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Psicologia clinica

Introduzione
Quando c’è l’amputazione di un arto e una istallazione di una protesi c’è una % relativamente alta di pazienti che non l’accettano. Che cos’è
che determina questa non accettazione? Da aspetti psicologici. C’è chi riesce a fidarsi di più del personale sanitario ecc., e la fiducia è
importantissima per l’accettazione di una protesi. Chi si fida di più avrà una maggiore adherence a ciò che gli viene chiesto di fare.
Faremo una riesamina di tutti gli aspetti psicopatologici che possono influire sul comportamento dei pazienti. Da qui ne deriveranno
determinate caratteristiche con cui potersi confrontare.

Stili di attaccamento
Ciascuno ha una modalità di relazionarsi con le persone. I primi autori che discussero di questa differenziazione degli stili di attaccamento,
parlarono di 3 stili, e li videro su dei bambini di 1 anno. C’erano delle evidenze dal punto di vista comportamentale nei bambini quando
venivano lasciati senza la mamma, che poi ritornava  il bambino viveva una “strange situation”, in cui viene portato dalla mamma in un
contesto nuovo, da una persona mai vista. Dentro la stanza ci sono una serie di giocattoli, la mamma lascia il bambino e deve andar via. Sulla
base delle risposte comportamentali sono state create questi 3 stili di attaccamento.
 Sicuro: il bambino in un primo momento piange, poi poco dopo comincia ad esplorare l’ambiente giocando con i giocattoli. Quando
rivede la mamma è contento e tranquillo.
 Insicuro
o Evitante: il bambino non è tanto dispiaciuto, sembra come non avere emozioni forti. Quando viene lasciato solo esplora
l’ambiente. Quando la mamma torna è contento ma non particolarmente. E’ un bambino che quando vive un emozione forte
tende ad evitarla.
o Ambivalente: il bambino si dispera quando la mamma lo lascia. Questa emozione è così intensa che non gli permette di
soffermarsi sui giocattoli. Quando la mamma ritorna il bambino non è contento di rivederla ma è arrabbiato con lei perché se
ne è andata  quindi mostra un atteggiamento ambivalente: sia di rabbia, sia di difficoltà a separarsene.

Negli adulti avviene più o meno la stessa cosa. Per esempio nella coppia, c’è un partner che deve partire perché deve andare a lavorare
all’estero per 3 mesi, l’altro partner lo accompagna all’aeroporto.
 Nel caso dello stile di attaccamento sicuro il partner che viene “lasciato” si consola pensando alle possibilità di oggi di sentirsi anche a
distanza, senza ansie e preoccupazioni.
 Nel caso dell’attaccamento evitante, il partner non mostra emozioni e sembrerà distaccato, “ah va be’ te ne vai? Ciao”. In questo
caso non è solo un tratto di personalità ma è un vero e proprio meccanismo difensivo, la persona non è strafottente o sicura di sé,
ma al contrario hanno una maggiore attivazione neurobiologica, quindi evitano inconsapevolmente emozioni molto forti  è
talmente forte l’emozione che provano che c’è un distacco emotivo, si distaccano dalla situazione. Questo porta con sé delle
conseguenze anche sul tipo di partner che una persona può trovare.
 Nel caso dell’attaccamento ambivalente, la persona è talmente legata all’altro che può vivere una forte ansia “ah, te ne vai, mi
abbandoni, e io sto qui da solo!”, che può portare a problematiche nella gestione delle normali attività per entrambi i partner.

A questa differenziazione se n’è aggiunta un’altra che è stata poco studiata. E’ più rara e più grave  lo stile di attaccamento disorganizzato,
caratterizza individui che hanno comportamenti incoerenti. Rispetto agli altri stili non c’è coerenza e stabilità. Si pensa all’autismo o ad una
grave compromissione comportamentale.
Dal punto di vista medico questo ha ovviamente un affetto sull’adherence e la compliance. Negli altri casi la questione cambia, la letteratura ha
prodotto molti lavori. Nel caso per es. della protesi si è visto che chi ha uno stile di attaccamento evitante può arrivare alla non accettazione
della protesi perché è una persona che vive con difficoltà le emozioni intense. Sicuramente sarà una persona che non parlerà della perdita
della gamba, e quindi non condividendola non riuscirà ad elaborarla. Questa persona potrebbe per esempio non chiamare più, fanno finta di
essersi scordati degli esercizi. Una cosa simile succede con lo stile di attaccamento ambivalente, perché è una persona che da un lato ha
bisogno di certezze e dall’altro è arrabbiato perché non ha una certezza. Le situazioni di incertezza dovute all’inizio di un nuovo percorso con la
protesi lo metteranno a dura prova. Potrebbe prendere la protesi e spaccarla al muro.
Quindi, possiamo capire che ci sono modalità di comportamento che favoriscono o meno comportamenti salutari.

In che modo l’ambiente in cui si vive influisce sullo stile di attaccamento? Si può cambiare?
Lo stile di attaccamento nasce dalle figure di attaccamento che si vivono nella propria vita, soprattutto nei primi 3 anni. Se si ha una madre o
padre o contesto emotivo che favoriva la possibilità di affrontare un disagio, di parlare del fatto che è andata male qualcosa, allora si avrà un
attaccamento sicuro. Ci sono contesti in cui questo non può accadereattaccamento insicuro. Se una mamma è dovuta essere assente e lei è
molto in colpa, tenderà a non affrontare questo tema con il proprio figlio. Non potendolo affrontare, quel bambino vivrà in una situazione in
cui questa cosa diventa poco condivisibile con gli altri. Quindi dopo può pure incontrare persone con cui riesce a parlare di qualcosa che ha
fatto male, ma questo non sarà in grado di cambiare lo stile di attaccamento con facilità.

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Gli stili di attaccamento sono molto stabili, è difficile che cambino ma talvolta capita. Quando cambia non succede perché viene sperimentato
un nuovo stile di attaccamento, ma in genere è come se nella mente di quella persona esistesse già una modalità più efficiente e più
funzionale, che magari quella persona non ha appresso con mamma e papà, ma con la nonna, o altri durante la prima fase di vita. E quindi in
qualche modo quell’altro modello si riattiva. Ci sono casi di soggetti borderline che presentano un modello operativo interno che generalmente
è molto disfunzionale, questo può cambiare, ma solo perché quella persona ha imparato ad usare altre forme che lei ha in memoria, imparate
con altre figure di riferimento.
Sono ovviamente procedure inconsce. Ognuno ha procedure di modalità di relazione che variano in funzione di piccole variazioni, quindi si
hanno diversi modi di confrontarsi.
Alessitimia
Un altro costrutto che è stato considerato negli ultimi 30 anni è quello della alessitimia, che si manifesta con la mancanza di emozioni.
Difficilmente queste persone comprendono le proprie emozioni, non sanno riconoscere stati interni differenziati  come stai? Non lo so. Ci
sono persone che sanno distinguere bene le emozioni che vivono, mentre altre fanno molta fatica a farlo.
Si è vista qualche correlazione, ma non è stato comprovato, con l’obesità. Perché la persona ogni volta che stava in una condizione di
frustrazione, piuttosto che sentirla, aveva fame.
Esistono diversi test per valutare l’alessitimia: semplici questionari per definire quanto una persona è alessitimica. Questo non vuol dire che
questa condizione non debba mai cambiare. Le persone più ascoltavano le emozioni meno le somatizzavano  una emozione quando non
viene sentita viene somatizzata (eritema, mal di testa, gastrite) e questo viene vissuto dalla persone alessitimiche (malattie psicosomatiche).
Quindi il primo impatto dell’alessitimia sulla salute è questo. Una persona alessitimica può essere associata allo stile di attaccamento evitante.
non è abituato a porre attenzione alle emozioni. Quanto costa vivere senza affrontare le emozioni? Lo vedremo più avanti.

I propri tratti di personalità, il rapporto con le emozioni, possono influenzare fortemente il comportamento nei confronti di un trattamento.
C’è una grande differenza tra trauma neurologico e ortopedico. Nel caso della problematica neurologica spesso la variabilità della
menomazione causata dal trauma è talmente importante che è difficile pensare che in quel momento subentri un ruolo psicologico. Invece è
molto facile ipotizzare che il fattore psicologico emerga nel momento in cui c’è una riabilitazione, che potrebbe essere veloce, lenta o nulla.

Psicopatologie: disturbi psicopatologici


In letteratura si trovano tante classificazioni psicopatologiche. Quello a cui ci riferiremo è il DSM5 (manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali), ma non è l’unico. La prima osservazione è che il DSM come tutte le classificazioni diagnostiche varia quasi ogni 2-3 anni. Questo
perché la psicopatologia è influenzata culturalmente. Le classificazioni sono dettate da una convenzione ormai internazionale su determinati
ambiti e comportamenti. Per es. 30 anni fa l’omosessualità rientrava in una vera e propria psicopatologia. Qualcosa di simile è avvenuto al
contrario per la internet addiction, la dipendenza da internet, oppure ci sono proposte nuove anche per il disturbo da lutto complicato,
reazione considerata patologica. Nel DSM5 ci sono proposte per inserire queste due problematiche.
Il DSM è strutturato in 2 assi di disturbi
 Asse 1: disturbi veri e propri, tutti acuti, che hanno un chiaro inizio e possono avere una fine. Benché più gravi, sono più
approcciabili.
 Asse 2: disturbi di personalità, associati a modi di comportarsi, non sono acuti, non intervengono in un preciso momento, ma
hanno a che fare con il modo di essere di quella persona. Generalmente sono meno gravi, sono più egosintonici, cioè sintomi in
sintonia con l’io del paziente. Paradossalmente questi sono più difficili da trattare e cambiare, perché hanno a che fare con la storia
dell’individuo, quindi ci vogliono più anni.

Disturbi sull’asse 1: Psicosi


Tra i disturbi psicotici c’è la schizofrenia. E’ il disturbo psicopatologico più grave che possa esserci, perché rispetto ad altre, la dimensione
psicotica definisce il rapporto dell’individuo con la realtà. Più si va verso la psicosi, più il rapporto con la realtà perde di aderenza.

Sintomatologia
 Subentrano da qui sintomatologie positive caratterizzate da allucinazioni e delirio. Queste per definizione non sono altro che
deformazioni della realtà. Si immaginano situazioni che non esistono o che non possono esistere. Queste sintomatologie sono
definite positive, perché aggiungono qualcosa alla realtà. E sono generalmente allucinazioni di tutti i sensi o i deliri.
 Contrapposte alle sintomatologie positive ci sono le sintomatologie negative, che tolgono qualcosa alla realtà. Hanno a che fare con
comportamenti che includono un ritiro dell’individuo, sia il ritiro sociale che disinvestimento emotivo. Una delle caratteristiche è
quella della chiusura in sé stessi. L’individuo non ha rapporti perché non è interessatodisinvestimento emotivo.
Le due sintomatologie hanno radice diversa perché possono insorgere e andare via in momenti diversi. Es. mentre la sintomatologia negativa è
una sintomatologia che nella cronicizzazione aumenta fortemente, la positiva in genere presenta una curva dove c’è una forte acuzie, ma poi
tende a diminuire. Un altro aspetto che definisce la differenza è il fatto che rispondono diversamente ai trattamenti. Per la sintomatologia

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positiva ci sono o degli psicofarmaci che agiscono in modo specifico, o psicoterapie specifiche. Per la sintomatologia negativa l’unico modo di
combatterla è creare una riabilitazione di gruppo, in cui l’atteggiamento di ritiro tende ad essere contrastato.

Perché una persona ad un certo punto delira?


Una risposta che veniva data è che c’era un problema biologico, generalmente riconducibile ad un aspetto genetico. Per cui si cercava di
collegare l’aspetto psicotico alla mancanza o presenza di un gene. La letteratura internazionale ha individuato una variabilità legata ai
polimorfismi su molte patologie, tra cui la schizofrenia. Una questione che va detta è che se si dicesse che è solo genetica, ciò si scontra con il
fatto che non si ha un marker genetico chiaro, come per esempio quello della sindrome di down. Ci sono studi probabilistici che tendono a dire
che tanto più è presente quel polimorfismo, tanto più c’è probabilità che possa esprimersi quella caratteristica. Questo vuol dire che il fattore
genetico al massimo può essere predisponente, ma anche qui, questo significherebbe che in tutte le persone psicotiche ci debba essere quel
fattore predisponente, e questo non è mai stato verificato.
E’ molto più probabile che ci sia un fattore epigenetico.
EPIGENETICA
L’epigenetica è quella disciplina che studia non come i fattori genetici intoccabili influiscono sull’espressione del fenotipo, ma come l’ambiente
può modulare i propri geni. Negli ultimi 15 anni si è visto che nell’uomo esiste un enorme quantità di DNA che non viene espresso (non
vengono aperti i rubinetti per l’espressione di quei determinati geni). Oltre l’80% del DNA non è espresso. Quindi gli scienziati si chiedevano
perché veniva comunque tutto replicato nelle varie cellule. Il DNA che non è stato utilizzato, in realtà non è che non è servito a nulla, è come se
fossero stati i vestiti che in un viaggio non abbiamo utilizzato (la giacca pesante non la usiamo se c’è caldo, ma la portiamo per precauzione).
Quel DNA non utilizzato in un altro contesto sarebbe stato utilizzato  se si ha di bisogno di proteine per il riscaldamento corporeo, se si va a
vivere in Alaska il rubinetto si apre, se si va a vivere in Equatore si chiude, e si apre quello per traspirare più velocemente. La stessa cosa per il
battito cardiaco, per chi vive in Tibet e chi sul livello del mare. In termini tecnici si dice che il DNA viene metilato (chiuso il rubinetto) o espresso
(aperto). Questo è alla base anche della possibilità di cambiare stile di attaccamento. Uno stress molto forte più creare delle variazioni
importanti nell’apertura e chiusura di geni che potrebbero determinare la manifestazione di psicosi
L’ambiente intorno quindi va a cambiare proprio i geni. Quasi tutti gli uomini hanno la valigia che gli permette di diventare schizofrenici o
depressi o geni del pallone. Saranno le condizioni ambientali che determineranno se io apro o chiudo i geni. E’ chiaro precisare che la genetica
non dà l’informazione su quanto una persona sarà brava o meno, ma dà un range, per es. il tuo muscolo funzionerà da 40 a 60 Hz, quindi è
chiaro che se si becca Maradona il range è da 100 a 180, rispetto alla media che può essere 80-120. Questo è quello che determina il gene, il
fatto che poi la persona fa funzionare il muscolo al massimo è dovuto all’ambiente, alla motivazione.

