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INTRODUZIONE

L’innovazione è uno degli argomenti più discussi e controversi in tutte le scienze, ed è riduttivo trattarla
come un “argomento”, cioè una sequenza di studi, teorie e nozioni. Essa identifica un passaggio, un
mutamento fra due condizioni o momenti, distingue cioè due fasi di un percorso, ma al tempo stesso le
congiunge attraverso una logica di confronto tra esse. (ES. La rivoluzione industriale innova radicalmente la
società occidentale sconvolgendo totalmente equilibri e pratiche sociali consolidate nei secoli precedenti.)
Il concetto di innovazione, nel corso del tempo ha assunto una connotazione tendenzialmente positiva,
poiché esso è sempre accompagnato da fiducia e ottimismo, non mancano però i casi in cui parlare di
innovazione genera preoccupazione. Per studiare innovazione è quindi necessario assumere un
atteggiamento distaccato e analitico. L’innovazione organizzativa si occupa dei processi innovativi costruiti
collettivamente in un contesto organizzato. L’azione delle organizzazioni si è innovata nel tempo, e di
conseguenza molte organizzazioni hanno sviluppato attività sempre più innovative identificabili sotto forma
di prodotti, servizi, processi di lavoro, strategie, relazioni, culture e ideologie. Sono vari anche i fronti in cui
si vede l’azione dell’innovazione organizzativa: a livello sociale, economico, tecnologico, politico, legislativo
etc. Questo perché le organizzazioni rappresentano degli attori sociali incastonati in una molteplicità di
contesti e che si devono confrontare con una pluralità di interessi, sfide e opportunità.

L’innovazione è tale solo se si mettono a confronto due momenti storici o per lo meno due stati delle
cose: un “prima” e un “dopo”. L’innovazione è il processo che permette di transitare tra le due fasi. Ogni
innovazione è sempre relativa, il suo stesso riconoscimento può essere oggetto di controversie: ciò che è
innovazione per alcuni può non esserlo per altri. Attorno all’innovazione sono stati progressivamente
costruiti molteplici “discorsi”, per effetto degli scambi tra studiosi, ricercatori e imprenditori, e molti di
questi discorsi hanno seguito direzioni molto diverse, pur partendo da presupposti spesso coincidenti. (es.
rapporto fra innovazione e occupazione, cioè fra progresso e mantenimento/erosione dei posti di lavoro).

CAP 1 IL CONCETTO DI INNOVAZIONE

Le definizioni di innovazione che si possono rintracciare in letteratura sono molteplici, e spesso


contraddittorie tra loro, esse devono essere filtrate attraverso una lente interdisciplinare, al fine di
coglierne le diverse sfumature e declinazioni. Scorrendo tra le proposte definitorie più citate, si può in più
notare come tale concetto possa essere inteso in termini più funzionalisti e operativi oppure in senso più
interpretativo e simbolico. Bisogna partire dal presupposto che non esistono idee, prodotti, soluzioni che
grazie a delle proprietà intrinseche sono per natura innovativi; al tempo stesso non esistono identificatori
universalmente validi che permettano di definire inequivocabilmente l’innovazione. Come sostenuto da
Kline e Rosenberg l’innovazione è un processo complesso, variegato e di difficile misurazione. L’innovazione
è pertanto un costrutto simbolico che contribuisce a caratterizzare la dinamicità dei fenomeni sociali e per
questo motivo mantiene alla base un ampio grado di soggettività e arbitrarietà. Definire il concetto di
innovazione è un processo di interpretazione della realtà, ogni sua definizione deve rimarcare il carattere
processuale e fornire delle chiavi di lettura per una scansione dinamica di delle azioni o degli eventi che
possono generare un artefatto che si intende qualificare come innovativo; ciò è ancora più necessario
poiché ogni innovazione va sempre intesa in termini relativi e contingenti: un innovazione non è mai tale
per sempre, ciò che appare innovativo in un dato momento storico può successivamente apparire
obsoleto. Le dimensioni da tenere in considerazione quando si parla di innovazione sono allora:

• La differenza fra cambiamento e innovazione, come passaggio fondativo del ragionamento;


• L’analisi della diversa intensità che un processo di innovazione può avere;
• L’osservazione dei tanti e diversi attori che entrano in gioco nello studio delle innovazioni;
• La discussione delle difficoltà di tracciare il momento preciso di “genesi” di un’innovazione.

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CAMBIAMENTO E INNOVAZIONE

Ogni processo di innovazione implica un cambiamento; secondo Ramella “l’innovazione è il mutamento di


uno stato di cose esistente, al fine di introdurre qualcosa di nuovo”, l’innovazione è quindi l’unione di
un’azione di cambiamento ed il suo esito. Un semplice cambiamento non costituisce un’innovazione se
non produce un esito rilevante, tuttavia non esiste un algoritmo per delineare il confine tra cambiamento e
innovazione; si deve far quindi ricorso a una serie di “indizi” che aiutano a distinguere questi 2 processi:

1) PORTATA DELL’ESITO DEL PROCESSO: un cambiamento ha un effetto più limitato mentre


un’innovazione incide più significativamente su coloro che ne sono toccati;
2) DIMENSIONE TEMPORALE: lo scarto fra innovazione e cambiamento si nota nel lungo
periodo, alcuni fenomeni che vengono categorizzati come cambiamenti nel breve periodo
possono essere poi considerati vere e proprie innovazioni (ne è un esempio il container,
introdotto da Malcom McLean nel ’56 e considerato nei primi tempi nulla più che una
“scatola”, salvo poi diventare praticamente l’unico metodo utilizzato per il trasporto di
merci), ma può succedere anche l’opposto (es. il videofonino, presentato come una rivoluzione
nelle modalità di comunicazione, che ebbe poco successo commerciale e venne poi
ridimensionato a semplice parte del processo evolutivo dei dispositivi di comunicazione). È
chiaro quindi che tali valutazioni possono essere formulate solo a posteriori.

IL MANUALE DI OSLO è un documento redatto dall’ OECD che contiene una serie di linee guida per l’analisi
e la rilevazione di processi innovativi: esso fornisce una precisa definizione di innovazione:
“l’implementazione di un prodotto nuovo o significativamente migliorato (bene o servizio), o di un processo,
o un nuovo metodo di marketing oppure un nuovo metodo organizzativo nelle pratiche commerciali, nelle
configurazioni di lavoro o delle relazioni esterne” ; inoltre delinea chiaramente quali cambiamenti non
possono essere qualificati come innovazioni:

• Le cessazioni nella produzione di un bene/servizio;


• L’aggiornamento di prodotti esistenti;
• I cambiamenti nel prezzo di commercializzazione di un bene/servizio;
• La personalizzazione di un prodotto;
• i cambiamenti stagionali e/o ciclici delle caratteristiche di un prodotto;
• la commercializzazione di nuovi prodotti.
Pur fornendo un’idea precisa e minuziosa delle differenze fra cambiamenti e innovazioni anche questo
Manuale va preso con le pinze in quanto contrasta con il pensiero di autorevoli studiosi, ad es.
Schumpeter sostiene che la commercializzazione di nuovi prodotti sia una delle principali fonti di
innovazione. Il Manuale opera però una distinzione fra commercializzazione (intesa come ampliamento di
gamma) e implementazione di un nuovo prodotto. Le linee di demarcazione sono quindi in ogni caso
molto sottili.
D’altra parte il MANUALE DI OSLO si offre di fornire degli indicatori che possano operativizzare il concetto
di innovazione e questo porta a delle semplificazioni che possono far smarrire alcuni dei riflessi più
importanti dei processi di innovazione. Per superare questo problema un approccio possibile è quello di
considerare la distinzione fra cambiamenti e innovazioni come un processo di attribuzione di senso
(sensemaking): un cambiamento è l’introduzione di una differenza mentre ‘innovazione è la percezione di
una specifica differenza e la sua interpretazione come un fenomeno che è degno di maggiore
considerazione nel flusso degli eventi. L’innovazione appare dunque come la “percezione di una differenza”
attraverso la lettura retroattiva di uno scenario da parte di un soggetto. Innovazione è quindi la capacità di
marcare discontinuità anziché una semplice progressione.

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INTENSITA’

Una distinzione classica è quella tra innovazioni incrementali e radicali, ma anche in questo caso non esiste
una scala di misurazione che sancisce inequivocabilmente la differenza tra le due. Dewar e Dutton notano
che la distinzione è più facile da intuire che da misurare. In termini generali un’innovazione incrementale
favorisce un passaggio più graduale da una situazione precedente, un’innovazione radicale è invece una
sorta di punto di rottura che genera discontinuità con il passato. Norman e Verganti (2013) suggeriscono
invece che l’innovazione radicale comporti un cambio di prospettiva (frame) nell’attività di
un’organizzazione o nelle modalità di fruizione di un bene o servizio da parte degli utenti (es. Wii, nuova
console che introduce un cambiamento nel rapporto fra utilizzatore e macchina, ciò permette di allargare
l’offerta non solo a giovani esperti di videogames ma alle famiglie, con la possibilità di usare la macchina
anche per altre finalità come il fitness). Le innovazioni distruttrici o rivoluzionarie fanno invece riferimento
agli effetti che la loro comparsa e diffusione possono comportare. Schumpeter parla di innovazioni
distruttrici come quelle capaci di sconfiggere l’inerzia sociale che fisiologicamente si oppone al
cambiamento. Studi più recenti (Downes e Nunes, 2014) parlano espressamente di innovazioni distruttive
per inquadrare gli effetti che la digitalizzazione di beni e servizi sta producendo sia per la
commercializzazione degli stessi, sia per le dinamiche di interazione tra utenti e produttori. Interi settori
industriali sono minacciati dai cosiddetti “big bang disruptors” nuovi prodotti che facendo leva sulle
tecnologie digitali possono soppiantare i concorrenti e imporre nuove logiche di relazione tra utenti,
imprese e istituzioni.

GLI ATTORI IN GIOCO

GLI INNOVATORI: INVENTORI ED INFLUENCER

Con il termine innovatore ci si riferisce genericamente a chi introduce un’innovazione, i soggetti che
possono operare in tal senso sono però molteplici e possono agire con gradi diversi di coinvolgimento e
responsabilità in un processo innovativo. I vettori degli elementi di novità possono essere più di uno ed è
la loro interazione a dare consistenza alla stessa innovazione. Al vertice della catena ci sono gli inventori,
ovvero i generatori di idee inedite per un contesto sociale. Invenzione però non è sinonimo di
innovazione, Fagerberg (2007) sostiene che l’innovazione sia il successivo tentativo di mettere in pratica la
nuova idea. Non è però facile distinguere invenzioni e innovazioni e di conseguenza inventori e innovatori,
poiché i processi di invenzione e messa in pratica tendono a sovrapporsi.
un’innovazione però non richiede per forza un’invenzione alle spalle, ma come affermano Brynjolfson e
McAfee (2015) può essere semplicemente la ricombinazione in una forma inedita di informazioni,
pratiche e conoscenze già esistenti. Potenzialmente ogni individuo può quindi essere un innovatore. In
campo organizzativo, l’innovatore può essere una singola persona all’interno di un’organizzazione, o
l’intera organizzazione intesa come attore sociale che agisce come un’unica entità in un contesto sociale.
nel contesto delle organizzazioni, l’attore che più frequentemente assume i panni dell’innovatore è
l’imprenditore. Shumpeter (1954) considera l’innovazione come un fattore endogeno all’attività
imprenditoriale ed il fulcro dello sviluppo economico. L’imprenditore è visto come “genio” che produce
nuove combinazioni dei fattori produttivi e alimenta la dinamicità dei mercati. Non sempre però
l’imprenditore è anche innovatore o rimane un imprenditore−innovatore per tutta la vita, ci sono anche
imprenditori−manager più dediti alla gestione che all’innovazione. Un esempio di imprenditore−innovatore
è Steve Jobs, che Gladwell definisce “perfezionatore” in quanto si dedicò al perfezionamento di prodotti già
esistenti. In quest’ottica Jobs è considerato un imprenditore−innovatore perché ha saputo ricomporre e
riconfigurare prodotti e tecnologie già esistenti sul mercato, ha introdotto cioè creativamente nuove
combinazioni di fattori produttivi. Negli anni 90 alcuni studiosi hanno iniziato a parlare di “comunità di
pratica” e a mettere in evidenza come l’azione innovativa di un’organizzazione sia il risultato di uno sforzo

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collettivo trainato da alcuni gruppi di membri che contribuiscono a generare una nuova conoscenza nei
processi lavorativi. Questa conoscenza viene usata per il problem solving più spicciolo ed in più si accumula
e diviene un patrimonio che permette all’organizzazione di migliorare la propria attività. L’organizzazione è
quindi dotata di un’intelligenza che può esprimere particolare genialità nell’implementare delle
innovazioni. Gli influencer sono invece una categoria di innovatori che sono in grado di orientare le scelte di
altre persone, pubblicando consigli, recensioni e considerazioni di vario genere su un prodotto. Già negli
anni 70 Hirsch si dedica alla figura degli influencer, particolari vettori di un’innovazione che si collocano fra
gli innovatori propriamente detti e i consumatori. Essi agiscono nelle fasi iniziali di introduzione di un
prodotto e compiono un’opera di valutazione e preselezione. Gli influencer possono avere ruoli e gradi di
coinvolgimento differenti (es. produttori discografici/critici). Hirsch li considera quindi dei regolatori
istituzionali (dei gatekeepers) che filtrano il passaggio di un’innovazione dai creatori agli utenti. Studi
successivi (Berthon, Hulbert, Pitt) identificano gli influencer come soggetti in grado di plasmare e ridefinire
le aspettative dei destinatari nei confronti di un prodotto/servizio. Grazie ai social media in questa ottica
essi emergono come degli opinion leader che contribuiscono non solo alla diffusione e circolazione delle
info ma anche a orientare e delineare delle priorità, stimolando comportamenti imitativi. Per questo
motivo le relazioni tra innovatori e influencer stanno acquisendo sempre più importanza.

I DESTINATARI: ADOPTER E UTILIZZATORI

La categoria dei destinatari inquadra una pluralità di attori e ha confini piuttosto fluidi, essa non include
esclusivamente gli “utenti” e gli acquirenti/consumatori. Un attore può essere allo stesso tempo innovatore
e utilizzatore, e può accadere che l’acquisizione di un’innovazione non conduca al suo utilizzo.
Introduciamo quindi il concetto di ADOPTER, cioè un attore che acquisisce un’innovazione a prescindere
che ne faccia uso o meno (adottatore−utilizzatore). È quindi necessario ragionare sulla figura degli adopter:

• singoli individui
• organizzazioni
• Stati o comunità più ampie
Nell’ultimo caso avremo l’aggregazione di soggetti più eterogenei, ciò implica che le dinamiche decisionali
possono essere molteplici e non convergenti. È inoltre chiaro che la medesima adozione di un
prodotto/servizio innovativo può assumere significati diversi a seconda del contesto (es. adozione del pc in
un nucleo familiare per svago, ad esempio per utilizzare videogames vs adozione del pc sul luogo di lavoro
dettata da esigenze organizzative e di efficienza). La figura dell’adopter individuale si sovrappone quindi
spesso a quella del consumatore, invece nel caso in cui si considera un’organizzazione come adopter, uno
degli aspetti che viene esaminato è la discrepanza tra l’adozione di un’innovazione e la sua utilizzazione.
Infatti in un contesto organizzativo l’adozione di un’innovazione è spesso un passaggio distinto dalla sua
implementazione, questa distinzione è fondamentale perché rimanda a una questione fondamentale:
perché si adotta un’innovazione? Perché essa offre benefici di vario genere:

• Benefici strumentali: grazie all’innovazione introdotta si possono compiere determinate attività in


modo più efficace ed efficiente, avviene quindi un calcolo razionale dei benefici;
• Benefici di caratura sociale: l’adozione di un’innovazione permette di conformarsi a mode o
rispondere a delle pressioni ambientali in forme che si ritengono più legittime. (“contagio sociale”,
cioè la tendenza a uniformarsi per la paura di rimanere in una posizione marginale o isolata).

Alcuni studiosi, come Kennedy e Fiss, sostengono che l’adozione di un’innovazione può essere dovuta a
entrambi i meccanismi appena visti, il calcolo razionale e il contagio sociale. L’introduzione o l’abbandono
di un’innovazione comportano sempre dei costi e l’apparente incoerenza di adottare un’innovazione e la

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successiva decisione di abbandonarla, può essere spiegata considerando le dinamiche di calcolo razionale e
contagio sociale.

BENEFICIARI, ESCLUSI E VITTIME

Come nota Abrahamson, attorno all’innovazione aleggia spesso positività, tuttavia ci sono dei risvolti critici
nell’adozione di un’innovazione che spesso vengono lasciati in penombra:

• La consapevolezza che un’innovazione possa produrre dei benefici per alcuni adopter, ma al
contempo possa generare dei problemi o dei danni per altre categorie di attori;
• Il riconoscimento della natura di alcuni processi di innovazione, che, per motivi diversi possono non
essere accessibili a tutti coloro che, potenzialmente, ne potrebbero trarre dei benefici.

Possiamo quindi identificare 3 categorie di attori:

1) I beneficiari, ovvero coloro che traggono vantaggio da un’innovazione;


2) Gli esclusi, cioè coloro che per scelta o per impossibilità non entrano in contatto con l’innovazione;
3) Le vittime, ovvero gli attori che sono danneggiati da un processo di innovazione.

La compresenza di queste categorie è pressoché fisiologica.


Schumpeter ha descritto l’innovazione come un processo di “distruzione creatrice” cioè l’impulso
fondamentale che permette l’evoluzione di un sistema capitalista, rendendolo dinamico e non stazionario.
Questa dinamicità, dovuta alla competizione fra i diversi imprenditori, si traduce in una continua
contrapposizione tra vinti e vincitori. In quest’ottica si può quindi affermare che i primi beneficiari di
un’innovazione di successo siano gli stessi innovatori. Beneficiari di un’innovazione sono anche gli
utilizzatori, o più in generale adopter di un’innovazione.
Vi sono poi dei soggetti che possono essere esclusi dal godimento dei benefici di un’innovazione o altri
che pur avendo la possibilità di accedere a un’innovazione semplicemente non ne sono interessati. L’analisi
di Sally Wyatt (detta Nik) sull’accesso e l’utilizzo alla rete internet ci fornisce 4 diverse sfaccettature della
categoria degli esclusi:

1) Resisters: coloro che volontariamente resistevano all’uso di internet poiché non interessati a tale
tecnologia;
2) Rejecters: soggetti che dopo aver provato questa tecnologia la rifiutavano, optando per soluzioni
alternative;
3) Esclusi: soggetti che per cause diverse non potevano aver accesso a internet;
4) Espulsi: soggetti che pur avendo avuto la possibilità di utilizzare internet, avevano dovuto in
seguito abbandonare questa tecnologia per cause diverso, malgrado il loro interesse.

Riassunto pag. 48−82 Innovazione


La fuorviante sovrapposizione tra novità e innovazioni

Un elemento che traspare nelle riflessioni per definire il concetto di innovazione concerne
l’imprescindibile carattere di novità di un’innovazione. Ogni innovazione è alimentata
dall’introduzione di una novità in un contesto, ma ciò non deve portare a credere che ogni novità
corrisponda ad una innovazione. La relativizzazione del concetto di novità dipende dal fatto che
essa può essere definita da più punti di osservazione. L’analisi di seguito discute la classificazione

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del livello di novità di un’innovazione partendo da due punti di osservazione ( l’innovatore e il
contesto di diffusione) e propone tre categorie analitiche del livello di novità, che si suppone siano
mutualmente esclusive.

1) In primo luogo esistono novità che corrispondono a delle proposte assolutamente


inedite, mai presentate in precedenza. Sono chiamate le innovazioni new−to−the −world e
sono tali sia per l’innovatore sia per il contesto (mercato, territorio, rete sociale) nel quale
vengono introdotte.
2) Una seconda categoria è quella delle innovazioni che non sono altro che il trasferimento di
innovazioni già presentate in nuovi contesti, nei quali non erano conosciute (apertura in
Italia del primo fast food negli anni ’80). Spesso, il trasferimento di un’innovazione da un
contesto all’altro avviene grazie all’azione di un attore che non è l’inventore originario
dell’innovazione (primi Bancomat in Italia portati dalla Cassa di Risparmio di Ferrara,
originariamente inventati in Inghilterra).
3) Le innovazioni imitative. Si tratta di innovazioni tali solo per l’innovatore ma non per il
contesto nel quale esso opera (ristoratore che decide di introdurre dei piatti vegani nel
proprio menù o imprese che abbandonano il proprio processo o prodotto per
svilupparne uno simile proposto da un concorrente).

Innovazione e “vantaggio della prima mossa”

L’interesse verso tale problematica deriva dalla diffusa convinzione che chi si muova per primo
possa guadagnare terreno nei confronti dei propri concorrenti e che questo vantaggio possa
generare benefici di varia natura. Quando un’organizzazione introduce un’innovazione è
consapevole di compiere la prima mossa e questa consapevolezza può costituire una spinta per
l’introduzione dell’innovazione ma al contempo può rappresentare un freno se non un vero e
proprio elemento inibitorio. Non sempre, infatti, i first−movers ottengono successo nelle proprie
iniziative, o magari quello che si erano prestabiliti di raggiungere. Inoltre non è sempre chiaro
quale sia l’organizzazione che agisce da first−mover in una determinata direzione e quindi non è
facile ricostruire la conseguenza first−mover, followers e late−entrants.

