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ETICA DELLA COMUNICAZIONE

PROLOGO

Oggi: comunicazione è un tema di moda  noi non riusciamo a pensare al futuro senza far riferimento a nuovi strumenti/tecniche di
comunicazione, MA oggi più che mai l’agire comunicativo richiede di essere regolato (servono dei criteri).

SCOPI del libro:

1. Stabilire cosa vuol dire comunicare bene


2. Motivare a compiere in ambito comunicativo alcune scelte etiche piuttosto che altre

Questo significa rispondere alle seguenti domande:

a. Cosa significa la parola “etica”  al fine di elaborare un’etica della comunicazione applicata (cap. 1)
b. Problemi relativi alle molte accezioni del termine “comunicazione”
c. Individuare i modi in cui il comunicare trova una sua regolamentazione (nelle forme dell’etica professionale, dell’etica della
comunicazione e nella comunicazione; cap. 2)
d. Quali sono i modelli etici alla base delle diverse modalità dell’agire comunicativo (cap. 3)
e. Indicazioni riguardo le regole specifiche che possono essere applicate nei differenti ambiti della comunicazione (scritta, parlata,
giornalistica, tv…cap. 4)

Il libro si propone di:

 Fornire una descrizione dei processi comunicativi


 Identificare i modelli di base dei processi comunicativi
 Stabilire i principi di riferimento dei processi comunicativi
 Tentare una regolamentazione dei processi comunicativi (+ motivare l’assunzione di queste regole)

 Quindi: il libro cerca di dire “come e perché” comunicare + soprattutto “come e perché” comunicare bene + quale è il senso in base al
quale possiamo decidere di farlo = è un libro per tutti

Cap. 1: ETICA E COMUNICAZIONE


COSA SIGNIFICA “ETICA”?

Stiamo leggendo questo libro = è un atto  se è un atto caratterizzato da una sua continuità = è un agire  se l’agire si consolida
= è un atteggiamento/comportamento (es. chi ama leggere)

 Poi il libro lo possiamo chiudere per riflettere = è un atto (atto filosofico per eccellenza): l’atto filosofico è quello che
può interrompere lo svolgimento di altri atti e produrre una presa di distanza da ciò che stiamo facendo per comprenderlo
meglio.

In Occidente, dall’antichità: questa riflessione filosofica che si rivolge ai nostri atti, al nostro agire, ai nostri atteggiamenti viene
chiamata ETICA = riflessione sull’agire che è essa stessa un agire.

MA

La parola “etica” nomina anche il complesso dei criteri che guidano l’azione, i principi, le consuetudini, che regolano i
comportamenti del singolo o di una comunità…in questo senso si parla di “etica laica”, “etica religiosamente ispirata”, “etica
delle virtù” o “etica del dovere” (…)  di solito questi principi non sono assunti, ma costituiscono lo sfondo condiviso ai nostri
comportamenti.

Emerge, dunque una prima ambiguità nell’uso del termine “etica”

a. Da un lato esprime l’adesione immediata a criteri di comportamento (solitamente condivisi anche da altri esseri umani)
b. Da un lato indica la riflessione su questo stesso agire (grazie alla quale sono anche in grado di metterne in discussione i
criteri)

Altra ambiguità riguardo la nozione di “etica”  la parola deriva dal greco éthos (= “comportamento”, “consuetudine”,
“costume”) MA la lingua greca possiede due vocaboli trascrivibili nel nostro alfabeti con la grafia éthos:

1. εϴoς: evoca la prassi, il costume (individuali soprattutto)


2. ήϴoς: accentua l’intimo legame di ogni comportamento alla dimensione della dimora e della comunità

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entrambi questi aspetti devono essere tenuti assieme: l’agire può consolidarsi in un’abitudine, in un costume (εϴoς) che è per
lo più condiviso da una comunità, quello di identificarla nei suoi specifici caratteri (ήϴoς).

Altra ambiguità: tra “etica” e “morale”  infatti εϴoς e ήϴoς trovano solo un corrispondente nella lingua latina: il sostantivo
mos, moris  Cicerone si serve nel De fato di moralis, morale (per indicare sia l’agire individuale che quello comunitario)

 ecco perché nelle lingue dove l’influsso del latino è determinante si riscontrano 2 vocaboli: “etica” e “morale”, usati per
lo più indistintamente

In filosofia ci sono stati tentativi di distinguerli

 Filosofia morale o etica filosofica: “la riflessione filosofica che ha per oggetto l’ambito della prassi umana, colta nella
molteplicità delle sue espressioni.

 Meta-etica o Meta-morale: “ricerca preliminare che vuole stabilire la natura dell’etica e definire quali sono i metodi di
prova e dimostrazione in essa in vigore”, “studiando le diverse dimensioni della vita etica degli uomini.
 Morale: sfera delle azioni umane nella loro concreta storicità
 Etica: disciplina che le prende in esame e ne fa oggetto specifico

LE DOMANDE DELL’ETICA

In filosofia le domande che ricorrono sono sempre le stesse  servono per “individuare ciò che propriamente è” diceva
Aristotele. Domande analoghe sono quelle dell’etica: riguardo l’agire ci si può chiedere che cos’è, cosa stiamo facendo, e in che
modo (ovvero come) un certo atto si configura

 Ma così subito si prospetta uno sfondo più vasto costituito dai nessi che intendiamo definire/descrivere (si profila la
dimensione aperta, nella quale possiamo chiederci cosa dobbiamo/possiamo fare; ci interroghiamo sul perchè)

Es. lettura di questo libro  possiamo riflettere su: da cosa è contraddistinta, come si svolge, cosa la ha provocata, a che scopo è
fatta, perché abbiamo scelto questo libro? = mettere a fuoco la motivazione

Cosa sto facendo? Come o sto facendo? Spinto da quale istanza? Per quale scopo? Che cosa debbo fare? Perché lo faccio o lo
debbo fare? Che senso ha il mio agire?  domande che l’impostazione filosofica estende dal singolo atto concreto all’agire in
generale = la mossa filosofica è condurre un discorso che non vale solo per il singolo MA per tutti (i concetti di “buono”, “giusto”,
“virtuoso” sono trattati come concetti che pretendono una valenza universale)

Tuttavia, oggi le domande sono queste MA in passato no …vi è stata anzi una sorta di progressiva acquisizione delle diverse
prospettive di indagine dalle domande che abbiamo trovato. Potremmo sostenere che le questioni relative alla definizione
dell’agire (che cercano di stabilire cosa è l’agire e come si configura, per ricavare indicazioni di comportamento) sono dominanti
nell’etica antica. Mentre le tematiche del dovere invece contraddistinguono la tradizione ebraico-cristiana e derivano da quella
scissione (tipica di ogni orale prescrittiva) tra ciò che l’uomo è portato a compiere e ciò che gli viene richiesto da un’istanza
superiore.

 Questo si verifica anche nelle versioni laicizzate di questo modello deontologico = es. fondazione della morale di Kant

Il problema del senso dell’agire (= perché io devo fare/faccio qualcosa?) compare dopo Nietzsche, quando viene meno la risposta
religiosa.

Cerchiamo ora di precisare meglio questi specifici percorsi, che hanno caratterizzato l’etica nella sua storia.

DEFINIZIONE DELL’AGIRE

La definizione dell’agire è fornita soprattutto dalla sua risposta a domande specifiche: es. “cos’è l’agire”, “in che modo si agisce?”
 la definizione dei modi dell’agire mira a individuarne le cause e conoscendole è possibile ricavare previsioni per i
comportamenti futuri e fornire indicazioni su ciò che attraverso l’agire va perseguito.

Esemplifichiamo questa impostazione con riferimento al pensiero di Aristotele  il suo tentativo di definire l’agire e descriverne
i processi si ricollega alla concezione che lui sviluppa di bene in generale e del rapporto tra bene e agire = il bene è il fine. Di più:
la struttura stessa dell’agire dell’uomo è quella di un processo che mira a realizzare uno scopo = è l’essere umano che tende
naturalmente (per Aristotele) al raggiungimento del bene (solo così può arrivare alla virtù).

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 Questa tensione naturale alla virtù è insita nell’uomo ed è la base comune a partire dalla quale puoi cercare l’accordo tra
i diversi genti; il disaccordo può riguardare invece i beni che vengono perseguiti (perché ogni uomo tende a beni
particolari, ciò che è bene per lui).

Tuttavia vi è una struttura comune a tutti gli uomini…come integrare queste due cose? Bisogna chiarire filosoficamente cosa è il
bene in sé. E in parallelo viene stabilito un ordine tra le facoltà proprie dell’uomo quelle che possono allontanare dal suo
perseguimento e quelle grazie alle quali è possibile ottenerlo).

 Ne consegue una gerarchia tra i beni = i beni particolari sono subordinati sono subordinati a una più generale felicità
(eudaimonìa), ovvero il bene supremo dell’essere umano (= suo scopo naturale). Questa felicità è data dalla nostra più
autentica vocazione: quella del filosofo.
 Allo stesso modo poi emerge la necessità di avere una gerarchia tra le facoltà umane: la parte razionale dell’anima
deve dominare le tendenze che ci allontanano dal nostro vero scopo (già per Platone)

= all’ETICA DEL BENE si lega un’ETICA DELLA VIRTÙ

L’etica di Aristotele dunque cerca di instaurare un doppio equilibrio:

 Equilibrio fra tutti gli esseri umani (individuazione del bene mira all’eliminazione dei conflitti)
 Equilibrio interno al singolo essere umano (vita buona e dominio passioni)

I beni a cui tendono i singoli individui vengono così ricondotti alla dimensione di quel bene comune che i vari uomini per natura
perseguono (anche se non sempre lo sanno riconoscere). Si capisce perché Aristotele all’inizio dell’Etica Nicomachea afferma che
la trattazione dell’etica rientra nella sfera politica.

CHE COSA DEBBO FARE?

La proposta aristotelica funziona solo se si accettano alcuni presupposti di base:

 La spiegazione dei processi dell’agire è in grado di farne comprendere le motivazioni


 È possibile definire la natura umana in modo fisso e univoco
 Non vi è alcuna scissione fra ciò che faccio e ciò che debbo fare (perché il dovere non è in contrasto con la mia natura,
ma – una volta che ho compreso quello che sono – ne è un’esplicazione)

prospettiva di Aristotele riconferma un’armonia dell’uomo con il mondo, con gli altri uomini e con se stesso. Il rischio però è
che il senso dell’agire venga ricondotto alla sua spiegazione, il dovere a un’esplicazione dell’essere.

Proprio tali presupposti sono messi in discussione nella tradizione ebraico-cristiana: emerge un’altra idea di etica  che risulta
espressione di una distinzione fra ciò che io sono, ciò che posso/voglio fare e ciò che debbo fare. Viene assunto il problema del
male nel rapporto tra la volontà di Dio e la volontà dell’uomo. E l’etica acquista consapevolezza della radicale cesura tra la
spiegazione del mio agire e ciò che di quest’ultimo è il senso.

Quindi:

 per Aristotele: l’etica è poggiata sulla natura dell’essere umano (approccio descrittivo)
 nel contesto biblico l’etica è fondata sulla religione (approccio prescrittivo)  ma ciò che Dio chiede all’uomo è spesso
in contrasto con quello che l’uomo sarebbe portato per natura a perseguire = c’è una scissione interna all’uomo stesso.
È Dio che stabilisce cosa è bene e cosa fare per realizzare il bene (nell’Esodo il dire divino trova la sua espressione
paradigmatica nei 10 comandamenti) = l’essere umano non trova in sé l’indicazione di ciò che deve fare e questo gli
viene prescritto da Dio.
Solo in questo modo l’uomo rimane fedele al patto di alleanza che Dio gli propone, ponendosi sul cammino della
Redenzione.
 Nel Cristianesimo l’impostazione è analoga, ma qui il comandamento fondamentale è quello dell’amore (verso Dio e
verso il prossimo) = ciò che deve essere contrastato è l’egoismo

 Nella tradizione ebraico cristiana emerge quindi una concezione dinamica dell’uomo (non più statica!). Perché al centro
dell’etica vi è l’idea di LIBERTA’, che non si esplica solo nella scelta dell’essere umano di rimanere fedele a ciò che viene
riconosciuto come il proprio sé autentico, ma nella sua decisione di ubbidire o meno ai comandi divini  una tale libertà si
trasforma in RESPONSABILITA’.

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Nonostante la sua origine religiosa questo modello non è stato mai abbandonato a seguito dei processi della secolarizzazione, anzi,
viene proposto a più riprese ma individuando altri criteri di giustificazione sia del principio del dovere che dei suoi contenuti 
come accade a fine Settecento con Kant.

In Kant il dovere non è giustificato a partire da una rilevazione divina, MA si presenta alla coscienza morale in maniera
incondizionata = come principio dell’agire. Il dovere trova espressione nell’Imperativo categorico = un comando che non
prescrive qualcosa di determinato ma che ha funzione di riconoscimento (criterio che ci permette di capire la moralità o meno di
ciò che induce a compiere un’azione)

 C’è un rovesciamento di prospettiva: la morale non è più fondata sulla religione (perché il principio del dovere non
poggia su una rivelazione divina) MA Kant cercherà di motivare proprio l’esistenza di Dio nella Critica della ragion
Pratica movendo dall’immediata assunzione da parte dell’uomo di quel principio della moralità che risulta insito in lui
stesso  “la morale è il fondamento della religione e conduce necessariamente ad essa”
Ma anche questo tentativo di collegare morale e religione è fallito

IL SENSO DELL’AZIONE

Perché questo tentativo di collegare morale a religione è fallito? Perché il problema che l’etica del dovere deve affrontare è:
giustificare il perché, in ogni caso, si debba ubbidire a ciò che si presenta in maniera così assoluta.

 Perché assumere il principio del “dovere per il dovere”? Basta ritenere (come fa Kant) che esso si impone alla coscienza?
O serve proporre una “genealogia della morale”?

Queste sono le questioni sollevate nella metà dell’Ottocento da Nietzsche  ripensa una morale in un’epoca in cui non è scontato
fare riferimento a un Dio della tradizione ebraico-cristiana!

 Nietzsche dunque avanza il problema del senso che un principio morale deve avere e mostra che questo senso non può
essere giustificato a partire da qualcosa che semplicemente si impone (come la rivelazione divina o l’imperativo
categorico)
MA per N. il senso delle nostre azioni risiede nel nostro volere (un volere che crea di volta in volta i propri principi e poi
li relativizza e abbandona)

Il senso si identifica dunque con questa volontà: una volontà che vuole se stessa, una volontà di volere, una “volontà di
potenza”

Non ha più senso che venga posto il problema del senso
=
Avvento del NICHILISMO

Con questi esiti nichilistici si confronta il pensiero del Novecento  di fronte ad esso si presenta il problema del senso dell’agire
(=individuazione delle motivazioni che mi spingono a fare qualcosa), soprattutto dopo che la Shoah ha permesso di fare
esperienza di un male spiegabile MA del tutto insensato. La riflessione contemporanea segue allora due strade:

1. Cerca di giustificare nuovamente la possibilità che un senso si possa dare (non nei modi dell’imposizione ma in quelli del
coinvolgimento)  elaborando una “logica del senso”, nella quale ci muoviamo nel nostro agire e nel nostro pensare =
questa è la via percorsa dalla filosofia continentale (in Europa “ermeneutica filosofica”)
2. Rinuncia alla ricerca di un senso complessivo e si dedica all’analisi dei diversi modi in cui l’agire concretamente trova
la sua esplicazione  obiettivo: fornire una spiegazione dei comportamenti umani e delle scelte che li determinano
attraverso approcci diversi: es. discutendo le forme del linguaggio, identificando i processi morali che sono alla base
delle nostre decisioni = questa è la via percorsa dalla filosofia analitica (predominante in ambito anglo-americano)

Quindi l’etica contemporanea (nell’età del nichilismo compiuto) si trova a fare i conti con il problema del senso, del “perché”. O
per sostituire questo interrogativo con altre questioni.

