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L’innovazione è uno degli argomenti più discussi e controversi in tutte le scienze, ed è riduttivo trattarla
come un “argomento”, cioè una sequenza di studi, teorie e nozioni. Essa identifica un passaggio, un
mutamento fra due condizioni o momenti, distingue cioè due fasi di un percorso, ma al tempo stesso le
congiunge attraverso una logica di confronto tra esse. (ES. La rivoluzione industriale innova radicalmente la
società occidentale sconvolgendo totalmente equilibri e pratiche sociali consolidate nei secoli precedenti.)
Il concetto di innovazione, nel corso del tempo ha assunto una connotazione tendenzialmente positiva,
poiché esso è sempre accompagnato da fiducia e ottimismo, non mancano però i casi in cui parlare di
innovazione genera preoccupazione. Per studiare innovazione è quindi necessario assumere un
atteggiamento distaccato e analitico. L’innovazione organizzativa si occupa dei processi innovativi costruiti
collettivamente in un contesto organizzato. L’azione delle organizzazioni si è innovata nel tempo, e di
conseguenza molte organizzazioni hanno sviluppato attività sempre più innovative identificabili sotto forma
di prodotti, servizi, processi di lavoro, strategie, relazioni, culture e ideologie. Sono vari anche i fronti in cui
si vede l’azione dell’innovazione organizzativa: a livello sociale, economico, tecnologico, politico, legislativo
etc. Questo perché le organizzazioni rappresentano degli attori sociali incastonati in una molteplicità di
contesti e che si devono confrontare con una pluralità di interessi, sfide e opportunità.
L’innovazione è tale solo se si mettono a confronto due momenti storici o per lo meno due stati delle
cose: un “prima” e un “dopo”. L’innovazione è il processo che permette di transitare tra le due fasi. Ogni
innovazione è sempre relativa, il suo stesso riconoscimento può essere oggetto di controversie: ciò che è
innovazione per alcuni può non esserlo per altri. Attorno all’innovazione sono stati progressivamente
costruiti molteplici “discorsi”, per effetto degli scambi tra studiosi, ricercatori e imprenditori, e molti di
questi discorsi hanno seguito direzioni molto diverse, pur partendo da presupposti spesso coincidenti. (es.
rapporto fra innovazione e occupazione, cioè fra progresso e mantenimento/erosione dei posti di lavoro).
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CAMBIAMENTO E INNOVAZIONE
IL MANUALE DI OSLO è un documento redatto dall’ OECD che contiene una serie di linee guida per l’analisi
e la rilevazione di processi innovativi: esso fornisce una precisa definizione di innovazione:
“l’implementazione di un prodotto nuovo o significativamente migliorato (bene o servizio), o di un processo,
o un nuovo metodo di marketing oppure un nuovo metodo organizzativo nelle pratiche commerciali, nelle
configurazioni di lavoro o delle relazioni esterne” ; inoltre delinea chiaramente quali cambiamenti non
possono essere qualificati come innovazioni:
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INTENSITA’
Una distinzione classica è quella tra innovazioni incrementali e radicali, ma anche in questo caso non esiste
una scala di misurazione che sancisce inequivocabilmente la differenza tra le due. Dewar e Dutton notano
che la distinzione è più facile da intuire che da misurare. In termini generali un’innovazione incrementale
favorisce un passaggio più graduale da una situazione precedente, un’innovazione radicale è invece una
sorta di punto di rottura che genera discontinuità con il passato. Norman e Verganti (2013) suggeriscono
invece che l’innovazione radicale comporti un cambio di prospettiva (frame) nell’attività di
un’organizzazione o nelle modalità di fruizione di un bene o servizio da parte degli utenti (es. Wii, nuova
console che introduce un cambiamento nel rapporto fra utilizzatore e macchina, ciò permette di allargare
l’offerta non solo a giovani esperti di videogames ma alle famiglie, con la possibilità di usare la macchina
anche per altre finalità come il fitness). Le innovazioni distruttrici o rivoluzionarie fanno invece riferimento
agli effetti che la loro comparsa e diffusione possono comportare. Schumpeter parla di innovazioni
distruttrici come quelle capaci di sconfiggere l’inerzia sociale che fisiologicamente si oppone al
cambiamento. Studi più recenti (Downes e Nunes, 2014) parlano espressamente di innovazioni distruttive
per inquadrare gli effetti che la digitalizzazione di beni e servizi sta producendo sia per la
commercializzazione degli stessi, sia per le dinamiche di interazione tra utenti e produttori. Interi settori
industriali sono minacciati dai cosiddetti “big bang disruptors” nuovi prodotti che facendo leva sulle
tecnologie digitali possono soppiantare i concorrenti e imporre nuove logiche di relazione tra utenti,
imprese e istituzioni.
Con il termine innovatore ci si riferisce genericamente a chi introduce un’innovazione, i soggetti che
possono operare in tal senso sono però molteplici e possono agire con gradi diversi di coinvolgimento e
responsabilità in un processo innovativo. I vettori degli elementi di novità possono essere più di uno ed è
la loro interazione a dare consistenza alla stessa innovazione. Al vertice della catena ci sono gli inventori,
ovvero i generatori di idee inedite per un contesto sociale. Invenzione però non è sinonimo di
innovazione, Fagerberg (2007) sostiene che l’innovazione sia il successivo tentativo di mettere in pratica la
nuova idea. Non è però facile distinguere invenzioni e innovazioni e di conseguenza inventori e innovatori,
poiché i processi di invenzione e messa in pratica tendono a sovrapporsi.
un’innovazione però non richiede per forza un’invenzione alle spalle, ma come affermano Brynjolfson e
McAfee (2015) può essere semplicemente la ricombinazione in una forma inedita di informazioni,
pratiche e conoscenze già esistenti. Potenzialmente ogni individuo può quindi essere un innovatore. In
campo organizzativo, l’innovatore può essere una singola persona all’interno di un’organizzazione, o
l’intera organizzazione intesa come attore sociale che agisce come un’unica entità in un contesto sociale.
nel contesto delle organizzazioni, l’attore che più frequentemente assume i panni dell’innovatore è
l’imprenditore. Shumpeter (1954) considera l’innovazione come un fattore endogeno all’attività
imprenditoriale ed il fulcro dello sviluppo economico. L’imprenditore è visto come “genio” che produce
nuove combinazioni dei fattori produttivi e alimenta la dinamicità dei mercati. Non sempre però
l’imprenditore è anche innovatore o rimane un imprenditore−innovatore per tutta la vita, ci sono anche
imprenditori−manager più dediti alla gestione che all’innovazione. Un esempio di imprenditore−innovatore
è Steve Jobs, che Gladwell definisce “perfezionatore” in quanto si dedicò al perfezionamento di prodotti già
esistenti. In quest’ottica Jobs è considerato un imprenditore−innovatore perché ha saputo ricomporre e
riconfigurare prodotti e tecnologie già esistenti sul mercato, ha introdotto cioè creativamente nuove
combinazioni di fattori produttivi. Negli anni 90 alcuni studiosi hanno iniziato a parlare di “comunità di
pratica” e a mettere in evidenza come l’azione innovativa di un’organizzazione sia il risultato di uno sforzo
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collettivo trainato da alcuni gruppi di membri che contribuiscono a generare una nuova conoscenza nei
processi lavorativi. Questa conoscenza viene usata per il problem solving più spicciolo ed in più si accumula
e diviene un patrimonio che permette all’organizzazione di migliorare la propria attività. L’organizzazione è
quindi dotata di un’intelligenza che può esprimere particolare genialità nell’implementare delle
innovazioni. Gli influencer sono invece una categoria di innovatori che sono in grado di orientare le scelte di
altre persone, pubblicando consigli, recensioni e considerazioni di vario genere su un prodotto. Già negli
anni 70 Hirsch si dedica alla figura degli influencer, particolari vettori di un’innovazione che si collocano fra
gli innovatori propriamente detti e i consumatori. Essi agiscono nelle fasi iniziali di introduzione di un
prodotto e compiono un’opera di valutazione e preselezione. Gli influencer possono avere ruoli e gradi di
coinvolgimento differenti (es. produttori discografici/critici). Hirsch li considera quindi dei regolatori
istituzionali (dei gatekeepers) che filtrano il passaggio di un’innovazione dai creatori agli utenti. Studi
successivi (Berthon, Hulbert, Pitt) identificano gli influencer come soggetti in grado di plasmare e ridefinire
le aspettative dei destinatari nei confronti di un prodotto/servizio. Grazie ai social media in questa ottica
essi emergono come degli opinion leader che contribuiscono non solo alla diffusione e circolazione delle
info ma anche a orientare e delineare delle priorità, stimolando comportamenti imitativi. Per questo
motivo le relazioni tra innovatori e influencer stanno acquisendo sempre più importanza.