Lieberman e Montgomery tracciano i vantaggi per un’organizzazione imprenditoriale che agisce da


first−mover :

1) l’acquisizione di una posizione di leadership sul piano tecnologico;


2) l’opportunità di ottenere un più ampio controllo su particolari risorse (economiche,
materiali, sociali);
3) la possibilità di introdurre dei costi di cambiamento per gli adopter di un proprio servizio o
prodotto.

Lieberman e Montgomery evidenziano poi la complessità della definizione di first−mover e dei


vantaggi che esso può acquisire. Tre punti :

1) Identificazione e misurazione del vantaggio dei first−movers = un primo beneficio consiste


nel profitto che un’organizzazione può trarre nell’inserirsi per prima in un mercato. Un

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secondo riguarda la quota di mercato che un’organizzazione può assicurarsi introducendosi
in nuovo settore. L’ultimo beneficio è riconducibile infine alla capacità di un’organizzazione
di “sopravvivere” all’interno di un nuovo mercato o settore. Non è detto che un first−mover
acquisisca linearmente gli stessi vantaggi su tutti e tre i fronti
2) Durata vantaggi first−mover= esistono vantaggi di breve periodo e di lungo periodo. I
vantaggi acquisiti nel breve periodo non garantiscono una continuità di rendimento nel
lungo periodo. Per esempio l’acquisizione di un vantaggio nel breve periodo non ne veicola
necessariamente la sua trasposizione su un arco temporale più lungo. Può accadere che i
followers primeggino nel lungo periodo sui first−movers che godettero di benefici nel breve
periodo.
3) Distinzione tra first−movers e followers= è difficile individuare il vero first−mover rispetto ad
un particolare mercato o attività anche perché la conformazione stessa di un mercato non
è mai determinata esclusivamente dall’azione di una singola organizzazione, ma plasmata
dai contributi di tanti attori che intervengono in esso. Secondo Montgomery e Lieberman
ciò che conta non è la dimensione temporale dell’azione organizzativa ma la sua peculiare
scia ( elemento poco considerato anche a causa dell’importanza data nel trovare la
differenza tra first−mover e follone). Per esempio quando si analizza l’ingresso di
un’organizzazione in un mercato si dovrebbe considerare se essa si indirizza verso una
particolare nicchia di quel mercato o al mercato per intero.

L’innovazione organizzativa: forme e specificità


Nel loro insieme, gli studi sull’innovazione organizzativa ambiscono a cogliere le diverse
sfaccettature del ruolo di un’organizzazione rispetto ai processi di innovazione. Per
comprendere più dettagliatamente la fisionomia dei processi di innovazione organizzativa si
possono compiere diversi passaggi esplorativi.

1 . Il perimetro delle riflessioni sull’innovazione organizzativa


Per individuare il nucleo centrale degli studi di innovazione organizzativa si può richiamare la
definizione di Alice Lam (picchiare), per la quale si può parlare di innovazione organizzativa
quando un’organizzazione crea o adotta una nuova idea o una nuova pratica.

Rappresentazione delle forme di innovazione organizzativa

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Le forme di innovazione vengono dapprima distinte in quattro categorie (prodotto, processo,
posizione e paradigma) e quindi ulteriormente declinate in sottocategorie più specifiche che
possono congiungersi o avere una loro autonomia. La criticità di tale rappresentazione risiede
nella difficoltà di individuare e, al contempo, isolare e sintetizzare le tante sfaccettature
dell’innovazione organizzativa. Per Shumpeter lo sviluppo economico si può compiere attraverso
la combinazione di 5 forme di innovazione:

1) La produzione di un nuovo bene


2) L’introduzione di un nuovo metodo di produzione
3) l’apertura di un nuovo mercato
4) l’individuazione di una nuova fonte di approvvigionamento di materie prime e di
semilavorati
5) la riconfigurazione di un settore industriale mediante, per esempio, la distruzione o la
creazione di situazioni di monopolio.

Queste traiettorie di innovazione possono combinarsi tra loro e ogni nuova combinazione può
alimentare un percorso di sviluppo economico caratterizzato da una dinamica di discontinuità
rispetto al passato. Secondo Fariborz Damanpour e Deepa Aravind esistono due filoni principali
nello studio dell’innovazione organizzativa:

1) gli studi che si focalizzano sull’innovazione di prodotto o di processo che si


contraddistinguono per una maggiore attenzione alla dimensione tecnologica dei fenomeni
di innovazione avendo il vantaggio di individuare più tangibilmente gli oggetti (prodotti o
servizi) che sono al centro di riflessioni e ricerche.

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2) gli studi che pongono più enfasi sulla dimensione amministrativa e manageriale
esaminandone il rilievo strategico rispetto alle perfomance sociali ed economiche di
un’organizzazione.

Un’altra mappatura riguardo gli studi di innovazione organizzativa è quella proposta dall’OCSE nel
Manuale di Oslo che individua 4 traiettorie principali di innovazione organizzativa. Essa può
prendere forma attraverso l’implementazione a livello organizzativo di:

a) un nuovo prodotto o un miglioramento del prodotto stesso


b) un nuovo processo produttivo
c) un nuovo metodo di marketing
d) una nuova configurazione della struttura organizzativa .

2. Il controverso rapporto tra innovazione tecnologica e


innovazione organizzativa
L’innovazione tecnologica è stata per lungo tempo considerata la fonte e la forza trainante di ogni
processo di innovazione organizzativa. Questo concetto viene definito “determinismo
tecnologico” e ritiene che la tecnologia sia una risorsa che impatta in modo imperativo su
componenti appartenenti a organizzazione come la forza lavoro, il forzo lavoro, il capitale
finanziario e la struttura sociale, indirizzando le scelte di un’organizzazione. Un esempio a riguardo
è l’invenzione della staffa che potenziò le capacità belliche della cavalleria favorendo la nascita
della nuova classe sociale dei cavalieri e portando la nascita della società feudale. Una critica al
principio del determinismo tecnologico giunge dalla “teoria della costruzione sociale della
tecnologia”. Questa mette in discussione il primato della tecnologia, evidenziando come il
percorso di progettazione e assemblaggio di un artefatto risenta di influenze sociali che ne
plasmano la configurazione e le forme d’uso attraverso delle fasi.

1) fase caratterizzata da un’ampia flessibilità interpretativa nella produzione di un artefatto,


cioè che possa assumere più forme e modalità di utilizzo
2) azione dei gruppi sociali rilevanti: gruppi di attori che hanno interesse nei confronti di un
nuovo artefatto promuovendone la configurazione o la modifica per soddisfare le proprie
esigenze, cioè la sua “stabilizzazione”. Un esempio è lo sviluppo della bicicletta, artefatto
che ha assunto diverse forme e funzioni nel tempo (dalle prime bici per “sportivi”, difficili
da maneggiare, prive di qualche elemento fondamentale alle bici per “tutti” utilizzabili
anche dalle donne in gonna).

Secondo l’approccio teorico della costruzione sociale della tecnologia (SCOT) l’efficacia di un
artefatto è il risultato del suo percorso di sviluppo socio tecnico e non ne è, viceversa, la causa.
Questo perché ogni artefatto ha una sua socialità interna, maturata nel processo di risoluzione
delle controversie tra i diversi gruppi. Le critiche mosse all’approccio SCOT vertono sulla
distinzione tra attori sociali e oggetti tecnologici che esso alimenta. Secondo il filone della
Actornetwork theory attori umani e oggetti tecnologici sono legati in maniera indissolubile ed è

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difficile distinguere e attribuire il merito dei contributi che ciascuno di essi fornisce nello sviluppo
di un artefatto. Secondo Bruno Latour ogni artefatto tecnologico svolge un ruolo sociale in quanto
gli esseri umani tendono a delegare a esso una parte del compito di regolare i loro stessi
comportamenti e le scelte che possono compiere. Strumenti come semafori o cinture di sicurezza
svolgono un’azione strumentale di regolazione delle azioni umane ma al contempo incorporano
norme morali; questo perché i tecnici che li hanno costruiti sono riusciti a traslare in essi delle
esigenze condivise socialmente. Da considerare il fatto che la delega ad un attore non umano
appare più efficace ed efficiente della delega che si potrebbe conferire a un attore umano per
svolgere la stessa attività. Nel caso del semaforo per esempio un attore umano non può garantire
un adeguato livello di imperturbabilità, continuità e precisione nel lungo periodo come quella del
semaforo stesso.

I tre punti fondamentali nel rapporto tra tecnologia e società sono:

a) appare scorretto ricondurre l’innovazione organizzativa esclusivamente all’innovazione


tecnologica e spiegare la prima in funzione della seconda;
b) è opportuno riconoscere le influenze che le scelte degli attori sociali sono in grado di
esercitare sullo sviluppo degli artefatti tecnologici, così come è importante essere
consapevoli del potere prescrittivo e normativo che un dispositivo tecnologico può agire
nei confronti dei medesimi attori;
c) inn. organizzativa e inn. tecnologica contribuiscono analogamente alla costituzione della
società.

Lo studio dell’innovazione organizzativa


Lo studio dei processi di innovazione organizzativa ha diverse origini. Negli anni ’70 del secolo
scorso nacque il filone degli innovation studies ; i suoi ricercatori definiscono l’innovazione come
un fenomeno che qualifica e distingue l’azione di una pluralità di attori (umani e non umani) e che
contribuisce a differenziare lo status, il valore e le potenzialità nel plasmare e orientare le scelte e
il comportamento degli altri attori.

Fondamentali nello studio dell’innovazione organizzativa sono due proposte. La prima è quella di
Alice Lam che individua tre filoni: il primo filone trova il suo baricentro nell’analisi del rapporto tra
strutture organizzative e propensione all’innovazione, ovvero indagare quali sono le variabili più
rilevanti da considerare nei processi di progettazione organizzativa. Il secondo filone gravita
attorno al tema del rapporto tra conoscenza, processi di apprendimento e generazione di
innovazione in un’organizzazione. Il terzo filone comprende gli studi dedicati all’analisi del
rapporto tra innovazione organizzativa e cambiamento ambientale.

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Julian Birkinshaw, Gary Hamel e Michael Mol hanno sviluppato una diversa classificazione della
letteratura sull’innovazione organizzativa, più incentrata sull’inquadramento delle motivazioni che
spingono un’organizzazione a promuovere e adottare un’innovazione. 4 prospettive:

1) Istituzionale: studi che si concentrano sull’analisi delle condizioni socioeconomiche


(orientamenti politici e ideologici, accordi tra attori sociali e forme di strutturazione del
tessuto organizzativo in ambito imprenditoriale e amministrativo) che favoriscono la
generazione di innovazioni.
2) La fashion perspective: si studiano le motivazioni che spingono i manager a intraprendere
processi di innovazione e si evidenzia il ruolo dei fashion setters , cioè coloro che riescono
ad influenzare le scelte di altri individui.
3) Culturale: si osserva come la cultura di un’organizzazione possa favorire o meno
l’innovazione organizzativa. Es.= organizzazione più stabili e mature faticano a cambiare e
a innovare a causa dei valori che i membri del gruppo possiedono e proteggono con i
quali l’innovazione può scontrarsi.
4) Razionale: ricerca che presuppone che l’innovazione sia una risposta all’esigenza di far
lavorare in modo più efficace un’organizzazione che le permette di raggiungere gli obiettivi
prefissati.

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Aree di innovazione organizzativa
4 Aree:

−innovazione delle strategie organizzative

−innovazione delle strutture organizzative

−innovazione dei processi lavorativi

−innovazione dei prodotti.

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Capitolo 3: l’innovazione delle strategie organizzative
Il concetto di strategia è estremamente evocativo ma al tempo stesso ambiguo. Nel
linguaggio quotidiano viene usato frequentemente e talvolta con una certa disinvoltura.
Tuttavia, definire con esattezza il suo significato non è facile e soprattutto non è semplice
delineare ciò che si ritiene essere una strategia quando si esamina il comportamento di
un’organizzazione. Questa difficoltà si spiega in larga parte con la dissonanza che sussiste tra
l’idea astratta di strategia e l’effettiva declinazione che essa può avere nelle pratiche
organizzative. È comunque importante riconoscere la rilevanza del concetto di strategia per
lo studio dell’Innovazione organizzativa. Questa rilevanza emerge in particolare quando si
esamina il tema dei processi decisionali che anticipano un’innovazione: una strategia può
agire sia come premessa per l’orientamento delle scelte, sia affermarsi come esito delle
decisioni prese. Tale ambivalenza (che non indica una contraddittorietà) è uno degli aspetti che
rende importante e pervasivo il concetto di strategia per la vita di un’organizzazione.
Una strategia è una sorta di cornice che racchiude e che si declina in un insieme di altre
dimensioni dell’attività di un’organizzazione. In questa prospettiva, studiare l’innovazione
delle strategie è un tema decisamente rilevante, in quanto queste si ripercuotono
tendenzialmente in più dimensioni della vita di un’organizzazione. Il mutamento di una
strategia può venire seguendo un movimento opposto: un cambiamento in un processo o
prodotto, oppure il successo di un particolare servizio, possono stimolare la ridefinizione e
l’innovazione di una strategia preesistente.

Il concetto di strategia organizzativa: antecedenti e sviluppi: una delle


prime
analisi approfondite del concetto di strategia giunse con l’opera del generale prussiano Karl
von Clausewitz che, all’epoca delle guerre napoleoniche, scrisse un celebre trattato
sull’“arte della guerra”. Karl von Clausewitz individuò nell’idea di strategia l’essenza
dell’azione militare. Secondo Lui, la strategia è una prospettiva di pianificazione orientata
sul medio−lungo periodo. In quanto tale, essa si distingue dalla tattica che, viceversa, ha una
portata temporale più breve e si definisce attraverso la predisposizione di azioni che hanno
una dimensione più operativa. In campo militare, la contrapposizione può essere
sintetizzata affermando che la tattica riguarda l’uso delle forze armate in una battaglia,
mentre la strategia riguarda la definizione del valore che ha una battaglia rispetto ai fini
complessivi di un conflitto.
Negli studi organizzativi, il concetto di strategia organizzativa prende forma e inizia a essere
discusso sistematicamente intorno agli anni ‘60. Le prime formulazioni di tale concetto,
proposte da studiosi come Alfred Chandler, Igor Ansoff, Kenneth Andrews, prefigurano la
strategia come una pianificazione formale e intenzionale delle azioni e delle risorse
necessarie per conseguire determinati obiettivi. In quanto tale, una strategia è dunque
l’esito di una valutazione svolta ex ante. Sulla base di tali premesse si sviluppa una serie di
tecniche per l’elaborazione, l’analisi e la valutazione delle strategie organizzative. Queste
tecniche ampliarono così Il repertorio delle competenze manageriali, che si arricchirono così
di nuove conoscenze e di nuovi strumenti metodologici. Uno degli sviluppi più conosciuti

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arrivò con il lavoro di Michael Porter. Lo schema delle 5 forze di Porter punta a permettere a
un’impresa di valutare più attentamente l’intensità del livello di competizione in un settore
industriale. Questo viene stimato identificando cinque diverse forze (o fonti) di competizione,
ossia categorie di attori che si possono rintracciare in ogni settore. L’uso che
frequentemente viene fatto dal dello schema delle cinque forze è peraltro più orientato a
individuare le minacce più serie per il perseguimento di una strategia organizzativa. Si
tratta di uno schema che accompagna un’attività di previsione di scenari futuri, attorno ai
quali modellare una strategia. Questo schema viene applicato prioritariamente alle imprese
che operano in un contesto di mercato.

L’erosione della visione razionale del concetto di strategia: L’interpretazione del


concetto di strategia organizzativa dominante negli anni ‘60 viene messo in discussione nel
decennio successivo, grazie In particolare all’Opera di Henry Mintzberg. Lo studioso
canadese osserva che la strategia che un’organizzazione dichiara di voler perseguire spesso
non corrisponde a quanto poi effettivamente intraprenderà. Spesso si viene a creare uno
scarto tra la strategia pianificata e la strategia realizzata, l’ampiezza di tale discrepanza può
essere aumentata o ridotta da una molteplicità di fattori. Secondo Mintzberg la strategia
effettivamente perseguita da un’organizzazione si compone di più tracce: queste
corrispondono alle strategie definite inizialmente, alle loro rivisitazione in corso d’opera, alle
strategie emergenti grazie agli spunti che il contesto può fornire, alle strategie
abbandonate. La visione del concetto di strategia che fuoriesce dall’analisi di Mintzberg è
dunque più dinamica rispetto al costrutto prescrittivo che si ritrova nella lettura del
decennio precedente.
Un’altra questione riesaminata riguarda le responsabilità dell’elaborazione e del controllo di
una strategia all’interno di un’organizzazione. Nelle ipotesi formulate negli anni ‘60,
l’elaborazione e il
controllo sono compiti che concernono essenzialmente il top management. Questa

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interpretazione ricalca fedelmente la concezione modernista delle organizzazioni per la quale
vi è una corrispondenza lineare tra livelli gerarchici e potere decisionale (le posizioni di vertice si
occupano dei processi decisionali, le posizioni più inferiori si occupano di compiti prevalentemente esecutivi).
Questa convenzione è stata progressivamente scalfita a favore di una visione più articolata
delle responsabilità. Si è rilevato come il top Management non sia l’unica unità organizzativa
coinvolta nelle pratiche di elaborazione, implementazione e controllo di una strategia.
All’interno di un’organizzazione, queste responsabilità possono essere distribuite, in modo
più o meno esplicito, lungo la catena gerarchica. Ciò significa anche che le strategie definite
ai vertici dell’organizzazione non vadano più considerate come direttive perentorie e
vincolanti, bensì come spunti e stimoli che hanno una funzione simbolica, oltre che
sostanziale (Mantenere, 2013).
Ciò che da una valenza organizzativa a una strategia è dunque la sua condivisione attraverso
un flusso di azioni coerenti tra loro. Da questo punto di vista, la formulazione di una
strategia è una sfida per l’organizzazione. Essa si gioca combinando tre dimensioni (Steensen,
2014):
a) Una dimensione che inquadra l’intenzionalità: ciò che un’organizzazione intende
perseguire attraverso una particolare strategia;
b) Una dimensione che riassume le pratiche (azioni e decisioni): che consentono ad una
strategia di prendere forma e sostanza;
c) Una dimensione che allude agli aspetti comunicativi (formali e informali): che
permettono la formulazione, la condivisione, la legittimazione e la stabilizzazione di
una strategia all’interno dell’organizzazione;

Interpretazioni e raffigurazioni delle strategie organizzative: Faulkner e


Campbell ritengono che la formulazione di una strategia consista nel definire come
un’organizzazione possa raggiungere i propri obiettivi, aggiustando man mano la rotta e i
processi di lavoro al fine di trarre vantaggio dei mutamenti del contesto. Questa definizione
mette in risalto la necessaria dinamicità che ogni pensiero strategico deve avere. La
consapevolezza dell’intrinseca dinamicità che le strategie devono avere induce a pensare
che non sia possibile adottare un’unica formulazione operativa del concetto stesso di
strategia. Vi è una molteplicità di usi che si possono fare delle strategie in un’organizzazione.
Questo evidenzia La pluralità di significati che si possono attribuire a tale concetto, un
importante contributo giunge da Henry Mintzberg che (in un articolo del 1987) propone 5 usi
diversi che si possono fare delle strategie in un’organizzazione:
1) Strategia come programma: questa è la definizione più tradizionale che si può dare di
tale concetto e ne implica una visione razionale e funzionale. In quest’ottica, una
strategia può prendere forma attraverso un’attività di pianificazione, svolta
anticipatamente e deliberatamente, per impostare le attività di un’organizzazione.
Questa pianificazione interessa un arco temporale ben definito al termine del quale
andrà valutata ed eventualmente rivisitata. Il programma che esce da tale attività di
pianificazione può essere estremamente dettagliato oppure individuare
prevalentemente delle indicazioni generali. Analogamente, un programma strategico

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può riguardare aspetti diversi dell’attività di un’organizzazione (dalla dimensione economico−
finanziaria alla configurazione della struttura iniziativa ecc.);
2) Strategia come stratagemma (ploy): spesso alcune organizzazioni mettono in atto dei
programmi che non rappresentano l’effettiva finalità che esse intendono perseguire, ma
sono agite strumentalmente per creare le condizioni per poi dispiegare altri programmi
che costituiscono la reale strategia che si intende sviluppare. (Per esempio Amazon ha iniziato
ad adottare prezzi bassi non per leadership di costo ma al fine di sbaragliare la concorrenza e fidelizzare
i propri clienti, puntata l’ottenimento di un controllo quasi monopolistico del mercato);
3) Strategia come schema di azioni ricorrenti e coerenti tra loro: secondo Mintzberg uno
schema può svilupparsi anche in assenza di una sua pianificazione iniziale. Mentre le
strategie intese come piani deliberatamente definiti devono necessariamente essere
tracciate prima dell’inizio di un’attività, gli schemi possono emergere anche se non sono
stati progettati. È comunque possibile impostare anticipatamente degli schemi d’azione
che agiscano come strategie (per
esempio nel calcio, dove ciascuna squadra adotta un particolare modulo di gioco nel corso di una
partita: 4−2−3−1, il Ninja sulla trequarti);
4) Strategia come prospettiva: per molti versi, come afferma lo stesso autore, Questa
interpretazione è speculare alla precedente: se la strategia intesa come posizione
delinea la collocazione che un’organizzazione intende avere nel proprio ambiente,
parlare di strategia come prospettiva significa invece riferirsi alla visione del mondo che
l’organizzazione intende proporre, per voce dei propri dirigenti. In quest’ottica, la
strategia sottintende
metaforicamente il carattere dell’organizzazione, al pari di quello che può essere il
carattere di una persona (organizzazioni “aggressive” sul mercato, organizzazioni che privilegiano
l’efficienza tecnica, organizzazioni che si contraddistinguono sul piano culturale). È evidente che
parlare di strategia come prospettiva significa alludere a un costrutto che è
prevalentemente astratto e intangibile, per questo motivo una strategia intesa come
prospettiva può agire soltanto se viene condivisa all’interno dell’organizzazione: laddove
vi siano resistenze, contrasti o, più semplicemente, non vi sia consapevolezza di una
particolare prospettiva, la strategia diventano lozione effimera è meramente retorica.
Le 5 interpretazioni non sono incompatibili o alternative l’una con l’altra, esse possono
convivere e aiutare a comprendere la strategia seguita da un’organizzazione. Occorre
peraltro pensare che un’organizzazione possa seguire più di una strategia, perseguendo
obiettivi diversi nelle relazioni con i vari stakeholder.