Quindi i pazienti che soffrono di schizofrenia potrebbero aver vissuto in ambienti tutti simili che hanno fatto esprimere determinati geni?
Sicuramente non hanno vissuto lo stesso ambiente. Molti hanno contesti sociali elevati o facilitati. Per esempio nei campi di concentramento ci
sono stati casi di persone che sviluppavano una patologia psicotica, ma è pur vero che non la sviluppavano tutti.
Ci sono tante teorie a riguardo, però si può dire che non è che è l’ambiente che è uguale, è l’esperienza che l’individuo fa di quell’ambiente che
potrebbe essere simile. Una delle cose che caratterizza queste persone è un forte stress, fattore preponderante, sia nell’esordio, sia nella fase
delle reiterazioni del problema. Es. film “A beautiful mind”  per una persona che è sempre stata più brava rispetto agli altri, e che non riesce
a scrivere una tesi, questa è una cosa insopportabile, a tal punto da non accettare la realtà e preferire una realtà creata che non c’entra nulla.
Ogni volta che c’è un esordio di questa patologia c’è una realtà che è inaccettabile. Uno stress molto forte può produrre anche variazioni
ormonali e nell’espressione dei geni. Gli ormoni determinano il rapporto tra significato e gesto. Sono chiaramente influenzati dai significati che
si danno alle cose che succedono.
Un dato che si conosce è che quando una persona ha una crisi psicotica, a meno che non sia un semplice buffet delirante, tende a riaverla.
Sono rari i casi di persone veramente guarite.
Da un punto visto clinico avere davanti una persona schizofrenica vuol dire avere davanti una persona che con grande difficoltà si fida. E’ una
persona che potrebbe dire sì a tutto, ma poi non fa nulla. Se ha dei deliri non tenderà a comunicarli estremo del disinvestimento alla realtà.
Bisogna essere molto procedurali, scegliere gli esercizi insieme, essere prevedibili nel rapporto con loro. Nell’estremo della psicosi c’è l’autismo
per esempio, e uno dei problemi più grandi è quello della prevedibilità. Diventa un problema anche il tocco.

Le persone pensano che il sintomo psicotico sia una allucinazione fine a se stessa, senza comprendere la carica motivazionale che c’è dietro. Ad
esempio, il film A Beautiful Mind fa capire molto bene quanto la persona sia legata al sintomo psicotico. Infatti, se la persona avesse solo un
sintomo per cui si deforma la realtà e vede delle cose che non ci sono, se fosse solamente questo, noi potremmo semplicemente chiedergli:
“Ma lei è sicuro di quello che ha visto? O di aver sentito quella voce?” Lui inizialmente risponderà che è sicuro, ma poi potrei fargli capire in
realtà è assurdo che abbia visto e sentito quelle cose. Nello psicotico questo non accade MAI: quella persona è legata a quella realtà finta,
perché gli serve per non affrontare la sua fonte di stress  nel film il protagonista crede di essere un uomo dei servizi segreti, per non vedere
in se stesso l’uomo fallito che non riesce a scrivere la tesi.

Una domanda che spesso viene fatta è: che differenza c’è tra la sintomatologia psicotica e la sintomatologia dissociativa?
 Sintomatologia Dissociativa: un individuo ha vissuto un’esperienza lontana da sé, ha avuto una allucinazione. Se è solamente un
sintomo dissociativo o depersonalizzante, quando gli si fa capire che la situazione che ha vissuto è oggettivamente inverosimile, la
persona in seguito ammetterà che è impossibile quello che ha visto.
 Sintomatologia psicotica: La persona psicotica invece non ammette mai che ciò che ha vissuto non è vero, dirà sempre che quella è la
realtà. Quella realtà che non esiste serve a lui per sopravvivere da un punto di vista psicologico, perché se non fosse vera la sua realtà

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finta, allora è vera l’altra realtà, che in qualche modo viene percepita da lui come la morte! Nel film se il protagonista avesse visto la
sua semplice condizione di uomo che non riusciva a prendere il suo dottorato, questo sarebbe equivalso alla morte.

Domanda: Recentemente ho letto un articolo in cui si diceva che anche le persone morte per COVID, in punto di morte negavano di averlo ed
inventavano delle storie per cui non era possibile che esistesse il covid. Può essere legato al fatto che la storia che si sono raccontati serve in
qualche modo a tenere in piedi tutto il castello che è nella loro testa?
Da un punto di vista psicologico quello che tu chiamo castello, in realtà è una sorta di “significato” che serve a difenderti da una realtà che fa
troppo male, quindi io imbastisco un significato che mi fa stare meglio, perché non mi fa vedere la realtà nuda e cruda. Mentre nel caso del
sintomo psicotico c’è una vera e propria aggiunta della realtà, nel caso del negazionismo c’è una negazione.
La negazione distorce meno la realtà, perché semplicemente gli tolgo qualcosa  come i cosiddetti “sordi funzionali”, persone che non
ascoltano solo quello che non gli piace, come meccanismo di difesa psicologico.

L’assetto psicotico invece aggiunge proprio qualcosa alla realtà: se quella persona dicesse che ha visto delle persone che complottavano per
dire che il covid esiste, quando sapevano benissimo che in realtà non esiste e dicesse che ha viste lui con i suoi occhi, allora in quel caso
aggiunge qualcosa alla realtà (inventa).
La negazione è uno dei meccanismi di difesa più comuni, ad ogni livello, per cui tu non vuoi vedere delle cose perché ti fanno troppo male,
quindi quel pezzo di realtà viene completamente rimosso: questo può succedere di solito dopo un trauma personale (come abusi fisici o
sessuali) che tu non ricordi più. Nel caso di traumi collettivi, come un terremoto, invece è difficile che la persona lo rimuova, perché ci sono
stimoli esterni di altri individui che te lo fanno ricordare.

Aggiungere qualcosa ala realtà è sintomi di disturbi più gravi, implica che quella mente per non vedere quella realtà così brutta è disposta a
tagliarsi la possibilità di condividere quegli stati con altri individui: fa talmente male la realtà che il suo sistema psicologico si difende dicendo
“non mi relazionerò più come prima, ma almeno non vedo quella realtà”. Dal punto di vista prognostico, a meno che non sia un episodio
singolo che quando accade viene ben gestito, negli altri casi è possibile che ci siano delle recidive, perché ogni volta che ci sarà qualcosa che tu
non vuoi vedere riparte quel meccanismo difensivo, che è il sintomo psicotico.
Ci sono dei casi in cui delle “buffet deliranti”, cioè un vero e proprio delirio, rimane circoscritto ad un singolo evento nella vita di un individuo; è
molto raro, generalmente caratterizzato dal fatto che quell’individuo ha in sé la capacità di vedere quell’evento spiacevole, nonostante la sua
spiacevolezza e, in un certo modo, accettarlo.

Un altro esempio è quello del ragazzo che all’università non riesce a dare gli esami, ma alla famiglia dice di avere tutti 30, è capitato talvolta
che ragazzi con situazioni simili arrivino al suicidio  in quel caso il meccanismo difensivo non sfocia nel sintomo psicotico, ma ci fa capire
quanto in quelle condizioni un fallimento (come quello di non riuscire a dare gli esami) è impossibile da dire. Nel caso della psicopatologia
contano moltissimo i significati, non l’evento in sé: per alcuni la bocciatura equivale alla morte, per altri semplicemente equivale a stare un po’
male, parlarne con gli amici, o i genitori e superarla.

Un fattore che in tutte le analisi spiega la qualità della vita è la socialità percepita, la percezione della propria condivisione sociale: le persone
che percepiscono maggior supporto sociale sono quelle che stanno meglio e si riprendono meglio dopo i traumi. Perché la socialità è rilevante?
È assodato che tanto più uno ha avuto un problema nella sua vita (diagnosi infausta, un lutto, ecc..) e riesce a condividerlo con chi gli sta vicino,
tanto più lo supererà, quindi la condivisione con l’altro lo aiuterà a superarlo. Coloro che non sono stati abituati a farlo, anche nel momento in
cui gli viene messa davanti una persona con cui potrebbero farlo, non lo sanno fare. Per questo la persona che non riesce a dire ai genitori che
va male all’università, arriva a suicidarsi. Se non ha mai condiviso con nessuno, non è che se ad un certo punto incontra un amico che si rende
disponibile ad ascoltarlo e parlare, allora ci parlerà facilmente, non succede!

Domanda: Se un domani ci trovassimo davanti ad un paziente psicotico, per poterlo aiutare, dovremmo assecondare le sue allucinazioni,
oppure cercare di riportarlo alla realtà? Cosa è più giusto fare?
La prima cosa da capire è che nel momento stesso in cui verrete a conoscenza della diagnosi e ci parlerete, avrete anche voi delle reazioni
emotive. Lui sarà molto evitante nelle risposte (Si, no, forse), creerà una forte distanza emotiva, lo psicotico non ti dà l’impressione di poter
condividere con lui aspetti profondi, rimane molto distaccato. Sarà quindi difficile parlare con lui e, ancora di più, sarà difficile farci raccontare
le sue allucinazioni e deliri.
Negli psicotici uno dei fattori più rilevanti e che ritarda la possibilità di intervenire, è il fatto che ci si deve accorgere che ha le allucinazioni, lui
non lo dirà mai, perché sa già che tu non gliele confermerai: lo psicotico impara che le persone intorno a lui gli negano quella realtà, ma per lui
è vitale, quindi non la dice. Prima che una persona ci dica: “sento delle voci” ci vuole tantissimo tempo.

Se ci dovesse capitare che un paziente si confida con noi su quello che sente, bisogna mantenere un atteggiamento assolutamente neutrale,
senza dare ragione né torto. Non dobbiamo proprio commentare quello che dice: “Ah lei ha sentito queste cose?”
Lo psicotico è terrorizzato dal giudizio degli altri, perché potrebbero distruggere il suo assetto difensivo, quindi non bisogna assumere nessun
tono di giudizio, né eccessivamente compiacente, né troppo distante. Anche con altri pazienti con altri disturbi questa è la cosa migliore, per
esempio casi in cui i pazienti ci fanno provare una forte vicinanza emotiva, essere sempre neutrali è una prospettiva vincente.

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Forse quello che si può fare è utilizzare un polo supportivo o un polo meno supportivo: cioè, io in un intervento posso essere poco supportivo
(più distaccato) o più supportivo, che tende a supportare il paziente parlandogli a facendolo sentire capito. L’intervento supportivo, nel caso
del paziente psicotico, può essere attuato solo quando il paziente manifesta il suo reale dolore  se la persona riesce ad aprirsi con noi e ci
dice, come nel caso del film per esempio, che è un agente dell’FBI e che deve salvare il mondo perché ha inventato un nuovo codice
matematico, in quel caso supportarlo non ha senso, quindi la cosa migliore da fare è mandare un feedback di distanza che però è comprensiva
“Ah quindi questo le sta accadendo?”
Nel caso in cui, invece, il paziente riesca a parlare della realtà, non più delle sue allucinazioni, e ci dicesse per esempio: “Sto passando un brutto
periodo, perché non riesco a passare l’esame del dottorato, sono l’ultimo del mio corso e mi sento incapace” allora in questo caso, l’intervento
supportivo è utile! Questo vuol dire supportare il dolore del paziente per lui costruisce il delirio.

Domanda: Qual è la linea che divide l’inconsapevolezza dalla scelta? Per esempio un attaccamento insicuro in alcune situazioni potrebbe essere
problematico, al contrario di uno sicuro, quindi io avendo la consapevolezza che un attaccamento sicuro avrebbe un risultato migliore potrei
utilizzare quello perché so che è più giusto, non perché mi appartiene.
Se potesse funzionare così sarebbe tutto più semplice! Il problema grande di quando parliamo degli stili di attaccamento, cioè il modo che noi
abbiamo di comportarci, è che in realtà la consapevolezza ci fa veramente poco. Se una persona ha uno stile di attaccamento evitante, la
consapevolezza non aiuta: non è che se una persona diventa consapevole di quella modalità, allora la cambia.
Quante volte abbiamo sentito parlare di donne e uomini che si innamorano sempre dello stesso tipo di persona, anche se ne vorrebbero una
diversa? Oppure quelle donne che rimangono con uomini violenti? In quelle situazioni non è tanto difficile allontanare lui da lei, quanto il fatto
che lei capisca che non deve avvicinarsi ad un uomo così.

Ma così non diventa tutto giustificato? Tutto prevedibile?


Da un punto di vista psicopatologico, le persone che hanno diversi modelli operativi interni, sono quelle più funzionali, cioè le persone che
hanno avuto diverse relazioni nel corso della loro vita (con la nonna, madre, padre ecc…) stanno meglio di quelli che ne hanno avuto uno solo,
perché hanno sperimentato diverse strategie relazionali.
La psicopatologia, infatti di solito avviene quando la modalità di relazione è una e rigida. Queste modalità non sono governabili dalla
consapevolezza, ma hanno a che fare con delle esperienze pregresse che sono inconsce, come il saper andare in bicicletta: noi ci sappiamo
andare, ma non sappiamo come facciamo.
Se un individuo è evitante significa che il contesto sociale in cui ha vissuto rendeva funzionale l’essere evitante: se vivo con una madre che ogni
volta che le parlo delle mie cose personali, lei non mi ascolta, allora io imparo ad essere evitante. Le esperienze che io faccio, quindi, creano in
me una modalità di risposta che è sempre funzionale ai contesti in cui sono vissuto.