Oggi però il fatto di poter prendere congedo dal problema del senso dipende da nuove esperienze della nostra vita (più che da
problemi religiosi): le esperienze legate alle nuove tecnologie e il rapporto con gli esseri umani, con se stesso…  in questo
contesto il senso dell’agire si risolve nell’efficacia della prestazione.

 Gli sviluppi tecnologici hanno trasformato radicalmente i modi in cui le azioni vengono compiute e i criteri in base ai
quali possono essere pensate = ne consegue un’analoga trasformazione delle domande dell’etica

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L’ETICA NELL’ETA’ DELLA TECNICA

Vivere nell’”età della tecnica” = vivere in un’epoca in cui gli strumenti tecnologici ci facilitano, è come se tutto ciò che ci
circonda fosse al nostro servizio (abitiamo il mondo ovunque, come fossimo a casa)

 Crediamo che quasi tutto si possa prevedere = l’esperienza vera (quella che ci mette in crisi) è divenuto un affare da
bambini

Ma i tecnici vivono lo sconcerto e la rabbia di fronte a tutto ciò che non va e il convincimento è che una spiegazione la si possa
trovare sempre (per far funzionare ciò che non funziona).

Presupposto di fondo che motiva ogni ricerca scientifica (orientata a specifiche applicazioni) è che: il mondo è, di per sé, sempre
qualcosa di abitabile  scopo della tecnica è renderlo ancora più comodo

MA anche ciò che chiamiamo tecnica è un fenomeno ambiguo perché:

- Attua un potenziamento delle capacità umane ma introduce un filtro tra uomo e ambiente
- Consente di intervenire su mondo ma moltiplica i livelli di mediazione del nostro rapporto con esso
- Trasforma la natura in qualcosa di sempre più fruibile, ma modificandola a tal punto da rischiare di annullarla
- Produce ibridazioni che incidono sull’uomo stesso (che incorpora uno strumento)

Dunque le procedure della tecnica, elaborate per essere al servizio dell’uomo nel suo rapporto con il mondo finiscono per rendere
l’uomo e il mondo stesso qualcosa di funzionale proprio a tali procedure  si delinea un’autonomia della tecnica rispetto che
possono dare avvio ai suoi processi
=
LA TECNICA si trasforma in TECNOLOGIA

Ecco perché gli sviluppi scientifici e tecnologici hanno anche il potere di rendere il mondo inabitabile  oggi questo vale più per
la tecnica che per la scienza, perché è la scienza è sollecitata nei suoi sviluppi dalla tecnologia)

Ecco quindi il duplice volto della tecnica:

- Ci fa abitare il mondo in modo sempre più comodo


- Può modificare (se non distruggere) il mondo stesso (es. pensiamo alle 2 GM e al disastro ecologico)

Ma dobbiamo chiederci: la tecnica e la tecnologia sono solo strumenti che possiamo usare bene o male? Dipendono dalla
responsabilità di chi li usa?  la neutralità morale della tecnica potrebbe essere interpretata nel senso che né lo scienziato, né il
tecnico sono responsabili delle conseguenze dei processi a cui danno origine (perché hanno solo il compito di far bene il loro
lavoro)  ma è vero che non c’è più spazio per l’assunzione di responsabilità?

 Queste sono questioni di carattere etico! Anzi, sono questioni che investono la stessa condizione per cui un’etica si dia
(es. la libertà dell’uomo di fronte a determinate situazioni, la sua capacità di scegliere…!)

ETICA GENERALE ED ETICHE APPLICATE

Recenti sviluppi tecnologici + immagine tecnica del mondo = rottura dei precedenti modelli di etica

Sono stati messi in discussione 3 limiti:


1. Il limite relativo al potere dell’uomo di incidere sul mondo, sull’ambiente, sull’esistenza di altri uomini e di se stesso
(oggi siamo in grado di distruggere la vita sulla terra)
2. Il limite che distingueva l’uno dall’altro quei fenomeni che risultavano appartenere a due ambiti completamente diversi:
non c’è più differenza tra ciò che è “naturale” e ciò che è “artificiale”
3. Il limite che poteva essere imposto dall’agire dell’uomo da un comando provenire da un’istanza superiore: dalla voce
della coscienza, da un ordine divino  ora invece l’agire risponde solo a sé stesso e in mancanza di istanze superiori
queste azioni sono senza scopo, senza senso

Dunque il venir meno delle distinzioni fra natura e artificio, fra Dio e uomo, fra comando e ubbidienza, fra mezzo e scopo  ha
portato all’oltrepassamento costante dei limiti  questo oltrepassamento mette tra parentesi il problema della
RESPONSABILITA’ che contraddistingue ogni azione.

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 Perché “l’importante è che uno sviluppo in ogni caso ci sia!” e i limiti non solo non devono per forza essere rispettati, ma
non si dovrebbero nemmeno porre! (si crede che i vari effetti possano essere controllati…ma non è così).

Effetti collaterali scaturiscono dall’agire illimitato delle nuove tecnologie (sembra che abbiano vita propria), di fronte a questo i
modelli di etica del passato non bastano più, non c’è più spazio per:
- L’etica fondata sull’essere o sulla natura
- L’etica fondata sul riferimento ad un’entità superiore
- Nell’agire non possiamo fondare un orizzonte di senso valido una volta per tutte

È necessario dunque rifondare le nozioni fondamentali dell’etica: è quello che hanno iniziato a fare le “etiche applicate”  che
sono partite “dal basso” e cercano di dare una risposta alle questioni reali che la tecnologia ci pone. Ecco perché sono sorte nuove
discipline: bioetica, etica economica, etica ambientale e sociale e etica della comunicazione = “etiche applicate”

Il concetto di “applicazione” indica il terreno concreto da cui nascono le domande relative ai nostri comportamenti e esprime
l’esigenza di non limitarsi a una trattazione settoriale.
MA per dare una risposta adeguata alle questioni affrontate volta per volta bisogna fare riferimento solo a principi che possono
essere giustificati solo a un livello ulteriori  per una effettiva risoluzione di questi problemi deve essere previsto un rinvio a un
piano più generale di elaborazioni

Nel campo delle etiche applicate non si ha per niente a che fare con l’uso di criteri generali di comportamento. Al contrario: si
opera essendo costantemente consapevoli che:
- solo su un terreno particolare possono emergere questioni che mettono in crisi principi universali
- se si vuol dare adeguata fondazione alle scelte di volta in volta compiute è necessario far riferimento a modelli di etica
che stabiliscono le ragioni per cui queste scelte vengono fatte

C’è dunque un CIRCOLO VIRTUOSO fra:

Etiche applicate
Etica generale
(livello circoscritto: mettono alla prova
(elabora e discute paradigmi di
paradigmi e ne offrono una
comportamento)
contestazione)

Cap. 2: CHE COS’E’ L’ETICA DELLA COMUNICAZIONE?


PERCHE’ UN’ETICA DELLA COMUNICAZIONE?

Etica della comunicazione: come disciplina codificata e autonoma nasce nella seconda metà del Novecento  anche se
l’attenzione agli aspetti etici del linguaggio è già presente in alcuni Dialoghi di Platone (con Socrate)  scambio di domande e
risposte è momento di realizzazione pratica di un’etica comunicativa.

Nella riflessione contemporanea:

- ambiente anglosassone: dove è forte l’attenzione per gli aspetti della casistica
- ambiente tedesco: interesse marcatamente più filosofico
- ambiente francese: interesse più sociologico (analizza processi su realtà in cui viviamo)
- ambiente spagnolo/portoghese: maggiore esigenza fondativa
- dibattito italiano: ci si è avvicinati in ritardo a questi aspetti dell’etica della comunicazione, ma è stato recuperato da
indagini settoriali provenienti da studi sulle comunicazioni di massa

In questi ultimi anni, però l’etica della comunicazione non è stata messa a fuoco in modo del tutto adeguato perché ci si è
soprattutto limitati a passare in rassegna i diversi criteri di comportamento nei singoli casi studiati (es. Apel o Habermas) o perché
l’interesse per una fondazione filosofica ha prevalso sul fornire una trattazione dei diversi aspetti di questa disciplina.

Ma perché sembra oggi così importante sottoporre i processi comunicativi a un vaglio etico?

La prima risposta è scontata: i processi/l’agire in questione nella realtà è spesso refrattario a dettami morali (sembra esserci scarsa
attenzione per l‘ascoltatore, mezzi di informazione spesso usati in modo ideologico…)

 emerge un bisogno di etica, ma questa si esprime troppo in termini apocalittici, nuove regole ecc…
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MA questo approccio potrebbe promuovere un moralismo spicciolo e questa concezione presuppone una concezione ben precisa
dell’etica: quella per cui l’etica mira a definire doveri e stabilire sanzioni = questa è la concezione alla base della deontologia
professionale

Nell’attuale stato di deregulation comunicativa emerge quindi l’esigenza NON di porre limiti, ma di dare loro una legittimazione
adeguata = i principi a cui fanno riferimento i comportamenti devono essere validi in generale (questa indagine la fa la filosofia)

MA anche l’individuazione di tali prinicipi non è sufficiente. Non serve solo descriverli, ma serve chiarire quali di loro deve
essere prescelto e per quali motivi.

Molti sono i principi condivisi nella prassi comunicativa:

 criterio dell’utilità (dominante nelle comunicazioni di massa)


 criterio della condivisione (prevalente nelle relazioni interumane)

 e nessuno dei due può essere considerato immorale a priori! Possono esserlo solo dopo che abbiamo assunto una concezione di
etica: questo è il compito della COMUNICAZIONE (fondare ciò che può essere detto “buono” in ambito comunicativo e
motivare l’adozione di comportamenti che lo promuovono)

Ma c’è un altro aspetto su cui dobbiamo riflettere: si tratta del mettere in discussione i principi di mera utilità efficienza a tutti i
costi ai quali oggi si richiama la maggior parte delle decisioni in ambito comunicativo!  la consapevolezza è che tali principi
non vengono scelti da nessuno, ma vengono subiti dagli operatori e dagli utenti.

Questi principi sono il risultato di una logica caratterizzata da:

idea del comunicare come semplice trasmissione di info (tra emittente e ricevente)
+
specifico paradigma economico basato sul consumo
=
Coloro che dovrebbero essere responsabili dei processi comunicativi li automatizzano e basta! Quindi noi e gli operatori della
comunicazione ci troviamo in una diffusa irresponsabilità

La realizzazione di un’etica della comunicazione ci permette di riappropriarci delle nostre responsabilità
L’AMBIGUITA’ DELL’ETICA DELLA COMUNICAZIONE COME ETICA APPLICATA

Prima provvisoria def. di “etica della comunicazione”: disciplina che individua, approfondisce e giustifica quelle nozioni morali e
quei principi di comportamento che sono all’opera nell’agire comunicativo, e che motiva all’assunzione dei comportamenti da
essa stabiliti.

 Questa def. deve essere però discussa e chiarita, innanzitutto perché questa disciplina è diversa dalle altre etiche applicate

Da un lato:

Si configura, come le etiche applicate, come la messa in opera dei principi dell’etica generale, spesso costringendo la
ricalibrazione (visto lo sviluppo delle tecnologie) di questi ultimi

Etica della comunicazione  può fornire sviluppo all’etica generale!

E questa indagine assume 2 specifiche configurazioni:

 Deontologia professionale = principi di comportamento condivisi da una specifica categoria di comunicatori


 Etica della comunicazione propriamente detta = indaga i modi in cui i paradigmi morali elaborati nella storia del pensiero
vengono trasposti sul piano del concreto agire comunicativo*

*nel Novecento l’agire comunicativo ha acquisito un ruolo emblematico, perché:

- si è capito che quando si parla di comunicazione si ha a che fare con un atto (qualcosa di dinamico)  il comunicatore
appartiene alla sfera delle possibilità  si apre una prospettiva di ricerca che considera la comunicazione come un agire e ne
analizza processi e scopi, come pragmatica e retorica (e non vuole analizzare le strutture del linguaggio, es. come la linguistica)

Possono essere messe in discussione alcune teorie che concepiscono gli atti linguistici come qualcosa che può essere spiegato in
base a predisposizioni di carattere culturale e biologico.

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In secondo luogo, può essere rivendicata una autonomia delle ricerche sulla comunicazione, rispetto a quelle sul linguaggio
(ambito più generale)  questa autonomia ha provocato la svolta comunicativa della filosofia contemporanea = assunzione del
ruolo fondamentale che il comunicare gioca all’interno del pensiero umano.

La ricerca dei criteri in base ai quali può essere regolato l’agire comunicativo ha fornito l’accesso privilegiato per fondare i
principi dell’agire in generale

Ne è seguita una inversione nel rapporto tra etica generale e etica della comunicazione = la prima NON fonda la seconda; ma è la
seconda a fornire le condizioni che consentono di giustificare comportamenti universalmente riconosciuti come morali  viene
meno la subordinazione del particolare al generale

Vedremo in che modo si può ricavare dalla pratica del comunicare tali elementi morali, per fondare su di essi un progetto
complessivo di etica  ma questo è uno statuto epistemologico ambiguo tipico dell’etica della comunicazione (che è sia etica
applicata - approccio deontologico o etica della comunicazione -, che modello per la fondazione di un’etica generale - etica
nella comunicazione, ovvero che ha già al suo interno dei riferimenti - ).

I SIGNIFICATI DEL “COMUNICARE” E I LORO RISVOLTI ETICI

Per avvicinarsi a queste 3 modalità serve ancora un passaggio. Dobbiamo chiarire meglio il concetto di comunicazione: che cosa
significa “comunicare”?

A seconda di come rispondiamo MUTA l’ambito di ciò che possiamo indagare e cambia il modo in cui può configurarsi una
scienza della comunicazione (es. considerando atti comunicativi solo quelli umani si esclude la sfera dell’espressività tipica degli
animali) e cambia ciò che consideriamo rilevante nell’agire comunicativo.

Quindi, dobbiamo guardarci dall’assumere in maniera acritica un determinato concetto di comunicazione  per NON dare un
orientamento unilaterale alla nostra ricerca etica della comunicazione = dobbiamo chiederci “cosa vuol dire comunicare” senza
ritenere scontata la risposta (cosa che invece fanno le scienze del linguaggio  che presuppongono esista solo il modello
comunicativo standard).

IL MODELLO COMUNICATIVO STANDARD

Comunicare = trasmettere pensieri, idee, notizie, informazioni (= messaggi) ad altri  per esprimerci in modo più precisi
richiamiamo cosa dice Ugo Volli (“comunicare = trasmettere qualcosa a qualcun altro).

