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CHI SONO I CAREGIVERS

Tale termine deriva dalla letteratura anglosassone dei primi anni Ottanta
del Novecento. In Gran Bretagna, negli anni Cinquanta, un gruppo
considerevole di donne lasciava il proprio lavoro retribuito per prendersi
cura del genitore anziano. Queste donne crearono un gruppo distinto dai
familiari: si definivano Caregiver.
- Caregiver formale, l'infermiere o qualsiasi altro professionista
- Caregiver informale, la persona che all'interno della famiglia si assume
in modo principale il compito di cura e di assistenza. La relazione che si
instaura tra caregiver informale e malato è connotata da difficoltà e
sofferenza, ma coloro che tardano ad accettare che il loro congiunto sia
ora una persona diversa, insistendo a mantenere la routine di vita e la
relazione con il malato in modo simile a quelle utilizzate prima della
malattia, andranno incontro a molti più problemi nell’espletare i compiti
assistenziali rispetto a coloro che sanno modificare nel corso del tempo
il proprio atteggiamento, in base al decorso della malattia.
La Famiglia

Sulla famiglia grava gran parte del peso assistenziale e la maggior parte
dei caregiver sono donne (74%):

- In media ¾ della giornata il caregiver la passa ad assistere (il 30,6% di


familiari di pazienti con demenza severa è impegnato più di 10 ore al
giorno nell’assistenza diretta e il 31,7% oltre quindici ore nella
sorveglianza).

- Per il 40% dei casi in cui il malato è ad uno stadio avanzato di


malattia, il tempo libero del caregiver non supera le 4 ore in media a
settimana.
Conseguenze

A) Modificazione della routine familiare (ritmi, gestione vita


quotidiana, necessità).

B) Modificazione della qualità delle relazioni familiari (spesso si


creano attriti tra chi assiste di più e chi di meno)

C) Modificazione delle relazioni sociali: la famiglia si chiude,


emergono invidie e critiche. Capita anche che gli amici spossano
sparire.

E) Emergono difficoltà sul piano lavorativo, finanziario, di carriera


F) Importanti sono le conseguenze per i figli del caregiver che
possono sentirsi trascurati. In alcuni casi anche i figli vengono
coinvolti come assistenti alla cura.

G) La consapevolezza della comune base genetica con il malato può


favorire aspettative di malattia ed una tendenza ad interpretare in
senso patologico ogni proprio momento di confusione o ogni sintomo
difficile da comprendere (es. “tanto lo so che finirò anch’io come lui”)
Le dinamiche del caregiving alla luce della Teoria
dell’attaccamento

Lo studio della storia di attaccamento del caregiver (come esempio


paradigmatico viene qui considerata una figlia) rispetto al proprio genitore
aiuta a trovare risposte alle difficoltà che emergono. E’ altresì importante
porre attenzione sulla storia di attaccamento dell’anziano fragile stesso,
per capire come la relazione passata con le proprie figure di riferimento lo
renda co-costruttore del tipo di cura che riceverà. Lo sguardo si amplia
quindi, abbracciando tre generazioni: l’anziano fragile, i suoi genitori e i
suoi figli, ciascuno con una sua storia di attaccamento.
Secondo la Teoria dell’Attaccamento (John Bowlby, 1979) l’individuo ha
in sé uno specifico sistema comportamentale che lo porta fin dalla nascita
a sviluppare legami di attaccamento verso le figure che si prendono cura
di lui. Da queste prime esperienze significative prenderanno forma nella
persona degli schemi, detti modelli operativi interni di sé e delle figure di
attaccamento, che continueranno a funzionare in modo relativamente
stabile per tutto il ciclo di vita.
Mary Ainsworth (1978) ha descritto tre tipi di attaccamento:
- attaccamento sicuro,
- attaccamento insicuro-evitante
- attaccamento insicuro-ambivalente
Negli anni successivi sono state introdotte altre due tipologie:
- attaccamento disorganizzato-disorientato, descritto da Main (1985)
- attaccamento evitante-ambivalente, descritto da Crittenden (1997).
Nel 1985 George, Main e Kaplan, utilizzando uno specifico strumento
(Adult Attachment Interview, AAI) hanno classificato anche lo stile
d’attaccamento dell’adulto. Gli stili relazionali identificati sono
quattro e sono correlabili ai pattern di attaccamento infantili identificati
dalla Ainsworth:
o stile relazionale libero autonomo (free, corrispondente al B sicuro,
sono soggetti che mostrano valutazioni coerenti nella narrazione delle
loro esperienze, anche in presenza di un’infanzia difficile o segnata da
eventi traumatici. Presentano consapevolezza del passato e raccontano
facilmente anche eventi spiacevoli).
o stile relazionale distanziante (dismissing, corrispondente all’A insicuro
evitante, sono soggetti che tendono a fornire descrizioni generalizzate
dei propri genitori ma non riescono a supportare tali definizioni con
ricordi specifici e dai loro racconti è difficile individuare le emozioni
sottostanti).
o stile relazionale preoccupato (entangled, corrispondente al C
ambivalente, descrivono estensivamente ma con modalità incoerente e
confusa. Dai loro racconti si evince un’inversione di ruolo con i propri
genitori che non costituiscono pertanto una base sicura. Presentano una
seria difficoltà a definire le emozioni).
o stile relazionale irrisolto (unresolved, corrispondente al D
disorganizzato, sono soggetti che non hanno risolto le esperienze
traumatiche legate all’attaccamento, possono presentarsi coerenti nei loro
racconti, ma fanno affermazioni decisamente non plausibili a proposito
delle cause e delle conseguenze di eventi traumatici).
La malattia crea insicurezza nell’anziano per la perdita d’autonomia e per
la paura della sofferenza e della morte, questi stati emotivi sono il
movente che attiva il bisogno di vicinanza e protezione da parte
dell’altro, attivando il sistema di accudimento. Magai e Cohen (1998)
hanno messo in evidenza una correlazione fra stile di attaccamento e
stile di regolazione emozionale di soggetti con demenza, tipologia dei
sintomi della demenza e livelli di burden del caregiver (il carico
assistenziale).
- uno stile di attaccamento premorboso di tipo evitante è associato
con emozioni di rifiuto, rabbia, inibizione e ritiro;
- uno stile di attaccamento premorboso di tipo ambivalente è
associato ad emozioni di ansia e tristezza.
I risultati dello studio mostrano che i soggetti dementi insicuri
manifestano una maggiore ideazione paranoidea rispetto ai
soggetti dementi sicuri, mentre gli ambivalenti manifestano
maggiormente sintomi ansiosi.
Sono stati descritti anche gli effetti sul piano sintomatologico
comportamentale: soggetti insicuri mostrano più frequentemente
disturbi comportamentali e difficoltà nei ritmi quotidiani rispetto a
soggetti sicuri. Tutto ciò influenza marcatamente i livelli di burden dei
caregiver.
Influenze della storia di attaccamento sullo stile di cura