Domanda: il contenuto delle allucinazioni dei pazienti schizofrenici deriva da una paura repressa, da un loro desiderio, oppure è casuale?
Non è assolutamente casuale. Ci sono deliri di ogni tipo, che hanno a che fare con la vita del paziente. Per esempio nel caso del film, il
professore ha delle allucinazioni in cui lui era il salvatore del governo, che era il suo più grande desiderio, a scapito delle sua paura più grande,
che era il fallimento nella classe di dottorato dell’università.

Domanda: una persona che diventa schizofrenica inizia da un giorno all’altro ad avere delle allucinazioni, oppure ci sono dei sintomi che si
manifestano prima del delirio?
In letteratura si parla di sintomi podromici della schizofrenia, caratterizzati da: forte ritiro, cambiamenti repentini della propria vita, per cui il
paziente inizia a dormire poco, ad avere un sonno complicato, cali drammatici del rendimento scolastico, iniziare ad avere una chiusura nei
confronti delle relazioni, quindi avere l’incapacità di condividere gli altri i propri stati d’animo. Questi sintomi possono preparare ad una crisi
psicotica.
È molto difficile studiare i sintomi podromici, l’unico modo per farlo è retrospettivamente.

Se si riescono a riconoscere i sintomi podromici prima della allucinazioni, cosa posso fare?
Clinicamente non è facile rispondere. Sicuramente è utile riconoscerli, perché se si riuscisse a riconoscerli anche 15 giorni prima della crisi
psicotica, si potrebbe intervenire con una psicoterapia molto intensa, che provi a scardinare il delirio vero e proprio prima che si inneschi, a
condividere le proprie preoccupazioni.
Di solito dietro a queste crisi, c’è una forte ansia, perché il delirio serve a togliere una situazione che ci fa male, quindi noi possiamo anche
essere molto agitati per quella situazione (lutto, malattia ecc..) e l’ansia è anche uno dei motivi che impedisce al paziente di dormire bene la
notte. A quel punto il delirio può essere la valvola in cui tutto questo scenario di ansia sfocia: l’angoscia si riduce in una realtà che non mi fa più
male, quindi riesco a dormire.
Per aiutare una persona prima che si manifestino le allucinazioni, quindi, si ricollega a quello che dicevamo prima sull’intervento supportivo,
quindi lavorare sulla realtà che ti fa veramente male  prendendo come esempio sempre il film, forse avrebbe aiutato il protagonista la
presenza di qualcuno che gli dicesse: “Non sei il primo dell’università, non riesci a fare la tesi, e allora che facciamo?”  Aiutarlo a farlo
crescere in questa realtà, invece di costruirne un’altra parallela.

Domanda: come possiamo riuscire a metterci nei panni del paziente, cercare di comprendere la sua situazione per fare il miglior lavoro
possibile, e poi uscire da quei panni e non portarsi a casa le problematiche di tutti?

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Questo si rifà molto al concetto del burn out. Sia coloro che hanno più la tendenza ad entrare in empatia, sia quelli che non ci entrano per
niente hanno rischio di burn out. Lo stare male (e gli altri sintomi del burn out), equivale al fatto che la persona non riesce più ad essere
empatica, perché se il peso di tutto diventa eccessivo, allora ho la necessità di tagliare i legami empatici.

Chi fa lavori nell’ambito sanitario di solito ha livelli di empatia più alti di chi magari fa altri lavori, dove invece l’altro è visto come il nemico.
Uno dei fattori di rischio di burn out in questo lavoro è proprio quello di essere troppo empatico  un esempio è la classica persona che ha la
grande motivazione a salvare le persone intorno a lei, ma è importante capire, nell’ambito dell’empatia, dove si può arrivare e dove non si può
arrivare, capire quando l’atteggiamento empatico è utile ad aiutare l’altro e quando no. Se la persona per esempio è depressa e in qualche
modo sollecita l’aspetto salvifico che è in noi quando ci lavoriamo, allora stiamo in campana! Se ci accorgiamo che questa persona inizia a
pretendere di più di ciò che noi possiamo dargli e noi ci sentiamo in dovere di farlo, dobbiamo avere la lucidità di dire “no, non posso più
farlo”.
Un modo per prevenire questo è quello di condividere con i colleghi e amici quello che ci capita, parlare della situazione che viviamo.

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Lezione 21/12/2020

Disturbi dell’umore

Disturbi bipolari: depressione e maniacalità


DEPRESSIONE
Premessa sulla depressione
Spesso si parla di depressione come una psicopatologia estremamente grave. In realtà la depressione come anche l’ansia  di per sé non sono
negative, anzi, possono avere anche un valore fortemente positivo.
Iniziamo dicendo che quando parliamo di “depressione” ci riferiamo a una situazione più psicopatologica, che si differenzia dalla posizione
depressiva. Con quest’ultimo termine intendiamo uno stato d’animo che integra una precedente scissione tra ciò che è positivo e ciò che è
negativo. Melanie Klein è stata la prima a parlare di “posizione depressiva” e ha cercato di capire come questa evolvesse durante lo sviluppo
del bambino. Klein ipotizzava che il neonato fin dalla nascita operasse una scissione tra ciò che è positivo e ciò che è negativo. Nel suo
ambiente, entrambi gli aspetti si riconducono al seno della madre. Ecco quindi che l’assenza del seno (quindi dell’allattamento) equivale ad uno
stato psicologico negativo mentre la sua presenza ad uno positivo. Da questo momento si sviluppa una scissione tra i due stati. Soltanto in un
secondo momento, grazie ad una posizione depressiva, si avrà un’integrazione dei due stati: positivo e negativo.
Questo significa che il bambino comprende che i due stati sono due aspetti appartenenti alla medesima cosa, ovvero il seno materno.
Quest’operazione di integrazione è un aspetto evolutivo (e fisiologico), in quanto permette al bambino di capire che ogni cosa della realtà che
lo circonda è caratterizzata da aspetti positivi e negativi.

Per capire meglio di cosa parliamo, poniamo un esempio del nostro quotidiano: un innamoramento. Quando ci innamoriamo di una persona, la
percepiamo in modo assolutamente positivo e questo perché facciamo una scissione tra ciò che è buono e ciò che è cattivo. Nel momento in
cui ci innamoriamo infatti, non vediamo gli aspetti negativi di quella persona. Appena ci rendiamo conto che l’idea che ci eravamo fatti di
quella persona non coincide con la realtà, questo ci induce a una posizione depressiva che ci permette di mettere da parte l’enfasi iniziale e
quindi di valutare in modo più cauto la persona di cui ci eravamo innamorati. Questo si riscontra anche nel momento in cui dobbiamo
prendere una decisione, abbiamo bisogno di calma in modo da valutare “pro e contro”. Se siamo troppo presi dall’eccitazione rischiamo di
sbagliare scelta. Proprio questa situazione di “calma” viene definita come posizione depressiva e per questo motivo capiamo che può risultare
molto utile e funzionale nella nostra vita.

Depressione
Quando abbiamo a che fare con situazioni di “depressione” dal punto di vista psicopatologico, in letteratura scientifica si dice che questa è
dovuta a un “episodio depressivo maggiore”. In questo caso non parliamo più di qualcosa di “normale / fisiologico” (come la posizione
depressiva) ma di una situazione psicopatologica caratterizzata da tutta una serie di sintomi che vanno da una forte astenia, apatia, eccesso di
ore trascorse a dormire a un eccesso di fame, scarse ore di sonno o ancora una “suicidalità”, ovvero la ricorrenza di pensieri o tentativi di
suicidio. Storicamente quindi si tende ad associare alla depressione, una tendenza al suicidio. In realtà, da come ci accorgiamo nei trattamenti
psicoterapeutici odierni sulla depressione, la suicidalità non è mai in stretta correlazione con la depressione. Esistono infatti molti casi in cui,
una persona si sente “meno depressa” ma presenta comunque dei segni di suicidalità. Può infatti capitare che un paziente possa sentirsi
meglio dal punto di vista umorale e si suicida lo stesso.

MANIACALITA’
Dal punto di vista clinico, è considerata l’opposto della depressione. Maniacalità e depressione, costituiscono quelli che oggi sono chiamati
disturbi bipolari. Il disturbo bipolare è un’alternanza di umore, tra i due assetti: maniacale e depressivo. Lo stato maniacale è uno stato di
eccitazione diffusa caratterizzata da un senso di onnipotenza, il paziente infatti pensa di essere in grado di poter fare qualunque cosa. La
maniacalità (come la depressione) è costituita da livelli di gravità per cui più alto è il livello di maniacalità e più è grave il disturbo. Se nel caso
della depressione avevamo un episodio scatenante (“episodio depressivo maggiore”), nella maniacalità questo non c’è, essa non è legata
quindi a un fattore specifico, ma si verifica in maniera indipendente da quello che ci accade.
Oltre al senso di onnipotenza, una delle caratteristiche principali di questo disturbo è il distacco dalla realtà. In qualche modo le due cose
concordano in quanto il paziente si sente così onnipotente da pensare cose che vanno fuori dalla realtà. Per capire questo aspetto il prof parla
di un personaggio di un film che ha una crisi maniacale molto forte e che pensava di essere così forte da poter lanciarsi dal tetto e poter volare,
saltando da un tetto a un altro. Questo distacco dalla realtà può quindi risultare molto pericoloso e portare ad eventi catastrofici.
Ma perché questa cosa è così grave? Si è visto che la maggior parte dei suicidi legati a pazienti con disturbi bipolari, si ha nella fase maniacale,
proprio per questo loro senso di invincibilità. Per questo distacco dalla realtà, la maniacalità ricorda i sintomi di un soggetto psicotico.
Esistono due stati di maniacalità:
1. Ipomaniacale: caratterizzato da un’onnipotenza che però non è associata a un distacco dalla realtà (non c’è quindi un assetto
psicotico).
2. Maniacale: questa volta l’onnipotenza è associata a un distacco dalla realtà.

I disturbi bipolari possono essere di due tipi:


Tipo 1: caratterizzati dall’alternanza (per questo “bipolari”) tra episodio depressivo maggiore ed uno stato ipomaniacale (minore gravità).
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Tipo 2: caratterizzati dall’alternanza tra un episodio depressivo maggiore e uno stato maniacale (maggiore gravità).

Disturbo da lutto complicato


Una tipologia di pazienti con cui avremo più a che fare sono quelli che hanno un disturbo definito “da lutto complicato” che rientra sempre tra
i disturbi affettivi legati all’umore. Quando una persona vive un lutto questa attraversa delle fasi che sono estremamente fisiologiche.
1. Torpore psicologico  La prima è la fase di torpore psicologico: in cui si rimane ancora storditi, non capiamo bene cosa è successo.
Dal punto di vista psicologico, è come se l’impatto dell’episodio non “ci tocchi” ancora.
2. Protesta  La seconda è la fase di protesta nella quale proviamo rabbia per il fatto di non poter accettare la mancanza di quella
persona.
3. Accettazione  La terza fase, è il superamento della protesta ed è caratterizzata dall’accettazione della perdita. In genere per questa
fase, secondo la letteratura scientifica, ci vogliono dai 6 ai 12 mesi. Ci sono però dei casi in cui anche dopo molti anni la persona
mostra segni di disturbi affettivi da lutto complicato. Questo perché la persona ha difficoltà ad “elaborare” il lutto e quindi a
“superarlo”. In questi casi è abbastanza intuitivo accorgersi se una persona ha elaborato o meno il lutto; lo vediamo ad esempio se
questa comincia a piangere non appena ne parla. A questo punto si apre un importante aspetto: perché parlare del lutto con la
persona che l’ha avuto? Perché quindi parlare dell’episodio spiacevole, traumatico, doloroso con la persona che l’ha vissuto? Di
questo ne parleremo più avanti, quando parleremo dei disturbi postraumatici.

Disturbi d’ansia
I disturbi d’ansia sono la terza categoria di disturbi, tutti caratterizzati dall’ansia. Questi sono: ansia generalizzata, attacco di panico e fobie
specifiche.
Anche qui vale quello che abbiamo detto per la depressione. L’ansia in sé non è negativa. In certe occasioni, come ad esempio una
performance sportiva, avere un po’ di ansia è funzionale all’obiettivo stesso. Il problema giunge quando l’ansia supera un determinato livello ,
comportando un peggioramento della performance . Quando è allora che l’ansia diventa un disturbo psicopatologico? Quando è immotivata.
Quest’aspetto di fondo accomuna un po’ tutti i disturbi di ansia che vedremo di seguito.
 Disturbo d’ansia generalizzata: E’ uno stato di agitazione perenne. Non c’è quindi un momento particolare di acuzie, ma si ha in modo
perenne lungo tutta la giornata e senza un motivo identificato.
 Disturbo da attacco di panico: Caratterizzato da un picco (acuzie) che avviene in un momento preciso che può essere ad esempio
quando si trova sull’autobus o quando sta facendo una visita medica. La sensazione che provano i pazienti in quel momento è di “morte
imminente” e per questo vengono spesso confusi con gli infarti.
 Disturbi da fobie specifiche: Sono dei disturbi d’ansia legati a fobie come ad esempio l’aracnofobia, l’agorafobia (paura di stare in mezzo
alle persone) o la claustrofobia. Tutte quante sembrano non giustificate da un reale motivo.