Una volta assunta l’idea-guida del comunicare come trasmettere ne deriva un’articolazione di questo atto nei termini di un
rapporto unilaterale fra emittente e destinatario. Questo messaggio è trasmesso tramite un canale, si configura secondo un codice
e si riferisce a un contesto (è un processo che assomiglia a ciò che accade in un oleodotto, in una pipeline)

 In realtà però la tesi per cui comunicare = trasmettere ha un’origine ben precisa, corrisponde a un determinato progetto di
sapere e d’intervento scientifico sul mondo  chi per primo ha svolto questa concezione è stato Roman Jakobson (in
riferimento alla teoria dell’informazione sviluppata nel secondo Dopoguerra dal matematico americano Claude
Shannon)

Scopo di Shannon: massimizzare il “rendimento informazionale” della comunicazione = ricercare il modo più efficiente per
trasmettere segnali evitando ambiguità, disturbi e rumori di fondo (quindi comunicare bene = trasmettere info in modo
efficiente)

Jakobson applica questa teoria alla linguistica, trasformandola in un modello estendibile a ogni dimensione comunicativa. Ma
perché il modello della trasmissione dei dati è così attraente?

Perché negli anni ’80 di Jakobson si è imposta la CIBERNETICA (progetto di gestione delle info)

Come suggerisce il titolo del testo programmatico di Norbert Wiener (matematico) “Cibernetica, ovvero controllo e
comunicazione nell’animale e nella macchina”  a una prospettiva teorica che vuole integrare l’indagine sugli esseri viventi con
quella sulle macchine per controllare entrambi è funzionale una concezione di comunicazione come trasmissione di info. Questo
controllo è posseduto dal cibernetico (dal greco “kybernéts”, colui che sa trasmettere le informazioni sulla base di un paradigma
connettivo valido per macchine, uomini e animali)

Il progetto cibernetico ha avuto sviluppi decisivi negli ultimi anni: la macchina tende ad automatizzarsi (si è parlato per questo di
una “seconda” o “terza” cibernetica). Ma nonostante ciò questo progetto è stato realizzato, l’informatica ne è l’esempio! Internet
apre nuove sfide al progetto cibernetico del controllo comunicativo.

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Ma dal punto di vista etico? Quando si assume questo paradigma i principi di comportamento, i valori, i criteri di valutazione si
riferiscono soprattutto al rendimento di un processo (fare buona comunicazione = trasmettere in modo efficiente)  il criterio che
emerge è economico

MA

Questo paradigma permea la nostra realtà quotidiana: infatti oggi i modelli di comunicazione dominanti sono quelli che
riguardano il mondo della pubblicità (un messaggio formulato in modo allettante viene trasmesso da un emittente a ei potenziali
riceventi + ci può essere testimonial per renderlo più persuasivo; e chi è destinato al prodotto viene chiamato target)

La pubblicità è paradigmatica perché fornisce un evidente esemplificazione del modello standard (per questo ha avuto
un’attrattiva verso le altre forme dell’agire comunicativo es. comunicazione politica, che ora ha uno stile pubblicitario)

Però, se comunicare bene = comunicare in modo efficiente e efficace  dal punto di vista etico questo vuol dire ricondurre la
“bontà” di un processo l buon funzionamento di un sistema. Quindi dobbiamo chiederci: il successo di questo paradigma
giustifica la sua assunzione a modello di riferimento per tutti i processi comunicativi? O vi sono altri modelli comunicativi e
quindi altre concezioni etiche?

LA COMUNICAZIONE COME CREAZIONE DI UNO SPAZIO COMUNE

Altri modelli comunicativi ci sono, e incidono sulla nostra quotidianità! Pensiamo ai rapporti umani: il dialogo, lo scambio di
domande e risposte, la conversazione… che spesso sono stati assunti come forme privilegiate alle quali ricondurre qualsiasi tipo
di legame comunicativo.

Ma non basta affermare che ci sono altri modelli comunicativi oltre a quello standard  certo, ridimensiona la convinzione
dell’applicabilità universale del modello standard, ma non basta a dimostrare che quel modello deve essere ricondotto a un’altra
concezione dell’agire comunicativo e a quella diversa idea di etica che esso comporta  dobbiamo evitare che i vari modelli di
comunicazione posti tutti sullo stesso piano finiscano per diventare equivalenti; dobbiamo invece identificare una specifica forma
di comunicazione, che sia alla base della teoria standard e a cui vadano riferiti i vari processi comunicativi.

Il MODELLO BASILARE è quello per cui: comunicare significa dischiudere uno spazio comune di relazione fra
interlocutori. A questa definizione si può giungere per vie diverse:

Comunicare non si risolve solo nel fornire info  comunicare ≠ informare (è solo uno dei caratteri della comunicazione)

 Quando comunichiamo avviene qualcosa in più: si verifica un coinvolgimento, un legame che va al di là del mero
scambio di notizie. Qui c’è in gioco la simultaneità di eventi che non ha luogo quando si danno info = il ricevente ha
sempre diritto di risposta  questa è la differenza tra il modello dell’informazione e quello della comunicazione

MODELLO DELL’INFORMAZIONE: l’iniziativa è sempre dell’emittente e il feedback è considerato successivo


all’impulso e conseguente ad esso = il passaggio di dati inteso come un processo unilaterale (paradigma
temporale della successione)

MODELLO DELLA COMUNICAZIONE: l’interazione è sempre e in ogni momento ritenuta possibile, è
caratterizzata cioè da una tendenziale simultaneità (il feedback è fin dall’inizio previsto, anzi richiesto, e non può
essere per questo chiamato feedback)  CADE la distinzione tra EMITTENTE E RICEVENTE, ogni LOCUTORE è fin
da subito un INTERLCUTORE = COOPERA
N.B: senza il coinvolgimento, d’altra parte, neppure l’informazione potrebbe avere luogo  solo grazie ad essa anche una
semplice trasmissione di dati può essere efficace

Comunicazione, dal latino “communicatio” e indica il “mettere a parte” e il “far partecipe” altri di ciò che si possiede  in
tedesco Mitteilung è traducibile più che con “comunicazione” con “compartecipazione”  Communico = mettere in comune

E al di là di questo c’è un ulteriore distinguo: quello fra i concetti di linguaggio e comunicazione  comunicazione ≠ linguaggio.
Certo, grazie al linguaggio si svolge l’attività comunicativa, ma il linguaggio dal punto di vista filosofico, è un fenomeno
ambiguo:

- Da un lato mette in relazione


- Dall’altro mantiene una distanza tra coloro che sono coinvolti nei suoi processi

9
Il linguaggio è al tempo stesso “organo” e “ostacolo” della comunicazione  per questo esso è il luogo di intesa fra gli uomini ma
può anche favorire il conflitto fra essi.

Riassumendo: mentre il linguaggio è occasione sia di collegamento che di separazione, nella dinamica nel comunicare invece –
nella misura in cui si realizza la creazione di uno spazio comune mediante l’uso del linguaggio stesso – è sempre insita
l’intenzione di raggiungere un’intesa  per questo la comunicazione ha a che fare sempre con interlocutori e nel comunicare si
trova racchiuso un compito etico ben preciso: riconfermare la possibilità di intesa che risulta già implicita nella dinamica
linguistica

Quali sono le forme concrete che però può assumere l’etica della comunicazione?

LA PRIMA FORMA DELL’ETICA DELLA COMUNICAZIONE: L’APPROCCIO DEONTOLOGICO

Ci sono 3 modi per creare uno spazio comune fra gli interlocutori:

 La deontologia professionale: riguarda le varie categorie professionali di comunicatori es. giornalisti, persone attive in
un contesto TV … (deontologia è un termine che rimanda alla sfera del dovere). Con l’approccio deontologico si delinea
l’esigenza di una regolamentazione dei processi comunicativi. Questi limiti però non possono essere imposti dall’esterno
ma devono risultare da un’autoregolamentazione  solo così sono conciliate la libertà di espressione e la
consapevolezza che non si può dire tutto
Nascono i vari codici deontologici (per tutte e professioni, alcuni sono molto settoriali). Ma ai problemi di etica della
comunicazione né i codici né la deontologia riescono a dare una soluzione stabile  non solo le sanzioni non sono
deterrenti sufficienti e ci deve essere una motivazione etica forte a rispettare il codice MA il problema dei codici è
strutturale: si ritiene di poter fornire una risposta in termini giuridici a questioni che invece risultano di carattere etico. E
le risposte etiche non coincidono spesso con quelle giuridiche  serve elaborare dunque un’etica della comunicazione

EXCURSUS: IL PROBLEMA DELLA RESPONSABILITÀ


Quando s rimanda all’etica della comunicazione ciascun interlocutore è caricato di una certa responsabilità = trova in se
stesso, non in un’istanza normativa esterna, la motivazione del proprio agire (introducendo il concetto di responsabilità
siamo entrati nel terreno dell’etica).
“Responsabilità” = etimologicamente collegato al verbo rispondere  in italiano “rispondere a” o “rispondere di”
“Rispondere di” = il vocabolo greco “aitìa” (usato in ambito giuridico esprime l’accusa e il motivo dell’accusa) esprime
questa forma di responsabilità nei confronti di uno stato di cose. Per Aristotele questa responsabilità si precisa
interrogando le cose secondo 4 prospettive diverse:
 Ciò di cui qualcosa è fatto
 Ciò che lo contraddistingue per quello che è
 Ciò che ne determina il movimento o la quiete
 Ciò verso cui è orientato (ciò per cui qualcosa è)

In questo modo le cose sono sottoposte a giudizio = le 4 tipologie causali sono il modo l’individuazione dei modi in cui
avviene il rispondere di qualcosa, sia che responsabile risulti una componente della cosa stessa (causa materiale o
formale), sia una cosa diversa (causa efficiente o finale).

Di queste 4 prospettive nell’età moderna viene considerata la causa tout court la “causa efficiente” = quella per cui
qualcosa provoca effetti su qualcos’altro  e di fronte a questa tendenza a nulla valgono i tentativi di recupero delle
altre accezioni del “causare” (es quella di Hans Jonas nel ‘900 con la sua “riabilitazione” dello scopo)

Con questa concezione di responsabilità appiattita su un’idea di causalità efficiente siamo spinti a considerare l’essere
responsabili “retrospettivamente”: risalendo al principio di qualcosa (= siamo responsabili in quanto siamo in grado di
dare inizio a un processo, nella misura in cui siamo liberi di farlo)

Emerge il nesso fra libertà e responsabilità
E si delinea un senso ulteriore del nostro essere responsabili = il suo sig.to morale
(i soggetti liberi sono responsabili non solo tecnicamente ma anche moralmente di ciò che fanno)

KANT approfondisce il legame fra libertà e responsabilità in modo adeguato  introducendo il concetto di
“imputabilità”  c’è una differenza d’intenzione tra l’essere responsabili di qualcosa come ciò che provoca/determina
uno stato e l’aspetto giuridico e morale di questa responsabilità.  è questo quello che dice Kant nella Critica della
Ragion Pratica: io sono capace di dare avvio a un processo ma ne ho anche in carico le sue conseguenze  il vettore
10
della responsabilità si apre al futuro: io sono responsabile non solo nella misura in cui faccio partire un processo, ma in
quanto posso anticipare determinate conseguenze. MA anche questo non basta a determinare lamia condizione di agente
morale  il sig.to di essere “imputabile” è dato dalla presenza di di un’istanza superiore che ritengo vincolante. Solo se
le mie scelte (liberamente assunte) sono messe al vaglio di una tale istanza io posso comprendo ed esercito fino in fondo
la mia responsabilità morale.

Quest’istanza può assumere varie forme:

 Religiosamente connotata
 Identificarsi con principi socialmente e culturalmente assunti in un determinato contesto storico
 Essere riconosciuta dalla coscienza individuale
In ogni caso attraverso questa istanza viene a proporsi l’idea di una responsabilità che si configura non più come un
“rispondere di” ma come un “rispondere a”  siamo giunti a un altro aspetto della responsabilità: ora si è responsabili
perché si accetta di rispondere con i propri atti a ciò che si riconosce come vincolante. Si è responsabili perché si accetta
liberamente di sottoporsi a un vincolo
Riassumendo i due aspetti dell’essere responsabili:
- “Rispondere di”: responsabilità del soggetto che dà inizio a un processo
- “Rispondere a”: responsabilità di chi liberamente assume qualcosa che non dipende da lui, sia che lo riconosca
come semplicemente vincolante per il suo agire, sia che si ritenga investito anche della responsabilità di un adeguato
rapporto con esso

Se ci si attiene a questi vari modi di essere responsabili, allora c’è una soluzione al problema del capitolo precedente:
quello che da un lato ci sentiamo deresponsabilizzati e dall’altro di fronte a ciò che non dipende da noi e dall’altro
rivendichiamo la nostra responsabilità per tutto ciò che ancora riteniamo di poter fare  una via d’uscita è fare leva sui
diversi sig.ti di responsabilità:

- Siamo responsabili di ciò che è in nostro potere


- Ma possiamo rispondere anche di ciò che non è in nostro potere
Tutto questo vale se viene assunto che non tutti i problemi dell’uomo possono essere risolti mantenendoci solo nel
rispetto della legalità  c’è un ulteriore livello, quello morale!
Ora applichiamo i risultati di questa analisi all’etica della comunicazione: ↓

 L’etica della comunicazione propriamente detta  da quanto abbiamo visto risulta che l’inserimento di ciascun
interlocutore in un contesto dominato da processi sempre più autonomi e pervasivi NON sia una scusante per esimersi
dall’adottare un comportamento morale  dobbiamo assumerci una responsabilità in quanto esseri capaci di comunicare.
MA spesso ci sentiamo responsabili in senso causale, NON morale.  Questa idea sarebbe giustificata solo se la
responsabilità causale coincidesse con quella morale (= se valesse solo l’aspetto della determinazione e non quello della
libera scelta) MA gli interlocutori non sono solo gli ingranaggi del variegato meccanismo comunicativo!

All’interno della dimensione causale della “responsabilità di” emerge uno spazio etico dotato di una sua autonomia +
un’idea NON meccanica di comunicazione (NO teoria standard, ma comunicare come APERTURA di uno spazio
comune)
Tuttavia il riferimento alla nozione di responsabilità non basta per definire l’ambito dell’etica della comunicazione: chi in
una dimensione comunicativa agisce in maniera eticamente responsabile deve avere fin dall’inizio idea di cosa sia buono
 fissando il lessico morale che serve per poter definire le azioni eticamente apprezzate.
Per fare questo serve descrivere i comportamenti comunicativi che sono stati assunti in un determinato periodo
storico/contesto culturale. Sono 5 i modelli di etica della comunicazione fino ad ora elaborati:
 Quello che fa riferimento a una specifica “natura” comunicativa dell’essere umano per giustificare o meno la
correttezza di certe forme di interazione linguistica
 Quello che elabora un’etica della comunicazione a partire dal “principio dialogico”
 Quello che per la scelta di specifiche strategie comunicative fa leva sulla considerazione dell’audience e del
contesto in cui si muovono gli interlocutori
 Quello che si ricollega ai principi di un utilitarismo variamente concepito
 Quello legato all’idea della comunità della comunicazione

Ma attenzione, ciascun paradigma non rappresenta altro che un’applicazione all’ambito comunicativo di teorie etiche
generali. Ecco perché la nozione di “agente responsabile” è quella che rende possibile l’elaborazione di un’etica della
comunicazione propria.

Dopo aver chiarito i vari concetti morali, ed aver esposto le teorie di riferimento è necessario porci un ulteriore problema
di fondazione: dobbiamo chiederci quale tra i vari modelli di comportamento è quello a cui è più opportuno riferirci
11
nelle nostre pratiche di comunicazione (es. perché l’utile e non il dialogo? Ecc…). Ma emerge anche la domanda relativa
al perché si debba propriamente seguire dei criteri morali nell’ambito della comunicazione (e anche in generale)  si
delinea la questione del senso, della motivazione, del coinvolgimento morale.

