro clienti facendoci business. La caduta dei prezzi degli
immobili negli USA e l’aumento da 1 a 5,25% del TUS bloccano il mercato delle cartolarizzazioni:
non ci furono più/ ce ne furono molti meno compratori per quel genere di titoli detti MBS e i prezzi
di questi, quindi, crollarono. A causa di nuovi principi contabili che imponevano alle imprese di
valutare ai valori di borsa i titoli che detenevano in modo nuovo, le banche iniziarono a registrare
perdite sempre più importanti in termini di valore di titoli posseduti e di dividendi non incassati.
Cominciano dei fallimenti: nell’aprile 2007 la New Century Financial, uno dei maggiori operatori sul
mercato dei subprime, e le perdite accumulate da istituti come questo si diffondono rapidamente
a cascata contagiando i titoli derivati dai mutui e paralizzandone il mercato; il flusso di liquidità
assicurato al sistema da quel genere di operazioni, improvvisamente, cessa: la complessità e
l’oscurità artificiosa dei prodotti derivati impedisce agli investitori di misurare rapidamente e in
modo adeguato l’impatto negativo della crisi del mercato immobiliare americano sui loro
portafogli di titoli per cui una crisi che, originariamente, appariva circoscritta, in realtà, attraverso
questi meccanismi, si sta diffondendo in modo più ampio e pericoloso. Una crisi di fiducia si
propaga rapidamente anche in Europa: le maggiori banche che avevano acquistato a piene mani
titoli MBS americani scoprono di trovarsi nell’occhio di un ciclone bancario e finanziario ormai di
respiro globale e non solo americano; il mercato interbancario interno ed estero, sul quale le
banche operano senza soluzione di continuità, prestando e prendendo a prestito liquidità in
continuazione, si atrofizza e smette di funzionare. Il 9 agosto 2007 scoppia il panico nel mondo
bancario: la banca centrale europea inietta nel sistema, prestandoli alle banche, 95 miliari di
dollari di liquidità e la Federal Resource 24 miliari di dollari; per anni, le banche centrali si sono
completamente sostituite al mercato interbancario in modo da stabilizzare più volte il sistema
finanziario internazionale. Questo è un aspetto importante e, insieme con altre misure assunte dai
governi, dimostrano come la lezione degli anni 30 e della crisi del 29 fosse stata almeno in parte
appresa: c’è, infatti, una reazione concordata e multilaterale rendendosi conto che non si può
lasciar andare le cose da sole verso lo sfascio. Ci sono stati fallimenti importanti ovviamente, ci
sono state difficoltà: il problema più importante era che il sistema bancario internazionale era
precipitato in una crisi di fiducia di enorme gravità e l’euforia finanziaria dei primi anni del XXI
secolo era fondata malamente dall’inizio sul modello speculativo mal concepito destinato al
fallimento. I governi devono intervenire per evitare il fallimento di molte banche: all’inizio alcune
vengono lasciate fallire ma poi, con il discorso del Too big to fail, i governi cominciano ad
intervenire. Dall’autunno 2008 i governi abbandonano singoli salvataggi bancari e adottano misure
globali più ampie e profonde, estendendo a tutti i titolari di depositi bancari la garanzia sui loro
risparmi e favorendo iniezioni massicce di capitali per rafforzare gli indeboliti patrimoni delle
banche: c’è quindi tutta una serie di misure dette “non convenzionali”. Il problema è che tutto
questo non si sta arrestando alla sfera finanziaria e creditizia: stiamo entrando in recessione a
cominciare dai paesi più ricchi e il fallimento della banca Lehman Brothers dimezza l’indice
mondiale delle borse. Gli operatori di un settore piuttosto piccolo del credito statunitense (circa il
3%), i cosiddetti subprime, avendo ignorato ogni elementare prudenze, con un effetto domino,
avevano causato un enorme crisi globale: molto più che nel passato, essa ha generato un
sentimento di ingiustizia nei paesi più avanzati ma anche nei paesi emergenti; le radici del
terremoto risiedono tanto in difetti strutturali di una finanza predatoria che non ha ben misurato i
rischi, quanto nell’eliminazione di regolamentazione e controlli del settore creditizio e finanziario
statunitense risalenti alla crisi del 29. Nefasti effetti trasmessi dalla crisi di fiducia e liquidità
all’economia reale (crollo della domanda e disoccupazione crescente), dal secondo semestre 2009,

133
cominciano a manifestarsi nella loro gravità e la crisi sembra intimamente legata anche ad un
