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La ricerca empirica in educazione: questioni aperte

Luigina Mortari

«... non è lecito accettare la menzogna e offuscare la verità»


(Platone, Teeteto, 151d)

Affrontare in questo momento il tema della ricerca empirica in educazione si-


gnifica trovarsi di fronte certamente ad una realtà ormai pluridecennale, ma so-
prattutto ad una serie di questioni aperte, forse destinate a rimanere tali a lungo.
È su tali questioni che concentrerò l’attenzione, non solo perché è impossi-
bile sviluppare un discorso rigorosamente scientifico sul passato recente della
ricerca empirica in educazione in Italia poiché mancano studi analitici di ri-
costruzione della qualità dei processi fino a questo momento sviluppati, ma
soprattutto perché ci troviamo nel mezzo di una fase di transizione, caratte-
rizzata fortunatamente non dall’imporsi di discorsi prescrittivi, che vantano
certezze, ma da un fecondo problematizzare la cultura esistente della ricerca.
Seguendo l’efficace suggerimento formulato da Rorty, cercheremo quindi
di stare dentro questo interrogare al fine di tenere aperta la conversazione,
perché tenere aperto il dialogo dentro la comunità dei ricercatori è la condi-
zione necessaria per fertilizzare la cultura della ricerca. A questo scopo for-
mulerò quelle che in questo momento sembrano essere le questioni essenziali
da affrontare e rispetto ad esse tratteggerò possibili risposte, assumendo que-
ste non come un modo di chiudere la domanda ma piuttosto solo come un
punto, uno dei tanti possibili, da cui aprire la conversazione.

1. Esplicitazione dei presupposti

Poiché ogni discorso è sempre soggettivamente segnato e in nessun caso


è possibile sviluppare un discorso svincolato da presupposti, è necessario –
in obbedienza al principio etico della ricerca dell’onestà intellettuale (Pring,
2002) – prima di addentrarsi nel domandare epistemologico specificare quelle
convinzioni personali, che – difficili da mettere tra parentesi – finiscono per
condizionare il ragionamento in una certa direzione. Rendere esplicite le pro-
prie presupposizioni è la prima operazione riflessiva richiesta ad un ricercato-
re (Burbules, 2005).

Da dichiarare sono i seguenti presupposti:


(i) la convinzione che la ricerca educativa, così come la ricerca clinica in medi-
cina, trova il suo senso nel provocare un miglioramento della pratica. Si fa ricerca
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non semplicemente per approfondire un certo tema che ci affascina (principio


euristico), né tanto meno per esibire ardite argomentazioni di cui sentirci com-
piaciuti (principio estetico), né solo per accumulare conoscenze (principio som-
mativo), ma per produrre sapere utile alla pratica (principio di utilità);
(ii) come corollario di questa convinzione fa seguito la messa in discussio-
ne del prevalere di ricerche di tipo constatativo-ricognitivo a svantaggio delle
ricerche esperienziali-trasformative1. Mettere al centro il bisogno di ricerche
esperienziali-trasformative comporta la messa in discussione radicale della
sudditanza della ricerca empirica in pedagogia ai modelli della ricerca socio-
logica e psicologica che hanno dominato per anni. A differenza delle scienze
constatative, la pedagogia ha necessità di individuare modi di agire, disposi-
tivi operativi, strumenti di azione, che consentano di migliorare il contesto
dell’educazione. La ricerca educativa ha dunque una sua specificità ed è su
questa che deve costruire una teoria della ricerca.
(iii) la convinzione che il fare ricerca sul campo implichi una solida compe-
tenza teoretica sui temi dell’educazione. Una ricerca empirica di tipo esperien-
ziale-trasformativo ha una vitale necessità di raccordarsi alla ricerca teoretica
in pedagogia, quella impegnata ad elucidare le questioni, a girare attorno alle
idee fino a trovare quella formulazione chiara e perspicua che consente al ri-
cercatore di formulare «buone domande di ricerca» sul campo.
(iv) ma la ricerca teoretica per essere efficace, capace cioè di illuminare la
ricerca empirica deve svilupparsi in una relazione dialogica con la ricerca em-
pirica. Dewey, impegnato a definire la qualità specifica di una teoria dell’edu-
cazione, concepita non come un insieme di astratte affermazioni ma nella
forma di un «piano educativo» che orienti le decisioni per l’azione (Dewey,
1993, p. 13), sosteneva che per costituirsi come discorso capace di guidare
la prassi educativa, la filosofia dell’educazione deve avvalersi dei contributi
forniti dalla ricerca empirica, dal momento che le scienze che si costituiscono
su base empirica mettono a disposizione dati importanti non accessibili per
via astratta (Id., p. 16). Qualsiasi teoria, per quanto ben meditata, ha un valore
ipotetico che deve essere messo alla prova dei fatti (Dewey, 1974, p. 194) prima
di essere acquisito come valido e attendibile strumento per orientare le deli-
berazioni pratiche. Una buona ricerca pedagogica è dunque quella che si nutre