La costruzione di una strategia innovativa: è opportuno chiedersi come si


possa
esaminare il concetto di strategia nel quadro di una riflessione sull’ innovazione organizzativa.
A tal fine, è importante distinguere due chiavi di lettura:
a) Si può analizzare il processo di costruzione organizzativa di una strategia innovativa,
intendendo l’organizzazione come attore protagonista di tale innovazione: in questo
caso ci si riferisce al processo che un’organizzazione sviluppa per innovare la propria
strategia, elaborandone una innovativa rispetto a quella già in atto.

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b) Si può esaminare il processo di costruzione sociale dell’idea stessa di innovatività di
una strategia, attraverso lo studio dei fattori che contribuiscono a qualificare come
innovativa una determinata strategia: in questo caso si cerca di comprendere quali
siano i criteri e i presupposti che permettono di qualificare come innovativa una
strategia, stante che non esistono criteri o indicatori che permettono di misurare o
discriminare oggettivamente ciò che si ritiene innovativo da quanto invece non si
reputa tale.
I manager hanno generalmente le maggiori responsabilità nell’elaborazione delle strategie
organizzative, in questa prospettiva, uno spunto interessante giunge dal lavoro di Julian
Birkinshaw e Michael Mol, che hanno elaborato uno schema sintetico per comprendere i
passaggi che contraddistinguono l’innovazione della strategia organizzativa. Il focus del loro
studio è sull’implementazione all’interno di un’organizzazione di nuove pratiche
manageriali, nuovi processi amministrativi e/o di produzione, nonché di nuove
configurazioni della struttura organizzativa. Il risultato della loro analisi si traduce in un
modello composto da quattro fasi che riassume una sequenza di elementi che tipicamente si
ritrovano nelle organizzazioni che intendono cambiare e innovare la propria strategia. Un
ulteriore elemento caratterizzante dell’analisi è che secondo i due studiosi, l’innovazione di
una strategia non è un fenomeno riconducibile unicamente all’azione intenzionale degli
agenti di cambiamento interni all’organizzazione (i dirigenti). Un ruolo altrettanto importante
lo giocano gli agenti esterni, ossia un insieme eterogeneo di soggetti (come consulenti, studiosi,
ex dirigenti e altri attori) in grado di influenzare, più o meno direttamente, le scelte
dell’organizzazione.

1˚ passaggio: si tratta dello stimolo che determina la scelta di un cambiamento per


l’organizzazione. Questo stimolo può maturare quando il management percepisce una
minaccia proveniente dall’ambiente esterno (come la comparsa di nuove competitori). Un’altra
causa di insoddisfazione può avere una fonte interna (l’inefficienza di alcuni processi produttivi).
Infine, il management di organizzazione può essere insoddisfatto nel valutare la proiezione
degli scenari futuri per la propria organizzazione.
2˚ passaggio: implica in confronto tra l’organizzazione e quanto sta avvenendo nel suo
ambiente, al fine di sviluppare delle soluzioni adeguate per risolvere le criticità individuate.
Secondo Loro, la ricerca di ispirazione è tendenzialmente più proficua se il management
amplierà il proprio sguardo al di fuori del settore nel quale opera l’organizzazione.

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3˚ passaggio: i due studiosi ammettono di non aver quasi mai riscontrato nelle loro analisi
quello che metaforicamente denominato il momento eureka, vale a dire quel passaggio nel
quale un’invenzione, precedentemente pensate in astratto, prende una forma concreta e
conforme alle aspettative. Viceversa, l’elaborazione di una nuova strategia può essere
paragonata alla risoluzione di una sorta di puzzle. Secondo Birkinshaw e Mol, l’elaborazione
della strategia innovativa è quindi un processo graduale e iterativo, non paragonabile allo
stereotipo dell’invenzione come atto improvviso.
4˚ passaggio: la validazione è importante perché attribuisce legittimazione, credibilità e
spessore alla nuova strategia. Cosa significa validare internamente una strategia? La
questione non è di facile risoluzione, in quanto le strategie organizzative mancano
tendenzialmente di forme di riconoscimento oggettive o codificabili. Secondo Birkinshaw e
Mol, la validazione di una strategia innovativa all’interno di un’organizzazione può passare
attraverso la costruzione di alleanze e coalizioni (tra membri e/o reparti o divisioni
dell’organizzazione) che ne supportino la diffusione e l’implementazione. Questo passaggio
permette a una strategia di acquisire il consenso e ne permette la trasformazione in una
prospettiva condivisa e collettivamente perseguita dai membri. In assenza di un simile
riconoscimento, una strategia rischia di rimanere un costrutto astratto e retorico.
Birkinshaw e Mol menzionano quattro possibili forme di riconoscimento esterno di una
strategia:
• il riconoscimento da parte del mondo scientifico e accademico;
• il supporto di un’agenzia di consulenza;
• la promozione da parte dei media;
• il sostegno che può giungere da associazioni di categoria, enti di regolazione e
altre istituzioni che intermedino i rapporti tra le varie organizzazioni che operano
in un settore.
L’innovazione strategica come processo istituzionale: in questo paragrafo si
cercherà di comprendere come la ricerca di una soluzione strategicamente innovativa possa
essere accolta e riconosciuta come tale non esclusivamente dall’organizzazione che la
propone, ma da una più ampia rete di attori sociali, sino a far attribuire una sembianza o
valenza istituzionale alla strategia in questione. Per procedere nella riflessione occorre fare
alcune considerazioni preliminari. Il riconoscimento sociale dell’innovatività di una strategia
organizzativa è infatti una delle tante questioni che presenta una duplice implicazione. Da un
lato, essere richiama l’annoso problema della misurazione e valutazione delle innovazioni, in
particolare, delle strategie. Dall’altro, occorre riconoscere che quelle strategie che emergono
come innovative, tendono poi ad essere spesso imitate e a diffondersi in più contesti e settori.
Questo fenomeno può essere compreso come espressione di una logica di isomorfismo
(DiMaggio, Powell), ossia un processo di allineamento, da parte di più organizzazioni, a quelle
tendenze che contraddistinguono un determinato ambiente. Le ragioni dei meccanismi di
isomorfismo possono essere molteplici: DiMaggio e Powell le sintetizzano in tre categorie:
➢ Isomorfismo coercitivo: si verifica laddove più organizzazioni devono allinearsi (sottostare)
alle richieste di un’organizzazione che può esercitare nei loro confronti un potere che ne
condiziona i comportamenti e ne vincola le scelte. Si può considerare il caso delle

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organizzazioni che commissionano una grossa commessa a uno o più fornitori esterni, di
minori dimensioni e forza commerciale e/o istituzionale. È evidente che i rapporti di forza
che la parte più grande può esercitare sulle altre crea un’omogeneità di comportamenti
tra gli attori. Ciò non determina, di per sé, un’innovazione. Al tempo stesso, tuttavia, una
simile dinamica può fungere da volano per la diffusione di particolari innovazioni, se
le richieste degli attori con maggiore potere implicano una rivisitazione della strategia
degli altri. Questo può accadere, per esempio, quando un ente pubblico decide di
introdurre delle novità sostanziali nelle procedure di acquisto di beni o servizi da fornitori
esterni. Uno dei criteri più diffusi per determinare l’aggiudicazione di una specifica
commessa era quello del “massimo ribasso” sostituito più recentemente dal criterio
dell’offerta “economicamente più vantaggiosa” (prevede che l’ente acquirente valuti, oltre al
prezzo proposto per la fornitura di un servizio, una serie di fattori inerenti la sua qualità) . Per
esempio, l’ente che gestisce il servizio di refezione in una o più scuole può prevedere
una premialità per i fornitori che fanno uso di alimenti biologici o prodotti locali nella
preparazione dei cibi. In una simile transazione, l’ente acquirente si pone dunque in una
posizione di forza rispetto ai fornitori e può “imporre” un’innovazione nelle loro strategie.
Il rilievo istituzionale di questa innovazione dovuta a un meccanismo di isomorfismo
coercitivo emerge considerando che essa si risolve su tre fonti:
• Si tratta di innovazione che riguarda, in primis, l’ente che la introduce;
• Agisce quindi sulle organizzazioni interessate alla transazione, ossia i
fornitori, alimentando un processo di uniformazione alle richieste dell’ente
acquirente; Genera dei benefici che vanno a vantaggio dei destinatari del
servizio.
➢ Isomorfismo mimetico: si manifesta quando una o più organizzazioni che si trovano in una
condizione di incertezza decisionale rispetto a particolari scelte optano per imitare il
comportamento di altre organizzazioni, senza che questi esercitano su di esse alcuna
forma di condizionamento o pressione. L’aspetto distintivo dei processi di
isomorfismo mimetico è che essi generalmente si sviluppano senza che vi sia
un’effettiva dimostrazione dei benefici che si possono apportare. Ciò avviene perché
l’imitazione non è finalizzata primariamente al perseguimento di benefici strumentali
bensì serve a conferire più legittimazione all’organizzazione che ha un
comportamento mimetico (“al passo coi tempi”).
➢ Isomorfismo normativo: identifica un processo di uniformazione sollecitato dal potere che
determinate categorie di professionisti possono agire nei confronti di molte
organizzazioni. Il fenomeno dell’isomorfismo normativo si riferisce all’influenza che i
professionisti che hanno determinate prerogative nello svolgimento del proprio lavoro
(come l’esclusività della possibilità di esercitare determinate attività: come nel caso di medici, notai o
farmacisti) riescono a esercitare su una molteplicità di organizzazioni per le quali lavorano.

Come rintracciare un innovazione strategica in un quadro di rapporti


istituzionali?
bisogna approfondire in primis il tema della misurazione delle strategie organizzative. Uno
dei contributi più nitidi in tal senso giunge dall’analisi svolta da Charles Snow è Donald

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Hambrick. In primo luogo, essi evidenziarono il carattere relativo del concetto di strategia:
molto spesso, quelle che vengono presentate come innovazioni strategiche sono
adattamenti e allineamenti a pressioni e sollecitazioni ambientali (innovazioni new−to−the−world
e innovazioni che invece sono nuove soltanto per le organizzazioni che le promuovono) . Da ciò consegue lo
stimolo a considerare il grado di omogeneità/eterogeneità delle strategie adottate dalle
organizzazioni che operano determinato ambiente. In quest’ottica, sarà più facile verificare
l’effettivo scostamento di una strategia che viene presentata come innovativa dalle
strategie preesistenti. L’inquadramento dell’innovatività di una strategia è inoltre
ostacolato dalla discrepanza che spesso sussiste tra le scelte organizzative e la
rappresentazione che l’organizzazione offre di sé all’esterno. Molte organizzazioni tendono
a sdoppiare i propri comportamenti, creando una sorta di paravento esterno per offuscare
quelli che sono gli orientamenti che invece vengono effettivamente eseguiti. Ciò non
significa necessariamente che un’organizzazione adotti dei comportamenti ingannevole nei
confronti dei propri interlocutori, bensì che spesso un’organizzazione avverta la necessità
di mostrarsi allineata a quelle che, in un determinato ambiente, sono le fonti e i fattori che
possono incrementare la propria legittimazione e reputazione, senza tuttavia mutare alcune
convinzioni o obiettivi fondativi per l’organizzazione stessa. Apparire innovativi è una delle
più rilevanti fonti di legittimazione sociale per un’organizzazione. Per superare questa
difficoltà Snow e Hambrick propongono 4 approcci che, se combinati, potrebbero aiutare ad
avere un punto di vista più articolato:
a) Il primo riguarda le inferenze che un osservatore esterno, come un ricercatore, può
compiere attraverso le interviste, lo studio di materiale documentario e altri dati che
si possono ricavare interloquendo con un’organizzazione;
b) Il secondo approccio implica una sorta di autovalutazione da parte dei manager
dell’organizzazione. A essi si potrebbe chiedere di raccontare ed evidenziare
l’innovatività di una specifica strategia, considerando alcuni elementi di
cornice:
• L’innovatività deve essere spiegate in rapporto alle soluzioni adottate da
concorrenti ed altri stakeholder;
• La strategia innovativa dovrebbe valere per l’intera organizzazione;
• La strategia andrebbe ricompresa in un arco temporale ampio;
c) Il terzo approccio introduce invece l’ottica della valutazione esterna, conseguibile
coinvolgendo con gli osservatori privilegiati che possono fornire un punto di vista più
distaccato rispetto alle esperienze che si sta studiando;
d) Laddove possibile, si dovrebbe verificare la disponibilità e attendibilità di indicatori
oggettivi.
Attraverso queste angolature si può giungere a una lettura più nitida del carattere di
innovatività di una strategia.

Tendenze e “sentieri” dell’Innovazione strategica: in questo paragrafo si


propongono particolari tendenze di innovazione sul fronte strategico, tali tendenze sono
riconducibili a degli idealtipi di scelte e azioni che si distinguono per la loro innovatività e
che delineano dei sentieri di innovazione su più larga scala. L’obiettivo di questa
presentazione è dunque quello di tracciare alcuni dei sentieri lungo i quali si sviluppano le
singole esperienze di innovazione, al fine di comprendere come le innovazioni delle
strategie organizzative possono irradiarsi e consolidarsi in un contesto sociale e imporsi
come questioni rilevanti per lo sviluppo socio−economico del medesimo contesto.

La finanziarizzazione delle attività imprenditoriali: negli ultimi decenni, una delle


tendenze più marcate nell’evoluzione delle strategie organizzative è stata la cosiddetta
finanziarizzazione delle scelte di allocazione delle risorse economiche generate delle attività
organizzative. Il concetto di finanziarizzazione descrive una progressiva transazione degli
orientamenti di fondo di un’impresa che ha condotto ad assumere l’interesse degli
azionisti come interesse preminente nell’azione organizzativa e gestionale. Questo nuovo
orientamento ha indotto molte imprese ad attuare dei programmi per massimizzare il
proprio valore finanziario a discapito di altre possibili direttrici di crescita e sviluppo. La
finanziarizzazione delle imprese non è un fenomeno esploso improvvisamente, ma è
l’espressione di una tendenza di lungo periodo. Le radici del processo di finanziarizzazione
sono ben illustrate da William Lazonick e Mary O’Sullivan. Esso si sviluppa, storicamente, in
due fasi. La prima si manifesta essenzialmente negli Stati Uniti, a partire dagli anni Settanta
del secolo scorso, mentre la seconda ha un più ampio respiro geografico coinvolge anche
(l’Europa occidentale, con la Gran Bretagna che agisce come punto di raccordo tra il vecchio e nuovo mondo)
e si dirama prepotentemente nel corso degli anni ‘90. La prima fase è riconducibile a due
importanti cambiamenti sistemici dell’economia statunitense. Negli anni ‘70, le principali
imprese multinazionali originarie di quel paese crescono infatti a dismisura. Il modello
organizzativo più ricorrente è quello dell’impresa multidivisionale con una gestione
dell’autorità fortemente decentralizzata. Questo produce tuttavia un elemento di
inefficienza organizzativa: la distanza tra le sedi di elaborazione delle strategie e le unità di
produzione aumenta eccessivamente e ciò rende le strategie organizzative meno puntuali
ed efficaci rispetto alle esigenze di uno scenario economico che invece sta mutando
rapidamente. Tra le cause di questo mutamento, Lazonick e O’Sullivan annoverano le
conseguenze della crisi petrolifera che si manifesta dal 1973 e, contemporaneamente,
l’aumentata competitività a livello internazionale delle imprese giapponesi.
Un secondo importante tratto che caratterizza questo periodo storico è la comparsa e la
voluminosa crescita di una nuova fonte di finanziamento delle attività economiche: gli
investitori istituzionali. Questa espressione inquadra quelle organizzazioni che raccolgono e
gestiscono grandi quantità di investimenti economici (possono essere i fondi pensione, le
assicurazioni sanitarie). La particolare strutturazione del Welfare statunitense agevola la
crescita di investitori istituzionali. Molti investitori istituzionali promossero investimenti atti
a finanziare le attività di imprese di medie e grandi dimensioni, acquistandone obbligazioni o
quote del capitale sociale, ma richiedendo in cambio ritorni economici piuttosto elevati
anche nel breve periodo. Questo impone ai manager delle imprese che venivano finanziate
di cambiare le strategie organizzative: anziché puntare verso una crescita graduale costante
nel lungo periodo, il nuovo “mantra” manageriale divenne quello di massimizzare nel più
breve tempo possibile il valore delle risorse che gli azionisti avevano investito. Una delle
soluzioni che venne più adottata fu quella di ridurre gli investimenti in ricerca e sviluppo,
nonché quella di disgregare la struttura organizzativa. Tutto ciò si traduce anche in un
cambiamento della cultura imprenditoriale: la mission di un numero crescente di imprese
divenne inequivocabilmente quella di produrre valore per gli azionisti. In nome di tale
obiettivo, molte imprese non indugiarono nell’adottare comportamenti irresponsabili e di
dubbio valore etico sul piano sociale. L’apice della disgregazione di tali meccanismi si
raggiunse con lo scoppio della crisi economica del 2007. Un altro indicatore del mutamento
indotto dal fenomeno della finanziarizzazione delle imprese fu la crescita dei mercati
finanziari. Occorre tuttavia notare che l'ingresso di capitali forniti da investitori istituzionali
nell'azionariato di un’impresa può avere finalità diverse e contrapposte: a fronte di iniziative
che hanno un interesse meramente speculativo si ritrovano casi, non sporadici, di fondi che
invece investono con un’ottica più tipicamente imprenditoriale, generalmente attraverso
partecipazioni minoritarie nell’azionariato e con un’ottica di investimento di medio−lungo
periodo.
Sul fronte del lavoro Davis denota come questo fenomeno si intrinseca in un più secolare
percorso di caduta dei tassi di occupazione nelle attività manifatturiere, al confronto di una
sostanziale tenuta dei posti di lavoro nelle attività di vendita al dettaglio.
Secondo Marianna Mazzucato vi è un effetto perverso del fenomeno della finanziarizzazione
delle attività imprenditoriali: in molti paesi occidentali, quali gli Stati Uniti, i governi hanno
finanziato cospicuamente le attività di ricerca e sviluppo, specie nell’ambito della ricerca di
base. A trarne beneficio, anche se in forme indirette, sono state spesso alcune grandi
imprese che, nel frattempo, avevano ridotto la propria quota di risorse investite in ricerche
e sviluppo. Tali imprese avevano deciso di dirottare una quota consistente delle loro risorse
tradizionalmente dedicate alla ricerca e sviluppo verso il riacquisto delle proprie azioni sui
mercati borsistici, al fine di aumentare artificiosamente il valore di quelle stesse azioni e
accrescere così il valore della capitalizzazione complessiva di borsa.
L’aziendalizzazione delle pubbliche amministrazioni: le pubbliche amministrazioni
sono una particolare tipologia di organizzazioni. Esse sono contraddistinte da una
molteplicità di fattori. In primis, esse svolgono attività e/o erogano servizi di pubblico
interesse. Una loro prerogativa è poi quella di poter compiere degli atti volti a disciplinare il
comportamento dei membri di una particolare comunità (nazione, regione, comune). Questa
prerogativa è esplicita nel caso delle pubbliche amministrazioni alle quali viene attribuita e
riconosciuta una potestà legislativa (Stato).
Altre pubbliche amministrazioni (amministrazioni comunali) mantengono un potere normativo
pur in assenza di una simile potestà ed esercitano la loro azione regolativa attraverso la
disposizione di ordinanze o altri provvedimenti. Vi sono infine delle pubbliche
amministrazioni che presidiano invece ambiti più specifici della vita di una collettività, senza
godere di una facoltà normativa (l’INPS o gli enti che si dedicano alla tutela del patrimonio ambientale
e/o artistico). Le pubbliche amministrazione si caratterizzano infine perché non svolgono
un’attività imprenditoriale, ne perseguono obiettivi lucrativi con le proprie attività.
Storicamente, le pubbliche amministrazioni hanno assunto la fisionomia di organizzazioni
burocratiche, ossia strutturate attorno ai principi delle Ideal tipo della burocrazia. Questo
modello è stato teorizzato primariamente dal sociologo Max Weber agli inizi del Novecento
ed è poi stato oggetto di un continuo ed esteso dibattito. Uno spartiacque importante in
seno a questo dibattito emerse negli anni 80 quando si rilevò che in diversi Stati le
pubbliche amministrazioni stavano attraversando una profonda rivisitazione di alcune delle
loro prerogative più distintive e dei relativi orientamenti dell’azione organizzativa. Questa
riconfigurazione strategica prese il nome di new public management (NPM). Essa è una logica
di deciso ripensamento dei criteri di legittimazione dell’attività amministrativa operata negli
enti pubblici. Uno degli elementi fondativi del NPM è la considerazione che il principio della
conformità alla norma è insufficiente per governare in modo efficace ed efficiente la
complessità dell’azione amministrativa degli enti pubblici moderni. In particolare,
l’inadeguatezza del modello burocratico sarebbe emersa su due versanti strategici:
- la difficoltà di innovare rapidamente le strutture organizzative e i processi
lavorativi, al cospetto di un ambiente sociale che invece evolveva a ritmi sempre
più frenetici;
- l’incapacità di conciliare le tendenze di standardizzazione nell’erogazione dei
servizi con la diversificazione delle aspettative dei cittadini che sono destinatari dei
medesimi servizi; Le riforme della pubblica amministrazione ispirate più o meno
espressamente ai canoni del NPM avrebbero agito sui seguenti fronti:
• Aumentare la discrezionalità delle figure dirigenziali delle pubbliche amministrazioni;
• Introdurre misure di valutazione delle performance organizzative, prioritariamente
attraverso degli indicatori di natura quantitativa;
• Enfatizzare il controllo degli output dell’azione organizzativa, ponendo l’accento più sui
risultati conseguiti che sulla conformità alle procedure;
• Decentralizzare le attività lavorative e rendere più autonome le unità organizzative,
destrutturando in tal senso gli apparati amministrativi di grandi dimensioni;
• Introdurre e/o incrementare la competitività tra gli enti pubblici, al fine di perseguire
risparmi di spesa e migliori performance;
• Adottare stili gestionali tipici delle imprese private, passando da una logica di
servizio pubblico a una logica organizzativa improntata alla contrattualizzazione delle
relazioni;
• Favorire un uso più parsimonioso è vincolato delle risorse, anche mediante un
maggior disciplinamento della forza lavoro.
La convergenza di tali pressioni ha inciso profondamente sulla fisionomia di numerosi enti
pubblici. In tal senso si parla di una tendenza alla aziendalizzazione delle pubbliche
amministrazioni, considerando la progressiva adozione di logiche d’azione maturate e più
tipicamente praticate nell’organizzazione di natura privata che operano con fini
imprenditoriali. Il quadro complessivo è ancora più complicato perché il processo di
aziendalizzazione si colloca storicamente in un periodo nel quale la stessa funzione dello
Stato come istituzione di regolazione delle relazioni sociali è stata decisamente messa in
discussione da parte delle forze politiche che sposavano in tal senso le dottrine neoliberiste.
Il neoliberismo è un corollario di proposte politiche vagamente accomunate da alcuni
riferimenti paradigmatici essenziali. Tra questi, la convinzione che lo Stato debba avere un
ruolo minimale nell’erogazione di servizi ai cittadini, al fine di lasciare maggiore spazio al
mercato e dunque all’azione delle imprese. L’applicazione di una simile logica ha
comportato una serie di rilevanti conseguenze sia sulla strutturazione delle pubbliche
amministrazioni, sia sul loro ruolo istituzionale:
▪ Una intensa e stratificata operazione di privatizzazione di organizzazioni pubbliche;
▪ L’allargamento delle forme di collaborazione con enti privati, attraverso la costituzione
di partnership e/o l’avvio di progetti congiunti;
▪ Un ulteriore spinta verso l’adozione di forme contrattuali più flessibili nella regolazione
dei rapporti con la forza lavoro.

