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Premessa:

IL METODO COMPARATIVO FRA


RICERCA SCIENTIFICA ED ESPERIENZA COMUNE

Giuseppe Flores d’Arcais fondatore e massimo riferimento della Scuola pedagogica padovana, ha curato la voce “Peda-
gogia comparata” nel Dizionario di pedagogia (ed.paoline, Roma, 1982). Per fondare criticamente una prospettiva peda-
gogica egli definiva “indispensabile” un confronto, metodologicamente corretto e rigoroso, fra teorie ed esperienze .
Dalla disciplina riaffermò la utilità, la necessità e ne evidenziò i problemi e i punti di criticità.

La Pedagogia comparata rappresenta una prospettiva di ricerca “autonoma” che negli ultimi tempi è riuscita ad affer-
marsi e ad inserirsi in maniera legittima nelle cosiddette Scienze dell’educazione, ed appare “necessaria” perchè risulta
indispensabile il confronto fra teorie ed esperienze, a livello nazionale e internazionale.

Tale disciplina contiene però alcuni fattori di ambiguità e fraintendimenti, come dimostra l’incertezza stessa della sua
denominazione attribuita alla disciplina, definita come: Pedagogia comparata, Pedagogia comparativa o Educazione
comparata. Essa rileva quindi un urgente bisogno di chiarimenti metodologici ed epistemologici.

Epistemologia: intendiamo riferirci a una disciplina che si deve apprendere, caratterizzata da una sua precisa organizza-
zione interna, da una sua storia. L’epistemologia, allora, guarda alla natura profonda della disciplina. In passato con il
termine epistemologia si intendeva essenzialmente una analisi della conoscenza scientifica sotto il profilo filosofico.

Guardando, invece, ai tempi più recenti, intendiamo riferirci ad un campo semantico sempre più ampio, attento a ricom-
prendere tanto uno studio dell’intero meccanismo disciplinare quanto lo studio delle differenti modalità attraverso le
quali le varie discipline organizzino, sostanzialmente, il proprio campo visivo rispetto al mondo.

Ogni disciplina può essere descritta come la risultante di tre componenti essenziali:

DOMINIO: sembra evidente che il dominio sia connesso al campo di indagine di una disciplina (in questo caso
l’educazione comparata) e conseguentemente, alla sua anatomia, ovvero a tutte quelle componenti che ne costitui-
scono il nucleo o, meglio, corpo disciplinare.
L’educazione comparata, in tal senso, prende in esame il metodo comparativo tra ricerca scientifica ed esperienza
comune, il metodo comparativo e le sfide attuali dell’educazione comparata, la dimensione teorica, la dimensione
storica, il rapporto esistente tra educazione comparata e metodo etnografico in Europa e, ancora, le ricerche multi-
locali e i rapporti macro-micro e, ancora, il rapporto tra tale disciplina e il concetto di globalizzazione.

METODOLOGIA: chiama in causa il funzionamento di una data disciplina unitamente alle strategie utilizzate per
interrogare ed interrogarsi sul dominio della stessa (pensate a funzioni come la dimostrazione, la deduzione, al me-
todo sperimentale, alle funzioni argomentative o descrittive in discipline utilizzate per alcune discipline; ad esem-
pio la dimostrazione o deduzione propria della matematica o, ancora, all’argomentazione utilizzata in materie come
l’italiano) e può essere utile a fornire la definizione dei cosiddetti indicatori di posizionamento metodologico:

- Indicatore di posizionamento di VALORE: in questo caso ci si riferisce alla qualità intrinseca degli oggetti
disciplinari. Facciamo degli esempi concreti. Vi sono delle discipline come Cittadinanza e Costituzione, Religione,
Estetica, che sono certamente connotate sul piano valoriale poiché fondano il proprio ordinamento metodologico su
nette prese di valore.

- Indicatore di posizionamento OGGETTUALE:Sono rintracciabili due possibili forme di posizionamento ogget-


tuale (ossia, dal punto di vista del modo generale con cui le discipline interrogano i loro domini):
1. Nomotetico: ogni indagine volta alla ricerca di leggi generali e alla formulazione di teorie comprensive di intere
classi di casi.
2. Ideografico: proprio delle discipline che si occupano di oggetti e fenomeni particolari.

- Indicatore di posizionamento GNOSEOLOGICO: atto a fornire una conoscenza, ad individuarne i suoi possibili
oggetti, studiando le modalità di acquisizione da parte del soggetto, accertandone la validità e prevede:
il tanto Metodo induttivo dell’osservazione quanto quello deduttivo, ma anche il calcolo delle probabilità.

- Indicatore di posizionamento ANALITICO: è distinto a sua volta in:


1. Globale: che viene anche definito o dall’alto o verso il basso ed è tipico delle discipline che guardano alle mani-
festazioni esterne globali o osservabili (es. pedagogia).

2. Elementare: che invece viene anche definito dal basso verso l’alto e studia i sistemi e i fenomeni sotto casualità
interne e presuppone che i sistemi globali, possono essere descritti o previsti secondo componenti elementari.

3. Orientato alla complessità: è orientato alla complessità, perciò ci sono un elevato numero di componenti che inte-
ragiscono tra di loro ma anche con l’ambiente (es. Epidemiologia).

LINGUAGGIO: si riferisce chiaramente tanto al sistema dei segni quanto alle regole di formazione e allo stile uti-
lizzato dalle varie discipline per descrivere gli oggetti o costruire le affermazioni e verità (asserti).
Pensiamo, in tal senso, al linguaggio filosofico; esso richiede a colui che apprende una continua attività di “tradu-
zione e riduzione” ai termini tipici del vocabolario e delle nozioni che lo riguardano. Lo studio della filosofia o,
meglio, di un filosofo, comporta molto spesso, l’attitudine a dover penetrare nel suo linguaggio.

Il linguaggio scientifico, invece, è sicuramente più diretto, se vogliamo anche più complesso, perché accoglie me-
diante poche parole un elevato numero di concetti; esso richiede da parte del fruitore un notevole impegno di com-
prensione, e porta con sé l’obbligo di impiegare dei termini condivisi nella comunità scientifica di riferimento.

I linguaggi disciplinari hanno un posizionamento:


- Semantico: riguarda il significato di determinate osservazioni, formule o contenuti.
- Sintattico: guarda al rapporto esistente fra le parole; quei rapporti costruiti su un’applicazione regolare delle nor-
me proprie della sintassi.
- Contestuale: avviene in discipline come la narrativa perché fa uso di tutte le regole semantiche che fanno parte di
un ragionamento comune, e attraverso questo posizionamento contestuale entriamo dentro la vicenda narrata parte-
cipando alla narrazione e al linguaggio impiegato nella storia.
IL SUO FINE è l’individuazione e l’ananlisi di specifici problemi. La Pedagogia comparata si qualifica nel momento in
cui il comparatista dimostra di saper individuare i problemi, cioè gli interrogativi e le domande pedagogiche più utili
per comprendere pienamente e confrontare gli eventi studiati. Importante è l’avvio di un procedimento metodologico
corretto mediante il quale si può indagare, cogliere analogie, corrispondenze e differenze.

La Pedagogia comparata non prescindendo dal fattore storico e, quindi dalla presa in esame dei suoi oggetti secondo
una prospettiva diacronica, guarda con attenzione anche all’approccio sperimentale. Nel corso del tempo, si è cercato di
elaborare in termini scientifici un metodo per produrre nuove conoscenze: nelle ricerche di etnografia, di antropologia,
di anatomia, di zoologia, di botanica, di linguistica o nello studio delle religioni è stato messo a punto un complesso di
regole sistematiche per operare il confronto dei dati di ricera in maniera efficace. Ed il metodo è stato applicato nelle
scienze naturali e nelle scienze umane.

Essa è un’operazione tipica di vari indirizzi della ricerca scientifica… ma appare anche come un atto abituale della no-
stra quotidianità, considerato che si utilizza in tale contesto la stessa logica della comparazione scientifica. Si pensi
all’affermazione “Giuseppe è più basso di Roberto”.

• Abbiamo due oggetti o unità di analisi (quindi Giuseppe e Roberto, due persone) e una proprietà o un aspetto
(nell’esempio considerato l’altezza).

• Da questo semplice esempio, rileviamo le caratteristiche essenziali della comparazione, ovvero, che non vengono
comparati gli oggetti in sé, in maniera globale, ma effettuiamo invece, una comparazione in base ad una proprietà (l’al-
tezza) o, per essere più precisi, in base allo stato che quella proprietà presenta nei 2 oggetti o unità di analisi (persone o
entità – nel ns esempio Giuseppe e Roberto).

• Evidentemente, gli stati devono essere accertati e, ancora prima di esprimere una comparazione, devono essere rilevati
attraverso un procedimento (ossia, l’insieme delle tecniche e degli strumenti più appropriati per verificare i differenti
stati assunti dalle proprietà - altezza - in un oggetto o unità di analisi e, quindi, le 2 persone - Giuseppe e Roberto -).

L’uomo deve ricorrere quindi a tecniche e strumenti idonei per verificare i diversi stati che ogni proprietà presenta in un
determinato oggetto.

L’oggetto della comparazione può essere anche UNO SOLO:


• pensiamo all’affermazione: “Maria è cresciuta rispetto al mese scorso”. In questo esempio, l’accertamento dello stato
di proprietà, (altezza), è compiuto in riferimento al tempo e, quindi, in prospettiva diacronica.
Si deduce che la comparazione possa essere:
DIACRONICA: quando, come nell’esempio considerato, poniamo a confronto uno o più oggetti/proprietà nel corso
del tempo. Il fine è quello di descrivere le trasformazioni di un oggetto/proprietà nel corso del tempo e, pertanto, di-
stinguere ciò che è rimasto uguale rispetto a ciò che è mutato.
Il comparativista intende sottolineare sostanzialmente i mutamenti (ciò che è cambiato), le transizioni (passaggio
da una situazione all’altra) e i processi (la successione dei fatti o dei fenomeni).
SINCRONICA: ovvero, quando poniamo a confronto uno o più oggetti/proprietà nello stesso momento. Ci si sof-
ferma sulle analogie e sulle differenze (cosa è uguale?, cosa è differente?) ed è la forma più semplice e anche più
diffusa di comparazione.

IL FATTORE TEMPO o, più precisamente, l’elemento storico, risulta essenziale in ogni procedura di valutazione com-
parativa. La complessità può essere rintracciata nella natura degli oggetti ma anche nelle proprietà che oggetto di com-
parazione. Il confronto è semplice in situazioni particolari, mentre può essere più complicato nelle circostanze più com-
plesse.

OGGETTI / PROPRIETÀ:
Possono essere molto diversi, avere livelli di complessità differenti. Pensiamo agli individui, ai gruppi, alle culture, agli
stati o sistemi (e, quindi, ai sistemi scolasticoformativi). In questa situazione il comparativista cerca insomma di eviden-
ziare sopratutto mutamenti, processi, transizioni e la storia che appare un elemento importante in queste procedure com-
parative. Lo studioso quindi deve comparare realtà sociali e culturali diverse, e saper affrontare gradi di complessità dif-
ferenti.
Si comprende, allora, la copresenza delle analisi micro e macro:
MICROANALISI comparative, prendono in esame lo studio su oggetti delimitati o parti di un oggetto molto complesso.
MACROANALISI comparative, che invece prendono in considerazione grandi unità di analisi.

Tutte queste analisi, nel loro complesso, si soffermano dunque su oggetti con caratteristiche e dimensioni ben precise,
ma anche molto diverse.
Introduzione:
IL METODO COMPARATIVO E LE SFIDE ATTUALI
DELL’EDUCAZIONE COMPARATA

Fin dalla sua origine l’educazione comparata si è misurata con il problema della finalità e dei metodi: nata come scienza
empirica (basata, quindi sull’esperienza), con lo scopo di rilevare dati e compararli, durante il suo sviluppo, ed in part-
colare nella seconda metà del Novecento, ha dovuto precisare sempre in maniera più dettagliata l’oggetto ed il metodo
di ricerca, affinché ne fosse riconosciuta la scientificità.

La probelmaticità della disciplina è sicuramente da attribuire alla complessità del suo statuto epistemologico (ossia, lo
ribadiamo,la struttura normativa di conoscenza di una data disciplina) o, meglio, della pedagogia stessa, che ha avviato,
nel corso del tempo, dei vivaci dibattiti sulla sua dimensione storica.

A partire dalla loro stessa denominazione – pedagogia o educazione comparata/comparativa -, che riflette le diverse sfu-
mature di significato assegnate a questi termini dalle differenti lingue, si è posto l’accento sugli aspetti più complessi
degli studi comparativi. Nel corso del tempo, ed in modo particolare nel secondo dopoguerra, l’oggetto di studio
dell’educazione comparata si è diversificato e pluralizzato: accanto alla classica comparazione di sistemi scolastici, per
lo più riferiti agli Stati nazionali, si sono realizzate ricerche comparative riguardanti metodi, problemi educativi e teorie.

Questo però ha messo in crisi sia l’unità di comparazione Stato-nazione, sia la finalità miglioristica degli studi legata
all’idea di transfert. Emerge così la necessità di riflettere sulle finalità degli studi comparativi che, al di là dell’aspetto
legato alle prassi educative e ai concetti translation e trasformation, necessitano di un’analisi teorica che riguardi la lo-
ro capacità di concorrere ad una definizione sempre più approfondita ed articolata dei fenomeni pedagogico-educativi
rispetto ai luoghi, ma anche ai tempi e alle diverse culture.