1
La ricerca constatativa è quella che si prefigge un compito ricognitivo sul contesto, che mira
a comprendere le cose così come accadono; la ricerca esperienziale-trasformativa è quella che
mette alla prova dell’esperienza la teoria con lo scopo di trasformare la teoria e la pratica.
Anche la ricerca ricognitiva è importante dal momento che c’è bisogno di capire come si
attuano certe intenzioni pedagogiche, come sono percepite certe esperienze dai soggetti che
le vivono, quali effetti producono nel contesto certe azioni. Tuttavia l’approccio constatativo-
ricognitivo non è sufficiente per fondare una teoria pedagogica; c’è bisogno innanzitutto di
ricerche che mettano alla prova le idee, quelle che hanno la forma di «ipotesi provvisorie»
(«tentative hypotheses», come le ha definite Dewey), In questo caso la ricerca empirica assu-
me la forma di un intervento che introduce qualcosa di nuovo nel contesto e che monitorando
il modo del suo accadere verifica la qualità dell’azione, ricavando così le indicazioni necessa-
rie, anche se non sempre sufficienti, ad orientare la prassi.

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di un dialogo intenso fra ricerca teoretica e ricerca empirica, che produce un


continuo rimodularsi dell’una rispetto all’altra nella forma di una reciproca-
zione evolutiva. Stare con senso nel mondo della ricerca educativa significa,
dunque, impegnarsi ad elaborare teorie a partire dall’esperienza, approntare
contesti in cui mettere alla prova tali teorie, documentare le esperienze secon-
do quei criteri che garantiscono il rigore epistemologico della ricerca sul cam-
po, e sulla base dei dati emersi rimodulare la teoria in modo che possa fare da
riferimento ad ulteriori pratiche educative sempre più adeguate rispetto alla
complessità del mondo dell’educazione.

2. Domande aperte

2.1 Rilevanza rigore validità

Tre sono le questioni fondamentali extra-paradigmatiche che deve affron-


tare il ricercatore quando si impegna a sviluppare ricerche che abbiano valore:
deve cercare che siano rilevanti, rigorose, valide.

(a) Quand’è che una ricerca educativa si può considerare rilevante? Quali
sono i criteri per decidere la rilevanza di una ricerca? È sufficiente che af-
fronti temi all’ordine del giorno nella comunità scientifica? Deve fornire dati
dotati di certezza? Oppure è rilevante quella ricerca che nasce dal dialogo fra
ricercatori accademici e pratici, entrambi impegnati innanzitutto ad indivi-
duare problemi rilevanti nella realtà e a cercare strade per migliorare la qua-
lità delle azioni educative e risolvere certe criticità? Diversi e altri possono es-
sere i criteri per definire la rilevanza, ipotizzaziamo di accettare come valida
la terza opzione, si tratta a questo punto di individuare un’argomentazione a
suo sostegno.
Quando la ricerca pedagogica non può svilupparsi lontano dal mondo del-
la pratica, e dunque senza misurarsi con l’esperienza viva, perché

«(1) le pratiche dell’educazione forniscono i dati, gli argomenti, che costitu-


iscono i problemi dell’indagine; esse sono l’unica fonte dei problemi fonda-
mentali su cui si deve investigare. Queste pratiche dell’educazione rappresen-
tano inoltre (2) la prospettiva definitiva del valore da attribuire al risultato di
tutte le ricerche» (Dewey, 1984, p. 24).

Le teorie pedagogiche costruite all’esterno della pratica da teorici che non


si misurano operativamente con la quotidiana problematicità educativa risul-
tano spesso teorie astratte che, incapaci poi di restituire una misura reale per
l’agire educativo, molti operatori dell’educazione considerano di poca rilevan-
za per il lavoro professionale (Sanders and McCutcheon, 1986, p. 54). Il sapere
elaborato dai ricercatori di professione (Cochran-Smith and Lytle, 1999, p.
250), anche se risponde ai criteri di scientificità correnti nella comunità scien-
tifica non è automaticamente dotato di un valore di utilità intrinseco.