L’adozione di logiche d’azione ibride: una delle tendenze delle quali si sta più
discutendo negli ultimi anni è la diffusione di forme organizzative ibride, nelle quali
convivono logiche d’azione di diversa origine e con presupposti e finalità parzialmente
discordanti. “Logica d’azione” intesa come cornice teorica entro la quale ricomprendere ed
esaminare le basi del funzionamento dell’organizzazione. Il concetto di logica d’azione
organizzativa si lega in tal senso alla nozione di logica istituzionale. In questo caso, con il
termine istituzione non si fa riferimento a una particolare fattispecie di organizzazione bensì
a un insieme di strutture cognitive, normative e regolative e attività che danno stabilità al
comportamento sociale. Le logiche istituzionali inquadrano una serie di prescrizioni sociali,
date per scontate da chi le segue e che rappresentano ciò che legittimamente può essere
considerato un obiettivo da perseguire, nonché le modalità attraverso le quali conseguirlo.
Una logica istituzionale non mantiene una traccia formale, perché cui non se ne può trovare
una declinazione materiale. Esse vengono piuttosto interiorizzate dei membri
dell’organizzazione osservando i comportamenti di altri membri della medesima collettività.
Al tempo stesso, le logiche istituzionali non sono immutabili o impermeabile ai cambiamenti
e alle sollecitazioni esterne.
Gli studi più recenti sulle organizzazioni ibride nascono per esaminare i casi in cui più logiche
istituzionali convivono in un’organizzazione. Gli esempi più emblematici sono quelli delle
imprese sociali o quello delle imprese impegnate nel microcredito. In essi convivono
espressamente almeno due dinamiche d’azione, tradizionalmente considerate antitetiche e
inconciliabili: nel caso delle imprese sociali la scelta di agire come imprese che operano
stabilmente sul mercato e, parallelamente, la volontà di essere attori che non perseguono
finalità lucrative. Il caso delle imprese impegnate nel microcredito è altrettanto stimolante,
poiché esse provvedono a erogare credito finanziario ridimensionato tuttavia le garanzie
richieste ai beneficiari.
Si tratta di strategie che si qualificano come innovative perché intendono combinare
una pluralità di obiettivi e logiche d’azione e perché il repertorio di logiche d’azione che
esse intendono seguire è disomogeneo e dissonante.
INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA

Riassunto capitolo 4 (da pag 125 a pag 158)

4.0 Introduzione
Questo capitolo è dedicato all’analisi dei processi di innovazione inerenti le strutture
sociali delle innovazioni. Per struttura sociale si intende generalmente la particolare
distribuzione dei ruoli e dei compiti che ciascuna organizzazione assegna ai propri
membri.
La struttura sociale di un’organizzazione si fonda su due meccanismi
(Minztberg,1983): il principio di distribuzione dell’autorità, fondato sulla definizione di
una linea di gerarchia, e il principio di suddivisioni dei compiti e funzioni, che si basa
su una logica di differenziazione. Questi meccanismi producono una differenziazione
sia dei compiti che ciascuno membro deve svolgere, sia della posizione che occuperà
in rapporto agli altri.
Per garantire che l’azione di ogni membro sia allineata a quella degli altri e converga
verso degli obbiettivi comuni, le organizzazioni mettono in atto meccanismi che
vengono definiti “integrazione dei ruoli”.
Tra i modelli più conosciuti ci sono: modello della struttura semplice o funzionale,
modello della struttura multi divisionale e il modello della struttura a matrice o a
progetto.
La struttura sociale di un’organizzazione viene generalmente rappresentata da
un organigramma, cioè quel diagramma che indica la suddivisione dei ruoli e delle
responsabilità attraverso delle coordinate orizzontali (che indicano la ripartizione
delle funzioni) e verticali (che delineano i livelli di gerarchia). Questa
rappresentazione è però parziale, perché ignora il peso di altre variabili come
l’esperienza, le competenze, l’anzianità, la dialettica e la competizione tra individui e
sub unità dell’organizzazione, etc.
Diversi studi hanno messo in evidenza come in particolari organizzazioni esistano
spazi di discrezionalità informale e non ufficialmente riconosciuti, attraverso i quali i
membri riescono ad esercitare un’influenza nei confronti di altri membri rispetto ai
quali non avrebbero formalmente nessuna autorità.
Quindi la struttura di un’organizzazione si compone di una pluralità di
dimensioni: alcune possono essere codificate e delineate attraverso
schematizzazioni uniformi, mentre altre mantengono una loro impercettibilità e
peculiarità, irriducibili ad ogni tentativo di inquadramento in modelli generali.
L’analisi dell’innovazione delle strutture organizzative si muove pertanto attraverso
l’analisi di casi che hanno introdotto delle significative discontinuità e che sono stati
poi assunti come riferimenti per la successiva progettazione di altre organizzazioni.
Il susseguirsi di modelli di struttura organizzativa non deve far pensare ad una loro
consequenzialità o ad una netta contrapposizione tra di essi. I passaggi tra i vari
modelli di struttura organizzativa non sono mai stati eccessivamente ripidi. Ciò che
si può riconoscere è un percorso di mutamento graduale e altamente differenziato,
sia nei tempi che nella sua portata.
4.1 In principio fu la divisione del lavoro
La chiave di partenza per l’evoluzione moderna delle strutture organizzative fu
il riconoscimento del principio della divisione del lavoro quale criterio fondante per la
definizione dei ruoli all’interno di un’organizzazione. Tuttavia, è dall’epoca della
rivoluzione industriale che questo criterio ha assunto una legittimazione
paradigmatica nella definizione e distribuzione dei ruoli in un contesto di lavoro
organizzativo. Sul piano della riflessione scientifica, tale riconoscimento è ricondotto
all’opera di Adam Smith, che nel suo libro “La ricchezza delle nazioni” esalta la
virtù della divisione del lavoro.
Secondo Smith, la divisione dei ruoli è un passaggio che assume una particolare
valenza quando correlato all’obiettivo dell’incremento della produttività. Tuttavia,
sempre a detta di Smith, l’adozione di una logica di divisone sociale del lavoro, non
rappresenta una predisposizione naturale dell’uomo, ma è una scelta dettata
dai vantaggi che genera in termini commerciali
Mentre nell’epoca preindustriale l’artigiano assolveva contemporaneamente a
due funzioni (lavorare e coordinare il lavoro di altri), nel sistema industriale queste
due funzioni diventarono ben presto inconciliabili.
La parcellizzazione e semplificazione delle attività produttive “preparò il terreno”
per una successiva meccanizzazione di molte di tali attività, anche grazie alle
contemporanee innovazioni emerse sul fronte tecnologico.
Ritornando a Smith possiamo dire che la sua opera delinea una più ampia dinamica
di divisone sociale del lavoro, che prelude:
- a livello micro, alla divisone individuale e alla differenziazione dei ruoli
- a livello meso, ad una più articolata configurazione delle organizzazioni in sub unità
produttive (settori, divisioni, aree…)
- a livello macro, alla specializzazione delle organizzazioni in base alle rispettive
attività produttive.
Nel tempo le innovazioni perdono il proprio cratere di innovatività, ma se
contestualizzata nella sua epoca, l’opera di Smith è un passaggio imprescindibile per
comprendere le future traiettorie di strutturazione delle organizzazioni e delle relazioni
sociali nei due secoli successivi.

4.2 La fondazione delle logiche moderne di management


Successivamente al principio di divisone del lavoro, si attuarono alcune iniziative
come la riconfigurazione delle attività delle pubbliche amministrazioni.
Molte organizzazioni si trovavano a gestire volumi di attività crescenti, seguendo
logiche e obbiettivi di continuità, razionalità ed efficienza.
Al contempo si imponevano strategie sempre più nette verso la ricerca del profitto o
la sostenibilità dei conti pubblici.
Quindi, agli inizi del novecento, emersero delle proposte teoriche di analisi e
progettazione organizzativa funzionali a questo mutato scenario.
Uno dei promotori più importanti fu Henri Fayol, ingegnere francese, che scrisse nel
1916 “L’administration industrielle et générale”, nel quale formalizzò la sua ricetta per
lo svolgimento dell’attività dirigenziali.
L’innovatività del lavoro di Fayol si ritrova nella formalizzazione sistematica e
organica di una visone moderna dei ruoli e dei compiti della dirigenza e nel corretto
allineamento tra struttura organizzativa e funzioni dei dirigenti.
Fayol stabilisce quattordici principi di management. Il primo tra questi sottolinea
l’esigenza della divisone del lavoro e specifica l’esigenza dell’unità di
comando: ciascuna organizzazione deve prevedere che ogni suo membro abbia un
unico superiore che possa esercitare un’autorità nei suoi confronti evitando
ridondanze, sovrapposizioni e lacune. Parallelamente, prefigurò il principio della unità
di direzione: l’ipotesi era che le attività organizzative che avessero tratti in comune
e obbiettivi similari fossero gestite dal medesimo dirigente.
Fayol valorizzò l’uso dell’organigramma come strumento di rappresentazione della
struttura organizzativa. Secondo lui ha molteplici funzioni, come: - deve indicare che
ogni subunità ha un responsabile
- deve delineare la linea di trasmissione dell’autorità gerarchica
- permette di osservare se i confini tra i dipartimenti interni all’organizzazioni siano
ben tracciati
- consente di verificare che il principio della centralizzazione del potere sia ben
bilanciato (per assicurare un giusto equilibrio tra centralizzazione e
decentramento delle funzioni)
- permette di prefigurare se un dipartimento sia capace di proseguire le proprie
attività anche in assenza del proprio responsabile
Inoltre, secondo Fayol, il controllo che un dirigente può esercitare sui propri
subordinati mantiene una sua efficacia finché il numero di subordinati è inferiore ad
una determinata soglia, cioè tra le cinque e le dieci unità.
Le critiche che vengono rivolte a Fayol riguardano: l’enfasi eccessiva verso
le dinamiche di funzionamento formali delle organizzazioni e l’aver trascurato
ogni riferimento alla dimensione informale della vita organizzativa.

4.3 Strutture organizzative e assetti proprietari


Gli attori che detenevano la proprietà di un’organizzazione e coloro che erano
chiamati a gestirla, in passato coincidevano. Dal XX secolo la gestione di
organizzazioni complesse comincia a imporre la presenza di figure specializzate.
In ambito imprenditoriale, questo processo prese il nome di “rivoluzione manageriale”.
Queste innovazioni non introdussero delle discontinuità nette, ma influirono sulle
scelte di strutturazione organizzativa, enfatizzando il principio della divisone dei ruoli
lavorativi.

4.3.1 La separazione tra potere politico e potere esecutivo nelle pubbliche


amministrazioni
Un primo passo verso la distinzione tra gli assetti proprietari e la definizione della
struttura dei ruoli si ebbe con l’avvento delle grandi amministrazioni pubbliche negli
stati moderni. In passato, i monarchi affidavano la gestione delle attività statali a una
schiera di intendenti amministrativi. Questa dinamica entrò in crisi per due ragioni:
l’espansione territoriale di molti stati europei ed il malcontento popolare verso
lo strapotere assunto dalla classe degli intendenti amministrativi (molti stati
dovevano amministrare attività su più continenti con un aumento della complessità
di coordinamento).
La spinta verso la formazione di “stati di diritto” è uno degli eventi più importanti del
XIX secolo che hanno prodotto un cambiamento sociale e istituzionale.
Nell’amministrazione statale si introdusse una logica di regolazione burocratica dei
ruoli lavorativi e dei rapporti tra il potere politico e il potere esecutivo.
Il potere politico manteneva il compito di promulgare le leggi che regolavano e
disciplinavano i rapporti tra i cittadini e lo stato, delegando però al potere
esecutivo, ossia alle organizzazioni pubbliche, la funzione di applicare tali leggi e
mettere in atto le azioni che esse prevedevano.
I funzionari dovevano agire in modo impersonale e disinteressato.
Il disegno della struttura organizzativa, in un ente gestito burocraticamente, deve
soddisfare alcuni criteri essenziali, che ricalcano le indicazioni fornite da Fayol :
- l’assenza di sovrapposizioni tra i ruoli degli uffici interni
- l’assegnazione di un compito a ciascuno ufficio
- la chiarezza delle linee di trasmissione dell’autorità tra i vari uffici
Le strutture burocratiche devono garantire l’assenza di discrezionalità e perturbabilità
dell’attività amministrativa.

4.3.2 La “rivoluzione manageriale”


La rivoluzione manageriale fu quel processo che portò molte aziende ad assumere
figure professionali che si sarebbero occupate della gestione complessiva delle
attività imprenditoriali, focalizzandosi sugli aspetti gestionali e amministrativi e sulla
pianificazione strategica dello sviluppo dell’impresa. Tali figure acquisirono il ruolo di
manager delle aziende, pur non essendo i proprietari.
L'Introduzione di persone estranee alla famiglia dei proprietari fu un’innovazione che
favorì la continuità dello sviluppo di molte imprese statunitensi, consentendone la
trasformazione da imprese a carattere familiare a imprese con una struttura
societaria.
Questo processo venne favorito da due fattori: in primo luogo, negli Stati Uniti,
all’inizio del novecento, si registrò un numero crescente di fusioni tra aziende
manifatturiere, in precedenza concorrenti nello stesso settore.
Le imprese sorte a seguito di questi processi necessitavano di figure professionali
specializzate nella gestione delle organizzazioni di grandi dimensioni e questo
compito poteva difficilmente essere assolto dai precedenti proprietari, i quali si
limitavano a diventare azionisti delle nuove imprese.
In secondo luogo, la rivoluzione manageriale poggiava sulla comparsa di percorsi
formativi specifici per queste nuove figure professionali (nel 1908 venne istituito il
primo corso in “business administration” all’università di Harvard).

4.4 Introduzione e diffusione delle strutture organizzative contemporanee La


definizione e diffusione dei più essenziali modelli di struttura sociale organizzativa,
ossia la struttura funzionale e multidivisionale, fu un processo che prese forma nel
XIX secolo grazie alle innovazioni introdotte da imprese manifatturiere statunitensi.
Uno degli studiosi che esaminò questo fenomeno, qualificandolo come processo di
innovazione organizzativa, fu Alfred Chandler.
Chandler parte dal presupposto che l’adozione di una struttura formale è una scelta
che rispecchia la strategia che un’organizzazione intende perseguire.
L’analisi di Chandler muove dalla contestazione che gran parte delle imprese
manifatturiere era priva di una struttura amministrativa. La distinzione dei ruoli
lavorativi, soprattutto nei ruoli apicali, era confusa e chi aveva incarichi direttivi
sovrintendeva spesso sia a compiti di natura gestionale sia a compiti di natura
tecnica. Una simile concentrazione di responsabilità era possibile finché le imprese
mantenevano dimensioni medie piccole. Lo sviluppo dell’economia statunitense nei
decenni successivi favorì un cambio di strategia. In primo luogo, ci fu un aumento
dimensionale, attraverso l’espansione dei volumi di produzione e delle vendite.
In secondo luogo, si deve considerare che l’incremento delle attività commerciali
venne affiancato da una strategia di integrazione verticale.
Un simile sviluppo imponeva una riconfigurazione dei ruoli direttivi e di
coordinamento. La soluzione che emerse e si affermò fu la creazione di subunità
organizzative, dedite ad uno specifico compito. L’ulteriore elemento distintivo di
questa innovazione fu la creazione di reparti dediti a compiti amministrativi e di
coordinamento.
Questo passaggio di razionalizzazione della divisone del lavoro in subunità
organizzative trovò una sua prima formalizzazione nella struttura funzionale, cioè la
forma di divisione interna di un’organizzazione basata sul criterio della ripartizione
della funzione assegnata a ciascuna subunità.
4.4.1 La configurazione multidivisionale decentrata
Il secondo importantissimo processo di innovazione delle strutture organizzative fu
l’introduzione della configurazione multidivisionale decentrata. Anche in questo caso,
l’innovazione emerse come risposta alla diffusione di una nuova strategia di sviluppo
e crescita delle imprese manifatturiere : la diversificazione. Questa è una logica
d’azione che si può sviluppare lungo tre direzioni : l’ampliamento delle tipologie di
prodotti e servizi, la differenziazione della clientela e la ricerca di nuovi mercati e
territori.
Nel corso della prima metà del novecento, il perseguimento di questa strategia portò
ad alcune imprese ad assumere dimensioni sempre più consistenti, operando su
scala mondiale e gestendo la produzione e commercializzazione di differenti linee di
prodotti.
Ciò comportò un incremento della complessità gestionale.
La struttura funzionale iniziava ad essere inadeguata. Il carattere centralizzato dei
flussi di comunicazione e di controllo delle attività, nella struttura funzionale, si
scontrava con la crescente eterogeneità delle decisioni che le sottounità dovevano
prendere.
La risposta a queste difficoltà fu la definizione di un modello di struttura formale
articolata su più divisone operative.
La struttura multidivisionale viene a configurarsi come la sommatoria di più strutture
funzionali, che fanno capo a un vertice apicale che sovrintende e coordina le attività
delle varie divisioni.
Tale modello non ero privo di criticità : in primo luogo, occorre menzionare le
crescenti difficoltà di coordinamento tra le varie divisioni, che potrebbero agire
come compartimenti stagni più che come parti integrate orientate verso uno sforzo
comune.