Ed ecco che lo studio storico pone in evidenza l’intricato intreccio tra passato e presente che, in modo non sempre
consequenziale, aiuta a progettare un futuro democratico per le persone e le società, nel momento in cui la globalizza-
zione e le massiccie migrazioni degli ultimi decenni costringono i comparativisti a compiere le loro ricerche entro so-
cietà divenute costitutivamente se non ancora interulturali, almeno multiculturali.

Per quanto concerne il metodo alcuni autori hanno dedicato particolare attenzione alla sua strutturazione arrivando a
proporre un modello, accettato dalla comunità scientifica, che ha evidenziato il criterio di comparabilità, come principio
sovraordinato al quale riferire i dati raccolti.

In tempi più recenti inoltre hanno fatto la loro comparsa metodi quantitativi di raccolta dei dati che hanno avvicinato la
disciplina alla statistica, e hanno permesso la creazione di banche dati come Eurydice, la banca dati sui sistemi educati-
vi europei.

Il differenziarsi degli oggetti della ricerca e il contemporaneo aprirsi della pedagogia alle scienze sociali ha determinato
il progressivo abbandono di paradigmi interpretativi legati a discipline come la storia e la filosofia - da sempre contigue
alla pedagogia - e l’emergere di altri modelli come quello etnografico, che hanno dato vita a studi diversi nei quali i ri-
cercatori hanno applicato ed adattato metodi di altre discipline alla ricerche di ambito pedagogico.
Gli studi storico-educativi hanno subito, in maniera specifica nel corso degli ultimi decenni, delle importanti trasforma-
zioni, con inevitabili ricadute sul piano qualitativo e su quello quantitativo della ricerca. A seguito di un significativo
rinnovamento del campo di azione negli studi storicoeducativi, si è pervenuti ad una modificazione delle modalità di ap-
proccio al sapere che, sotto il profilo meramente storico, richiede di essere riconsiderato, tanto come ambito di indagine
quanto quale disciplina formativa.

La pedagogia, per sua natura, è una scienza ma anche un’arte: se l’aspetto scientifico - sulla scia di una lunga tradizio-
ne positivistica - può essere ricondotto a norme che hanno validità universale, la pratica artistica dell’educare - caratteri-
stica di interpretazioni più spiritualistiche che hanno segnato profondamente anche il Novecento - sfugge a qualsiasi ri-
gida classificazione, e lascia spazio ad una contestualizzazione che diventa interpretativa di quella singola realtà.

Per questo motivo i due studi di Anselmo Paolone e Carla Callegari prendono in esame due metodologie qualitative,
quella etnografica e quella storica, che pur nella loro diversità sembrano avere alcune caratteristiche comuni. Ovvia-
mente questo non significa ignorare o non valorizzare altri metodi di ricerca, ma soltanto fare il punto della situazione
rispetto forse al più tradizionale dei metodi e a quello più innovativo per cercare di comprendere quale contributo possa-
no dare agli studi comparativi in educazione.

Negli ultimi decenni il fenomeno della globalizzazione ha accentuato l’interesse verso indagini che hanno messo in di-
scussione le unità stesse di analisi, a cominciare dallo Stato-nazione, a favore di studi intra-nazionali, trans-nazionali e
multilivello, e hanno posto in evidenza anche spazi virtuali di apprendimento. E’ parso allora opportuno dedicare un in-
tervento al rapporto tra questo fenomeno mondiale e l’educazione comparata per coglierne i legami e le prospettive fu-
ture: attraverso opportune riforme, le cui caratteristiche possono emergere dalla comparazione di quanto già esiste in
educazione, la pedagogia potrebbe dare un apporto per governare la globalizzazione e forse anche “umanizzarla”.

Il contributo di chi scrive parte della considerazione che l’approccio storico, proprio di molti autori classici della disci-
plina e caratteristico di una delle tappe evolutive della stessa, negli ultimi anni è stato trascurato a favore di altri modelli
interpretativi e che questo, come sostiene KAZAMIAS in un recente studio, ha portato ad “un’amnesia storica” che non
giova alla disciplina.

Sulla scia di questa autorevole affermazione e del fatto che lo stesso Kazamias ipotizza che l’interpretazione storica e
quella data dalle scienze sociali non solo siano compatibili, ma possono entrambe portare a concettualizzazione e gene-
ralizzazione dei risultati e pertanto garantire scientificità alla disciplina, si è cercato di richiamare una lunga tradizione
che ha avuto la massima affermazione nel pensiero di alcuni classici della disciplina intorno agli anni Cinquanta e Ses-
santa del Novecento, per poi lasciare il posto ad altre interpretazioni, legate appunto alle scienze sociali, che hanno of-
ferto nuovi e diversi paradigmi.

C’è però un ritorno alla dimensione storica che si sta riaffermando come fondativa nelle ricerche pedagogiche e quindi
anche in quelle comparative e nella seconda parte del saggio si delineano alcune riflessioni che, ripercorrendo il rinno-
vamento epistemologico e metodologico attuatosi nella storia della pedagogia e dell’educazione, offrono spunti di ri-
flessione per la strutturazione, la conduzione e la realizzazione di ricerche che prevedano anche la dimensione storica.

Inoltre, alcune indicazioni, come l’attenzione alle fonti o l’atteggiamento di epoché che lo storico assume nel proprio la-
voro interpretativo, sembrano indispensabili e irrinunciabili anche per il comparativista.

Il saggio di Anselmo Paolone, attraverso l’analisi delle prime ricerche multilocali di tipo etnografico condotte in educa-
zione comparata, pone l’accento sui problemi di comparabilità che tali studi sul campo hanno suscitato e sulla necessità
di ridurre gli strumenti di indagine attenendosi all’analisi di dati quantitativi. D’altra parte però proprio le ricerche di ti-
po etnografico hanno permesso la sperimentazione di strategie testuali e ipertestuali nuove, e hanno posto in evidenza
come stiano emergendo nuove unità di comparazione, anche in seguito al fenomeno della globalizzazione che costringe
(o spinge) a ripensare culture ed identità.

Il contributo di Angelo Gaudio prende in esame da un punto di vista teorico il fenomeno della globalizzazione ponendo
al centro le implicazioni che esso ha in campo educativo. L’affermarsi di un “discorso educativo globale” rischia, secon-
do l’autore, di incentrarsi su “un OCSE consensus” che omette le questioni della pluridimensionalità, del senso e della
pluriculturalità, questioni che presuppongono quella sensibilità che invece emerge nel pensiero di studiosi come Freire,
o in alcune delle ultime encicliche papali. La globalizzazione quindi pone delle sfide che richiamano alla necessità di
operare serie riforme anche, o sopratutto, educative.

Gli interventi raccolti, delineano alcune prospettive dell’odierna educazione comparata, rilevando la vitalità di una di-
sciplina che ha saputo cogliere, negli ultimi decenni, le sollecitazioni venute dal mutato contesto culturale, sociale e po-
litico. I comparativisti, in un dialogo a volte vivace, stanno infatti ripensandone l’epistemologia e la metodologia, rinno-
vando tradizioni classiche e sperimentando nuovi approcci.

Rimangono ancora aspetti problematici da chiarire, sopratutto in relazione alla reale attinenza degli studi con il settore
pedagogico, e nuclei tematici da sviluppare impostando ricerche che, senza abbandonare la classica comparazione tra si-
stemi scolastici, sappiano avventurarsi anche nello studio di altri oggetti, diversi e altrettanto complessi. Il diaologo na-
to da questo appuntamento padovano vuole porsi come una tappa di confronto dal quale si auspica possano nascere nuo-
ve ricerche: intercettando competenze diverse in un’ottica multidisciplinare, queste collaborazioni potranno dar luogo a
significativi studi pedagogico-comparativi.
Approfondimenti:

Lo studio e la definizione di storia dell’educazione sono il risultato della disamina di differenti modelli storiografici,
che hanno posto sempre al centro la storia della pedagogia. La storia dell’educazione pur riconoscendo il ruolo della
teoria, focalizza la propria attenzione su differenti punti di vista (che si estendono dal politico/culturale all’economi-
co/sociale) e diverse prospettive storiche.

Tali “storie” forniscono nuova linfa vitale ad altrettanti e variegati indirizzi di ricerca, contraddistinti dalla medesima di-
gnità scientifica. Si pensi, ad esempio, alla lettura dei classici, animata dalla volontà di tener viva la cosiddetta storia
delle idee.

La pedagogia comparata fornisce gli strumenti per dar spazio alla progettualità, anche in ambito didattico. Una proget-
tualità sempre più richiesta nell’epoca moderna, che non intendendo primeggiare per esemplarità, suole fornire, invece,
delle indicazioni in merito alla possibilità di tracciare percorsi di formazione nuovi o rinnovati.

Senza la pretesa di fornire una soluzione definitiva a delle problematiche di natura complessa, hanno sempre cercato di
chiarire una categorizzazione e anche delle specifiche antinomie (rapporto di contraddizione, reale o apparente) o pola-
rità educative (ossia, le proprietà di un ente, derivanti da peculiari rapporti con altri enti), che può derivare nel nostro
caso, tanto da particolari relazioni connesse alla formazione-umana formazione-sociale quanto al ruolo dell’educatore-
educando.

«del pensiero contemporaneo, tra innovazione e internazionalizzazione, senza prescindere dal retaggio del passato”, di-
venta opportuno mirare alla promozione di un confronto costruttivo sui metodi di ricerca nelle differenti discipline, oltre
che suoi nuovi orientamenti didattici e filosofici, anche al fine di rilevare le nuove prospettive e tendenze del pensiero
pedagogico contemporaneo che, oramai, non può più rimanere circoscritto al territorio nazionale e, anzi, deve necessa-
riamente allargare lo sguardo di indagine al dibattito scientifico posto in essere anche da studiosi stranieri»
(Armenise, 2015).
Capitolo primo:
STUDI COMPARATIVI IN EDUCAZIONE:
LA DIMENSIONE TEORICA

1. Quali studi comparativi

In questo saggio si intende focalizzare l’attenzione sulla concezione di educazione mettendo in evidenza come tanto la
“narrazione” tradizionale che li riguarda, quanto gran parte dei lavori che la criticano rimangono comunque all’interno
di una concezione che presenta connotati precisi e limitati, formulando poi l’ipotesi che molti dei problemi che incontra-
no nel dialogare con la dimensione teorica nascono proprio da questo approccio ingiustificatamente ristretto.

Si può notare infatti come larghissima parte della letteratura comparativa, italiana e internazionale, si ponga ad analizza-
re per lo più gli ambiti istituzionali di istruzione, o più di recente, i luoghi dell’apprendimento non formale o informale;
ma raramente si pone la questione di come anche gli studi comparativi possano e debbano in realtà avere come oggetto
tutti gli aspetti dell’educazione nella sua complessità di idea normativa e di relazione interpersonale, e collocarsi così in
un quadro dove si incontrano con altri approcci di ricerca, dando il proprio specifico contributo all’elaborazione e
all’approfondimento della teoria educativa.

Si proporrà quindi una interpretazione del perchè e come questa concezione ristretta si sia affermata, compiendo un bre-
ve excursus storico che ripercorra i momenti essenziali dell’evoluzione degli studi comparativi, e proponendo poi
un’analisi concettuale che avrà un taglio a sua volta “comparativo”, sia all’interno del dibattito italiano, sia, e ancor più,
nell’ambito del dibattito internazionale e nel confronto fra diverse tradizioni di pensiero e di lingua; e si cercherà quindi
di prospettare una linea di ricerca che permetta di sviluppare in modo più compiuto le potenzialità della comparazione
in educazione.

Nel 1978 GIOVANNI MARIA BERTIN affermava che le direzioni principali della ricerca educativa sono: la ricerca
empirica, la ricerca teorica, la ricerca storica e la ricerca comparativa. Per mostrare come questa tradizione abbia in sè
gli elementi per superare alcuni dei limiti teorici, è necessario fare brevemente cenno alla tradizionale “storia” e perio-
dizzazione degli studi comparativi in educazione nonché al dibattito sulla natura e identità di tali studi, soffermandosi
anche, sia pur in modo necessariamente sintetico, sulle problematiche sorte negli ultimi decenni, con particolare riferi-
mento a quella che si usa chiamare “crisi dell’unità di comparazione”, identificata con lo Stato nazionale - sottolineando
peraltro diversi paradossi legati ad un’analisi non sufficientemente approfondita di come, e se in realtà si configuri tale
dichiarata criticità.

Come è noto, benchè la nascita “ufficiale” della “educazione comparata” si faccia per lo più risalire a JULLIEN DE
PARIS e alla sua celebre Esquisse del 1817, dove appare appunto il termine di education comparée, in realtà il tema è
stato oggetto di discussioni, sia perchè un primo presentarsi di studi di tal genere si può trovare già in alcuni autori pre-
cedenti, sia perchè invece secondo alcuni l’Esquisse non può considerarsi davvero il testo che ha dato l’avvio allo svi-
luppo della disciplina, giacché è rimasto pressoché sconosciuto fino agli anni Trenta del Novecento, quando fu casual-
mente scoperto su una bancarella e donato al Bureau International de l’Education.

Tuttavia, le ricostruzioni storiche prendono per lo più le mosse da questo saggio di Jullien, che avrebbe inaugurato la
cosiddetta fase del “prestito”, snodatasi lungo tutto il XIX secolo e oltre, la fase cioè in cui si voleva promuovere
(obiettivo) la conoscenza analitica dei sistemi scolastici dei diversi paesi soprattutto in quanto essa avrebbe permesso a
ciascuno di essi di individuare e adottare quelle che potevano essere ritenute, per usare un termine attuale, le “migliori
pratiche”.