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L’educazione ha bisogno di poggiare su valide teorie dell’educazione, e una


teoria è valida nella misura in cui riesce ad orientare la pratica, cioè a mettere
i pratici nelle condizioni di leggere i contesti in cui agiscono, di individuare i
problemi e di tratteggiare efficaci azioni educative. In questo senso la teoria è
«la più pratica di tutte le cose» (Dewey, 1984, p. 10). Dal punto di vista dewe-
yano, la condizione necessaria per realizzare una vera e vitale teoria dell’edu-
cazione è quella di radicare la ricerca educativa nella pratica viva. Una buona
teoria è quella che nasce da una considerazione attenta della pratica; questa
infatti si pone all’inizio e al termine di una buona ricerca: si pone all’inizio
perché «pone i problemi che soli conferiscono alle indagini qualità ed espres-
sione educativa» e si situa al termine del processo euristico perché «solo la
pratica è in grado di provare, verificare modificare e sviluppare le conclusio-
ni di queste indagini» (Id., p. 24). Quando non si sviluppa a partire da quel
materiale vitale che è l’esperienza e con l’esperienza non si misura, allora la
teoria fatica a svolgere la sua specifica funzione, che consiste nel rischiarare la
problematicità dell’agire educativo, perché non avendo radici nell’esperienza
manca di una reale capacità ermeneutica e per questo non è in grado di offrire
misure valide per orientare i processi deliberativi.
Fin quando il teorizzare sull’educazione avverrà lontano dai contesti dove
il fenomeno educativo accade si ridurrà a un parlare vuoto, così come acca-
drebbe ad un clinico che pretendesse di formulare una teoria su una prassi
chirurgica senza mai entrare in una sala operatoria.

(b) Quando è che una ricerca educativa si può considerare rigorosa? È legit-
timo pensare che una ricerca rigorosa è quella che muove da una riflessione
sul paradigma di riferimento, sulla/e filosofia/e che rispondono al bisogno di
dare un senso all’agire euristico, sul metodo da utilizzare?

Riflettere sui paradigmi

Il paradigma può essere pensato come un recinto decidendosi per il quale


si riducono gli spazi di libero movimento dell’azione di ricerca; il rapporto
con il/i paradigma dovrebbe essere concepito, invece, nei termini di una pra-
tica riflessiva da attuare prima di intraprendere una ricerca per fare chiarezza
su quei presupposti che stanno alla base di ogni atto euristico ma che spesso
agiscono tacitamente perché il ricercatore evita di andare alle radici dell’azio-
ne di ricerca, considerando questa azione epistemologica radicale un impe-
gno, magari affascinante, ma del tutto ozioso. Quando Heidegger afferma che
la scienza non pensa, ci invita a pensare anche alla tendenza ad interpretare
in senso riduttivo il lavoro scientifico, come uno stare sottoposti a regole, an-
ziché impegnarsi in un lavoro di radicale riflessione critica. Riflettere sui pre-
supposti paradigmatici è essenziale perché non si dovrebbe procedere ad una
progettazione del «disegno di ricerca» se prima non si è riflettuto se aderire
ad una visione ontologica atomistica o relazionale, se per noi vale la gnoseolo-
gia realista o quella costruttivista e/o socio-costruzionista, se riteniamo che a

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dare scientificità ad una pratica euristica sia solo la costruzione di un setting


sperimentale oppure sia più adeguata una «naturalistic inquiry», se pensiamo
che il lavoro della ricerca sia libero da qualsiasi vincolo etico e politico oppure
se la problematizzazione etica e la ricerca di un senso politico siano preoccu-
pazioni che devono permeare tutta l’azione epistemica.
Riflettere e prendere una posizione rispetto alle questioni paradigmatiche
non significa legarsi ad un palo, ma sapere dove si è quando si fa il lavoro del
conoscere, sapendo che in ogni momento si è liberi di scegliere altrimenti
proprio perché alla radice c’è stata a sua volta una scelta meditata.

Riflettere sulle filosofie di ricerca

Il paradigma della modernità o paradigma positivistico non prevedeva il


lavoro di riflessione sulla filosofia di ricerca di riferimento – poiché di fatto
non poneva alternative al positivismo -, invece è essenziale quel lavoro teore-
tico attraverso il quale il ricercatore va in cerca dell’orizzonte di senso entro il
quale situare la prassi euristica. Confrontarsi con le filosofie di ricerca non si-
gnifica scegliere l’una o l’altra in modo manicheo, ma meditare sulle possibili
geografie del senso del lavoro di ricerca per tratteggiare il proprio orizzonte.
Non si tratta dunque di confinare il pensiero nello spazio definito o aperto da
una precisa filosofia, quanto piuttosto di meticciare, di attraversare confini, di
costruire una propria mappa, con la disponibilità a rivedere continuamente il
proprio orizzonte affinché abbia quei tratti che siano capaci di rischiarare il
faticoso lavoro di confronto con la complessità del reale.