Un aspetto interessante dell’ansia è il fatto che alle volte questa si manifesta in determinati momenti per cui magari si potrebbe pensare che
l’origine dell’ansia sia da ricercare in quel determinato fatto/episodio/oggetto. In realtà quello che può succedere è che il paziente che magari
sta vivendo un periodo particolarmente stressante come un trasloco, un matrimonio in vista o altro, riversi tutte queste sue preoccupazioni in
un altro oggetto, diverso da quello di origine. Per cui il paziente potrebbe ignorare che la preoccupazione derivi ad esempio al fatto del trasloco
e lo riversa in qualche altro oggetto nei confronti del quale però non c’è un reale motivo di aver paura. Quindi in termini molto lassi, non
utilizzando criteri rigidi, quasi sempre i disturbi d’ansia sono frutto di un meccanismo difensivo che viene definito “ spostamento” che consiste
appunto nello spostare l’oggetto ansiogeno in un altro oggetto che però nella realtà non dovrebbe creare ansia. In tutto questo però il paziente
crede di avere un valido motivo per avere ansia nei confronti di quell’oggetto.
La componente difensiva e di protezione dello spostamento è data dal fatto che per il paziente, pensare a quel determinato oggetto
(trasloco,matrimonio) provoca un’eccessiva ansia e viene quindi “ignorato”, andando a rivolgere la sua attenzione a qualcos’altro fino al punto
da ritenere questo la vera causa di tutto. Rispetto alla depressione e ancor di più rispetto alla psicosi, la prognosi di un disturbo d’ansia è in
generale più favorevole  Tante persone possono aver vissuto un disturbo depressivo maggiore circoscritto nel tempo e poi non averne più, al
contrario della psicosi, che invece permane nella maggior parte dei casi per sempre.

Adesso andremo a vedere altri due disturbi dell’umore che però sono stati tolti nell’attuale DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali) dalla categoria “disturbi d’ansia” e sono stati messi come disturbi a sé stanti. Si tratta dei disturbi postraumatici da stress e dei disturbi
ossessivi compulsivi.

Disturbo ossessivo compulsivo


Caratterizzato dall’avere delle compulsioni o delle ossessioni. Quest’ultime hanno a che fare con un’idea, che si ripetete di continuo
(un’ossessione appunto); le compulsioni invece hanno a che fare con un comportamento come ad esempio quello di lavarsi sempre le mani o
ancora camminare solo sulle mattonelle di un certo colore, situazioni che mostrano un atteggiamento di controllo esasperato (compulsivo
appunto). Perché tempo fa questo disturbo rientrava in quelli legati all’ansia e ora non più? Perché il tratto ossessivo ha a che fare con un
controllo dell’Io dell’individuo, che vuole controllare l’ansia con dei comportamenti e con delle idee. Dietro c’è quindi sempre l’ansia, soltanto
che nei disturbi d’ansia visti prima questa viene espressa e basta mentre nell’ossessivo si assiste a dei segni di controllo di questa. Quindi
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paradossalmente l’Io dell’ossessivo è molto strutturato e molto forte, non si “arrende” all’ansia ma interviene tramite dei meccanismi di
controllo che però risultano ossessivi e compulsivi.

Disturbo post-traumatico da stress


Spesso si associa anche alle perdite, come un lutto. Si tratta di un disturbo che caratterizza le persone una volta che hanno un trauma. Anche in
questo caso, non rientra tra i disturbi d’ansia perché in realtà è vero che c’è l’ansia, ma questa è originata da un evento preciso: il trauma (per
cui non è immotivata). Oggi col termine “trauma” si ha un’accezione estremamente generica, se dovessimo quindi definirlo lo potremmo
intendere come “la percezione di un evento come qualcosa che interrompe il senso di continuità della nostra esistenza”. In questi termini anche
un trasloco può essere percepito come un trauma o ancora l’aver visto un incidente stradale mortale. Dato che parliamo di percezione è facile
ed intuitivo capire che si tratta di qualcosa fortemente soggettivo. Non esiste un trauma puramente oggettivo anche se ci sono determinate
caratteristiche che rendono un certo trauma particolarmente gravoso.
Qual è la sintomatologia di questo disturbo?
1. Il primo sintomo è la dissociazione. Quando infatti accade un evento traumatico la prima reazione che si può avere è quella di non
considerare l’accaduto in sé o la parte emotiva di esso. Per intenderci, immaginiamo una persona che ha appena visto/vissuto qualcosa
di sconvolgente, come ad esempio un incidente mortale, e una volta salito sull’ambulanza ci racconta tutto l’accaduto con estrema
calma, come se non fosse accaduto a lui, per cui sarà anche molto dettagliato nel suo racconto perché la componente emotiva non l’ha
travolto/coinvolto. Questo avviene perché appunto si ha avuto in quella persona una dissociazione dalla parte emotiva, la persona infatti
risulta fredda.
In certi casi si può verificare una dissociazione totale e qui parliamo di rimozione. La persona ha rimosso il ricordo dell’evento traumatico
e non lo ricorda più; è una situazione più rara ma esiste. Anche in questo caso la dissociazione come prima reazione a un evento
traumatico è un meccanismo difensivo. La componente emotiva è talmente forte e disorganizzante che in qualche modo la persona pur
di non viverla, la mette da parte, la dissocia appunto.

2. Oltre alla dissociazione, un’altra reazione tipica di un disturbo postraumatico da stress è l’iperattività. Le persone che reagiscono in
questo modo appaiono confuse, prese dal panico, non sanno cosa fare.

Tra le due tipologie di reazioni, la più grave e più complicata da gestire è quella della dissociazione in quanto non solo è più difficile da
individuare, ma anche perché questa non permette alla persona di “elaborare” meglio il trauma. Sappiamo dalla lezione scorsa che un trauma
viene meglio elaborato quando il paziente ne parla, più ne parla e più lo elabora. Il paziente iperattivo è un paziente che ne parla dando ad
esso un giusto peso alla componente emotiva. Il dissociato può anche parlarne ma senza mettere dentro le emozioni per cui dovremmo fare
un lavoro enorme per permettergli di “riacchiappare” quelle emozioni che lui aveva dissociato.

Da qui si apre un altro importante aspetto, ovvero: perché se una persona è dissociata dobbiamo andare a risvegliare in lui (parlandone) tutte
quelle emozioni che aveva dissociato? Perché si deve elaborare un trauma? Se la persona non elabora il trauma non se ne libererà più. Per cui
ogni volta che si ripresenta una situazione simile a quella traumatizzante o anche semplicemente viene rievocata parlandone, si produrranno
in quella persona i cosiddetti “flashback” attraverso i quali essi rivivono le stesse emozioni dell’evento traumatico. Il punto è capire perché la
nostra mente compie questi flashback; magari uno dei motivi potrebbe essere che questi altro non sono che un tentativo della nostra mente di
elaborare il trauma. Inoltre il fatto di associare a quel determinato evento traumatico determinate emozioni non fa altro che fissarlo nella
memoria di quella persona; più è intensa l’emozione legata all’evento e più quell’evento sarà ricordato.

Detto questo quindi, qual è l’invalidità che comporta il non elaborare un trauma? E quali sono gli ambiti maggiormente coinvolti da questo e
quindi invalidati? La principale invalidità sta nell’incapacità di condividere la propria intimità con le altre persone, ovvero esporre una parte
intima della nostra persona agli altri. Avere dei traumi pregressi non elaborati, può quindi bloccare quel processo di intimità, di profondità con
la quale ci relazioniamo con gli altri. Per capirci meglio, immaginiamo di perdere la nostra fidanzata/o in un incidente. Nel momento in cui ci
fidanziamo con un’altra persona senza però aver elaborato del tutto il trauma, non riusciremo mai “ad aprirci” con questa persona. Non
riusciremo quindi a metterci in gioco e a mostrarci “allo scoperto”, per cui agli occhi dell’altra persona risulteremmo freddi, cinici, chiusi.
Possiamo quindi affermare, tornando alla domanda di prima sul perché è così importante fare elaborare un trauma in una persona, che il vero
problema di una mancata elaborazione è il fatto che non riuscirà a vivere in modo adeguato e profondo le intimità della propria vita presente.

Quand’è che una persona elabora un trauma? Non c’è una risposta univoca e perfettamente corretta in letteratura ma sicuramente uno dei
comportamenti che più ci fa capire che una persona ha elaborato un trauma è il fatto che non solo ne parla ma lo fa in un modo
moderatamente distaccato. La cosa importante e fondamentale quindi è che l’assetto emotivo deve essere coerente con quanto raccontato.
Se una persona racconta di un incidente dove ha perso la moglie in modo eccessivamente sereno, magari raccontando nel dettaglio anche i
particolari che hanno caratterizzato quell’evento, evidentemente quella persona non ha elaborato il trauma, in quanto è come se non desse il
“giusto peso” alle emozioni vissute. Pertanto, riassumendo, la chiave che ci permette di capire se quella persona ha elaborato o meno il
trauma è la coerenza tra la risposta emotiva e quanto viene detto. Sicuramente questo è un criterio molto soggettivo ma ad oggi non ci sono
altri criteri, altre chiavi che ci permettono di capirlo meglio.
Come si fa ad aiutare una persona che non ha elaborato un trauma?
In qualunque situazione, in genere, stando a quello che abbiamo visto prima, parlarne apporta un beneficio rilevante.
Perché quindi parlarne? Non si potrebbe elaborarlo da solo?
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Sicuramente ognuno di noi ha un proprio modo per affrontare una difficoltà. Ci sono persone ad esempio che evitano di parlarne perché
magari non ritengono il loro episodio importate e se lo tengono per sé. Il problema è che questo non parlarne produce degli effetti, ha delle
conseguenze sulla loro vita e sulle loro relazioni. Tanto più si riesce a condividere un assetto emotivo con gli altri quanto più elaboro l’episodio.
Spesso le persone che pensano di poter superare tutto da soli, a lungo andare possono risultare personalità poco resilienti, quindi meno forti.

Paradossalmente le personalità più forti sono quelle che decidono di condividere con qualcun altro il proprio trauma. Parlare con qualcun altro
è molto utile per farci capire se abbiamo superato o meno un trauma, in qualche modo conferisce oggettività alla situazione. Spesso capita
infatti che siamo convinti di aver elaborato e superato un trauma e invece non è così o al contrario, siamo convinti di non averlo superato
quando in realtà l’abbiamo fatto. Un parere altrui, una parola di un’altra persona è importante per farcene rendere conto. Se tengo tutto per
me, questo processo non avviene in quanto prendono piede maggiormente tutti i meccanismi di difesa e di protezione che in qualche modo
pur di “mettermi al sicuro” non mi fanno affrontare il problema, andando a deformare l’evento per far meno male alla mia personalità. Per
personificare questo concetto, il prof parla del capitano dell’esercito in “Forrest Gump” . Egli non si da pace per quello che la guerra gli ha tolto
(se non ricordo male l’ha reso invalido e in carrozzina) ma il fatto di aver condiviso quell’evento con Forrest (in Vietnam) e quindi l’averne
inevitabilmente parlato con lui, l’ha aiutato a elaborare la vicenda.

Ci sono dei casi in cui le persone non sanno nemmeno condividere degli episodi positivi. Noi finora abbiamo visto dei casi di episodi negativi,
dei traumi ma ci possono essere anche degli eventi positivi che possono rappresentare dei drammi enormi per chi li vive. Un esempio di questi
è la vincita alla lotteria. Ci sono persone che vincono milioni di euro e poi li dilapidano, andando in rovina, peggio di come stavano prima.
Questo potrebbe spiegarsi col fatto che una persona potrebbe non essere pronto a gestire un episodio così “positivo” come una vincita alla
lotteria.

ESERCITAZIONE PRATICA: INTERVISTA AL PAZIENTE


Abbiamo simulato una situazione in cui un terapista (scelto da noi) doveva capire il problema di un ipotetico paziente (sempre scelto da noi)
durante un colloquio.
Punti salienti:
- Indagare su come si è sentito il paziente, ovvero se pensa di essere stato trattato bene o anche se si è sentito rassicurato e confortato.
- L’importanza di analizzare lo stato d’animo del paziente durante il colloquio. Vedere se è ansioso, se è disposto al dialogo o no.
- Come relazionarsi col paziente? L’importanza dell’empatia. L’efficacia di un rapporto di fiducia e complicità col paziente, stabilire un
obiettivo comune da raggiungere. Rassicurare il paziente che potrà (laddove è possibile) ritornare a fare quello che faceva prima.
Dobbiamo far capire al paziente che noi abbiamo ben compreso la sua situazione e la stiamo prendendo a cuore per risolverla. Noi siamo
dalla sua parte.
- Capire quali sono le aspettative del paziente. Cosa si aspetta dalla fisioterapia? È propositivo? È pessimista?
- Evitare di parcellizzare il problema. Dobbiamo intervenire a 360 gradi, devo capire il suo disagio non solo fisico ma anche psicologico (il
pallavolista non può più giocare il campionato).
- Devo capire fino a che punto, da terapista, posso entrare o no dentro il perimetro personale del paziente. Ecco quindi che in certi casi la
discrezione risulta un’arma vincente per non risultare troppo “invadente” e portare così dalla mia parte il paziente. Da qui quindi la
bravura e l’umiltà del terapista nell’approcciarsi. La cosa importante è trovare quindi il giusto compromesso tra distanziamento
(discrezione) e avvicinamento (fare domande,empatia). Se infatti faccio troppe domande e magari anche “scomode”, in alcuni casi, posso
innescare un meccanismo di difesa in quel paziente che si chiuderà in sé stesso. Dall’altra parte però se gliene faccio troppo poche, non
solo non lo aiuto a parlare del suo problema (ritorniamo al concetto del trauma) ma rischio di spersonalizzarlo e dunque di non
prenderlo pienamente in carico. Se gli faccio solo poche domande tutte inerenti al suo problema fisico non riuscirò a comprendere in
toto il mio paziente e quindi a portarlo dalla mia parte (complicità e alleanza).
- Non dobbiamo temere di avere microrotture (es. litigi) col paziente perché questi, in base a come si ricuciono, possono portare a
un’alleanza maggiore di quella che ci potevamo aspettare.
- NON esistono delle linee guida che possiamo seguire per relazionarci in modo esatto e univoco con un paziente che ci manifesta un
dolore, come ad esempio quello di non poter giocare più un campionato, di non poter fare più un certo lavoro. Quello però che
dobbiamo impegnarci a fare è ascoltare il nostro paziente, fargli capire che ci stiamo sforzando di capirlo e di comprenderlo.
- Parlare con dei colleghi di certi casi delicati con dei nostri pazienti può essere molto importante per evitare un burnout anche da parte
nostra a causa di un eccessivo coinvolgimento emotivo.