Altrettanto noto è il fondamentale cavet (avvertimento, avviso) che, nel 1900 MICHEAL SADLER formulò rispetto a
una tale prospettiva di possibile transfer, in un celebre discorso in cui ammoniva a non ritenere che le caratteristiche di
un sistema di istruzione potessero essere così facilmente “trapiantate” in un diverso contesto.

Nel corso dei decenni successivi, i lavori di autori considerati “classici” come KANDEL, HANS e poi SCHNEIDER e
altri si appuntarono dunque piuttosto sull’analisi di quanto caratterizzava i singoli sistemi, anche se pur sempre alla ri-
cerca di punti di somiglianza quanto di differenza; mentre nella seconda metà del XX secolo, in specie a partire dagli
anni Sessanta, si presentò nuovamente con energia la tendenza a cercare di fondare una “scienza” della comparazione
educativa, in modo che ricordava da vicino l’originario intento di Jullien, da parte di autori come BEREDEY, che ha
proposto un metodo che ha avuto ed ancora ha una notevole influenza, e sopratutto NOAH e ECKSTEIN, il cui lavoro
del 1969, che ha a lungo costituito punto di riferimento per le ricerche comparative, si intitola appunto Toward a science
of comparative education.

In questo approccio, che vuole stabilire leggi generali di funzionamento che possano essere valide per tutti i sistemi di
istruzione, si saldano in qualche modo le due finalità che da sempre si incontrano, e talvolta si scontrano, negli studi
comparativi: la finalità conoscitiva e la cosidetta finalità “miglioristica”, mirate ad incidere sulle politiche educative. A
questo si sono opposte diverse correnti di pensiero, da quella neo-marxista, che ne denunciava il carattere legato alla vi-
sione capitalista ed imperialistica del mondo occidentale, a quelle che più risolutamente contestavano il carattere co-
munque legato al pensiero della modernità anche delle critiche marxiste, e proponevano ricerche che si legavano alla
cosiddetta svolta post-moderna.

Si affiancano interpretazioni che riconducono l’analisi all’individuazione di filoni teorici che corrono lungo tutti i de-
cenni considerati, come ad esempio nei lavori di Erwin EPSTEIN, e teorizzazioni che mirano a individuare, ed even-
tualmente mettere in questione, l’ “identità” degli studi comparativi, anche al di là della tradizionale narrazione della lo-
ro storia, come, fra gli altri, nei lavori di Robert COWEN e Jurgen SCHRIEWER.

2. L’unità di comprazione

Uno dei punti di discussione ricorrenti negli anni, è se tale unità debba essere identificata con lo stato nazionale, o se in-
vece possa e debba essere maggiormente raffinata, non solo considerando altre dimensioni spazio-territoriali, ma anche
anche altri lievelli di comparazione, come nella proposta di Bray e Thomas, che nel 1995 elaborarono uno schema tridi-
mensionale noto appunto come il “CUBO” di BRAY e THOMAS, dove lungo i tre assi vengono considerati, oltre ai lie-
velli geografico-locazionali, anche i gruppi demografici non-locazionali, nonché alcuni aspetti dell’istruzione e della so-
cietà individuati come significativi.

Di recente, poi è divenuto usuale parlare di “crisi dell’unità di comparazione” in relazione all’impulso della globalizza-
zione e a quello che, a nostro avviso improvvidamente, si chiama spesso il “superamento” dello stato nazionale.

In primo luogo, è opportuno storicizzare e problematizzare la nozione stessa di stato, che viene correntemente (comune-
mente) utilizzata in modo improprio, facendola cioè coincidere con quella di stato nazionale. Una tale identificazione,
però, significa semplicemente estendere nel tempo e nello spazio una configurazione legata ad uno specifico periodo
storico della società occidentale, configurazione peraltro assai complessa e problematica di per sé (basti pensare alla va-
stità della letteratura di natura storica, giuridica e sociologica cui ha dato origine).

Ma cosa ancor più rilevante è che è necessario considerare con grande cautela l’ipotesi, spesso avanzata, che nel quadro
delle grandi trasformazioni legate alla globalizzazione la comparazione interstatale sia oggi del tutto superata.

E’ importante sottolineare quello che può apparire come un paradosso, ovvero il fatto che le comparazioni fra i sistemi
scolastici dei diversi paesi non sono mai state così numerose e così centrali nel dibattito politico come nella cosiddetta
età della globalizzazione. Si può certo obiettare che il paradosso è solo apparente, in quanto in realtà conferma che esi-
ste un “contesto globale” della competizione fra sistemi, ed è tuttavia abbastanza significativo da richiedere approfondi-
mento dell’analisi.

In una serie di conferenze sul tema Comparative Education Research in A Global Era, Andy GREEN, riprendendo un
suo precedente saggio, colloca questo ipotetico “superamento” in un quadro più complesso e articolato, discutendo alcu-
ne delle tesi che lo sostengono, in relazione a diversi ambiti delle scienze sociali, e mostrandone quelli che a suo avviso
ne sono i limiti, specie rispetto agli studi sui sistemi di istruzione.

Proseguendo il discorso, Green constata come gli studi comparativi abbiano in effetti risposto ai cambiamenti della
realtà educativa con maggior attenzione agli spazi e alle politiche sovranazionali, e come gli effetti della globalizzazio-
ne sull’educazione abbiano costituito in sè oggetto di studio; tuttavia, la ricerca cross-nazionale, non solo è morta, ma
anzi, come noi rilevavamo prima, ha conosciuto una forte espansione.

L’aspetto più interessante dell’analisi di Green è l’affermazione che il grado di validità della Word Theory dipende so-
stanzialmente dal punto di vista dal quale si osservano i fenomeni educativi: mentre a suo avviso l’approccio è credibile
se si guarda al dibattito politico globale e ai policy-discourses, in realtà sono piuttosto le retoriche politiche ad essere
convergenti, rispetto alle politiche effettivamente intraprese a livello nazionale e locale.

Considerare rilevante l’analisi dei sistemi scolastici ai vari livelli non vuol dire negare le profonde trasformazioni cui lo
scenario globale è andato incontro, nè la necessità di pensarlo in modo nuovo; ma vuol dire piuttosto accogliere in mo-
do cauto e critico le facili affermazioni di “superamento” di quella che è considerata - peraltro con qualche imprecisione
- la tradizionale unità di comparazione.

Del resto, anche due autori come Roger DALE e Susan ROBERTSON, che pure energicamente sostengono la necessità
di andare oltre il “nazionalismo” e lo “statismo” metodologici, se per un verso raccomandano di evitare di “vedere que-
ste categorie (stato-nazione) come naturali, fisse e immutabili - o in altre parole come ontologicamente e epistemologica
- mentre ossificate”, per l’altro mettono anche in guardia dal compiere inaccettabili semplificazioni.
(ossificare: diventare osseo, cioè, consolidarsi in una dimensione statica e improduttiva).

Le linee di ricerca che ritroviamo nelle più mature teorizzazioni sugli studi comparativi sono: ad esempio, Jurgen
SCHRIEWER che ha in più luoghi sostenuto l’importanza del “filtro” operato a livello regionale e locale verso le ten-
denze sovranazionali, così come mostrato da diversi studi sia storici che comparativi.

Dal canto suo, Robert COWEN, nella sua analisi delle dinamiche a livello mondiale ha approfondito e affinato il classi-
co tema del transfer, aggiungendovi i concetti di translation e tranformation, volendo appunto dar conto di come le idee
e le pratiche educative, nel muoversi nello spazio sovra o inter o transnazionale, vadano incontro a dei mutamenti e a
delle vere e proprie metamorfosi che possono cambiarne anche radicalmente il significato.

Cowen è particolarmente attento a come il gioco delle interrelazioni sia legato ai rapporti di potere e allo loro influenza
sull’educazione e sugli stessi studi comparativi; e in questo quadro rivendica invece l’autonomia di una “academic com-
parative education” che non si faccia dettare l’agenda dell’immediata preoccupazione di rispondere alle questioni politi-
che di attualità, ma che si ponga piuttosto a comprendere la natura stessa dei rapporti in atto.

In modi diversi fra loro, entrambi questi autori hanno brillantemente ricollegato le differenti dimensoni e i differenti li-
velli di analisi, dando un possente impulso alla teorizzazione degli studi comparativi in educazione - che poi si è snoda-
ta anche con altri più giovani autori - e collocandosi fra i più importanti studiosi contemporanei di tale ambito.

E questa relativa assenza di un proprium pedagogico non è peraltro una esclusiva dell’ambito comparatistico, ma è piut-
tosto una caratteristica della letteratura del mondo anglosassone sui temi educativi.

3. Quale educazione

Si può dire dunque che, per quanto ricche e assai importanti per alcuni aspetti teorici, in particolare rispetto ai rapporti
fra educazione e potere, anche le più recenti tendenze degli studi comparativi lasciano insoddisfatti rispetto a questioni
più propriamente pedagogiche, in quanto legate a una concezione dell’educazione che vede quest’ultima sostanzialmen-
te circoscritta ai fenomeni educativi ricompresi in alcuni specifici ambiti, sui quali si concentrano ricerche e attenzione.

Ci si deve dunque chiedere se questo è un destino ineluttabile degli studi comparativi, o se invece se ne possa recupera-
re un proprium pedagogico, che contribuisca a “pensare” l’educazione in tutta la sua complessità, ed eventualmente co-
me, rifacendosi a quella tradizione che vede le diverse direzioni di ricerca nei loro reciproci collegamenti, e sottolinea
come ciascuna sia monca (incompleta) se esclude le altre.

In primo luogo, non si deve trascurare di riprendere e valorizzare momenti che esistono anche nella storia “ufficiale”, in
cui, quanto meno con alcuni autori “classici”, non si trascura lo studio e il confronto di diverse idee di educazione. Ma
ancor più, si deve valorizzare il contributo che può venire da approcci diversi e da tradizioni culturali altre rispetto a
quel mainstream (corrente principale) che abbiamo visto prevalere. E questo ci sembra davvero il minimo che si possa
chiedere a chi si vuole “comparatista”, e dunque per definizione dovrebbe essere attento alle differenze in educazione,
non solo nelle sue concrete manifestazioni ma anche nelle sue diverse concettualizzazioni.
Si tratta dunque, in primo luogo, di chiedersi che cosa si intende quanto si parla di “educazione”. So bene che anche so-
lo formulare una simile domanda vuol dire affacciarsi alla soglia di una problematica impossibile da scandagliare nella
sua interezza, la problematica dei nostri studi, rispetto alla quale esiste una bibliografia che non solo è sterminata, ma
che si articola secondo tali e tanti criteri e versanti da chiedere ben più di un filo d’Arianna per non perdervisi.

Eppure è proprio questo che rende ancor più peculiare la scarsità di studi comparativi in materia, che invece potrebbero,
con quella “consapevolezza comparativa”, aiutare a evitare fraintendimenti anche gravi, in particolare nel momento in
cui il confronto con la letteratura e la “dimensione” internazionale diventa imprescindibile; ma sopratutto possono por-
tare un contributo importante a un approfondimento concettuale.

Uno strumento importante passa attraverso il confronto linguistico-concettuale. Per fare uno degli esempi più significa-
tivi, basti ricordare “Comparative education”, che dal canto suo, risente della polisemia (varietà di significati) del termi-
ne inglese education, e ha un significato insieme vasto e ambiguo, il che rende anche problematica una sua traduzione,
tanto che viene tradotto talvolta con l’espressione “pedagogia comparata”, talvolta con “educazione comparata”, e tal-
volta ancora con “pedagogia comparativa”.

Il punto fondamentale è non dimenticare, quale che sia la “direzione” di ricerca educativa che si sceglie, che si tratta co-
muqnue di una ricerca che deve avere al centro l’educazione in quanto tale, in tutta la sua complessità. Altrimenti il ri-
schio è che al cuore della ricerca vi sia il vuoto, e questo è un rischio che chiunque si occupi di educazione davvero non
può correre.
Capitolo secondo:
LA DIMENSIONE STORICA IN EDUCAZIONE
COMPARATA IERI ED OGGI

1. Le finalità dell’educazione comparata

Il presente contributo si propone di ricostruire brevemente l’apporto dato agli studi comparativi dalla ricerca storica nel
recente passato e prospettare quale potrebbe essere oggi: si vuole cioè discutere in che modo la storia della pedagogia e
dell’educazione possa contribuire, sulla scia di una solida tradizione, a far progredire gli studi comparativi, e soprattutto
attraverso quali orientamenti espistemologici e metodologici.

Per quanto riguarda le finalità di questo settore della disciplina pedagogica il dibattito è staTo ed è ancor oggi vivace e
può affermare che tenda a volte - sopratutto ora che il fenomeno della globalizzazione costringe a prese di posizione tal-
volta dastriche - a segnare per gli studi comparativi una certa subordinazione rispetto ad altre discipline, come l’etica, il
diritto o la sociologia. E’ necessario allora, in via preliminare, ricordare la finalità di questi studi, che non può essere
una: lo studio comparativo dell’educazione in realtà lontane e diverse storicamente, geograficamente e culturalmente.

Senza nessuna pretesa di esaustività o di dare soluzione definitiva ad una questione così complessa - che tra l’altro ri-
guarda lo statuto epistemologico della stessa pedagogia troppo spesso definita “scienza debole” - si può affermare che
gli studi comparativi forniscono uno specifico punto di vista sulla questione fondamentale della pedagogia, sul suo og-
getto di indagine, cioè sull’educazione.

