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PSICOLOGIA DELL'INVECCHIAMENTO

CORSO AGING PSYCHOLOGY


IUSVE

Dott.ssa Maria Lucia Caniglia

Psicologa Esperta in
Neuropsicologia
L'ARTE DI ESSERE FRAGILI
L'ARTE DI ESSERE FRAGILI
Alessandro D'Avenia

https://www.youtube.com/watchv=fS2XK_7tAwk&list=RDCMUC3xPJ2R3A_O
DCPRaozytd9g
Qual è il senso di un discorso sulla fragilità? La semplice e disarmante
risposta è che la fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture
portanti, ne è una condizione normale. Il lavoro con e per l'anziano ci
porta ad affrontare il tema della fragilità, la loro e la nostra. Si perchè
siamo tutti fragili. Io sono fragile e paradossalmente sono chiamata a
parlare della forza della fragilità. La condizione degli anziani
(soprattutto con forme di demenza) è una situazione di grande
fragilità interiore che la distrazione e la leggerezza altrui
accrescono e aggravano.
La fragilità è un concetto molto complesso e ampio. Sono tante le
fragilità che ci accompagnano, infatti ogni giorno noi affrontiamo
piccole grandi fragilità. Dunque è un concetto presente e manifesto al
di là dell'invecchiamento. E dobbiamo essere coscienti che le nostre
fragilità si manifestano, si palesano, ci condizionano e si intersecano,
soprattutto in contesti dove ci si prende cura della fragilità.
In un moderno dizionario fragile è descritto in vari modi, tutti negativi. Che si
rompe facilmente. Poco robusto, poco resistente; debole (un fragile riparo; una
persona fragile; salute fragile). Passeggero, inconsistente (una fragile speranza,
Effimero). Riferito a un ragionamento, a un pensiero, che ha scarso fondamento,
che può essere facilmente confutato. Bisogna rivolgersi a un Dizionario Analogico
– come ci suggerisce Borgna – per avere un’estensione del significato. E li si apre
un mondo di parole flessibili: i significati sembrano meno rigidi, meno inchiodati
a un destino.
Man mano la parola fragile si svincola dalla gabbia della negatività per diventare
anche qualcos’altro: delicato, vulnerabile, sensibile. Siamo nella logica
dell’apertura di significato: non una cosa o l’altra (il mono pensiero) ma, invece,
una cosa e l’altra (i pensieri diversi che abitano nella stessa persona).
Occuparsi di fragilità vuol dire anche questo, ovvero guardare il paziente non in
senso trasversale (quel paziente con quel problema in quel dato momento), bensì
in senso longitudinale (quel paziente con la propria storia di vita e di salute e
malattia).
Come dice Andreoli, il materiale che meglio rappresenta la fragilità della
condizione umana è il vetro. Il rischio del vetro non è di rovinarsi o
ammaccarsi, ma di frantumarsi, andare in pezzi, schegge tanto minuscole
quanto taglienti, in ogni caso, impossibili da riassemblare. In fisica dei
materiali, è fragile ciò che tende a rompersi bruscamente e senza
preavviso: molto spesso è l’effetto collaterale di un indurimento, di una
diminuzione di plasticità. Tanto più un materiale è capace di essere
duttile, plastico, tanto meno è fragile. Nei materiali è una caratteristica
quella che per gli umani è una virtù: la resilienza.
Il nostro corpo è fragile e come ci ricorda Simone Weil (filosofa che ebbe a
dire di sé “sono tutta da rifare”), può essere trafitto da qualsiasi pezzo di
materia in movimento oppure può inceppare per sempre uno dei suoi
congegni interni. E non solo....anche la nostra interiorità è fragile,
vulnerabile perché soggetta a continui cambiamenti d’umore, in balia
delle cose, e di altri persone che come noi sono altrettanto fragili. La
nostra personalità, la trama delle relazioni sociali da cui dipendiamo e
che ci costituisce, è sostanzialmente esposta al caso: tutto può ferirci e
mettere in discussione la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e
degli altri.
Oggi si parla anche di fragilità sociale, ovvero l’uomo ha perso la capacità di
vivere in armonia con se stesso e con l'Altro. Gli antichi si sentivano parte di
un sistema, di un Cosmos, e accettavano pertanto di avere un ruolo, una
storia, una fine. L’homo consumer moderno non sa più cos’è la storia; non
sappiamo più cos’è il Cosmos che ci accetta, e finiamo per avere paura della
nostra fine, non la accettiamo più. La tecnica ha allontanato l’uomo dalla
sua fragilità. Heidegger ci ricorda che la tecnica è un farmaco che da un lato
fa l’uomo più potente, ma al tempo stesso, in realtà, lo rende ancora più
fragile.
Pensiamo ad esempio alla potenza di internet; da un lato possiamo comunicare
con il mondo intero solo facendo un click, dall’altra parte ci porta ad essere
ancora più soli, isolati nel virtuale. Un esempio sono gli Hikikomori, in
Giappone, i giovani che hanno deciso di auto recludersi, di estromettersi dal
mondo reale per vivere esclusivamente nel mondo virtuale. Sembra che più ci
sia facilità a parlare con il mondo virtuale, più si crea una difficoltà a parlare
con il proprio IO.
Che cos'è dunque la fragilità?