Ci accoriamo subito dei limiti di un’etica della comunicazione come disciplina appartenente alle etiche applicate, anche
se si colloca su un piano superiore rispetto a quello della deontologia, ovvero legittima moralmente ciò che su un terreno
deontologico è basato sull’obbligatorietà dei codici.
MA
Se si deve giustificare la scelta tra i modelli etici di fondo sulla cui base ogni comportamento morale compreso l’agire
comunicativo (prima questione) può essere regolamentato e se si deve affrontare la questione di ciò che spinge ad agire
in un certo modo piuttosto che in un altro, allora dobbiamo muoverci a un livello superiore: il livello dell’etica generale

Quindi pure sul versante di un’etica della comunicazione propria si profilano sia:
 I problemi morali riguardanti la giustificazione dei principi dell’agire
 Sia le questioni concernenti il senso della loro assunzione: il perché è bene essere morali
Ma l’etica della comunicazione solo pone queste istanze, non trova risposta, non dà adeguate risposte: per questo serve
rivolgersi all’etica generale  MA questo passaggio non comporta la fuoriuscita dall’ambito dell’etica della
comunicazione, dobbiamo solo intenderla in senso più ampio.

L’etica della comunicazione ha infatti uno statuto epistemologico ambiguo:

 Condivide con altre discipline il carattere di etica applicata


 In alcuni suoi recenti sviluppi manifesta evidenti pretese di fondazione generale  in questo secondo sig.to l’etica
della comunicazione si è imposta come via per giungere a una trattazione valida delle questioni che discute l’etica
generale

Si delinea quindi una terza forma di etica che sembra in grado di affrontare quei problemi d fondazione e di senso che
fino ad ora sembravano irrisolti

 L’etica nella comunicazione: elaborata di recente, anche se in modi diversi, da Apel e Habermas (che la chiamano però
“etica della comunicazione”/”etica del discorso”)  in sintesi: il loro progetto è rinvenire all’interno dello stesso ambito
comunicativo – di volta in volta impostato dai vari interlocutori – criteri e principi etici che pretendono di avere una
validità universale

L’analisi del discorso mette infatti in luce alcuni vincoli normativi che già nel discorso stesso assumono il carattere di
obblighi morali  tali obblighi sono riconosciuti da ogni soggetto razionale ed è per questo che è possibile ricavare le
condizioni per un’etica generale.
Apel è il primo a sostenere che vi è una normativa morale nell’atto comunicativo  nel fatto che tutti come interlocutori
facciano parte di una “comunità illimitata della comunicazione” e mettiamo in opera i principi contenuti in essa, i
principi di:
o Giustizia: uguale diritto di tutti i possibili partner del discorso all’impiego di ogni atto linguistico utile
all’articolazione di pretese di validità in grado di ottenere consenso
o Solidarietà: valida per tutti i componenti della comunità e riguardante il reciproco appoggio e dipendenza nel
quadro di un comune intento di una risoluzione argomentativa dei problemi
o Co-responsabilità: vincola i partner della comunicazione allo sforzo solidale per l’articolazione e la risoluzione dei
problemi)

Così ciascun interlocutore è un agente razionale, e così può emergere, a partire da un’analisi della struttura dell’agire
comunicativo quale elemento distintivo di ogni essere razionale, una possibilità di comportamento conforme ai criteri
che regolano l’interazione comunicativa e ne decretano la riuscita.

Habermas parte da una precisa trattazione in prospettiva sia sociologica che filosofica dei concetti di “azione” e
“razionalità” all’interno della quale l’agire comunicativo si configura per la sua aspirazione all’intesa e per
l’identificazione del linguaggio come luogo in cui tale intesa si può realizzare. A partire da questa definizione della
razionalità in termini comunicativi, Habermas perviene ben presto all’elaborazione della sua “etica del discorso”

In essa sono indicati quei principi che consentono di effettuare un accordo razionalmente motivato quando devono
essere affrontate questioni pratico-morali controverse:
12
- Principio di Universalizzazione (U), inteso come regola dell’argomentare comunicativo, H. propone la seguente
formula:
ogni norma valida deve ottemperare alla condizione che le conseguenze e gli effetti collaterali, che prevedibilmente risultano dalla sua
osservanza universale per la soddisfazione degli interessi di ogni singolo, possano essere accettati senza coazione da tutti gli interessati

- A ciò si ricollega – quale sua necessaria applicazione – la formula essenziale (D) dell’etica del discorso:
ogni norma valida dovrebbe poter trovare il consenso di tutti gli interessati,
purché questi partecipino a un discorso pratico

H. fa uso del condizionale! Come in Apel infatti il problema qui riguarda l’individuazione da parte di un soggetto
razionale del legame che dovrebbe istituirsi tra i vincoli etici insiti nel discorso e il loro effettivo riconoscimento, di
più, la loro adozione  il momento di elaborazione delle norme morali pragmaticamente messe in opera nel discorso
non può essere disgiunto dalla percezione di esse!

MA

Di fronte a tali problemi rischia di rimanere senza risposta, sia per A. che per H., la domanda relativa al senso del
nostro agire morale (il perché del nostro essere buoni)  si presenta di nuovo il problema dei modi in cui realizzare
effettivamente ciò che risulta insito nella struttura stessa del comunicare: la condizione di possibilità identificata nel
funzionamento stesso del linguaggio va infatti concretamente attivata  si delinea quello spazio di libertà in cui
ciascuno di noi è in grado di essere fedele o meno alle possibilità iscritte nel linguaggio e ricercare il senso che
giustifica tale fedeltà.  ciò che è implicito nel comunicare può essere assunto e messo in opera o no.

Si tratta di stabilire una mediazione tra:

 Ciò che ha pretesa di valere universalmente (perché contrassegno di tutti gli esseri umani in quanto parlanti)
 Ciò che di volta in volta deve essere applicato su un piano particolare, in virtù di una scelta  grazie a questa scelta
le implicazioni etiche implicite nel comunicare si fanno concrete

Apel in verità propone in modo esplicito il problema di tale applicazione, riflettendo sul rapporto fra quelle che chiama
“Parte A” universale e “Parte B” della sua etica di comunicazione relativa a un contesto.

Habermas intende affrontare questo problema facendo leva sulla distinzione fra agire comunicativo e agire strategico.

Tuttavia sia A che H non sono in grado di giustificare le motivazioni morali alla base dell’uso concreto negli ambiti
presi in esame, dei principi dell’etica della comunicazione e dell’etica del discorso.

Vedremo poi come questo bisogno di fondazione del senso potrà trovare un’effettiva risposta  ora però prendiamo in esame i
modelli che sono stati elaborati in filosofia.

Cap 3. MODELLI DI ETICA DELLA COMUNICAZIONE


CHE COSA SIGNIFICA “COMUNICARE BENE”?

In base a quali criteri possiamo dire che il nostro agire comunicativo sia “buono”? Ci sono 5 principali modelli, scegliamo il
migliore che giustifichi il concreto agire comunicativo:

- La teoria che istituisce un collegamento privilegiato tra etica della comunicazione e specifica concezione della “natura”
dell’essere umano
- L’opzione del dialogo inteso come sfondo di ogni rapporto comunicativo “buono”
- Il modello retorico del riferimento all’audience
- La dottrina che assume, come criterio predominante dell’azione, il principio dell’utilità individuale e collettiva
- Il riferimento al modello della comunità della comunicazione

Queste dottrine tuttavia non sono sullo stesso piano!  le unisce un legame (tutti troveranno nella comunità della comunicazione
lo sfondo generale che è in grado di legittimarli). Tutti i casi in esame rimandano infatti all’idea-guida per a quale comunicare =
creare uno spazio comune  ed è questa che consente di rispondere alle domande che si pone la deontologia professionale e
letica della comunicazione propriamente detta

IL COLLEGAMENTO PRIVILEGIATO ALLA “NATURA” DELL’ESSERE UMANO

Es. dell’uomo politico, secondo una vulgata diffusa, non ci si può fidare  per ottenere voti può anche mentire, anzi, deve
eccellere nel mentire  il mentire è quindi considerato insito nelle strategie di comunicazione dell’uomo politico

13
MA se in politica ha successo chi è più in grado di mentire, allora l’ottimo politico sarà quello che dice bugie con meno sensi di
colpa: colui al quale la menzogna viene “naturale”.

Questo è certamente un modo quasi grottesco di intendere la comunicazione politica, ma corrisponde a un sentire comune, alla
base del quale c’è un presupposto: l’uomo risulta per “natura” portato a dire bugie, in quanto malvagio! Ma la tesi di questo
esempio costituisce il rovesciamento di un assunto più diffuso in filosofia: quello per il quale l’essere umano è invece “buono” per
natura (= è portato a realizzare il bene per sé e per gli altri uomini), e dunque ama la verità!

Si oppongono così due posizioni apparentemente inconciliabili


MA
Entrambi gli assunti hanno una impostazione condivisa:
fanno riferimento a una determinata idea di essere umano
 ma questa idea legittima scelte di carattere opposto

Se applichiamo lo stesso impianto teorico alla sfera del comunicare possiamo affermare che l’uomo è in possesso, per sua natura,
di alcuni caratteri che possono favorire la comunicazione che si svolge:

- Da un lato secondo principi etici e morali


- Dall’altro secondo criteri del tutto diversi

Si può dunque fondare un’etica della comunicazione sulla base dell’assunto della “bontà” della natura umana (= aperto al
riconoscimento delle altrui esigenze) o si può rinunciare a farlo, affermando la concezione egoistica dell’uomo stesso  tutto
dipende da come viene considerata questa “specifica” natura.

Il problema così si sposta: chi sostiene che l’etica della comunicazione si radica nella natura umana, considerata “buona”, deve
innanzitutto giustificare l’affermazione di questa bontà di fondo. Per farlo non solo può intendere l’impulso al bene come una
tendenza naturale, ma può addirittura ritenere che l’essere stesso dell’uomo sia dal canto suo qualcosa di buono = fare il bene è
dunque promuovere tutto ciò che appartiene all’essere.

 Ecco dunque il ragionamento che viene compiuto: si può dire che qualcosa è “buono” o meno solo a partire da una
valutazione previa dell’essere. Se questo essere, questa “natura” sono ritenuti buoni, ne discende la bontà di tutti gli
atti che vi si conformano; se sono assunti come “malvagi” compito dell’uomo è quello di contrastarli

Agire bene significa dunque tenere conto di queta “natura”. Riprendendo l’esempio di prima, agire bene è agire in maniera
difforme dalla vocazione alla menzogna che sembrerebbe caratterizzare l’uomo politico.

C’è dunque un assunto fisso e stabile: l’essere, la “natura”, lo si considera caricato di valore e si giudica di conseguenza “buono” o
“cattivo” tutto ciò che nella sua contingenza si conforma o meno ad esso  il giudizio di valore si lega a una concezione
dell’essere

Questo modello è stato elaborato originariamente dal pensiero antico di Platone e Aristotele (e risulta funzionale a quella def.
dell’etica come definizione e descrizione dei modi di vita  vedi Cap. 1). Poi questo approccio si è dovuto conciliare con
l’impostazione ebraico-cristiana, anche se con difficoltà. Perché l’approccio ebraico-cristiano metteva in discussione il
riferimento di una “natura” umana proprio perché ciò che Dio chiede all’uomo contrasta con il tendenziale amore che l’uomo ha
per se stesso.

Sorge l’esigenza di trovare un collegamento fra questi due modi di intender l’agire dell’uomo in relazione alla sua “natura”: in
opposizione oppure conformemente ad essa. Dalla tradizione cristiana sorsero dunque sintesi intelligenti ma precarie che
sollecitarono altri modi di giustificare il comportamento “buono”!

Tensioni simili c’erano però già nel mondo greco. Es. noto dialogo di Platone in Gorgia  Gorgia è maestro di retorica e la usa
per scopi che non perseguono il bene comune, ma all’utile/bene individuale (= a detta sua lui e i suoi discepoli praticano la ricerca
del piacere). Socrate non rigetta la retorica, perché non è corrotta in quanto tale! Nel Gorgia, come anche nel Fedro, Socrate mette
in luce le condizioni che sono proprie di una “buona” retorica, una retorica che:

- Non mira a una comunicazione fine a se stessa


- Non pretende di sostituire la ricerca del bene con una procedura standardizzata, ma che riferisce al bene stesso (quale
istanza suprema) ogni attività comunicativa

14
Il comunicare risulta collegato alla pratica della giustizia = il perseguimento di un bene che è il bene di ciascuno in quanto è il
bene di tutti.

In Gorgia Socrate dice “è meglio patire piuttosto che compiere ingiustizia” (anche S. morirà per una condanna ingiusta causata
anche da argomenti ingannevoli).

L’affermazione socratica e il progetto di una “buona” retorica portato vanti da Platone si basano dalla convinzione che sono a
partire dalla convinzione di un mondo ideale (che ha il suo riflesso in una gerarchia di valori insita nell’uomo stesso) è possibile
distinguere piacere e bene e elaborare strategie che comunicative che promuovono il bene secondo giustizia, ovvero il bene della
comunità.

Socrate sarebbe quindi d’accordo con la vulgata che considera “naturale” la menzogna dei politici, ma non per il contenuto di
questa asserzione, bensì per l’approccio che la contraddistingue:

Sia per il Socrate Platonico, che per la vulgata, infatti, ciò che è buono si definisce sulla base della conformità e della fedeltà a
un’essenza, a una “natura”

 per Socrate la natura dell’uomo è buona ed è misura della bontà di ogni cosa
 per la vulgata la natura dell’uomo è malvagia in generale (o almeno in una categoria di uomini, i politici)

Questo modo di pensare gli atteggiamenti umani e l’etica della comunicazione NON è privo di conseguenze  se si assume
questo paradigma può forse trovare risposta la domanda su che cosa è buono e cosa significa fare il bene; ma NON viene risolto il
problema riguardante il perché io posso fare o meno il bene.

Anzi, emerge una differenza fra due livelli:

- quello della spiegazione


- quello del senso

dunque NON viene affrontata una delle questioni fondamentali concernenti l’agire morale, quella del rapporto fra l’azione
concreta e l’orizzonte motivazionale.

Inoltre, se nell’uomo vengono individuati uno specifico “essere” e una “natura” ben determinata, se di questa natura fa parte la
capacità di comunicare, e se comunicare “bene” o “male” significa conformarsi o meno alla vocazione specifica che
contraddistingue ogni uomo in quanto potenziale interlocutore, allora ciò che resta da precisare all’interno di questo paradigma è il
rapporto che lega fra loro l’essenza e la “vocazione comunicativa”.  non è chiaro se questa vocazione sia conseguenza di
un’essenza umana stabilita esternamente o se si identifichi tout court con essa.

Aristotele def. l’uomo come “animale dotato di parola”  con riferimento a questa def. sono stati giustificati la libertà di
esprimersi e condanna di ogni censura.

MA fin tanto che si resta vincolati al concetto di “natura” comunicativa non si comprende se l’uomo è tale in quanto parla oppure
se il fatto di parlare sia conseguenza dell’assunzione di quel suo specifico essere.

Come affrontare questa difficoltà? Non partendo da una essenza dell’uomo previamente stabilita da cui sarebbero desumibili certi
criteri di comportamento anche in ambito comunicativo bensì ricavando questi stessi criteri da una particolare idea del comunicare
 comunicare come creazione di uno spazio comune.

IL DIALOGO QUALE MODELLO ETICO DI COMUNICAZIONE

Di fronte alla difficoltà di giustificare cosa significa “comunicare bene”, a partire da una idea di essenza e “natura”
preventivamente stabilite, ben presto è stato proposto in filosofia un altro modello  il modello dialogico

Come si fonda un’etica della comunicazione a partire dal concetto di “dialogo”?  lo si fa ritenendo che il dialogo costituisca il
paradigma di ogni rapporto comunicativo.

