Psicologa Esperta in
Neuropsicologia
L'ARTE DI ESSERE FRAGILI
L'ARTE DI ESSERE FRAGILI
Alessandro D'Avenia
https://www.youtube.com/watchv=fS2XK_7tAwk&list=RDCMUC3xPJ2R3A_O
DCPRaozytd9g
Qual è il senso di un discorso sulla fragilità? La semplice e disarmante
risposta è che la fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture
portanti, ne è una condizione normale. Il lavoro con e per l'anziano ci
porta ad affrontare il tema della fragilità, la loro e la nostra. Si perchè
siamo tutti fragili. Io sono fragile e paradossalmente sono chiamata a
parlare della forza della fragilità. La condizione degli anziani
(soprattutto con forme di demenza) è una situazione di grande
fragilità interiore che la distrazione e la leggerezza altrui
accrescono e aggravano.
La fragilità è un concetto molto complesso e ampio. Sono tante le
fragilità che ci accompagnano, infatti ogni giorno noi affrontiamo
piccole grandi fragilità. Dunque è un concetto presente e manifesto al
di là dell'invecchiamento. E dobbiamo essere coscienti che le nostre
fragilità si manifestano, si palesano, ci condizionano e si intersecano,
soprattutto in contesti dove ci si prende cura della fragilità.
In un moderno dizionario fragile è descritto in vari modi, tutti negativi. Che si
rompe facilmente. Poco robusto, poco resistente; debole (un fragile riparo; una
persona fragile; salute fragile). Passeggero, inconsistente (una fragile speranza,
Effimero). Riferito a un ragionamento, a un pensiero, che ha scarso fondamento,
che può essere facilmente confutato. Bisogna rivolgersi a un Dizionario Analogico
– come ci suggerisce Borgna – per avere un’estensione del significato. E li si apre
un mondo di parole flessibili: i significati sembrano meno rigidi, meno inchiodati
a un destino.
Man mano la parola fragile si svincola dalla gabbia della negatività per diventare
anche qualcos’altro: delicato, vulnerabile, sensibile. Siamo nella logica
dell’apertura di significato: non una cosa o l’altra (il mono pensiero) ma, invece,
una cosa e l’altra (i pensieri diversi che abitano nella stessa persona).
Occuparsi di fragilità vuol dire anche questo, ovvero guardare il paziente non in
senso trasversale (quel paziente con quel problema in quel dato momento), bensì
in senso longitudinale (quel paziente con la propria storia di vita e di salute e
malattia).
Come dice Andreoli, il materiale che meglio rappresenta la fragilità della
condizione umana è il vetro. Il rischio del vetro non è di rovinarsi o
ammaccarsi, ma di frantumarsi, andare in pezzi, schegge tanto minuscole
quanto taglienti, in ogni caso, impossibili da riassemblare. In fisica dei
materiali, è fragile ciò che tende a rompersi bruscamente e senza
preavviso: molto spesso è l’effetto collaterale di un indurimento, di una
diminuzione di plasticità. Tanto più un materiale è capace di essere
duttile, plastico, tanto meno è fragile. Nei materiali è una caratteristica
quella che per gli umani è una virtù: la resilienza.
Il nostro corpo è fragile e come ci ricorda Simone Weil (filosofa che ebbe a
dire di sé “sono tutta da rifare”), può essere trafitto da qualsiasi pezzo di
materia in movimento oppure può inceppare per sempre uno dei suoi
congegni interni. E non solo....anche la nostra interiorità è fragile,
vulnerabile perché soggetta a continui cambiamenti d’umore, in balia
delle cose, e di altri persone che come noi sono altrettanto fragili. La
nostra personalità, la trama delle relazioni sociali da cui dipendiamo e
che ci costituisce, è sostanzialmente esposta al caso: tutto può ferirci e
mettere in discussione la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e
degli altri.
Oggi si parla anche di fragilità sociale, ovvero l’uomo ha perso la capacità di
vivere in armonia con se stesso e con l'Altro. Gli antichi si sentivano parte di
un sistema, di un Cosmos, e accettavano pertanto di avere un ruolo, una
storia, una fine. L’homo consumer moderno non sa più cos’è la storia; non
sappiamo più cos’è il Cosmos che ci accetta, e finiamo per avere paura della
nostra fine, non la accettiamo più. La tecnica ha allontanato l’uomo dalla
sua fragilità. Heidegger ci ricorda che la tecnica è un farmaco che da un lato
fa l’uomo più potente, ma al tempo stesso, in realtà, lo rende ancora più
fragile.