Tra la domanda e la risposta ognuno di noi potrebbe scrivere il racconto della


propria vita, in tutti quei momenti in cui ha incontrato la fragilità e si è
sentito fragile. Quella fragilità che di solito tendiamo a nascondere agli altri
e a noi stessi. Il mondo attuale purtroppo ci incita continuamente ad un
cammino di rimozione della nostra fragilità. Ma negarla significa sprecare
un pezzo essenziale della nostra persona.
Invece i nostri pensieri dovrebbero essere sempre ispirati all’idea di
crescere, di maturare, liberandosi dalla necessità (disfunzionale) di
apparire non fragili. Tutto è fragile. Da un’idea, di cui eravamo convinti
fino all’arroganza e alla supponenza, a un sentimento che sbiadisce con
l’usura del tempo. Noi possiamo e dobbiamo contenere: gioia &
malinconia, fiducia & scoramento, salute & malattia, forza & fragilità,
vita & morte.
La fragilità è in noi, in mezzo a noi, e attorno a noi! E non
possiamo fare altro che guardarla e accoglierla.
Anziani, Famiglie e Fraglilità

La demenza è una malattia che coinvolge tutta la famiglia sia per


l’impegno assistenziale che per gli aspetti emotivi e relazionali.

Il "caregiving" è un'attività difficile e destabilizzante. Il caregiver esperisce


rabbia, stanchezza, senso di colpa (per il timore di non essere adeguato al
compito), o percepisce una propria supposta "inutilità". Dal punto di
vista psicologico i sintomi depressivi e i problemi d'ansia sono il vissuto
più diffuso nel caregiving.
La tensione del caregiver finisce per manifestarsi anche sul piano fisico ed
è quindi più facile trovare in queste persone problemi gastrici, mal di
testa, dolori alla schiena, dolori muscolari, dovuti anche alle manovre
pesanti che attuano, e tutta una serie di disfunzioni immunitarie e
problematiche che spesso derivano dal non avere più tempo per se stesso
di qualità o per non avere sufficienti risorse interne o esterne per poter
meglio fronteggiare la situazione.
Sono soprattutto loro le “vittime nascoste” della demenza (Tamanza,
1998). Assistere una persona affetta da demenza significa affrontare i
suoi continui cambiamenti, comportamentali e cognitivi. Questo obbliga
il caregiver a sperimentare un continuo stato di ansia, frustrazione e
preoccupazione. Bisogna favorire nel caregiver l’accettazione e la
consapevolezza della malattia e dei cambiamenti ad essa connessi,
attraverso percorsi di aiuto e supporto, attribuendo un “senso” al proprio
ruolo.
Il caregiver tende a provare nei confronti del proprio caro emozioni diverse, anche
tra loro contrastanti: dalla tenerezza, amore, compassione alla rabbia, irritazione
stanchezza o senso di colpa. Vedere che la madre, non riconosce più i figli, o ha
bisogno di essere assistita per mangiare o per lavarsi, suscita reazioni emotive
profonde e contrastanti.
Dal curare al prendersi cura

Prendersi “cura” della persona non è così facile, soprattutto se fragile.


Perchè vuol dire prendersi cura da diversi punti di vista, sia sotto il
profilo fisico che mentale. Ma cosa vuol dire Cura?

La parola “cura” discende dalla più antica parola “coera” che veniva usata
nelle relazioni d'amore e di amicizia. Serviva ad esprimere quella
premura, attenzione, nei confronti di una persona amata. Cura significa
presenza, attenzione e delicatezza.
Anni fa uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva
fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead
parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead
disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi
guarito. Spiegò quindi questo: nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori.
Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo.
Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale, in
poche parole, sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso
guarisca.
Un femore rotto che è guarito è invece la prova che qualcuno si è preso il
tempo di stare con colui che è caduto. Ne ha bendato la ferita, lo ha portato in
un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Mead disse che aiutare qualcun
altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al
nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo!
Il Mito di Cura