Domande:
“Esiste una correlazione genetica con i disturbi bipolari?”
Al momento non è stato trovato alcun gene responsabile di tali disturbi (come per nessuna psicopatologia), quindi la risposta è no. Tuttavia
alcune situazioni e contesti stressanti, facilitano un ‘espressione comportamentale disfunzionale (come un disturbo bipolare). Inoltre secondo
uno studio scientifico, i traumi dei padri giungono ai figli. Questo significa che non vengono trasmessi geni bensì situazioni, contesti.

“Il disturbo bipolare è sempre scatenato da una causa come nella psicosi?”
Nel caso ad esempio della depressione vera e propria , questa può nascere da vari fattori, come ad esempio una forte impotenza che chiude
l’individuo di fronte alla possibilità di reagire a qualunque situazione. Il depresso ha un assetto valoriale molto forte, è come se avesse un

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giudice interno “sadico” che gli dice che qualunque cosa fa è sbagliata. A quel punto quindi non reagisce più. Nel caso della maniacalità, questa
è un vero e proprio meccanismo difensivo tant’è che si manifesta soprattutto quando le cose vanno male. Se la persona ha una situazione
gravosa, l’eccitazione sale per evitare di vivere realmente quell’episodio, un po’ come se fosse una dissociazione che gli impedisce di vedere ciò
che gli fa male.

“Anche la maniacalità, come la posizione depressiva, può risultare funzionale?”


Assolutamente si. I meccanismi di difesa della maniacalità, in certi limiti, sono ritenuti in qualche modo fisiologici. La fisiologia si mantiene
quando si ha un’alternarsi equilibrato tra depressione e maniacalità. Nel momento in cui i meccanismi di uno dei due superano un certo limite,
si perde la loro funzionalità e possono anzi portare a importanti conseguenze.

Lezione del 11/01/2021


Riassunto lezioni precedenti

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Il primo argomento che abbiamo affrontato era quello dei disturbi psicotici: abbiamo parlato anche della paranoia oltre alla sintomatologia
positiva; quindi della schizofrenia paranoide e del sintomo più forte che caratterizza questo tipo di disturbi, ovvero proprio il distacco con la
realtà. Una delle caratteristiche che incontrerete in questo tipo di pazienti è il fatto che loro tendono a tenere nascosta la loro tendenza a
Questa mancata condivisione generalmente crea un tipo di comportamento difficilmente comprensibile da chi sta dall’altra parte: queste
persone spesso risultano decontestualizzate; la loro reazione emotiva è talvolta fortemente incongruente con quello che viene detto e fatto,
rendendo dunque difficile relazionarsi a loro. In genere la cosa migliore da fare è cercare di rispettare gli stati emotivi di questo tipo di paziente
e di muoversi con cautela, non dando mai giudizi su quello che viene detto.
Inoltre bisognerebbe cercare di rapportarsi con la “parte sana” di quell’individuo, quella che gli permette di rapportarsi con gli altri; ad
esempio facendolo focalizzare su quelli che sono gli obiettivi attuali della terapia e facendolo dunque per così dire “tornare coi piedi per terra”;
in questo modo andiamo a rassicurare il paziente stesso, che così sente che la parte psicotica, che si discosta dalla realtà, è contenuta.
Tendenzialmente un terapeuta che si rapporta con questi pazienti può esser spinto ad un certo punto ad affermare frasi del tipo “Senta, a me
può anche dirle queste cose, può parlare di queste sue allucinazioni”; in realtà al di là del fatto che si verrebbe a creare una situazione di
difficile gestione, è anche estremamente difficile che il paziente accetti questo consiglio e si apra al terapeuta. Questo perché è come se ci
fosse una sfiducia di fondo verso gli altri che li spinge a non voler condividere questi aspetti della propria vita.

Per quanto riguarda la sintomatologia depressiva, il paziente generalmente suscita delle emozioni nel terapeuta tra loro contrastanti in
quanto:
o Da un lato ci può essere un vissuto di estrema impotenza che genera nel terapista una sorta di allontanamento o addirittura una
sensazione di non gestibilità e rifiuto di un paziente di questo tipo;
o Dall’altro ci può essere la reazione opposta in cui il terapeuta si sente il “salvatore” del paziente (reazione più comune). Questo
modo di porsi di questa tipologia di pazienti, come coloro che hanno bisogno di essere salvati, è una sorta di trappola che creano
inconsapevolmente e che porta all’instaurarsi di dinamiche assolutamente non fruttuose nel caso dei depressi.
La cosa migliore da fare solitamente è cercare di dare una sorta di “pacca sulle spalle” supportiva, se tuttavia si percepisce che questo non
porta a nulla, bisogna tentare di responsabilizzare il paziente domandandogli ad esempio: “Cos’è che lei può fare per migliorare il suo
problema?”, invece di porsi come colui che può fornirgli la soluzione al problema. Generalmente il depresso assume questo atteggiamento non
perché vuole delle soluzioni, ma perché creare relazioni di questo tipo è un modo di controllare l’altro; arriverà difatti il momento in cui
qualunque soluzione proposta dall’ipotetico “salvatore” non verrà accettata dal paziente, portando a delle situazioni in cui si generano
emozioni negative di frustrazione o rabbia nel terapeuta nel momento in cui deve avere a che fare con quel paziente.
Dunque mantenere una certa “distanza fisiologica” nel caso in cui l’altra persona è depressa, risulta importante ai fini di mantenere un setting
relazionale terapeuta-paziente adeguato.

Nel caso dei disturbi maniacali la questione cambia radicalmente perché il paziente maniacale è colui che presenta soluzioni onnipotenti,
quindi ci si potrebbe trovare di fronte a situazioni di crisi maniacale acuta in cui la persona si sente particolarmente eccitata ed onnipotente; in
questo caso la cosa migliore è cercare di non colludere con quello stato del paziente, ma semmai tentare di ridimensionarlo e placarlo con un
forte senso di realismo. Una delle caratteristiche di questo tipo di pazienti è che generalmente dicono sempre di effettuare correttamente
qualsiasi tipo di terapia gli venga prescritta, ma in realtà bisogna dubitarne in quanto hanno il problema di non aderire mai alla terapia
farmacologica (importante dunque controllare, per quanto possibile, che stiano seguendo la terapia o meno).

Nel caso dei disturbi d’ansia si avverte subito questo stato emotivo del paziente, in quanto l’ansia è una delle emozioni più contagiose che
esistono, basta pochissimo per avvertire le emozioni di una persona ansiosa.
Bisogna dunque con calma cercare di tranquillizzare la persona e darle finalità molto chiare, questo è utile farlo anche:
 Nel disturbo ossessivo compulsivo (OCD): in cui il paziente non è ansioso ma controlla l’ansia, e dunque risulta in genere al terapeuta
particolarmente noioso perché è attento a particolari e a situazioni che non sono orientate al compito/obiettivo che il terapeuta
vorrebbe perseguire insieme al paziente stesso.
 Nel disturbo post-traumatico da stress (PTSD): in cui possiamo trovare sia un paziente fortemente iperattivo sia un paziente dissociato.
Nel caso del disturbo dissociativo quello che il terapeuta generalmente percepisce è una sorta di assenza emotiva del paziente, come
se egli parlasse di cose che non lo riguardano minimamente. Ad esempio una persona che ha subito un trauma, delle perdite
importanti, sembra che parli invece di qualcosa estraneo a sé, accaduto a qualcun altro. In questo caso la cosa migliore è anche
rispettare questa scelta “difensiva” del paziente, quindi se risponde in modo fortemente freddo o distaccato. Nel caso in cui invece il
paziente tentasse (di sua sponte) di raccontare quello che gli è accaduto, il terapeuta dovrebbe accogliere questo slancio di apertura
del paziente e lasciarlo raccontare in modo da permettergli di elaborare il trauma.

Disturbi del comportamento alimentare

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I disturbi del comportamento alimentare sono distribuiti in:
- Anoressia mentale o nervosa
- Bulimia
- Obesità psicogena.

Anoressia mentale o nervosa


Possiamo intanto dire che la prevalenza di questo disturbo è sicuramente in crescita, basti pensare che fino a 100 anni fa non vi erano in
letteratura casi riportati di questo tipo (per fare un esempio di uno dei primi casi, a quei tempi nemmeno riconosciuto come patologico, era
quello della principessa Sissi).
Una delle cause che generalmente viene riportata per spiegare questo aumento di casi è il fatto che si sta sempre più attenti all’aspetto
esteriore del proprio fisico. Questo lo si riscontra facilmente in ambienti quali quello della moda, del ballo ma anche di altri sport quali ad
esempio il ciclismo; in sostanza dove c’è sport generalmente può esserci questo tipo di problema.
Oltre a questo se pensate ai giocattoli utilizzati dai bambini, come i Big Jim e le Barbie, noterete come i giochi per i maschietti siano tutti molto
muscolosi (ideale di corpo maschile muscoloso con incremento della massa), mentre le bambole per le ragazzine sono sempre più snelle e
longilinee (ideale femminile con un decremento delle forme). Si potrebbe quindi imputare a questo cambiamento culturale il fatto che vi è
stato un radicale cambiamento anche sul versante delle diagnosi; a prescindere dal fatto che questa ipotesi sia vera o meno, una delle cose che
si tende a dire oggi ad esempio è che l’anoressia può essere causata dal fatto che il paziente sia entrato in contatto con un certo tipo di
ambiente sportivo  Non c’è nulla di più falso in quanto non si diventa anoressici facendo un determinato tipo di attività, non vi è una
correlazione diretta causa-effetto tra le due cose; questo perché l’anoressia è causata da problemi molto più gravi, generalmente dovuti a
fattori familiari.
Una delle caratteristiche principali di questo disturbo è il fatto di avere tra le cause scatenanti proprio i rapporti familiari, generalmente infatti
si vengono a creare dei rapporti di forza tra i membri della famiglia per cui il non mangiare diventa un modo di ribellarsi a quel tipo di
relazione.
Tra i sintomi principali troviamo:
o Riduzione del BMI (indice di massa corporea) al di sotto dell’80% del peso ideale;
o Presenza di amenorrea nelle ragazze (assenza di mestruazioni);
o Deformazione della propria immagine corporea: questi soggetti tendono a vedersi più grandi di quello che sono, anche essendo
magrissimi continuano a vedersi sempre grassi. Questo è un sintomo psicotico! Perché deforma la realtà, come un sintomo positivo
della psicosi. Quando l’anoressia ha questo sintomo psicotico è molto più grave Come avevamo detto in precedenza, la psicosi è
forse la psicopatologia più grave che ci sia e quindi se si associa ai disturbi del comportamento alimentare il processo di guarigione
risulta più difficile.
In passato questa patologia colpiva quasi esclusivamente le donne, al giorno d’oggi invece l’anoressia oltre ad avere degli esordi molto più
precoci (anche prima dei 12-14 anni) coinvolge sempre più anche il versante maschile.
Generalmente si tende a dire che chi presenta condotte di eliminazione tramite l’induzione del vomito è bulimico; in realtà è un errore in
quanto le condotte di eliminazione, anche attraverso assunzione di farmaci emetici o lassativi, possono esser presenti anche nell’anoressia.

Caso clinico
Il paziente era un ragazzo di 17 anni, collocato nel reparto di endocrinologia in una condizione molto grave, magrissimo, con frequenza
cardiaca al limite; condizioni tali per cui i medici decisero di impostare un regime di trattamento con alimentazione forzata parenterale (tipico
trattamento dei pazienti anoressici gravi). Quando il padre venne nella stanza d’ospedale dove si trovava il ragazzo (che d’ora in avanti
chiameremo Marco), in risposta al primario che gli spiegò la situazione del figlio e il perché si era resa necessaria l’alimentazione forzata,
rispose “Ah beh se sta bene a lui!” usando una modalità estremamente provocatoria nei confronti del ragazzo. Ovviamente Marco sentì questa
affermazione del padre, e quest’ultimo la disse di proposito, in modo che il figlio la sentisse  difatti il ragazzo protestò perché gli venisse
staccata la sacca parenterale.

Questa in realtà è una modalità che si ripresenta spesso in questo tipo di pazienti: la risposta del non mangiare arrivando al punto per cui si sta
per morire (e talvolta si muore) generalmente rientra in un rapporto di forza tra uno o due membri della famiglia.

Tornando al paziente, i genitori di Marco erano due artigiani che non erano mai presenti a casa e lasciavano il figlio, da quando era bambino, a
casa a doversi occupare dei nonni. Era un bambino che non si lamentava mai, diceva sempre sì alle richieste che gli venivano fatte, era sempre
sorridente e non si arrabbiava mai, a casa faceva tutto lui (cucinava, faceva il bagno ai nonni, ecc.); questo finché non è comparsa questa
sintomatologia anoressica. Bisogna comunque dire che dalla vita ebbe anche molte batoste: da un lato a un certo punto perse i due nonni di
cui si era a lungo occupato; dall’altro lui era anche un bravissimo ciclista ma, in seguito ad un incidente in cui perse un rene, non poté più
competere a livelli agonistici.
Il trauma psicologico derivante da questa situazione fu per lui terribile e la risposta fu proprio quella di non mangiare e di controllare sé stesso
e chi gli stava vicino con questo tipo di situazione.
L’allenatore si era accorto che lui non seguiva mai le direttive che gli venivano date, come facevano gli altri, ma si allenava sempre da solo; fino
a che a un certo punto venne cacciato dalla squadra, ciononostante, non disse nulla ai genitori e continuò ad allenarsi da solo arrivando a livelli
di dimagrimento importanti.