Pensiamo ad esempio alla potenza di internet; da un lato possiamo comunicare
con il mondo intero solo facendo un click, dall’altra parte ci porta ad essere
ancora più soli, isolati nel virtuale. Un esempio sono gli Hikikomori, in
Giappone, i giovani che hanno deciso di auto recludersi, di estromettersi dal
mondo reale per vivere esclusivamente nel mondo virtuale. Sembra che più ci
sia facilità a parlare con il mondo virtuale, più si crea una difficoltà a parlare
con il proprio IO.
Che cos'è dunque la fragilità?
La parola “cura” discende dalla più antica parola “coera” che veniva usata
nelle relazioni d'amore e di amicizia. Serviva ad esprimere quella
premura, attenzione, nei confronti di una persona amata. Cura significa
presenza, attenzione e delicatezza.
Anni fa uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva
fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead
parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead
disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi
guarito. Spiegò quindi questo: nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori.
Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo.
Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale, in
poche parole, sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso
guarisca.
Un femore rotto che è guarito è invece la prova che qualcuno si è preso il
tempo di stare con colui che è caduto. Ne ha bendato la ferita, lo ha portato in
un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Mead disse che aiutare qualcun
altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al
nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo!
Il Mito di Cura
Mentre Cura stava attraversando un certo fiume, vide del fango argilloso.
Lo raccolse pensosa e cominciò a dargli forma. Ora, mentre stava
riflettendo su ciò che aveva fatto, si avvicinò Giove. Cura gli chiese di
dare lo spirito di vita a ciò che aveva fatto e Giove acconsentì volentieri.
Ma quando Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto,
Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio nome. Mentre
Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche Terra, reclamando
che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché essa,
la Terra, gli aveva dato il proprio corpo.
I disputanti elessero Saturno, il Tempo, a giudice, il quale comunicò ai
contendenti la seguente decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al
momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo,
riceverai il corpo. Ma poiché fu Cura che per prima diede forma a questo
essere, finché esso vive, lo custodisca la cura. Per quanto concerne la
controversia sul nome, si chiami homo poiché è stato tratto da humus.
La Cura dunque precede sia lo spirito (Zeus), sia il corpo (Terra). Ciò vuol dire
che la Cura si trova all’origine di ogni esistenza umana. Heidegger, all’interno
del paragrafo 42 di “Essere e Tempo”, offre una chiave di lettura filosofica del
mito. L’uomo, avverte il filosofo, non è uno che “ha” cura, ma “è” Cura.
L’essenza più autentica delle relazioni umane risiede “nell’aver cura” degli
altri e nell’attenzione amorevole da parte degli altri. Nella Cura (e nella
fragilità) ci riscopriamo Uomini, riscopriamo la civiltà e la solidarietà.
“Una delle qualità essenziali che deve avere un operatore e l
’interesse per l’umanità, PER L'UOMO, E NON PER LA
SUA MALATTIA”.
Prendersi cura dell'Altro, nel senso pieno della parola, vuol dire impegnarsi,
interessarsi, rivolgergli attenzioni e considerazioni e non solo impostare
una strategia terapeutica. Anche Luigina Mortari (nel suo libro “Filosofia
della cura”) afferma che si tratta di un concetto che è alla base della
stessa condizione umana. Gli esseri umani sono incompleti, vulnerabili:
per questo tutti noi abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura di
noi.
Le persone capaci di importanti gesti di cura, quando spiegano i motivi del
loro agire, forniscono risposte semplicissime: “ho fatto quel che dovevo,
chiunque avrebbe fatto lo stesso, non c’era altro da fare…”. Il che non
significa che dietro l’azione non ci sia un pensiero: «Il pensiero c’è ma è
semplice, nel senso che centra l'essenziale, ovvero: sa dov’è l’essenza
delle cose». Questo pensiero è passione per il bene dell’altro e questo
orienta il suo essere».
La cura non è un’idea ma un atto. Riprendendo Heidegger, gli esseri umani
‘sono ciò che vanno facendo’, allora si può dire che il modo di fare la
cura rivela il modo di essere.
https://www.youtube.com/watch?v=U_IVuJkH81M
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Quinta fase: l’accettazione: si arriva ad una fase di accettazione della
malattia attraverso la presa di coscienza delle difficoltà del malato e dei
cambiamenti che inevitabilmente ci saranno. Si ha una completa
accettazione quando il caregiver si rende disponibile al cambiamento che
porta a una ristrutturazione delle dinamiche familiari e delle modalità
organizzative che modificheranno il vecchio equilibrio per arrivare a uno
nuovo. Il nuovo equilibrio sarà funzionale al compito di assistenza del
malato che prevede, oltre all’assistenza vera e propria, anche
l’accoglimento delle emozioni del malato e quelle proprie del caregiver.