La categoria dei destinatari inquadra una pluralità di attori e ha confini piuttosto fluidi, essa non include
esclusivamente gli “utenti” e gli acquirenti/consumatori. Un attore può essere allo stesso tempo innovatore
e utilizzatore, e può accadere che l’acquisizione di un’innovazione non conduca al suo utilizzo.
Introduciamo quindi il concetto di ADOPTER, cioè un attore che acquisisce un’innovazione a prescindere
che ne faccia uso o meno (adottatore−utilizzatore). È quindi necessario ragionare sulla figura degli adopter:
• singoli individui
• organizzazioni
• Stati o comunità più ampie
Nell’ultimo caso avremo l’aggregazione di soggetti più eterogenei, ciò implica che le dinamiche decisionali
possono essere molteplici e non convergenti. È inoltre chiaro che la medesima adozione di un
prodotto/servizio innovativo può assumere significati diversi a seconda del contesto (es. adozione del pc in
un nucleo familiare per svago, ad esempio per utilizzare videogames vs adozione del pc sul luogo di lavoro
dettata da esigenze organizzative e di efficienza). La figura dell’adopter individuale si sovrappone quindi
spesso a quella del consumatore, invece nel caso in cui si considera un’organizzazione come adopter, uno
degli aspetti che viene esaminato è la discrepanza tra l’adozione di un’innovazione e la sua utilizzazione.
Infatti in un contesto organizzativo l’adozione di un’innovazione è spesso un passaggio distinto dalla sua
implementazione, questa distinzione è fondamentale perché rimanda a una questione fondamentale:
perché si adotta un’innovazione? Perché essa offre benefici di vario genere:
Alcuni studiosi, come Kennedy e Fiss, sostengono che l’adozione di un’innovazione può essere dovuta a
entrambi i meccanismi appena visti, il calcolo razionale e il contagio sociale. L’introduzione o l’abbandono
di un’innovazione comportano sempre dei costi e l’apparente incoerenza di adottare un’innovazione e la
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successiva decisione di abbandonarla, può essere spiegata considerando le dinamiche di calcolo razionale e
contagio sociale.
Come nota Abrahamson, attorno all’innovazione aleggia spesso positività, tuttavia ci sono dei risvolti critici
nell’adozione di un’innovazione che spesso vengono lasciati in penombra:
• La consapevolezza che un’innovazione possa produrre dei benefici per alcuni adopter, ma al
contempo possa generare dei problemi o dei danni per altre categorie di attori;
• Il riconoscimento della natura di alcuni processi di innovazione, che, per motivi diversi possono non
essere accessibili a tutti coloro che, potenzialmente, ne potrebbero trarre dei benefici.
1) Resisters: coloro che volontariamente resistevano all’uso di internet poiché non interessati a tale
tecnologia;
2) Rejecters: soggetti che dopo aver provato questa tecnologia la rifiutavano, optando per soluzioni
alternative;
3) Esclusi: soggetti che per cause diverse non potevano aver accesso a internet;
4) Espulsi: soggetti che pur avendo avuto la possibilità di utilizzare internet, avevano dovuto in
seguito abbandonare questa tecnologia per cause diverso, malgrado il loro interesse.
Un elemento che traspare nelle riflessioni per definire il concetto di innovazione concerne
l’imprescindibile carattere di novità di un’innovazione. Ogni innovazione è alimentata
dall’introduzione di una novità in un contesto, ma ciò non deve portare a credere che ogni novità
corrisponda ad una innovazione. La relativizzazione del concetto di novità dipende dal fatto che
essa può essere definita da più punti di osservazione. L’analisi di seguito discute la classificazione
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del livello di novità di un’innovazione partendo da due punti di osservazione ( l’innovatore e il
contesto di diffusione) e propone tre categorie analitiche del livello di novità, che si suppone siano
mutualmente esclusive.
L’interesse verso tale problematica deriva dalla diffusa convinzione che chi si muova per primo
possa guadagnare terreno nei confronti dei propri concorrenti e che questo vantaggio possa
generare benefici di varia natura. Quando un’organizzazione introduce un’innovazione è
consapevole di compiere la prima mossa e questa consapevolezza può costituire una spinta per
l’introduzione dell’innovazione ma al contempo può rappresentare un freno se non un vero e
proprio elemento inibitorio. Non sempre, infatti, i first−movers ottengono successo nelle proprie
iniziative, o magari quello che si erano prestabiliti di raggiungere. Inoltre non è sempre chiaro
quale sia l’organizzazione che agisce da first−mover in una determinata direzione e quindi non è
facile ricostruire la conseguenza first−mover, followers e late−entrants.
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secondo riguarda la quota di mercato che un’organizzazione può assicurarsi introducendosi
in nuovo settore. L’ultimo beneficio è riconducibile infine alla capacità di un’organizzazione
di “sopravvivere” all’interno di un nuovo mercato o settore. Non è detto che un first−mover
acquisisca linearmente gli stessi vantaggi su tutti e tre i fronti
2) Durata vantaggi first−mover= esistono vantaggi di breve periodo e di lungo periodo. I
vantaggi acquisiti nel breve periodo non garantiscono una continuità di rendimento nel
lungo periodo. Per esempio l’acquisizione di un vantaggio nel breve periodo non ne veicola
necessariamente la sua trasposizione su un arco temporale più lungo. Può accadere che i
followers primeggino nel lungo periodo sui first−movers che godettero di benefici nel breve
periodo.
3) Distinzione tra first−movers e followers= è difficile individuare il vero first−mover rispetto ad
un particolare mercato o attività anche perché la conformazione stessa di un mercato non
è mai determinata esclusivamente dall’azione di una singola organizzazione, ma plasmata
dai contributi di tanti attori che intervengono in esso. Secondo Montgomery e Lieberman
ciò che conta non è la dimensione temporale dell’azione organizzativa ma la sua peculiare
scia ( elemento poco considerato anche a causa dell’importanza data nel trovare la
differenza tra first−mover e follone). Per esempio quando si analizza l’ingresso di
un’organizzazione in un mercato si dovrebbe considerare se essa si indirizza verso una
particolare nicchia di quel mercato o al mercato per intero.
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Le forme di innovazione vengono dapprima distinte in quattro categorie (prodotto, processo,
posizione e paradigma) e quindi ulteriormente declinate in sottocategorie più specifiche che
possono congiungersi o avere una loro autonomia. La criticità di tale rappresentazione risiede
nella difficoltà di individuare e, al contempo, isolare e sintetizzare le tante sfaccettature
dell’innovazione organizzativa. Per Shumpeter lo sviluppo economico si può compiere attraverso
la combinazione di 5 forme di innovazione:
Queste traiettorie di innovazione possono combinarsi tra loro e ogni nuova combinazione può
alimentare un percorso di sviluppo economico caratterizzato da una dinamica di discontinuità
rispetto al passato. Secondo Fariborz Damanpour e Deepa Aravind esistono due filoni principali
nello studio dell’innovazione organizzativa:
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2) gli studi che pongono più enfasi sulla dimensione amministrativa e manageriale
esaminandone il rilievo strategico rispetto alle perfomance sociali ed economiche di
un’organizzazione.
Un’altra mappatura riguardo gli studi di innovazione organizzativa è quella proposta dall’OCSE nel
Manuale di Oslo che individua 4 traiettorie principali di innovazione organizzativa. Essa può
prendere forma attraverso l’implementazione a livello organizzativo di:
Secondo l’approccio teorico della costruzione sociale della tecnologia (SCOT) l’efficacia di un
artefatto è il risultato del suo percorso di sviluppo socio tecnico e non ne è, viceversa, la causa.
Questo perché ogni artefatto ha una sua socialità interna, maturata nel processo di risoluzione
delle controversie tra i diversi gruppi. Le critiche mosse all’approccio SCOT vertono sulla
distinzione tra attori sociali e oggetti tecnologici che esso alimenta. Secondo il filone della
Actornetwork theory attori umani e oggetti tecnologici sono legati in maniera indissolubile ed è
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difficile distinguere e attribuire il merito dei contributi che ciascuno di essi fornisce nello sviluppo
di un artefatto. Secondo Bruno Latour ogni artefatto tecnologico svolge un ruolo sociale in quanto
gli esseri umani tendono a delegare a esso una parte del compito di regolare i loro stessi
comportamenti e le scelte che possono compiere. Strumenti come semafori o cinture di sicurezza
svolgono un’azione strumentale di regolazione delle azioni umane ma al contempo incorporano
norme morali; questo perché i tecnici che li hanno costruiti sono riusciti a traslare in essi delle
esigenze condivise socialmente. Da considerare il fatto che la delega ad un attore non umano
appare più efficace ed efficiente della delega che si potrebbe conferire a un attore umano per
svolgere la stessa attività. Nel caso del semaforo per esempio un attore umano non può garantire
un adeguato livello di imperturbabilità, continuità e precisione nel lungo periodo come quella del
semaforo stesso.