In secondo luogo, alcune funzioni possono essere replicate e ridondanti, in virtù del
fatto che le varie divisioni agiscono come corpi autonomi.

4.5 Dalle organizzazioni alle reti organizzative


Negli anni settanta, negli studi organizzativi emerse la consapevolezza di
un’inversione di tendenza : molte imprese iniziavano a snellire la propria struttura
organizzativa, esternalizzando una serie di attività. Al tempo stesso, altre imprese
perseguivano strategie espansive che non puntavano ad un ingrossamento della
propria struttura formale, bensì si articolavano attraverso degli accordi di
collaborazione con altre organizzazioni. Il concetto di struttura organizzativa iniziò
ad assumere una fisionomia innovativa, presentandosi come un costrutto più aperto
e dinamico. La diversificazione e l’integrazione verticale portarono alla saturazione
dei principali mercati dei prodotti manifatturieri.
Nel giro di pochi anni aumentò la velocità e l’estensione della circolazione
delle informazioni, merci, denaro e conoscenze e si venne a creare uno scenario di
ipercompetitività, nel quale le imprese dovevano agire con più flessibilità, velocità e
incertezza rispetto al passato.
Come detto in precedenza, molte imprese cominciarono ad esternalizzare, anche se
non solo per questioni economiche. Secondo Powell, studioso che ipotizzò questa
teoria, in una logica di rete, individui e organizzazioni interagiscono supportandosi a
vicenda in uno schema di reciprocità, condividendo oneri e opportunità delle scelte
imprenditoriali. Da questo punto di vista, le transazioni non sono più regolate
attraverso dei meri meccanismi di mercato, al contrario assumono valore in quanto
veicolano delle relazioni sociali, oltre che alimentare degli scambi di rilevanza
economica.
Quindi, è opportuno fare alcune puntualizzazioni sui nessi che legano la diffusione di
logiche di rete e l’innovazione delle strutture organizzative :
- un’organizzazione può interagire con altre seguendo una siffatta logica pur
mantenendo una tradizionale struttura dipartimentalizzata o multidivisionale.
- l’adozione di una logica di rete si presta più facilmente a delle organizzazioni di
mediepiccole dimensioni
- non è da escludersi la possibilità che un’organizzazione interagisca con altre in una
logica di rete pur in condizioni di asimmetria di potere e/o risorse
- si deve ricordare che le logiche di rete possono convivere con schemi di governo
delle transazioni fondati sulla gerarchia o sul mercato e come anche in essi la
dimensione relazionale non sia assente o irrilevante ( l’organizzazioni e il mercato
rappresentavano le due forme essenziali per la gestione delle transizioni.
L’organizzazione fa leva sul potere della gerarchia interna che la struttura formale
delinea, consentendo in tal senso una disposizione differenziata dei livelli di
autorità tra i vari dell’organizzazione. Viceversa, il mercato viene inquadrato
come il contesto di libero scambio della attività, governato non da rapporti
gerarchici bensì dalla determinazione dei prezzi tra domanda e offerta.
Un’organizzazione ha due opzioni per implementare le proprie attività :
integrare la produzione all’interno, predisponendo una struttura di comando che
coordini i vari membri, oppure affidare la produzione all’esterno, a fornitori) .

4.5.1 Forme e configurazioni delle reti organizzative


Le reti organizzative possono essere suddivise in tre diverse tipologie :
- reti organizzative che nascono per effetto dell’interazione tra attori organizzativi
autonomi
- reti organizzative che si sviluppano a seguito di un processo disgregativo di
un’organizzazione unitaria, che mantiene comunque un ruolo di leadership rispetto
agli altri attori
- reti che invece prefigurano la costituzione di un nuovo soggetto organizzativo, pur
mantenendo l’autonomia dei suoi fondatori
Le prime due hanno tratti in comune ed esprimono le diverse forme che le
esperienze dei distretti industriali hanno assunto. Il distretto che si è sviluppato a
Prato, rappresenta una rete priva di un attore centrale. Questo rendeva la rete più
paritaria e uniformava la dimensione e il potere di ciascun attore. Viceversa, il
distretto sviluppatosi nel trevigiano, vedeva la presenza di un forte attore centrale
(Benetton). Questo agiva come regolatore dei flussi di produzione e attorno
disponeva di una pletora di piccoli fornitori, ai quali aveva affidato la produzione di
parti dei capi d’abbigliamento. Questa seconda opzione può nascere per effetto di
due movimenti :
si può sviluppare quando un’impresa di piccole dimensioni riesce a imporsi sul
mercato ed accrescere le proprie attività senza perseguire una strategia di
integrazione verticale, mentre si può creare quando un’organizzazione di
grandi dimensioni decide di esternalizzare parti delle proprie attività.
Ciò che caratterizzava le reti organizzative dei i distretti era la compenetrazione tra la
sfera imprenditoriale e la sfera comunitaria. Quello che entrava in gioco, nei
comportamenti collettivi e individuali, era la fiducia e la reputazione di cui godeva
ciascun attore. Al tempo stesso, la concentrazione territoriale favoriva la
specializzazione, la condivisione delle competenze, nonché l’innovazione su prodotti
e processi. La creazione di reti del secondo tipo ha seguito logiche diverse. La
logica predominante è stata quella dell’esternalizzazione delle attività. Dagli anni
novanta questa pratica divenne una sorta di paradigma manageriale. Queste
tendenza fu motivata dal fatto che un’organizzazione dovesse concentrarsi sullo
sviluppo delle “core competencies”, cioè quelle competenze distintive che le
permettono di differenziarsi in un determinato contesto e/o mercato, esternalizzando
le attività non centrali.
L’esternalizzazione consentiva molteplici vantaggi come :
- riduzione dei costi, dirottando le attività in contesti territorialmente lontani
- maggiore flessibilità produttiva, in quanto molte attività potevano essere affidate a
fornitori esterni - condivisone degli oneri e dei rischi dell’introduzione di processi
/prodotti innovativi con fornitori esterni
- riduzione dei tempi e dei ritmi di produzione, facendo leva sulle capacità dei
fornitori specializzati
Un caso emblematico fu quello di IBM che fino agli anni settanta rappresentava
un’impresa verticalmente integrata. Dagli anni ottanta, ha perseguito una politica di
esternalizzazione, affidando ad altre software house la realizzazione di sistemi
operativi e, successivamente l’assemblaggio dell’hardware. Questo processo è
proseguito nel nuovo millennio, sino al punto che IBM ha abbandonato le attività di
realizzazione dell’hardware, cedendole al suo fornitore Lenovo, e divenendo
oggi un’impresa che offre consulenza nel settore dell’information technology.
Per concludere quest’analisi, è necessario soffermarsi sulla terza tipologia di reti
organizzative : le reti che prefigurano la costituzione di una nuova organizzazione,
terza e indipendente rispetto agli altri attori che interagendo le danno vita.
L’elemento distintivo di questo fenomeno è la presenza di una nuova organizzazione,
la cui costituzione non determina la scomparsa degli attori che cooperano. Esempi
di tali organizzazioni sono i consorzi, cioè quegli enti che riuniscono altre
organizzazioni al fine di tutelarne gli interessi. Un caso emblematico è quello del
consorzio Melinda : tale consorzio venne fondato da un gruppo di cooperative di
produttori di mele della Val di Non, in Trentino, al fine di limitare gli effetti più
deleteri del ribasso dei prezzi di commercializzazione e promuovere collettivamente
il prodotto. Il consorzio prevedeva una specifica struttura di governance : per
esempio i componenti dell’organo commerciale sono scelti a rotazione, tra i
dirigenti delle cooperative aderenti .
La politica perseguita dal consorzio favorisce un’armonizzazione dei prezzi di
vendita, prima attraverso la vendita di una quota del raccolto complessivo a un
prezzo uniforme e, successivamente, introducendo dei meccanismi per calmierare le
differenze nei prezzi di vendita del rimanente.
Questi meccanismi prevedono specificamente che una cooperativa, che venda le
mele ad un prezzo superiore a quello fissato dal consorzio per il 30 % del raccolto,
versi la differenza al consorzio, il quale si impegna poi alla fine dell’anno a
redistribuire ai vari soci questi ricavi aggiuntivi. I produttori e le cooperative che
vendono ad un prezzo inferiore non ricevono alcuna compensazione. In una seconda
fase, il ruolo del consorzio si allarga per divenire collettore dell’intero raccolto di
tutte le cooperative socie e gestirne complessivamente le politiche commerciali,
garantendo loro autonomia patrimoniale e organizzativa (vedere anche slide per
questo esempio). L’esempio del Consorzio Melinda mostra come le organizzazioni
rete si costruiscano seguendo una struttura federativa.
La sempre più diffusa presenza di reti organizzative ha pertanto un significato
ambivalente per il concetto di struttura organizzativa : da un lato attenua e rende assai
permeabili i confini entro i quali un’organizzazione componeva la propria struttura di
ruoli , mentre dall’altro lato le reti assumono una fisionomia strutturale che identifica
rapporti di potere, distribuzione dei compiti e responsabilità.

4.5.2 Reti ibride : le partnership pubblico - privato


La riflessione sulle reti organizzative si è sinora sviluppata tenendo in
considerazione le dinamiche che hanno interessato le organizzazioni imprenditoriali
di natura privata. Bisogna tenere presente che una simile evoluzione è stata vissuta
anche dalle pubbliche amministrazioni.
Questo processo prende forma a partire dagli anni settanta, un periodo nel quale le
amministrazioni pubbliche di numerosi paesi occidentali avevano accresciuto
notevolmente le proprie dimensioni ed esteso la portata della propria azione.
La crescita di tali organizzazioni ha seguito la logica dell’integrazione di un numero
sempre maggiore di funzioni all’interno di enti già esistenti o (comuni, regioni,
ministeri….) o creati appositamente ( come nel caso italiano delle usl , Unità
Sanitarie
Locali). Il proseguimento di una traiettoria di sviluppo, per quanto riguarda le
dimensioni, era ostacolato da una serie di problematiche emergenti come :
- l’aumento della complessità gestionale di numerose amm. pubbliche
- l’incremento della spesa pubblica per il sostentamento di queste organizzazioni
L’esigenza di ridurre la spesa pubblica statale e la volontà di semplificare le strutture
organizzative furono le motivazioni che portarono le amm. pubbliche a riconfigurare
la propria struttura, seguendo alcune direttrici :
- l’esternalizzazione di una serie di attività
- la liberalizzazione di alcuni settori
- la trasformazione di diversi enti pubblici in enti di natura privata - l’adozione
di logiche manageriali tipiche delle org. private nella gestione delle amm. pubbliche
Come amministrazioni pubbliche si intendono quelle org. che sono sostenute
finanziariamente dalla fiscalità dello stato, e mantengono la titolarità istituzionale
nella
gestione e/o produzione di beni pubblici, di interesse per la collettività.
Anche le amm. pubbliche possono esternalizzare la produzione di un bene,
mantenendo il controllo sull’erogazione ai cittadini ed è altresì possibile che
una pubblica amministrazione costituisca delle partnership con altri attori per
implementare quel bene/servizio.
Le pratiche di esternalizzazione e di creazione di partnership sono due importanti
innovazioni per le pubbliche amm., sia sul piano dei processi lavorativi, che per la
fisionomia delle strutture organizzative.
L’esternalizzazione ha consentito alle pubbliche amministrazioni di
contenere soprattutto le dimensioni in termini di personale.
Quando si considerano invece le partnership tra amm. pubbliche e org. private si
delinea una dinamica diversa. Nel mondo anglosassone, vengono chiamate public-
private partnership (PPP) e, al pari delle procedure di esternalizzazione, la creazione
di partnership non implica la riconfigurazione della struttura org. della pubblica
amministrazione. Le procedure di esternalizzazione delineano una linea disequilibrata
e asimmetrica (a favore del committente), mentre le PPP prefigurano una
distribuzione più equa dei ruoli e delle responsabilità, nonché di una partecipazione
più paritaria ai processi decisionali.
4.6 Dalle strutture alle piattaforme: nuove forme di integrazione organizzativa?
La potenzialità dei nuovi media e, in particolare , delle piattaforme di social networking hanno
favorito la comparsa di nuove forme di definizione della struttura di un’organizzazione . Nel corso
degli anni , il concetto di piattaforma ha assunto tuttavia una sua più chiara definizione , andando a
inquadrare più specificatamente quelle infrastrutture informatiche che , attraverso particolari
dispositivi hardware e software , permettono di condurre delle transazioni tra più attori attraverso
dei sistemi di interfacciamento online(McIntyre,Srinivasan,2017). In altre parole , le piattaforme si
pongono come supporti di intermediazione alle interazioni e alle transazioni , spesso mediante
l’implementazione di ambienti di interazione disponibili in più forme(siti web ,app per
smartphone
, altri connected devices). I social network più conosciuti (come Facebook , Google+ e così via)
sono esempi di piattaforme di questo genere.
Le piattaforme digitali sono alla base dello sviluppo di innumerevoli prodotti e attività . Come
notano Martin Kenney e Jhon Zysman , si possono individuare diverse tipologie di piattaforme
in base a quella che è la loro principale finalità , si possono così distinguere:
−le piattaforme che agiscono come nucleo fondante per la creazione di altre piattaforme(si pensi
ai sistemi operativi di telefoni e computer);
−le piattaforme che servono per l’archiviazione di dati e documenti(come i servizi di cloud storage)
−le piattaforme pensate per la vendita di servizi e prodotti(per esempio, LinkedIn ) o per
la condivisione di risorse di vario genere: denaro , beni e prodotti , servizi , tempo e così
via.
Per quanto la definizione di sharing economy, è imposta come etichetta per inquadrare un insieme
di esperienze imprenditoriali fondate su delle logiche di condivisione tra più soggetti. (Esempi
AIrbnb,BlaBlaCar , DogVacay . I primi studi in merito evidenziano come le varie piattaforme
possano differire tra loro in quest’ottica , introducendo anche combinazioni ibride tra le più
semplici funzioni di condivisione di risorse e forme più sofisticate e vincolanti di controllo delle
transazioni: nuovi equilibri tra autorità gerarchica , relazioni di mercato e logiche di network ,
riprendendo in tal senso lo schema teorico proposto da Powell. Nel caso delle piattaforme , questi
equilibri emergono considerando i ruoli e gli spazi discrezionali di tre attori distinti: le
organizzazioni che gestiscono e controllano le piattaforme , i provider dei servizi promossi
attraverso le piattaforme , gli utenti di tale servizio. Al riguardo , una serie di riflessioni molto
pertinenti giungono da Arun Sundarajan, il quale ha elaborato due schemi per analizzare le relazioni
tra tali attori.
Il primo modello analitico riguarda il rapporto tra piattaforma e provider di un servizio: in sostanza
, Sundarajan intende verificare se il provider di un servizio possa essere qualificato come
lavoratore dipendente , a prescindere dal formale inquadrante contrattuale che lo lega alla
piattaforma.
Il secondo schema proposto da Sundarajan esamina viceversa le forme di controllo e di supporto
all’imprenditorialità dei provider offerte da una piattaforma. Questa analisi considera tre dimensioni
:il ruolo della piattaforma come spazio di incubazione dell’imprenditorialità individuale , il livello
di indipendenza che la piattaforma concede ai singoli provider. Nel complesso , il lavoro di
Sundarajan evidenzia come le piattaforme evidenzia come le piattaforme siano uno strumento
ibrido di raccordo tra genitori , fornitori di prestazioni e utenti di tali prestazioni .
5. L’innovazione dei processi di lavoro
Il concetto di innovazione di processo è legato in modo ambivalente al concetto di innovazione di
prodotto. Come nota Jan Fagerberg , l’innovazione di prodotto è stata spesso intesa come fonte
di nuove possibilità occupazionali , mentre al contrario l’innovazione di processo è stata
percepita come una minaccia per l’occupazione. L’innovazione si sviluppa lungo un continuum nel
quale questi due momenti spesso si sovrappongono o agiscono in sinergia.
In termini estremamente sintetici , l’innovazione di processo inquadra i cambiamenti (di intensità
variabile) del modo in cui un prodotto viene realizzato e/o distribuito(Tushman, Nadler ,1986).

L’innovazione di processo appare come una successiva esigenza di ottimizzazione e


razionalizzazione degli elementi di novità veicolati dalla comparsa di un prodotto innovativo.
L’ipotesi , avanzata tra gli altri da Utterback e Abernathy e ripresa successivamente per esempio
da Adner e Levinthal , è che l’innovazione di processo segua l’introduzione di un prodotto
innovativo modificandone le dinamiche di produzione lungo tre direttrici:
−incrementandone le performance , prioritariamente attraverso degli interventi di innovazione
tecnologica;
−contribuendo ad ampliarne i volumi di vendita , mediante il continuo allineamento
delle caratteristiche del prodotto alle esigenze e ai gusti dei suoi acquirenti;
−riducendone i costi di produzione , in primis attraverso la standardizzazione dei processi
produttivi e la realizzazione di economie di scala.
Questa logica interpretativa è peraltro coerente con la particolare correlazione tra le dinamiche di
evoluzione dei prodotti , imprese e territori di produzione proposta da Raymond Vernon e
sintetizzata nella sua teoria del “ciclo del prodotto”(Vernon ,1966). Secondo Vernon , i
prodotti innovativi si caratterizzano inizialmente per una forte differenziazione e per l’elevata
competizione tra le imprese produttrici.
Nella prima fase ,dunque, più imprese competono per imporre sul mercato le proprie varianti
del medesimo prodotto , attraverso la differenziazione di modelli , configurazioni , offerte . Nel
tempo questa fase tende a svanire , allorché subentra un processo di selezione che determina una
forte concentrazione dei produttori e una progressiva stabilizzazione delle caratteristiche dei
prodotti. La
terza fase si delinea quando , a seguito della stabilizzazione dei prodotti , la competizione si
sposta prevalentemente sul piano dei costi di produzione: in virtù di ciò le imprese tendono a
spostare le produzioni in contesti territoriali caratterizzati da costi del lavoro inferiori e
condizioni regolamentativi meno vincolanti.
E’ dunque importante riconoscere la valenza complessiva delle innovazioni di processo , senza
limitarsi a inquadrarle come una sequenza di azioni conseguenti all’introduzione di un prodotto
innovativo.
Quando parliamo di innovazione di processo facciamo riferimento alle principali caratteristiche di
una serie di tendenze che hanno indubbiamente costituito dei modelli per molte organizzazioni
, contribuendo a rendere più uniforme il loro comportamento e le loro scelte . In quest’ottica ,
si presenteranno quattro passaggi che hanno plasmato nel corso della storia la configurazione
dei processi lavorativi: il modello fordista−taylorista , il successivo modello post fordista , il
fenomeno dell’automazione e , infine ,le più recenti innovazioni date sempre più pervasiva
digitalizzazione di dati e attività.
Questi quattro fenomeni hanno segnato idealmente delle fasi di discontinuità nella teorizzazione
sull’organizzazione dei processi lavorativi.

5.1 L’imprinting tayloristico−fordista


Parlando di taylorismo ci riferiamo convenzionalmente a quell’insieme di proposte di innovazione
dell’impostazione dei processi lavorativi nelle industrie manifatturiere formulate da Frederick
Taylor nei primi decenni del Novecento. Taylor parlò espressamente di scientific management
i quali pilastri erano quattro:
−Lo studio scientifico delle procedure di lavoro e , come detto , la conseguente riorganizzazione di
carichi e metodi di lavoro , nell’ottica dell’implementazione di un sistema di task management più
efficiente e funzionale;
−La selezione rigorosa della manodopera, attraverso un’attenta valutazione delle caratteristiche di
ciascun lavoratore e la sua assegnazione a un ruolo adeguato a esse;
−L’instaurazione di rapporti collaborativi tra manodopera e direzione;
− La riconfigurazione dell’apparato organizzativo interno delle fabbriche , con una netta
suddivisione dei ruoli tra dirigenti , tecnici e operai. Questa suddivisione prevedeva che i dirigenti
assolvessero esclusivamente a compiti direttivi e gestionali, mentre gli operai fossero
impegnati in attività esecutive , privi di autonomia e discrezionalità.
La comunicazione doveva scorrere analogamente lungo il medesimo flusso verticale e in una
direzione top−down: le comunicazioni dal basso verso l’alto non erano ammesse, a meno che non
riguardassero anomalie o discrepanze nella produzione. La diffusione dello scientific management
venne poi agevolata e amplificata dalla sua applicazione attraverso una particolare tecnologia: la
catena di montaggio. I principi delineati da Taylor non implicavano necessariamente l’uso di
particolari tecnologie: essi erano essenzialmente delle “linee guida” di carattere organizzativo e
non
facevano leva su specifiche tecnologie o strumentazioni .Ciò ne favoriva l’introduzione in contesti
organizzativi anche assai eterogenei tra loro: peraltro , una delle ambizioni di Taylor era quella di
formulare una best way per l’organizzazione dei processi lavorativi, valida universalmente in
qualunque impresa. La congiunzione tra la logica sottostante alla catena di montaggio e i principi
dello scientific management è generalmente attribuita a Henry Ford, fondatore dell’omonima
azienda produttrice di automobili.
I principi del montaggio sono questi:
1. Collocare strumenti e uomini secondo l’ordine successivo delle operazioni , in modo che ogni parte
componente abbia a percorre il minimo spazio durante il processo di finimento.
2. Usare carrelli su binari , o altre simili forme di trasporto , in modo che quando un operaio ha
finito la sua operazione , egli getta il pezzo sempre allo stesso posto , il più possibile a portata
della sua mano , quindi , se si può ottenerlo , è il peso stesso del pezzo quello che deve far
scorrere il carrello sul binario e portarlo al prossimo operaio.
3. L’operaio deve far possibilmente una cosa sola con un solo movimento.
L’applicazione di questa logica di organizzazione dei processi lavorativi consentì a Ford di
realizzare formidabili economie di scale nella fabbricazione di autovetture incrementando
costantemente i livelli produttivi e al contempo riducendo i costi di produzione. Il segno più
tangibile di questo sforzo organizzativo e produttivo fu il Modello T , una delle automobili più
vendute nel Novecento.
Il concetto di fordismo viene spesso utilizzato come sinonimo del concetto di taylorismo , sebbene
esso ne rappresenti un’elaborazione , sviluppata associando i principi dello scientific management
alle potenzialità di una particolare tecnologia.