Riflettere sul metodo

Una visione folk della ricerca educativa ce la rappresenta come un agire


sottoposto ad un metodo inteso in senso formularistico, cioè strutturato ri-
gidamente come un insieme di regole definite in anticipo cui il processo di
ricerca deve sottostare badando a spegnere ogni eventuale scatto creativo. Ma
il metodo, strumento essenziale per la ricerca dal momento che dovrebbe dare
indicazioni su come raccogliere i dati e come elaborarli per costruire una teo-
ria, non è un formulario. Un metodo è una sorta di linee-guida da intendere in
modo flessibile, e soprattutto uno strumento euristico che va continuamente
ripensato al punto da poter dire che s’inizia con un’idea di metodo e alla fine
della ricerca si trova che il metodo usato ha indossato un abito nuovo. La com-
plessità del reale, dei fenomeni da investigare, è tale che non esiste un modo
di intendere il metodo che sia capace di agganciare l’essenza delle cose, ma
per cercare una conoscenza valida è necessario riaggiustare continuamente il
metodo così da rendere le mosse euristiche il più adeguate possibile al profilo
emergente del fenomeno.

Platone, nel Fedro, ci ha insegnato che conoscere vuol dire girare intorno al
fenomeno, e María Zambrano riprendendo questa visione circolare-ricorsiva

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del processo euristico, suggeriva che questo girare intorno deve trovare il suo
numero giusto di giri, ossia nulla di meno e nulla di troppo. Il come girare
intorno e il quanto girare intorno è cosa che il metodo approssimativamente
ci dice prima di iniziare una ricerca, ma solo approssimativamente, perché
avere un metodo non significa stare sotto la sovranità di regole che chiedono
solo obbedienza, ma stare in un orizzonte di questioni da pensare; per questo
il metodo è qualcosa che va definito cammin facendo, considerandolo non
come dispositivo definito in anticipo, ma come materia da plasmare duran-
te il percorso. Questa concezione che definisco emergenziale-indiziaria del
metodo chiede un radicale processo di riflessione, che assume il metodo non
solo come guida per la ricerca ma anche come oggetto di ricerca, perché solo
mettendolo nella posizione di oggetto diventa guida effettiva.
Il lavoro del pensiero implicato in un’azione di ricerca è dunque duplice:
• pianificare e realizzare le mosse euristiche necessarie a costruire la cono-
scenza cui mira il lavoro di ricerca,
• riflettere su ciò che si fa e su ciò che si pensa di fare per riaggiustare conti-
nuamente tali mosse e perfezionare i dispositivi di ricerca.

(c) Quand’è che una ricerca educativa si può considerare valida?


Secondo una certa visione della scienza, tuttora dominante, una ricerca è
considerata scientifica quando perviene a conclusioni dotate di valore gene-
rale. Il criterio della valenza generale dei risultati di una ricerca è applicabile
all’esperienza educativa?
La pratica educativa è un percorso esperienziale complesso; una buona te-
oria dell’educazione dovrebbe saper indicare con una certa precisione la dire-
zione di tale cammino e i criteri per scegliere quelle esperienze che consentano
ad ogni soggetto il massimo di attualizzazione possibile delle proprie possi-
bilità esistentive. Rispetto a tale questione pedagogica di base esistono molte
teorie disponibili, ma nessuna è capace di fornire una risposta esaustiva 2.
Il contesto educativo si profila come un sistema dinamico ad elevata com-
plessità, perché i nodi del sistema sono costituiti dalle singole individualità
che introducono nella processualità relazionale comportamenti solo in certi
casi prevedibili e operazionalizzabili dentro un sapere predefinito. Ogni es-
sere umano è un essere unico, irripetibile, con una sua originale singolarità;
quando queste singolarità si incontrano in un contesto, facendo interagire le
loro rispettive intenzionalità, danno luogo a flussi di pensiero, di affetti, di
relazioni unici e imprevedibili. Proprio a causa dell’unicità e imprevedibilità
dei contesti educativi, non è possibile elaborare un sapere di regole generali.

2
Ritroviamo questa visione della pratica educativa come di qualcosa la cui problematicità
sarebbe incomprimibile dentro alcuna teoria che pretenda una valenza esplicativa generale
nel numero inaugurale della rivista Educational Review, apparsa nel 1891, dove Josiah Royce
invitava a concepire la formazione dei docenti non come apprendimento di sistemi pedago-
gici poiché «non esisterebbe alcuna valida scienza pedagogica... capace di... una completa
formulazione... e di una diretta applicazione» (cit, in Lagemann, 2000, p. IX).

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Affermare l’impossibilità di pervenire ad un sapere dal valore generale non