Tali studi contribuiscono alla chiarificazione delle categorie pedagogiche - ad esempio intenzionalità, cura, responsabi-
lità, crescita, apprendimento - e delle antinomie o popolarità educative - ad esempio educando-educatore, libertà - auto-
rità, formazione umana - formazione sociale - che la costituiscono. Sono queste infatti che ci permettono di fondare la
pedagogia iuxta propria principia e che la definiscono come sapere “progettuale”.

FLORES D’ARCAIS ha scritto a questo proposito pagine chiarificatrici: ad esempio, per ciò che riguarda la relazione
educando - educatore egli afferma che l’indagine pedagogica di tipo critico e teoretico, e non solo programmatico, fun-
zionalistico o meramente metodologico e didattico, deve giustificare i due poli di quella realtà, e non dare per scontato
che vi siano ruoli e compiti precostituiti o dati per natura. Ciò significa che l’educazione comporta necessariamente una
relazione tra me e l’altro e che né la natura, né la storia possono leggittimare il compito e la funzione dell’educatore o
dell’educando.

Solo la pedagogia, allora, se è veramente scienza autonoma non dipendente da condizionamenti sociali, politici, etico-
religiosi o psicologici, può fondare il reciproco rapporto tra i due poli dell’educazione, in caso diverso l’educatore sa-
rebbe ridotto a mero fuzionario di realtà condizionanti che avranno esiti autoritaristici, impositivi e conformistici.

In questa prospettiva si pone anche Franco CAMBI, sebbene con altro orientamento culturale, quando sostiene che “le
due categorie che potrebbero chiarire il problema di una fondazione della pedagogia come sapere iuxta propria princi-
pia sono quelle della formazione e della intersoggettività”. Pur nell’interazione con le altre discipline, in quella che
l’autore definisce “l’ambivalente struttura della pedagogia” o il suo essere costitutivamente problematica, gli studi com-
parativi devono avere come finalità la conoscenza critica del sapere pedagogico realizzata attraverso la comparazione di
teorie, strutture educative, sistemi scolastici e metodi.

Se si prendono in considerazione gli studi classici si potrebbe affermare che tali opere si sforzano di delineare, attraver-
so la comparazione, alcuni problemi pedagogici che vengono colti come importanti nella realtà con la quale essi devono
misurarsi, e di definire la struttura epistemologica della pedagogia nei confronti di altre scienze. In questi studi l’ogget-
to privilegiato sono i sistemi scolastici, ma anche problemi specifici come l’educazione democratica, il lavoro infantile,
l’istruzione nei diversi paesi del mondo, la preparazione professionale, l’istruzione superiore, la formazione e il recluta-
mento degli insegnanti, il rapporto sistema scolastico e ideologia, quello tra pedagogia e filosofia e pedagogia e sociolo-
gia.

HANS ed HESSEN hanno contribuito a chiarire in quale modo vadano impostati i rapporti tra pedagogia e politica per
arrivare ad un’educazione realmente democratica. I due autori analizzano specifici aspetti educativi - nel caso di Hans
la lingua, la religione, i progetti educativi di alcuni autori (Pestalozzi, Froebel, Fichte, Mazzini) e l’educazione femmini-
le; per Hessen l’idea stessa di uomo, i fattori di cura e addestramento, l’educazione come processo sociale e spirituale
che ne consegue - e, raffrontandoli, delineano l’idea di educazione democratica nelle loro concezioni.

VEXLIARD, nella sua opera La pedagogia comparativa (1967), negli anni Sessanta dichiara di voler enumerare i pro-
blemi che potrebbero costituire materia di studio per l’educazione comparata e, oltre a quelli di carattere politico, eco-
nomico e sociale che testimoniano gli stretti rapporti della pedagogia con queste scienze - rapporti Stato - Chiesa, scuo-
le private, libertà di insegnamento, rapporto con le professioni, democratizzazione, partecipazione dei genitori alla ge-
stione della scuola - ne ravvisa alcuni di propriamente pedagogici come le riforme dell’insegnamento, la comparazione
di programmi ed orari, la comparazione dei metodi della pedagogia speciale, il problema degli alunni dotati, l’educazio-
ne permanente, l’orientamento scolastico e molti altri.

Una disamina simile, molto articolata, viene compiuta anche da KING nel suo Prospettive mondiali dell’educazione
(1962), e in tempi più recenti l’impostazione data da LE THAH KHOI alla sua opera Educazione e civiltà . Un’altra
opera di Khoi è: Le società di ieri (1995) che è vicina ad un’interpretazione filosofica e storica dei fatti educativi, e che
contribuisce a delineare i fattori dell’educazione nelle diverse culture del mondo. Emergono allora: l’idea di infanzia,
l’idea di famiglia, l’intenzionalità e la cura educativa e l’educazione comunitaria nell’educazione africana; lo stretto
rapporto tra educazione e religione nella cultura asiatica che si esplicita nell’educazione della donna, in quella informa-
le e nel rapporto tra istruzione e burocrazia; la Paideia nell’educazione classica e cristiana europea; l’idea di famiglia e
di educazione informale nella cultura islamica.

(Paideia: ideale di educazione e formazione globale dell’uomo, secondo i modelli ereditati dall’antichità classica).

Passando ora agli aspetti metodologici la ripresa di BEREDEY ed HILKER a metà del Novecento e le integrazioni ed
innovazioni che ne sono seguite, hanno determinato la nascita di un metodo proprio dell’educazione comparata che se
da un lato è andato ad affiancare quelli già esistenti in campo pedagogico, dall’altro ha determinato un’approfondita ri-
flessione sui dati da comparare.

La necessità di isolare i dati pedagogico-educativi da realtà differenti e dissimili, di interpretarli e di arrivare poi a com-
pararli avendo stabilito un criterio di comparazione, ha suscitato un proficuo dibattito tra i pedagogisti costringendoli ad
esplicitare le proprie tacite idee sull’educaione, prendendo anche coscienza dei propri preconcetti e pregiudizi che emer-
gono evidenti sia nello stabilire quali siano i dati da rilevare, sia nella fase della giustapposizione.

Il soggetto educativo, quindi, bambino o adulto, è al centro delle ricerche comparative: è un soggetto che si presenta,
per dirla con Burber, come Altro e, nella sua diversità richiama l’umanità di ciascuno ed esige impegno educativo per
poterla realizzare nel migliore dei modi in diverse condizioni socio-culturali, storico-geografiche e politiche. Nella pro-
spettiva steineriana potremmo affermare che questo Altro non è che “il differente, cioè un diverso modo d’intendere
l’identico”, l’Uomo sempre diverso nelle sue manifestazioni contigenti, ma sempre identico a se stesso.

Gli studi comparativi, in questo senso, mirano quindi ad un raffronto tra le visioni antropologiche della civiltà, passate e
presenti, secondo l’insegnamento ad esempio del comparativista vitnamita LE THAN KHOI, o del filosofo africano
KI-ZERBO, o ancora dell’economista e filosofo indiano premio Nobel AMARTYA SON: per cogliere l’esistenza di bi-
sogni ed interessi umani comuni che possano far germogliare il sentimento dell’empatia il quale, attraverso l’identifica-
zione, porta il comparativista a scoprire la natura più profonda dell’Uomo nell’ambito di un neo-umanesimo, laico o re-
ligioso, volto alla persona.

E’ la soggettività che irrompe nelle ricerche pedagogiche che riportando gli studi al cuore stesso della disciplina: l’edu-
cazione e la formazione dell’uomo in vista di una sua piena realizzazione che non è mai da considerarsi conclusa, ma
sempre in fieri, sempre passibile di miglioramento, di sviluppo, progresso e perfezionamento, sopratutto in quei luoghi,
come l’Africa e l’Oriente, nei quali la distinzione tra individuale e sociale non è così netta come nelle società individua-
listiche occidentali.

In questo senso, gli studi comparativi si riferiscono ad una modalità riflessivo-intellettuale che molto ha a che vedere
con la dimensione idiografica della disciplina. Lo sviluppo della intersoggettività è inteso soprattutto come convivenza
pacifica dei popoli nell’ambito di una dimensione internazionale e mondiale, incremento ed estensione cioè di forme de-
mocratiche di vita e di governo, tanto più necessarie in un mondo nel quale la globalizzazione non ha cancellato diffe-
renze e diversità, anzi a volte le ha accentuate, oppure ha messo in contatto, forzatamente, identità e culture diverse tan-
to da farci pensare ad essa in maniera per lo più negativa e portando esiti disumanizzati come il conflitto etnico, il fana-
tismo religioso e il genocidio.

La globalizzazione, fenomeno plurale e sfuggente, contiene però anche alcune positività: ad esempio, la relazione con il
desiderio umano di conoscenza, ma sopratutto il suo legame con l’educazione perchè la globalizzazione pone degli in-
terrogativi che ci proiettano in un futuro da costruire, in un’utopia educativa da realizzare, in un ideale pedagogico che
deve concretizzarsi attraverso politiche condivise ed eque.

Non tutte le culture concepiscono l’idea di guerra nello stesso modo e le norme che regolano l’aggressività umana varia-
no nelle diverse culture e religioni, ma per stabilire una pace universale e durevole è necessario comparare le idee di
Uomo antropologicamente differenti e quindi delineare forme educative che ne tengano conto e che possano promuo-
verla concretamente.

E’possibile proporne alcuni, non esaustivi, che hanno ispirazioni culturali diverse, ma dei precisi riscontri pedagogici ed
educativi: gli ideali utopici di COMENIO, di KANT e di GANDHI.

La pace a cui ci si può riferire è l’ideale di COMENIO, in un pensiero nel quale l’utopia è una categoria pedagogica, un
ideale regolativo che funge da motore che trasforma la realtà. Così il padre della pedagogia moderna, che nel Seicento
vive in un’Europa sconvolta dalle guerre di religione, progetta un ideale pansofico per tutti - omnia omnibus omnino - e,
nella Consultatio catholica, concepisce una società nuova, giusta, armonica e risolutiva.

La costruzione di tale società richiede una riforma dei costumi e delle istituzioni esistenti, mediante un preciso impegno
comune a cui devono collaborare le singole persone, le famiglie, la scuola, la Chiesa e lo Stato. E Comenio, anticipando
i tempi come in una buona parte della sua proposta pedagogica, vorrebbe la creazione di tre organismi internazionali nei
quali ritroviamo sia la dimensione personale dell’educazione che quella sociale: il Collegio della luce che dovrebbe pre-
siedere alla promozione intellettuale-culturale di tutti gli uomini; il Dicastero della pace, responsabile delle questioni
per porre fine ad ogni conflitto; e il Concistoro ecumenio, che dovrebbe curare le questioni religiose e garantire la tolle-
ranza tra le diverse chiese.

KANT nella sua opera Per la pace perpetua ci parla di una pace fondata sulla libertà, sull’egualianza e sulla fratellanza
- cioè dice Kant sulla giustizia - che trova fondamento nel considerare l’uomo sempre come fine e mai come mezzo, e
permette di pensare ad una morale, una politica e un’economia sociale giuste ed eque. Il filosofo tedesco sostiene l’idea
che le Nazioni possano convivere non negando le proprie differenze, ma trovando nel rispetto, nella tolleranza e nel dia-
logo strumenti di pacificazione, e nel diritto universale e cosmopolitico che poggia sui diritti umani, un sistema per di-
panare le controversie internazionali.

E’ la pace di GANDHI, il Mahatma che ha tracciato un cammino nuovo e significativo quando ha teorizzato la nonvio-
lenza e ha posto in atto prassi educative in grado di portare alla pacifica convivenza umana. La vita stessa di Gandhi si è
svolta tra l’Oriente e l’Occidente e gli ha fatto sperimentare la convivenza con la diversità, sociale, culturale e anche re-
ligiosa. La pace di Gandhi è fondata sulla nonviolenza e nasce dalla conversione dell’uomo che ha conosciuto la violen-
za e - come scrive Manara- “ha fatto esperienza della distruttività in sé e nelle relazioni con gli altri. Essa è un compito
da assumere con intento educativo che può essere inteso in senso antropologico, o meglio, antropopoietico, prima che
sociale. La possibilità del cambiamento è quindi insita nell’uomo, ma richiede “forza vivente che dà vita”.

Bisogna saper affrontare lo scontro, resistere alla paura e soffrire. Da questa resistenza nascono forme di lotta e azione
nonviolenta come la disobbedenza civile e sopratutto il satyagraha, cioè la lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione con-
dotta sottomettendosi volontariamente alla sofferenza senza mai far soffrire l’avversario, stili di vita che si pongono co-
me alternativi alla violenza nella concreta costruzione della pace.

Questa modalità etico-politica di considerare gli studi comparativi pone in evidenza un’altra dimensione della pedago-
gia comparata: nata come scienza empirica e descrittiva, essa tende a diventare nomotetica - stabilendo prassi educative
che guidano verso l’universalità e la democraticità.
2. Il metodo e l’interpretazione storica di ieri

Per quanto riguarda l’aspetto metodologico dell’educazione comparata possiamo distinguere il metodo classico e le ri-
visitazioni successive: BEREDEY e HILKER negli anni Sessanta del Novecento hanno codificato quello che è diventa-
to il metodo classico della pedagogia comparata che si sviluppa attraverso quattro fasi: la descrizione, l’interpretazione,
la giustapposizione e la comparazione vera e propria.