5.2 La svolta post fordista


Il successo delle logiche tayloristiche e fordiste si arrestò nel corso degli anni Settanta del secolo
scorso. Le ragioni che portarono a questa inversione di tendenza furono molteplici. Tra
queste, occorre segnalare una debolezza intrinseca del sistema fordista : la scarsa predisposizione
per la diversificazione dei prodotti . Nei decenni che seguirono la fine della Seconda guerra
mondiale , in molti di questi settori i differenziali tra domanda e offerta andarono gradualmente
ad appianarsi, in quanto l’accresciuto livello di benessere economico consentiva , peraltro , di
operare delle scelte qualitative e non di accontentarsi di prodotti di massa realizzati in modo
uniforme.
La saturazione dei numerosi mercati determinava inoltre una riduzione della domanda.
L’evoluzione a livello internazionale delle dinamiche di relazione tra domanda e offerta di beni
materiali implicava quindi una revisione dell’organizzazione dei processi produttivi. In tal senso
, un’innovazione radicale giunse dal Giappone e , precisamente , dall’esperienza della Toyota , la
nota azienda produttrice di automobili , il cui modello organizzativo sviluppato divenne
l’emblema del superamento delle dinamiche di produzione tayloristiche−fordiste, tanto che
spesso si parla in tal senso di “toyotismo”. Questo modello metteva in discussione alcuni
capisaldi delle logiche taylor−
considerato un obiettivo da perseguire, nonché le modalità attraverso le quali conseguirlo.
Una logica istituzionale non mantiene una traccia formale, perché cui non se ne può trovare
una declinazione materiale. Esse vengono piuttosto interiorizzate dei membri
dell’organizzazione osservando i comportamenti di altri membri della medesima collettività.
Al tempo stesso, le logiche istituzionali non sono immutabili o impermeabile ai
cambiamenti e alle sollecitazioni esterne.
Gli studi più recenti sulle organizzazioni ibride nascono per esaminare i casi in cui più logiche
istituzionali convivono in un’organizzazione. Gli esempi più emblematici sono quelli delle
imprese sociali o quello delle imprese impegnate nel microcredito. In essi convivono
espressamente almeno due dinamiche d’azione, tradizionalmente considerate antitetiche e
inconciliabili: nel caso delle imprese sociali la scelta di agire come imprese che operano
stabilmente sul mercato e, parallelamente, la volontà di essere attori che non perseguono
finalità lucrative. Il caso delle imprese impegnate nel microcredito è altrettanto stimolante,
poiché esse provvedono a erogare credito finanziario ridimensionato tuttavia le garanzie
richieste ai beneficiari.
Si tratta di strategie che si qualificano come innovative perché intendono combinare
una pluralità di obiettivi e logiche d’azione e perché il repertorio di logiche d’azione che
esse intendono seguire è disomogeneo e dissonante.
INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA

Riassunto capitolo 4 (da pag 125 a pag 158)

4.0 Introduzione
Questo capitolo è dedicato all’analisi dei processi di innovazione inerenti le strutture
sociali delle innovazioni. Per struttura sociale si intende generalmente la particolare
distribuzione dei ruoli e dei compiti che ciascuna organizzazione assegna ai propri
membri.
La struttura sociale di un’organizzazione si fonda su due meccanismi
(Minztberg,1983): il principio di distribuzione dell’autorità, fondato sulla definizione di
una linea di gerarchia, e il principio di suddivisioni dei compiti e funzioni, che si basa
su una logica di differenziazione. Questi meccanismi producono una differenziazione
sia dei compiti che ciascuno membro deve svolgere, sia della posizione che occuperà
in rapporto agli altri.
Per garantire che l’azione di ogni membro sia allineata a quella degli altri e converga
verso degli obbiettivi comuni, le organizzazioni mettono in atto meccanismi che
vengono definiti “integrazione dei ruoli”.
Tra i modelli più conosciuti ci sono: modello della struttura semplice o funzionale,
modello della struttura multi divisionale e il modello della struttura a matrice o a
progetto.
La struttura sociale di un’organizzazione viene generalmente rappresentata da un
organigramma, cioè quel diagramma che indica la suddivisione dei ruoli e delle
responsabilità attraverso delle coordinate orizzontali (che indicano la ripartizione delle
funzioni) e verticali (che delineano i livelli di gerarchia). Questa rappresentazione è
però parziale, perché ignora il peso di altre variabili come l’esperienza, le competenze,
l’anzianità, la dialettica e la competizione tra individui e sub unità dell’organizzazione,
etc.
Diversi studi hanno messo in evidenza come in particolari organizzazioni esistano
spazi di discrezionalità informale e non ufficialmente riconosciuti, attraverso i quali i
membri riescono ad esercitare un’influenza nei confronti di altri membri rispetto ai
quali non avrebbero formalmente nessuna autorità.
Quindi la struttura di un’organizzazione si compone di una pluralità di dimensioni:
alcune possono essere codificate e delineate attraverso schematizzazioni uniformi,
mentre altre mantengono una loro impercettibilità e peculiarità, irriducibili ad ogni
tentativo di inquadramento in modelli generali.
L’analisi dell’innovazione delle strutture organizzative si muove pertanto attraverso
l analisi di casi che hanno introdotto delle significative discontinuità e che sono stati
poi assunti come riferimenti per la successiva progettazione di altre organizzazioni.
Il susseguirsi di modelli di struttura organizzativa non deve far pensare ad una loro
consequenzialità o ad una netta contrapposizione tra di essi. I passaggi tra i vari
modelli di struttura organizzativa non sono mai stati eccessivamente ripidi. Ciò che si
può riconoscere è un percorso di mutamento graduale e altamente differenziato, sia
nei tempi che nella sua portata.
4.1 In principio fu la divisione del lavoro
La chiave di partenza per l’evoluzione moderna delle strutture organizzative fu il
riconoscimento del principio della divisione del lavoro quale criterio fondante per la
definizione dei ruoli all’interno di un’organizzazione. Tuttavia, è dall’epoca della
rivoluzione industriale che questo criterio ha assunto una legittimazione paradigmatica
nella definizione e distribuzione dei ruoli in un contesto di lavoro organizzativo. Sul
piano della riflessione scientifica, tale riconoscimento è ricondotto all’opera di Adam
Smith, che nel suo libro “La ricchezza delle nazioni” esalta la virtù della divisione del
lavoro.
Secondo Smith, la divisione dei ruoli è un passaggio che assume una particolare
valenza quando correlato all’obiettivo dell’incremento della produttività. Tuttavia,
sempre a detta di Smith, l’adozione di una logica di divisone sociale del lavoro, non
rappresenta una predisposizione naturale dell’uomo, ma è una scelta dettata dai
vantaggi che genera in termini commerciali
Mentre nell’epoca preindustriale l’artigiano assolveva contemporaneamente a due
funzioni (lavorare e coordinare il lavoro di altri), nel sistema industriale queste due
funzioni diventarono ben presto inconciliabili.
La parcellizzazione e semplificazione delle attività produttive “preparò il terreno” per
una successiva meccanizzazione di molte di tali attività, anche grazie alle
contemporanee innovazioni emerse sul fronte tecnologico.
Ritornando a Smith possiamo dire che la sua opera delinea una più ampia dinamica
di divisone sociale del lavoro, che prelude:
- a livello micro, alla divisone individuale e alla differenziazione dei ruoli
- a livello meso, ad una più articolata configurazione delle organizzazioni in sub unità
produttive (settori, divisioni, aree…)
- a livello macro, alla specializzazione delle organizzazioni in base alle rispettive
attività produttive.
Nel tempo le innovazioni perdono il proprio cratere di innovatività, ma se
contestualizzata nella sua epoca, l’opera di Smith è un passaggio imprescindibile per
comprendere le future traiettorie di strutturazione delle organizzazioni e delle
relazioni sociali nei due secoli successivi.

4.2 La fondazione delle logiche moderne di management


Successivamente al principio di divisone del lavoro, si attuarono alcune iniziative come
la riconfigurazione delle attività delle pubbliche amministrazioni.
Molte organizzazioni si trovavano a gestire volumi di attività crescenti, seguendo
logiche e obbiettivi di continuità, razionalità ed efficienza.
Al contempo si imponevano strategie sempre più nette verso la ricerca del profitto o
la sostenibilità dei conti pubblici.
Quindi, agli inizi del novecento, emersero delle proposte teoriche di analisi e progettazione organizzativa
Uno dei promotori più importanti fu Henri Fayol, ingegnere francese, che scrisse nel 1916 “L’administrat
L’innovatività del lavoro di Fayol si ritrova nella formalizzazione sistematica e organica di una visone m
Fayol stabilisce quattordici principi di management. Il primo tra questi sottolinea
l’esigenza della divisone del lavoro e specifica l’esigenza dell’unità di comando:
ciascuna organizzazione deve prevedere che ogni suo membro abbia un unico
superiore che possa esercitare un’autorità nei suoi confronti evitando ridondanze,
sovrapposizioni e lacune. Parallelamente, prefigurò il principio della unità di direzione:
l’ipotesi era che le attività organizzative che avessero tratti in comune e obbiettivi
similari fossero gestite dal medesimo dirigente.
Fayol valorizzò l’uso dell’organigramma come strumento di rappresentazione della
struttura organizzativa. Secondo lui ha molteplici funzioni, come: - deve indicare che
ogni subunità ha un responsabile
- deve delineare la linea di trasmissione dell’autorità gerarchica
- permette di osservare se i confini tra i dipartimenti interni all’organizzazioni siano
ben tracciati
- consente di verificare che il principio della centralizzazione del potere sia ben
bilanciato (per assicurare un giusto equilibrio tra centralizzazione e decentramento
delle funzioni)
- permette di prefigurare se un dipartimento sia capace di proseguire le proprie
attività anche in assenza del proprio responsabile
Inoltre, secondo Fayol, il controllo che un dirigente può esercitare sui propri
subordinati mantiene una sua efficacia finché il numero di subordinati è inferiore ad
una determinata soglia, cioè tra le cinque e le dieci unità.
Le critiche che vengono rivolte a Fayol riguardano: l’enfasi eccessiva verso le
dinamiche di funzionamento formali delle organizzazioni e l’aver trascurato ogni
riferimento alla dimensione informale della vita organizzativa.

4.3 Strutture organizzative e assetti proprietari


Gli attori che detenevano la proprietà di un’organizzazione e coloro che erano chiamati
a gestirla, in passato coincidevano. Dal XX secolo la gestione di organizzazioni
complesse comincia a imporre la presenza di figure specializzate.
In ambito imprenditoriale, questo processo prese il nome di “rivoluzione manageriale”.
Queste innovazioni non introdussero delle discontinuità nette, ma influirono sulle
scelte di strutturazione organizzativa, enfatizzando il principio della divisone dei ruoli
lavorativi.

4.3.1 La separazione tra potere politico e potere esecutivo nelle pubbliche


amministrazioni
Un primo passo verso la distinzione tra gli assetti proprietari e la definizione della
struttura dei ruoli si ebbe con l’avvento delle grandi amministrazioni pubbliche negli
stati moderni. In passato, i monarchi affidavano la gestione delle attività statali a una
schiera di intendenti amministrativi. Questa dinamica entrò in crisi per due ragioni:
l’espansione territoriale di molti stati europei ed il malcontento popolare verso lo
strapotere assunto dalla classe degli intendenti amministrativi (molti stati dovevano
amministrare attività su più continenti con un aumento della complessità di
coordinamento).
La spinta verso la formazione di “stati di diritto” è uno degli eventi più importanti del
XIX secolo che hanno prodotto un cambiamento sociale e istituzionale.
Nell’amministrazione statale si introdusse una logica di regolazione burocratica dei
ruoli lavorativi e dei rapporti tra il potere politico e il potere esecutivo.
Il potere politico manteneva il compito di promulgare le leggi che regolavano e
disciplinavano i rapporti tra i cittadini e lo stato, delegando però al potere esecutivo,
ossia alle organizzazioni pubbliche, la funzione di applicare tali leggi e mettere in atto
le azioni che esse prevedevano.
I funzionari dovevano agire in modo impersonale e disinteressato.
Il disegno della struttura organizzativa, in un ente gestito burocraticamente, deve
soddisfare alcuni criteri essenziali, che ricalcano le indicazioni fornite da Fayol :
- l’assenza di sovrapposizioni tra i ruoli degli uffici interni
- l’assegnazione di un compito a ciascuno ufficio
- la chiarezza delle linee di trasmissione dell’autorità tra i vari uffici
Le strutture burocratiche devono garantire l’assenza di discrezionalità e perturbabilità
dell’attività amministrativa.

4.3.2 La “rivoluzione manageriale”


La rivoluzione manageriale fu quel processo che portò molte aziende ad assumere
figure professionali che si sarebbero occupate della gestione complessiva delle attività
imprenditoriali, focalizzandosi sugli aspetti gestionali e amministrativi e sulla
pianificazione strategica dello sviluppo dell’impresa. Tali figure acquisirono il ruolo di
manager delle aziende, pur non essendo i proprietari.
L'Introduzione di persone estranee alla famiglia dei proprietari fu un’innovazione che
favorì la continuità dello sviluppo di molte imprese statunitensi, consentendone la
trasformazione da imprese a carattere familiare a imprese con una struttura societaria.
Questo processo venne favorito da due fattori: in primo luogo, negli Stati Uniti, all’inizio
del novecento, si registrò un numero crescente di fusioni tra aziende manifatturiere,
in precedenza concorrenti nello stesso settore.
Le imprese sorte a seguito di questi processi necessitavano di figure professionali
specializzate nella gestione delle organizzazioni di grandi dimensioni e questo
compito poteva difficilmente essere assolto dai precedenti proprietari, i quali si
limitavano a diventare azionisti delle nuove imprese.
In secondo luogo, la rivoluzione manageriale poggiava sulla comparsa di percorsi
formativi specifici per queste nuove figure professionali (nel 1908 venne istituito il
primo corso in “business administration” all’università di Harvard).

4.4 Introduzione e diffusione delle strutture organizzative contemporanee La


definizione e diffusione dei più essenziali modelli di struttura sociale organizzativa,
ossia la struttura funzionale e multidivisionale, fu un processo che prese forma nel
XIX secolo grazie alle innovazioni introdotte da imprese manifatturiere statunitensi.
Uno degli studiosi che esaminò questo fenomeno, qualificandolo come processo di
innovazione organizzativa, fu Alfred Chandler.
Chandler parte dal presupposto che l’adozione di una struttura formale è una scelta
che rispecchia la strategia che un’organizzazione intende perseguire.
L’analisi di Chandler muove dalla contestazione che gran parte delle imprese
manifatturiere era priva di una struttura amministrativa. La distinzione dei ruoli
lavorativi, soprattutto nei ruoli apicali, era confusa e chi aveva incarichi direttivi
sovrintendeva spesso sia a compiti di natura gestionale sia a compiti di natura tecnica.
Una simile concentrazione di responsabilità era possibile finché le imprese
mantenevano dimensioni medie piccole. Lo sviluppo dell’economia statunitense nei
decenni successivi favorì un cambio di strategia. In primo luogo, ci fu un aumento
dimensionale, attraverso l’espansione dei volumi di produzione e delle vendite. In
secondo luogo, si deve considerare che l’incremento delle attività commerciali venne
affiancato da una strategia di integrazione verticale.
Un simile sviluppo imponeva una riconfigurazione dei ruoli direttivi e di coordinamento.
La soluzione che emerse e si affermò fu la creazione di subunità organizzative, dedite
ad uno specifico compito. L’ulteriore elemento distintivo di questa innovazione fu la
creazione di reparti dediti a compiti amministrativi e di coordinamento.
Questo passaggio di razionalizzazione della divisone del lavoro in subunità
organizzative trovò una sua prima formalizzazione nella struttura funzionale, cioè la
forma di divisione interna di un’organizzazione basata sul criterio della ripartizione
della funzione assegnata a ciascuna subunità.
4.4.1 La configurazione multidivisionale decentrata
Il secondo importantissimo processo di innovazione delle strutture organizzative fu
l’introduzione della configurazione multidivisionale decentrata. Anche in questo caso,
l’innovazione emerse come risposta alla diffusione di una nuova strategia di
sviluppo e crescita delle imprese manifatturiere : la diversificazione. Questa è una
logica d’azione che si può sviluppare lungo tre direzioni : l’ampliamento delle
tipologie di prodotti e servizi, la differenziazione della clientela e la ricerca di nuovi
mercati e territori.
Nel corso della prima metà del novecento, il perseguimento di questa strategia portò
ad alcune imprese ad assumere dimensioni sempre più consistenti, operando su scala
mondiale e gestendo la produzione e commercializzazione di differenti linee di
prodotti.
Ciò comportò un incremento della complessità gestionale.
La struttura funzionale iniziava ad essere inadeguata. Il carattere centralizzato dei
flussi di comunicazione e di controllo delle attività, nella struttura funzionale, si
scontrava con la crescente eterogeneità delle decisioni che le sottounità dovevano
prendere.
La risposta a queste difficoltà fu la definizione di un modello di struttura formale
articolata su più divisone operative.
La struttura multidivisionale viene a configurarsi come la sommatoria di più strutture
funzionali, che fanno capo a un vertice apicale che sovrintende e coordina le attività
delle varie divisioni.
Tale modello non ero privo di criticità : in primo luogo, occorre menzionare le crescenti
difficoltà di coordinamento tra le varie divisioni, che potrebbero agire come
compartimenti stagni più che come parti integrate orientate verso uno sforzo
comune.
In secondo luogo, alcune funzioni possono essere replicate e ridondanti, in virtù del
fatto che le varie divisioni agiscono come corpi autonomi.