implica però una svalorizzazione della ricerca educativa, piuttosto significa
agire rimanendo fedeli alla complessità dei casi concreti, condizione questa
necessaria per individuare ciò che è giusto fare (Gadamer, 1999, p. 370).
Forse il tipo di sapere cui è legittimo mirare, data l’imprevedibilità delle
situazione educative e non prevedibilità degli esiti conseguenti ad un preciso
intervento, non può essere che un sapere molto legato ai dati di realtà come è
il sapere di casi.
L’educazione ha bisogno di un sapere utile all’azione e questo tipo di sa-
pere può essere quello costituito dai casi paradigmatici. Le teorie generali si
possono costruire solo lasciando da parte ciò che è troppo particolare, ciò che
è parziale, ma che nella sua parzialità costituisce però un pezzo significativo
della realtà. Una buona teoria dell’azione non è una teoria che poggia su con-
cetti semplificati, disinfettati dalla complessità del reale. Per questa ragione
potrebbe essere una teoria di casi, di casi esemplari. Valorizzare un sapere di
casi non significa non riconoscere la possibile validità di una teoria formale
che si struttura in argomentazioni che pretendono un valore che vada oltre il
caso, quanto piuttosto sostenere che anche il sapere che pretende di parlare in
generale per essere utile deve poter stare in relazione con un sapere di casi che
non perde il particolare. Senza un sapere che si tiene ancorato al particolare,
quello generale diventa imposizione di categorie sulla realtà e l’universalità
del discorso nella sua impersonalità diventa dominio sulle cose, anziché un
rischiararle.

2.2 Qualitativo e quantitativo

Pagando una sudditanza nei confronti del paradigma dominante, a lun-


go nel mondo dell’educazione ha prevalso l’approccio quantitativo3. L’azione
educativa è un fenomeno complesso, cioè non comprimibile nei dispositivi
epistemici di cui disponiamo, tanto meno in quelli di tipo algebrico che ca-
ratterizzano molte ricerche nelle scienze dell’educazione, dispositivi questi che
perdono per strada molte delle informazioni non computabili dentro metodi-

3
Ellen Lagemann (2000, p. XI) spiega che nei primi decenni del secondo XX, quando si
affermò un movimento di pensiero teso a costruire una scienza dell’educazione, sia per raf-
forzare le politiche educative sia per contrastare l’antipedagogismo dilagante, a prendere il
sopravvento non fu il pensiero di Dewey, ma quello dello psicologo Edward Thorndike, che
muovendo da un approccio behavioristico, favorì l’affermarsi di una concezione quantitativa
e tecnocratica della ricerca educativa. I ricercatori pedagogici, preoccupati di acquisire uno
statuto di credibilità scientifica, hanno cercato di emulare quelle scienze sociali che si ispi-
ravano al paradigma dominante nelle scienze naturali, anziché ponderare le caratteristiche
distintive della ricerca educativa e cercare di conseguenza una concezione del rigore e della
rilevanza della ricerca adeguata all’essenza dell’agire educativo (p. XII). In questo momento
la ricerca educativa, forse ancora più che le alte forme di ricerca nelle scienze umane, avver-
tono la necessità di prendere le distanze da quella che è definita «received view» per elaborare
un’epistemologia fedele alla qualità dell’oggetto d’indagine.

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che algoritmiche. Il prendere coscienza dell’impossibilità di arrivare ad una


comprensione dell’esperienza umana comprimendo la ricerca empirica dentro
il paradigma positivistico si è concretizzato in una critica al prevalere degli ap-
procci quantitativi che segnò negli anni ottanta una svolta verso il qualitativo.
Gradualmente si sviluppò la consapevolezza che non è disponibile un modo
privilegiato di accesso alla conoscenza dei fenomeni e che l’elaborazione algo-
ritmica non è più rigorosa di altri metodi, perché la conoscenza matematica ha
il carattere dell’esattezza che non coincide con il rigore (Heidegger, 2002, p. 60).
Ogni oggetto d’indagine chiede uno specifico metodo di ricerca, e richiedere
esattezza alla scienza dell’educazione, che ha un oggetto così complesso qual è
l’esperienza umana, significa stabilire un obiettivo non sostenibile.
Negli ultimi decenni la ricerca empirica nelle scienze sociali ha visto l’af-
fermarsi dei metodi qualitativi. Questo processo di innovazione metodologica
ha registrato il verificarsi di quella che è stata definita una «guerra paradigma-
tica», a causa del contrapporsi del paradigma positivistico con il paradigma
post-moderno. Quando, rispetto ad una tradizione ormai consolidata, un’al-
tra cultura tenta di affermarsi, sta nell’ordine delle cose che si creino con-
trapposizioni, che purtroppo spesso si traducono in rigidità e riduzionismi,
chiusure di ogni prospettiva su di sé; questo è successo quando la cultura della
postmodernità, sull’onda della tradizione fenomenologico-ermeneutica e del-
la svolta linguistica, ha messo in discussione il valore euristico degli approc-
ci quantitativi e il prevalere di un approccio sperimentale a certe questioni
dell’esperienza umana. Si sono quindi venuti a strutturare due mondi meto-
dologici contrapposti, quello qualitativo e quello quantitativo, col risultato di
far apparire inconciliabili i differenti metodi di elaborazione dei dati.
Una volta che i metodi qualitativi hanno acquisito una certa – anche se non
piena – dignità scientifica e si sono affermate riviste scientifiche dove finalmente
i ricercatori qualitativi avrebbero potuto pubblicare le loro ricerche, la contrap-
posizione è venuta e meno e ha cominciato a profilarsi un utile dialogo fra le
due sponde. Da questo dialogo, fermentato da una visione pragmatista della
ricerca, è emersa la teoria dei «mixed methods» (Tashakkori and Teddlie, 2003).
Il principio pragmatico che guida la teoria dei «mixed methods» è quello di in-
crementare la forza investigativa e di evitare le debolezze dei singoli approcci
(Tashakkori and Teddlie, 2003, p. 299)4. Autorizzare un approccio «mixed» alla
ricerca significa uscire da una contrapposizione tra quantitativo e qualitativo e
pensare al campo euristico come ad uno spazio dove il criterio per la scelta di
un metodo è quello dell’utilità, ossia si decide quali metodi usare in base alla
domanda di ricerca da cui si muove e alla qualità del fenomeno da indagare.