Fondamentali nello studio dell’innovazione organizzativa sono due proposte. La prima è quella di
Alice Lam che individua tre filoni: il primo filone trova il suo baricentro nell’analisi del rapporto tra
strutture organizzative e propensione all’innovazione, ovvero indagare quali sono le variabili più
rilevanti da considerare nei processi di progettazione organizzativa. Il secondo filone gravita
attorno al tema del rapporto tra conoscenza, processi di apprendimento e generazione di
innovazione in un’organizzazione. Il terzo filone comprende gli studi dedicati all’analisi del
rapporto tra innovazione organizzativa e cambiamento ambientale.
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Julian Birkinshaw, Gary Hamel e Michael Mol hanno sviluppato una diversa classificazione della
letteratura sull’innovazione organizzativa, più incentrata sull’inquadramento delle motivazioni che
spingono un’organizzazione a promuovere e adottare un’innovazione. 4 prospettive:
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Aree di innovazione organizzativa
4 Aree:
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Capitolo 3: l’innovazione delle strategie organizzative
Il concetto di strategia è estremamente evocativo ma al tempo stesso ambiguo. Nel
linguaggio quotidiano viene usato frequentemente e talvolta con una certa disinvoltura.
Tuttavia, definire con esattezza il suo significato non è facile e soprattutto non è semplice
delineare ciò che si ritiene essere una strategia quando si esamina il comportamento di
un’organizzazione. Questa difficoltà si spiega in larga parte con la dissonanza che sussiste tra
l’idea astratta di strategia e l’effettiva declinazione che essa può avere nelle pratiche
organizzative. È comunque importante riconoscere la rilevanza del concetto di strategia per
lo studio dell’Innovazione organizzativa. Questa rilevanza emerge in particolare quando si
esamina il tema dei processi decisionali che anticipano un’innovazione: una strategia può
agire sia come premessa per l’orientamento delle scelte, sia affermarsi come esito delle
decisioni prese. Tale ambivalenza (che non indica una contraddittorietà) è uno degli aspetti che
rende importante e pervasivo il concetto di strategia per la vita di un’organizzazione.
Una strategia è una sorta di cornice che racchiude e che si declina in un insieme di altre
dimensioni dell’attività di un’organizzazione. In questa prospettiva, studiare l’innovazione
delle strategie è un tema decisamente rilevante, in quanto queste si ripercuotono
tendenzialmente in più dimensioni della vita di un’organizzazione. Il mutamento di una
strategia può venire seguendo un movimento opposto: un cambiamento in un processo o
prodotto, oppure il successo di un particolare servizio, possono stimolare la ridefinizione e
l’innovazione di una strategia preesistente.
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arrivò con il lavoro di Michael Porter. Lo schema delle 5 forze di Porter punta a permettere a
un’impresa di valutare più attentamente l’intensità del livello di competizione in un settore
industriale. Questo viene stimato identificando cinque diverse forze (o fonti) di competizione,
ossia categorie di attori che si possono rintracciare in ogni settore. L’uso che
frequentemente viene fatto dal dello schema delle cinque forze è peraltro più orientato a
individuare le minacce più serie per il perseguimento di una strategia organizzativa. Si
tratta di uno schema che accompagna un’attività di previsione di scenari futuri, attorno ai
quali modellare una strategia. Questo schema viene applicato prioritariamente alle imprese
che operano in un contesto di mercato.
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interpretazione ricalca fedelmente la concezione modernista delle organizzazioni per la quale
vi è una corrispondenza lineare tra livelli gerarchici e potere decisionale (le posizioni di vertice si
occupano dei processi decisionali, le posizioni più inferiori si occupano di compiti prevalentemente esecutivi).
Questa convenzione è stata progressivamente scalfita a favore di una visione più articolata
delle responsabilità. Si è rilevato come il top Management non sia l’unica unità organizzativa
coinvolta nelle pratiche di elaborazione, implementazione e controllo di una strategia.
All’interno di un’organizzazione, queste responsabilità possono essere distribuite, in modo
più o meno esplicito, lungo la catena gerarchica. Ciò significa anche che le strategie definite
ai vertici dell’organizzazione non vadano più considerate come direttive perentorie e
vincolanti, bensì come spunti e stimoli che hanno una funzione simbolica, oltre che
sostanziale (Mantenere, 2013).
Ciò che da una valenza organizzativa a una strategia è dunque la sua condivisione attraverso
un flusso di azioni coerenti tra loro. Da questo punto di vista, la formulazione di una
strategia è una sfida per l’organizzazione. Essa si gioca combinando tre dimensioni (Steensen,
2014):
a) Una dimensione che inquadra l’intenzionalità: ciò che un’organizzazione intende
perseguire attraverso una particolare strategia;
b) Una dimensione che riassume le pratiche (azioni e decisioni): che consentono ad una
strategia di prendere forma e sostanza;
c) Una dimensione che allude agli aspetti comunicativi (formali e informali): che
permettono la formulazione, la condivisione, la legittimazione e la stabilizzazione di
una strategia all’interno dell’organizzazione;
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può riguardare aspetti diversi dell’attività di un’organizzazione (dalla dimensione economico−
finanziaria alla configurazione della struttura iniziativa ecc.);
2) Strategia come stratagemma (ploy): spesso alcune organizzazioni mettono in atto dei
programmi che non rappresentano l’effettiva finalità che esse intendono perseguire, ma
sono agite strumentalmente per creare le condizioni per poi dispiegare altri programmi
che costituiscono la reale strategia che si intende sviluppare. (Per esempio Amazon ha iniziato
ad adottare prezzi bassi non per leadership di costo ma al fine di sbaragliare la concorrenza e fidelizzare
i propri clienti, puntata l’ottenimento di un controllo quasi monopolistico del mercato);
3) Strategia come schema di azioni ricorrenti e coerenti tra loro: secondo Mintzberg uno
schema può svilupparsi anche in assenza di una sua pianificazione iniziale. Mentre le
strategie intese come piani deliberatamente definiti devono necessariamente essere
tracciate prima dell’inizio di un’attività, gli schemi possono emergere anche se non sono
stati progettati. È comunque possibile impostare anticipatamente degli schemi d’azione
che agiscano come strategie (per
esempio nel calcio, dove ciascuna squadra adotta un particolare modulo di gioco nel corso di una
partita: 4−2−3−1, il Ninja sulla trequarti);
4) Strategia come prospettiva: per molti versi, come afferma lo stesso autore, Questa
interpretazione è speculare alla precedente: se la strategia intesa come posizione
delinea la collocazione che un’organizzazione intende avere nel proprio ambiente,
parlare di strategia come prospettiva significa invece riferirsi alla visione del mondo che
l’organizzazione intende proporre, per voce dei propri dirigenti. In quest’ottica, la
strategia sottintende
metaforicamente il carattere dell’organizzazione, al pari di quello che può essere il
carattere di una persona (organizzazioni “aggressive” sul mercato, organizzazioni che privilegiano
l’efficienza tecnica, organizzazioni che si contraddistinguono sul piano culturale). È evidente che
parlare di strategia come prospettiva significa alludere a un costrutto che è
prevalentemente astratto e intangibile, per questo motivo una strategia intesa come
prospettiva può agire soltanto se viene condivisa all’interno dell’organizzazione: laddove
vi siano resistenze, contrasti o, più semplicemente, non vi sia consapevolezza di una
particolare prospettiva, la strategia diventano lozione effimera è meramente retorica.
Le 5 interpretazioni non sono incompatibili o alternative l’una con l’altra, esse possono
convivere e aiutare a comprendere la strategia seguita da un’organizzazione. Occorre
peraltro pensare che un’organizzazione possa seguire più di una strategia, perseguendo
obiettivi diversi nelle relazioni con i vari stakeholder.
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b) Si può esaminare il processo di costruzione sociale dell’idea stessa di innovatività di
una strategia, attraverso lo studio dei fattori che contribuiscono a qualificare come
innovativa una determinata strategia: in questo caso si cerca di comprendere quali
siano i criteri e i presupposti che permettono di qualificare come innovativa una
strategia, stante che non esistono criteri o indicatori che permettono di misurare o
discriminare oggettivamente ciò che si ritiene innovativo da quanto invece non si
reputa tale.