I familiari attraversano progressivamente questi passaggi con tempi e
modalità differenti, anche se non tutti riescono a concludere con
l’accettazione dell’evento, ma alcuni si fermano alla negazione, altri alla
rabbia o alla disperazione.
Le Testimonianze
TESTIMONIANZA N.1
“Non sono più la persona di prima. Mi sento sempre spaesato, come in una
pagina bianca.......”
https://www.facebook.com/watch/?ref=saved&v=2360556164205417
TESTIMONIANZA N.2
“ISTANTANEA” DI ANNA, CAREGIVER
Cosa mi ci vuole per scattare un’istantanea degli ultimi 12 anni della mia
vita? Una storia di cui non conosco né l’inizio né la fine, ma di cui ho
vissuto e vivo intensamente ogni giorno con dolore, paura, rabbia, fatica,
solitudine, curiosità, ostinazione. Facile perdersi in questo guazzabuglio
di emozioni.
“Devo andare a fare un po’ di spesa” disse babbo mentre mettevo a posto
quella che avevamo appena fatto. Il tempo si è dilatato in quel momento
e si è cristallizzato nella mia memoria.
Non ricordo dove riposi le mele che avevo in mano, ma ricordo molto bene la
sensazione di una distanza incommensurabile anche se eravamo ad un metro.
Non so dire con precisione quando quel processo abbia avuto inizio, 50 km di
distanza e la cocciutaggine di due anziani mi hanno impedito di cogliere i primi
segnali quotidiani. E mi sono trovata direttamente a decidere quanti scatoloni
avrebbero occupato i ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza,
riempiendoli ad una velocità molto superiore a quella delle mie emozioni,
emozioni che mi soffocavano la gola.
La malata di casa era sempre stata mamma, con il suo eterno male di vivere
in un corpo pieno di acciacchi. Babbo era il motore di tutto: faceva la
spesa, mandava avanti la casa, accudiva sua moglie. Ora non restava più
nessuno. O meglio, restavo io, figlia unica di genitori non autosufficienti,
come li definisce la USL.
Ho cominciato a raccogliere la documentazione in 2 raccoglitori, blu per
babbo e verde per mamma, ed ho continuato raccogliendo i miei pezzi ad
ogni peggioramento della malattia. Allora non immaginavo neppure
lontanamente che sarebbe stato il mio futuro. Il muro che ho dovuto
attraversare per trovare il mio binario. Ho dovuto combattere con i
fantasmi del mio passato, guardare negli occhi dei miei genitori che non
mi riconoscevano più e mi davano del lei e specchiarmi nelle loro paure.
E ad un certo punto.... Ciao Babbo. Difficile dire se mamma se ne sia resa
conto, non ce l’ho la risposta alla domanda che tante persone mi hanno
fatto. A volte chiama il suo nome.
https://www.youtube.com/watch?v=sZZQvPBI11g
PSICOLOGIA DELL'INVECCHIAMENTO
Definizioni
1) Tutti gli esseri viventi in ogni tempo e in ogni luogo sono soggetti
ad invecchiamento.
Per molte specie di vertebrati inferiori la mortalità non aumenta affatto con
l’aumentare dell’età (a parte le conseguenze dell’accumulo di ferite).
Ad esempio, vi sono molte specie di meduse (medusa immortale) per le quali
vi è accrescimento corporeo continuo e con il passare degli anni non risulta
perdita di vigore fisico né alcun segno di deterioramento e la morte alla fine
sopraggiunge per predazione.
Aspettativa di vita
- 1900 49 anni
- 2000 78 anni
- 2020 83 anni
Popolazione anziana in Italia (ultra65enni)
- 1960 4.828.000
- 2000 10.646.000
- 2030 15.979.000
- 2050 17.973.000
Popolazione anziana in Italia (Ultra80enni)
- 1960 724.000
- 2000 2.476.000
- 2030 2.890.000
- 2050 4.180.000
Definizione di Invecchiamento
L’età sociale si riferisce alle abitudini, ai ruoli sociali, alle aspettative del gruppo
di appartenenza e della società. E' collegata, ma non completamente definita,
all’età cronologica, biologica e psicologica.
Cosa influenza l’invecchiamento
una vera e propria dicotomia nel modo di svolgersi dell’invecchiamento fra gli
appartenenti alle classi socio-economiche più fortunate e quelli appartenenti alle
classi più svantaggiate, per questi ultimi la senescenza si attua molto più
frequentemente con modalità esclusivamente negative).
• Fattore sanitario (opera in stretta interdipendenza con il fattore economico.