Mentre Cura stava attraversando un certo fiume, vide del fango argilloso.
Lo raccolse pensosa e cominciò a dargli forma. Ora, mentre stava
riflettendo su ciò che aveva fatto, si avvicinò Giove. Cura gli chiese di
dare lo spirito di vita a ciò che aveva fatto e Giove acconsentì volentieri.
Ma quando Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto,
Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio nome. Mentre
Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche Terra, reclamando
che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché essa,
la Terra, gli aveva dato il proprio corpo.
I disputanti elessero Saturno, il Tempo, a giudice, il quale comunicò ai
contendenti la seguente decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al
momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo,
riceverai il corpo. Ma poiché fu Cura che per prima diede forma a questo
essere, finché esso vive, lo custodisca la cura. Per quanto concerne la
controversia sul nome, si chiami homo poiché è stato tratto da humus.
La Cura dunque precede sia lo spirito (Zeus), sia il corpo (Terra). Ciò vuol dire
che la Cura si trova all’origine di ogni esistenza umana. Heidegger, all’interno
del paragrafo 42 di “Essere e Tempo”, offre una chiave di lettura filosofica del
mito. L’uomo, avverte il filosofo, non è uno che “ha” cura, ma “è” Cura.
L’essenza più autentica delle relazioni umane risiede “nell’aver cura” degli
altri e nell’attenzione amorevole da parte degli altri. Nella Cura (e nella
fragilità) ci riscopriamo Uomini, riscopriamo la civiltà e la solidarietà.
“Una delle qualità essenziali che deve avere un operatore e l
’interesse per l’umanità, PER L'UOMO, E NON PER LA
SUA MALATTIA”.
Prendersi cura dell'Altro, nel senso pieno della parola, vuol dire impegnarsi,
interessarsi, rivolgergli attenzioni e considerazioni e non solo impostare
una strategia terapeutica. Anche Luigina Mortari (nel suo libro “Filosofia
della cura”) afferma che si tratta di un concetto che è alla base della
stessa condizione umana. Gli esseri umani sono incompleti, vulnerabili:
per questo tutti noi abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura di
noi.
Le persone capaci di importanti gesti di cura, quando spiegano i motivi del
loro agire, forniscono risposte semplicissime: “ho fatto quel che dovevo,
chiunque avrebbe fatto lo stesso, non c’era altro da fare…”. Il che non
significa che dietro l’azione non ci sia un pensiero: «Il pensiero c’è ma è
semplice, nel senso che centra l'essenziale, ovvero: sa dov’è l’essenza
delle cose». Questo pensiero è passione per il bene dell’altro e questo
orienta il suo essere».
La cura non è un’idea ma un atto. Riprendendo Heidegger, gli esseri umani
‘sono ciò che vanno facendo’, allora si può dire che il modo di fare la
cura rivela il modo di essere.

Perché ben-agire e ben-essere sono coincidenti!


Nel “prendersi cura” dell’uomo è importante non dimenticare che, dietro
ogni malato, anche il più critico, c’è un Uomo, con i suoi bisogni, le sue
paure, le sue ansie, il suo vissuto.

DIETRO OGNI ANZIANO C'E' UN UOMO CHE CHIEDE DI ESSERE


ASCOLTATO E DI ESSERE “VISTO”.

E CHE VUOLE COMUNICARE! "Se parlo vuol dire che esisto…",


comunicare con l'altro lo fa sentire vivo, gli fa sentire che ancora
qualcuno si interessa a lui.
“Diventando più emotivi e meno cognitivi, noi ricorderemo il modo in cui
ci parlate, non quello che ci dite. Conosciamo i sentimenti ma non la
trama. Il vostro sorriso, la vostra risata, il vostro tocco sono le cose con
cui noi possiamo entrare in relazione. L’empatia è la cura. Amateci per
come siamo. Siamo ancora qui, con le nostre emozioni e con il nostro
spirito, se solo riuscirete a trovarci”.

(Christine Bryden, 2005, p.138)


Ogni giorno
(con Stefania Sandrelli e Carlo delle Piane)

https://www.youtube.com/watch?v=U_IVuJkH81M

Prodotto da SKY Cinema e Nuvola Film, con la collaborazione della


Federazione Alzheimer Italia, OGNI GIORNO è un toccante
cortometraggio che racconta con delicatezza e poesia la malattia di
Alzheimer, malattia che entra nella vita del protagonista, costretto a
svegliarsi ogni giorno senza alcun ricordo del passato. Ogni mattino
Carlo si scopre innamorato della stessa donna, Elena, e la corteggia
timidamente sebbene lei sia già sua moglie e lui non lo ricordi. Ha
ottenuto più di 30 riconoscimenti.
William Utermohlen

William Utermohlen (1967-2007), pittore, prese la decisione di


documentare l' evoluzione della sua malattia con degli autoritratti.
Un’azione che lo stesso pittore ha voluto intraprendere per capire
meglio la sua malattia. Man mano che il Morbo di Alzheimer
progrediva, William perdeva qualcosa e lo documentava, forse
inconsapevolmente, attraversi i suoi autoritratti.
Osservandoli è facile intuire una sorta di disgregazione mentale ed emotiva,
una progressiva perdita della cognizione di sé. Ed è proprio questo che
William ha voluto documentare, la perdita di se stesso. Gli autoritratti
coprono cinque anni, fino al 2000. Da quel momento in poi, la sua
malattia ha preso il controllo e dipingere è diventato impossibile.
William è deceduto pochi anni dopo, nel 2007, lasciando in eredità i suoi
autoritratti, definiti come la riproduzione artistica della malattia di
Alzheimer.
Quando un familiare incontra la demenza

Il percorso e i meccanismi difensivi che vengono messi in atto sono molto


simili a quelli attuati dopo un lutto. Una diagnosi di demenza scatena le
stesse dinamiche e fasi:

• Prima fase: la negazione: È la prima e la più spontanea reazione che il


malato e la famiglia mettono in atto di fronte alla diagnosi. A seguito
della diagnosi è comune nelle persone non credere a quello che
realmente sta accadendo e si pensa che la diagnosi sia frutto di un errore
o degli esami o del medico stesso. Questo tipo di reazione è di tipo
difensivo in quanto il malato e la famiglia cercano di mantenere
inalterato il loro equilibrio.
In questa fase si può innescare un circolo vizioso che può portare la
famiglia a sottoporre il proprio familiare a continui accertamenti e visite
da medici specialisti; questo genere di comportamento risulta stressante
per la persona e ai suoi occhi risulta come una richiesta dei familiari di
“tornare come era prima”.