eccesso dottrinario: la convinzione diffusa nella maggioranza degli economisti è che le forme di
autorelazione dei mercati bastino a mantenere in equilibrio i sistemi e che le istituzioni pubbliche
debbano astenersi dall’intervenire nelle relazioni economiche salvo poi invocare il ritorno del
diritto e della politica quando il sistema deraglia. Ultime osservazioni a questo proposito possono
essere fatte in relazione alle terapie statunitensi anticrisi (2007-2015): la FED inizialmente non
valutò correttamente le cause della crescita dei tassi di interesse interbancari che bloccavano i
prestiti tra banche; giudicando si trattasse di un problema di liquidità, la banca centrale
statunitense abbassò i tassi di interesse, iniettò moneta nel sistema e concesse credito
praticamente illimitato alle banche e, ad un certo punto, si arriva ad accettare, a garanzia di
prestiti a breve termine, anche i titoli tossici. Poiché le banche si limitavano ad accrescere le
riserve valutarie ridotte dal crollo dei loro attivi di bilancio, con la liquidità immessa nel sistema,
allora la FED cambia strategia. A metà marzo 2008, si apre, da parte della FED, una linea di credito
molto cospicua alla banca d’affari JPMorgan Chase per l’acquisto della quinta banca di Wall Street
che era in procinto di fallire. Il messaggio è chiaro a questo punto: il tesoro degli USA è la FED e si
sarebbero adoperati, in prima persona, per evitare il fallimento di istituiti creditizi (too big to fail)
perché le conseguenze di eventuali fallimenti di questo genere sarebbero state sistemiche, ovvero,
sarebbero andare oltre i danni per gli azionisti o i management toccando l’economia nel suo
complesso. Pochi mesi dopo, vennero salvate anche Fannie Mae & Freddie Mac, le due istituzioni
che possedevano e garantivano poco meno della metà dei mutui ipotecari e furono messe dal
governo in amministrazione controllata. A metà settembre 2008, c’è il fallimento dei Lehman
Brothers, la quarta banca statunitense e c’è anche l’assorbimento della Merrill Lynch, un’altra
istituzione finanziaria molto importante da parte della Bank of America: questo rinnova l’allarme
di un pericolo di una crisi sistemica del mercato finanziario tanto è vero che il governo ricapitalizza
la grande società assicurativa AIG e, in ottobre, il congresso approva il Troubled Asset Relief Plan
che abilitava il tesoro ad impiegare fino a 700 miliari per l’acquisto di titoli tossici di basso valore
ancora nei portafogli delle banche; una ventina di grandi imprese furono aiutate stanziando circa
250 miliardi di dollari e una dozzina di loro riuscì a restituire i fondi in aiuto nel giro di poco tempo.
Ricordiamo anche che nell'economia reale, al di fuori della sfera finanziaria e creditizia, corso gravi
rischi e vennero aiutati fortemente dal governo due delle tre big free dell'industria
automobilistica, ovvero, la General Motors e la Chrysler, la quale aiutata dal governo poi venne
anche ceduta; la Ford, invece, fece da sé. La cosa importante è che questo salvataggio comunque
non costò nel medio periodo al contribuente americano perché con questa rimessa in piedi, grazie
ad aiuti decisivi, queste imprese riuscirono a mettersi a posto e a restituire i crediti ottenuti dal
governo. Nel biennio 2009-2010, il PIL pro capite americano a prezzi costanti diminuì
significativamente: sarebbe tornato positivo dal 2011 e negli anni successivi ci sarebbe stata una
ripresa durante la presidenza Obama e poi continuata con la presidenza Trump fino a questa
gravissima crisi attuale. Un provvedimento importante fu approvato nel 2013, ovvero, il Dodd-
Frank Act, una legge gigantista che regolamenta Wall Street nel settore finanziario e bancario
incentivando la tutela degli investitori; alla luce di quanto accaduto, si cerca di porre qualche freno
finanziario in modo da cercare una maggiore trasparenza nei mercati immobiliari e finanziari ed
evitare la troppo agevole formazione di bolle e l'accumulo di eccessivi rischi per i contribuenti
americani. Vengono posti dei limiti come il Financial Stability Oversight, poi fu stabilito il divieto
per le banche commerciale di utilizzare i depositi della clientela per scambiare azioni e obbligazioni
sui mercati finanziari nazionali ed esteri. Infine, per concludere, dobbiamo sottolineare come
l'amministrazione Obama ha messo in atto una serie di politiche sociali e ambientali
particolarmente importanti. Importante è anche l’accordo portato avanti dagli Stati Uniti e dalla
Cina.