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Inoltre subito dopo l’operazione a cui venne sottoposto in seguito all’incidente, lui uscì dall’ospedale con i punti, tornò da solo a casa
prendendo l’autobus e una volta arrivato a casa si mise a fare la cyclette; ciò ci fa capire come nella sua mente non c’era assolutamente la
possibilità di elaborare la perdita dell’attività sportiva agonistica.

Il fatto che sembrava come se i genitori non si accorgessero nemmeno del problema del figlio, può indicare come ci doveva essere un
meccanismo per il quale questi genitori era come se non volessero affatto il figlio, o perlomeno era un peso per loro. Intorno a Marco non si
era mai creato un ambiente positivo che gli desse le giuste attenzioni, questo risulta evidente già solamente dal fatto che finita l’operazione
chirurgica dopo l’incidente non fu accompagnato a casa dei genitori.
Marco d’altro canto non si opponeva mai ai genitori, mai si arrabbiava con loro; allo stesso tempo nel ciclismo doveva essere sempre il primo,
non sarebbe mai riuscito a parlare ai genitori del fallimento di esser stato cacciato dalla squadra, ecc. Allo stesso modo dopo la morte dei
nonni aveva vissuto un disturbo depressivo rilevante ma non aveva nessuno con cui poterne parlare, lui stesso non riusciva a parlarne.
Anche dopo anni, parlandone in terapia, lo faceva con un sorriso finto e le sue emozioni reali non venivano mai a galla; questa è una classica
situazione che nella letteratura psicologica viene definita falso sé (presente in vari tipi di patologie come anche il disturbo borderline, ecc.):
una persona che è come se indossasse una maschera e non si riesce mai a raggiungere lo stato emotivo autentico che questa persona si porta
dietro. Uno dei pericoli che comportano queste situazioni è dato dal fatto che spesso questa maschera diventa preponderante, per cui arrivati
ad un punto in cui la parte autentica inizia a premere per venire a galla (con le emozioni negative, i fallimenti, i sensi di insicurezza, ecc.)
quando finalmente ci riesce, queste problematiche diventano talmente grosse e difficili da gestire che il soggetto ne viene sopraffatto (uno dei
grossi rischi è infatti il suicidio).

Lo stesso Marco ebbe più volte degli episodi di tentato suicidio (una volta tentò di impiccarsi nella sua cantina e fortunatamente venne trovato
in tempo dal padre). Tra i suicidi c’è una grande differenza tra un tentato suicidio autentico, dove la persona realmente vuole togliersi la vita,
ed un tentato suicidio “strumentale” fatto per attirare l’attenzione di qualcuno che ci sta vicino.
Ovviamente esistono tante gradazioni diverse: ci sono tentati suicidi francamente strumentali (il soggetto che assume un flacone intero di
aspirine sapendo che non rischia davvero di morire) altri invece più autentici (il soggetto che si taglia le vene, un atto più forte anche soltanto
per il fatto che egli sa che se dovesse sopravvivere gli rimarrà il segno di quel gesto sulla pelle per il resto della vita).
Probabilmente nel caso di Marco, lo stesso incidente che egli ebbe, poteva essere definito come una sorta di tentato suicidio dal punto di vista
psicologico.

Quindi in sostanza il problema di questo ragazzo (ma in generale dei ragazzi e ragazze che soffrono di questo tipo di disturbi) aveva a che fare
con l’entourage familiare che si ritrovava, e dunque il sintomo era un modo per il figlio di controllare i genitori.
Immaginate il controllo che ha un figlio anoressico che a tavola comincia a sminuzzare il cibo senza mangiarlo: la madre sa che se continua a
non mangiare diventerà un problema enorme per la famiglia in quanto bisognerà ricoverarlo, e tuttavia nemmeno può dirgli “ Ti prego
mangia!” perché altrimenti la situazione non farebbe che peggiorare (diventa in sostanza una vera e propria “prova di forza” tra genitore e
figlio). Difatti una delle terapie più indicate nei casi più gravi (oltre alla terapia familiare) è quella in cui si prendono i ragazzi e si mettono in un
centro dove non possono nemmeno parlare con i genitori, per cercare di spezzare quelle dinamiche comunicative che influenzano il rapporto
dei ragazzi con l’alimentazione.

Nonostante le incurie da parte dei genitori, nel caso di Marco come anche in tutti i casi di ragazzi anoressici in cui la famiglia non ha un
problema rilevante dal punto di vista socioeconomico, è estremamente difficile ad esempio intervenire tramite gli assistenti sociali; questo
perché affermare che un comportamento di quel tipo è dipeso dai genitori è complicato da dimostrare.
Questo da un certo punto di vista è anche un bene perché è molto difficile trovare poi un centro che sia in grado di fornire le attenzioni di cui il
ragazzo avrebbe bisogno dopo quel tipo di esperienza.
I pazienti anoressici hanno inoltre una forte comorbilità con il disturbo ossessivo compulsivo, perché in loro dal punto di vista psico-dinamico
c’è una forte tendenza dell’Io a controllare gli istinti: sono persone che possono dormire al freddo, possono fare le docce gelate anche in pieno
inverno, dormire per terra, ecc. (nel caso di Marco doveva salire e scendere le scale in una casa di tre piani sempre per multipli di 2).

Bulimia
La bulimia è un disturbo caratterizzato da episodi di forti “abbuffate” in un breve lasso di tempo (3000-4000 calorie tutte insieme), seguite poi
spesso da condotte di eliminazione (ad esempio inducendo il vomito o facendo esercizio intenso) che portano a dei disequilibri dal punto di
vista cellulare per cui si può anche morire di questo.
Come si differenzia quindi un soggetto che ha un attacco bulimico da una persona che ha fame e assume molte calorie? Una delle
caratteristiche principali che vive il soggetto che sta avendo un attacco bulimico è il forte senso di colpa che insorge in seguito, ovvero egli
sente che non mangia per fame ma per “riempire un vuoto”. Generalmente le attività di compensazione, ovvero il vomito che può esserci o
meno, sono l’espressione del senso di colpa.
Questo dal punto di vista psicologico è un meccanismo molto diverso rispetto al comportamento dell’anoressico, in quanto quest’ultimo se
vomita lo fa per una questione di controllo su sé stesso; mentre il bulimico è come se si facesse vincere dal bisogno, in quanto l’attacco
bulimico è un atto innanzitutto d’impulsività.

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Per questo motivo la bulimia presenta anche comorbilità con le sintomatologie legate all’impulsività, ad esempio: le dipendenze, ma anche il
disturbo borderline di personalità (in cui il core centrale è sempre l’impulsività).
Quindi anche l’approccio con queste due tipologie di pazienti è molto diverso:
 Nel caso di un anoressico magari dirà sorridendo al terapeuta che farà tutto quello che gli viene prescritto di fare, ma in realtà non farà
mai quello che gli viene detto (es. ci si accorge che un ragazzo anoressico con l’alimentazione parenterale non prende peso perché va in
bagno a svuotare la sacca, nonostante la supervisione degli infermieri, ecc.); anche per questo motivo è facile avere controtransfert
con questo tipo di pazienti (sensazioni negative di rabbia o irritazione).
 Nel caso della bulimia invece è leggermente più facile instaurare un rapporto con questi pazienti che possono arrivare a fidarsi del
terapeuta; c’è però talvolta la possibilità che si creino situazioni fortemente intense nel rapporto, ad esempio il paziente potrebbe
arrabbiarsi fortemente con il terapeuta perché non gli si dà abbastanza attenzioni (questo accade anche nei tossicodipendenti).
Nel caso della bulimia generalmente il trattamento migliore è quello individuale dove si cerca di affrontare i vissuti di vuoto che costringono il
paziente a fare le “abbuffate”. Sicuramente per le suddette ragioni il paziente bulimico sarà più facile da trattare rispetto al paziente
anoressico.

Disturbo da obesità psicogena


Sono pazienti che al contrario dei bulimici non si sentono affatto in colpa dopo le abbuffate e mangiano quindi in maniera eccessiva.
Fino a circa 20 anni fa si riteneva che dietro all’obesità ci fossero problemi di tipo ormonale, genetico, ecc.; in realtà i disturbi reali dovuti a
problemi della tiroide, problemi genetici, non sono neanche il 5 % dei casi totali di obesità al giorno d’oggi. Di ciò ci si è resi conto solamente
quando il fenomeno è esploso diventando una vera e propria emergenza.
Una delle caratteristiche di questi pazienti è che tendono a non avere un’articolazione emotiva adeguata, ovvero qualunque emozione
provano la riportano alla fame, ad esempio: sono arrabbiati ma non si sentono arrabbiati e invece hanno fame; se si sentono depressi la
tristezza si tramuta in fame e così via anche per le altre emozioni  È quindi come se la fame conglomerasse tutte le loro emozioni.
Una delle terapie che viene utilizzata in questi casi (al di là delle diete che spesso non danno alcun risultato) è la chirurgica bariatrica (tramite
bendaggio gastrico, bypass gastrico, ecc.); tuttavia si è visto che anche in questi casi ci può essere una ripresa di peso tramite ingestione di
elevatissime quantità di calorie. Si cerca quindi di intervenire con interventi psicologici post-chirurgia per cercare di recuperare anche questi
pazienti.
Da un punto di vista delle emozioni che suscitano in chi si occupa di loro (citando il programma tv “ Vite al limite”), generalmente fanno irritare
molto perché tendono a non riconoscere la loro responsabilità dicendo che ingrassano per altri motivi, mentre invece è evidente che
assumono un livello di calorie molto elevato.

Domande
- Il tentato suicidio di Marco, gli ha in qualche modo conferito maggior consapevolezza della propria condizione cambiando il modo di vedere
del ragazzo e spingendolo a migliorarla o invece non è cambiato nulla?
In realtà talvolta toccare il fondo in molte depressioni spinge il soggetto a “risalire”, altre volte invece non si riesce ad uscirne. Nel caso di
Marco, lui non cambiò in seguito a quella situazione, ma quando in ospedale trovò delle persone disposte a prendersi cura di lui, lui poteva
quindi aprirsi e raccontare i suoi fallimenti, gli eventi spiacevoli della sua vita, il fatto che lui voleva diventare un grande campione ecc. Dopo
tutto ciò lui prese un diploma da privatista e si laureò in medicina specializzandosi in psichiatria: si parla in questo caso di transfert
gemellare in quanto è come se questo tipo di pazienti si voglia identificare in chi li aiuta; questo è un meccanismo comunissimo, difatti ci si
può trovare di fronte a situazioni in cui il paziente anoressico dice all’endocrinologa o al nutrizionista “va bene faccio la dieta che mi hai
prescritto se la fai anche tu”, oppure “faccio gli esercizi se li fai anche tu”, ecc. Anche per queste situazioni la cosa migliore da fare è
mantenere una certa distanza dove possibile (anche solo cercare di usare il lei durante la conversazione può essere d’aiuto).
Oltre a questo a distanza di anni Marco presentava i muscoli masseteri pronunciati, questo perché con il movimento del conato autoindotto
questo muscolo diventa col tempo ipertrofico; questo per dire che comunque probabilmente perpetua questa modalità nonostante gli
evidenti progressi positivi nella sua vita.

- Nel caso della bulimia, cosa spinge il paziente a voler “colmare un vuoto” con le abbuffate?
In questo caso la psico-dinamica è meno chiara rispetto all’anoressia, tuttavia analizzando il disturbo di personalità borderline a cui la
bulimia è strettamente associata, questo si caratterizza per: la presenza di situazioni di vita con numerosi abbandoni, che spesso creano
nella personalità di queste persone una sorta di insicurezza, di illegittimità nello stare al mondo (“ non sono legittimato a stare con gli altri
perché finiscono per lasciarmi solo”); questa condizione se è molto forte, ogni volta che il bulimico vive uno stress (dovuto a un rimprovero,
una separazione, ecc.) si risveglia in lui un senso di vuoto, o meglio, di malessere legato a precedenti esperienze negative che lo spingono a
mangiare compulsivamente per riempirsi e non vedere questo aspetto.

Aspetti rilevanti della simulata


Un aspetto positivo venuto fuori è quello dell’importanza del definire gli obiettivi del paziente, chiedendo alla paziente cosa si aspetta lei dalla
terapia, capendo se c’è un divario eccessivo tra l’aspettativa e quello che il terapista realisticamente valuta si possa ottenere.
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Bisogna stare attenti quando una paziente ci dice ad esempio “Quando io ho dolore ho un problema perché poi non faccio più quel
movimento”, perché è come se ci dicesse che ha problemi a rimanere aderente e dunque se le si dà un compito tende a non farlo.
In questo caso conviene dirle che si comprende la sua preoccupazione ma allo stesso tempo sta a lei capire quanto è importante per il suo
benessere lo svolgimento di quell’attività o quell’esercizio.