4
In un disegno di ricerca che prevede «metodi misti» può accadere di trovare combinati alla
fine della somministrazione di una scala Likert delle domande aperte e prevedere per l’in-
terpretazione dei dati l’suo di note di campo che non si prestano ad un approccio numerico,
oppure in uno studio qualitativo fondato che fa ricorso alla grounded theory prevedere una
elaborazione numerica dei dati raccolti (Morse, 2003, p. 192).

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Senza mettere in discussione l’utilità di mescolare i metodi, se questi con-


sentono i girare meglio intorno al fenomeno, sembra però opportuno solleva-
re alcune questioni.
Se l’affermarsi dei metodi qualitativi poggia sull’assunzione secondo la qua-
le il mondo dell’esperienza umana, un mondo di significati, di intenzioni, di
decisioni, di pensieri e di emozioni, è investigabile da metodi qualitativi, perché
sarebbero i soli a cogliere la qualità dell’esperienza, come si colloca epistemo-
logicamente il recupero del quantitativo? Assumendo che questo sia utile per
pervenire all’elaborazione di dati dotati di maggiore certezza, non c’è il rischio
di un ritorno ad una visione positivistica della ricerca? Detto in altre parole,
non può essere che si senta il bisogno di un recupero di certi metodi poiché
questi continuano ad essere i soli di fatto pienamente accreditati dalla comuni-
tà scientifica?5 Com’è possibile nell’incontro di due mondi metodologici, l’uno
che vanta una robusta tradizione e l’altro invece una tradizione ancora debole,
salvaguardare la ricerca qualitativa, che necessita ancora di approfondite rifles-
sioni epistemologiche?
Non intendo qui affatto mettere in dubbio l’utilità di mixare i metodi, ma
questa nuova teoria nell’uso dei dispositivi euristici non può non fare riflettere
sul fatto che ci troviamo in un momento in cui i cambiamenti epistemologici
avvengono ad una velocità tale da non avere sempre il tempo di valutare l’esito
di quello che accade. È certamente preferibile trovarsi in un movimento di
pensiero, in un fluire magmatico di discorsi, da cui emergono continuamente
nuove visioni epistemiche; come ci insegna Platone, dove c’è flusso e movi-
mento c’è vita e dove c’è vita idee nuove nascono (Teeteto, 152e). Tuttavia,
senza affatto voler interrompere l’emergere di visioni innovative, ritengo ne-
cessario prendersi il tempo per una valutazione critica degli esiti dei differenti
modi di fare ricerca.
A questo scopo sarebbe forse necessaria innanzitutto una meta-analisi
delle ricerche educative6, ovviamente compartimentata per campi o regioni
tematiche (research with children, ricerca a scuola differenziando poi l’analisi
secondo i vari gradi scolastici, ricerca nei contesti extrascolastici, ricerca con
gli adulti, divisa poi per contesti di vita e di lavoro....), e all’interno di ogni
campo differenziare le ricerche a seconda dei metodi usati, dei disegni di ri-

5
Non si può non rilevare che recenti indicazioni pedagogiche negli U.S.A. segnano un deciso
ritorno al modello positivistico della ricerca; si vedano per questo i documenti «No Child Left
Behind» (2001), l’«Education Sciences Act» (2002) e il nuovo «Institute for Education Scien-
ces», che incoraggiano ricerche basate su disegni sperimentali e indagini statistiche. Da parte
sua il «US Department of Education» considera validi programmi educativi quelli che si fon-
dano su evidenze guadagnate attraverso larghe ricerche con una elaborazione statistica dei
dati (Demerath, 2006, p. 97).
6
La sfida di condurre ricerche meta-analitiche va accolta non solo perché senza un razionale
e critico lavoro di sintesi viene a mancare quella visione d’insieme che è indispensabile per
fare passi in avanti, ma anche perché le meta-analisi forniscono dati utili per costruire su
evidenze epistemiche le politiche educative.