Seconda fase: l’ansia e l’iper-coinvolgimento: man mano che il familiare
comincia ad accettare la malattia, il dolore per la diagnosi è
accompagnato da un senso di disorientamento che crea molta ansia.
Il familiare non sa cosa fare e soprattutto come affrontare la situazione.
L’ansia e il disorientamento lo inducono ad affaccendarsi in continuazione
e a sostituirsi al malato in molte delle attività. Si vuole evitare al malato,
ma anche a sé stessi, la frustrazione di un possibile insuccesso. L’essere
molto coinvolto e iperprotettivo nei confronti del malato è un meccanismo
di difesa, per sé, per evitare il dolore di vedere che il proprio familiare
inizia ad avere dei problemi a svolgere determinate attività da solo.
Questo comportamento è dannoso per entrambi; per il malato perché non
mantiene in allenamento le competenze residue; per il caregiver perché, a
causa del continuo affaccendarsi, si stanca molto e più velocemente.

Terza fase: la rabbia: con il progredire della malattia e la degenerazione
delle condizioni del malato, il caregiver si rende conto che il suo
affaccendarsi non è servito a rendere il familiare di nuovo “sano”. È in
questi momenti che la frustrazione, la delusione e il fallimento si fanno
più sentire sfociando in un sentimento di rabbia.

Quarta fase: il senso di colpa: spesso accade che il sentimento di rabbia
lasci spazio al senso di colpa. Il senso di colpa può provenire dal
sentimento di impotenza poiché non si può migliorare la condizione in
cui si trova il malato, ma solamente alleviarla; può essere dovuto alla
vergogna che si prova quando il malato compie certi comportamenti; può
essere dovuto al comportamento che il caregiver ha tenuto nei confronti
del malato, magari sgridandolo.
Il senso di colpa non è un sentimento tipico solo della fase di accettazione
della malattia, ma come la rabbia, si ripresenta in tutte le fasi. È un
sentimento comune anche tra i caregiver che si vedono costretti a
ricoverare definitivamente il proprio familiare.


Quinta fase: l’accettazione: si arriva ad una fase di accettazione della
malattia attraverso la presa di coscienza delle difficoltà del malato e dei
cambiamenti che inevitabilmente ci saranno. Si ha una completa
accettazione quando il caregiver si rende disponibile al cambiamento che
porta a una ristrutturazione delle dinamiche familiari e delle modalità
organizzative che modificheranno il vecchio equilibrio per arrivare a uno
nuovo. Il nuovo equilibrio sarà funzionale al compito di assistenza del
malato che prevede, oltre all’assistenza vera e propria, anche
l’accoglimento delle emozioni del malato e quelle proprie del caregiver.
I familiari attraversano progressivamente questi passaggi con tempi e
modalità differenti, anche se non tutti riescono a concludere con
l’accettazione dell’evento, ma alcuni si fermano alla negazione, altri alla
rabbia o alla disperazione.
Le Testimonianze
TESTIMONIANZA N.1

Mi chiamo Michela Morutto, sono la moglie caregiver di Paolo Piccoli,


malato di Alzheimer presenile, con diagnosi genetica a 46 anni ed esordi
della malattia a 43 anni. Attualmente Paolo è in struttura da 6 mesi,
perché, dopo il lockdown e la conseguente “chiusura” a tutte le
opportunità di inclusione che gli avevo trovato (stimolazione cognitiva
domiciliare, basket con squadra di disabili, canto in chiesa come
stimolazione e vita sociale, uscite con gli amici), la sua malattia ha avuto
una netta impennata.
Paolo ha iniziato ad essere aggressivo verbalmente, soprattutto nei confronti
del nostro bimbo più grande: Mattia di 11 anni, ad avere crisi e a fuggire
quotidianamente da casa perché non riconosceva più la nostra ultima
dimora. Mi sono tutto ad un tratto risvegliata MADRE e non più solo
moglie caregiver (quasi due anni di aspettativa dal lavoro per seguire
Paolo…) e ho deciso, con un grande dolore interno e con un esaurimento
nervoso sulle spalle, per una RSA con nucleo Alzheimer a 8 km da casa.
Vivo il mio stato di vedova bianca con una tristezza infinita per quello
che ci è stato tolto dalla vita, per la mancanza del mio compagno e per
il futuro incerto dei miei figli con un patrimonio genetico molto grave.
Ho dovuto accettare la malattia in qualche modo per non impazzire del tutto,
vedere l’indifferenza delle persone soprattutto di chi non ti aspetti.
Paolo, prima che ammalato, è stato il piccolo caregiver del proprio padre malato
a sua volta di demenza precoce a 48 anni. L’ultimo atto di amore che abbiamo
fatto e voluto io e Paolo, è stato raccogliere la nostra storia, in una sorta di diario
per i nostri due bimbi (“Un Tempo Piccolo” di Serenella Antoniazzi, Gemma
Edizioni), Mattia e Andrea (8 anni).
VIDEO INTERVISTA A PAOLO
VIVERE IL PRESENTE SENZA RICORDARSI DEL PASSATO

“Non sono più la persona di prima. Mi sento sempre spaesato, come in una
pagina bianca.......”

https://www.facebook.com/watch/?ref=saved&v=2360556164205417
TESTIMONIANZA N.2
“ISTANTANEA” DI ANNA, CAREGIVER

Cosa mi ci vuole per scattare un’istantanea degli ultimi 12 anni della mia
vita? Una storia di cui non conosco né l’inizio né la fine, ma di cui ho
vissuto e vivo intensamente ogni giorno con dolore, paura, rabbia, fatica,
solitudine, curiosità, ostinazione. Facile perdersi in questo guazzabuglio
di emozioni.