L’attaccamento può essere visto come una chiave di lettura per comprendere
le dinamiche che stanno alla base del riuscire a dare cure all’altro. Di fronte
a situazioni trasformative forti come le malattie croniche, un caregiver
sicuro può avere un miglior adattamento alle situazioni di stress. Viceversa
si può ipotizzare che attaccamenti di tipo insicuro in un caregiver possano
sfociare in situazioni di maggior conflitto, ambivalenza e difficoltà ad
affrontare e regolare le emozioni. I nodi irrisolti e i conflitti presenti, mai
sciolti, condizionano inevitabilmente la capacità di prendersi cura.
Il caregiver non si prende cura di un estraneo, non svolge il ruolo in veste
di professionista, bensì si prende cura di una persona che è in relazione con
lui da tutta la vita, di un genitore con il quale ha legami affettivi che
implicano conflitti passati e attuali, risolti e non risolti.
Inoltre gli stili di attaccamento risultano essere particolarmente rilevanti in
tre aree:
o l’accettare la malattia,
o l’accettare di ricevere cure e di essere dipendenti dall’altro,
o il benessere percepito
Legami familiari e cura degli anziani in Europa
(Ricerca del 2017)

Chi presta cura in Europa? Alla domanda “da quale familiare (vicino
di casa o amico) ha ricevuto assistenza nei 12 mesi precedenti
l’intervista?” nel 57% dei casi il rispondente over 65, indica i figli.
Questa categoria include anche generi/nuore e figli del partner, anche
se le ultime tre tipologie incidono per una percentuale minima (4,5%
in totale). A seguire vicini di casa (11,4%) e amici (8,7%), mentre gli
sposi/partner sono rappresentati per circa il 5%. All’aumentare
dell’età dei rispondenti, come prevedibile, i figli assumono un peso
via via crescente nella cura dei genitori, mentre si assottiglia la
percentuale delle altre possibili fonti di supporto.
Se si confrontano i Paesi europei posti a diverse latitudini, emerge un
gradiente geografico. I Paesi dell’Europa meridionale come Spagna e
Italia si distinguono per percentuali relativamente alte di figli che
forniscono supporto ai genitori, a conferma della visione familista dei
Paesi mediterranei. I Paesi del Centro e Nord Europa, invece, presentano
percentuali minori per la categoria dei figli, compensate da valori più alti
di amici e vicini di casa. Questi ultimi si distinguono soprattutto in
Danimarca (23%) e Francia (17%), nazioni dove i figli caregiver sono
meno rappresentati rispetto agli altri Paesi.
L’eterogeneità nel legame fra genitori e figli che emerge fra diversi Paesi
europei è in qualche modo confermata da un’altra domanda che compare
nel questionario SHARE: si tratta della frequenza con cui i figli hanno
un contatto (telefonico o personale) con i propri genitori. Si è visto
che in Italia i figli contattano la propria madre molto più frequentemente
che in altri Paesi. Ad esempio in Italia il contatto è giornaliero in 6 casi
su 10, in Danimarca poco più che in 1 caso su 10. Man mano che si
procede dal Sud al Nord Europa si nota che la frequenza giornaliera di
contatti diminuisce, a rappresentazione di un legame più debole che
unisce i figli ai propri genitori anziani nell’Europa settentrionale.
Un’altra variabile determinante dei diversi legami che intercorrono fra
genitori anziani e figli è data dalla distanza tra le abitazioni dei figli e
quelle dei genitori. Spesso la scarsa autonomia dei genitori anziani e/o o
la ricerca di un aiuto nella cura dei bambini da parte dei figli che hanno
ancora un ruolo genitoriale attivo, spinge una delle due parti ad
avvicinarsi all’altra, ma anche questa attitudine varia al variare dei Paesi
Europei, con una probabilità maggiore che questo evento si verifichi nei
Paesi del Sud Europa.
Per quanto riguarda le cure personali, sul campione di anziani over-65
il dato per l’Italia è il 73% per le cure giornaliere e 18% per la frequenza
settimanale, invece per Francia e Svezia il dato giornaliero si abbassa
rispettivamente a 48% e 25%.
Diverse evidenze empiriche mostrano che l’aiuto nell’assistenza
personale, se fornito in via informale, ovvero gratuitamente da parenti o
amici, può – nel lungo periodo – impattare negativamente sulla salute
fisica e mentale del caregiver. Perciò la posizione dell’Italia rispetto agli
altri Paesi europei suggerisce la necessità di misure che vadano incontro
alle esigenze di cura della popolazione che invecchia e che viene tuttora
assistita in via predominante dai familiari (soprattutto dai figli).
Il trend demografico in atto suggerisce che ci saranno sempre meno figli
a disposizione per curare i genitori anziani. In particolare negli ultimi
decenni si hanno meno figli rispetto alle generazioni precedenti e ad una
età più avanzata, pertanto il numero di figli che accudiranno i genitori è
destinato ad assottigliarsi e ad avere meno tempo a disposizione per
assistere gli stessi, a causa delle responsabilità verso i propri figli non
ancora autonomi. Tutto ciò suggerisce che le cure prestate dai caregiver
informali italiani su base giornaliera potranno non esser più disponibili
negli anni a venire. Urge dunque una riorgazzazione sociale e
sanitaria.
Il Burden del Caregiver
Si deve a Cristina Maslach una più chiara definizione della “sindrome del
burnout” nell’ambito delle professioni socio sanitarie.
E' caratterizzato da un coinvolgimento emotivo ed un utilizzo eccessivo
delle proprie risorse affettive ed emotive, con conseguente sovraccarico ed
esaurimento emozionale.
E' caratterizzato da un senso di inadeguatezza e dalla difficoltà di stabilire
un efficace relazione d’aiuto.
Cosa influenza il Burden?