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cerca elaborati, delle tecniche utilizzate, e poi una ricerca valutativa nel mon-
do dei pratici per verificare l’impatto che hanno avuto le ricerche nel mondo
dell’educazione, e stabilire quale tipologia ha trovato un maggiore consenso e
utilizzabilità.
Si continua a fare ricerca, spesso una ricerca frammentata in miriadi di
piccoli indagini, senza soffermarsi a valutate l’impatto di queste ricerche. Ma
senza dedicarsi ad una valutazione seria delle ricerche fino ad ora effettuate, si
corre il rischio di continuare ad investire risorse in ricerche inessenziali, con
una diseconomia non giustificabile7.
Nella letteratura anglofona, soprattutto quella che si occupa di «teacher
education», si rileva con una certa preoccupazione che i pratici si tengono lon-
tani dalle ricerche degli accademici: forse sarebbe il caso di capire perché e
quindi ovviare a questa scissura che impoverisce il mondo dell’educazione
da una parte e dall’altra rende sempre meno credibile la ricerca accademica.

2.3 Un sapere di evidenze

Sulle riviste internazionali si stanno infittendo pubblicazioni che af-


frontano la questione delle evidenze per elaborare quella che viene definita
«evidente-based-education».
Per evidenza s’intende un’affermazione che stabilisce una relazione causale
fra un fattore e un preciso effetto (Grover, 2004). Le evidenze sono ritenute ne-
cessarie per progettare azioni che poggerebbero su dati sufficientemente certi
da garantire interventi efficaci. Sulla base delle evidenze si ritiene possibile
costruire «linee guida» che offrirebbero al pratico una cornice rassicurante di
riferimento quando si trova ad affrontare situazioni critiche.
A partire da queste premesse si sta diffondendo la tesi secondo la quale per
essere attendibile, credibile, valida, la ricerca pedagogica deve costruire i suoi
discorsi su evidenze e così divenire una evidence-based-science.
Per evidenza s’intende una certezza, è possibile costruire certezze nel mon-
do dell’educazione? e ammesso che sia possibile, cosa fare di ciò che rimane
nell’incertezza? Poiché per pervenire all’elaborazione di un’evidenza è ritenuto
necessario un approccio quantitativo, dal momento che solo l’elaborazione alge-

7
Alcune critiche cui è sottoposta la ricerca educativa:
(i) ricerche di piccola dimensione e troppo frammentate, da cui è impossibile ricavare indi-
cazioni utili all’azione:
(ii) un approccio non cumulativo alla ricerca che, non tenendo conto di ricerche precedenti,
non consente di fare progressi;
(iii) ricerche ideologicamente condizionate, che servono interessi politici anziché perseguire
una disinteressata ricerca della verità;
(iv) indagini metodologicamente deboli, senza rigore nell’impianto metodologico e nell’uso
dei dati;
(v) ricerche inaccessibili sul piano linguistico e pubblicate su riviste scientifiche che risultano
esoteriche ai pratici (Pring, 2000, p. 156).

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La ricerca empirica in educazione

brica dei dati consentirebbe di pervenire a teorie predittive, non si rischia ade-
guandosi alla cultura della ricerca di evidenze di ritornare a recintare la ricerca
educativa in una nuova anche se mascherata forma di positivismo?
Non è possibile non tener conto del fatto che lo strand che si sta afferman-
do nel mondo della politica della ricerca è di finanziare soprattutto le ricerche
che mirano alle evidenze. Tenere conto di questo fatto non significa piegarsi
alle logiche dominanti, ma interrogarsi sul presente per cercare, se necessario,
strade alternative. Quando si va affermando una cultura che non ci convince
si possono chiudere gli occhi e ritrarsi nel proprio mondo, con la conseguenza
che altre logiche prendono il sopravvento erodendo ogni altro possibile spazio
di azione; oppure si può cercare di comprendere le nuove politiche, e trovare il
modo di piegarle ad altre logiche che non siano quelle dominanti.
In questa prospettiva diventa essenziale per la ricerca educativa riflettere
su cosa si può intendere per evidenza, se può essere concepita solo come esito
di una relazione causale tra due fattori; si tratta di tornare a disaminare una
questione che ricorrentemente si pone, ossia in che cosa consiste una ricerca
scientifica che ha come oggetto l’esperienza umana (quella che viene definita
SBR, ossia «scientifically based research»). Se diamo per scontato che esista
una sola definizione di evidenza allora autorizziamo una forma di sovranità
epistemologica (Lather, 2004, p. 19) che potrebbe vanificare ogni altra vitale
prospettiva minoritaria o emergente.
E infine occorre chiedersi se necessariamente si devono rincorrere certezze
in un mondo che sembra riluttante ad esse, e non sia preferibile progettare
azioni stando sensatamente ma anche eticamente dentro inevitabili margini
di incertezza.