“Devo andare a fare un po’ di spesa” disse babbo mentre mettevo a posto
quella che avevamo appena fatto. Il tempo si è dilatato in quel momento
e si è cristallizzato nella mia memoria.
Non ricordo dove riposi le mele che avevo in mano, ma ricordo molto bene la
sensazione di una distanza incommensurabile anche se eravamo ad un metro.
Non so dire con precisione quando quel processo abbia avuto inizio, 50 km di
distanza e la cocciutaggine di due anziani mi hanno impedito di cogliere i primi
segnali quotidiani. E mi sono trovata direttamente a decidere quanti scatoloni
avrebbero occupato i ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza,
riempiendoli ad una velocità molto superiore a quella delle mie emozioni,
emozioni che mi soffocavano la gola.
La malata di casa era sempre stata mamma, con il suo eterno male di vivere
in un corpo pieno di acciacchi. Babbo era il motore di tutto: faceva la
spesa, mandava avanti la casa, accudiva sua moglie. Ora non restava più
nessuno. O meglio, restavo io, figlia unica di genitori non autosufficienti,
come li definisce la USL.
Ho cominciato a raccogliere la documentazione in 2 raccoglitori, blu per
babbo e verde per mamma, ed ho continuato raccogliendo i miei pezzi ad
ogni peggioramento della malattia. Allora non immaginavo neppure
lontanamente che sarebbe stato il mio futuro. Il muro che ho dovuto
attraversare per trovare il mio binario. Ho dovuto combattere con i
fantasmi del mio passato, guardare negli occhi dei miei genitori che non
mi riconoscevano più e mi davano del lei e specchiarmi nelle loro paure.
E ad un certo punto.... Ciao Babbo. Difficile dire se mamma se ne sia resa
conto, non ce l’ho la risposta alla domanda che tante persone mi hanno
fatto. A volte chiama il suo nome.

“Com’è brava lei”

“Grazie. Mi chiamo Anna”

Silenzio. Mi trito il cuore cercando di cogliere un’espressione diversa sul


volto al suono del mio nome, un lampo negli occhi, un gesto. Ma nulla.
Momo
Non ricordo

https://www.youtube.com/watch?v=sZZQvPBI11g
PSICOLOGIA DELL'INVECCHIAMENTO
Definizioni

La geriatria è quella parte della medicina che studia le condizioni, patologiche e


non, proprie della vecchiaia, stabilendo le modalità di cura e di assistenza agli
anziani.
La gerontologia studia invece i fenomeni propri dell’invecchiamento.
La geragogia è l’educazione all’invecchiamento, in pratica un mezzo per aiutare le
persone ad appropriarsi di quegli strumenti che possono servire a favorire,
l’adattamento ai diversi bisogni che via via si presentano nelle varie fasi della vita,
soprattutto con l’età matura.
La psicogerontologia, ovvero la scienza che studia l’invecchiamento dal punto di
vista psicologico. Ha come obiettivo un invecchiamento ottimale. Cosa fa lo
psicogerontologo? Promuove la salute, fa prevenzione. Si occupa del benessere
del caregiver, non si preoccupa solo dell’anziano, ma anche delle persone che lo
accudiscono. Educa attraverso la psico-educazione, ovvero la persona anziana e il
caregiver imparano a gestire meglio i propri pensieri, comportamenti ed
emozioni. Fa ricerca, ovvero studia tutte le variabili collegate alla terza età.
Struttura progetti e Interventi. Protegge i diritti. Fa formazione. Fa Consulenze.
False credenze

1) Tutti gli esseri viventi in ogni tempo e in ogni luogo sono soggetti
ad invecchiamento.

2) Il deteriorarsi progressivo col tempo è intrinseco alla natura di qualsiasi


cosa o entità, compresi gli esseri viventi.
Non si ha notizia di uomini che non siano invecchiati e ciò è altrettanto vero
per moltissime specie di esseri viventi ma già nel 1925 (!) Bidder aveva
rilevato come:

Per molte specie di vertebrati inferiori la mortalità non aumenta affatto con
l’aumentare dell’età (a parte le conseguenze dell’accumulo di ferite).
Ad esempio, vi sono molte specie di meduse (medusa immortale) per le quali
vi è accrescimento corporeo continuo e con il passare degli anni non risulta
perdita di vigore fisico né alcun segno di deterioramento e la morte alla fine
sopraggiunge per predazione.
Aspettativa di vita

- Impero Romano  28 anni

- 1900  49 anni

- 2000  78 anni

- 2020  83 anni
Popolazione anziana in Italia (ultra65enni)

- 1960 4.828.000

- 2000 10.646.000

- 2030 15.979.000

- 2050 17.973.000
Popolazione anziana in Italia (Ultra80enni)

- 1960 724.000

- 2000 2.476.000

- 2030 2.890.000

- 2050 4.180.000
Definizione di Invecchiamento

“Processo biologico progressivo caratterizzato da cambiamenti che


comportano per l’organismo una diminuzione progressiva e continua della


capacità di adattamento all’ambiente e una riduzione delle riserve
funzionali”.