Guardando alla storia dell’educazione comparata si può affermare che c’è stato un momento - che possiamo definire la
fase dell’analisi storico-fattoriale e che si estende dagli anni Trenta agli anni Cinquanta del Novecento - nel quale i
comparativisti, concentrati ancora sulla comparazione di sistemi scolastici e riprendendo le ricerche di Sadler, misero
sempre più in evidenza la necessità dell’analisi interpretativa per comprendere le diverse realtà educative e scolastiche.

Tra gli altri si possono richiamare lo statunitense Isaac Leon Kandel, i tedeschi Schneider, Robert Heinrich Gottlob
Ulich e Franz Hilker, lo spagnolo Pedro Rossellò e gli studiosi di origine russa Nicholas Hans e Sergej Hessen. Tutti
questi studiosi hanno contribuito alla riflessione sull’epistemologia e sulla metodologia dell’educazione comparata e
nelle loro opere hanno individuato una serie di fattori ritenuti le forze materiali e spirituali che determinano i sistemi na-
zionali di educazione: gli Stati sono perciò le popolarità educative studiate e il carattere nazionale è ritenuto il fattore
principale dello sviluppo di civiltà.

Questi autori apirano a conoscere i sistemi educativi nazionali intesi nelle loro componenti dinamiche. ROSSELLO’, ad
esempio, - che nel 1924 venne chiamato da Piaget a Ginevra a dirigere il Museo Pedagogico e l’Istituto J.J Rousseau, e
nel 1934 affiancò lo stesso Piaget nella direzione di Bureau International d’Education, uno dei primi organismi ad occu-
parsi di educazione anche in prospettiva comparativa, in cui elabora la “teoria delle correnti” e delinea “l’educazione
comparata dinamica”.

Dal suo punto di vista cioè non è sufficiente descrivere le diverse correnti pedagogiche tradizionali o quelle innovatrici,
ma è necessario identificare e ricostruire le loro cause e i loro sviluppi, tenendo conto degli influssi reciproci tra scuola
e vita e dell’interdipendenza dei fatti educativi.

ULICH - filosofo e pedagogista tedesco che si oppose al Nazionalsocialismo - ripercorre i momenti più significativi del-
la storia dell’educazione in occidente nell’intento di promuovere una rigenerazione di questa civiltà; KANDEL, allievo
di Sadler, pone l’accento sul problema metodologico della comparabilità degli elementi cosnsiderati ed afferma che
ogni sistema educativo è una realtà specifica ed originale e non è possibile quindi effettuare la comparazione di sistemi
nel loro complesso, ma solatanto riferirla a fattori dei quali si possono individuare incidenza ed intreccio nei vari conte-
sti culturali.

L’Educazione comparata allora, secondo l’autore, oltre a descrivere somiglianze e differenze, deve cercare le cause ge-
neratrici dei sistemi educativi ed egli le individua nella tradizione storica, nelle dinamiche economiche, nelle forze poli-
tiche, sociali e culturali di ogni Paese e nel carattere nazionale.

SCHNEIDER esamina il carattere nazionale, la posizione geografica, la cultura, la scienza e la filosofia, la struttura so-
ciale, l’economia, la politica, la religione, la storia e l’influenza estera e definisce questi fattori “le forze formative o di-
namiche” della pedagogia dei popoli. Esamina poi anche i fattori “endogeni” strettamente legati allo stesso carattere na-
zionale e in perpetua interazione tra loro, e li identifica, ad esempio, nel conflitto generazionale o nella correlazione tra
teoria e pratica pedagogica, e poiché essi determinano l’evoluzione dei sistemi educativi richiedono un approfondito
studio del loro sviluppo storico.

HANS considera l’educazione di ogni Paese come il risultato di una tradizione storica nazionale e culturale e sottolinea
l’importanza di studiare il sistema educativo di ogni singola nazione nel proprio ambiente storico e nella sua stretta con-
nessione con lo sviluppo del carattere e della cultura nazionali, in quanto proprio i fattori storici stanno alla base dei va-
ri sistemi nazionali d’educazione.

Hans, in un primo momento, elenca cinque fattori: unità di razza, unità di religione, unità di lingua, unione territoriale
ed autonomia politica; poi nel volume Educazione comparata, studio delle tradizioni e dei fattori educativi, afferma che
la personalità di ogni individuo adulto matura sotto la constante influenza di tre gruppi di fattori: cioè, il retaggio, ossia
il risultato dell’ereditarietà; l’ambiente, sia esso fisico che sociale ed infine l’istruzione avuta, sia in seno alle istituzioni
scolastiche speciali (scuola, organizzazioni giovanili, chiesa) sia sul terreno del lavoro produttivo.

Hans arriva a concludere che esistono tre gruppi di fattori ben distinti: i fattori naturali (razza, lingua, ambiente), i fatto-
ri religiosi (Cattolicesimo, Anglicanesimo, Puritanesimo) e i fattori laici (Umanesimo,Socialismo, Nazionalismo, De-
mocrazia). E’ compito dell’educazione comparata individuare come questi elementi incidano sui sistemi educativi delle
nazioni. Tra i fattori naturali quello “razziale” non è interpretato da Hans in senso biologico, ma culturale e psicologico:
è la coscienza di appartenere a una comunità la quale si riconosce in una serie di elementi - la lingua, il folklore, l’arte,
la religione- che formano un patrimonio comune.

Sul piano dell’analisi quindi è proprio il fattore razziale, inteso come carattere nazionale che si è formato nel tempo, ad
essere il fondamento della tendenza a privilegiare la prospettiva storica come strumento euristico di comprensione e in-
terpretazione della realtà educativa.

Sergej HESSEN va ricordato per quello che fu il nucleo, particolalmente attuale, della sua riflessione in cui delinea, at-
traverso la comparazione, le caratteristiche di una scuola realmente democratica. Hessen fu sensibile ai cambiamenti so-
ciali e culturali del suo tempo e coltivò interessi storici, psicologici, sociologici, giuridici, linguistici e letterari, pubbli-
cando molte opere in varie lingue.

Hessen adotta una prospettiva filosofica nella quale distingue l’educazione dall’istruzione e pone come traguardo della
formazione una personalità capace di autogovernarsi e sopratutto di avere capacità di discernere il bene dal male. Nelle
sue opere sceglie quattro importanti problemi: l’obbligo scolastico, le relazioni tra scuola e lo stato, la Chiesa e l’econo-
mia e affrontandoli dal punto di vista politico ne analizza i principi e li passa al vaglio della legislazione scolastica rela-
tiva a molti paesi.

Egli riesce a integrare la dimensione dei valori con la concretezza delle prassi educative ed afferma che la pedagogia è
arte e scienze insieme e l’educazione è un processo contemporaneamente biologico, sociale e spirituale. E’ un processo
quindi a più “piani”: il primo è biologico in cui l’educazione è intesa come sviluppo caratterizzato da cura, allevamento
e addestramento; il secondo è quello dell’essere sociale in cui l’educazione è processo che introduce al sentimento della
comunità; ed infine c’è il terzo piano, quello della cultura spirituale in cui l’educazione è intesa come percorso caratte-
rizzato da categorie quali i valori, la personalità e la tradizione. Ed è in questo processo che il soggetto cessa di essere
in una posizione prevalentemente passiva e diventa attivo, cioè un essere dotato di autocoscienza e di libertà che cerca
la verità, aspira alla bellezza e attua il bene liberando gli impulsi creativi e le capacità nascoste.

Durante questo processo di realizzazione della propria personalità, l’individuo non è isolato, ma è membro di una comu-
nità più vasta che condivide con lui gli stessi valori: in questo modo la personalità di un singolo non si discioglie nel
gruppo perchè l’adesione personale rimane insostituibile. In questo modo Hessen riesce a integrare la dimensione perso-
nale e quella sociale dell’educazione nello scenario di una cultura storicamente fondata che è però in continua costruzio-
ne ad opera dei singoli, della loro libertà e della loro coscienza, cioè è il risultato dell’opera educativa.

3. La componente storica oggi

La struttura interna della disciplina storico-educativa non è più narrativa, ma è diventata interpretativa, complessa e plu-
rale, e lo storico dell’educazione oggi si pone come colui che utilizza paradigmi di ricerca che si possono applicare an-
che all’educazione comparata se la consideriamo appunto una “storia”, e possono contribuire a definire gli studi compa-
rativi in educazione.

Un PRIMO paradigma, che riprende il modello classico appena delineato, è quello “dell’incontro” in cui la storia
della pedagogia, quella della pedagogia comparata e l’educazione comparata si configurano come “incontro” con
gli autori, le prassi educative, le civiltà del passato e del presente.

In questo senso si aprono ambiti diversi e plurimi di lavoro in cui attraverso lo studio storico di altre civiltà e altri
luoghi, si relativizza la storia pedagogica occidentle e la si pone entro un orizzonte mondiale più ampio e composi-
to, contribuendo a costruire una storia mondiale dell’educazione libera dai parametri culturali dell’etnocentrismo
occidentale.

In questo senso l’approccio storico si avvicina o forse collima perfettamente, almeno quanto a finalità, con quello
etnografico dove potremmo dire, semplificando, che la storia si occupa del tempo e l’etnografia dello spazio, ma
nonostante i metodi diversi, il fine è lo stesso.

MARROU ci fornisce un’indicazione preziosa da trasferire in campo comparativo, cioè l’assunsione di un atteg-
giamento di epokhè, una sospensione del giudizio critico che permetteva un vero incontro con il passato e con gli
uomini che l’hanno popolato. Scrive Marrou che esso è la capacità di “uscire da se stesso per incontrarsi con gli al-
tri. A tale virtù possiamo dare un nome: simpatia”. Questa “simpatia” altro non è che l’empatia di cui si è detto in
premessa che si sostanzia in pedagogia dell’attenzione e della cura educativa per l’Uomo e per gli Uomini, prassi
che ci permettono di costruire quel “mondo in comune” di cui scrive Edith Stein.

Un SECONDO paradigma è la contestualizzazione in cui lo storico, come il comparativista o l’etnografo, deve ri-
costruire la realtà in forza di una difendibile teoria pedagogica, ma deve anche possedere competenze plurime
nell’affrontare la ricerca. Il passato, che non può mai essere conosciuto così com’era, deve essere ricostruito da
molti punti di vista che guardino anche alle pratiche educative formali, non formali ed informali e al costume edu-
cativo diffuso nella società, ponendoli sempre in relazione con la teoria, a volte per confermarla, a volte per smen-
tirla, altre volte ancora per anticiparla. Lo studioso allora affronta con onestà intellettuale la ricerca nel tentativo di
spiegare la realtà passata o presente e di connetterla in modo dinamico e costruttivo al presente e al futuro, secondo
la sua specifica identità e le sue competenze, indagando mentalità particolari e ambiti nascosti.

Questo ragionamento conduce al TERZO paradigma, cioè l’attenzione a ciò che non è immediatamente evidente.
ZANI come altri comparativisti, ha già posto in evidenza questo aspetto e afferma che chi si occupa di pedagogia
comparata deve guardarsi da una certa meccanicità di applicazione, Occorre, per esempio, sempre tener presente la
distinzione fra ciò che è esplicito e ciò che è implicito. Tutte le costituzioni, più o meno direttamente, sanciscono
l’ugualianaza di ogni cittadino di fronte all’educazione, senza distinzione di sesso, razza e religione.

Però, di fatto, la politica educativa deve fare i conti con le ideologie che basano l’educazione sul concetto di gerar-
chia, di uguaglianza (come nei paesi capitalisti e socialisti) oppure su antiche credenze religiose (il Corano assegna
compiti differenti all’uomo e alla donna).

Dunque bisogna che la ricerca storica, da questo punto di vista, considera anche un’altra strada, cioè l’attenzione e
l’impegno scientifico verso percorsi minoritari, quelli interrotti dal fluire storico ma non per questo meno significa-
tivi, che possono essere ripresi nel presente.

Il QUARTO paradigma è strettamente metodologico e riguarda la ricognizione documentale a tutto campo che fac-
cia emergere, in prospettiva interdisciplinare, anche fonti inusuali e attuati poi, nella consapevolezza che l’oggetti-
vità intesa come descrizione neutrale delle cose non esiste, un’onesta interpretazione dei documenti che si possie-
dono alla luce degli avvennimenti politici, economici e culturali di un determinato momento storico.

Importanti sono le tradizionali fonti scritte ed archivistiche, quelle iconografiche, le fonti biografiche e autobiogra-
fiche, i diari, gli epistolari e i carteggi, le storie personali e le fonti orali che irrompono con la loro soggettività nel-
la ricostruzione storica; e hanno assunto importanza poi anche le fonti digitali che riconducono ad analisi quantitati-
ve e statistiche.

Per il comparativista l’accesso alle fonti dirette, al fine di avere una conoscena adeguata degli eventi - siano essi vi-
cini allo spazio e nel tempo, oppure “lezioni che provengono da altrove” - può rappresentare un momento difficile
della ricerca perchè a volte non solo le fonti non sono reperibili in archivi ufficiali ma piuttosto in luoghi inusuali e
strettamente connessi alla materialità della vita di un luogo e quindi di difficile reperimento, ma egli avrà anche la
difficoltà di doversi destreggiare all’interno di una realtà che non gli appartiene culturalmente. Proprio il metodo
storio può allora sollecitare i comparativisti dal punto di vista euristico e mettere in guardia da facili e superficiali
interpretazioni.