A. CARATTERISTICHE DEL PAZIENTE


B. CARATTERISTICHE DEL CAREGIVER
C. CARATTERISTICHE DELLA RELAZIONE CAREGIVER
PAZIENTE
D. CARATTERISTICHE DEL CONTESTO SOCIALE
Gli Strumenti

Cargiver Burden Inventory


• Scala di autovalutazione per l’ansia (ZUNG)


• Scala per la valutazione della depressione (ZUNG)
Perceived Stress Scale

• Zarit Burden Inventory


Caregiver Burden Inventory

La CBI (Caregiver Burden Inventory) di Novak e Guest, è uno strumento


che permette di approfondire le aree specifiche del caregiver su cui il
burder grava maggiormente. E' composto da 24 items, suddivisi in 5
dimensioni di burden:
1 - Carico oggettivo (item 1-5): descrive il carico associato alla restrizione
di tempo per il caregiver;
2 - Carico psicologico (item 6-10), inteso come la percezione del caregiver
di sentirsi tagliato fuori, rispetto alle aspettative e alle opportunità dei
propri coetanei;
3 - Carico fisico (item 11-14), che descrive le sensazioni di fatica cronica e
problemi di salute somatica;
4 - Carico sociale (item 15-19), che descrive la percezione di un conflitto
di ruolo;
5 - Carico emotivo (item 20-24), che descrive i sentimenti verso il
paziente, che possono essere indotti da comportamenti imprevedibili e
bizzarri.
Prevedono una modalità di risposta su scala likert da 0 a 4, con un
punteggio minimo di 0 e uno massimo di 96, in cui più il punteggio è alto
maggiore è il burden del caregiver.
CAREGIVER BURDEN INVENTORY (CBI)
0= per nulla 1= un poco 2= moderatamente 3= parecchio 4= molto

•Il mio familiare necessita del mio aiuto per •Il compito di assisterlo mi ha resa più fragile
svolgere molte delle abituali attività di salute
quotidiane •Sono fisicamente stanca
•Il mio familiare è dipendente da me •Non vado d’accordo con gli altri membri
•Devo vigilarlo costantemente della famiglia
•Devo assisterlo anche per molte delle più •come di consueto
semplici attività quotidiane (vestirlo, lavarlo, •I miei sforzi non sono considerati dagli altri
uso dei servizi igienici) familiari
•Non riesco ad avere un minuto di libertà dai •Ho avuto problemi con il coniuge
miei compiti di assistenza •Sul lavoro non rendo come di consueto
•Sento che mi sto perdendo vita •Provo risentimento verso dei miei familiari
•Desidererei poter fuggire da questa che potrebbero darmi una mano ma non lo
situazione fanno
•La mia vita sociale ne ha risentito •Mi sento in imbarazzo a causa del
•Mi sento emotivamente svuotato a causa del comportamento del mio familiare
mio ruolo di assistente •Mi vergogno di lui/lei
•Mi sarei aspettato qualcosa di diverso a •Provo del risentimento nei suoi confronti
questo punto della mia vita •Non mi sento a mio agio quando ho amici a
•Non riesco a dormire a sufficienza casa
•La mia salute ne ha risentito •Mi arrabbio per le mie reazioni nei suoi
• riguardi


SCALA DI AUTOVALUTAZIONE DELL'ANSIA
di Zung W.W.K (SAS)

La scala si riferisce al Disturbo di Ansia Generalizzato, è costituita da 20


domande ed ha lo scopo di individuare l'intensità dell'ansia in soggetti
adulti in fase pre-diagnostica.
SCALA DI AUTOVALUTAZIONE DELLA
DEPRESSIONE di Zung W.W.K

La scala si riferisce ai sintomi della depressione maggiore e ha lo scopo di


individuare l'insorgenza precoce di sintomi depressivi. La scala è
utilizzabile anche in autovalutazione in fase di prediagnosi.
Perceived Stress Scale

E' uno strumento (self report) che può essere utilizzato al fine di misurare la
componente di stress autopercepito dal soggetto compilante (caregiver) in
termini sia di incontrollabilità, sia imprevedibilità e di sovraccarico (aspetti
ripetutamente confermati come componenti centrali dell'esperienza di
stress). Può essere quindi utilizzato come strumento di approfondimento
della dimensione psicoaffettiva che orienta un intervento psicologico.
Questo strumento permette di misurare le credenze generali sullo stress
percepito dal compilante senza fornire ai soggetti una lista di specifici
eventi di vita (per cui i punteggi non vengono influenzati dal contenuto
dell'evento o da un richiamo differenziale delle esperienze di vita passate).
Quali sono le cause del Burnout?

Lo stress derivante dall’assistenza può essere catalogato secondo tre


diversi criteri:
- Oggettivo, cioè causato da attività reali da svolgere. Rientrano tra queste
la gestione della cura della persona (pulizia, pasti…), la gestione delle
terapie e degli effetti indesiderati, la gestione dei sintomi e dei
comportamenti problematici e la responsabilità nell’assistenza.
- Soggettivo, lo stress è causato dal modo in cui la singola persona vive la
situazione in cui si trova, considerando i propri sentimenti di rabbia e di
perdita (per le rinunce personali), l’angoscia dovuta alla sofferenza del
proprio caro, l’instabilità emotiva legata all’andamento della malattia.
- Istituzionale, cioè derivante dalla difficoltà nel trovare informazioni
e supporto adeguati.
L’istituzionalizzazione definitiva del paziente non rappresenta la
conclusione dei doveri dell’assistenza: i familiari riferiscono ancora un
coinvolgimento nelle responsabilità assistenziali, per una media di 9 ore la
settimana. L’istituzionalizzazione non è neppure un sollievo all’angoscia.
La percezione del carico quotidiano e del sovraccarico di ruolo diminuisce
leggermente, ma aumentano i sentimenti di colpa ed il ricovero non ha
effetti positivi sulla depressione del caregiver. Inoltre, i familiari spesso
rimangono pesantemente coinvolti nell’assistenza del proprio caro e,
invece che ad una riduzione dei livelli di stress, si assiste all’insorgenza di
nuovi fattori stressanti creati dall’ambiente istituzionale.
In molti casi i coniugi manifestavano gli stessi livelli elevati di depressione
per diversi anni dopo la morte del paziente. Dopo il decesso del paziente
sono stati anche riferiti: un sollievo dal sovraccarico di ruolo, un aumento
delle attività sociali e di svago e una maggiore percezione di controllo sugli
eventi. I familiari rimangono però a rischio di depressione prolungata, dato
il lungo e difficile percorso del caregiving. In alcuni casi, la percezione del
sollievo legato al decesso del congiunto, e della conseguente maggiore
disponibilità di tempo, di denaro e di libertà, di movimento e di
socializzazione, si associa ad intensi sentimenti di colpa.
El Empleo