“Indica il complesso delle modificazioni cui l’individuo va incontro, nelle


sue strutture e nelle sue funzioni, in relazione al progredire dell’età”


(CesaBianchi, 1987).
Ma esiste una vera definizione?

Nell’uomo definire l’invecchiamento è reso complicato da importanti


differenze individuali sulle modalità di invecchiare che rendono l’età
anagrafica soltanto grossolanamente indicativa. Si devono chiamare in
causa le altre “età”: l’età psicologica, l’età sociale, l’età biologica.
È attorno ai primi anni ’70 che, in Italia, gli anziani e la loro condizione
cominciano ad essere oggetto di attenzione e di riflessione. I “vecchi” diventano
visibili e la loro dimensione quantitativa pone il problema in tutta la sua
“ampiezza”. Questo porta alcuni studiosi a riflettere sugli anziani e la loro
condizione, avviando ricerche attente e mirate. In Italia grazie al contributo di
Agostino Gemelli e Martello Cesa-Bianchi (1952-1987).
L’età biologica

Secondo Cesa-Bianchi (1987), l’età biologica è strettamente collegata al


concetto di “durata di vita”. Si avvicina notevolmente all’età cronologica, ma
non si identifica con essa.
L’età psicologica

L’età psicologica si riferisce alle capacità di adattamento di una persona e dal


comportamento che mette in atto. E' collegata sia all’età cronologica che a
quella biologica, ma non è pienamente desumibile dalla loro combinazione.
L’età sociale

L’età sociale si riferisce alle abitudini, ai ruoli sociali, alle aspettative del gruppo
di appartenenza e della società. E' collegata, ma non completamente definita,
all’età cronologica, biologica e psicologica.
Cosa influenza l’invecchiamento

Esistono numerosi elementi in grado di condizionare l’invecchiamento


“fisiologico”:
- non uso o cattivo uso di una funzione durante la crescita o durante l’età
adulta (es. scarsa o eccessiva attività fisica)
- fattori di rischio (dieta ipercalorica, fumo, alcool, stress)
- malattie fisiche o psichiche intercorrenti (fattori che accelerano
l’invecchiamento).
• Fattore genetico (definisce il ritmo, le fasi, la durata del processo di
invecchiamento);
• Fattore educativo-culturale (influenza significativamente il processo di
senescenza. Un buon livello educativo e un’adeguata situazione culturale
sembrano agire positivamente sull’invecchiamento, mentre una situazione
opposta è, spesso, chiamata in causa quale condizione favorente un rapido
decadimento delle funzioni della persona).
Fattore economico (molte ricerche, fra le quali quelle di J. Birren, documentano

una vera e propria dicotomia nel modo di svolgersi dell’invecchiamento fra gli
appartenenti alle classi socio-economiche più fortunate e quelli appartenenti alle
classi più svantaggiate, per questi ultimi la senescenza si attua molto più
frequentemente con modalità esclusivamente negative).
• Fattore sanitario (opera in stretta interdipendenza con il fattore economico.
L’insorgenza di patologie, specie se di carattere cronico e progressivo, influenzano
negativamente il processo di invecchiamento fino a farlo precipitare. Tale influenza
negativa diventa più incisiva se si realizza in un quadro di inadeguate risorse
economiche
Fattore personalità (bisogna prendere atto della diversità che la senescenza

assume negli individui chiusi e in quelli aperti, negli attivi e nei disimpegnati, nei
tenaci e nei labili e così via. A differenti tipologie caratteriologiche corrispondono
diverse modalità di invecchiare. In ogni caso la personalità è in stretta connessione
con l’ambiente, e le modalità adattative della persona dipendono da questa
interdipendenza).
Fattore famiglia (l’invecchiamento varia notevolmente se un individuo vive

solo, in coppia, o in un gruppo più numeroso).


• Fattore ambiente (ormai è un dato di fatto che l’invecchiamento è espressione
di un’interazione fra l’individuo e il suo ambiente, interazione nella quale
l’individuo modifica continuamente l’ambiente e l’ambiente modifica
continuamente l’individuo).
Invecchiamento = malattia?