Il QUINTO paradigma è l’interdisciplinarità che riguarda tutta la ricerca pedagogica all’interno delle scienze
dell’educazione, ma ha assunto sempre più importanza negli studi storici. Lo storico, come il comparativista,
nell’affrontare i problemi relativi a uno studio o ad una ricerca, necessita di competenze plurime che spesso lo por-
tano a collaborare con altri disciplinaristi.
Nelle ricerche comparative si presentano molti problemi da affrontare come per esempio il problema del transfer,
cioè il movimento di un’idea o una prassi educativa nello spazio, - sul quale ha riflettuto molto negli ultimi anni
Robert COWEN distinguendolo da quello di traduzione come reinterpretazione di quella idea o prassi, e trasforma-
zione come metamorfosi che il contesto impone come indigenizzazione o estinzione alla traduzione iniziale - ci fa
pensare a quanto lo studio di modelli educativi passati non serva per una loro pedissequa riproposizione secondo
l’insegnamento oramai superato della storia magistra vitae, ma inciti ad una ripresa e riproposizione di percorsi si-
gnificativi che poi vanno contestualizzati nella realtà odierna.

Basti pensare, a titolo esemplificativo, all’educazione familiare di Pestalozzi, o all’educazione degli anormali di
Maria Montessori, o ancora all’educazione infantile nei Giardini d’infanzia di Froebel, compiuti modelli educativi
che hanno ancora molta influenza nelle teorie moderne.

SESTO ed ultimo paradigma è la relazione tra pedagogia e politica, che può diventare emblematica dal rapporto
epistemologico tra la pedagogia e le altre scienze dell’educazione. Si apre così una via, non facile ma praticabile,
per rendere la pedagogia una scienza autonoma che, forte dei propri principi, sia capace di rapportarsi ad altre
scienze non più da una posizione subalterna, ma da una quanto meno paritaria.

Conclusioni

Allo storico-comparativista è affidato allora il compito di studiare terorie e contesti educativi con l’intento di proporre
prassi che possano migliorare la vita delle persone in prospettive aperte al reciproco rispetto, alla conoscenza e alla tol-
leranza delle diversità e alla solidarietà.
Capitolo terzo:
EDUCAZIONE COMPARATA E METODO ETNOGRAFICO IN EUROPA.
DALLE RICERCHE MULTILOCALI ALLO STUDIO DEI RAPPORTI MACRO-MICRO

In Europa l’uso della ricerca etnografica (studio dei popoli) in educazione comparata, pur prendendo le mosse da un
unico ceppo originario influenzato dall’antropologia sociale, si è sviluppato (nel corso del mezzo secolo della sua sto-
ria) in modo abbastanza coerente, almeno fino a quando l’impatto della critica postmodernista non lo ha frantumato in
una miriade di correnti eterogenee. Questa recente frantumazione rende praticamente impossibile il compito di una
mappatura della situazione odierna.

Esistono tuttavia almeno due importanti filoni che hanno attraversato l’etnografia in educazione comparata durante il
corso della sua storia, e che costituiscono ancora oggi dei punti di riferimento per chi voglia accostarsi a questo approc-
cio di ricerca, nella consapevolezza delle sue forme più tradizionali.

Il primo e più risalente di questi filoni è quello delle etnografie multilocali. Originariamente piuttosto tradizionali
nell’impatto, queste ricerche etnografiche sono nate per comparare i dati parallelemente raccolti su più campi di ri-
cerca, e hanno subito successivamente una serie di evoluzioni in merito soprattutto alla concezione di separatezza
culturale dei suddetti campi di raccolta dei dati, e alle metodologie di ricerca.

Il secondo filone è quello delle ricerche che, più che comparare in modo parallelo dati provenienti da più campi,
mirano a comprendere le relazioni esistenti tra realtà appartenenti a diversi ordini di grandezza, come per esempio
le relazioni intercorrenti tra una realtà locale studiata etnograficamente e il più vasto sfondo di flussi globali che la
circondano.

1. L’origine delle ricerche multilocali

Il momento in cui in Europa si inizò a utilizzare il metodo etnografico in educazione comparata, coincide con quello in
cui si affermò l’etnografia dell’educazione. La prima importante ricerca di etnografia dell’educazione fu infatti una ri-
cerca comparativa multilocale che venne realizzata a Manchester nei primi anni Sessanta, da una èquipe guidata dagli
antropologi M.GLUCKMANN e R. FRANCKENBERG e dal sociologo dell’educazione A. H. HALSEY.

A Manchester l’etnografia venne impiegata per mappare e comprendere attraverso la comparazione il funzionamento in-
terno di due dei tre tipi di scuole secondarie statali allora esistenti (previste dalla riforma Butler): le grammar schools e
le secondary modern schools. In particolare il funzionamento delle grammar schools era improntato a una rigida logica
selettiva. Una volta superato l’esame di ammissione (chi non lo superava era destinato alla secondary modern), gli stu-
denti venivano distribuiti in classi gerarchizzate dette streams (correnti) sulla base dei punteggi scolastici rilevati nel
corso dell’anno. All’inizio di ogni nuovo anno scolastico le strems venivano riformate degredando i ragazzi con voti
bassi e promuovendo i meritevoli (evento sempre più raro man mano che si procedeva verso gli ultimi anni di corso).

C. LACEY, ricercatore dell’èquipe di Gluckman, propose un approccio composito: parte qualitativo, parte quantitativo.
Egli avrebbe lavorato nella scuola prescelta, la grammar school maschile di Salford, come insegnante. Ciò gli avrebbe
consentito di svolgere una ricerca continuativa ed estesa con la tecnica dell’osservazione partecipante. Ma le intuizioni
inferite dall’osservazione diretta, meticolosamente annotate nei suoi diari etnografici, sarebbero state sottoposte a forme
di verifica quantitativa, che comunque doveva conservare un ruolo di metodologia di supporto. La cosa più importante
dunque era la combinazione e integrazione di metodi nell’analisi, ma l’impostazione generale rimaneva quella di una ri-
cerca sul campo antropologica.

Limitarsi all’uso di metodologie non specificamente etnografiche, come i questionari, o le statistiche tratte dalle Local
Education Authorities ecc. avrebbero significato rimanere al di fuori del problema, limatarsi cioè a formulare ipotesi su
quel che stava accadendo dentro. Inoltre, senza etnografia, le spiegazioni del ricercatore sarebbero sempre in qualche
modo derivate dal bisogno di dare un significato alle statistiche, o alle risposte ai questionari. E le statistiche e le rispo-
ste ai questionari possono essere molto fuorvianti, poiché esse vanno interpretate, e le modalità di interpretazione non
sono scontate. Per superare questi limiti l’etnografia era dunque essenziale.

Osservando i ragazzi, Lacey notò che mentre nel primo anno essi tendevano a reagire alle notevoli difficoltà della gram-
mar school seguendo pattern idiosincratici e personali (ad esempio contraendo malattie psicosomatiche) a partire dal se-
condo anno, da quando cioè entrava in ballo lo streaming essi davano una risposta di rilevanza sociologica, aderendo a
una delle due sub-culture che Lacey stesso aveva individuato nelle aule. I ragazzi con cattivi risultati scolastici adotta-
vano invece una sub-cultura creata da loro stessi i cui valori (o disvalori) erano la ribellione, la violenza, il sarcasmo
verso insegnanti e “secchioni” e la forza virile.

Obiettivo: Lacey cercò di trovare conferme quantitative per supportare le intuizioni inferite dall’osservazione parteci-
pante sul campo e dai case studies individuali. Per questo si creò un sistema di questionari basati sulle scelte di amicizia
dei ragazzi, e usò i risultati per disegnare una sociomatrice per ognuna delle streams studiate. I risultati mostrano che
sia la cultura pro-scuola sia quella antiscuola davano luogo a gerarchie sociali, orientate da gerarchie di valori.

Questo processo si svolgeva in almeno due stadi distinti, che Lacey definì differenziazione e polarizzazione. Per differn-
ziazione egli intendeva la separazione e gerarchizzazione degli studenti in base a un set multiplo di criteri che costituiva
il sistema di valori normativo e accademicamente orientato della grammar school. La differenziazione era attuata preva-
lentemente dagli insegnanti nell’esercizio delle loro funzioni, nell’ambito del sistema dello streming. (Tra docenti)

Invece la polarizzazione aveva luogo tra gli studenti, in parte come risultato della differenziazione, ma influenzata da
fattori esterni e con una propria autonomia. Era un processo di formazione subculturale nel quale alla cultura normativa
pro-scuola veniva opposta una cultura alternativa antiscolastica, creata dagli stessi studenti. (Tra studenti)

Appartenere alla cultura anti-scuola, condividere i suoi valori, innescava un circolo vizioso che infine comprometteva
anche i risultati scolastici, visto che, tra l’altro, gli insegnanti etichettavano gli studenti anti-scuola e tendevano a trascu-
rarli. Al contrario, come già visto appartenere alla cultura pro-scuola tendeva a innescare un circolo virtuoso, special-
mente perchè i bravi studenti seguivano la vita dell’emulazione.

L’elemento struttural-funzionalista nell’approccio di Lacey era essenzialmente la sua interpretazione del sistema sociale
della grammar school di Salford come costituito da gerarchie di studenti, orientate da gerarchie di valori. La spiegazio-
ne funzionalista del sistema coincide con l’ideologia ufficiale della scuola selettiva: lo streming rende lo studio più effi-
cace per tutti: i meno dotati possono studiare a un ritmo più lento e adatto alle loro capacità; i più dotati possono andare
avanti a pieno regime senza venir rallentati dagli altri.

Ma Lacey non è funzionalista puro, vi è in lui una dimensione marxiana. Egli mostra come a tutti i livelli questa pro-
spettiva ufficiale della scuola è contestata in varie forme dai ragazzi e da alcune famiglie, le quali vi riconoscono una
ideologia classista dell’establishment.

I ragazzi accademicamente poco performanti reagiscono spontaneamente creando un controsistema, consistente in una
gerarchia sociale alternativa orientata da un sistema di valori diverso e per certi aspetti opposto a quello della scuola: i
cattivi voti significano sana ribellione e virilità. E i ragazzi più ribelli sono anche i più ammirati dai pari.

Il sistema sociale degli studenti della grammar school si compone dunque, di due gerarchie sociali entrambi funzionali,
ma in conflitto tra loro e in qualche modo antitetiche. Ma il sistema totale continua a costituire un’unità poichè in realtà,
come emerge dall’osservazione partecipante e dai case studies, i ragazzi possono momentaneamente appartenere (alla
bisogna), a entrambe le sub-culture, e regolarmente lo fanno.

2. L’altra metà del cielo e i problemi di comparabilità

Al momento di progettare la ricerca si era previsto di includervi comparativamente anche una grammar school femmini-
le. L’incarico di studiare quest’ultima fu affidato a A. LAMBART, una giovane ricercatrice inglese che si era specializ-
zata negli Stati Uniti. Ella impostò la sua ricerca, basata prevalentemente sull’osservazione partecipante, sull’analisi dei
valori, ma in termini diversi rispetto al collega Lacey.

Le apparve subito che presso la grammar school di Mereside vigevano valori in contrasto con quelli tradizionali
dell’area di reclutamento della scuola, di estrazione lavoratrice e piccolo borghese. Questo era un sistema meno rigido
nel quale le ragazze venivano distribuite in gruppi differenziati per ciascuna materia. Così se una ragazza fosse stata
pessima in tutte le materie ma capace ad esempio in matematica, sarebbe stata piazzata nei bottom set per le materie in
cui non riusciva, ma nel top set per quella in cui era dotata.

La distribuzione delle studentesse nei sets, molto meno schematica e più idiosincratica e articolata rispetto alla streams,
suggeriva l’uso di un approccio più attento alle individualità delle ragazze, e richiedeva una nuova e diversa concettua-
lizzazione dell’appartenenza sociale. I sets somigliavano piuttosto a quei networks che erano stati introdotti in tutt’altra
sede scientifica da J. BARNES, per concettualizzare le connessioni e interconnessioni tra individui che si muovono den-
tro e tra diversi ambienti socioculturali.

Lo studio dei networks comporta il rilevamento dei pattern di relazioni interpersonali che travalicano vari ambienti e
confini socioculturali, e la loro formazione e mobilitazione, come rilevatori della natura, dell’ampiezza e del carattere di
quella peculiare e “eterodossa” struttura sociale. LAMBART non cita mai esplicitamente l’influenza di autori come
BARNES e BOTT, ma istintivamente si pone nello stesso tipo di logica, mostrando di essere all’avanguardia nel campo
dell’etnografia dell’educazione comparativa, e suscitando l’incomprensione dei colleghi e dei contemporanei.
Parlando del rapporto tra ricerca etnografica e educazione comparata, anche una convinta sostenitrice dell’etnografia
come V. MASEMANN riconosceva che, benchè gli studi etnografici dessero una comprensione di come funziona con-
cretamente una determinata realtà educativa, la somma di tutte queste realtà locali difficilmente poteva restituire una vi-
sione d’insieme di educazione comparata che potesse soddisfare coloro che fossero interessati a una visione più genera-
le.

Ma dopo i primi tentativi di elaborazione comune dei dati raccolti da parte dell’équipe, che comprendeva anche un terzo
ricercatore, D. H. HARGREAVES, distaccato in un’altra scuola maschile (che dette risultati più simili a quelli di La-
cey), apparve evidente che sarebbe stato quasi impossibile portare a compimento l’intento comparativo della ricerca.
Questi problemi di comparabilità e generalizzabilità portarono infine al parziale fallimento del progetto.