2.4 Riflessione teoretica e ricerca sul campo

Dewey in un saggio metteva in guardia contro l’empiricismo e la ciarla-


taneria nel fare ricerca; chi si occupa di ricerca sul campo sa quanto ricor-
renti siano questi rischi. È facile cadere nel tecnicismo, nello scientismo, in
quello che viene definita metodolatria, che si verifica quando si concentra
l’attenzione sui dispositivi tecnici della ricerca perdendo di vista le questioni
fondamentali. La riflessione sui presupposti paradigmatici, che una certa
ricerca empirica ritiene cosa oziosa, è invece ciò che tiene il ricercatore lon-
tano da questi rischi.
Riflettere sui presupposti paradigmatici significa confrontarsi con le que-
stioni prime, con le questioni che sono definite metafisiche (Arendt), legittime
(von Foerster), vere (Bateson), le questioni indecidibili, rispetto alle quali la
ragione sente un bisogno stringente di pensiero. Più si sta con la mente sulle
questioni indecidibili più si avverte la problematicità del pensiero e la fragilità
delle nostre costruzioni concettuali, e più il lavoro del fare ricerca si cautela ri-
spetto a certe semplificazioni e a certi riduttivismi. Se ci si occupa solo di que-
stioni metodologiche (ad es.: come usare una certe tecnica di ricerca evitando
di inquinare la raccolta dei dati, come elaborare i dati grezzi di una ricerca

Saggi 43
Luigina Mortari

in modo da garantire la correttezza del processo induttivo, come scegliere da


una serie di interviste narrative le quotations che dovrebbero dare corpo alle
evidenze,...) si finisce per ritenere che il lavoro di ricerca sia tanto raffinato
da farci guadagnare certezze, così da dare solide basi ai risultati scientifici.
È questa un’illusione pericolosa, che nutre arroganza e rende non ascoltanti.
Per evitare questo rischio è quanto mai necessario nutrire un dialogo con-
tinuo fra la riflessione epistemologica e la riflessione teoretica, quella che tiene
il pensiero vincolato alle questioni indecidibili, le questioni di significato. Il
frequentare le questioni indecidibili fa toccare con mano i limiti della ragione
umana, ed è questa consapevolezza che rende il ricercatore attento, capace
di prudenza, di rispetto e di umiltà, quei modi di esser-ci che sono necessari
quando si lavora con quel materiale delicato che è l’esperienza umana, il mon-
do di significati delle persone, i loro pensieri e la loro vita emozionale. Sempre
è necessaria cautela ed umiltà, sia quando si lavora sui licheni o si studia la vita
delle marmotte, sia quando si manipolano dati che parlano dell’essere dell’al-
tro. Sempre c’è bisogno di etica. Per garantire l’eticità di una ricerca non basta
osservare le regole stabilite dai codici etici formulati dalle varie associazioni
scientifiche, anche se questi codici sono necessari ad evitare certi usi scorretti
della ricerca. La postura etica non si guadagna stando sottoposti a regole, ma
dedicandosi a pensare, a quel pensare che – come afferma Heidegger – inter-
roga le questioni considerevoli. Una buona formazione euristica richiede di
approfondire letture che sembrano lontane dal lavoro della ricerca ma che
sono ad esso profondamente vicine: letture che aprono orizzonti capaci di far-
ci pensare altrimenti e di mettere in movimento il pensiero, ma anche letture
che riempiono la mente di perplessità (Platone, Teeteto, 151a) per tenere la
ragione lontana da ogni arroganza scientista e da ogni fondamentalismo ide-
ologico, quelli che sono i veri pericoli per la ricerca scientifica.

A margine

In questo momento ciò che manca in Italia è un dibattito rigoroso volto


a fare il punto sullo stato della ricerca educativa italiana e a costruire una
riflessione sistematica sulla teoria della ricerca educativa. Cosa invece questa
in atto negli U.S.A., dove molti sono gli interventi promossi da varie istitu-
zioni e vari organismi che concorrono a tenere viva la riflessione. Si veda per
questo il rapporto denominato «Scientific Research Education» (2002) pro-
mosso dal «National Research Council». Un documento articolato (pp. 188),
che al di là di passaggi discutibili ha il merito di fare il punto sulle questioni
epistemiche più rilevanti attorno alle quali fermentare il dibattito delle varie
comunità di ricerca.
Dal momento che la ricerca è essenziale all’evoluzione della cultura e che
una buona ricerca migliora la pratica educativa si dovrebbe pensare di dare
vita ad una comunità riflessiva sulla ricerca, da cui possano emergere linee di
pensiero capaci di fecondare una buona teoria, una buona prassi ed una buona
politica della ricerca educativa, e allo stesso tempo indicare linee di sviluppo

44 Saggi
La ricerca empirica in educazione

ai dottorati di ricerca dove si formano i giovani ricercatori, i quali per crescere


hanno bisogno di entrare nel vivo dei discorsi che si fanno in una autentica
«research community».

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