https://www.youtube.com/watch?v=tyQZkgnkkJY
ALZHEIMER CAFFE'
Nasce nel 1997 a Leida, Olanda, da un progetto della psicogeriatra Bere
Miesen, che lo pensa come spazio informale e de-istituzionalizzato per i
malati ed i loro familiari: un luogo accogliente, in cui trascorrere
qualche ora insieme, socializzare, e parlare dei propri problemi, con la
presenza di operatori esperti. Nelle diverse esperienze che si sono
succedute, il Caffè Alzheimer ha avuto interpretazioni diverse:
dall’occasione di formazione/informazione dei familiari (tipico di un
Centro d’Ascolto per familiari), a quella di animazione per i malati
(tipica di un Centro Diurno).
Gli incontri, nello svolgimento pratico, presentano una duplice natura:
quella terapeutica, che dà spazio anche all’informazione, e quella
della socializzazione, alla quale è riservata una notevole
considerazione.
La cadenza degli incontri negli Alzheimer Caffè del Coordinamento è
settimanale: rispetto alla organizzazione mensile, si è ritenuto più
efficace e coinvolgente creare una maggiore frequenza degli incontri.
L’obiettivo è di creare un gruppo che si incontra costantemente, con
maggiore efficacia (il volontariato organizza anche il trasporto, se
necessario). Ai partecipanti vengono somministrati scale di
valutazione standardizzate, all’inizio ed a distanza di 6 mesi
dall’intervento, con l’obiettivo di conoscere l’efficacia in diversi
ambiti: cognitivo, affettivo, funzionale e comportamentale.
Schematicamente, ogni incontro può essere suddiviso in 5 parti:
- la prima è naturalmente l’accoglienza, perché, come avviene in un
normale Caffè, i visitatori arrivano a poco a poco e deve essere lasciato
loro il tempo di accomodarsi e bere qualcosa, ambientarsi. In questa
fase iniziale gli organizzatori accolgono i nuovi arrivati, favorendo la
socializzazione.
Segue una parte “formale” per i familiari (presentazione di un video
sulla malattia, o conferenza da parte di un esperto) nella quale i
caregiver possano apprendere informazioni sulla malattia. Nella terza
parte, un intervallo con musica e bevande, si lascia libera possibilità
all’interazione personale fra gli organizzatori, o l’esperto, ed i caregiver
che preferiscono non fare domande in pubblico. Mentre i caregiver
sono impegnati, altro personale si dedica ai malati, organizzando
attività piacevoli. Al termine dell’intervallo si apre la discussione tra
tutti coloro che vogliono dare il proprio contributo: spazio aperto a
commenti, considerazioni personali, richieste.
Al termine del dibattito inizia la fase conclusiva dell’incontro nella
quale si lascia spazio all’atmosfera informale del Caffè. Alcuni ospiti
andranno via quasi subito; altri, invece, approfitteranno di questo
momento per parlare con altri familiari, ascoltando le loro storie, o con
gli specialisti, bevendo un drink. In alcuni Alzheimer Caffè al termine
dell’incontro si balla e si canta mentre in altri i visitatori possono
annotare le proprie impressioni sull’incontro su una sorta di “diario di
bordo”. Ciò può essere utile per valutare l’andamento del Caffè. Gli
organizzatori possono anche utilizzare questo momento per discutere
con i visitatori relativamente ad eventuali argomenti di futuri incontri.
Operatori e Burnout

L’incontro con l’anziano è un incontro che mai lascia indifferenti.


Ineluttabilmente l’anziano ci costringe a specchiarci in lui, e
cogliere, nel riflesso sul suo volto, echi del nostro passato,
premonizioni funeste del nostro futuro. Chi si relaziona con
l’anziano non autosufficiente deve avere ben presente che può
condizionare la sua libertà, la sua dignità e la sua qualità della
vita. Lavorare con e per l'anziano, qualsiasi sia la figura, richiede
una delicatezza di animo e pensiero anche su ciò che è
l’invecchiamento.
Esso sottrae dei punti di riferimento su cui ci siamo costruiti,
mettendo in discussione la basi narcisistiche su cui ogni
persona si fonda: modifica il corpo, spoglia dei ruoli sociali di
cui ci siamo vestiti e nutriti, sottrae gli affetti, rende estranei al
presente. Gli anziani infatti fanno fatica a riconoscersi allo
specchio e non si riconoscono negli altri anziani.
Il lavoro con l’anziano inoltre ci porta ad affrontare il tema del lutto.
Due lutti in realtà: il loro e il nostro. Il nostro poiché per chi
lavora quotidianamente con l'anziano fragile è chiamato
inevitabilmente ad accompagnarlo al proprio morire. La morte è
un fantasma che grava sull’esistenza degli anziani e sulle nostre
relazioni con loro, condizionandole. La relazione con l’anziano
impone al curante di scontrarsi con vissuti di sofferenza,
angoscia, rabbia, impotenza. Queste risonanze controtransferali a
volte prorompono in comportamenti estremi, talvolta restano
confinate nell’intimità, non sempre cosciente, della persona.
In ogni caso non lasciano indenni né curante, né Paziente.

“....Saper ascoltare chi muore significa saper ascoltare sé stessi nella


relazione”.

Morire non è mai un evento, un processo solo del morente.


METAFORA DELLA BAMBOLA SPEZZATA (Manciaux, 1999)

Facendo cadere una bambola, essa si romperà più o meno facilmente


a seconda:

• del materiale della bambola (rappresenta la resistenza


dell’individuo ai traumi);

• della materia del suolo (rappresenta l’ambiente, la presenza o meno


di reti di sostegno);

• della forza con cui è stata gettata (rappresenta l’intensità del


trauma e la durata dell’evento).
L'elaborazione non può avere una dimensione solitaria, ma deve
essere necessariamente condivisa, questa fiamma può scaldare e
confortare il gruppo, l’Equipe, ma può travolgere e bruciare
dolorosamente il singolo Operatore. Per questo motivo uno dei
metodi, universalmente riconosciuti come validi, per contenere e
contrastare la combustione è quello di esternare, far circolare e
compartecipare le emozioni”.