Esiste una relazione fra patologia ed età, nel senso che molte malattie
prediligono determinate fasce di età. Per quanto riguarda l’età senile è possibile
riconoscere che alcune patologie si riscontrano più frequentemente rispetto ad
altre. Gli antichi dicevano “senectus ipsa morbus”. L’affermazione sosteneva
che la vecchiaia comportasse di per sé la patologia; che questa fosse un evento
ineliminabile e irreversibile. Le concezioni e i dati più recenti respingono
questo modo di intendere il rapporto tra patologia ed età.
Il vissuto dell'avanzare dell'età

L’anziano si sente più esposto alla malattia e quindi è meno sicuro di sé e delle
proprie capacità di assolvere ai ruoli sociali e familiari. Gli anziani temono meno
la morte rispetto alla malattia, perché la prima porrebbe fine alle sofferenze,
mentre la seconda le aumenterebbe. Essere malato significa per l’anziano essere
di peso alla propria famiglia.
Con l’invecchiamento l’uomo si trova ad affrontare una serie di “perdite”, che
incidono notevolmente sul benessere psicologico:

• a livello biologico vi è un invecchiamento esteriore, una diminuzione della forza


fisica e della funzione degli organi di senso con ripercussioni anche sul vissuto
della sessualità.
• a livello mentale subiscono importanti modificazioni alcuni aspetti rilevanti
dell’intelligenza e della memoria

• a livello sociale l’invecchiamento spesso coincide con la perdita di un ruolo


sociale.

• a livello familiare si verifica la perdita del ruolo di capofamiglia, del ruolo


di coniuge in caso di vedovanza, del ruolo genitoriale in quanto i figli sono
ormai usciti di casa ed hanno una loro vita autonoma
Tre tipi di Invecchiamento

Birren e Schroots distinguono l’invecchiamento in invecchiamento primario,


secondario, terziario:
1) L’invecchiamento primario riguarda il cambiamento tipico della maggior
parte delle persone, intendendo quindi quel cambiamento inevitabile per ogni
persona, garantendo una piena autonomia malgrado cambiamenti di tipi biologico,
psicologico, cognitivo e affettivo.
Caratteristiche:
- Perdita di velocità nel processamento ed elaborazione delle informazioni
- rallentamento abilità visuo-spaziali
- Intelligenza Fluida vs Intelligenza Cristallizzata
Intelligenza fluida e
cristallizzata

- L'intelligenza fluida è la capacità di pensare logicamente e risolvere i


problemi in situazioni nuove, indipendentemente dalle conoscenze acquisite.
L’intelligenza fluida raggiunge il suo massimo potenziale durante
l’adolescenza.
- L'intelligenza cristallizzata è la capacità di utilizzare competenze, conoscenze
ed esperienze.
Cattell
2) L’invecchiamento secondario può anche essere definito patologico in quanto,
rispetto all’invecchiamento primario, si aggiungono alcune malattie.
3) L’invecchiamento terziario si riferisce al declino rapido e irreversibile
dell’organismo, in quanto connesso all’ipotesi del declino terminale, e quindi
indipendente dall’età cronologica. Ad esso si associa un calo improvviso delle
prestazioni fisiche e cognitive dell’individuo, caratterizzato da perdite significative in
ogni area. Questo stadio può durare mesi o anni ed è conosciuto anche come terminal
drop.
L’invecchiamento non viene misurato come distanza dalla nascita, ma
dalla morte.
LE TEORIE
Teoria del disimpegno

• Teoria del disimpegno (Cumming & Henry, 1961): descrive la vecchiaia come un
periodo in cui la persona sente la necessità di un ritiro sul piano fisico, psicologico e
sociale. Vi è un: disimpegno fisico, causato da una riduzione e da un rallentamento
delle varie attività fisiche allo scopo di mantenere intatte le ultime energie; un
disimpegno sul piano psicologico, caratterizzato da una chiusura e una
concentrazione su se stessi. Un disimpegno dal punto di vista sociale, caratterizzati
dall’allontanamento dalle attività, e dagli impegni sociali. Tuttavia, tale teoria non
può essere ricondotta all’epoca attuale, in quanto l’anziano ora può ricoprire nuovi
ruoli sociali.
Teoria dell'attività

La teoria dell’attività, elaborata da Havighurst nel 1960, sostiene che un anziano


ha le stesse caratteristiche delle persone della mezza età, di conseguenza egli ha
gli stessi bisogni sociali e psicologici. Si tende, pertanto, a condurre uno stile di
vita il più simile possibile a quello dell’età lavorativa, sostituendo la mansione
svolta durante l’età lavorativa con altri ruoli e differenti attività.
Si ritiene infatti, che un invecchiamento sereno dipenda dalla capacità di
mantenersi attivi attraverso esercizi fisici e mentali. Tali attività permettono
di mantenere una buona autostima di sè e dei rapporti sociali,
determinando soddisfazione personale e serenità.
Teoria dell'invecchiamento di successo