134
GLI EFFETTI DELLA CRISI IN EUROPA (2004-2014)
La crisi finanziaria, bancaria ed economica dei debiti pubblici detti “debiti sovrani” arrivò in Europa
a fine 2009. L'economia dell’UE soffre di una difformità strutturale anche perché le differenze tra
produttività della manodopera e i livelli salariali di molti paesi stavano aumentando: l’UE è ho una
situazione molto complessa. Attenzione: alcuni studiosi sottolineano che in realtà questi divari
esistono addirittura persino più marcati tra 50 stati americani ma resta il fatto che in America c'è
un governo federale effettivo (un vero federalismo). In seno all’Europa è costituita da 27 paesi
aderenti ma, anziché andare verso una convergenza, si va verso una frammentazione (prima i
paesi erano 30 e oggi sono diminuiti). Parliamo del contagio finanziario: un repentino blocco dei
prestiti tra banche e una drammatica rarefazione del credito infatti si usa quell'espressione
diventata famosa “credit cruch”. Per evitare il collasso delle maggiori banche infettate/contagiate
dai titoli americani, adesso qui è la situazione corrispondente con quanto abbiamo visto fino ad
ora: per evitare questo collasso tra ottobre 2008 e Marzo 2010, molti governi all'interno e
all'esterno dell'area euro somministrano circa 3000 miliardi tra garanzie ed erogazioni di capitali
(questo ovviamente incrementa il debito pubblico). Tra i grandi paesi, il più impegnato è la Gran
Bretagna mentre tra i piccoli quello più impegnato è l'Irlanda: nel 2007 in Irlanda era scoppiata
una bolla immobiliare e questo aveva portato ad una grave crisi bancaria; il paese meno
impegnato in salvataggi bancari è l'Italia. Nel 2011 poi la crisi greca in primis ma non solo: i mercati
finanziari perdono fiducia nel fatto che la Grecia, che dal 2007 aveva visto accrescere ben oltre il
50% il proprio debito pubblico, l'Irlanda e il Portogallo potessero restituire i loro debiti; per i tre
paesi comincia ad essere sempre più costoso reperire nuova liquidità, emettendo nuove
obbligazioni per estinguere quelli in scadenza. Ci sono grandi banche che hanno in pancia (hanno
in portafoglio) obbligazioni USA quasi senza valore e titoli del debito pubblico greco, irlandese e
portoghese e si trovano quindi in difficoltà: queste banche, inevitabilmente, si espongono di meno
e diminuiscono i prestiti alle banche minori, alle famiglie e alle imprese per cui, inevitabilmente,
innescano o accentuano dinamiche recessive sempre più ampie perché il credito svolge una
funzione fondamentale in ogni economia capitalista. Alla fine del 2009, il governo greco ammette
di aver truccato i conti per entrare nell’euro: stiamo parlando di un paese poco competitivo, con
un elevato livello di corruzione e molto burocratizzato. Per evitare la bancarotta greca e per
evitare un ancor più grave tracollo del sistema economico e del Welfare State, a partire dal 2010, i
paesi dell'area euro il fondo monetario internazionale prestano alla Grecia molti miliardi di euro in
cambio di un impegno, spesso draconiano, a varare riforme di previdenza sociale, anticorruzione,
fisco, burocrazia. Le condizioni sono draconiane e creano difficoltà notevolissima: sono riforme
difficili di per sé e proibitive per un paese come la Grecia, sono troppo ambiziose e troppo dure
nell’immediato; molteplici freni ideologici e culturali impediscono una salutare e saggia
implementazione di queste riforme, in tempi troppo brevi. Arriva la TROIKA, ovvero, la
commissione europea: essa è composta dalla commissione europea, dal fondo monetario
internazionale e dalla BCE. C'è una forte esposizione di banche tedesche, francesi e britanniche
verso la Grecia mentre è irrilevante il caso italiano. Nel dicembre 2011, il patto di stabilità e
crescita, votato nel 97 e rimodulato nel 2005, viene rafforzato con un pacchetto di ulteriori
provvedimenti per integrare la gestione economica dell'Unione Europea; viene però anche
introdotta maggiore flessibilità con una maggiore possibilità, vista la crisi, di considerare le
peculiarità nazionali contro un approccio unico e uniforme: ci sono diversi provvedimenti
legislativi, si istituiscono due fondi temporanei e di emergenza per aiutare i paesi che faticano a
risanare i debiti sovrani; fondo permanente è il celebre meccanismo europeo di stabilità (MES).
Nel giugno del 2012, si decide di avviare il processo di Unione bancaria e vengono varati tutta una
serie di programmi.
CRISI E ALTRE AREE DEL MONDO

135
Le quattro tigri asiatiche: tra il 2000 e il 2014, gli indici dei redditi pro capite delle quattro tigri sono
tutti tendenzialmente in crescita. In Corea l'indice non ha mai sperimentato un regresso e ha un
incremento maggiore, mentre gli altri tre paesi mostrano congiunture marcatamente avverse nel
2002-2003 e nel 2009-2010. Tra il 2011 al 2014, le quattro tigri però riprendono con ritmi
differenti.