Lezione 18/1/2021

Disturbi da dipendenze
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I disturbi da dipendenze possono essere suddivisi in due grandi categorie:
 Dipendenze da sostanze
 Dipendenze da comportamenti.
I più studiati sono quelli da sostanze tuttavia negli ultimi anni hanno ricevuto una maggiore attenzione anche le dipendenze comportamentali.
Iniziamo dalle Dipendenze da sostanza

Dipendenza da sostanza
Si è “dipendenti” da una sostanza quando vengono soddisfatti questi due criteri:
a) Non si può fare a meno della sostanza (il paziente la cerca attivamente)
b) La sostanza crea assuefazione nel tempo (il paziente ne vuole sempre di più).
È un argomento molto complesso perché non tutte le sostanze creano dipendenza allo stesso modo. Inoltre la stessa sostanza può avere
impatti diversi su persone diverse (e quindi causare dipendenze più o meno gravi). Ad esempio ci sono alcune persone che sono talmente
dipendenti da “morire” per l’assunzione di quella sostanza mentre in altri casi il paziente riesce in qualche modo a “convivere” con la
dipendenza di quella sostanza.
Un elemento ricorrente nelle dipendenze è il “craving” (letteralmente “brava” o “forte desiderio”) che consiste nella attivazione psico-motoria
dell’individuo finalizzata alla ricerca di quella particolare sostanza. Il soggetto ricerca in maniera attiva la sostanza di cui è dipendente. Pensate
ad un paziente dipendente da eroina che non fa uso della sostanza da 10 giorni. Se guarda uno stimolo che gli ricorda la sostanza (es. un
“cucchiaino” oppure una “siringa” ma anche un film in cui si vede una persona che “tira” la cocaina) avrà una forte attivazione psico-motoria
(sia mentale sia motoria quindi) per cui inizierà a ricercare questa sostanza attivamente finché non la trova. Tutto questo può essere
confermato con una indagine di neuro-imaging (risonanza magnetica) e quindi misurato da un punto di vista scientifico. Stessa cosa può
avvenire anche se un fumatore non fuma da una settimana e vede una persona fumare. Ovviamente succede in maniera meno eclatante ma il
meccanismo neuro-fisiologico alla base è lo stesso.
Per quanto riguarda il trattamento si interviene con un percorso di disintossicazione per cui vengono somministrate al paziente delle dosi
decrescenti della sostanza per abituarlo a distaccarsene in maniera progressiva. Dal punto di vista della personalità si è visto che la dipendenza
da sostanze è fortemente correlate ad altre comorbidità quali il disturbo borderline di personalità. Si tratta generalmente di persone con un
comportamento molto impulsivo alle quali sarà molto difficile far seguire un programma terapeutico perché l’impulsività le porta a prendere
decisioni poco ragionate che possono discostarle dal programma terapeutico.

Dipendenze comportamentali
 Dipendenza da gioco d’azzardo (gambling)  È un problema che ha dei risvolti sia sociali sia economici. Le persone si rovinano
completamente scommettendo alle “macchinette” oppure in altri modi (es. le corse, il poker, ecc.) il loro stipendio.
 Dipendenza da shopping compulsivo  Persone che comprano senza fermarsi. Non è semplicemente fare compere. Loro comprano in
maniera compulsiva una cosa dietro l’altra. Non possono farne a meno.
 Dipendenza da internet (internet addiction) Bisogna fare una distinzione tra persone che passano molto tempo davanti al computer
per motivi di lavoro o di studio (tipo noi) e persone che invece passano tanto tempo davanti al computer per distaccarsi/dissociarsi dalla
realtà e dai loro problemi. Il disturbo sta proprio in questo. Se una persona passa tanto tempo a controllare le mail non è considerato
una dipendenza. Se una persona invece passa ore a giocare ai videogiochi online per alienarsi dalla realtà allora è un disturbo.
Chi soffre di questo disturbo vede internet come una possibilità per distaccarsi dalla realtà. Per entrare in contatto con “persone” nuove
ed allontanarsi dalle persone reali. Per questo motivo le persone che sono dipendenti controllano di meno le mail delle persone normali.
Perché non sono interessate alle persone che conoscono. Anzi si vogliono allontanare. Questo facilita la dissociazione di queste persone
dalla loro vita reale a favore di una “vita digitale” che colma il loro disagio. Il punto centrale è “come” usi internet e con “quale finalità”.
Se lavori 8 ore davanti al pc non è una dipendenza. È uno strumento. Se lo usi per “fuggire” dalla realtà allora è un disturbo.
Colpisce generalmente gli adolescenti oppure i giovani adulti. I maschi sono più colpiti rispetto alle femmine.

I meccanismi neuro-fisiologici sono simili in entrambe le dipendenze. Tuttavia ci sono delle Differenze. Una di queste è la presenza/assenza del
craving. Nella dipendenza da sostanze c’è il craving. Nella dipendenza comportamentale no. Questo può essere confermato anche da una
risonanza magnetica. Lo vedo con una risonanza magnetica. Se io faccio vedere ad un “cocainomane” l’immagine di una siringa riscontro a
livello neurologico un’attivazione mentre se ad un paziente “dipendente da internet” faccio vedere il logo di Facebook non c’è questa
attivazione neurale.
Stessa cosa per il gioco d’azzardo. Non si osserva il fenomeno del craving. Questa cosa può essere spiegata dal fatto che sebbene sia le
sostanze sia i comportamenti servano in qualche modo per “distaccare” il soggetto dalla realtà le sostanze hanno un effetto potente,
immediato, acuto e ti danno immediatamente una sensazione di “piacere”. Con i comportamenti c’è solo la componente di distacco ma manca
questa componente acuta di piacere. Per questo c’è la fuga, la dissociazione ma non c’è il craving con i comportamenti. La persona con
disturbo da dipendenza da internet è più dissociata che “drogata”. È una persona chiusa, distaccata, schiva ma NON impulsiva. Infatti sono
disturbi che hanno comorbidità differenti. L’assunzione di sostanze ha come comorbidità la maniacalità e la bulimia nervosa che infatti sono
due disturbi caratterizzati dalla impulsività della persona. Anche l’aspetto “compulsivo” del disturbo ossessivo compulsivo può essere ritenuto
impulsivo.
Per quando riguarda invece le dipendenze comportamentali i disturbi correlati sono generalmente di tipo schizoide (prossima lezione),
distaccati, disinteressati e molto introversi. Non sono impulsivi. Sono agli antipodi in pratica. Da questo punto di vista però possono esserci
delle eccezioni. Nel caso del gioco d’azzardo e del gaming c’è una componente di impulsività molto forte. Sono persone che si svegliano alle 5
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di mattina per giocare con la play station oppure che si scommettono lo stipendio in un colpo solo. In questi casi un minimo di craving è
presente ma non è intenso come nella dipendenza da sostanze. Generalmente avere una dipendenza rende più suscettibili a sviluppare altre
dipendenze perché i meccanismi fisiologici sono sovrapponibili.

Domanda di Pietro: “Cosa distingue il sano dal malato nelle dipendenze comportamentali?”
Per quanto riguarda le sostanze alcune vengono considerate patologiche a priori per la loro gravità/pericolosità (es. cocaina, eroina, ecc.) e
infatti sono anche illegali. Per altre sostanze più blande la cosa non è così automatica (es. alcol, fumo, ecc.). In questi casi si considera
“dipendenza” quando non si può fare proprio a meno di quella sostanza e quando la persona va in contro ad un processo di assuefazione per
cui ne vuole sempre di più. Nei comportamenti il discorso è più difficile perché bisogna guardare “come” il paziente fa uso di quel
comportamento e quindi la “finalità” del comportamento. Se la finalità è “dissociare” il paziente dalla realtà e dai propri problemi allora è
patologico. Il paziente dissociato si dimentica perfino di mangiare mentre gioca. Questo per farvi capire il livello di dissociazione che si può
raggiungere. Se invece il paziente lo fa semplicemente per divertimento o come passatempo ogni tanto allora non è patologico.
Conclusione argomento.

Finora abbiamo visto solo i disturbi dell’asse I del DMS-5. Vi ricordo che sono tutti disturbi acuti che hanno un chiaro esordio e possono avere
una fine. Ora vediamo quelli dell’asse II.

Disturbi dell’asse II
Disturbi di personalità
A questo gruppo appartengono i Disturbi di personalità. Sono disturbi che riguardano aspetti molto più profondi di ciascuno di noi. La
personalità è qualcosa che ci accompagna per tutta la vita. I disturbi di personalità sono legati alla personalità del singolo paziente. Questi
disturbi, a differenza di quelli dell’asse I, NON hanno un esordio acuto/chiaro che può essere individuato perché riguardano il modo di essere
di quella persona. Infatti sono definiti ego-sintonici cioè in sintonia con l’Io della persona.
Pensate ad uno scienziato che deve catalogare tutte le provette per fare un esperimento. Ovviamente avere un tratto di personalità
“compulsivo” è necessario per mantenere elevati livelli di attenzione e poter svolgere quel lavoro. È un tratto “funzionale” a quel tipo di lavoro.
Generalmente i disturbi di personalità sono meno gravi rispetto ai disturbi dell’asse I ma questo non significa che non possano creare problemi.
Inoltre sono molto più difficili da trattare proprio perché sono in sintonia con il modo di essere di quella persona.
Mentre i disturbi dell’asse I in qualche modo si scontrano con il soggetto quelli di classe II sono in linea con il modo di fare della persona
(modus vivendi) perciò sono più difficili da “scardinare”. Tuttavia se il paziente “vuole” cambiare ci può riuscire. È una cosa che però deve
partire dal paziente non dallo psicologo. Il paziente sente di avere un certo problema e allora decide di volere un cambiamento. Sono loro che
vogliono cambiare e NON noi psicologi che li cambiamo. Noi psicologi semplicemente li aiutiamo a fare il cambiamento di cui sentono il
bisogno. Se il paziente invece NON vuole cambiare allora non ci sarà nessun cambiamento (neppure lo psicologo migliore ci può riuscire).
Generalmente le tre sfere principali della nostra vita sono:
 Sfera familiare
 Sfera sociale
 Sfera lavorativa.
Fin quando queste tre sfere sono conservate la persona sta bene. Se qualcosa intacca una o più di queste tre sfere allora si inizia a parlare di
“disturbo” e bisogna intervenire. Una persona potrebbe essere un pochino ossessiva ma magari questo tratto è integrato in una vita normale
che permette di conservare l’integrità di queste tre sfere e la persona perciò non soffre di alcun disturbo. Viene considerata una persona che
sta bene. Generalmente i disturbi dell’asse I intaccano almeno una di queste componenti mentre i disturbi dell’asse II mantengono integre
queste tre componenti (sempre perché sono ego-sintonici). Questo non significa che i disturbi della personalità non possono causare problemi,
anzi. Negli ultimi anni è stata data molta più rilevanza a questi disturbi. Pensate che oggi possono essere “impugnati” in tribunale per ottenere
delle attenuanti. Tanto per farvi capire la loro rilevanza.

I disturbi di personalità sono suddivisi in tre raggruppamenti (cluster):


 Gruppo A (disturbo di personalità schizoide, schizotipico e paranoide)
 Gruppo B (disturbo di personalità borderline, antisociale, narcisistico e istrionico)
 Gruppo C (disturbo di personalità evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo)
Il disturbo ossessivo compulsivo di asse I e asse II sono differenti (anche se il nome è lo stesso). La differenza sta nel fatto che nell’asse II i
sintomi sono più ego-sintonici e quindi meno gravi (ma più difficilmente curabili). In quello di asse I invece sono più gravi, hanno un esordio
preciso/acuto ma sono più facilmente curabili.
Li vediamo nello specifico nell’ultima lezione.

Lezione 25/1/2021

Disturbi della personalità


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Fino a adesso abbiamo fatto i disturbi sull’asse 1 acuti, che hanno un esordio e una guarigione. I disturbi della personalità riguardano i tratti
stabili della personalità e aspetti molto profondi di come noi viviamo. Questo tipo di comportamenti poi possono diventare sintomi. Fino a 5-
10 anni fa non erano considerati dal punto di vista prettamente clinico, come se fossero di gravità minore rispetto ai disturbi dell’asse 1. Oggi il
trend è cambiato, e sono rilevanti anche dal punto di vista giuridico (possono essere usati come attenuante in determinati reati).
Sono divisi in 3 cluster:
 Cluster A
 Cluster B
 Cluster C

CLUSTER A
Comprende disturbi della personalità schizoide, schizzotipico e paranoide.

 Disturbo della personalità schizoide: È caratterizzato da comportamenti di chiusura  il soggetto non manifesta interesse nelle
interazioni con gli altri. Colpisce più i maschi, giovani, adolescenti, e dura per tutta la vita. La dipendenza da internet contribuisce a
incrementare questo aspetto  Hikikimori: ragazzi chiusi in casa con il computer.
 Disturbo schizzo tipico: È caratterizzato da comportamenti “bizzarri”. Un comportamento bizzarro è un comportamento che si scosta
dalla norma e assume un distacco dalla realtà rilevante (es. mi hanno rapito gli alieni, oppure il film Independence Day, dove il
protagonista nonostante il comportamento bizzarro ha comunque una vita vivibile); tuttavia non cadono nella psicosi (in questo caso
invece sarebbe di fatto impossibile avere una vita sociale, familiare e lavorativa). Differenza tra questo sintomo e il delirio psicotico? È
molta la differenza. Il sintomo psicotico non ti permette di avere una vita sociale, una famiglia.
Per distinguere schizzoide e schizzotipico è utile fare un’associazione con i segni positivi e negativi della psicosi. Quelli negativi (estrema
chiusura, ecc…) sono fortissimi nella schizofrenia e impattano su vita sociale e lavorativa. Nei disturbi di personalità c’è questo tratto ma
non è così invalidante. I sintomi negativi sono più associabili agli schizzoidi; con i sintomi positivi si può creare un parallelismo con gli
schizzotipici.
 Disturbo di personalità paranoide: Ha caratteristiche correlabili allo psicotico, ma presenta una distorsione della realtà meno
rilevante (es. a lavoro i colleghi ce l’hanno con me!! Ma magari c’è solo un minimo di verità in quello che afferma) rispetto al disturbo
paranoide (schizofrenia paranoide) che si ha nell’asse 1 (che invece si inventa complotti!). Il disturbo paranoide sull’asse 1 è molto
rilevante, in cui c’è una distorsione rilevante della realtà, per esempio la persona può dire che ha visto il presidente della repubblica che
lo voleva uccidere. Nel disturbo di personalità invece c’è un distacco minore dalla realtà magari potrebbe dire che i suoi colleghi di lavoro
ce l’hanno con lui.