Come può, in altri modi un gruppo trasformarsi in gruppo


operativo?”
Non basta infatti mettere insieme le persone: c’è tutto un percorso da
fare per passare da un certo numero di Professionisti che
lavorano nello stesso posto, ad una Equipe che lavora insieme su
di un medesimo compito. In un ambiente lavorativo che funzioni
adeguatamente, diventa possibile quella condivisione sociale
delle emozioni che non è solo un fattore protettivo della salute
individuale, ma che può diventare una risorsa in più per le
dinamiche relazionali, l’investimento professionale e la
produttività del gruppo stesso.
TESTIMONIANZA

“Quando cerco di descrivere ad altri la mia esperienza, uso la


metafora della teiera. Come una teiera, ero sul fuoco e l’acqua
bolliva; lavoravo sodo per gestire i problemi e fare del mio
meglio. Ma dopo vari anni l’acqua era tutta evaporata e tuttavia
io ero ancora sul fornello: una teiera bruciata che rischiava di
spaccarsi”

Carol, assistente sociale


Virtual Dementia Tour® (VDT®)

Il VDT® è un metodo originale, innovativo e scientificamente


provato per generare una maggiore comprensione del tema della
demenza, attraverso l’uso di istruzioni e strumenti sensoriali
brevettati. Il percorso esperienziale del VDT® è stato creato dalla
specialista in geriatria P.K. Beville, fondatrice di Second Wind
Dreams®, un’organizzazione statunitense internazionale no profit,
con sede a Roswell (Georgia). Durante l’esperienza del VDT,
facilitatori qualificati guidano i partecipanti, equipaggiati con
dispositivi brevettati che alterano i loro sensi, mentre cercano di
compiere comuni mansioni quotidiane ed esercizi.
Il VDT permette ai caregiver di provare in prima persona le difficoltà
fisiche e mentali che le persone con demenza devono affrontare
quotidianamente e di usare a loro volta questa esperienza per fornire
una migliore assistenza centrata sulla persona (Person-Centred-Care).
Il progetto coinvolge gli operatori professionalmente deputati
all’assistenza delle persone anziane, le famiglie e il contesto sociale in
cui la persona fragile vive. Un risultato molto importante nella
conduzione con regolarità del VDT è la riduzione nell’utilizzo di
farmaci psicotropi una volta che si ha una migliore comprensione del
comportamento atteso.
Ad oggi il VDT è stato condotto da oltre tre milioni di persone in 20
Paesi nel mondo. In Italia, la diffusione del VDT è affidata in
esclusiva e per la prima volta all’Associazione InsiemeAte Onlus, che
la propone su tutto il territorio nazionale.
SERVIZI DI ASSISTENZA
Tipologie

✻ ASSISTENZA DOMICILIARE
• occasionale/estemporanea: intervento domiciliare di carattere socio-
sanitario dedicato ai pazienti che necessitano di prestazioni sanitarie
complesse

✻ Servizi a supporto della domiciliarità


• A.D.A., servizi pasti/lavanderia a domicilio;
• Servizio di trasporto (taxi sanitario);
• Servizio di telesoccorso
✻ SERVIZI DIURNI
• C.D.I. (Centri Diurni Integrati) che garantiscono garantiscono anche
ricoveri notturni;
• C.D. (Centri Diurni)
• Centri Sollievo: per anziani con decadimento cognitivo lieve/medio

✻ SERVIZI RESIDENZIALI
• R.S.A. (Residenze Sanitarie Assistenziali) anche per ricoveri di
sollievo;
• R.S.D. (Residenze Sanitarie Disabili) per pazienti con demenza in
età giovane-adulta;
• Strutture riabilitative per ricoveri temporanei legati ad un evento
acuto riabilitabile.
NUOVE FORME DI ASSISTENZA
I VILLAGGI ALZHEIMER
Villaggio Alzheimer De Hogeweyk di Weesp

Il primo villaggio al mondo per i pazienti affetti da demenza è nato nel


2009 in un paese vicino ad Amsterdam, Weesp. Da questa bellissima
iniziativa hanno poi tratto ispirazione gli altri Paese, compresa l'Italia.
Il villaggio, gestito dalla Vivium Company, accoglie 152 persone con
demenza. Contiene al suo interno 23 appartamenti, e in ognuno di essi
vi abitano dalle 4 alle 7 persone. La struttura dà la possibilità, a chi lo
desidera, di poter entrare insieme al coniuge, anche se uno dei due non
ha un problema di Alzheimer, al decesso della persona con Alzheimer,
il coniuge/compagno, viene trasferito in altro tipo di struttura o torna a
casa.
Nel villaggio sono presenti: ristorante, caffè, negozi, un salone di bellezza,
un teatro e un cinema. Dal punto di vista organizzativo, in ogni
appartamento, c'è una fig. professionale tipo OSS che si occupa di circa 6
persone che: assiste e cucina, inoltre lava i vestiti e la biancheria nella
lavanderia dell’appartamento. I cibi cucinati vengono comprati dall'OSS,
con i residenti che lo desiderano, al market del villaggio. Il pagamento
della spesa avviene con una card dell’appartamento che è compresa nella
retta giornaliera.
Il turno degli OSS è dalle 7 alle 16 e dalle 16 alle 22. Per le pulizie,
vengono considerate 2 ore giornaliere ad appartamento. Viene previsto
un infermiere per ogni 3/4 appartamenti che svolge le funzioni dei
nostri Infermieri (gestione-preparazione e somministrazione terapia e
gestione di altri bisogni). Ogni appartamento ha un armadio farmaci
non divisi per ospite. Il villaggio ha un unico accesso, costituito da
doppie porte in entrata ed in uscita, dove è presente un portiere sulle
24 ore. La retta è di € 190 giornaliere ed in base ad una sorta di ISEE,
gli ospiti possono essere esenti o pagano in quota parte.
Nella retta non sono comprese le attività, esse vengono pagate a parte
dalle famiglie. Ci sono pacchetti di circa 8 attività (ascolto musica,
bingo, cucina, etc.) ad ospite. Per chi ha difficoltà economiche il
comune paga 6 attività ad ospite. Un grande valore per il villaggio è il
volontariato. Sono presenti circa 250 volontari che danno un enorme
contributo nelle attività: il sistema olandese prevede che, per avere il
sussidio di disoccupazione, bisogna restituire in forma di volontariato il
50% delle ore che si svolgevano da contratto di lavoro.
La filosofia, che determina questo tipo di organizzazione, è la
“Normal Life”.
I Villaggi Alzheimer in Italia

I Villaggi sono pensati per lasciare più autonomia e indipendenza ai


malati e rallentare il decadimento cognitivo. Il paese ritrovato a Monza
(2018) e Villaggio Emanuele a Roma sono due esempi di una nuova
modalità assistenziale per le persone che soffrono di lieve e moderata
forma di Demenza. Ci sono bar, cinema, orto, parrucchiere, casette,
chiesa, giardinetti, panchine, qualche negozietto che producono la
sensazione di non essere rinchiusi, ma di sentirsi in un piccolo paese, in
cui si possono muovere in tutta sicurezza e comodità sempre supportati
dal personale medico ed infermieristico.
Un piccolo villaggio autosufficiente nel quale le persone, in tutta
sicurezza, vivono in appartamenti protetti ma possono muoversi anche
in modo autonomo nelle strade e nella piazza, al caffè, nei negozi ed al
cinema, così da condurre una vita quasi normale, sentirsi a casa e
ricevere nello stesso tempo le necessarie attenzioni. Il villaggio è
costruito su misura dei suoi abitanti; tutti i lavoratori del villaggio: il
barista, il giornalaio, la parrucchiera sono operatori socio-sanitari o
professionisti formati per entrare in relazione con le esigenze dei
pazienti.
Le porte dei condomini sono sempre aperte e al posto degli
appartamenti ci sono delle stanze singole su cui c’è indicato all’esterno
in nome del proprietario.
Villaggio Alzhieimer in Canada
Video - Intervista

https://www.rainews.it/dl/rainews/media/Il-Paese-ritrovato-a-Monza-un-
villaggio-su-misura-per-i-malati-di-Alzheimer-6c139cb5-d2a7-4d66-bbbe-
4a4955407f35.html
Critiche