3. Come rendere comparabili i dati delle etnografie multilocali

Con riferimento all’etnografia multilocale comparativa, vi sono una serie di accortezze e precauzioni che dovrebbero
essere tenute in conto al momento di organizzare una ricerca, che possono aumentare la chances di riuscire a comparare
i dati raccolti sui vari campi etnografici che costituiscono l’oggetto di studio. Queste “precauzioni”, che consistono in
sintesi nel prevenire che le varie ricerche locali, nel corso del loro sviluppo, finiscano col divergere troppo, sarebbero-
necessarie principalmente perchè nell’etnografia multilocale i campi in cui vengono raccolti i dati si troverebbero in
ambiti culturali diversi tra loro.

Questa “separatezza” sarebbe legata a confini culturali che possono essere di vario tipo: coincidere ad esempio con
quelli degli Stati nazione, oppure essere confini tra varie declinazioni locali di una medesima cultura, secondo le più va-
rie sfumature. Con il tempo e l’esperienza, si è assodato che con riferimento alla ricerca qualitativa attraverso i confini
culturali, il tema della comparabilità concettuale dei vari gruppi di dati è legato (nei termini di quella “prevenzione della
divergenza” ) anche al tema della portata massima alla quale le squadre di ricercatori sono in grado di utilizzare tutto lo
spettro di metodologie qualitative, tali quelle usate nell’etnografia: la raccolta di documenti e materiali rilevanti, le os-
servazioni sul campo, le interviste e le conversazioni registrate ecc.

In tal senso, pesa anche la presenza nell’ équipe di ricercatori legati a diverse tradizioni (cfr. le diverse impostazioni
scientifiche di Lacey e Lambart) che necessitano di “appianamenti” prima di iniziare il lavoro e che possono portare a
molto tempo speso nella fase iniziale, nel tentativo di stabilire una metodologia comune di ricerca (in caso contrario po-
trebbero presentarsi i problemi che hanno afflitto le ricerche di Manchester).

I diversi linguaggi coinvolti (i diversi lessici scientifici dei ricercatori, ma anche le diverse lingue parlate se si tratta di
una ricerca multilocale internazionale) comportarono l’esplorazione delle diverse equivalenze concettuali relative all’ar-
gomento studiato.

Il problema delle differenze culturali va letto anche in chiave logistica. Le distanze geografiche implicate, qualora vi
siano, comportano incontri faccia a faccia e anche attraverso media elettronici, e in entrambi questi impegni la compren-
sione e i chiaramenti linguistici tra i partner delle squadre devono avere la priorità su tutte le altre comunicazioni. Per-
chè altrimenti, se le ricerche procedessero su piani paralleli e senza dialogare (come avvenne a Manchester) si rischie-
rebbe che esse finirebbero col divergere troppo, diventando infine incomparabili.

Oggi una metodologia largamente utilizzata per questo tipo di etnografie multilocali è quella indicata da M.B MILES e
A. M HUBERMAN. L’analisi di dati qualitativi comporta varie fasi: in primis la riduzione dei dati, che consiste nel
mantenere il progetto gestibile, limitando la quantità di dati raccolti (appunti del campo e trascrizioni di interviste) per
evitare di venire sommersi, compiendo scelte di campionamento nella fase di raccolta. Quindi l’esposizione dei dati,
che fa riferimento a mezzi efficienti per organizzare e esporre le informazioni mediante l’uso di diagrammi, grafici, ma-
trici.

Infine la conclusione e la verifica (che in realtà inizia sin dal principio della raccolta dati) individuano patterns e regola-
rità, postulando possibili strutture e meccanismi. MILES e HUBERMAN sottolineano che ciò dovrebbe essere accom-
pagnato costantemente da un processo in cui si verificano la validità e l’affidabilità (es. tale spiegazione è plausibile?
Puoi trovare prove che la confermino? Può tale scoperta essere replicata in un altro insieme di dati?).

Miles e Huberman hanno sviluppato un approccio molto dettagliato e sistematico al processo qualitativo di ricerca e
analisi dei dati, che include anche la presa in considerazione di progetti di case study su larga scala che includono siti
multipli (diversi studi di diverse culture) (benché non necessariamente transculturali nel senso di diverse culture nazio-
nali) e una squadra di ricercatori, ognuno responsabile per un singolo sito di case study. Tale approccio si presta in parti-
colare allo studio dei networks diffusi.

Le interpretazioni alternative, le spiegazioni, i disaccordi tra esse vengono dibattuti. Perciò secondo il classico anda-
mento etnografico, l’analisi alimenta l’ulteriore raccolta di dati, conducendo a ulteriore analisi, in una “spirale di com-
prensione”, che però rimane “coesa” tra i vari membri dell’équipe multilocale, grazie alle precuazioni.

4. Le esigenze dell’etnografia comparativa: ridurre gli strumenti di indagine

Due emblematici progetti europei di ricerca hanno tuttavia sviluppato le loro particolari metodologie qualitative per
adeguarle alla ricerca internazionale comparativa. Si tratta degli studi transculturali svolti da R.WEBB e da
M.OSBORN, ricerche che (come molte altre ricerche contemporanee) pur differendo dal precedente di Manchester per
l’argomento trattato e per il fatto di essere internazionali, comportano problemi affini di traducibilità e comparabilità dei
dati, resi ancor più complessi dalle differenze culturali nazionali.

Il progetto di ricerca di Webb, ha indagato sulla professionalità dei maestri elementari inglesi e finlandesi in un periodo
di dieci anni includendo 24 maestri inglesi e 13 finlandesi. Il punto di partenza della ricerca è che chi fa politica scola-
stica in Inghilterra e in Finlandia ha concezioni di professionalità docente molto diverse. In Inghilterra esse sono forgia-
te dalla necessità di elevare gli standard, e da una visione di professionalità legata al mercato. Invece in Finlandia esse
sono influenzate da una visione di empowerment dei docenti.

I problemi della professionalità sono affrontati attraverso tre temi generali: l’impatto del curriculum e delle riforme pe-
dagogiche; il lavoro comune per implementare dette riforme; il controllo e l’accountability. Dalla ricerca è risultato che
in ogni Paese le concezioni che gli insegnanti hanno della loro professionalità si sta evolvendo.
Per garantire la validità transculturale della ricerca, gli etnografici hanno limitato gli strumenti a interviste semistruttu-
rate, usando un programma basato solo su tre delle principali domande che erano state originariamente previste.

5. Strategie testuli e software ipertestuali

Una circostanza molto interessante è che l’analisi è stata condotta dai ricercatori inglesi usando il software di analisi dei
dati quantitativi WinMAX. Uno dei vantaggi che si ottengono usando WinMAX o uno dei numerosi software equivalen-
ti, è che consente un unico e completo file di archivio contenente tutti i testi, memos e categorie, fornendo così una trac-
cia per le verifiche dei processi di analisi, e consentendo comunicazioni via web riguardo al modo esatto nel quale i seg-
menti delle trascrizioni di interviste sono stati codificati e conseguemente analizzati.

La struttura “a spirale” della ricerca etnografica comporta che la direzione di raccolta dei dati subisca continue messe a
punto (condivise dai partner), ogni volta che una nuova scoperta fatta sul campo lo consiglia. La “scrittura elettronica”
dei dati mediante software ipertestuali, consultabili anche a distanza da diverse postazioni, consente invece di costruire
un unico archivio dati, con i contributi messi in comune “in tempo reale” dai vari gruppi di ricerca. Facilitando la rifles-
sione in comune su tutti i dati, anche tra persone a distanza, il software aiuta a mantenere coerente e coordinato il lavoro
multilocale di ricerca sul campo.

Ma vi è anche un altro aspetto importante. Se una possibile soluzione al problema della comparazione tra dati etnografi-
ci raccolti multilocalmente sta nell’uso di adeguate strategie testuali (es. esposizione contrappuntata di resoconti relativi
a siti diversi, sperimentazioni di deviazione letteraria, ecc.) le capacità ipertestuali dei software per ricerca qualitativa
costituiscono una straordinaria opportunità.

6. Nuove unità di ricerca per l’etnografia comparativa dell’educazione

Oggi il ricorso alla metodologia etnografica diventa necessario tra l’altro perchè si tratterebbe di uno strumento in grado
di esplorare quei assemblaggi culturali peculiari e instabili che sono le relazioni nelle attuali società complesse. A detta
di COWEN l’uso dell’etnografia costituirebbe in questo senso un elemento cruciale, in particolare con riferimento allo
studio dell’impatto che i transfer di idee e pratiche formative da un contesto all’altro hanno sulle biografie degli indivi-
dui coinvolti in una prospettiva che richiama alcuni degli intenti di ricerca di MILLS.

Tuttavia, perchè si possa parlare di vera educazione comparata, non basta limitarsi a confrontare tra loro i dati raccolti
etnograficamente in siti multilocali. Bisogna inserire tali dati in un contesto di studio più ampio che includa lo studio
dei rapporti di potere e il loro influsso sulla trasformazione che le idee e pratiche oggetto di transfer subiscono nel con-
testo di destinazione. Questo uso dell’etnografia dunque, più che alle tradizionali comparazioni multilocali, è mirato, tra
l’altro, al tentativo di comprendere le implicaioni e conseguenze che i flussi, globali e non, hanno a livello locale e per-
fino individuale.

Nell’attuale panorama di flussi globali, variamente definito con una molteplicità di termini (legati ai diversi possibili
punti di vista) quali, ad esempio, ethnoscapes, technoscapes, financescapes,ecc., al quale protremmo aggiungere edu-
scapes, si pone dunque il problema di porre in relazione e comparare le realtà micro (e non sempre facilmente localizza-
bili) studiate etnograficamente, con i sistemi che oggi attraversano il pianeta al fine, tra l’altro, di comprenderne le inter-
relazioni. Questa è una delle nuove frontiere dell’uso dell’etnografia in educazione comparata.

In passato, gli etnografici che si sono applicati agli studi sull’educazione, spesso essendo più interessati ai problemi del
significato culturale che all’azione sociale, non hanno di solito rappresentato il modo in cui gli ambiti culturali, da loro
osservati a distanza ravvicinata, erano inseriti all’interno di sistemi più vasti e impersonali, forse anche per non cadere
nell’atteggiamento che da alcuni è stato definito: effetto pantografo. Si tratta della tendenza a cercare a livello locale le
ripercussioni dell’ordine più vasto lasciandosi troppo condizionare da quest’ultimo.

La flebile voce degli ambiti “micro” verrebbe allora coperta e snaturata dal frastuono del globale, le ragioni e peculia-
rità del “locale” non verrebbero ascoltate sufficientemente dallo studioso, che infine tenderebbe ad attribuire ad esso le
caratteristiche dei coevi sistemi più vasti (Stato nazione, sistema globale,ecc.) rappresentandolo come un “modellino in
scala” degli stessi.

Un altro atteggiamento che ha impedito agli studiosi di combinare proficuamente lo studio del micro con la conoscenza
dei sistemi più vasti che lo circondano è stata la tendenza a vedere detti sistemi come una forza che preme sui piccoli
ambiti circoscrivendoli, ma non come realtà integrate in essi.

Attualmente in etnografia il discorso teorico che unifica il campo metodologico viene decostruito e riformulato “dal
basso” (quindi in una prospettiva che muove dal “micro”), e una delle principali domande alla base di questo processo è
come debbano essere rappresentati quei fatti in passato dati per scontati dalla grande metanarrazione dell’etnografia
classica, come ad esempio l’impatto dei flussi globali sul “locale”.

Se si osserva il lavoro svolto da WILLIS nella sua prototipica etnografia Learning to Labor, la modalità per reintrodur-
re le prospettive macro nei resoconti micro, sembrerebbe collocarsi non solo a livello di metodologie di raccolta dati,
ma anche a livello delle strategie testuali che si possono utilizzare per redigere una monografia su base etnografica.

Ci troviamo nella prospettiva postmodernista, in cui l’approccio etnografico è utile per superare le difficoltà che l’edu-
cazione comparata deve affrontare relativamente alla ridefinizione della sua unità di ricerca, in termini di realtà di rete e
globalizzate. Con riferimento a queste ultime, Willis propone un approccio (ben più agile di quello per la ricerca sulle
realtà multilocali) che consta nella costruzione, da parte dell’etnografo, del testo attorno a un sito di ricerca scelto strate-
gicamente, e mantenendo il sistema “ambiente” sullo sfondo, ma senza dimenticare che esso comunque fa parte della vi-
ta culturale interna dell’oggetto di studio “micro”.

In questo tipo di ricerche è importante sottolineare esplicitamente la scelta internazionale di un determinato oggetto, sia
esso più o meno legato a una determinata località, che consente di collegare il contesto “micro” o quello locale alle que-
stioni più generali dei sistemi mondiali coinvolti.

In Learning to Labor Willis utilizza questo approccio: restringe l’oggetto etnografico a una località osservabile diretta-
mente, e colloca sullo sfondo l’ordine generale, in particolare alcuni aspetti dell’ordine capitalistico mondiale. Il lavoro
di Willis, con i suoi pregi e con i suoi limiti, è emblematico di questo tipo di approccio applicato a studi sull’educazio-
ne, e costituisce ancora oggi una sorta di prototipo di notevole interesse, un punto di riferimento per formulare ipotesi
sull’uso dell’etnografia in campo educativo nell’attuale contesto segnato dalla globalizzazione e dalla critica postmoder-
na.

Lo studio di Willis, che si colloca per vari aspetti nella tradizione dei Cultural Studies, a suo modo mira a comprendere
come il lavoro nella società capitalista si costituisca come esperienza culturale. Si tratta di una ricerca sulla vita scolasti-
ca dei giovani di estrazione operaia, che ha tra l’altro lo scopo di migliorare la comprensione dei processi di formazione
delle classi in Inghilterra, in linea con la tradizione intellettule marxista britannica.