4.5 Dalle organizzazioni alle reti organizzative


Negli anni settanta, negli studi organizzativi emerse la consapevolezza di
un’inversione di tendenza : molte imprese iniziavano a snellire la propria struttura
organizzativa, esternalizzando una serie di attività. Al tempo stesso, altre imprese
perseguivano strategie espansive che non puntavano ad un ingrossamento della
propria struttura formale, bensì si articolavano attraverso degli accordi di
collaborazione con altre organizzazioni. Il concetto di struttura organizzativa iniziò ad
assumere una fisionomia innovativa, presentandosi come un costrutto più aperto e
dinamico. La diversificazione e l’integrazione verticale portarono alla saturazione dei
principali mercati dei prodotti manifatturieri.
Nel giro di pochi anni aumentò la velocità e l’estensione della circolazione
delle informazioni, merci, denaro e conoscenze e si venne a creare uno scenario di
ipercompetitività, nel quale le imprese dovevano agire con più flessibilità, velocità e
incertezza rispetto al passato.
Come detto in precedenza, molte imprese cominciarono ad esternalizzare, anche se
non solo per questioni economiche. Secondo Powell, studioso che ipotizzò questa
teoria, in una logica di rete, individui e organizzazioni interagiscono supportandosi a
vicenda in uno schema di reciprocità, condividendo oneri e opportunità delle scelte
imprenditoriali. Da questo punto di vista, le transazioni non sono più regolate
attraverso dei meri meccanismi di mercato, al contrario assumono valore in quanto
veicolano delle relazioni sociali, oltre che alimentare degli scambi di rilevanza
economica.
Quindi, è opportuno fare alcune puntualizzazioni sui nessi che legano la diffusione di
logiche di rete e l’innovazione delle strutture organizzative :
- un’organizzazione può interagire con altre seguendo una siffatta logica pur
mantenendo una tradizionale struttura dipartimentalizzata o multidivisionale.
- l’adozione di una logica di rete si presta più facilmente a delle organizzazioni di
mediepiccole dimensioni
- non è da escludersi la possibilità che un’organizzazione interagisca con altre in una
logica di rete pur in condizioni di asimmetria di potere e/o risorse
- si deve ricordare che le logiche di rete possono convivere con schemi di governo
delle transazioni fondati sulla gerarchia o sul mercato e come anche in essi la
dimensione relazionale non sia assente o irrilevante ( l’organizzazioni e il
mercato rappresentavano le due forme essenziali per la gestione delle transizioni.
L’organizzazione fa leva sul potere della gerarchia interna che la struttura formale
delinea, consentendo in tal senso una disposizione differenziata dei livelli di autorità
tra i vari dell’organizzazione. Viceversa, il mercato viene inquadrato come il
contesto di libero scambio della attività, governato non da rapporti gerarchici bensì
dalla determinazione dei prezzi tra domanda e offerta. Un’organizzazione ha
due opzioni per implementare le proprie attività : integrare la produzione
all’interno, predisponendo una struttura di comando che coordini i vari membri,
oppure affidare la produzione all’esterno, a fornitori) .
4.5.1 Forme e configurazioni delle reti organizzative
Le reti organizzative possono essere suddivise in tre diverse tipologie :
reti organizzative che nascono per effetto dell’interazione tra attori organizzativi
autonomi
reti organizzative che si sviluppano a seguito di un processo disgregativo di un’organizzazione unitaria,
reti che invece prefigurano la costituzione di un nuovo soggetto organizzativo, pur
mantenendo l’autonomia dei suoi fondatori
Le prime due hanno tratti in comune ed esprimono le diverse forme che le
esperienze dei distretti industriali hanno assunto. Il distretto che si è sviluppato a
Prato, rappresenta una rete priva di un attore centrale. Questo rendeva la rete più
paritaria e uniformava la dimensione e il potere di ciascun attore. Viceversa, il
distretto sviluppatosi nel trevigiano, vedeva la presenza di un forte attore centrale
(Benetton). Questo agiva come regolatore dei flussi di produzione e attorno
disponeva di una pletora di piccoli fornitori, ai quali aveva affidato la produzione di
parti dei capi d’abbigliamento. Questa seconda opzione può nascere per effetto di
due movimenti :
si può sviluppare quando un’impresa di piccole dimensioni riesce a imporsi sul
mercato ed accrescere le proprie attività senza perseguire una strategia di
integrazione verticale, mentre si può creare quando un’organizzazione di grandi
dimensioni decide di esternalizzare parti delle proprie attività.
Ciò che caratterizzava le reti organizzative dei i distretti era la compenetrazione tra la
sfera imprenditoriale e la sfera comunitaria. Quello che entrava in gioco, nei
comportamenti collettivi e individuali, era la fiducia e la reputazione di cui godeva
ciascun attore. Al tempo stesso, la concentrazione territoriale favoriva la
specializzazione, la condivisione delle competenze, nonché l’innovazione su prodotti
e processi. La creazione di reti del secondo tipo ha seguito logiche diverse. La logica
predominante è stata quella dell’esternalizzazione delle attività. Dagli anni novanta
questa pratica divenne una sorta di paradigma manageriale. Queste tendenza fu
motivata dal fatto che un’organizzazione dovesse concentrarsi sullo sviluppo delle
“core competencies”, cioè quelle competenze distintive che le permettono di
differenziarsi in un determinato contesto e/o mercato, esternalizzando le attività non
centrali.
L’esternalizzazione consentiva molteplici vantaggi come :
- riduzione dei costi, dirottando le attività in contesti territorialmente lontani
- maggiore flessibilità produttiva, in quanto molte attività potevano essere affidate a
fornitori esterni - condivisone degli oneri e dei rischi dell’introduzione di processi
/prodotti innovativi con fornitori esterni
- riduzione dei tempi e dei ritmi di produzione, facendo leva sulle capacità dei
fornitori specializzati
Un caso emblematico fu quello di IBM che fino agli anni settanta rappresentava
un’impresa verticalmente integrata. Dagli anni ottanta, ha perseguito una politica di
esternalizzazione, affidando ad altre software house la realizzazione di sistemi
operativi e, successivamente l’assemblaggio dell’hardware. Questo processo è
proseguito nel nuovo millennio, sino al punto che IBM ha abbandonato le attività di
realizzazione dell’hardware, cedendole al suo fornitore Lenovo, e divenendo oggi
un’impresa che offre consulenza nel settore dell’information technology.
Per concludere quest’analisi, è necessario soffermarsi sulla terza tipologia di reti
organizzative : le reti che prefigurano la costituzione di una nuova organizzazione,

terza e indipendente rispetto agli altri attori che interagendo le danno vita. L’elemento distintivo di qu
commercializzazione e promuovere collettivamente il prodotto. Il consorzio prevedeva
una specifica struttura di governance : per esempio i componenti dell’organo
commerciale sono scelti a rotazione, tra i dirigenti delle cooperative aderenti .
La politica perseguita dal consorzio favorisce un’armonizzazione dei prezzi di vendita,
prima attraverso la vendita di una quota del raccolto complessivo a un prezzo uniforme
e, successivamente, introducendo dei meccanismi per calmierare le differenze nei
prezzi di vendita del rimanente.
Questi meccanismi prevedono specificamente che una cooperativa, che venda le
mele ad un prezzo superiore a quello fissato dal consorzio per il 30 % del raccolto,
versi la differenza al consorzio, il quale si impegna poi alla fine dell’anno a
redistribuire ai vari soci questi ricavi aggiuntivi. I produttori e le cooperative che
vendono ad un prezzo inferiore non ricevono alcuna compensazione. In una seconda
fase, il ruolo del consorzio si allarga per divenire collettore dell’intero raccolto di tutte
le cooperative socie e gestirne complessivamente le politiche commerciali,
garantendo loro autonomia patrimoniale e organizzativa (vedere anche slide per
questo esempio). L’esempio del Consorzio Melinda mostra come le organizzazioni
rete si costruiscano seguendo una struttura federativa.
La sempre più diffusa presenza di reti organizzative ha pertanto un significato
ambivalente per il concetto di struttura organizzativa : da un lato attenua e rende assai
permeabili i confini entro i quali un’organizzazione componeva la propria struttura di
ruoli , mentre dall’altro lato le reti assumono una fisionomia strutturale che identifica
rapporti di potere, distribuzione dei compiti e responsabilità.

4.5.2 Reti ibride : le partnership pubblico - privato


La riflessione sulle reti organizzative si è sinora sviluppata tenendo in considerazione
le dinamiche che hanno interessato le organizzazioni imprenditoriali di natura
privata. Bisogna tenere presente che una simile evoluzione è stata vissuta anche
dalle pubbliche amministrazioni.
Questo processo prende forma a partire dagli anni settanta, un periodo nel quale le
amministrazioni pubbliche di numerosi paesi occidentali avevano accresciuto
notevolmente le proprie dimensioni ed esteso la portata della propria azione.
La crescita di tali organizzazioni ha seguito la logica dell’integrazione di un numero
sempre maggiore di funzioni all’interno di enti già esistenti o (comuni, regioni,
ministeri….) o creati appositamente ( come nel caso italiano delle usl , Unità Sanitarie
Locali). Il proseguimento di una traiettoria di sviluppo, per quanto riguarda le
dimensioni, era ostacolato da una serie di problematiche emergenti come :
- l’aumento della complessità gestionale di numerose amm. pubbliche
- l’incremento della spesa pubblica per il sostentamento di queste organizzazioni
L’esigenza di ridurre la spesa pubblica statale e la volontà di semplificare le strutture
organizzative furono le motivazioni che portarono le amm. pubbliche a riconfigurare
la propria struttura, seguendo alcune direttrici :
- l’esternalizzazione di una serie di attività
- la liberalizzazione di alcuni settori
- la trasformazione di diversi enti pubblici in enti di natura privata - l’adozione di
logiche manageriali tipiche delle org. private nella gestione delle amm. pubbliche
Come amministrazioni pubbliche si intendono quelle org. che sono sostenute
finanziariamente dalla fiscalità dello stato, e mantengono la titolarità istituzionale
nella
gestione e/o produzione di beni pubblici, di interesse per la collettività.
Anche le amm. pubbliche possono esternalizzare la produzione di un bene,
mantenendo il controllo sull’erogazione ai cittadini ed è altresì possibile che una
pubblica amministrazione costituisca delle partnership con altri attori per
implementare quel bene/servizio.
Le pratiche di esternalizzazione e di creazione di partnership sono due importanti
innovazioni per le pubbliche amm., sia sul piano dei processi lavorativi, che per la
fisionomia delle strutture organizzative.
L’esternalizzazione ha consentito alle pubbliche amministrazioni di contenere
soprattutto le dimensioni in termini di personale.
Quando si considerano invece le partnership tra amm. pubbliche e org. private si
delinea una dinamica diversa. Nel mondo anglosassone, vengono chiamate public-
private partnership (PPP) e, al pari delle procedure di esternalizzazione, la creazione
di partnership non implica la riconfigurazione della struttura org. della pubblica
amministrazione. Le procedure di esternalizzazione delineano una linea disequilibrata
e asimmetrica (a favore del committente), mentre le PPP prefigurano una distribuzione
più equa dei ruoli e delle responsabilità, nonché di una partecipazione più paritaria ai
processi decisionali.
prendono forma grazie ai contributi di più attori, più o meno convergenti rispetto a un obiettivo
finale. E' quindi poco plausibile pensare che l'innovazione sia un percorso chiuso.
La tesi che l'innovazione sia un fenomeno “aperto” è da sempre un dato sostanzialmente acquisito
nel campo degli studi organizzativi.

Henry Chesbrough fornì una nuova “etichetta” a questo campo di studi, adottando a tal fine
l'espressione open innovation.
Il concetto di open innovation evoca, per antitesi, l'ipotesi che esista una closed innovation, vale a
dire una innovazione “chiusa”, ovvero circoscritta all'interno di una singola organizzazione.

La riflessione di Chesbrough si fonda su alcuni aspetti dirimenti:


• l'innovazione, nella sua declinazione “aperta”, poggia sul contributo di più attori che
agiscono in una logica di network;
• gli attori coinvolti in una dinamica di open innovation possono intervenire in momenti
diversi: dalle prime fasi generative, sino alle fasi di “sfruttamento” dei risultati dell'innovazione.
• un percorso di open innovation si basa su due opzioni speculari: l'appropriazione di
conoscenza prodotta esternamente a un'organizzazione e lo sfruttamento esterno della conoscenza
generata internamente; si tratta di due possibilità che possono agire in forma complementare.

L'innovazione aperta è per molti versi la regola, anziché un'eccezione o una proposta innovativa.
Huizingh propone una lettura che distingue su due poli (chiusa vs aperta) due distinte dinamiche di
un'innovazione: il processo che ne guida lo sviluppo e l'output che da esso consegue.
Per Huizingh la produzione di software open source → rappresenta la forma più autentica di open
innovation, poiché a essere aperte sono sia il processo che l'esito del lavoro svolto da una molteplicità
di attori.

7.3.2 L'INNOVAZIONE COME PROCESSO CONTINUO

Kline e Rosenberg rivelarono che per molto tempo si è pensato che la generazione di
un'innovazione procedesse lungo un percorso lineare e schematico, che prevedeva delle fasi
sequenziali: la prima di queste fasi era la ricerca, condotta tendenzialmente in seno
all'organizzazione, alla quale seguivano le attività di sviluppo, produzione e quindi di marketing.
E' chiaro che una simile visione fosse riduttiva.
Kline e Rosenberg criticarono questo modello di generazione dell'innovazione, suggerendone uno
alternativo fondato su due diversi principi paradigmatici:

• la circolarità delle fasi attraverso le quali si sussegue lo sviluppo di un'innovazione,


in opposizione alla tradizionale rappresentazione lineare;
• la pluralità dei punti di contatto tra aree interne ed esterne all'organizzazione, in contrasto
con una visione focalizzata sulla sola dimensione interna.

Il modello proposto da Kline e Rosengerg per superare l'interpretazione più statica della generazione
di un'innovazione si compone di più fasi, continuamente connesse tra loro → tale modello viene
definito “modello a catena”.
La valenza del modello di Kline e Rosenberg risiede nella sua capacità di illustrare la circolarità dei
passaggi tra le direttrici. In tal senso, la generazione di un'innovazione viene rappresentata come
un'operazione complessa, pluri-situata e stratificata su più livelli di azione.
I successivi tentativi di promozione di un'innovazione dovranno comunque tener conto dei passaggi
compiuti dagli attori che sono già intervenuti nel medesimo campo, a prescindere dall'esito delle
loro azioni.
E' difficile demarcare con esattezza la data (e il luogo) di nascita di un'innovazione, si può sostenere
che nel lungo e articolato processo di generazione di un'innovazione si ritrovino le radici della sua
diffusione. In parte, questo mutamento si spiega ricorrendo al concetto di → path dependency: le
scelte iniziali, in fase di progettazione, nonché le relative condizioni di contesto di partenza,
vincolano il successivo sviluppo di un'idea o di un prodotto.
La linearità della generazione di un'innovazione è stata messa in discussione anche da Ansari,
Fiss e Zajac (2010), per i quali le pratiche e le idee più innovative, sia nella loro fase gestazionale
che in quella di distribuzione e diffusione, mutano rispetto al loro disegno originale.
Il concetto chiave a cui fanno riferimento per delineare l'evoluzione di un'innovazione è quello di
adattamento: tale concetto si snoda lungo due dimensioni, che sono quelle della “fedeltà” e di
“estensione”.
L'evoluzione di un prodotto si può sviluppare seguendo combinazioni diverse in termini di
fedeltà ed estensione rispetto al disegno originario: l'adattamento non implica necessariamente una
perdita di fedeltà oppure un aumento del grado di estensione delle potenzialità di una pratica
innovativa. Le potenzialità si possono in molti casi ridurre, così come il grado di fedeltà può
rimanere costante o anche crescere.

Silvia Gherardi sostiene che l'innovazione è un processo continuo che si compie attraverso
l'incessante rifinitura di una serie di pratiche da parte di coloro che le hanno proposte.
Innovare significa tessere una trama di relazioni tra più attori.
Cap 7.3.3 Settori e sistemi di innovazione

II concetto di settore industriaIe permette di mappare Ie varietà deIIe esperienze organizzative guardando iI
tipo di output deIIe Ioro attività.
L’utilizzo del concetto di settore è complesso in quanto nasconde uno svariato numero di situazioni, circostanze
e casi che ne erodono la compattezza. Ci sono oggi molte organizzazioni che svolgono attività che si pongono “
a cavallo” di più settori− es. macchine con guida autonoma.

E’ stato introdotto la nozione di “innovation studies” − concetto che inquadra più dinamicamente Ia
classificazione delle innovazioni perché più che basarsi sull’output, ne fornisce una proiezione fondata su tre
dimensioni:

Conoscenze e tecnoIogie usate


Agenti (insieme di attori che interagiscono ai fini deIIa reaIizzazione deI prodotto) e network che
sviIuppano.
Istituzioni, norme, pratiche per regolare l’interazione tra attori
II concetto di sistema di innovazione è stato baricentro di un fiIone di studi che ha compreso:

✓ Focus suIIa reIazione tra innovazione e conoscenza, suIIa base deI concetto che produzione
di innovazione impIichi, generazione di conoscenza e apprendimento
✓ Sguardo oIistico per comprendere iI più eIevato numero di fattori che entrano in gioco per
generare innovazione
✓ Prospettiva storica ed evoIutiva
✓ Enfasi deIIe differenze tra sistemi, per individuare iI più efficace ed efficiente
✓ Interdipendenza tra attori e mancanza di Iinearità neIIa generazione di innovazione
✓ RuoIo deIIe istituzioni neIIa promozione dei processi e importanza radicamento a IiveIIo sociaIe
e territoriaIe
✓ PIuraIità di strumenti concettuaIi

Cap 7.3.4 Sistemi di innovazione e regimi tecnoIogici:

Approccio evolutivo allo studio dell’innovazione− studio deIIe anaIisi di Schumpeter.

−Schumpeter partì dall’idea di innovazione come processo di “distruzione” e da qui anaIizzò Ie dinamiche
che possono portare aI successo un imprenditore innovatore.
Secondo Iui costui deve fronteggiare Ia fisioIogica resistenza aI cambiamento, iI processo di innovazione viene
a configurarsi più come un’azione di distruzione degli equilibri preesistenti con contrasti marchiati tra il
vecchio e iI nuovo. (panorama deIIe industrie europee primo novecento)

−Nella seconda parte della vita Schumpeter invece si basò sull’idea di innovazione come processo di
“accumulazione creativa”, cioè che l’innovazione possa procedere seguendo passaggi più lineari e
cumulativi, promossi dal lavoro interno all’organizzazione. (Società capitalista statunitense)
I due contesti vengono citati con le espressioni “Schumpeter Mark I” e Schumpeter Mark II”

NeIson e Winter anaIizzano Ie condizioni che portano un contesto a configurarsi neIIa forma di un sistema che
rispecchia Ie caratteristiche deI primo o deI secondo scenario.
L’imprenditore, secondo N&W deve continuamente cercare soIuzioni per innovare Ie strategie facendo Ieva suIIe
potenziaIità deIIe tecnoIogie e conoscenze deI momento.
− Attività in cui Ie tecnoIogie offrono poco sviIuppo e ci si focaIizza quindi su strutture organizzative
basate su ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, marketing e distribuzione.
− Attività in cui l’incidenza delle tecnologie è essenziale per acquisire un vantaggio competitivo.
Queste riflessioni rimandano alla nozione di “regime tecnologico”− ripreso poi da MaIerba e Orsenigo che
hanno fatto una più articoIata definizione dei fattori che entrano in gioco neIIa vaIutazione deIIe prospettive
offerte daIIe tecnoIogie disponibiIi.

Fattori distinti in quattro dimensioni base:


a. Condizioni di opportunità: Inquadrano quanto si ritiene che Io sviIuppo tecnoIogico possa prefigurare
deIIe innovazioni in una data attività. 4 variabiIi:
I. Livello opportunità tecnologiche, più è alto più c’è incentivazione a intraprendere una
particoIare attività
II. Varietà attività tecnoIogiche, più è aIta più vi sono stimoIi a intervenire
III. Pervasività deIIe opportunità , cioè Ia pIuraIità deIIe possibiIità di impiego di una tecnoIogia IV.
Fonti deIIe opportunità tecnoIogiche, dinamiche di generazione deIIa conoscenza
necessaria per Io sviIuppo di una tecnoIogia.

b. Condizioni di appropriabilità: possibilità di proteggere un’innovazione dai rischi di imitazione I.


LiveIIo di appropriabiIità , agisce in modo direttamente proporzionaIe suIIa vaIutazione di
intervenire o meno in un’attività innovativa fondata su una particoIare tecnoIogia Mezzi per
II.
tutelare l’innovazione, possibilità cioè di brevettare un’innovazione, adottare forme di protezione.
c. Condizioni di cumulatività: possibiIità di innovare una attività a partire daI IiveIIo attuaIe di
innovatività. Le attività che si distinguono per cumuIatività sono queIIe che a Ioro voIta
hanno maggiore possibiIità di incrementarIa, seguendo tre variabiIi:
I. Grado di maturità deIIe conoscenze impiegate per lo svolgimento di un’attività, le più
innovative sono queIIe che soIIecitano più interrogativi
II. Capacità organizzative di generare conoscenze innovativa che, procedono generaImente
con graduaIità e progressività
III. La percezione di una circoIarità virtuosa tra innovazione, successo commerciaIe e
reinvestimento dei profitti: più si percepisce questo circuito più si tende a
intervenire.
d. Basi conoscitive: iI patrimonio di conoscenze in un determinato ambito: I. LiveIIo di genericità
o specificità
II. Natura tacita o espIicita deIIe conoscenze, più o meno codificabiIi
III. CompIessità o sempIicità deIIe conoscenze, definita considerando quanti ambiti
discipIinari diversi entrano in gioco/devono integrarsi per portare a termine l’attività IV.
RiIevanza sistemica o iI grado di autonomia e indipendenza deIIe conoscenze
Queste quattro dimensioni permettono di tracciare un profiIo dettagIiato deI patrimonio di conoscenze suI quaIe
si innesta la realizzazione di un’attività.
7.3.5 La concentrazione territoriaIe dei processi di innovazione

Per le analisi dei processi di generazione dell’innovazione:


• Comprendere quaIi siano i fattori che favoriscono Ia concentrazione territoriaIe
• Esaminare come Ia concentrazione dei processi possa divenire un eIemento di competizione in
chiave territoriaIe Verificare quaIi siano i principaIi fattori che orientano in direzione contraria
aIIa
generazione dell’innovazione, alimentando cosi dinamiche di diffusione più ampie e distribuite su scala
territoriaIe.
Nell’analisi dei processi di generazione dell’innovazione vanno osservati anche come questi tendono a
concentrarsi in aIcuni territori.
SI parIa di concentrazione territoriaIe riferendosi in primo Iuogo aIIa prossimità fisica degli attori, quest’ultima
può agevoIare Ia diffusione e Ia generazione di particoIari innovazioni.
La prossimità fisica tuttavia è una condizione necessaria ma non sufficiente a comprendere iI fenomeno deIIa
concentrazione territoriale dell’innovazione.
E’ importante guardare anche alla prossimità organizzativa, Ia possibiIità cioè che attori condividano, oItre che iI
contesto territoriaIe, anche un Iinguaggio comune, una visione coerente di ruoIi e dinamiche di scambio e
informazioni e conoscenze.
( es. distretti industriaIi itaIiani)
La prossimità fisica è un indicatore statico, Ia prossimità organizzativa è da costruire dinamicamente e attraverso
un’azione collettiva.
Le imprese e Ie istituzioni devono interagire e stimoIare gIi intrecci tra attori deI territorio e per: −
Favorire sviIuppo percorsi di formazione e ricerca
− Arricchire iI territorio di dotazioni infrastrutturaIi idonee a incrementare coesione interna
− Assicurare supporto nell’accesso al credito per i finanziamenti
− Rendere efficiente ed efficace Ia pubbIica amministrazione − AIimentare Ie dinamiche di
comunanza, fiducia, reciprocità
L’esito di uno sforzo collettivo può essere valutato ricorrendo al concetto di competitività dei territori; uno degli
indicatori usati è iI voIume degIi investimenti provenienti da imprese estere per l’avvio o sviluppo di attività
imprenditoriaIi (IDE).
Il volume di IDE è la chiave di lettura per esaminare l’attrattività, la competitività e la propensione
all’innovazione di un territorio.