I manager hanno generalmente le maggiori responsabilità nell’elaborazione delle strategie
organizzative, in questa prospettiva, uno spunto interessante giunge dal lavoro di Julian
Birkinshaw e Michael Mol, che hanno elaborato uno schema sintetico per comprendere i
passaggi che contraddistinguono l’innovazione della strategia organizzativa. Il focus del loro
studio è sull’implementazione all’interno di un’organizzazione di nuove pratiche
manageriali, nuovi processi amministrativi e/o di produzione, nonché di nuove
configurazioni della struttura organizzativa. Il risultato della loro analisi si traduce in un
modello composto da quattro fasi che riassume una sequenza di elementi che tipicamente si
ritrovano nelle organizzazioni che intendono cambiare e innovare la propria strategia. Un
ulteriore elemento caratterizzante dell’analisi è che secondo i due studiosi, l’innovazione di
una strategia non è un fenomeno riconducibile unicamente all’azione intenzionale degli
agenti di cambiamento interni all’organizzazione (i dirigenti). Un ruolo altrettanto importante
lo giocano gli agenti esterni, ossia un insieme eterogeneo di soggetti (come consulenti, studiosi,
ex dirigenti e altri attori) in grado di influenzare, più o meno direttamente, le scelte
dell’organizzazione.
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3˚ passaggio: i due studiosi ammettono di non aver quasi mai riscontrato nelle loro analisi
quello che metaforicamente denominato il momento eureka, vale a dire quel passaggio nel
quale un’invenzione, precedentemente pensate in astratto, prende una forma concreta e
conforme alle aspettative. Viceversa, l’elaborazione di una nuova strategia può essere
paragonata alla risoluzione di una sorta di puzzle. Secondo Birkinshaw e Mol, l’elaborazione
della strategia innovativa è quindi un processo graduale e iterativo, non paragonabile allo
stereotipo dell’invenzione come atto improvviso.
4˚ passaggio: la validazione è importante perché attribuisce legittimazione, credibilità e
spessore alla nuova strategia. Cosa significa validare internamente una strategia? La
questione non è di facile risoluzione, in quanto le strategie organizzative mancano
tendenzialmente di forme di riconoscimento oggettive o codificabili. Secondo Birkinshaw e
Mol, la validazione di una strategia innovativa all’interno di un’organizzazione può passare
attraverso la costruzione di alleanze e coalizioni (tra membri e/o reparti o divisioni
dell’organizzazione) che ne supportino la diffusione e l’implementazione. Questo passaggio
permette a una strategia di acquisire il consenso e ne permette la trasformazione in una
prospettiva condivisa e collettivamente perseguita dai membri. In assenza di un simile
riconoscimento, una strategia rischia di rimanere un costrutto astratto e retorico.
Birkinshaw e Mol menzionano quattro possibili forme di riconoscimento esterno di una
strategia:
• il riconoscimento da parte del mondo scientifico e accademico;
• il supporto di un’agenzia di consulenza;
• la promozione da parte dei media;
• il sostegno che può giungere da associazioni di categoria, enti di regolazione e
altre istituzioni che intermedino i rapporti tra le varie organizzazioni che operano
in un settore.
L’innovazione strategica come processo istituzionale: in questo paragrafo si
cercherà di comprendere come la ricerca di una soluzione strategicamente innovativa possa
essere accolta e riconosciuta come tale non esclusivamente dall’organizzazione che la
propone, ma da una più ampia rete di attori sociali, sino a far attribuire una sembianza o
valenza istituzionale alla strategia in questione. Per procedere nella riflessione occorre fare
alcune considerazioni preliminari. Il riconoscimento sociale dell’innovatività di una strategia
organizzativa è infatti una delle tante questioni che presenta una duplice implicazione. Da un
lato, essere richiama l’annoso problema della misurazione e valutazione delle innovazioni, in
particolare, delle strategie. Dall’altro, occorre riconoscere che quelle strategie che emergono
come innovative, tendono poi ad essere spesso imitate e a diffondersi in più contesti e settori.
Questo fenomeno può essere compreso come espressione di una logica di isomorfismo
(DiMaggio, Powell), ossia un processo di allineamento, da parte di più organizzazioni, a quelle
tendenze che contraddistinguono un determinato ambiente. Le ragioni dei meccanismi di
isomorfismo possono essere molteplici: DiMaggio e Powell le sintetizzano in tre categorie:
➢ Isomorfismo coercitivo: si verifica laddove più organizzazioni devono allinearsi (sottostare)
alle richieste di un’organizzazione che può esercitare nei loro confronti un potere che ne
condiziona i comportamenti e ne vincola le scelte. Si può considerare il caso delle
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organizzazioni che commissionano una grossa commessa a uno o più fornitori esterni, di
minori dimensioni e forza commerciale e/o istituzionale. È evidente che i rapporti di forza
che la parte più grande può esercitare sulle altre crea un’omogeneità di comportamenti
tra gli attori. Ciò non determina, di per sé, un’innovazione. Al tempo stesso, tuttavia, una
simile dinamica può fungere da volano per la diffusione di particolari innovazioni, se
le richieste degli attori con maggiore potere implicano una rivisitazione della strategia
degli altri. Questo può accadere, per esempio, quando un ente pubblico decide di
introdurre delle novità sostanziali nelle procedure di acquisto di beni o servizi da fornitori
esterni. Uno dei criteri più diffusi per determinare l’aggiudicazione di una specifica
commessa era quello del “massimo ribasso” sostituito più recentemente dal criterio
dell’offerta “economicamente più vantaggiosa” (prevede che l’ente acquirente valuti, oltre al
prezzo proposto per la fornitura di un servizio, una serie di fattori inerenti la sua qualità) . Per
esempio, l’ente che gestisce il servizio di refezione in una o più scuole può prevedere
una premialità per i fornitori che fanno uso di alimenti biologici o prodotti locali nella
preparazione dei cibi. In una simile transazione, l’ente acquirente si pone dunque in una
posizione di forza rispetto ai fornitori e può “imporre” un’innovazione nelle loro strategie.
Il rilievo istituzionale di questa innovazione dovuta a un meccanismo di isomorfismo
coercitivo emerge considerando che essa si risolve su tre fonti:
• Si tratta di innovazione che riguarda, in primis, l’ente che la introduce;
• Agisce quindi sulle organizzazioni interessate alla transazione, ossia i
fornitori, alimentando un processo di uniformazione alle richieste dell’ente
acquirente; Genera dei benefici che vanno a vantaggio dei destinatari del
servizio.
➢ Isomorfismo mimetico: si manifesta quando una o più organizzazioni che si trovano in una
condizione di incertezza decisionale rispetto a particolari scelte optano per imitare il
comportamento di altre organizzazioni, senza che questi esercitano su di esse alcuna
forma di condizionamento o pressione. L’aspetto distintivo dei processi di
isomorfismo mimetico è che essi generalmente si sviluppano senza che vi sia
un’effettiva dimostrazione dei benefici che si possono apportare. Ciò avviene perché
l’imitazione non è finalizzata primariamente al perseguimento di benefici strumentali
bensì serve a conferire più legittimazione all’organizzazione che ha un
comportamento mimetico (“al passo coi tempi”).
➢ Isomorfismo normativo: identifica un processo di uniformazione sollecitato dal potere che
determinate categorie di professionisti possono agire nei confronti di molte
organizzazioni. Il fenomeno dell’isomorfismo normativo si riferisce all’influenza che i
professionisti che hanno determinate prerogative nello svolgimento del proprio lavoro
(come l’esclusività della possibilità di esercitare determinate attività: come nel caso di medici, notai o
farmacisti) riescono a esercitare su una molteplicità di organizzazioni per le quali lavorano.