Ma rispetto alle già menzionate ricerche di Lacey, Hargreaves e Lambart, che come si convive in un ambito etnografico
più tradizionale, cercavano di contestualizzare le relazioni e pratiche sociali osservate in aula nell’ambito più ampio
(ma sempre direttamente osservabile) delle città in cui si trovavano le scuole studiate, Willis poneva invece l’ambito
studiato etnograficamente in relazione, per certi aspetti, con il sistema capitalistico mondiale.

Egli identificava strategicamente il suo soggetto nella cultura di “reistenza” elaborata a scuola dai maschi bianchi della
classe lavoratrice. La sua etnografia fa numerosi riferimenti agli altri luoghi dove i suoi soggetti vivono (strada, casa,
sala da ballo) ma sceglie l’aula scolastica perchè è il luogo dove la lotta di classe si manifesta quotidianamente, ed è an-
che il luogo in cui si sviluppa la coscienza di classe tra i lads, cioè i giovani proletari non conformisti, coscienza e
orientamenti che, terminata la scuola, li spingeranno verso gli stessi lavori manuali dei loro genitori, dando luogo a un
meccanismo di riproduzione sociale.

La tesi principale di Willis è che, paradossalmente, una forma culturale creata per resistere a scuola all’indottrinamento
della classe dominante, diventa invece il mezzo di adattamento per inserirsi nella vita di fabbrica.

7. Culture e identità si formano contro lo sfondo dei sistemi globali

Le osservazioni fatte nelle abitazioni e la prospettiva dei genitori indicherebbero che la cultura tende a riprodursi di ge-
nerazione in generazione, però per Willis è la scuola, e non la casa, il luogo dove tale cultura si forma. Le osservazioni
sul luogo di lavoro mostrano la continuità tra cultura di resistenza a scuola e in fabbrica, ma fanno apparire anche le di-
verse conseguenze che essa ha nei due ambienti.

Willis dunque delimita il sistema descritto nel testo in modo molto mirato e strategico per motivare la propria argomen-
tazione. L’autore presta anche una certa attenzione alla cultura della classe media così come viene espressa dagli inse-
gnanti e da certi studenti, e da un pò di spazio agli specifici punti di vista delle ragazze e degli immigrati alle ex colo-
nie, ma concentra soprattutto la sua etnografia sui compari.

In questo caso, perciò, l’etnografia non è caratterizzata tanto da una particolare tecnica narrativa, quanto dal criterio che
presiede alla sua costruzione: come l’autore sceglie gli argomenti, si sposta da un sito all’altro, presenta e confronta pro-
spettive diverse e perciò mostra a momenti il mondo più vasto nel quale i compari sono inseriti.

Per Willis la cultura è il modo in cui gli umani, le cui vite sono strutturalmente definite dai principi del capitalismo
incarnati nelle istituzioni, rispondono nelle loro vite ed esperienze quotidiane a quei principi. Una forma culturale è
dunque generata dalla posizione di classe di un gruppo in un dato ordine istituzionale, e gli scopi della ricerca (e della
scrittura etnografica) sono proprio la rappresentazione e l’analisi di questa forma culturale.

La natura critica dell’etnografia sta duqnue nella circostanza che il suo fine ultimo è la ridefinizione in termini umani
della stessa struttura capitalistica: portare alla luce le forme culturali rende espliciti significati umani della “struttura” in
senso marxiano. La cultura non è autosufficiente, ma è invece cultura di classe o sottocultura, la cui formazione si deter-
mina entro processi storici. Dunque le classi lavoratrici in quanto forme culturali riconoscibili sarebbero tra l’altro il ri-
sultato di un determinato sistema mondo di economia politica.

Willis apre la strada a un’etnografia in cui la teoria critica del soggetto, una volta estratta e articolata, diventa anche una
rappresentazione, incapsulata nell’etnografia locale, della concezione che lo stesso soggetto ha del sistema
macrosociale.

8. Conclusioni

Tra le più recenti applicazioni di questo tipo di metodologie nella ricerca etnografica spiccano, ad esempio, gli studi
svolti con intento critico da studiosi di ispirazione postmodernista, che hanno cercato di decostruire l’affermazione neo-
istituzionalista (diffusa nell’educazione comparata contemporanea) per cui i sistemi scolastici mondiali tenderebbero
inevitabilmente verso l’armonizzazione e l’omologazione.

Queste ricerche etnografiche segnalano piuttosto divergenza. LEVITT, che in tal senso ha curato un importante volume
collettaneo, suggerisce che sia impossibile risolvere la contesa tra neo-istituzionalisti ed etnografici attraverso la valuta-
zione della forza di ciascuna prospettiva, esaminando la direzione dei cambiamenti dei sistemi scolastici nel corso del
tempo.

(Importante volume di Levitt: Local Meaning, Global Schooling: Anthropology and World Culture Theory 2003).

L’approccio multilocale e quello dello studio delle relazioni tra macro e micro non costituiscono gli unici approcci me-
todologici nell’etnografia dell’educazione comparativa, ma segnano due importanti momenti nell’evoluzione di questo
settore di studi e contribuiscono a delineare alcune caratteristiche fondamentali e ancora attuali.
Capitolo quarto:
EDUCAZIONE COMPARATA E GLOBALIZZAZIONE:
QUALE FUTURO

1. Definizione di globalizzazione

Danilo ZOLO, filosofo del diritto e non solo, ce ne offre una buona definizione: “Processo di estensione globale delle
relazioni sociali tra gli esseri umani, tale da coprire lo spazio territoriale e demografico dell’intero pianeta”. Tale proces-
so comporta la intensificazione dei contatti e dei flussi di: persone, capitali e informazioni (culture).

La globalizzazione odierna può essere meglio definita come globalizzazione neoliberale conseguente a decisioni politi-
che di relativa deregolamentazione di flussi a partire dalla fine della convertibilità del dollaro in oro e dal complesso di
decisioni che hanno la loro incarnazione istituzionale nella Word Trade Organization (WTO).

Tali processi hanno conseguenze su stati, mercati, culture (religioni) che sono le matrici delle istituzioni e delle espe-
rienze educative e dunque conseguenti glocalizzazioni per richiamare ancora la ricostruzione di Zolo “interazione com-
plessa tra universalismo e particolarismo (soprattutto dal punto di vista della percezione riflessiva che i soggetti hanno
dell’intero processo”).

Le globalizzazioni ridefiniscono centri/periferie, lingue, contenuti, modelli e priorità.

2. Globalizzazione ed educazione

Ciascuna persona in misura differente è un pò globale e un pò locale e dunque ha bisogno di usare competenze e codici
linguistici e culturali di diverso livello. Questo aumento di complessità può ovviamente generare stress da incertezza e
inadeguatezze soggettive reali e percepite fino a poter generare specifiche patologie mentali.

Le caratteristiche dei diversi sistemi sono state classificate e descritte, tra gli altri, dal sociologo statunitense Steven
BRINT. A livello di istruzione di primo ciclo (primaria e secondaria inferiore): articolazione in percorsi distinti ed
equità della spesa pro-capite. A livello di secondo ciclo (secondaria superiore): percentuale di giovani che terminano
all’età prevista, percentuale di diplomati in indirizzi a orientamento generale ed esistenza di esami finali. A livello di
terzo ciclo (università e istituzioni di terzo ciclo): percentuale di persone in età adatta che conseguono un titolo universi-
tario, omogeneità istituzionale, forza dei legami fra istituzione postsecondaria d’élite e occupazione superiore.

Significativa è anche l’età normale di canalizzazione fra scuole generaliste e scuole professionalizzanti, così come la
permeabilità tra i due (o più) canali. Caratteristica caratterizzante del sistema terziario è la presenza di una differenzia-
zione al suo inerno (uno o più centri di eccellenza pubblico e privato) e le sue relazioni col resto del sistema.

Il sistema terziario è quello maggiormente globalizzato al punto tale che varie sue funzioni sono diventate esterne ai si-
stemi nazionali periferici quali la pubblicazione dei risultati della ricerca demandata ad un oligopolio mondiale dell’edi-
toria scientifica, la sua indicizzazione così come la formazione di terzo livello che è integrata colla formazione di alcu-
ne élite professionali ma anche di alcuni apparati statali.

La cultura pedagogica accademica tedesca odierna è una comunità in parte significativa anglofona ma non per questo
anglofila-americanofila e nemmeno univocamente globalofila come testimoniano dal concetto di filtro con cui Schrie-
wer corregge il modello di Cowen, come illustratoci dalla collega Palomba.

Una posizione di accettazione problematica della globalizzazione e delle sue ripercussioni sull’educazione è quella
espressa nel Messaggio su globalizzazione ed educazione della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali del 2006 che
offre una descrizione dell’education divide che ci pare di oggettivo valore scientifico e insieme una testimonianza della
capacità della Chiesa cattolica di usare il linguaggio dell’OCSE senza per questo diventare una variante della religione
del denaro.

Tale sensibilità era stata ulteriormente sviluppata nella riflessione più complessiva su globalizzazione e bene comune di
Margareth Archer, che mette in evidenza le aporie del binomio efficienza/equità cercando di prospettare una via di usci-
ta all’insegna della sussidiarietà.

Un ulteriore sviluppo si trova in quanto affermato da Benedetto XVI nell’eciclica Caritas in Veritate che indica come
necessario un maggiore accesso all’educazione, la quale, d’altro canto, è condizione essenziale per l’efficacia della stes-
sa cooperazione internazionale, pur non tacendo sulle divergenze antropologiche a monte delle diverse idee di educazio-
ne, aiuto alle popolazioni più bisognose, le quali non hanno solo la necessità di mezzi economici o tecnici, ma anche di
vie e di mezzi pedagogici che assecondino le persone nella loro piena realizzazione umana.

Tale sensibilità conosce ulteriori sviluppi con Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangeli Gaudium. L’encicli-
ca Laudato sì dedica ben sette paragrafi alle dimensioni educative della conversione ecologica. Un ulteriore intervento
di Papa Francesco è stato quello rivolto ai partecipanti al congresso mondiale promosso dalla Congregazione per l’edu-
cazione cattolica (degli istituti di studi), il 21 Novembre 2015.

Lo stesso pontefice ha delineato nella recentissima esortazione apostolica Amoris Laetitia le tappe di un percorso di
educazione all’amore coniugale che rappresenta una declinazione in positivo della sua sensibilità pedagogica. In ambito
storico-pedagogico di queste posizioni ha dato conto Fulvio De Giorgi in L’istruzione per tutti. Storia della scuola come
bene comune, nella sua premessa all’edizione italiana di Torres dal titolo Globalizzazioni ed educazione (2014) e
nell’Introduzione alla edizione italiana di Herry Giroux, Educazione e crisi dei valori pubblici.

Nel volume, che si sviluppa la sua relazione al convegno di Scholè del 2008 La scuola come bene comune: è ancora
possibile, De Giorgi ripercorre i tentativi di costruzione di un sistema di diritti educativi nel contesto del welfare coinci-
dente coi “trenta gloriosi” cioè i primi tre decenni dopo la seconda guerra mondiale.

Ricollegandosi più al versante deweyano che a quello marxista, Giroux afferma un ideale pedagogico di educazione
progressiva e radicalmente democratica, nelle forme e nei metodi, nelle teorie e nei contenuti: un’educazione legata alla
democrazia come etica, a una democraia veramente inclusiva.

Nel secondo testo lo studioso leccese ha delineato quella del Torres come “pedagogia sociale ‘in situazione’: concepita
e discussa all’interno dei processi storici in corso, in particolare quelli che riguardano la “globalizzazione”. E di una
prospettiva, ma forse sarebbe meglio parlare di un’utopia, di una ripresa della proposta di Freire che fa appello insieme
alla politica come presa di coscienza dal basso piuttosto che come “inevitabile” governance tecnocratica.

L’Autorevole sociologo dell’istruzione Antonio Cobalti nel suo testo su Globalizzazione e istruzione offre un ampio
quadro che tra le altre cose ha il pregio di dimostrare come sia possibile scrivere e pensare in italiano senza per questo
ignorare la realtà e la letteratura internazionali. Con scelta provocatoria volutamente non parla di OCSE PISA, mentre
mette in rilievo istituzioni come la Banca Mondiale (World Bank) e l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO).

3. Le sfide per l’Italia

Un recente saggio di un critico letterario è giunto a parlare, forse con eccessivo pessimismo di “globalizzazione vista
dalla boragata Italia”. Bisogna ricordare il caso della lettera di Draghi e Trichet inviata dalla commissione Europea e
dalla BCE al governo italiano del 5 agosto 2011 nella quale veniva auspicato, ma forse sarebbe meglio dire ingiunto,
che “Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di perfomance (sopratutto nei sistemi
sanitario, giudiziario e dell’istruzione”).

Erano presenti specifici quesiti in materia di: programma di ristrutturazione delle scuole con insoddisfacenti risultati nei
test INVALSI, valorizzazione del ruolo degli insegnanti attraverso la incentivazione individuale, aumento dell’autono-
mia e della competizione tra le università, misure di attuazione della riforma delle università.

Ci troviamo di fronte a un tipico caso di Globalization and europeanizzation, per riprendere il titolo di una raccolta di
saggi curata da Roger Dale e Susan Robertson. Una delle fonti del Documento di Economia e Finanza (DEF) è il Pro-
gramma Nazionale di Riforma (PNR) che è lo snodo fondamentale dell’inserimento delle istituzioni comunitarie nel
processo decisionale della finanza pubblica e dunque della denazionalizzazione della sovranità economica.

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