MA cosa vuol dire “dialogare”? pensiamo al quotidiano: per dialogare ogni interlocutore deve riconoscere fin dall’inizio le
“buone” ragioni dell’altro = ogni dialogante sa che la sua posizione NON è mai immodificabile  non è dialogo se chi parla lo fa
solo per motivi narcisistici, usando l’interlocutore come “specchio”. Ani, nell’intreccio dialogico le ragioni dell’altro possono
indurre un mutamento di idee.

Dialogare è mettere in gioco se stessi, aprirsi a ciò che l’altro mi può dire!  emerge il rischio di questa forma di scambio
comunicativo: il diventare altro da ciò che si è, perdere la propria identità. MA è un rischio condiviso da chiunque è coinvolto nel
dialogo.

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Se non vi è questa disponibilità all’apertura NON vi è vero dialogo, è finzione! È ciò che accade nel dialogo di Platone in cui il
dialogo sesso rischia di apparire come una cornice estrinseca = Socrate sviluppa la sua argomentazione e gli interlocutori da lui
incalzati non possono che confermare, le sue domande spesso sono formulate in modo da consentire come risposta un sì o un no,
ma mai una replica vera.

A Platone dobbiamo dunque una grande scoperta: l’idea che il pensiero è il “dialogo dell’anima con se stessa”  e di
conseguenza è necessario che la filosofia faccia a sua volta dialogica.

MA lo stesso Platone finisce per dimostrare quanto è facile che un’esperienza di dialogo si tramuti in qualcosa di diverso = in un
monologo camuffato.

Come afferma Rosenzweig (pensatore del ‘900 in polemica con Platone): nel dialogo autentico si realizza davvero qualcosa di
nuovo, “si fa” propriamente “la verità”. Nel dialogo vero non so cosa accadrà, potrei iniziare io o l’altro, potrei stare zitto… ≠
“nei dialoghi di Socrate è sempre lui a iniziare, lui conosce già i propri pensieri e il fatto che li esprima è solo una concessione
nei confronti delle carenze dei nostri mezzi di comunicazione interpersonali”

 per dialogare dobbiamo essere disposti all’ascolto, per dialogare serve tempo

Dialogando ognuno si espone all’altro, solo così è in grado di diventare se stesso  e questo non per sua volontà, ma perché nel
suo dire, come afferma Rosenzweig, “qualcosa di vero accade sul serio”: il raggiungimento di un’intesa.

Nel ‘900 il “pensiero dialogico” ha avuto molto successo:

- sia nel rapporto privilegiato con la tradizione ebraico-cristiana  menzioniamo Martin Buber e Franz Rosenzweig
(versante ebraico); Ferdinand Ebner (versante cristiano)
- sia nel legame esplicito con il mondo greco  menzioniamo Hans-Georg Gadamer e Guido Calogero

tutti questi autori sono accomunati dalla convinzione che pensare voglia dire innanzitutto comunicare e che comunicare voglia
dire dialogare.

Nel dialogo si attua nel modo migliore quella relazione che unisce gli uomini fra loro e, nel caso degli autori con prospettiva
religiosa, il rapporto dell’uomo con Dio  nel pensiero dialogico per principio è assunto il rapporto tra gli esseri e NON un
essere nel suo isolamento.

Es. Martin BUBER  l’assunto per cui pensare = comunicare = dialogare = promuovere rapporti  è un assunto che ha
legittimazione sul versante teologico. Il Dio della Bibbia crea le cose e l’uomo con la parola e con essa rivela all’uomo cosa vuole
che egli faccia  il dialogo fra Dio e l’uomo diviene allora modello di ogni rapporto: sia di quello che lega tra loro gli esseri
umani (come dice Rosenzweig) che di quello che lega uomo e mondo  quindi il dialogo è considerato qualcosa di “buono”.

Buber nel suo famoso testo “Io e tu” distingue due modi di comunicare:

1. quello attraverso il quale all’interlocutore si da del tu, considerandolo un partner


2. quello in cui lo si considera un mero oggetto, un “esso” (lo si ritiene oggetto di un’asserzione)

Fra il “dare del tu” e “dare dell’esso” vi è una differenza sostanziale. Da ciò ne derivano conseguenze etiche importanti!
Comunicare bene significa infatti rivolgersi a un “tu”, promuovere un rapporto tra tutti coloro che sono capaci di parola  solo in
tal modo la parola si fa strumento di liberazione: funzionale ala redenzione dell’uomo e del mondo.

MA quello dialogico è un modello valio? Ci sono dei problemi. Nella struttura dialogica sono racchiusi e prescritti alcuni
particolari principi di comportamento:

- attenzione e rispetto per l’interlocutore


- ascolto delle ragioni dell’interlocutore
- la costruttiva intenzione di venire a un accordo con l’interlocutore
- idea di linguaggio NON come mezzo di informazione MA il luogo di una partecipazione sempre possibile, di una “messa
in comune di esperienze”

Tuttavia, anche all’interno di questo paradigma, non viene giustificata la motivazione che mi spinge nell’interazione comunicativa
a optare per il dialogo. Perché devo dialogare e non posso mirare a imporre loro le mie convinzioni?

I teorici del linguaggio – come ad esempio Buber – rispondono a queste domande in 2 modi:

- facendo rif. a uno sfondo teologico = bisogna dialogare perché è Dio che si rivolge all’uomo adottando forme dialogiche
- partendo dal presupposto più laico dell’essenza dialogica dell’uomo = la “natura” dell’essere umano in quanto tale è di
per sé capace di dialogo e praticandolo trova la sua piena realizzazione
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entrambi questi esiti sono difficilmente sostenibili su un piano filosofico  il primo vale solo a partire da una prospettiva religiosa
che può essere propria solo dell’uomo di fede e la fede non è qualcosa che condividono tutti; il secondo esito ci riconduce al
modello precedente di etica della comunicazione (quello che fa riferimento a un essere dell’uomo e a una sua “natura” che va
comunque scoperta e legittimata, e ottenere questa legittimazione abbiamo visto è complicato)  servono dunque altri modelli!

IL PARADIGMA RETORICO DI RIFERIMENTO ALL’AUDIENCE

Secondo il paradigma retorico la buona comunicazione è quella che viene incontro all’interlocutore: quella che tiene conto in
primo luogo dell’audience. Questo modello è il corrispettivo del paradigma che cerca di fare il bene, comunicando, con
riferimento a qualcosa come un’”essenza” o una “natura” dell’essere umano.

Mentre quest’ultima tesi ha di mira colui che parla e quello che dice al fine di stabilirne il valore, la tesi del paradigma
dell’audience è attento a colui al quale si parla  perché nel rapporto con l’interlocutore si ritiene di poter rintracciare l’unità di
misura in rif. alla quale un atto comunicativo può essere detto “buono”.

 Secondo questa tesi una comunicazione riuscita coinvolge l’interessato! Vi sono alcune categorie professionali come
insegnanti, scrittori, medici, comunicatori pubblici…che devono praticare in modo attento questo sforzo comunicativo.

In queste categorie le istanze che emergevano nei modelli precedenti hanno il loro effettivo compimento nel rispetto verso
l’audience:

- Necessità di rif. a qualcosa di stabile per comunicare correttamente


- Disponibilità a mettersi in gioco nell’interazione comunicativa al fine di realizzare un’intesa

Se finora l’etica della comunicazione era caratterizzata da una fedeltà a se stessi in quanto soggetti comunicativi e dalla
disponibilità ad andare al di là di sè, non stupisce che con questo terzo paradigma si imponga il criterio di fedeltà
all’interlocutore.

Condizioni per un corretto comunicare sono quindi: il rispetto per se stessi, per l’ascoltatore e per la dinamica comunicativa in
quanto tale.

Ma come questo rispetto può attuarsi in modo adeguato? Bisogna aver chiari i limiti da non oltrepassare (es. zelo eccessivo vs
interlocutore può condurre a esiti perversi). Lo riscontriamo nelle nostre esperienze quotidiane: è insita nel rivolgerci ad altri la
tendenza a uniformare ciò che diciamo alle categorie di comprensione, ovvero a tenere conto della mentalità altrui anche se
costituita da pregiudizi/stereotipi.  nulla di male se ciò serve a far comprendere meglio certe posizioni MA affinché un’intesa
riesca queste posizioni devono essere intese come qualcosa di condivisibile: una comunicazione riuscita porta alla condivisione di
questi contenuti. SE INVECE, il modo in cui qualcosa è comunicato prende il sopravvento su ciò che viene comunicato gli esiti
sono deleteri.

Es. in ambito giornalistico l’etica del primato dell’audience fa sì che lo stile con cui viene posta una notizia finisca per essere più
importante della notizia stessa.

 Serve quindi ricalibrare il rapporto tra le legittime aspirazioni del pubblico e la necessaria attenzione per ciò che viene
comunicato, non solo per il modo in cui viene fatto = bisogna ripensare la nozione di retorica distinguendola tra “buona”
e “cattiva”:
 “Buona” retorica: l’intenzione di regolare il proprio discorso a partire dalle esigenze dell’audience risultano
comunque subordinate alla necessità socratica di “dire la verità”.
 “Cattiva” retorica: la volontà di raggiungere il proprio target risulta prioritaria indipendentemente dal contenuto
comunicato  in tal caso: lo scopo del comunicare è solo persuadere; si impone la figura del leader (= colui al
quale affidarsi semplicemente)

Che fare dunque? Rinunciare alla retorica o più nello specifico al principio di attenzione vs l’audience? In passato non sono
mancate posizioni che tendevano a questo esito: si è creduto di poter rinunciare alle argomentazioni che muovevano da tesi
comuni, animate dall’attenzione vs l’interlocutore, a favore invece di spiegazioni asettiche e impersonali.

 Così all’inizio dell’età moderna il paradigma del sapere retorico elaborato da Pietro Romano è stato soppiantato dalle
regole per la guida dell’intelligenza enunciate da Descartes. Per poi accorgersi nel ‘900 che la stessa conoscenza
scientifica non avrebbe potuto sorgere senza riferimento allo stile retorico, capace di porre riparo, come mostra
Feyerabend, alle stesse lacune dimostrative della scienza esatta.
Ecco perché dal 2° dopoguerra, è stato proposto da Chaim Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca il progetto di una nuova
retorica volta a individuare forme alternative di comunicazione del sapere.

Le riflessioni svolte da Fabbri fino ad ora non sono però una critica alla retorica, ma un avvertimento riguardo gli usi distorti di
essa!
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Aristotele nella “Retorica” (opera di 3 libri) fornisce una fondazione della disciplina, un’articolazione riguardo i suoi aspetti di
“tecnica” e “arte” e presenta concrete indicazioni per costruire un discorso che sia adatto all’uditorio ed efficace.

Poi Aristotele mostra la connessione stretta tra retorica e etica, in quanto l’etica è ritenuta parte della politica. Infatti nella misura
in cui l’ascoltatore è un interlocutore capace di decidere, compito del discorso retorico è mettere in opera l’adeguato modello di
persuasione conforme a ciascun argomento  NON per ottenere una persuasione a tutti i costi, MA per illuminare con consigli e
info.

Il retore rivela, secondo Aristotele, effettive competenze filosofiche: conosce il bene nelle sue tipologie e sa cosa è la virtù 
questo perché nella prospettiva aristotelica la retorica non può svincolarsi dall’etica e dalla politica MA rappresenta un odo valido
di promuoverne i contenuti

 Quindi non sono etica e politica a essere subordinate alla retorica, ma è la retorica, la pratica di attenzione/rispetto vs
l’audience, che diviene funzionale alla promozione di regole rispettate e condivise

IL CRITERIO DELL’UTILITA’

Per avere regole rispettate e condivise però serve una prospettiva comune riconosciuta come senso, scopo, valore da perseguire
= il principio supremo dell’agire morale deve promuovere la diffusione di una prospettiva che può essere universalmente
condivisa in cui ciascuno opererebbe per compiere tutto ciò che gli altri soggetti morali nelle sue condizioni intenderebbero
attuare.

Questa ricerca di un principio universale capace di contemperare l’interesse di ciascuno con l’interesse di tutti è oggi molto
criticata. Perchè:

- Un tale principio, anche qualora venisse individuato, non sarebbe in grado di dare voce alle istanze specifiche che
provengono da mondi/realtà differenti
- Risulterebbe astratto, vuoto e tutto sommato inutile
- Anche se venisse applicato sarebbe la maschera con cui una cultura si riterrebbe depositaria dei “valori” universali
imponendosi alle altre culture

Possiamo abbandonare così senza rimpianti la ricerca di una dimensione condivisa, MA al suo posto proliferano concezioni che
rivendicano la loro particolarità e i loro diritti (es. quelle che riguardano la religione, la razza, dal genere o che provengono da
certe culture…)  in tal modo si sviluppa quindi il trionfo di un punto di vista “liberale” in cui il moltiplicarsi di idee settoriali
contribuisce a stabilirne la loro efficacia.

MA l’emerge di istanze specifiche mette paura  hanno spesso esiti violenti, e non lasciano spazio alla comunicazione ma solo
all’uso della forza

MA quale è il criterio morale a cui si richiamano tutte queste posizioni? Il principio dell’utile!  del mio utile o al massimo
dell’utile di un gruppo  l’affermazione dell’utile è infatti sempre di parte = una parte che può rivendicare ciò che essa ritiene
utile per sé, e questa rivendicazione può essere in conflitto con altre istanze, anche esse volte a perseguire un utile particolare o
essere riconosciuta e condivisa da altri i quali vi riconoscono le condizioni per realizzare il loro stesso utile.

IN OGNI CASO PERO’ l’utile di un gruppo o una persona NON potrà mai essere realmente partecipato da tutti i soggetti
morali, mai diventare patrimonio comune perché qualcuno verrà escluso, anche se pochi  per questo NON si potrà mai
eliminare il potenziale conflitto che esso comporta!

Ecco perché sovente la mediazione dei vari interessi parziali non viene giustificata da un punto di vista etico MA giuridico (=
con sanzioni)  MA è difficile trovare una mediazione: anche se la trovassi all’intero di una comunità/Stato poi comunque
resterebbe aperto un potenziale conflitto a un ulteriore livello.

Tuttavia il principio dell’utile richiede di essere giustificato da un punto di vista teorico anch’esso può presentarsi come teoria
filosofica e assumere forma universale: è la dottrina dell’utilitarismo

La tesi di fondo è: tutti gli uomini sono indotti ad agire spinti dal perseguimento dell’utile e “utile” è tutto ciò in cui si realizza la
felicità individuale. Anche se è vero che vi sono vari modi in cui il perseguimento dell’utile può essere inteso

Nell’utilitarismo questa tendenza alla felicità è considerata l’elemento che contraddistingue tutti i soggetti morali, di più, questa
tendenza è destinata sovente a comporsi in una prospettiva più generale di raggiungimento dell’utile comune  compito

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dell’utilitarismo è quindi individuare il modo in cui la ricerca della felicità del singolo può condurre all’affermazione dell’utile
collettivo (serve capire cosa rende felici il maggior numero di persone)

MA c’è un che di paradossale in tale assunto: quello cioè che universalizza proprio il principio dell’utile in cui è affermata la
particolarità di ogni movente morale, perché ciò che l’universalismo sostiene è l’universale tendenza dell’uomo a perseguire il
proprio utile.