Iniziative come quella del villaggio di Hogewey in Olanda, il primo


villaggio per malati di Alzheimer, possono fare la differenza?
Il villaggio è concepito per poche persone e per le fasi iniziali della
patologia. Se da una parte questo può rappresentare una risposta per
una fase definita e ridotta della malattia, di fatto non modifica in modo
rilevante la presa in carico delle fasi più critiche, rischiando invece di
spingere verso l’istituzionalizzazione persone che, se adeguatamente
assistite, potrebbero permanere a domicilio proseguendo la propria
normal life (invece di una normal life artificiale).
A questo proposito è significativa la domanda che pone il professor
Marco Trabucchi nel libro I volti dell’invecchiare a proposito dei
villaggi Alzheimer: “Una vita più facile o un villaggio dei folli dove,
sotto l’apparente rispetto, si cela di fatto una condizione di
segregazione tra sfortunati?”
Di ispirazione completamente diversa sono invece i progetti che
discendono dall’idea delle dementia friendly communities, che
puntano all’inclusione delle persone con demenza nelle attività
comunitarie e nel contesto cittadino, senza la creazione di strutture
protette ed esclusive, che rischiano di diventare luoghi di solitudine.
Ad oggi sono 14 le comunità al lavoro per diventare amiche delle
persone con demenza, come quelle di: Conegliano (TV),
Abbiategrasso (MI) e Torino (un' intera valle).
La Comunità Amica

La “comunità amica” si adopera per preservare l’indipendenza e il vivere


attivo dei malati e dei loro familiari, coinvolgendoli per identificare gli
aspetti della quotidianità da conservare e quelli da migliorare, le difficoltà
che incontrano nel vivere gli spazi pubblici, favorirne il benessere. Lo
scopo è quello di far sì che le persone si sentano sempre parte della
comunità in cui vivono e possano parteciparvi attivamente. L'obiettivo è
quello di rendere i cittadini consapevoli, aiutandoli a comportarsi nel
modo migliore di fronte ad un anziano in difficoltà. Il progetto è
coordinato dalla Fondazione Santa Augusta.
E' lo stesso gruppo promotore ad individuare le strutture che potranno
vantare il riconoscimento Dementia Friendly, sull'esempio di un
ristoratore stellato che esibisce il proprio certificato di eccellenza. La
formazione in futuro riguarderà tutti gli esercizi pubblici: uffici postali
e banche, ma anche il personale delle forze dell'ordine, la Protezione
Civile, ad esempio, e i Vigili del Fuoco. Il progetto nasce nel 2012, in
Gran Bretagna, dall’Alzheimer’s Society. Numerose, in seguito, le
sperimentazioni a livello internazionale.
Federazione Alzheimer Italia è stata scelta come riferimento e guida del
progetto nel nostro Paese; Abbiategrasso (Milano) la città scelta per
avviare il progetto pilota, seguita in ordine da Giovinazzo (Bari),
Scanzorosciate (Bergamo) e Conegliano, primo Comune ad aderire in
tutto il Veneto. Il progetto vuole combattere pregiudizi e
discriminazioni, sensibilizzando l'opinione pubblica ed evitando così
che il malato ed i suoi familiari rimangano soli nell'affrontare il
dramma della malattia.
Altri esempi di assistenza agli anziani

- Como: co-abitazioni per anziani e studenti. E' un progetto


corrdinato dall 'Auser di Como in collaborazione con il Comune.
Permette di contrastare la solitudine e ammortizza i costi per gli
studenti (in quanto una parte dell'affitto è pagata dal Comune). Stessi
singoli progetti sono stati attivati anche in altre città come a Firenze.
- Triste: l'infermiera di Comunità
- Co-hausing (il primo in Italia si chiama Aquarius in Lombardia)
- Condominio solidale (Torino): piani destinati ad anziani soli e
piani destinati e famiglie in condizioni di fragilità economica. Per
promuovere anche lo scambio intergenerazionale.
- La badante di condominio: Iniziativa del Comune di Milano
ATTACCAMENTO AD UN LUOGO
L’attaccamento a oggetti, luoghi, idee si rafforza con l’età;
indipendentemente dallo status socio-economico, l’anziano riporta di
essere fortemente legato all’abitazione e alla comunità in cui vive,
perché la propria casa permette di ottenere un senso di “comfort”
fisico ed emotivo. L’”invecchiare in un luogo” è un processo
complesso, che non può essere circoscritto al semplice attaccamento
ad una particolare abitazione. Questo processo presuppone che
l’anziano continuamente si reintegri nell’ambiente e metta in
discussione la propria identità di fronte alle modificazioni sociali,
politiche, culturali oltre che personali.
“Casa” è un processo costante di negoziazione di significati,
incorporazione di elementi personali e della comunità circostante.
- “place identity”: identità di luogo (ricordi, sentimenti, preferenze
relativamente ad aspetti del mondo fisico che derivano in gran parte
dal “passato ambientale” dell’individuo, cioè dalla relazione con i
luoghi della sua vita che sono serviti alla soddisfazione dei suoi
bisogni biologici, sociali e culturali).
L’età anziana è caratterizzata da stili di attaccamento di forte intensità e
lunga durata”, per tale motivo, qualora vi sia una rottura
dell’attaccamento ai luoghi, così come alle persone, può comportare
per l’anziano un’esperienza molto dolorosa. La casa inoltre svolge
un’importante funzione di mantenimento delle capacità cognitive
residue, in quanto permette di ricordare eventi del passato, della
storia individuale e delle relazioni affettive avute all’interno di
essa.
Per tale motivo, il trasferimento dell’anziano in un ambiente
sconosciuto può rappresentare una minaccia al benessere
psicologico e fisico dell’anziano.
Nel caso che il trasferimento avvenga verso una casa di riposo, si
devono aggiungere altri fattori stressanti:
 socializzazione forzata con gli altri ospiti;
 mancanza di controllo sulle proprie attività, a cominciare dagli
orari delle normali routine quotidiane;
 problemi di densità e di affollamento
L'INGRESSO IN RSA
LA ROTTURA DEL LEGAME DI
ATTACCAMENTO
ESPERIENZA DI PERDITA/LUTTO
Dal Film “UP”