8 0
Hambrick. In primo luogo, essi evidenziarono il carattere relativo del concetto di strategia:
molto spesso, quelle che vengono presentate come innovazioni strategiche sono
adattamenti e allineamenti a pressioni e sollecitazioni ambientali (innovazioni new−to−the−world
e innovazioni che invece sono nuove soltanto per le organizzazioni che le promuovono) . Da ciò consegue lo
stimolo a considerare il grado di omogeneità/eterogeneità delle strategie adottate dalle
organizzazioni che operano determinato ambiente. In quest’ottica, sarà più facile verificare
l’effettivo scostamento di una strategia che viene presentata come innovativa dalle
strategie preesistenti. L’inquadramento dell’innovatività di una strategia è inoltre
ostacolato dalla discrepanza che spesso sussiste tra le scelte organizzative e la
rappresentazione che l’organizzazione offre di sé all’esterno. Molte organizzazioni tendono
a sdoppiare i propri comportamenti, creando una sorta di paravento esterno per offuscare
quelli che sono gli orientamenti che invece vengono effettivamente eseguiti. Ciò non
significa necessariamente che un’organizzazione adotti dei comportamenti ingannevole nei
confronti dei propri interlocutori, bensì che spesso un’organizzazione avverta la necessità
di mostrarsi allineata a quelle che, in un determinato ambiente, sono le fonti e i fattori che
possono incrementare la propria legittimazione e reputazione, senza tuttavia mutare alcune
convinzioni o obiettivi fondativi per l’organizzazione stessa. Apparire innovativi è una delle
più rilevanti fonti di legittimazione sociale per un’organizzazione. Per superare questa
difficoltà Snow e Hambrick propongono 4 approcci che, se combinati, potrebbero aiutare ad
avere un punto di vista più articolato:
a) Il primo riguarda le inferenze che un osservatore esterno, come un ricercatore, può
compiere attraverso le interviste, lo studio di materiale documentario e altri dati che
si possono ricavare interloquendo con un’organizzazione;
b) Il secondo approccio implica una sorta di autovalutazione da parte dei manager
dell’organizzazione. A essi si potrebbe chiedere di raccontare ed evidenziare
l’innovatività di una specifica strategia, considerando alcuni elementi di
cornice:
• L’innovatività deve essere spiegate in rapporto alle soluzioni adottate da
concorrenti ed altri stakeholder;
• La strategia innovativa dovrebbe valere per l’intera organizzazione;
• La strategia andrebbe ricompresa in un arco temporale ampio;
c) Il terzo approccio introduce invece l’ottica della valutazione esterna, conseguibile
coinvolgendo con gli osservatori privilegiati che possono fornire un punto di vista più
distaccato rispetto alle esperienze che si sta studiando;
d) Laddove possibile, si dovrebbe verificare la disponibilità e attendibilità di indicatori
oggettivi.
Attraverso queste angolature si può giungere a una lettura più nitida del carattere di
innovatività di una strategia.
L’adozione di logiche d’azione ibride: una delle tendenze delle quali si sta più
discutendo negli ultimi anni è la diffusione di forme organizzative ibride, nelle quali
convivono logiche d’azione di diversa origine e con presupposti e finalità parzialmente
discordanti. “Logica d’azione” intesa come cornice teorica entro la quale ricomprendere ed
esaminare le basi del funzionamento dell’organizzazione. Il concetto di logica d’azione
organizzativa si lega in tal senso alla nozione di logica istituzionale. In questo caso, con il
termine istituzione non si fa riferimento a una particolare fattispecie di organizzazione bensì
a un insieme di strutture cognitive, normative e regolative e attività che danno stabilità al
comportamento sociale. Le logiche istituzionali inquadrano una serie di prescrizioni sociali,
date per scontate da chi le segue e che rappresentano ciò che legittimamente può essere
considerato un obiettivo da perseguire, nonché le modalità attraverso le quali conseguirlo.
Una logica istituzionale non mantiene una traccia formale, perché cui non se ne può trovare
una declinazione materiale. Esse vengono piuttosto interiorizzate dei membri
dell’organizzazione osservando i comportamenti di altri membri della medesima collettività.
Al tempo stesso, le logiche istituzionali non sono immutabili o impermeabile ai cambiamenti
e alle sollecitazioni esterne.
Gli studi più recenti sulle organizzazioni ibride nascono per esaminare i casi in cui più logiche
istituzionali convivono in un’organizzazione. Gli esempi più emblematici sono quelli delle
imprese sociali o quello delle imprese impegnate nel microcredito. In essi convivono
espressamente almeno due dinamiche d’azione, tradizionalmente considerate antitetiche e
inconciliabili: nel caso delle imprese sociali la scelta di agire come imprese che operano
stabilmente sul mercato e, parallelamente, la volontà di essere attori che non perseguono
finalità lucrative. Il caso delle imprese impegnate nel microcredito è altrettanto stimolante,
poiché esse provvedono a erogare credito finanziario ridimensionato tuttavia le garanzie
richieste ai beneficiari.
Si tratta di strategie che si qualificano come innovative perché intendono combinare
una pluralità di obiettivi e logiche d’azione e perché il repertorio di logiche d’azione che
esse intendono seguire è disomogeneo e dissonante.
INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA
4.0 Introduzione
Questo capitolo è dedicato all’analisi dei processi di innovazione inerenti le strutture
sociali delle innovazioni. Per struttura sociale si intende generalmente la particolare
distribuzione dei ruoli e dei compiti che ciascuna organizzazione assegna ai propri
membri.
La struttura sociale di un’organizzazione si fonda su due meccanismi
(Minztberg,1983): il principio di distribuzione dell’autorità, fondato sulla definizione di
una linea di gerarchia, e il principio di suddivisioni dei compiti e funzioni, che si basa
su una logica di differenziazione. Questi meccanismi producono una differenziazione
sia dei compiti che ciascuno membro deve svolgere, sia della posizione che occuperà
in rapporto agli altri.
Per garantire che l’azione di ogni membro sia allineata a quella degli altri e converga
verso degli obbiettivi comuni, le organizzazioni mettono in atto meccanismi che
vengono definiti “integrazione dei ruoli”.
Tra i modelli più conosciuti ci sono: modello della struttura semplice o funzionale,
modello della struttura multi divisionale e il modello della struttura a matrice o a
progetto.
La struttura sociale di un’organizzazione viene generalmente rappresentata da
un organigramma, cioè quel diagramma che indica la suddivisione dei ruoli e delle
responsabilità attraverso delle coordinate orizzontali (che indicano la ripartizione
delle funzioni) e verticali (che delineano i livelli di gerarchia). Questa
rappresentazione è però parziale, perché ignora il peso di altre variabili come
l’esperienza, le competenze, l’anzianità, la dialettica e la competizione tra individui e
sub unità dell’organizzazione, etc.
Diversi studi hanno messo in evidenza come in particolari organizzazioni esistano
spazi di discrezionalità informale e non ufficialmente riconosciuti, attraverso i quali i
membri riescono ad esercitare un’influenza nei confronti di altri membri rispetto ai
quali non avrebbero formalmente nessuna autorità.
Quindi la struttura di un’organizzazione si compone di una pluralità di
dimensioni: alcune possono essere codificate e delineate attraverso
schematizzazioni uniformi, mentre altre mantengono una loro impercettibilità e
peculiarità, irriducibili ad ogni tentativo di inquadramento in modelli generali.
L’analisi dell’innovazione delle strutture organizzative si muove pertanto attraverso
l’analisi di casi che hanno introdotto delle significative discontinuità e che sono stati
poi assunti come riferimenti per la successiva progettazione di altre organizzazioni.
Il susseguirsi di modelli di struttura organizzativa non deve far pensare ad una loro
consequenzialità o ad una netta contrapposizione tra di essi. I passaggi tra i vari
modelli di struttura organizzativa non sono mai stati eccessivamente ripidi. Ciò che
si può riconoscere è un percorso di mutamento graduale e altamente differenziato,
sia nei tempi che nella sua portata.
4.1 In principio fu la divisione del lavoro
La chiave di partenza per l’evoluzione moderna delle strutture organizzative fu
il riconoscimento del principio della divisione del lavoro quale criterio fondante per la
definizione dei ruoli all’interno di un’organizzazione. Tuttavia, è dall’epoca della
rivoluzione industriale che questo criterio ha assunto una legittimazione
paradigmatica nella definizione e distribuzione dei ruoli in un contesto di lavoro
organizzativo. Sul piano della riflessione scientifica, tale riconoscimento è ricondotto
all’opera di Adam Smith, che nel suo libro “La ricchezza delle nazioni” esalta la
virtù della divisione del lavoro.
Secondo Smith, la divisione dei ruoli è un passaggio che assume una particolare
valenza quando correlato all’obiettivo dell’incremento della produttività. Tuttavia,
sempre a detta di Smith, l’adozione di una logica di divisone sociale del lavoro, non
rappresenta una predisposizione naturale dell’uomo, ma è una scelta dettata
dai vantaggi che genera in termini commerciali
Mentre nell’epoca preindustriale l’artigiano assolveva contemporaneamente a
due funzioni (lavorare e coordinare il lavoro di altri), nel sistema industriale queste
due funzioni diventarono ben presto inconciliabili.
La parcellizzazione e semplificazione delle attività produttive “preparò il terreno”
per una successiva meccanizzazione di molte di tali attività, anche grazie alle
contemporanee innovazioni emerse sul fronte tecnologico.
Ritornando a Smith possiamo dire che la sua opera delinea una più ampia dinamica
di divisone sociale del lavoro, che prelude:
- a livello micro, alla divisone individuale e alla differenziazione dei ruoli
- a livello meso, ad una più articolata configurazione delle organizzazioni in sub unità
produttive (settori, divisioni, aree…)
- a livello macro, alla specializzazione delle organizzazioni in base alle rispettive
attività produttive.