MA come definire questo “utile”? E come fare in modo che il perseguimento di questo utile individuale produca il
benessere dell’intera comunità?
Bisogna distinguere 2 sig.ti riguardo il concetto di universalità che si annunciano nella dottrina dell’utilitarismo:

- Quello riguardo la forma che questa dottrina, se vuole presentarsi come tale, deve assumere
- Quello relativo alla possibile lettura volta a contemperare le proprie esigenze con quelle altrui

La storia dell’utilitarismo classico ci mostra come il principio dell’utile possa essere interpretato -ce lo insegna John Stuart Mill –
non solo con una prospettiva egoistica ma anche tenendo conto dell’”utile collettivo”  interpretazione qualitativa del criterio
dell’utilità

Mill quindi corregge gli aspetti unilaterali che rimanevano nella definizione quantitativa dell’utile, data da Jeremy Bertham.

Resta comunque aperto il problema: come raccordare il perseguimento dell’utile individuale con il perseguimento del “bene” per
il maggior numero di persone?  questo problema si ripresenta anche quando il criterio dell’utilità viene assunto come elemento
paradigmatico nell’ambito dell’etica della comunicazione.

 In questo caso questo modello viene adottato perché: è facile da comprendere, è un’indicazione sperimentabile e
stabilisce le motivazioni del proprio e altrui comportamento MA in che modo costituisce il criterio che consente di
riconoscere e perseguire ciò che è bene? Rispondere a queste domande vuol dire chiamare in causa l’esigenza dell’utile
individuale (legittimando ciò che può procurarmi un vantaggio = se mi è utile posso anche mentire) ma soprattutto quella
dell’utile collettivo (legato all’utilitarismo teorico = promuovere il bene per il numero maggiore di persone*).

*nella concezione di William S. Howell l’etica della comunicazione ha “utilità sociale”  Howell propone alcuni criteri per
definire il grado di utilità de un sistema di etica della comunicazione:
 esso deve essere in grado di autoaffermarsi
 sia l’emittente che il destinatario devono condividere la responsabilità della riuscita dei loro processi comunicativi
(questo avviene solo se sono promossi quei comportamenti che spingono l’agire comunicativo degli interlocutori verso
l’utile comune)
Secondo H: l’etica della comunicazione rimanda a un contesto ed è sempre funzionale ad esso, inoltre l’utilità sociale resta il
criterio standard di ogni decisione etica che possa essere assunta in ambito comunicativo.

La proposta di H fa però sorgere interrogativi, uno in particolare: il problema della motivazione (= perché bisogna agire secondo
il principio dell’utile e non secondo altri criteri? Perché non preferire ad esempio criteri antieconomici che sono solo dettati dal
desiderio di donare? Perché l’affermazione dell’interesse, individuale o collettivo appare così necessaria?)

Per rispondere a tali domande l’indicazione può essere, ancora una volta, il riferimento a una “natura” umana (un riferimento
non sempre esplicitato, data l’”evidenza” nei comportamenti dell’uomo del suo agire secondo utilità)  COMUNQUE con il rif. a
una particolare natura umana siamo tornati alle difficoltà proprie del primo modello di etica della comunicazione (oltre a non
risolvere affatto quei problemi così evidenti nella situazione attuale legati al proliferare di istanze parziali).

IL PRINCIPIO DELLA COMUNITA’ DELLA COMUNICAZIONE

Può farlo forse solo quest’ultimo modello di etica: quello che richiama al principio della comunità della comunicazione  che
possibilità apre? Che limiti ha?

Secondo Apel all’interno dell’ambito comunicativo è possibile vedere all’opera principi morali ben precisi, le norme fondamentali
della:

 giustizia
Tutte e 3 s’annunciano ogni volta che viene fatta esperienza di una relazione
 solidarietà
 co-responsabilità nella quale gli interlocutori sono in grado di argomentare presentando il
proprio discorso in forme condivisibili da tutti

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Vi è la possibilità di individuare alcuni principi atti a regolare i nostri processi comunicativi (come propone l’etica della
comunicazione propriamente detta) ma soprattutto che vi sono criteri morali già insiti e vigenti nella concreta attività di
comunicazione = si delinea un’etica nella comunicazione

E da questo assunto che può delinearsi il progetto di Apel: fondare l’etica generale su ciò che a prima vista sembrerebbe un’etica
applicata.
Per Apel ogni parlante è membro di una “comunità illimitata della comunicazione” e ciascun interlocutore non può aggirare i
principi che sono all’opera nell’esercizio del comunicare: innanzitutto non può evitare di comunicare; poi ogni essere razionale
l’argomentare risulta inaggirabile (anche perché per negare l’argomentazione bisogna avvalersi di essa)
 ecco secondo Apel insomma lo sfondo trascendental-pragmatico del pensare nel suo intreccio con il comunicare

Non solo l’argomentazione è inaggirabile, ma lo sono anche i principi che regolano la comunicazione: in particolare i criteri
morali che di volta in volta la regolano. MA qui emerge il problema della legittimazione della teoria di Apel: il problema del
collegamento tra “parte A” ideale e “parte B” reale.

 Apel affronta questo problema assumendo che l’applicazione dei principi ideali al mondo della comunità comunicativa
reale è un obbligo, e poi fa riferimento alla “responsabilità” che ciascun interlocutore ha di fronte alla storia: alla sua
storia di persona e a quella globale dell’umanità.
Alla base di tale questione però sta il duplice modo in cui le norme fondamentali della comunità della comunicazione vengono
intese, all’interno del sistema Apeliano, nella loro capacità di essere applicate. Lo stesso Apel afferma che:

 Da un lato esse “sono già sempre state riconosciute”


 Dall’altro “noi in quanto argomentanti le imponiamo a noi stessi, come pure a tutti i partner del discorso, in un atto di
autonoma autolegislazione”

 in altre parole, seguendo Kant, emerge il problema di verificare “come sia possibile che l’uomo sia assoggettato alla legge
morale ed insieme suo legislatore”.

Il tentativo di Apel di collegare questi due livelli non sembra convincente: resta il pericolo di un’oscillazione fra l’atto di
descrivere e i principi morali insiti nell’agire comunicativo e l’affermazione dell’obbligo di porli in opera.

 Apel dunque non da una risposta univoca al problema riguardante il senso del comportamento morale di ciascun
interlocutore e non stabilisce perché il singolo individuo, in quanto comunica, di fatto può assumere decisioni etiche 
serve dunque ripensare il modello Apeliano

Come?
A patto di considerare i criteri morali insiti nella comunità della comunicazione NON come necessità, ma come
opzione: l’accordo comunicativo garantito dai principi di giustizia, solidarietà e co-responsabilità deve essere un
accordo soltanto possibile (= suscettibile di essere scelto)

Se teniamo conto di questa condizione preliminare (che possiamo def. come direbbe Kant: “trascendentale”) sta poi a noi
scegliere se realizzarla di fatto o no  MA sempre confortati da una garanzia: sulla base di un adeguato
approfondimento del concetto e delle partiche comunicative è possibile per noi comportarci moralmente (anzi, è
auspicabile)

Ovviamente, non mancano le occasioni di fraintendimento il linguaggio infatti sia organo che ostacolo di intesa) MA, a
differenza di ciò che accade in Apel, la conferma della prospettiva possibile di un’etica della comunicazione non deriva
dall’inaggirabilità di un principio astratto come quello della “comunità della comunicazione”.

Inaggirabile è invece l’ambiguità del linguaggio stesso = esso è una struttura paradossale  possiamo scegliere se
privilegiare la volontà di intesa o l’intenzione del fraintendimento, intesa che però è strutturalmente sempre possibile.

ETICA COMUNICATIVA

L’etica nella comunicazione NON propone solo un modello di ricostruzione/fondazione dell’etica generale MA offre anche la
giustificazione dei criteri che consentono di def. cosa sia “buono”, sia di praticare il bene.

Apel e Habermas  ci aiutano a elaborare una un’etica comunicativa MA a patto di def. meglio il legame che c’è tra principio
assoluto e ideale della comunità della comunicazione e la sua realizzazione storica e concreta. Ciò che Apel considera un

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passaggio necessario è opportuno che venga trasformato in una possibilità (= i principi insiti nell’agire comunicativi sono
applicati di volta in volta alle situa vissute dagli interlocutori  i parlanti sono chiamati alla loro responsabilità)

La scelta etica fondamentale davanti a cui è posto chiunque comunica concerne allora la possibilità di essere fedeli o meno ai
principi etici che comunque sono propri dell’atto comunicativo  principi che promuovono in varie forme il legame
dell’intesa  MA non ci sono regole che ci risparmiano questa decisione

Se poi volessimo legittimare ancora il concetto di “comunità della comunicazione” con tutte le sue implicazioni etiche potremmo
richiamare il paradigma alla base dei vari concetti di “comunicazione”  creare uno spazio comune fra interlocutori.
Non si dovrebbe parlare di “universalità” ma di “universalizzabilità” = affermarsi, grazie alla comunicazione, di una prospettiva
universale.

In ogni caso, come tutti i modelli di comunicazione trovano giustificazione nell’idea del comunicare come spazio comune, anche i
diversi tipi di etica della comunicazione analizzati finora sono fondati sull’etica comunicativa. Essi pretendono una fedeltà a sé
ovvero alla propria natura, ovvero
- La disponibilità, nel dialogo, a rischiare se stessi per l’intesa con l’altro
- L’intenzione di adeguarsi a ciò l’interlocutore si attende da noi
- La sollecitazione a conformarsi a quel principio dell’utile

Ma in che modo questi modelli di etica della comunicazione possono essere sostenuti e giustificati nell’ambito concreto della
comunità comunicativa e dei principi morali già iscritti in essa? Perché lo sfondo di riferimento, che si annuncia al di là dei
paradigmi etici esaminati, può essere quello della promozione e dell’attuazione dell’idea per cui comunicare è l’effettiva creazione
di uno spazio comune?
 Per rispondere a queste domande dobbiamo affrontare la questione del senso = è questo il problema che i modelli di etica
precedentemente illustrati non riescono a risolvere

Il principio della “natura” umana a cui dovremmo uniformarci per comunicare bene risulta essere qualcosa che si impone
“insensatamente”, quindi perché dovremmo regolarci su di esso?

In ultima analisi: perché dovremmo comunicare “bene”?

A queste domande si può rispondere solo se teniamo insieme: il riconoscimento dell’istanza etica (sempre presente nei
processi comunicativi) + idea del comunicare come creazione di uno spazio comune + possibilità di scegliere caso per
caso la prospettiva di un comunicare finalizzato a promuovere la condivisione
=
In questo modo possiamo identificare un PARADIGMA GENERALE di etica (nonostante i vari modelli)

Siamo portati a riconoscere nella dinamica comunicativa una serie di implicazioni etiche, e siamo portati a fare ciò non
per assumere qualcosa di “naturale” MA qualcosa che piuttosto è “trascendentale” (= per Kant, caratteristico, in
maniera non occasionale, di ciò che stiamo facendo)  questo ci spinge a privilegiare il legame e l’intesa (non la
separazione e il fraintendimento)

Questo vuol dire che i criteri del comunicare con le loro implicazioni etiche non dipendono affatto da qualche essenza
previamente fissata MA dalla struttura stessa della comunicazione

Questa concezione del comunicare è inaggirabile e ineliminabile (come dice Apel), ma lo è in quanto funzione da
attivare (e noi siamo di fronte alla scelta di essere fedeli o meno alla possibilità di promuovere la condivisione  è di
fronte a questa scelta che si palesa la questione del senso  noi possiamo solo dare ragioni precise per sostenere una
scelta morale, che devono essere condivisibili da tutti = universalizzabili)

Universalizzabile: è ciò che coinvolge quella dimensione di legami senza tensioni in cui sono collegati insieme ciò che è insito
nella struttura dinamica del linguaggio e ciò che facciamo quando parliamo e ciò che ci aspettiamo dagli altri come interlocutori

Se ragioniamo in questa prospettiva ci imbattiamo in una analogia tra il comunicare e la capacità che gli uomini hanno di amare e
odiare  anche amore e odio sono caratterizzati da una struttura paradossale (da un lato siamo coinvolti quotidianamente nella
dimensione di legame e di senso che può dare l’amore, dall’altro siamo sempre chiamati a riconfermare o meno la possibilità di
una relazione amorosa)

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L’ambito della motivazione è l’ambito dell’etica, perché in essa è sempre in gioco la libertà di scelta  nella sfera comunicativa,
tuttavia, la decisione per l’intesa non è affatto qualcosa di arbitrario ma risulta fondata sulla struttura stessa del linguaggio:
scegliere l’intesa vuol dire accordarsi con la possibilità di accordo che è inscritta nell’atto stesso del comunicare.
 È vero che il linguaggio può essere anche condizione di fraintendimento, ma quando ciò avviene si dà nella forma
paradossale di un legame che assume la forma del distacco = un collegamento che mira alla separazione, ma che è
comunque un legame! (analogia con l’odio: forma di affettività che coinvolge paradossalmente promuovendo la
divisione)

Ecco dunque un ulteriore argomento per sostenere che ha senso conformarci a quella condizione comunicativa, eticamente
connotata, che abbiamo messo in luce e che ci coinvolge in una dimensione di senso.
Ora serve verificare però sul terreno dei comportamenti quotidiani il modello di etica comunicativa che abbiamo fin qui esposto

Cap. 4 L’ETICA DELLA COMUNICAZIONE OGGI

ETICA DELLA COMUNICAZIONE PER TUTTI

Non si può NON comunicare  MA possiamo comunicare bene o male (sia per quanto riguarda l’efficacia, che per quanto
riguarda lo scopo)  si apre così, all’interno del contesto comunicativo un ambito di scelte (quindi serve un’etica della
comunicazione)

Non possiamo non comunicare = non possiamo non scegliere  riguarda quindi tutti gli esseri umani, anche chi comunica per
professione (giornalisti, pubblicitari, mediatori interculturali…). Quindi serve approfondire i modi diversi in cui l’impegno etico si
può presentare:
 da un lato nell’agire comunicativo quotidiano
 dall’altro nell’attività di coloro che fanno della comunicazione il loro mestiere
= servono indicazioni morali sia per gli operatori della comunicazione che per ogni potenziale interlocutore

Ma dobbiamo tenere presente anche 2 atteggiamenti che chiunque fa comunicazione può assumere vs il contesto comunicativo in
cui è inserito:

 possiamo interrogarci sui comportamenti da adottare di fronte alle varie forme di comunicazione (prospettiva esterna)
 possiamo approfondire gli atteggiamenti che è bene di volta in volta assumere all’interno di ciascun ambito
comunicativo (pienamente inseriti)

Quindi possiamo considerare i nostri comportamenti secondo due aspetti:

- mettendoci alla ricerca di un’etica che viene elaborata rispetto alla sfera della comunicazione = discutere l’esigenza etica
da un lato che sorge nei linguaggi giornalistici
- tentando di identificare regole e criteri atti a orientarci nell’ambito della comunicazione stessa = discutere l’esigenza etica
entro questa stessa dimensione

Argomento che tratteremo: delineare il quadro delle scelte che chiamano in causa tutti noi nella misura in cui comunichiamo.