https://www.youtube.com/watch?v=ZBS5Y4eh4QQ

https://www.youtube.com/watch?v=2HjEbe5swQc
L’inserimento di una persona anziana è un processo delicato, per l’anziano
che ne è direttamente coinvolto e per i famigliari, soprattutto quelli più
vicini ed impegnati nell’accudimento. L’ingresso di un anziano in una
struttura assistenziale è uno degli eventi più delicati e difficili dell’intera
vita.
I familiari sono un polo fondamentale dello spazio comunicativo e
relazionale, e possono essere coinvolti, nei modi giusti in base alla
specifica situazione, per disporre di maggiori informazioni e per
qualificare meglio il rapporto con il paziente. Partire della conoscenza
della vita delle persone anziane, del loro vissuto con il bagaglio di
esperienze negative e positive, delle loro preferenze e della loro
individualità, unica e per questo irriproducibile rappresenta la pietra
miliare per garantire il supporto migliore a queste persone.
La presa in carico da parte dei servizi deve avere lo scopo di
accompagnare l'anziano e la sua rete primaria all'interno di un
percorso di cura condiviso e partecipato affinchè vengano posti
progetti e interventi personalizzati volti a garantire il benessere
globale del paziente fragile e dei suoi cari. Anche loro infatti
sono “attori fragili”.
Le Fasi dell'Ingresso

Si possono individuare quattro differenti fasi di accoglienza,


cronologicamente e logicamente susseguenti l’una con l’altra:
1) la pre-accoglienza
2) l’ingresso
3) l’osservazione
4) la presa in carico
1) La Pre-accoglienza

E' soprattutto una fase informativa da parte dell’RSA e valutativa da


parte delle famiglie, alle quali deve essere lasciato un congruo
lasso di tempo per formare impressioni e valutazioni in merito
alle possibili offerte residenziali presenti sul territorio. La scelta è
un momento critico per la famiglia dell’anziano che ha
l’incombenza di decidere il luogo in cui il genitore trascorrerà
gli ultimi anni della sua esistenza. Proprio per questo motivo la
famiglia non deve sentirsi abbandonata e sovra-responsabilizzata,
ma deve essere accompagnata nella scelta.
2) L'Ingresso

Il momento dell’"ingresso" è poi quello in cui l’ospite forma le sue


impressioni (positive o negative che siano) sul luogo in cui viene
inserito; più che l’efficienza e l’abilità del servizio, i fattori
determinanti per la formazione di un positivo imprinting emotivo
risultano invece essere l’umanità e il calore dell’accoglienza.
3) L'Osservazione

Una volta terminati i primi giorni della fase di ingresso, l’attenzione


può essere riversata sugli aspetti prettamente clinici, ovvero
sull'"osservazione" dell'ospite: monitoraggio delle condizioni di
psico-fisiche, e sul profilo relazionale dell’ospite, conoscendo più
a fondo le sue abitudini, i suoi gusti.
4) La presa in carico

Per garantire la massima qualità della "presa in carico" è dunque di


fondamentale importanza che le professionalità coinvolte si integrino tra di
loro, si coordinino e interagiscano. Un buon modo per far sì che ciò
avvenga può essere quello di pianificare riunioni d’equipe finalizzate
alla stesura di un piano di assistenza individualizzato dell’ospite, che
sia in grado di descrivere il profilo dell’anziano da più punti di vista:
anagrafico, funzionale, cognitivo, emotivo.
Parallelamente occorrerà determinare idonei strumenti di valutazione
delle condizioni cognitive e funzionali dell’anziano, nonché sviluppare
un sistema di controllo costante del processo di erogazione e di
monitoraggio delle non conformità alle procedure stabilite.
Problematiche tra famiglia dell’anziano e servizi

1) capro espiatorio.

L’anziano diventa il “capro espiatorio” , la persona all’interno della


famiglia nei confronti della quale gli altri membri fanno convergere
le tensioni che per il gruppo sono diventate insostenibili. L’anziano
diventa “il colpevole” della rottura dell’equilibrio .
2) SENSO DI COLPA.

Limita nella possibilità di trovare soluzioni nuove e più adeguate.

La famiglia ritiene di non fare mai abbastanza per l’anziano.

Qualsiasi cosa succeda è da attribuirsi alla colpa di qualcuno (probabile


causa: percezione di un debito inestinguibile).
3) Esercizio del CONTROLLO.

La necessità di essere sempre presente e di controllare ciò che accade


esprime la difficoltà di fidarsi nelle capacità dell’altro. Il parente
controlla le attività degli operatori dando sempre un giudizio
negativo del loro operato.
4) OBLIO.

La rottura dei legami con il mondo esterno, compresi i familiari, è un


pericolo reale conseguente all’istituzionalizzazione. La famiglia può
elaborare una specie di lutto parziale e “preparatorio”.

Aiutare i familiari a prendere coscienza dell’importanza della loro


presenza.
Lo psicologo in RSA

Lo psicologo in RSA svolge diverse attività:


• favorisce l’accoglienza: accompagna gli ospiti ed i famigliari nel
delicato momento dell’inserimento, dell’adattamento e della convivenza
in struttura. In particolare, lo scopo del servizio psicologico all’interno
delle residenze che ospitano persone anziane è di favorire e promuovere il
“ben-essere” e lo “stare bene” degli ospiti;
esplora motivazioni e aspettative rispetto al ricovero;

Supporta il percorso di consapevolezza (da parte soprattutto dei

famigliari) nella scelta, a volte sofferta, di questo servizio, indagando


le relative ambivalenze (sensi di colpa nell’affidare il proprio
congiunto a persone estranee);
• compie valutazioni: indaga le funzioni cognitive, il tono dell’umore
e i disturbi comportamentali. Verifica l’adattamento della persona
all’ambiente. Raccogli elementi, insieme agli altri membri
dell’equipe, per la costruzione del PAI (Piano Assistenziale
Individualizzato). Utilizza come strumenti clinici il colloquio,
l’osservazione e somministra test neuropsicologici;
effettua esercizi per stimolare le funzioni cognitive;

• offre sostegno agli ospiti e ai famigliari: valorizza le risorse


individuali e i bisogni dell’ospite. Accompagna i famigliari durante la
malattia del loro congiunto e ad elaborare il lutto;
offre supporto, formazione e supervisione agli operatori: aumenta le

competenze relazionali e comunicative sia verso l’utenza e i famigliari


sia tra gli operatori; accompagna gli operatori per l'elaborazione del
lutto;
Lo psicologo può avere un ruolo specifico all’interno dei Nuclei

Alzheimer (reparti che accolgono persone affette da demenza con


disturbi comportamentali), nei quali supporta i famigliari nel gestire
emotivamente le diverse problematiche, aiuta gli operatori nel
lavoro di cura e collabora con l’equipe per favorire una migliore
qualità di vita per gli ospiti.
In Equipe

• CHI È QUESTA PERSONA?