Nel tempo le innovazioni perdono il proprio cratere di innovatività, ma se
contestualizzata nella sua epoca, l’opera di Smith è un passaggio imprescindibile per
comprendere le future traiettorie di strutturazione delle organizzazioni e delle relazioni
sociali nei due secoli successivi.
In secondo luogo, alcune funzioni possono essere replicate e ridondanti, in virtù del
fatto che le varie divisioni agiscono come corpi autonomi.
4.0 Introduzione
Questo capitolo è dedicato all’analisi dei processi di innovazione inerenti le strutture
sociali delle innovazioni. Per struttura sociale si intende generalmente la particolare
distribuzione dei ruoli e dei compiti che ciascuna organizzazione assegna ai propri
membri.
La struttura sociale di un’organizzazione si fonda su due meccanismi
(Minztberg,1983): il principio di distribuzione dell’autorità, fondato sulla definizione di
una linea di gerarchia, e il principio di suddivisioni dei compiti e funzioni, che si basa
su una logica di differenziazione. Questi meccanismi producono una differenziazione
sia dei compiti che ciascuno membro deve svolgere, sia della posizione che occuperà
in rapporto agli altri.
Per garantire che l’azione di ogni membro sia allineata a quella degli altri e converga
verso degli obbiettivi comuni, le organizzazioni mettono in atto meccanismi che
vengono definiti “integrazione dei ruoli”.
Tra i modelli più conosciuti ci sono: modello della struttura semplice o funzionale,
modello della struttura multi divisionale e il modello della struttura a matrice o a
progetto.
La struttura sociale di un’organizzazione viene generalmente rappresentata da un
organigramma, cioè quel diagramma che indica la suddivisione dei ruoli e delle
responsabilità attraverso delle coordinate orizzontali (che indicano la ripartizione delle
funzioni) e verticali (che delineano i livelli di gerarchia). Questa rappresentazione è
però parziale, perché ignora il peso di altre variabili come l’esperienza, le competenze,
l’anzianità, la dialettica e la competizione tra individui e sub unità dell’organizzazione,
etc.
Diversi studi hanno messo in evidenza come in particolari organizzazioni esistano
spazi di discrezionalità informale e non ufficialmente riconosciuti, attraverso i quali i
membri riescono ad esercitare un’influenza nei confronti di altri membri rispetto ai
quali non avrebbero formalmente nessuna autorità.
Quindi la struttura di un’organizzazione si compone di una pluralità di dimensioni:
alcune possono essere codificate e delineate attraverso schematizzazioni uniformi,
mentre altre mantengono una loro impercettibilità e peculiarità, irriducibili ad ogni
tentativo di inquadramento in modelli generali.
L’analisi dell’innovazione delle strutture organizzative si muove pertanto attraverso
l analisi di casi che hanno introdotto delle significative discontinuità e che sono stati
poi assunti come riferimenti per la successiva progettazione di altre organizzazioni.
Il susseguirsi di modelli di struttura organizzativa non deve far pensare ad una loro
consequenzialità o ad una netta contrapposizione tra di essi. I passaggi tra i vari
modelli di struttura organizzativa non sono mai stati eccessivamente ripidi. Ciò che si
può riconoscere è un percorso di mutamento graduale e altamente differenziato, sia
nei tempi che nella sua portata.
4.1 In principio fu la divisione del lavoro
La chiave di partenza per l’evoluzione moderna delle strutture organizzative fu il
riconoscimento del principio della divisione del lavoro quale criterio fondante per la
definizione dei ruoli all’interno di un’organizzazione. Tuttavia, è dall’epoca della
rivoluzione industriale che questo criterio ha assunto una legittimazione paradigmatica
nella definizione e distribuzione dei ruoli in un contesto di lavoro organizzativo. Sul
piano della riflessione scientifica, tale riconoscimento è ricondotto all’opera di Adam
Smith, che nel suo libro “La ricchezza delle nazioni” esalta la virtù della divisione del
lavoro.
Secondo Smith, la divisione dei ruoli è un passaggio che assume una particolare
valenza quando correlato all’obiettivo dell’incremento della produttività. Tuttavia,
sempre a detta di Smith, l’adozione di una logica di divisone sociale del lavoro, non
rappresenta una predisposizione naturale dell’uomo, ma è una scelta dettata dai
vantaggi che genera in termini commerciali
Mentre nell’epoca preindustriale l’artigiano assolveva contemporaneamente a due
funzioni (lavorare e coordinare il lavoro di altri), nel sistema industriale queste due
funzioni diventarono ben presto inconciliabili.
La parcellizzazione e semplificazione delle attività produttive “preparò il terreno” per
una successiva meccanizzazione di molte di tali attività, anche grazie alle
contemporanee innovazioni emerse sul fronte tecnologico.
Ritornando a Smith possiamo dire che la sua opera delinea una più ampia dinamica
di divisone sociale del lavoro, che prelude:
- a livello micro, alla divisone individuale e alla differenziazione dei ruoli
- a livello meso, ad una più articolata configurazione delle organizzazioni in sub unità
produttive (settori, divisioni, aree…)
- a livello macro, alla specializzazione delle organizzazioni in base alle rispettive
attività produttive.
Nel tempo le innovazioni perdono il proprio cratere di innovatività, ma se
contestualizzata nella sua epoca, l’opera di Smith è un passaggio imprescindibile per
comprendere le future traiettorie di strutturazione delle organizzazioni e delle
relazioni sociali nei due secoli successivi.
terza e indipendente rispetto agli altri attori che interagendo le danno vita. L’elemento distintivo di qu
commercializzazione e promuovere collettivamente il prodotto. Il consorzio prevedeva
una specifica struttura di governance : per esempio i componenti dell’organo
commerciale sono scelti a rotazione, tra i dirigenti delle cooperative aderenti .
La politica perseguita dal consorzio favorisce un’armonizzazione dei prezzi di vendita,
prima attraverso la vendita di una quota del raccolto complessivo a un prezzo uniforme
e, successivamente, introducendo dei meccanismi per calmierare le differenze nei
prezzi di vendita del rimanente.
Questi meccanismi prevedono specificamente che una cooperativa, che venda le
mele ad un prezzo superiore a quello fissato dal consorzio per il 30 % del raccolto,
versi la differenza al consorzio, il quale si impegna poi alla fine dell’anno a
redistribuire ai vari soci questi ricavi aggiuntivi. I produttori e le cooperative che
vendono ad un prezzo inferiore non ricevono alcuna compensazione. In una seconda
fase, il ruolo del consorzio si allarga per divenire collettore dell’intero raccolto di tutte
le cooperative socie e gestirne complessivamente le politiche commerciali,
garantendo loro autonomia patrimoniale e organizzativa (vedere anche slide per
questo esempio). L’esempio del Consorzio Melinda mostra come le organizzazioni
rete si costruiscano seguendo una struttura federativa.
La sempre più diffusa presenza di reti organizzative ha pertanto un significato
ambivalente per il concetto di struttura organizzativa : da un lato attenua e rende assai
permeabili i confini entro i quali un’organizzazione componeva la propria struttura di
ruoli , mentre dall’altro lato le reti assumono una fisionomia strutturale che identifica
rapporti di potere, distribuzione dei compiti e responsabilità.
Henry Chesbrough fornì una nuova “etichetta” a questo campo di studi, adottando a tal fine
l'espressione open innovation.
Il concetto di open innovation evoca, per antitesi, l'ipotesi che esista una closed innovation, vale a
dire una innovazione “chiusa”, ovvero circoscritta all'interno di una singola organizzazione.
L'innovazione aperta è per molti versi la regola, anziché un'eccezione o una proposta innovativa.
Huizingh propone una lettura che distingue su due poli (chiusa vs aperta) due distinte dinamiche di
un'innovazione: il processo che ne guida lo sviluppo e l'output che da esso consegue.
Per Huizingh la produzione di software open source → rappresenta la forma più autentica di open
innovation, poiché a essere aperte sono sia il processo che l'esito del lavoro svolto da una molteplicità
di attori.
Kline e Rosenberg rivelarono che per molto tempo si è pensato che la generazione di
un'innovazione procedesse lungo un percorso lineare e schematico, che prevedeva delle fasi
sequenziali: la prima di queste fasi era la ricerca, condotta tendenzialmente in seno
all'organizzazione, alla quale seguivano le attività di sviluppo, produzione e quindi di marketing.
E' chiaro che una simile visione fosse riduttiva.
Kline e Rosenberg criticarono questo modello di generazione dell'innovazione, suggerendone uno
alternativo fondato su due diversi principi paradigmatici:
Il modello proposto da Kline e Rosengerg per superare l'interpretazione più statica della generazione
di un'innovazione si compone di più fasi, continuamente connesse tra loro → tale modello viene
definito “modello a catena”.