ETICA DELLA PAROLA, ETICA DELLA SCRITTURA, ETICA DELLE PROFESSIONI COMUNICATIVE

Chi parla/scrive ha l’esigenza di essere ascoltato, creduto, ora e nel futuro = vuole lasciare un segno del sè
Chi ascolta/legge ha la disposizione a credere  questa fiducia si declina in modi diversi: è diversa la lettura di un romanzo (dove
si presume che sia detta la verità) da quella di un libro di fantascienza (dove si presume che sia detta la finzione)

In ogni caso tra chi parla e chi ascolta c’è una fiducia: chi parla deve esibire le credenziali di una credibilità  anche quando
insulta/inganna (anzi, inganno e insulto giungono a segno solo se chi li fa è credibile). Questa credibilità può essere esibita in varie
forme:
- rinviando alla verifica di quel che uno dice
- riferendosi a chi può supportare la sua opinione Modi in cui si realizza il fenomeno
- garantendo egli stesso la veridicità di ciò che sostiene della “testimonianza”

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Intendiamoci però: chi ascolta sa che non tutto ciò che viene detto è degno di fiducia, MA sa anche che senza un’apertura
preliminare di credito non si ha comunicazione  QUINDI: possono realizzarsi forme non cooperative di comunicazione, MA
avvengono entro lo sfondo di un’intesa possibile (= solo se si presuppone questo sfondo si può ingannare l’interlocutore)

 emerge uno specifico carattere che contraddistingue la conversazione: alla base di essa c’è una volontà tacita di
accordo! = non è ingenuità, si tratta solo di rilevare che nel parlare comune ciò che viene presupposto è un generico
atteggiamento di fiducia (a partire da questo si crea uno spazio condiviso tra interlocutori)
insieme però, la comunicazione è il luogo in cui si realizzano specifiche mediazioni, attraverso le parole e lo scritto  e in questi
rapporti emerge un atteggiamento diverso dalla confidenza: venendo meno il coinvolgimento può subentrare l’intenzione di
promuovere distacco e separazione, scorrettezza e menzogna.

Es. consideriamo la relazione comunicativa che si attua per iscritto: situazione di chi scrive/legge ≠ situazione di chi
parla/ascolta  chi scrive/legge è indotto ad essere meno ingenuo

Platone (nel Fedro): non si tratta solo di rinunciare, per l’invenzione della scrittura, all’esercizio del ricordo (perché si finisce per
sostituire la memoria, che invece è in grado di trarre da sé contenuti già recepiti e elaborati interiormente, con la possibilità di
richiamare alla mente qualcosa attraverso segni esteriori); non si tratta solo nemmeno di scambiare il vero (frutto di un’esperienza
personale) con l’apparenza di un sapere che risulta mediato da notizie tramandate per iscritto….l’essenziale è invece quando la
scrittura viene paragonata alla pittura:

I prodotti della pittura ci stanno davanti come se vivessero, ma se li interroghi stanno in silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: ti sembra che
possano parlare ma se tu chiedi loro qualcosa esse ti manifestano sempre e solo la stessa cosa. Ogni discorso scritto ha sempre bisogno che il padre gli venga in
aiuto perché da solo non può difendersi né aiutarsi

MA non si tratta di rimpiangere i racconti orali, ma solo di aver chiaro che con l’esercizio della scrittura viene meno il
coinvolgimento diretto che lega parlante e ascoltatore perché si intromettono le parole scritte  che sono lasciate a se stesse,
sono fisse, dicono sempre la stessa cosa. Lo scritto ha bisogno di qualcuno che lo faccia rivivere riportandolo al discorso parlato
 perché di fronte allo scritto è venuta meno la responsabilità immediata di chi si esprime (e con essa ogni istanza di
correttezza, onestà, veridicità)

MA non c’è la possibilità che siano governate eticamente anche e mediazioni della scrittura? Sì! Indica la capacità di individuare i
modi in cui il legame della comunità della comunicazione si ripropone ai vari livelli di mediazione messi in opera dalla presenza
del segno scritto  questa dimensione è decisiva per tutti, ma soprattutto per particolari professioni (non solo i giornalisti, ma
anche chi fa comunicazione pubblica, interculturale, bio-sanitaria…). Questi tipi di comunicazione riguardano 2 livelli:

 quello in cui vengono presi da parte dei responsabili le opportune decisioni


 quello di chi è effettivamente interessato da queste decisioni

Il comunicatore è quindi l’intermediario che istituisce uno spazio comunicativo fra chi decide e chi è interessato dalle decisioni.
Ecco allora che il comunicatore:

o nella comunicazione pubblica e istituzionale il comunicatore fa da tramite fra istituzione e cittadino


o il comunicatore interculturale è chiamato a una mediazione che riguarda i linguaggi, le culture, le religioni che
caratterizzano persone diverse nello stesso territorio (la necessità di quest’opera si è sempre più diffusa e ha
caratterizzato la dimensione scolastica, le problematiche della cittadinanza …promuovendo la convivenza rispettosa delle
diversità)
o la centralità della comunicazione in ambito bio-sanitario sia nel rapporto tra cittadino e istituzione (ASL) sia nel
rapporto medico – paziente (sia perché serve una corretta info sugli esiti della cura o sulla salute senza usare tecnicismi,
sia perché serve considerare il paziente come alleato nella terapia)

La cosa importante è che: da parte di chi opera in questi ambiti della comunicazione deve esserci non solo l’impegno a
promuovere questa dimensione condivisa ma anche la scelta esplicita di essa e l’assunzione di quella responsabilità che consente
di promuoverla = contro il fraintendimento deve essere compiuta la consapevole opzione per un legame trasparente  è questa
scelta che permette al comunicatore di compiere bene il suo lavoro.

Tutto ciò vale anche per:


o la comunicazione pubblicitaria  nonostante sembra che il modello sia quello dell’audience le cose non vanno
esclusivamente così. Perché è vero che la pubblicità cerca di convincere il potenziale compratore all’acquisto e per far
questo ogni mezzo è lecito (i vari codici deontologico non pongono limiti e regole efficaci)

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o la comunicazione politica (che da tempo in Italia ha preso come suo modello la pubblicità)  oggi non conta la
diffusione di un programma quanto il modo più efficace di promuovere l’immagine di un candidato

Tuttavia bisogna tenere ben presente che né la pubblicità né la comunicazione politica raggiungono il loro scopo se vengono meno
alcune condizioni:
- il mantenimento della fiducia tra emittente e destinatario
- la salvaguardia della credibilità del prodotto ai fini della sua acquisizione

Es. campagne pubblicitarie ritirate perché era venuta meno la fiducia nell’azienda, nel testimonial, nel prodotto…

 La dimensione della fiducia e della credibilità è dunque ciò che è chiamato a custodire chi comunica, più ancora: è ciò
di cui egli risulta responsabile = QUI emerge l’esplicita valenza etica della sua attività e qui si apre l’ambito delle
scelte: a favore o contro di questa condizione seguendo uno o l’altro dei modelli di etica della comunicazione

VERITA’ E MENZOGNA IN SENSO MORALE

La questione della verità  problema centrale per chi vuole elaborare un’etica della comunicazione: in che modo è possibile
contemplare la prospettiva che è stata fin qui delineata con l’istanza che spinge a dire la verità e, magari, dirla a ogni costo?

Questo argomento ha una lunga storia a livello filosofico:


 Fine ‘700: dibattito fra Benjamin Constant (attento alle conseguenze di cui è responsabile chi dice la verità) e
Immanuel Kant (che considera il dire la verità un principio incondizionato  Es. dell’assassino a casa a cui devi dire
dove è nascosto il tuo amico)

Cosa può dire in questo dibattito l’etica della comunicazione? Una risposta adeguata deve tenere conto dei diversi modi in cui il
termine “verità” va inteso e vissuto  bisogna infatti distinguere tra:
- “verità”: corrispondenza fra ciò che dico e ciò che è
- “veridicità”: corrispondenza fra ciò che penso (o meglio, ciò che sono) e ciò che dico

Va poi tenuto conto dei significati che il termine “verità” ha assunto nella storia del pensiero: non c’è solo il significato che
rimanda alla corrispondenza fra ciò che dico e ciò che è; ma c’è anche una ben precisa relazione al carattere “personale” della
verità stessa 0 al fatto che “dire la verità” coinvolge in prima persona chi lo fa (a questo si rif. il termine ebraico emet tradotto
comunemente con “verità”)

Lo spazio del termine “verità” è molteplicemente articolato  e se si accoglie la prospettiva dell’impegno personale anche la
verità diviene un compito (= il compito di chi comunica “la verità” è quello di legare i differenti sig.ti del “vero” al suo proprio
impegno a “dire la verità” = collegare obiettività/correttezza di quel che si dice alla dimensione di fiducia che sta a ciascun
interlocutore dischiudere)

Si ripresenta il tema della confidenza e della comunanza come sfondo generale dei processi comunicativi  quindi né Constant
né Kant hanno ragione! Perché entrambi trascurano il nesso tra la prospettiva dell’adeguazione e l’impegno in prima persona a
dire e realizzare il vero = questo vuol dire che vi è verità solo se ciò che viene detto risulta funzionale alla creazione, alla
promozione, al mantenimento del nesso comunicativo. Comunque esso venga inteso.  MA questo è legittimo? Possiamo
rinunciare a cuor leggero alla correttezza e all’obiettività pur di salvaguardare e promuovere il legame della
comunicazione? Cioè: purché la conversazione continui?

ETICA E GIORNALISMO: LA QUESTIONE DELL’OBIETTIVITA’

Si dice e si spera che la comunicazione sia “un fattore di democrazia e di umanità” e che i giornalisti siano coloro che per
professione contribuiscono a salvare questa “sfera pubblica” (come la chiama Habermas) fino a indicare, in prospettiva, “un
modello di società democratica da servire” questo significa appunto, sul piano sociale – civile – politico, comunicare in modo
da promuovere davvero un legame fra gli interlocutori.

Ma cosa accade spesso in alcune società democratiche? Che pur di proteggere questo legame comunitario si sacrifica
l’obiettività, la correttezza, la verità, comunque intese  e lo f sia l’uomo politico che il giornalista. Gli esempi non mancano:

Es. cosa è successo negli USA dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Afferma Roberto Reale:

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Una ricerca afferma attesta come l’80% dei cittadini USA si sia approvvigionato di notizie sull’attacco americano all’Iraq soltanto dalla televisione. E c’è anche un
particolare “sconvolgente”. Nell’estate 2003, 1 americano su 5 era convinto che Saddam Hussein avesse usato le armi chimiche e biologiche contro i marines in
marcia su Baghdad. E dove si era informata questa gente? Tutta in televisione. Nessun reporter aveva mai detto in un servizio questa sciocchezza, era bastata
l’enfasi sul pericolo imminente, sulle maschere antigas indossate dai soldati a indurre il pubblico in errore.

In questo (e in molto altri casi) l’esigenza di coesione ha preso il sopravvento sulla correttezza dell’info: da parte del giornalista si
ripropone molto spesso, nella situazione di guerra anomala e non dichiarata in cui è stata coinvolta la maggior parte dei paesi
occidentali, la scelta di quel legame comunicativo che mira ad ogni costo alla coesione piuttosto che alla volontà di approfondire.

Ma davvero l’alternativa è tra il patriottismo e la necessità di un giornalista di fare bene il suo lavoro? Cosa vuol dire obiettività?

Il giornalista, lo sappiamo, non può essere obiettivo  lui interpreta il mondo, no lo rispecchia. Comunica anche qualcosa di sé. Il
bravo giornalista non ci da meri fatti ma anche prospettive sul reale: idee.
Assumendo questa prospettiva ne consegue che il concetto di “obiettività” subisce una trasformazione radicale, non si può più
considerare sinonimo di neutralità.

L’objectivity americana (che in America è un valore: il giornalista fa meglio il suo lavoro quando registra i vari punti di vista
sull’argomento = neutralità) è un comportamento importante e deontologicamente corretto MA è solo un punto di partenza, perché
è impossibile non far trasparire la propria ottica!  sempre negli USA adesso si tende a privilegiare, rispetto all’objectivity, la
fairness (ovvero l’”equità”).

Al principio di fairness si appella nel 1702 l’editoriale di presentazione del primo quotidiano “The daily Courant”. “Equità” vuol
dire assumere un comportamento in cui l’interpretazione adottata è volta non già a far prevalere una parte o a convincere della
giustezza di una tesi, bensì a favorire il dialogo ed il libero dibattito = nel nostro caso, promuovere le opportunità di informare
e essere informato.

Serve dunque una concezione articolata di ciò che chiamiamo “obiettività”  un giornalista è tanto più obiettivo quanto interpreta
ciò che ha di fronte, offrendo nuove prospettive e lasciando aperte le opportunità del pubblico dibattito

MA nell’epoca complessa in cui viviamo anche queste generali indicazioni di comportamento non bastano:

 Da un lato il rischio è che la rinuncia alla ricerca di un’obiettività finisca per trasformarsi in un alibi per eventuali
comportamenti deontologicamente e moralmente scorretti
 Dall’altro perché resta il problema di motivare adeguatamente la scelta di un atteggiamento di correttezza/equità
nell’esercizio della propria professione

Es. se l’obiettività è un mito allora si può tralasciare il reperimento diretto delle fonti …inoltre si rischia di eliminare il criterio
stesso della “verità” almeno secondo il senso per cui i fatti devono comunque essere rispettati, pur nell’interpretazione che di essi
è inevitabile dare  rinunciando a ci si finisce per essere rinviati alla coscienza/onestà del singolo giornalista.

Famosa frase di Hubert Beuve-Méry, fondatore di “Le Monde”  “l’obiettività non esiste, ma l’onestà sì”

Certo, guai se il giornalista è disonesto, ma l’onestà non basta. Non si può confondere la “verità” (il rispetto di come stanno le
cose, certamente viste dalla prospettiva del giornalista), con la “veridicità” (il rapporto di corrispondenza fra ciò che il giornalista
dice e ciò che pensa). E tanto meno si può fondare la prima sulla seconda! Serve un’etica fondata e condivisa!

Anche nel campo giornalistico il riferimento alla deontologia professionale risulta indispensabile, MA non basta! Ad esempio in
Italia, se si giudica la quantità di codici deontologici prodotti, dovremmo essere una delle realtà eticamente più avanzate…
ovviamente non è così. Ci sono infatti molte urgenze nel nostro paese:
- Il pericolo di una manipolazione della realtà
- La sovrabbondanza di info
- La mercificazione delle notizie
- La concentrazione in poche mani dei mezzi di info (e quindi il rischio che venga subordinata ad altri poteri e diventi
propaganda)

Il rispetto delle regole deontologiche, dunque, rimanda al di là di quella che è la deontologia stessa  trova la sua motivazione
solo in ambito etico: il rispetto può essere sostenuto dall’assunzione consapevole della propria responsabilità specifica che è
propria della sua professione e da quei principi che sono in grado di orientare la sua attività: solo così possiamo dire che è stata
fatta buona informazione.

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Ma quindi, fra il principio dell’obiettività e quello della coesione comunicativa quale deve essere il criterio scelto dal giornalista?
 già è emersa l’inadeguatezza di ogni posizione che considera rigidamente contrapposti questi due principi, e tale
contrapposizione favorisce il suo uso ideologico. Non si può avere comunanza senza rispetto dei fatti! Anche se fin troppi sono i
casi in cui ciò è avvenuto (il Novecento e i mezzi di comunicazione di massa), ma la tensione verso l’obiettività riemerge, a
prescindere dal fatto che ogni ideologia tenta di sopprimerla.
La democrazia si promuove anche facendo bene il mestiere di giornalista.

ETICA E TELEVISIONE: LA NOTIZIA FA SPETTACOLO

Il giornalista, nella sua obiettività, deve commisurarsi alla realtà. Ma c’è davvero una “realtà” a cui fare riferimento? L’attività
giornalistica deve interagire con la modifica che il concetto di realtà ha avuto nell’epoca della tv/social/internet?  di più:
l’attività giornalistica risulta una delle componenti che incide sulla trasformazione del concetto di “realtà”?