Il caso cinese: i molteplici effetti della politica della Open Door di Deng comportano molti progressi
e straordinari cambiamenti ma anche serie questioni come per esempio il massiccio esodo dalle
campagne di centinaia di miliardi di contadini socialmente culturalmente sradicati e spesso poveri
economicamente. Inoltre, le distorsioni e le disparità nella distribuzione del reddito tra le regioni
urbane, che sono maggiormente in crescita, e quelle rurali che invece sono in declino hanno delle
ripercussioni sui livelli di consumo e di vita dei cittadini e dei rurali. Il governo ha avviato inoltre
politiche pluriennali di assistenza e incentivi per l'agricoltura occidentale della Cina che era la più
arretrata tecnicamente dove però c'era la maggior parte delle superfici coltivate per cui era
necessario modernizzare questa ampia fetta dell’agricoltura cinese; tuttavia, l'intervento pubblico
nell'agricoltura non è favorito dalla netta prevalenza di aziende piccole e medie di coltivatori
diretti. Dobbiamo affrontare il tema dei ritmi dei tassi di crescita: nonostante quest'anno che è
atipico, la Cina è l'unico dei grandi paesi in forte ripresa oggi; abbiamo detto che, negli anni
precedenti, l'economia cinese continua a crescere ma a tassi inferiori rispetto a quel
venticinquennio d’oro. Dal 2009, i tassi di crescita scendono stabilmente sotto il 10% annuo, si
cerca una ricerca del progresso nella stabilità poiché ci si rende conto che non si può
indefinitamente crescere a quei tassi e, inoltre, bisogna cambiare il modello di sviluppo per cui non
solo export, edilizia, infrastruttura ma tutto questo verrà almeno in parte affiancato e soppiantato
da un modello che punta di più sui consumi interni, una riqualificazione dell’industria e della
manodopera, un’urbanizzazione programmata (l’idea è quella di creare un gigantesco mercato di
massa). Va anche sottolineato come gli investimenti diretti esteri, che hanno fatto la fortuna della
Cina, ora vedono la Cina esportare anche capitali. Il settore bancario, che ha le sue fragilità e che
deve essere seguito con molta attenzione, vede però anche sei banche cinesi nelle prime dieci
posizioni al mondo; anche per quanto riguarda la borsa cinese, il gemellaggio tra le borse di
Shanghai e di Hong Kong sia importante perché questo gemellaggio fatto nascere la seconda borsa
per capitalizzazione al mondo. Nel 2014, il governo ha consentito agli investitori stranieri di
entrare alla borsa di Shanghai e ci sono tutta una serie di misure importanti. E’ interessante
sottolineare come, nell’assoluta contemporaneità, la Cina sia in poderosa ripresa.
La crescita economica in India ha accentuato la storica sperequazione nella distribuzione del
reddito, dei beni e delle risorse del paese: circa 1/3 della popolazione è analfabeta; Nel 2015, circa
poco più di un quarto della popolazione (336 milioni di persone) era ancora in condizioni di gravi
indigenza. La struttura delle imprese e le condizioni della manodopera spesso sono ancora
largamente tipiche di economie tradizionali per cui ci sono ancora molte imprese che sono di
vecchio stampo e c'è un'enorme quota di relazioni precarie di lavoro sia nelle grandi che nelle
piccole imprese. Teniamo conto anche che in India ci sono ancora notevoli problemi di carattere
politico e religioso tra diverse etnie.
LE QUESTIONI AMBIENTALI
Tutti noi, quotidianamente, ci troviamo di fronte al tema dell'inquinamento, il consumo di suolo, il
riscaldamento globale. Ormai anche tra le imprese, gli economisti mainstream e nella comunità
dell’intelligence americana, c’è la consapevolezza che le questioni ambientali sono talmente
importanti da aver non solo un impatto e delle implicazioni di carattere etico strettamente
ambientalistico ma economico, politico, strategico: ormai anche per le grandi strategie mondiali, il
problema delle implicazioni del degrado ambientale sono enormi perché possono provocare
sovvertimenti sociali, impoverimento, migrazioni (ad esempio, scioglimento dei ghiacciai). La

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capacità di inquinamento dell’uomo industriale è maggiore rispetto alla capacità di inquinamento
dell’uomo industriale: l’impatto sull’ambiente non è solo delle industrie o del riscaldamento o
delle auto perché anche l’agricoltura, per esempio, inquina moltissimo e usa un sacco di risorse. La
soluzione non è quindi quella di abolire il capitalismo o di tornare all’età della pietra ma è quella di
favorire una riflessione per consumi più composti, è quella di accompagnare consumi più
consapevoli ad una forte incentivazione della scienza e della tecnologica che possono andare alla
ricerca di equilibri più validi e sostenibili.

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