L’insorgenza di patologie, specie se di carattere cronico e progressivo, influenzano
negativamente il processo di invecchiamento fino a farlo precipitare. Tale influenza
negativa diventa più incisiva se si realizza in un quadro di inadeguate risorse
economiche
Fattore personalità (bisogna prendere atto della diversità che la senescenza
assume negli individui chiusi e in quelli aperti, negli attivi e nei disimpegnati, nei
tenaci e nei labili e così via. A differenti tipologie caratteriologiche corrispondono
diverse modalità di invecchiare. In ogni caso la personalità è in stretta connessione
con l’ambiente, e le modalità adattative della persona dipendono da questa
interdipendenza).
Fattore famiglia (l’invecchiamento varia notevolmente se un individuo vive
Esiste una relazione fra patologia ed età, nel senso che molte malattie
prediligono determinate fasce di età. Per quanto riguarda l’età senile è possibile
riconoscere che alcune patologie si riscontrano più frequentemente rispetto ad
altre. Gli antichi dicevano “senectus ipsa morbus”. L’affermazione sosteneva
che la vecchiaia comportasse di per sé la patologia; che questa fosse un evento
ineliminabile e irreversibile. Le concezioni e i dati più recenti respingono
questo modo di intendere il rapporto tra patologia ed età.
Il vissuto dell'avanzare dell'età
L’anziano si sente più esposto alla malattia e quindi è meno sicuro di sé e delle
proprie capacità di assolvere ai ruoli sociali e familiari. Gli anziani temono meno
la morte rispetto alla malattia, perché la prima porrebbe fine alle sofferenze,
mentre la seconda le aumenterebbe. Essere malato significa per l’anziano essere
di peso alla propria famiglia.
Con l’invecchiamento l’uomo si trova ad affrontare una serie di “perdite”, che
incidono notevolmente sul benessere psicologico:
• Teoria del disimpegno (Cumming & Henry, 1961): descrive la vecchiaia come un
periodo in cui la persona sente la necessità di un ritiro sul piano fisico, psicologico e
sociale. Vi è un: disimpegno fisico, causato da una riduzione e da un rallentamento
delle varie attività fisiche allo scopo di mantenere intatte le ultime energie; un
disimpegno sul piano psicologico, caratterizzato da una chiusura e una
concentrazione su se stessi. Un disimpegno dal punto di vista sociale, caratterizzati
dall’allontanamento dalle attività, e dagli impegni sociali. Tuttavia, tale teoria non
può essere ricondotta all’epoca attuale, in quanto l’anziano ora può ricoprire nuovi
ruoli sociali.
Teoria dell'attività
• Teoria del succesfull aging (Baltes & Baltes, 1991) che si realizza con le
indicazioni strategiche di selettività, ottimizzazione, compensazione. Si
selezionano alcune competenze, quelle più esercitate in passato e si
mantengono ad un buon livello, ottimizzandole. Nella vecchiaia, la quantità di
abilità e attività si riduce (selezione), tuttavia le abilità e le competenze che
rimangono possono essere potenziate (ottimizzazione) e possono compensare le
perdite.
E' possibile, nella vecchiaia, richiedere a se stessi nuovi livelli di aspirazione,
nuovi tempi in cui fare le cose, essere flessibili e accomodare i propri obiettivi
di vita a nuove circostanze.
Se invecchiare è comune a tutti, invecchiare bene significa avere la capacità
di selezionare, ottimizzare e compensare, con soddisfazione.
Pablo Picasso, pittore, Alber Einstein, fisico, Giuseppe Verdi, musicista.
Queste e tante altri grandi menti hanno lavorato in campi molto diversi fra
loro, ma hanno tutti condiviso un aspetto eccezionale: sono stati creativi e
produttivi in tarda età. Essi hanno contraddetto il comune convincimento
che l’invecchiamento porti sempre ad un pronunciato declino ed a perdita
delle capacità cognitive. Oggi i neuroscienziati credono che il cervello può
rimanere sano e funzionante anche quando invecchia.
120 anni!! Questa, da quanto se ne sa, è la massima durata della vita di cui
si abbia una conoscenza certa. Appartiene ad un uomo giapponese,
Shirechiyo Izumi, vissuto appunto 120 anni e 237 giorni e morto nel 1986
per una polmonite.
Lei è Kane Tanaka, la persona più vecchia al mondo oggi e la terza per
longevità nella storia. Classe 1903 Kane compirà 118 anni il prossimo
gennaio e avrebbe dovuto portare la torcia olimpica per gli ultimi 100 mt ai
Giochi olimpici di Tokyo, ma l'aumento dei casi covid l'ha fatta desistere
dall'impegno per precauzione.
“Apprendere lungo tutto l’intero arco di vita”
Non esiste un’età o un momento destinato ad imparare e altri nei quali si applica
ciò che si è imparato. In ogni momento si apprende e si applica
contemporaneamente e da ciò che si sperimenta si attivano sempre nuovi processi
di apprendimento.
Invecchiamento attivo