La valenza del modello di Kline e Rosenberg risiede nella sua capacità di illustrare la circolarità dei
passaggi tra le direttrici. In tal senso, la generazione di un'innovazione viene rappresentata come
un'operazione complessa, pluri-situata e stratificata su più livelli di azione.
I successivi tentativi di promozione di un'innovazione dovranno comunque tener conto dei passaggi
compiuti dagli attori che sono già intervenuti nel medesimo campo, a prescindere dall'esito delle
loro azioni.
E' difficile demarcare con esattezza la data (e il luogo) di nascita di un'innovazione, si può sostenere
che nel lungo e articolato processo di generazione di un'innovazione si ritrovino le radici della sua
diffusione. In parte, questo mutamento si spiega ricorrendo al concetto di → path dependency: le
scelte iniziali, in fase di progettazione, nonché le relative condizioni di contesto di partenza,
vincolano il successivo sviluppo di un'idea o di un prodotto.
La linearità della generazione di un'innovazione è stata messa in discussione anche da Ansari,
Fiss e Zajac (2010), per i quali le pratiche e le idee più innovative, sia nella loro fase gestazionale
che in quella di distribuzione e diffusione, mutano rispetto al loro disegno originale.
Il concetto chiave a cui fanno riferimento per delineare l'evoluzione di un'innovazione è quello di
adattamento: tale concetto si snoda lungo due dimensioni, che sono quelle della “fedeltà” e di
“estensione”.
L'evoluzione di un prodotto si può sviluppare seguendo combinazioni diverse in termini di
fedeltà ed estensione rispetto al disegno originario: l'adattamento non implica necessariamente una
perdita di fedeltà oppure un aumento del grado di estensione delle potenzialità di una pratica
innovativa. Le potenzialità si possono in molti casi ridurre, così come il grado di fedeltà può
rimanere costante o anche crescere.
Silvia Gherardi sostiene che l'innovazione è un processo continuo che si compie attraverso
l'incessante rifinitura di una serie di pratiche da parte di coloro che le hanno proposte.
Innovare significa tessere una trama di relazioni tra più attori.
Cap 7.3.3 Settori e sistemi di innovazione
II concetto di settore industriaIe permette di mappare Ie varietà deIIe esperienze organizzative guardando iI
tipo di output deIIe Ioro attività.
L’utilizzo del concetto di settore è complesso in quanto nasconde uno svariato numero di situazioni, circostanze
e casi che ne erodono la compattezza. Ci sono oggi molte organizzazioni che svolgono attività che si pongono “
a cavallo” di più settori− es. macchine con guida autonoma.
E’ stato introdotto la nozione di “innovation studies” − concetto che inquadra più dinamicamente Ia
classificazione delle innovazioni perché più che basarsi sull’output, ne fornisce una proiezione fondata su tre
dimensioni:
✓ Focus suIIa reIazione tra innovazione e conoscenza, suIIa base deI concetto che produzione
di innovazione impIichi, generazione di conoscenza e apprendimento
✓ Sguardo oIistico per comprendere iI più eIevato numero di fattori che entrano in gioco per
generare innovazione
✓ Prospettiva storica ed evoIutiva
✓ Enfasi deIIe differenze tra sistemi, per individuare iI più efficace ed efficiente
✓ Interdipendenza tra attori e mancanza di Iinearità neIIa generazione di innovazione
✓ RuoIo deIIe istituzioni neIIa promozione dei processi e importanza radicamento a IiveIIo sociaIe
e territoriaIe
✓ PIuraIità di strumenti concettuaIi
−Schumpeter partì dall’idea di innovazione come processo di “distruzione” e da qui anaIizzò Ie dinamiche
che possono portare aI successo un imprenditore innovatore.
Secondo Iui costui deve fronteggiare Ia fisioIogica resistenza aI cambiamento, iI processo di innovazione viene
a configurarsi più come un’azione di distruzione degli equilibri preesistenti con contrasti marchiati tra il
vecchio e iI nuovo. (panorama deIIe industrie europee primo novecento)
−Nella seconda parte della vita Schumpeter invece si basò sull’idea di innovazione come processo di
“accumulazione creativa”, cioè che l’innovazione possa procedere seguendo passaggi più lineari e
cumulativi, promossi dal lavoro interno all’organizzazione. (Società capitalista statunitense)
I due contesti vengono citati con le espressioni “Schumpeter Mark I” e Schumpeter Mark II”
NeIson e Winter anaIizzano Ie condizioni che portano un contesto a configurarsi neIIa forma di un sistema che
rispecchia Ie caratteristiche deI primo o deI secondo scenario.
L’imprenditore, secondo N&W deve continuamente cercare soIuzioni per innovare Ie strategie facendo Ieva suIIe
potenziaIità deIIe tecnoIogie e conoscenze deI momento.
− Attività in cui Ie tecnoIogie offrono poco sviIuppo e ci si focaIizza quindi su strutture organizzative
basate su ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, marketing e distribuzione.
− Attività in cui l’incidenza delle tecnologie è essenziale per acquisire un vantaggio competitivo.
Queste riflessioni rimandano alla nozione di “regime tecnologico”− ripreso poi da MaIerba e Orsenigo che
hanno fatto una più articoIata definizione dei fattori che entrano in gioco neIIa vaIutazione deIIe prospettive
offerte daIIe tecnoIogie disponibiIi.
A contrasto deIIa tesi deIIa concentrazione territoriaIe si pongono Ie rifIessioni che propendono per una
diversa caratterizzazione deIIa IocaIizzazione dei rapporti organizzativi.
I progressi tecnoIogici rendono meno vincoIanti Ie interazioni aIIa spaziaIità fisica. Secondo CasteIIs Ie
interazioni sociaIi sviIuppate onIine danno forma a spazio di fIussi e interazioni e si muovono in una dimensione
atemporaIe. Idea quindi deI superamento deI territorio come Iocus dei processi di innovazione, ma di
concentrazione dell’innovazione più imperniata all’idea di network.
Insieme aIIa crescente interazione virtuaIe si è unita Ia gIobaIizzazione, che ha fatto acquisire maggiori
possibiIità di muoversi su territori e costruire nuove forme di coIIaborazione con attori istituzionaIi e non.
Morgan sostiene che accanto aI tema deIIa portata e deIIa concentrazione territoriaIe è importante introdurre Ia
questione dello “spessore sociale” delle interazioni, per comprendere che l’estensione spaziale delle relazioni
sociaIi non corrisponde necessariamente a una diretta estensione deIIa profondità.
La prossimità fisica mantiene quindi un ruoIo pecuIiare come condizione priviIegiata per Ia creazione di fiducia
e consoIidamento deIIe reIazioni sociaIi, nonché come fonte per Ia generazione di opportunità di
apprendimento.
Parte Terza
L'innovazione tra lavoro, società e conoscenza
Queste determinanti possono entrare in gioco simultaneamente e parallelamente poiché non sono
mutualmente esclusivi. La capacità di giungere a un output innovativo dipende dalla capacità di
ogni organizzazione di combinare i diversi stimoli, interni ed esterni, e di calibrare
opportunamente il patrimonio di conoscenza.
A partire da queste premesse, in questo capitolo si approfondiranno tre questioni sulla generazione
dell'innovazione organizzativa.
1. Legame simbiotico tra innovazione e conoscenza
2. fonti dalle quali può scaturire la generazione di un'innovazione
3. la contestualizzazione dei processi di generalizzazione della conoscenza
Creatività e innovazione
La creatività è uno dei fattori che si più facilmente portati ad associare all'innovazione. Autori
quali Anderson, Potocnick e Zhou (2014) creatività e innovazione sono due concetti simbiotici.
La continuità tra i due concetti, sia in termini semantici che sostantivi, è piuttosto condivida e porta
molti a ritenere che, in assenza di creatività, sia difficile pensare a un'innovazione.
Gli interrogativi che emergono sono due: le determinanti di un comportamento creativo e le
condizioni che permettono di far sfociare il potenziale di creatività di un individuo o un gruppo
nell'implementazione di un'innovazione.
Nella discussione sul legame tra creatività e tratti caratteriali di un individuo (big five factors) si
può affermare che non esiste una correlazione diretta tra specifici elementi caratteriali e creatività.
Simili risultati inducono a pensare che la creatività individuale sia fortemente influenzata da un
insieme di fattori contestuali. Le poche ricerche sulla creatività dei gruppi si dedicano
prevalentemente ai gruppi formali. A tal proposito, Anderson, Potocnik e Zhou (2014) affermano
come le variabili più rilevanti per esaminare la creatività a livello di gruppo siano:
− struttura e composizione
− clima interno
− stile di leadership
I risultati delle ricerche concordano nel ritenere che un gruppo possa essere più creativo quando chi
esercita un ruolo di leadership adotti uno stile democratico e collaborativo nei confronti degli altri
membri.