• QUAL È IL DECORSO DELLA SUA MALATTIA?
• DI QUALE DEFICIT SOFFRE?
•QUALE INFORMAZIONE POSSO TRARRE DAL SUO
COMPORTAMENTO?
•QUALE PROTESI (RELAZIONALE-AMBIENTALE
FUNZIONALE) PUÒ ESSERE NECESSARIA?
• DI FRONTE A UN DISTURBO COMPORTAMENTALE
CHIDERSI SE È CAMBIATO QUALCOSA
I PROGETTI
COME FARE UN PROGETTO RIABILITATIVO

La stesura di un progetto è un elemento indispensabile alla realizzazione


di interventi mirati di stimolazione cognitiva. Progettare con attenzione ci
consente di verificare la qualità del nostro operato in termini di efficacia
ed efficienza.
Struttura del progetto

1) Obiettivo generale
2) Obiettivi specifici
3) Destinatari
4) Condizioni Organizzative
5) Attività previste
6) Indicatori di efficacia
1. Definizione dell'obiettivo generale

In questa parte si deve descrivere ciò che ci proponiamo di ottenere con l’


attuazione del progetto. In altri termini, definisce la meta finale del
progetto. Per esempio potrebbe essere creare uno stato di svago e di
benessere attraverso l’ascolto e l’accoglienza dei bisogni della persona
affetta da decadimento cognitivo.
L’ obiettivo generale di solito viene fissato in termini di:
- promuovere
-prevenire
-valorizzare
2. Definizione degli obiettivi specifici

Gli obiettivi specifici di una attività consentono di definire con maggior


dettaglio le azioni da intraprendere, coerentemente con gli obiettivi
generali. Essi descrivono, nel modo più preciso possibile, i risultati attesi.
Per esempio potrebbero essere: mantenere e stimolare le capacità manuali, le
capacità comunicative ancora presenti, le capacità motorie, gli interessi
coltivati nel passato, le capacità di attenzione e di concentrazione, contenere
la perdita di orientamento e facilitare l’adattamento al nuovo ambiente di vita.
Gli obiettivi specifici si prefiggono di:
- incrementare
- aumentare
- potenziare
- diminuire
3. Destinatari

In questa sezione dobbiamo specificare a chi ci rivolgiamo.


Es. Anziani con demenza di grado lieve? Moderato? Severo?
4. Condizioni organizzative

Le condizioni materiali ed gestionali che rendono possibile il loro


conseguimento:
-Risorse economiche (costi della realizzazione dell’intervento in termini
di personale e di materiali);
- Tipologia, numero di soggetti da coinvolgere e metodologia adottata:
piccolo/grande gruppo; rapporto individuale.
- Personale e altri soggetti da coinvolgere: medico, educatore, oss,
fisioterapisti...; integrazioni con altri soggetti (volontari, familiari...)
- Materiali che consentono di definire preventivamente il budget e
permettono una migliore organizzazione del lavoro di preparazione
precedente all’attività (carta, pennarelli, indumenti…);
- Luogo dell’attività che permette la programmazione ed evita la
sovrapposizione con altre attività assistenziali (es. soggiorno o spazi
dedicati)
- Tempi previsti: durata (trimestrale, semestrale, annuale) e frequenza
ore/settimana)
5. Attività

Sono tutte quelle azioni che poniamo in essere per raggiungere un obiettivo
specifico. Sono progettate sulla base delle capacità del singolo utente
destinatario del progetto e possono coinvolgere le seguenti aree:
- area cognitiva (orientamento alla realtà, reminiscenza, esercizi di
vocabolario, organizzazione logica di informazione, stimolazione sensoriale);
- area del comportamento (terapia occupazionale, rimotivazione, validazione
emotiva);
- area delle abilità funzionali (programmi educativi sull’alimentazione, igiene,
abbigliamento);
6. Valutazione (fase fondamentale)

Ci sono 3 tipi di valutazione.


1) La valutazione (iniziale) per avere un quadro pre intervento e per poter
poi fare i confronti al termine.

2) La valutazione in itinere viene effettuata durante il corso dell’


intervento. È importante perché permette di monitorare costantemente l’
evolversi del progetto, per vedere se il progetto si sta avvicinando al
raggiungimento degli obiettivi. È una fase che permette di apportare
eventuali modifiche o aggiustamenti al progetto.
Per la valutazione in itinere ci si può avvalere di:
- griglie di osservazione
- osservazione diretta dei partecipanti e delle dinamiche, per valutare l’
interesse e le modalità di conduzione delle attività
- discussioni di gruppo
- La valutazione finale serve per valutare l’ efficacia dell’ intero
progetto: si verifica se il progetto ha apportato un cambiamento nella
situazione problema, se è stato capace di raggiungere gli obiettivi che
erano stati prefissati. Per la valutazione finale ci si può avvalere di:
- questionari per valutare la soddisfazione finale nei confronti dell’
intervento complessivo e suggerire modifiche e dare suggerimenti
- test adatti a cogliere i cambiamenti della prestazione cognitiva,
esempio Alzheimer’s Disease Assessment Scale - subscala cognitiva
(ADAS-Cog) (Rosen e coll., 1984).
Indipendentemente dalla patologia, è importante condividere il
progetto di cura con il paziente ed i familiari per avere un’alleanza
terapeutica, indispensabile alla riuscita dell’intervento sia
individuale che gruppale.
La stimolazione a qualsiasi area verrà rivolta si presenta sotto forma
ludica in modo da incentivare il gradimento e la partecipazione
Elementi da considerare quando si progetta

 il profilo cognitivo del paziente risultante da una valutazione


neuropsicologica che definisce il grado di deterioramento, le abilità residue e
quelle compromesse.
 il setting (domicilio; Centri Diurni; ambulatorio medico o ospedale;
strutture residenziali, Casa Protetta / RSA). Il setting gioca un ruolo molto
importante: per esempio, il domicilio, che per per molti versi sembrerebbe
rappresentare un ambito ideale, rende problematico il controllo dei tempi e
delle modalità degli interventi. Il centro diurno facilita la socializzazione,
che potrebbe avere effetti positivi sulla risposta del paziente.
 le risorse disponibili (personale coinvolto e budget).
Esempi progetti di stimolazione cognitiva

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