Sono domande retoriche. Perché lo abbiamo visto: contribuendo alla costruzione dell’opinione pubblica il giornalista contribuisce
a costruire un’“immagine” della realtà. E tuttavia, sappiamo che l’immagine della realtà non coincide con la realtà stessa.
 Giornalismo televisivo, consideriamone tutte e tappe: progetto iniziale di una TV pedagogica a un modello di
trasmissione sempre più volto ad assecondare i gusti dell’audience; e parallelamente a questo percorso, dal monopolio
della tv di stato all’imporsi di una concorrenza sempre più agguerrita fra le varie emittenti private e pubbliche con la
guerra di ascolti.

Ma che trasformazioni hanno subito i soggetti coinvolti in questi processi?


Il telespettatore non è più un destinatario dell’atto comunicativo e diventa merce di scambio (perché per un emittente
commerciale il vero cliente “non è il pubblico, ma l’inserzionista pubblicitario”)

Ciò che contraddistingue il mezzo televisivo è la sua capacità di creare verosimiglianze, moltiplicare immagini, ampliare la
possibilità di pensare  nella TV realtà e irrealtà si confondono: tutto è finzione, e insieme, tutto risulta vero.

 “L’ho visto in televisione”: si sente ancora dire perché ciò che passa sullo schermo ha davvero la capacità di persuadere
= ciò che si vede s’offre nella sua immediatezza e così si crede che corrisponda a qualcosa di “reale”  qui
implicitamente si insinua un giudizio morale = ciò che non si vede, non esiste.

L’immagine che si presenta come “vera” è però “artefatta”  ci sono dei livelli di selezione: dominati di volta in volta dalle
esigenze dell’emittente, dell’audience, dai poteri interessati a ciò che va fatto o non va fatto vedere…si tratta comunque di una
selezione inevitabile, perché ogni visione avrà sempre i suoi limiti!  ecco il problema della tv: essa cancella, implicitamente o
meno, le tracce del fatto che ogni immagine risulta sempre particolare, definita, limitata a una certa prospettiva…!

Di questo, tutti quelli che sono coinvolti nei processi della TV si trovano ad avere una parte di responsabilità. Ecco dunque il
contesto generale che deve essere compreso dal punto di vista filosofico e che comporta una mutazione antropologica: un
accrescimento di certe funzioni umane a discapito di altre e un cambiamento nell’ordine dei valori condivisi.

Tutto oggi è ripensato a partire dalla sua visibilità e dalla sua capacità di “mostrarsi” = nulla sfugge alla spettacolarizzazione,
anche ciò che sembra ordinario può trasformarsi in spettacolo = non c’è nulla di emblematico, di eccezionale che possa servire da
modello, poiché tutto è spettacolo e si può fare spettacolo con tutto allora tutto può costituire un modello  ovvero, nulla è più
un modello

E se tutto è spettacolo viene meno ogni distinzione fra “realtà” e “apparenza”  perché si manifesta indifferenza fra ciò che è e
ciò che appare (lo schermo appiattisce tutto: ogni cosa è destinata a manifestarsi e scomparire di fronte al nostro sguardo
indifferente, lo spettacolo finisce per non avere più una storia, per non essere più narrazione)

Ma questi processi ci sono davvero indifferenti? Di questo spettacolo in effetti siamo noi i protagonisti!  questo vuol dire che lo
spettacolo non va più esso in scena e prodotto se esso coincide con la vita = viene meno la distinzione tra “natura” e “artificio”
(come nei reality show)  emerge qui lo scarso spessore dell’apparenza, la quale NON ha uno scopo: è insensata, ma forse è per
questo che coinvolge e attrae.

Questo è il contesto in cui ci troviamo e non stupisce che notizie e informazioni siano ormai trasformate in spettacolo 
telegiornali fanno una sintesi di informazione e intrattenimento! Emergono quindi con forza istanze etiche nuove (sia per gli
operatori, che per i telespettatori)  le esigenze etiche che si impongono nei confronti della tv lasciano spazio lasciano il campo a
problemi di comportamento più specifici:

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 Il rispetto del pluralismo
 La correttezza dell’info
 La protezione delle fasce più deboli
 Il rispetto della privacy
 Corretto trattamento delle minoranze

Per questo esistono specifici codici di autoregolamentazione:


- la RAI ha stabilito da tempo la Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli utenti e degli
operatori del Servizio Pubblico Radiotelevisivo.
- Ai professionisti è stato chiesto di tenere ben distinte la funzione di giornalista e quella di testimonial pubblicitario
(evitando conflitti di interesse)
- Tutela dei minori (come scritto nella Carta di Treviso)

Ma affinchè questi codici siano rispettati bisogna lavorare sul senso di responsabilità dell’operatore televisivo. Anche l’utente
può elaborare una sua etica della comunicazione (soprattutto ora che il telecomando moltiplica la possibilità di visionare canali,
proliferano le reti satellitari, si afferma la tecnologia digitale…)  con ciò l’etica della comunicazione sembra essere ridotta a che
canale scegliere, ed è vero che è così, MA nel mondo della spettacolarizzazione ogni scelta sembra essere indifferente (ed è con
essa che l’etica della comunicazione televisiva deve confrontarsi… la possibilità che l’utente spenga la tv).

Forse oggi c’è un nuovo rapporto tra realtà e immagine: rispetto al quale i fruitori NON sono solo spettatori MA vivono “dentro”
l’immagine stessa e contribuiscono a crearla.

ETICA E INTERNET: IL PROBLEMA DELLA REALTA’ VIRTUALE

L’applicazione delle nuove tecnologie nell’ambito della comunicazione ha provocato la nascita dei new media  questi mezzi
non sono mezzi (strumenti da usare per scopi esterni ad essi), perché non sono qualcosa di NEUTRO, ma da sempre interagiscono
con il pensiero  c’è un impatto sui comportamenti

 Le domande dell’etica non riguardano solo i modi in cui usare questi mezzi, dunque, MA la loro configurazione, i
cambiamenti che esercitano sull’uomo e sul mondo. I comportamenti che possiamo adottare
- Da un lato rispetto alle nuove forme di comunicazione  rispetto alla “realtà virtuale” (termine ossimorico); è un
termine che racchiude gli elementi della “possibilità”, della “potenzialità” e della “potenza”. Conformemente a tali
caratteri “virtuale” è ciò che possiede una virtus (= capacità di fare e farsi come qualcosa, ovvero diventare ciò che
si è in potenza). Non vi è contrapposizione tra ”realtà” e “virtuale” perchè il virtuale è un potenziamento della
realtà. In questa dinamica è implicito anche un giudizio morale: l’esercizio di questa capacità è considerata un bene.
- Dall’altro all’interno di esse  indicazioni di comportamento e prescrizioni

Emerge così l’idea per cui, da un punto di vista etico, si ritiene giustificato l’esercizio della propria virtus = “buono” è tutto ciò
che consente la realizzazione di sé e dei propri desideri  MA è una tesi che deve essere adeguatamente discussa + altro
problema: il fatto che il virtuale abbia sempre più spazio ha fatto sì che sia a oggi crescente non solo una realizzazione del
virtuale, ma anche una virtualizzazione del reale (= una perdita di consistenza dell’esistente)  ecco perché la realtà finisce per
dissolversi in un apparire e l’apparire diventa apparenza.
Quindi: da un lato il virtuale mira ad affermare il proprio potere di realizzazione; dall’altra la realtà viene decostruita e si aprono
nuovi scenari (perché “reale” è ormai solo ciò che appare).

MA in questa realtà virtuale e parallela non siamo di nuovo soggetti alla possibilità di compiere scelte precise? Non emergono
anche qui, per i netsurfers, criteri morali da individuare?

Con queste domande siamo già passate all’“etica di internet” e dell’”etica in internet” (comportamenti che possono essere
adottati quando si naviga)

Es. Arlene Rinaldi ha scritto “10 comandamenti” che dovrebbe rispettare chiunque usa un pc  ma in questo caso più che di
etica si dovrebbe parlare di “etichetta”
+
diverso è il caso di codici di autoregolamentazione che riguardano gli abusi più frequentemente perpetrati sul web (es. VS
minori)
+

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vi sono anche specifici regolamenti che danno indicazioni che consentono lo sviluppo di relazioni corrette in rete nelle comunità
virtuali (l’applicazione di questi criteri può anche richiedere un moderatore in grado di sanzionare eventuali trasgressioni…ma
non è una soluzione estendibile a tutto il web perché internet non è gestito da un ente supervisore)  c’è anche qualche
legislazione MA, nell’attuale situazione, un utente è chiamato a trovare in se stesso le motivazioni che lo spingono a seguire un
comportamento corretto

Siamo demandati a meccanismi di autoregolamentazione del sistema e al senso di responsabilità delle aziende. Ciò vale in casi
anche molto diversi:
- Un conto sono le violazioni perseguibili penalmente (es. pedofilia)
- Un conto sono le violazioni del galateo della rete (es. lo spamming, catfishing, troll)
- Un conto sono i problemi morali (es. a che scopi si usa la rete)
 Deve essere fatto ancora molto per una corretta gestione di tutto e per ridurre il digital divide

Dunque, anche in internet, per regolamentare l’agire non bastano i codici, servono motivazioni, serve stabilire perché bisogna
compiere determinati atti piuttosto che altri  questo fa l’etica in internet (riferendosi alla responsabilità), MA non basta, serve
anche un’etica di internet (che deve esibire i principi generali)  fondare questi principi è compito dell’etica della
comunicazione.

L’ETICA DISATTESA

La situazione quindi non è confortante  abbiamo preso in esame l’ambito dei giornali, di internet, della tv…considerando sia
operatori che utenti, e abbiamo messo in luce un filo conduttore preciso: il rapporto tra immagine e realtà
 Oggi assistiamo infatti a un progressivo assottigliamento della differenza tra verità e finzione
Oggi: il problema della verità nel suo rapporto con l’apparenza è cruciale nell’ambito dell’esperienza comunicativa  temi su cui
ci siamo soffermati - obiettività del giornalista, spettacolarizzazione della notizia, costruzione di una “realtà virtuale” – vanno letti
a partire da questo fenomeno.
Un effettivo mutamento di rotta non sembra dipendere dalla buona volontà delle persone interessate  l’etica da praticare
all’interno della sfera comunicativa sembra rinviare a quell’altra condizione etica, più ampia, che emerge nel rapporto dell’uomo
di fronte al mondo della comunicazione MA questo rapporto sembra essere accompagnato da un sentimento di impotenza: ecco
perché in ambito comunicativo l’etica oggi risulta disattesa.
 È un alibi? Una condizione in cui davvero dobbiamo prendere atto con inevitabile disincanto? O di una condizione di cui
dobbiamo prendere atto con inevitabile disincanto? Se la seconda ipotesi fosse vera le proposte nelle pagine di questo
libro non sarebbero che esigenze astratte, proposte che non tengono conto di come vanno le cose. Ben altro sembra
accadere: ciò che incide davvero sull’andamento della comunicazione sono i processi dettati da interessi economici o
dalla pressione sociale  sembra abbiano ragione coloro che sono convinti che le indicazioni deontologiche ed etiche
sono solo un orpello che non tiene conto della realtà o che copre interessi di altro tipo.

Per chi la pensa così, la lettura di questo libro è inutile. Perché la tesi di questo libro è:
LO STESSO ATTO COMUNICATIVO PUO’ RISULTARE, NELLE SUE VARIE FORME, UN ATTO ETICO

E si vuole sostenere questa tesi bisogna avere il coraggio di recuperare quelle possibilità che sono insite nello spazio della
comunicazione: le possibilità a partire dalle quali qualcosa può essere detto “buono”. Il compito di queste pagine è riattivare
comportamenti legittimabili moralmente quando tutto sembra ormai deciso.
Dunque facciamo chiarezza sulle scelte implicite di ogni atto comunicativo (compiuto o subito); l’autore ha cercato di trasformare
la comunicazione in scelta  delineare i modelli di etica della comunicazione è una scelta che si colloca al di là dell’orizzonte
limitato dei vari codici deontologici (offrono solo indicazioni di comportamento) ≠ l’etica invece mette in gioco la responsabilità
di chi comunica  fra le scelte etiche che sono emerse è possibile decidere e porsi il problema di come orientare i propri
comportamenti (cosa inevitabile se ci consideriamo soggetti morali)

Dobbiamo salvaguardare uno spazio di scelta sia:
- Nei confronti dei processi comunicativi
Ma perché scegliere il modello di che considera la
- All’interno di questi processi comunicazione come apertura di uno spazio
comune, volto alla creazione di un legame?

È il modello di Apel e Habermas


Privilegiamo questo modello perché, da struttura rigida, si trasforma in possibilità trascendentale da attivare di volta in volta
nelle situazioni concrete  questa possibilità è insita di volta in volta nella stessa struttura del comunicare (non è inerente alla
“natura” dell’essere umano o delle cose, ma è implicita nel concetto stesso di comunicare e se si vuole essere fedeli a tale concetto
bisogna riconoscere che è davvero “bene” adottarlo)
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Ma perché è “bene”? perché promuovere lo spazio comune della comunicazione e non il fraintendimento o il finalizzare l’attività
comunicativa solo alla promozione di sé?
Anche queste sono possibilità insite nel linguaggio (che è funzione di separazione e condizione di collegamento)

Questa è la domanda che dobbiamo porci, è la domanda decisiva.
Il legame va promosso ed è riconosciuto come “buono” perché attraverso di esso:
 viene salvaguardato non solo il sé, ma anche l’altro
 in tal modo si apre e si mantiene lo spazio dell’interlocuzione in cui ognuno ha diritto di parola
 si realizza l’universale
 seguendo questa via si è fedeli a ciò che la comunicazione delinea
 in tal modo non si nega la possibilità di comunicare ma anzi si propongono le condizioni affinchè si continui a farlo

Al contrario se scegliamo di subordinare un rapporto comunicativo all’affermazione del sé si finisce per eliminare la possibilità
stessa che vi sia un interlocutore = se si considera la comunicazione come uno strumento che serve a imporre sé e le proprie tesi
vengono meno le condizioni perché si continui a comunicare.

La scelta etica decisiva è dunque quella che vede da un lato la promozione del legame e dall’altro il perseguimento della divisione
 ed è bene optare per un certo tipo di “comunicazione” perché se non c’è la comunanza/fiducia la comunicazione cessa

Qui sono coinvolte domande filosofiche (che è bene metter in luce perché questa indagine costituisce un accesso privilegiato a
questioni filosofiche decisive: gli interrogativi che ci siamo posti, l’alternativa che è emersa tra bene e male possono essere
enunciati in termini più generali, non etici ma metafisici. Questa domanda è quella che si sono fatti Leibniz, Heidegger,
Schelling…ci si può chiedere infatti “Perché l’essere in generale e non piuttosto il nulla?”

La scelta a cui siamo chiamati dunque non è solo fra “bene” e “male” MA fra “essere” e “nulla” (= legame e divisione)
MA ancora possiamo chiederci: perché scegliere l’opzione che promuove l’essere, piuttosto che quella che mira alla scissione?
Perché scegliere l’essere piuttosto che il nulla significa fare in modo che i nostri gesti, i nostri atti, i nostri comportamenti, i nostri
pensieri risultino davvero permeati di senso  etico è rapportarsi al senso di ciò che può avere senso e realizzarlo

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