Un'altra prospettiva considera l'organizzazione come attore creativo. In particolare, alcuni studi si
pongono la questione della valenza ontologica del concetto di creatività: essi affermano che la
creatività possa essere intesa come un costrutto discorsivo, anziché una proprietà intrinseca
dell'azione di più persone e gruppi all'interno di un'organizzazione.
Gli studiosi inoltre condividono il presupposto che la presenza di determinate precondizioni non
è sufficiente per traslare le capacità creative in un'azione innovativa. Secondo Jill Perry-Smith e Pier
Vittorio Mannucci (2016), il nesso tra creatività e innovazione si costruisce lungo un percorso
che viene descritto come una sorta di viaggio. I due studiosi identificano quattro passaggi
essenziali :
a) la fase di generazione dell'idea (già rifinita e non è semplicemente l'esito di un processo
generativo forzato o schematico);
b) la fase di elaborazione dell'idea (per chiarificarne i contenuti e verificarne la plausibilità);
c) la fase di promozione (championing) dell'idea nel contesto lavorativo (nella quale essa deve
assicurarsi non solo il supporto ma anche le risorse necessarie per la successiva
implementazione); d) la fase di implementazione dell'idea, ossia la sua “conversione” in
un'azione organizzativa (due aspetti distinti: l'implementazione vera e propria, ossia la
“costruzione” di qualcosa di nuovo e l'impatto che genera nel contesto organizzativo e conoscere
un successo imprevisto). La creatività, dunque, è la scintilla iniziale che mette
in moto questo processo che, attraverso il lavoro organizzativo, ne accompagna lo sviluppo.
La ricerca e sviluppo
Nel Manuale di Frascati definisce i criteri atti a identificare le attività di ricerca e sviluppo (R&D,
“Research and experimental development”). Un'attività può essere qualificata come R&D se è:
− nuova (originale e inedita);
− creativa ( nell'identificazione dei nuovi obiettivi e metodologie da perseguire);
− incerta (rispetto ai suoi esiti);
− sistematica ( formalmente pianificata e sostenuta a livello economico); − trasferibile e/o
riproducibile (disseminabile e replicabile in altri contesti).
Inoltre il Manuale di Frascati indica tre tipologie di attività di R&D:
a) la ricerca di base, finalizzata ad approfondire la conoscenza di particolari fenomeni (sociali
o naturali);
b) la ricerca applicata, orientata ad acquisire una maggiore conoscenza di un fenomeno in vista
di uno specifico obiettivo applicativo;
c) lo sviluppo sperimentale, condotto in modo sistematico al fine di incrementare
la conoscenza necessaria alla realizzazione di un nuovo prodotto o processo.
Un ulteriore elemento di discussione nell'analisi delle attività di R&D concerne la misurazione della
loro “portata”. Gli indicatori sono i seguenti:
− la spesa sostenuta dall'organizzazione per finanziare le attività
− numerosità del personale coinvolto nelle attività
L'attività di R&D promossa da un'organizzazione si può quindi scindere tra due sfere d'azione: una
interna, svolta dall'organizzazione, e una esterna, implementata mediante la collaborazione con altri
attori.
• Timore che l’innovazione tecnologica dia luogo a un processo di sostituzione deI Iavoro umano da
parte di macchine−> incremento disoccupazione
• Timore che l’innovazione abbia effetti disumanizzanti sulla qualità del lavoro−> condizioni di aIienazione
occupazione Lungo termine: si auspica un recupero (o un saIdo positivo) tra posti di Iavoro
distrutti e ricreati.
In più è anche impossibile isolare gli effetti netti di una innovazione rispetto all’azione concorrente di altri
fenomeni sociaIi.
8.2L’innovazione è causa di disoccupazione?
AnaIisi effetti in termini occupazionaIi: (riprendo concetto iniziaIe)
• Quantitativi: misurare e/o stimare variazione deI numero di posti di Iavoro conseguente un processo
di innovazione
• QuaIitativi: quaIi dinamiche abbiano caratterizzato l’evoluzione di innovazione e quali siano state le
categorie di attori più beneficiate/penaIizzate da essa.
Pianta (economista) ha riIevato come, neIIe discipIine economiche, Io studio degIi effetti abbia
seguito due prospettive: Approcci neocIassici
−considerano l’innovazione un fenomeno esogeno rispetto alla crescita economica, cioè prende forma
“fuori dalle imprese” (laboratori di ricerca,..) e le imprese ne raccolgono i frutti.
− l’innovazione può causare perdita di posti, ma i posti persi possono essere recuperati grazie
aI meccanismo di” equilibratura tra domanda e offerta di lavoro.” (cioè che le persone che perdono
il Iavoro sono poi disposte ad accettare un nuovo impiego, anche a saIario ridotto, pur di assicurarsi
una fonte di reddito)
• Approccio Schumpeteriane
−L’innovazione matura come fenomeno endogeno (interno) alla competizione di mercato e le imprese
sono a Ioro voIta capaci di generare innovazione.
− L’innovazione può causare perdita di posti, questo approccio poi critica il precedente del
meccanismo di “equilibratura” in quanto non sempre chi perde lavoro ha le competenze per svolgerne
un aItro e non sempre Ia nuova occupazione ha Iuogo neIIo stesso posto.
Sostengono invece l’ipotesi che l’innovazione possa essere causa di un aumento di
“disoccupazione tecnologica/strutturale”− Ia più difficiIe da riassorbire in quanto porta modifiche
neIIa struttura occupazionaIe.
Pianta propone 3 IiveIIi di osservazione:
• LiveIIo singoIe imprese: Ie imprese innovative sono queIIe che espandono più veIocemente
l’occupazione. E’ difficile verificare se l’aumento di occupazione avvenga a spese delle imprese non
innovative oppure è un effetto netto e non sottrattivo.
• LiveIIo settoriaIe: spiegato da Labini− ritiene che Ia chiave di Iettura per biIanciare iI rapporto
innovazione−occupazione sia nella questione della produttività. Questo funziona se l’innovazione
assume prevaIentemente una funzione di risparmio deI Iavoro. (innovazione di processo).
Limitando l’analisi a un settore è possibile verificare se gli esiti dell’incremento di produttività
abbiano determinato un caIo suI piano occupazionaIe.
• Livello macroeconomico: oltre che all’aumento della complessità analitica bisogna in questo
caso aumentare Io spazio temporaIe di anaIisi.
1870−in avanti: notevoIi innovazioni, nei paesi occidentaIi, Ia produttività individuaIe è cresciuta a
dismisura, moIto più deIIa crescita demografica.
−Fase maIthusiana di equiIibrio (prima deIIa RivoIuzione industriaIe): crescita demografica
sostanziaImente ferma, Ienti e impercettibiIi avanzamenti tecnoIogici
−Scenario post−maIthusiano: popoIazione in aumento a ritmo sostenuto, cosi come Ie innovazioni. No
nesso causaIe tra progresso tecnoIogico, incremento deIIa produttività individuaIe e crescita
popoIazione.
−Regime moderno di crescita ( anni 30): Paesi occidentaIi: iI reddito individuaIe cresce progressivamente
ogni anno mentre Ia crescita demografica no. ( in ItaIia, aI netto degIi immigrati è zero) resto deI
mondo: tassi di crescita in costante crescita e redditi stabiIi.
L’innovazione, negli anni, ha messo alla prova equilibri socioeconomici. Nei paesi occidentali il suo
contributo (dell’innovazione) :
1. Ha favorito Ia crescita deIIa produttività individuaIe e così aIimentato un processo di mutamento
sociaIe. Es. com’è cambiato il mondo dell’agricoltura. Il numero degli occupati è drasticamente calato
ma la produttività e Ie esportazioni cresciute a dismisura.
2. Non è stato l’unico contributo, l’innovazione ha avuto luogo insieme ad altre forze e processi,
quali la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro che ha ridotto il rischio della ridondanza del
personale.
Le tendenze che hanno contrassegnato l’evoluzione del rapporto tra innovazione organizzativa e
occupazione sono risuItate mutevoIi neI tempo. Un primo aspetto è dato daIIa vaIenze che ,neI tempo,
hanno assunto Ie tecnoIogie rispetto aI Iavoro umano.
• XIX secoIo− tecnoIogie: ruoIo sostitutivo deI Iavoro umano. GIi artigiani e gIi operai vedevano iI
Ioro Iavoro sostituito daIIe macchine.
• XX secolo tecnologia ha un ruolo complementare alla forza lavoro soprattutto nell’ambito dei
principaIi settori di produzione industriaIe.
Effetto selettivo dell’innovazione sulla composizione della forza lavoro.
1960−L’innovazione colpì maggiormente lavoratori meno qualificati − “skill based technological
change”.