Meccanismi di difesa
I meccanismi di difesa sono le reazioni che ciascuna mente mette in moto per rispondere a situazioni di stress (errore fatto, essere giudicato
male, emozioni forti), infatti ogni situazione di stress portano ad una risposta comportamentale. Ce ne sono molti, dai meno ai più maturi.
Quelli più immaturi (primitivi, tipicamente psicotici e poco efficaci socialmente) li troviamo soprattutto nella schizofrenia, e sono ad esempio:
o La proiezione  meccanismo con cui proietto sull’altro ciò che io non voglio accettare di me: es. sono arrabbiato e non accetto
questo di me, quindi al primo tizio che incontro gli chiedo se per caso è arrabbiato.
o Un altro meccanismo primitivo è l’identificazione proiettiva  chiedo all’altro se è arrabbiato, lo faccio anche sentire arrabbiato,
ma magari lui sta benissimo. Prevede segnali verbali e non verbali (spesso usato in disturbi gravi).
Poi ci sono i meccanismi di difesa meno immaturi
o Maniacalità e la svalutazione dell’altro.
Poi ci sono quelli più di tipo nevrotico, come:
o Dissociazione  tolgo la parte emotiva ad un racconto ma non quella razionale,
o Negazione  es. Negare evento traumatico subito,
o Rimozione (rimosso dalla coscienza).
Tra i meccanismi più evoluti c’è
o L’auto-osservazione, per cui la persona fa una riflessione su se stessa (mi dico da solo che sono proprio incazzato oggi); è molto
evoluto perché permette di elaborare quella situazione.
o Un altro ancora più evoluto è quello dell’autoironia (es. Gioco sopra al fatto che sono incazzato o che magari sono basso e di solito
soffrivo per questa condizione).
La paranoia utilizza meccanismi più primitivi ed è caratterizzata da un meccanismo molto chiaro, cioè la proiezione. In generale la paranoia
prevede una proiezione all’esterno della propria aggressività: la persona tende a vedere tutti gli altri arrabbiati con lui, ma ciò è dovuto a una
proiezione. Una caratteristica curiosa della persona con paranoia è che non si arrabbia mai: non accettano di avere la rabbia e piuttosto la
proiettano su qualcun altro (non sono io ad essere arrabbiato, ma sono loro che ce l’hanno con me); questo è un tratto molto forte in questo
tipo di persone, e qualora si dovessero arrabbiare è un fatto positivo perché significa che si sta riappropriando di quella emozione.

CLUSTER B

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Nel secondo cluster troviamo il disturbo borderline della personalità, il disturbo narcisistico della personalità, il disturbo istrionico della
personalità e quello antisociale di personalità. Sono tutti disturbi che hanno a che fare con l’emozionalità ed emotività forte e dirompente
espressa.

 Il Disturbo Borderline è caratterizzato da impulsività del comportamento (acting out), come andare contromano per fare una gara,
assunzione sostanze pericolose, ecc…. In generale commette azioni rischiose verso sé stesso ma anche verso gli altri. Spesso sono persone
che hanno avuto molti traumi di separazione nella vita, tanto che un sintomo che molto spesso si trova è quello dell’ansia da separazione
(es. non vogliono mai interrompere la seduta, non si vogliono separare e non vedono l’ora di rivederti e magari sono loro stessi che la volta
dopo non vengono a volte). Questo esempio appena descritto è un modo, da parte loro, di controllare la relazione (non vogliono essere
lasciate dall’altro, ma devono essere loro a lasciare l’altro).C’è forte tendenza a manipolare la relazione.
Spesso fa un atto impulsivo contro se stesso (si fa del male)  si parla dei cosiddetti self-injury, comuni in questo disturbo, e cosa ancora
più comune è che dopo aver fatto questo atto impulsivo si sente in colpa, come se fosse in grado di immedesimarsi negli altri ( la cosa che
ho fatto potrebbe aver fatto del male a qualcuno). Si tratta quindi di un qualcosa di evoluto. Spesso usa meccanismi di difesa proiettivi.
La vergogna non si può provare da soli e quindi presuppone una rappresentazione di se stesso in interazione con gli altri. Seguire un
paziente con disturbo borderline è molto difficile anche per lo psicoterapeuta. Proprio perché poi hanno un senso di colpa però si possono
trattare. Questi tratti impulsivi si manifestano quando queste persone si sentono abbandonate o escluse.

 Disturbo antisociale di personalità: È simile a quello borderline e sono presenti comportamenti impulsivi eterodiretti e non autodiretti
(non si fa male da solo). Ha comportamenti antisociali. Ha una caratteristica profondamente diversa dal borderline: non prova senso di
colpa (serial killer non si fa scrupoli, tipo Hannnibal Lecter). Proprio perché non hanno senso di colpa, sono bravi a manipolare la reazione
degli altri  non avendo accesso diretto ai propri sentimenti, li governano in modo razionale (es. un antisociale riesce a far capire agli altri
che si è pentito anche se non è così). Non sono rallentati dalla reazione emotiva; sono strategici.
È uno dei disturbi più gravi, visto che è difficile uscirne. Un antisociale è quindi molto bravo a manipolare gli altri e può persino riuscire a
indurre al suicidio. L’antisocialità si può trovare anche nella pedofilia (manipolazione del bambino che già di suo è più vulnerabile) 
Anche qui l’aspetto emotivo tipo la colpa o la vergogna viene totalmente a mancare. La causa di questo disturbo è legata a un vissuto
(Hannibal cresciuto in una casa di montagna isolata in cui i soldati volevano mangiare la sorella ), nello specifico un trauma pesante, che
può spegnere, per via della reazione dissociativa, tutte le emozioni (positive o negative che siano). Così la persona diventa freddissima e
strumentalizza le persone per raggiunger un fine proprio (anche il Joker è un esempio, così come i bambini-soldato che vengono arruolati
obbligandoli a uccidere i genitori). Anche Joker inizialemtne non è u n antisociale psicopatico, ma ad un certo punto gli succede qualcosa
per cui non senti più la colpa e l’empatia.

 Disturbo narcisistico della personalità: Anche il narcisista è un grande manipolatore, ma lo fa perché deve essere lui il più grande, non
perché c’è un fine strumentale. Esistono in realtà due tipi di narcisismo:
a) Il narcisista che si vergogna, diventa rosso subito ed è dotato di grande sensibilità. È definito covert dalla letteratura internazionale.
b) C’è poi un narcisista overt, che è invece quello più duro, quello grandioso. È quindi l’esatto opposto; lui è tutto e tu non sei nulla. È
molto bravo a manipolare per sentirsi migliore degli altri. La differenza rispetto all’antisociale, in quanto alla manipolazione, è che
non c’è interesse verso un fine strumentale come possono essere i soldi (valido in particolare per gli overt).
La dinamica della personalità tra covert (Joker della prima mezz’ora di Film) e overt è simile nonostante apparentemente sembrino
così diversi; entrambi vengono da una ferita narcisistica. Queste persone hanno avuto dei non riconoscimenti nella loro vita, per
esempio un genitore che dice al figlio che non è capace a fare delle cose  La ferita che deriva da un evento del genere può
evolvere in modo che lui diventi rosso qualunque cosa gli dica una persona, oppure evolve verso una grandiosità perdendo
empatia, che invece è presente nel covert (Nell’overt c’è una mancanza di empatia, mentre nel covert l’empatia c’è ancora) . Il
covert è come una persona di cristallo, serve fare attenzione a quello che si dice ed avere grande sensibilità. Nell’overt la situazione
è più fastidiosa; è più associabile all’antisociale e quindi più difficile da approcciare.

 L’istrionico invece è caratterizzato da una spiccata tendenza a drammatizzare o a comportarsi in modalità teatrale. Sono persone che
devono trasformare ogni relazione in modo da stare al centro dell’attenzione, in qualunque modo, con qualunque espediente “teatrale”. A
loro non interessa se vengono drammatizzati con modalità positive o negative, a differenza del narcisista che deve stare al centro
dell’attenzione ma con modalità positive. All’istrionico non interessa di essere il più bravo o il meno bravo, l’importante è essere al centro
dell’attenzione (Renato Zero).
I disturbi che abbiamo visto non invalidano necessariamente la vita.

CLUSTER C

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Il cluster C è costituito da: disturbo evitante di personalità, disturbo ossessivo compulsivo di personalità e disturbo dipendente di personalità.

 Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità , a differenza del disturbo ossessivo compulsivo dell’asse 1, non presenta una
condizione di acutezza, ma assume un tratto di personalità stabile di un individuo. Le ossessioni sono meno acute e persistenti nella
personalità di un individuo (tendenzialmente l’individuo è sempre stato ossessivo compulsivo), a differenza del disturbo ossessivo
compulsivo vero e proprio che ha un esordio preciso e finisce in un determinato momento (l’acutezza è determinante). Un disturbo della
personalità ossessivo compulsivo può riguardare ad esempio persone che lavorano in laboratorio etichettando le fialette ore e ore
ossessivamente, e quel sintomo diventa egosintonico con la vita dell’individuo (la vita sociale e familiare resta comunque intatta e serena
nonostante questi tratti che sono in sintonia con lo sviluppo dell’io).

 Il disturbo dipendente della personalità riguarda persone che tendono a dipendere da una o più persone. Generalmente è una sola la
persona su cui fanno affidamento e, qualora non fosse presente in una data situazione, tendono a trovarne un’altra. Tendono sempre a
rimanere vicino a un dato individuo, magari anche in una uscita tra amici ( ci deve essere quella persona nel gruppo perché sennò tendono
ad isolarsi). Se quella data persona è presente, il soggetto riesce a stare anche insieme agli altri; se quella persona non c’è allora tende a
retrarsi.

 Il disturbo di personalità evitante riguarda persone che tendono a evitare rapporti con gli altri, e li evitano a meno che non siano
sicurissimi che la persona con cui dovrebbero interagire li accetterà (se sanno di essere pienamente accettati, instaurano una relazione, ma
se non c’è questa sicurezza restano schivi). Questo evitamento è dovuto a un problema di accettazione di se stessi, che a sua volta è
motivo di ansia. Quindi tendono ad avere uno stato di ansia in determinate situazioni: se vengono accettati l’ansia sparisce, sennò aumenta
e determina l’evitamento. Anche lo schizoide ha caratteristiche simili, ma la differenza sta nel fatto che l’evitante non ha relazioni per
pausare di essere giudicato e non essere accettato, lo schizoide è disinteressato totalmente (il che è molto più grave, mentre sull’evitante
si può lavorare).
Nel caso ci troviamo di fronte a una persona con disturbo dipendente, significa che la persona dipenderà molto da noi fisioterapisti, e lì
bisogna essere bravi a trovare una buona alleanza con il pz, senza però assecondare la dipendenza e facendo sì che resti autonomo (il pz
non vuole). L’aspetto dell’autonomia e del suo recupero è fondamentale.
Nel caso di un evitante il problema è legato al fatto che troveremo una persona molto schiva, che parla poco perché ha paura che quello
che dice venga ritenuto poco opportuno e accettabile. Bisogna quindi farlo sentire a suo agio ( non si preoccupi, lei ha fatto quello che
poteva fare).

Comorbidità
 Nel caso di uno schizoide, le comorbidità sono con l’internet addiction, Hikikomori (ragazzi chiusi in loro stessi).
 Lo schizzotipico non ha particolari comorbidità, se non sul versante psicotico. Può avere maggiore probabilità di sviluppare schizofrenia (i
pensieri bizzarri nei casi più gravi diventano vere e proprie allucinazioni e deliri). Stessa cosa con il disturbo della personalità paranoide.
 Il borderline correla molto con la bulimia, abuso di sostanze. Tutto per via dell’impulsività.
 L’antisociale non ha grandi comorbidità. Anche qui c’è un’impulsività, ma è diversa da quella del borderline.
 L’istrionico ha qualche correlazione con la mania e i disturbi depressivi.
 Il narcisista, se è covert, con i disturbi d’ansia (per via della vergogna). Esiste poi l’eritrofobia, cioè la paura di diventare rossi.
 Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità può correlare con disturbi d’ansia e con il disturbo ossessivo compulsivo sull’asse 1.
L’ossessione e la compulsione è sempre una modalità di controllo dell’ansia; non è un sintomo ansioso, ma un sintomo di controllo
dell’ansia. C’è una forte comorbidità con l’anoressia, per via del controllo di sè.
 Il disturbo dipendente di personalità può correlare con abuso di sostanze e bulimia e depressione.
 Il disturbo evitante può correlare con disturbi d’ansia, in particolare con la fobia sociale. La differenza tra le due è legata in parte alla
gravità, visto che la fobia sociale sta nell’asse 1, ma la principale differenza è dovuta alla durata dei sintomi: se ce lo ha sempre avuto
significa che ha un disturbo della personalità, mentre se è un sintomo dell’asse 1 ci deve essere un preciso esordio (ci deve essere un
evento scatenante chiaramente definito, altrimenti non può essere sull’asse 1).

Il burnout si ha nelle persone che fanno unlavoro in cui c’è la relazione diretta conle persone  è l’esaurimento delle persone che stanno in
una relazione di aiuto, come potremmo essere anche noi. È molto importante capire la sintomatologia psicologica: apatia, disinvestimento, ci
si sente svuotati (esauriti), oppure sintomi fisici: non dormire o dormire troppo, mal di testa ecc…

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