• Teoria del succesfull aging (Baltes & Baltes, 1991) che si realizza con le
indicazioni strategiche di selettività, ottimizzazione, compensazione. Si
selezionano alcune competenze, quelle più esercitate in passato e si
mantengono ad un buon livello, ottimizzandole. Nella vecchiaia, la quantità di
abilità e attività si riduce (selezione), tuttavia le abilità e le competenze che
rimangono possono essere potenziate (ottimizzazione) e possono compensare le
perdite.
E' possibile, nella vecchiaia, richiedere a se stessi nuovi livelli di aspirazione,
nuovi tempi in cui fare le cose, essere flessibili e accomodare i propri obiettivi
di vita a nuove circostanze.
Se invecchiare è comune a tutti, invecchiare bene significa avere la capacità
di selezionare, ottimizzare e compensare, con soddisfazione.
Pablo Picasso, pittore, Alber Einstein, fisico, Giuseppe Verdi, musicista.
Queste e tante altri grandi menti hanno lavorato in campi molto diversi fra
loro, ma hanno tutti condiviso un aspetto eccezionale: sono stati creativi e
produttivi in tarda età. Essi hanno contraddetto il comune convincimento
che l’invecchiamento porti sempre ad un pronunciato declino ed a perdita
delle capacità cognitive. Oggi i neuroscienziati credono che il cervello può
rimanere sano e funzionante anche quando invecchia.
120 anni!! Questa, da quanto se ne sa, è la massima durata della vita di cui
si abbia una conoscenza certa. Appartiene ad un uomo giapponese,
Shirechiyo Izumi, vissuto appunto 120 anni e 237 giorni e morto nel 1986
per una polmonite.
Lei è Kane Tanaka, la persona più vecchia al mondo oggi e la terza per
longevità nella storia. Classe 1903 Kane compirà 118 anni il prossimo
gennaio e avrebbe dovuto portare la torcia olimpica per gli ultimi 100 mt ai
Giochi olimpici di Tokyo, ma l'aumento dei casi covid l'ha fatta desistere
dall'impegno per precauzione.
“Apprendere lungo tutto l’intero arco di vita”

Non esiste un’età o un momento destinato ad imparare e altri nei quali si applica
ciò che si è imparato. In ogni momento si apprende e si applica
contemporaneamente e da ciò che si sperimenta si attivano sempre nuovi processi
di apprendimento.
Invecchiamento attivo

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,


l’Invecchiamento Attivo è “un processo di ottimizzazione delle opportunità
relative alla salute, partecipazione e sicurezza, allo scopo di migliorare la qualità
della vita delle persone anziane“
Le politiche per l’invecchiamento attivo in Italia sono essenzialmente:
• la transizione graduale al pensionamento, che consiste nel ridurre
gradualmente l’orario di lavoro, al fine di rendere meno traumatico il passaggio
dallo stato di lavoratore a quello di pensionato. Tuttavia nel solo il 3,5% dei
lavoratori tra i 55 e 69 anni ha utilizzato tale opzione
• il prolungamento dell’attività lavorativa, che prevede di incentivare i
pensionati a continuare a rimanere attivi nel mercato del lavoro.
QUANDO INVECCHIAMO?
La vecchiaia appare come l’età in cui aumentano le probabilità di ammalarsi,
anche di più patologie contemporaneamente (comorbilità). La dimensione
biologica e fisica dell’invecchiamento è la più facilmente percepibile a livello
soggettivo, essa quindi ha un grande peso nel determinare l’inizio della
vecchiaia. Oltre al dato percepito della salute fisica, ci sono anche una
vecchiaia percepita e una vecchiaia attribuita.
Dal punto di vista soggettivo la vecchiaia può anche essere negata. Tuttavia non si
tratta di una negazione in senso assoluto, tant’è vero che le persone che non si
sentono vecchie non hanno difficoltà a riconoscere vecchie altre persone della loro
stessa età o addirittura più giovani
PERCHE' INVECCHIAMO?
SISTEMA NERVOSO CENTRALE
Il normale invecchiamento del cervello
La perdita neuronale distribuita in modo diffuso è responsabile di molti deficit
cognitivi associati all’invecchiamento normale.
I neuroni sono le cellule più vecchie e più lunghe dell'organismo. I neuroni si
mantengono per tutta la vita: mentre le altre cellule muoiono e vengono
rimpiazzate, questo non si verifica per i neuroni. Da vecchi abbiamo meno
neuroni che da giovani e quelli che rimangono sono gli stessi di quando
eravamo piccoli. Ciò nonostante, almeno in una regione del cervello
(l'ippocampo), nuovi neuroni possono crescere nell'uomo adulto.
I neuroni possono essere anche molto grandi. In alcuni casi, come per i
neuroni corticospinali (che si portano dalla corteccia motoria al midollo
spinale), i motoneuroni si possono raggiungere lunghezze di diverse decine
di centimetri, fino al metro e più!
Nel cervello degli anziani si evidenzia una riduzione della ramificazione dendritica
e un declino di neurotrasmettitori quali acetilcolina, dopamina e noradrenalina. Più
che lo spopolamento, c’è Depauperamento (dispersione di capacità produttive, di
rendimento, di efficienza).
L’Apoptosi

L’apoptosi – detta anche morte


cellulare programmata - è una
forma ordinata di eliminazione
di una cellula

In effetti, l’apoptosi fu scoperta


per la prima volta nel fegato di
soggetti adulti normali (Kerr et
al., 1972).

Immagine (modificata) da Kerr et al., 1972


E’ stato calcolato che in un adulto normale ogni giorno muoiono e sono
sostituiti fra i 50 e i 70 miliardi di cellule.
Le "perdite" possono essere in parte contrastate e compensate dal
fenomeno della plasticità neuronale.
La Plasticità ad ogni età!

Infatti studi di visualizzazione cerebrale mostrano l’esistenza di “guadagni” e


non solo di “perdite” anche in età adulta avanzata.
Meccanismi di compensazione che mantengono un elevato livello funzionale
nonostante la presenza di perdite fisiologiche.
Il cervello si può “ri-organizzare”.

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