A contrasto deIIa tesi deIIa concentrazione territoriaIe si pongono Ie rifIessioni che propendono per una
diversa caratterizzazione deIIa IocaIizzazione dei rapporti organizzativi.
I progressi tecnoIogici rendono meno vincoIanti Ie interazioni aIIa spaziaIità fisica. Secondo CasteIIs Ie
interazioni sociaIi sviIuppate onIine danno forma a spazio di fIussi e interazioni e si muovono in una dimensione
atemporaIe. Idea quindi deI superamento deI territorio come Iocus dei processi di innovazione, ma di
concentrazione dell’innovazione più imperniata all’idea di network.
Insieme aIIa crescente interazione virtuaIe si è unita Ia gIobaIizzazione, che ha fatto acquisire maggiori
possibiIità di muoversi su territori e costruire nuove forme di coIIaborazione con attori istituzionaIi e non.
Morgan sostiene che accanto aI tema deIIa portata e deIIa concentrazione territoriaIe è importante introdurre Ia
questione dello “spessore sociale” delle interazioni, per comprendere che l’estensione spaziale delle relazioni
sociaIi non corrisponde necessariamente a una diretta estensione deIIa profondità.
La prossimità fisica mantiene quindi un ruoIo pecuIiare come condizione priviIegiata per Ia creazione di fiducia
e consoIidamento deIIe reIazioni sociaIi, nonché come fonte per Ia generazione di opportunità di
apprendimento.
Parte Terza
L'innovazione tra lavoro, società e conoscenza

Come si genera l'innovazione organizzativa?


Gli studi più approfonditi sull'innovazione organizzativa rivelano che i sentieri seguiti dagli
innovatori prendono forma da più fonti e stimoli.
Il punto di partenza è prendere atto che l'innovazione organizzativa si fonda, in primis, su un
percorso di generazione, riproduzione e trasformazione di conoscenza.
A tal proposito Marlene Fiol (1996) tenta di sintetizzare schematicamente le principali tematiche
sulla generazione di conoscenza nei processi di innovazione.
Fiol offre una mappatura dei temi che sono stati indagati negli studi sulla generazione
dell'innovazione. Nella sua illustrazione, l'innovazione si compie lungo una sorta di circuito, nel
corso del quale una molteplicità di fattori entrano in gioco per determinare l'esito del processo.
Dal tale schema si possono individuare una serie di fattori che favoriscono la generazione di
conoscenza:
− i determinanti individuali (capacità, predisposizioni e motivazioni che sostengono
l'impegno),
− i determinanti organizzativi (ruolo dell'organizzazione nel promuovere attivamente
e/o coordinare la conoscenza necessaria per innovare)
− i determinanti istituzionali (strumenti di policy che possono essere utilizzati per promuovere
la generazione e la diffusione di conoscenza a livello settoriale/territoriale)
− i determinanti che agiscono sotto forma di pressioni di mercato come la competizione e la
redditività.

Queste determinanti possono entrare in gioco simultaneamente e parallelamente poiché non sono
mutualmente esclusivi. La capacità di giungere a un output innovativo dipende dalla capacità di
ogni organizzazione di combinare i diversi stimoli, interni ed esterni, e di calibrare
opportunamente il patrimonio di conoscenza.
A partire da queste premesse, in questo capitolo si approfondiranno tre questioni sulla generazione
dell'innovazione organizzativa.
1. Legame simbiotico tra innovazione e conoscenza
2. fonti dalle quali può scaturire la generazione di un'innovazione
3. la contestualizzazione dei processi di generalizzazione della conoscenza

L'innovazione come conoscenza


Dietro ogni processo di innovazione si può intravedere il sapere che un'orgaizzazione ha messo in
gioco per alimentare un determinato cambiamento. Al tempo stesso, l'innovazione incide sulla
conoscenza di un'organizzazione rendendola più specialistica o esperta. Un punto in comune negli
studi svolti è la convinzione che ogni organizzazione, in quanto manifestazione di una nuova idea,
implichi della conoscenza “nuova”. Dunque, la generazione di un'innovazione è un processo
fortemente collegato alla generazione di conoscenza; si tratta di due fenomeni che sono equivalenti
e simbiotici. Si tratta di un tema discusso molto, particolarmente dagli anni Novanta del secolo
scorso in cui si rilevano due aspetti peculiari della
conoscenza organizzativa. In primo luogo la conoscenza organizzativa non matura esclusivamente
in modo intenzionale all'interno di un contesto organizzativo.
Come nota Huber (1991) prima degli anni Novanta vi è una visione più strumentale e assai
riduttiva e limitativa che impedisce di cogliere quella varietà di casi nei quali la conoscenza
matura inconsapevolmente e ideare nuove idee.
In secondo luogo, si è indagato sulla natura della conoscenza sia da un punto di vista ontologico che
epistemologico. Questo per tre ragioni.
La prima è l'attenzione sulla distinzione tra i concetti (sviluppatasi negli anni Novata data la
diffusione di dispositivi) di dato, informazione e conoscenza. Ciò diede luogo, per esempio, al
cosiddetto knowledge management, ossia soluzioni tecnologiche che permisero all'organizzazione
di memorizzare, condividere e utilizzare il patrimonio di conoscenza.
La seconda è data da una serie di riflessioni sulla “consistenza” della conoscenza organizzativa.
Diversi studi approfondirono infatti la contrapposizione tra il sapere “tacito” (dimensioni sensoriali,
emozioni ed esperienza degli individui) e il sapere “esplicito” (carattere universale). L'obiettivo di
facilitare la condivisione della conoscenza tacita in un contesto organizzativo è stata la sfida che
diversi studiosi hanno intrapreso. Tra questi fu Ikujiro Nonaka, il quale sostiene che il sapere
tacito ed esplicito costituiscano un continuum. La possibilità di condividere più agevolmente la
conoscenza tacita in ambito organizzativo richiede un processo che Nonaka definisce di
conversione che segue una traiettoria a forma di spirale (al fine di sottolineare la ciclicità e la
circolarità tra i due concetti).
Secondo Nonaka, la conversione della conoscenza si compie attraverso quattro passaggi.
1. socializzazione (condivisione della conoscenza tacita tra i membri
dell'organizzazione);
2. esternalizzazione al fine di convertire la conoscenza tacita in esplicita; 3.
combinazione intesa come il confronto di più fonti di conoscenza
esplicita.
4. Interiorizzazione, in quanto sforzo per rendere taciti i contenuti di una specifica conoscenza
esplicta.

In questi passaggi si possono individuare i presupposti e le dinamiche che si incontrano nella


generazione di un'innovazione: l'interazione tra una dimensione individuale e una collettiva e la
ciclicità della successione delle fasi di ideazione e implementazione.
Di fronte tale analisi, sono state mosse diverse critiche. Una delle quali sostiene che Nonaka abbia
“reificato” il concetto di conoscenza; di aver dipinto come un costrutto oggettivo un fattore dalla
dimensione più cognitiva.
La terza ragione è data dalla nascita di un nuovo filone analitico secondo il quale la conoscenza
organizzativa prende forma e si articola nelle pratiche quotidiane attraverso una serie di dinamiche
che ne delineano la consistenza sia sul piano concettuale che in termini materiali.
Secondo Gherardi e Nicolini (2000) la conoscenza organizzativa:
− è situata in un sistema di pratiche che hanno luogo continuamente;
− è radicata in un contesto relazionale;
− viene acquisita attraverso la partecipazione alle attività promosse; − è riprodotta e
negoziata, dunque è dinamica e provvisoria.

Si sottolinea dunque l'esigenza di considerare la conoscenza come un costrutto che va interpretato e


che può assumere significati diversi a seconda dei contesti. Pertanto, l'innovazione, al pari della
conoscenza, è un costrutto che trova le sue fondamenta in un sistema relazionale.

Fonti e forme di generazione dell'innovazione


Le fonti di generazione dell'innovazione non rappresentano dei “depositi” della conoscenza dai
quali si può attingere, ma devono essere intese come dei vettori attraverso i quali scorrono delle
relazioni sociali.

Le routine come fonti di cambiamento e innovazione


Nel sentito comune tendenzialmente il concetto di routine non si associa a quello di innovazione,
bensì a un'attività ripetitiva.
A tal proposito, Martha Feldman (2000) ha studiato le routine organizzative e ha proposte la tesi
secondo cui queste siano fonte di cambiamento e innovazione.
Le sue ricerche si fondarono prevalentemente su un'analisi prolungata dei servizi per gli studenti
offerti da un' università statunitense.
Una delle routine studiate è quella inerente alla selezione e all'assunzione del personale.
Nonostante si trattasse di una pratica piuttosto regolare, Feldaman notò che si era modificata
attraverso una serie di cambiamenti e innovazioni. Ad esempio quando l'iter di selezione del
personale portava l'organizzazione ad assumere un individuo che, in tempi più o meno brevi, si
sarebbe rivelato inadatto al ruolo assegnatoli.
L'analisi di Feldamn si focalizza dunque sulle reazioni organizzative che offre una serie di spunti
per inquadrare la relazione tra routine e innovazione.
In primo luogo, scalfire l'idea che le routine siano pratiche immutabili e che conducano
regolarmente a risultati attesi in quanto si tratta di azioni umane caratterizzate da elementi di
variabilità. In secondo luogo, che anche al vertice della routine si trovino delle possibilità di
innovazione organizzativa.

Creatività e innovazione
La creatività è uno dei fattori che si più facilmente portati ad associare all'innovazione. Autori
quali Anderson, Potocnick e Zhou (2014) creatività e innovazione sono due concetti simbiotici.
La continuità tra i due concetti, sia in termini semantici che sostantivi, è piuttosto condivida e porta
molti a ritenere che, in assenza di creatività, sia difficile pensare a un'innovazione.
Gli interrogativi che emergono sono due: le determinanti di un comportamento creativo e le
condizioni che permettono di far sfociare il potenziale di creatività di un individuo o un gruppo
nell'implementazione di un'innovazione.
Nella discussione sul legame tra creatività e tratti caratteriali di un individuo (big five factors) si
può affermare che non esiste una correlazione diretta tra specifici elementi caratteriali e creatività.
Simili risultati inducono a pensare che la creatività individuale sia fortemente influenzata da un
insieme di fattori contestuali. Le poche ricerche sulla creatività dei gruppi si dedicano
prevalentemente ai gruppi formali. A tal proposito, Anderson, Potocnik e Zhou (2014) affermano
come le variabili più rilevanti per esaminare la creatività a livello di gruppo siano:
− struttura e composizione
− clima interno
− stile di leadership

I risultati delle ricerche concordano nel ritenere che un gruppo possa essere più creativo quando chi
esercita un ruolo di leadership adotti uno stile democratico e collaborativo nei confronti degli altri
membri.
Un'altra prospettiva considera l'organizzazione come attore creativo. In particolare, alcuni studi si
pongono la questione della valenza ontologica del concetto di creatività: essi affermano che la
creatività possa essere intesa come un costrutto discorsivo, anziché una proprietà intrinseca
dell'azione di più persone e gruppi all'interno di un'organizzazione.

Gli studiosi inoltre condividono il presupposto che la presenza di determinate precondizioni non
è sufficiente per traslare le capacità creative in un'azione innovativa. Secondo Jill Perry-Smith e Pier
Vittorio Mannucci (2016), il nesso tra creatività e innovazione si costruisce lungo un percorso
che viene descritto come una sorta di viaggio. I due studiosi identificano quattro passaggi
essenziali :
a) la fase di generazione dell'idea (già rifinita e non è semplicemente l'esito di un processo
generativo forzato o schematico);
b) la fase di elaborazione dell'idea (per chiarificarne i contenuti e verificarne la plausibilità);
c) la fase di promozione (championing) dell'idea nel contesto lavorativo (nella quale essa deve
assicurarsi non solo il supporto ma anche le risorse necessarie per la successiva
implementazione); d) la fase di implementazione dell'idea, ossia la sua “conversione” in
un'azione organizzativa (due aspetti distinti: l'implementazione vera e propria, ossia la
“costruzione” di qualcosa di nuovo e l'impatto che genera nel contesto organizzativo e conoscere
un successo imprevisto). La creatività, dunque, è la scintilla iniziale che mette
in moto questo processo che, attraverso il lavoro organizzativo, ne accompagna lo sviluppo.
La ricerca e sviluppo
Nel Manuale di Frascati definisce i criteri atti a identificare le attività di ricerca e sviluppo (R&D,
“Research and experimental development”). Un'attività può essere qualificata come R&D se è:
− nuova (originale e inedita);
− creativa ( nell'identificazione dei nuovi obiettivi e metodologie da perseguire);
− incerta (rispetto ai suoi esiti);
− sistematica ( formalmente pianificata e sostenuta a livello economico); − trasferibile e/o
riproducibile (disseminabile e replicabile in altri contesti).
Inoltre il Manuale di Frascati indica tre tipologie di attività di R&D:
a) la ricerca di base, finalizzata ad approfondire la conoscenza di particolari fenomeni (sociali
o naturali);
b) la ricerca applicata, orientata ad acquisire una maggiore conoscenza di un fenomeno in vista
di uno specifico obiettivo applicativo;
c) lo sviluppo sperimentale, condotto in modo sistematico al fine di incrementare
la conoscenza necessaria alla realizzazione di un nuovo prodotto o processo.

Un ulteriore elemento di discussione nell'analisi delle attività di R&D concerne la misurazione della
loro “portata”. Gli indicatori sono i seguenti:
− la spesa sostenuta dall'organizzazione per finanziare le attività
− numerosità del personale coinvolto nelle attività

L'attività di R&D promossa da un'organizzazione si può quindi scindere tra due sfere d'azione: una
interna, svolta dall'organizzazione, e una esterna, implementata mediante la collaborazione con altri
attori.

I rapporti tra università e imprese


Le attività di R&D possono essere sviluppate attraverso delle collaborazioni tra più attori
organizzativi. In questa prospettiva si inquadra una logica di collaborazione che vede coinvolte
organizzazioni di natura diversa, in particolare il rapporto tra organizzazioni imprenditoriali e
università.
CapitoIo 8: innovazione, Iavoro e occupazione

L’innovazione crea o distrugge posti di Iavoro?

Premesse: L'innovazione è un costrutto compIesso e sfaccettato, composto da una pIuraIità di fattori:


l’innovazione tecnologica non è l’unica dimensione da analizzare.
• Lo studio delle conseguenze dell’innovazione sull’occupazione NON va inteso solo con una
logica di causaIità. Vi è piuttosto anche una dinamica circoIare. (es. particoIari configurazioni
struttura occupazionaIe + condizioni regoIative mercato= favoriscono o meno innovazione
organizzativa)

• Differente angoIatura da cui anaIizzare iI rapporto innovazione−organizzazione

− Termini quantitativi: variazione IiveIIi occupazionaIi neIIe circostanze di un riIevante processo


di innovazione.

− Termini quaIitativi: focus sulle traiettorie dell’innovazione, tipi di occupazioni, nuovi


profili occupazionali, nuove competenze,…

8.1 “Una Questione ( e una paura) ricorrenti


Sin dall’epoca industriale è ben visibile una sostanziale continuità nelle riflessioni intorno agli effetti
dell’innovazione sull’occupazione.
Esempio:
Luddismo−InghiIterra 1811−movimento di operai di fabbriche tessili che temendo che l’introduzione di nuovi
macchinari potesse mettere a rischio iI Ioro posto, Ii distrussero in segno di protesta.
E’ il primo moto di dissenso verso un’innovazione intesa come minaccia per l’occupazione−quindi da
contrastare e impedire.
L’idea di innovazione come minaccia ha assunto significati diversi nel tempo:

• Timore che l’innovazione tecnologica dia luogo a un processo di sostituzione deI Iavoro umano da
parte di macchine−> incremento disoccupazione

• Timore che l’innovazione abbia effetti disumanizzanti sulla qualità del lavoro−> condizioni di aIienazione

• Timore di non essere in grado di cogliere le potenzialità dell’innovazione−> perdere


opportunità/rimanere “indietro” nelle competizioni.
L’innovazione costituisce un fenomeno “Labor saving” (perdita posti di lavoro) o “ Labor augmenting”
( aumento domanda di Iavoro) ? Non esiste risposta univoca, sono stati anaIizzati diversi fattori.
Contrapposizione tra effetti di breve e Iungo termine:

• Breve termine: interpretati negativamente, innovazione vista come causa di perdita di

occupazione Lungo termine: si auspica un recupero (o un saIdo positivo) tra posti di Iavoro

distrutti e ricreati.

Innovazione di prodotto o di processo?


− Le innovazioni di prodotto si credeva aIimentassero tendenziaImente Ia crescita occupazionaIe,
mentre queIIe di processo distruggessero posti di Iavoro.
Oggi possiamo dire che queste due distinzioni non sono più nettamente distinguibiIi e che taIvoIta Ie teorie
sopra sono state smentite.

In più è anche impossibile isolare gli effetti netti di una innovazione rispetto all’azione concorrente di altri
fenomeni sociaIi.
8.2L’innovazione è causa di disoccupazione?
AnaIisi effetti in termini occupazionaIi: (riprendo concetto iniziaIe)

• Quantitativi: misurare e/o stimare variazione deI numero di posti di Iavoro conseguente un processo
di innovazione

• QuaIitativi: quaIi dinamiche abbiano caratterizzato l’evoluzione di innovazione e quali siano state le
categorie di attori più beneficiate/penaIizzate da essa.

Pianta (economista) ha riIevato come, neIIe discipIine economiche, Io studio degIi effetti abbia
seguito due prospettive: Approcci neocIassici
−considerano l’innovazione un fenomeno esogeno rispetto alla crescita economica, cioè prende forma
“fuori dalle imprese” (laboratori di ricerca,..) e le imprese ne raccolgono i frutti.
− l’innovazione può causare perdita di posti, ma i posti persi possono essere recuperati grazie
aI meccanismo di” equilibratura tra domanda e offerta di lavoro.” (cioè che le persone che perdono
il Iavoro sono poi disposte ad accettare un nuovo impiego, anche a saIario ridotto, pur di assicurarsi
una fonte di reddito)

• Approccio Schumpeteriane
−L’innovazione matura come fenomeno endogeno (interno) alla competizione di mercato e le imprese
sono a Ioro voIta capaci di generare innovazione.
− L’innovazione può causare perdita di posti, questo approccio poi critica il precedente del
meccanismo di “equilibratura” in quanto non sempre chi perde lavoro ha le competenze per svolgerne
un aItro e non sempre Ia nuova occupazione ha Iuogo neIIo stesso posto.
Sostengono invece l’ipotesi che l’innovazione possa essere causa di un aumento di
“disoccupazione tecnologica/strutturale”− Ia più difficiIe da riassorbire in quanto porta modifiche
neIIa struttura occupazionaIe.
Pianta propone 3 IiveIIi di osservazione:

• LiveIIo singoIe imprese: Ie imprese innovative sono queIIe che espandono più veIocemente
l’occupazione. E’ difficile verificare se l’aumento di occupazione avvenga a spese delle imprese non
innovative oppure è un effetto netto e non sottrattivo.

• LiveIIo settoriaIe: spiegato da Labini− ritiene che Ia chiave di Iettura per biIanciare iI rapporto
innovazione−occupazione sia nella questione della produttività. Questo funziona se l’innovazione
assume prevaIentemente una funzione di risparmio deI Iavoro. (innovazione di processo).
Limitando l’analisi a un settore è possibile verificare se gli esiti dell’incremento di produttività
abbiano determinato un caIo suI piano occupazionaIe.

• Livello macroeconomico: oltre che all’aumento della complessità analitica bisogna in questo
caso aumentare Io spazio temporaIe di anaIisi.
1870−in avanti: notevoIi innovazioni, nei paesi occidentaIi, Ia produttività individuaIe è cresciuta a
dismisura, moIto più deIIa crescita demografica.
−Fase maIthusiana di equiIibrio (prima deIIa RivoIuzione industriaIe): crescita demografica
sostanziaImente ferma, Ienti e impercettibiIi avanzamenti tecnoIogici
−Scenario post−maIthusiano: popoIazione in aumento a ritmo sostenuto, cosi come Ie innovazioni. No
nesso causaIe tra progresso tecnoIogico, incremento deIIa produttività individuaIe e crescita
popoIazione.
−Regime moderno di crescita ( anni 30): Paesi occidentaIi: iI reddito individuaIe cresce progressivamente
ogni anno mentre Ia crescita demografica no. ( in ItaIia, aI netto degIi immigrati è zero) resto deI
mondo: tassi di crescita in costante crescita e redditi stabiIi.
L’innovazione, negli anni, ha messo alla prova equilibri socioeconomici. Nei paesi occidentali il suo
contributo (dell’innovazione) :
1. Ha favorito Ia crescita deIIa produttività individuaIe e così aIimentato un processo di mutamento
sociaIe. Es. com’è cambiato il mondo dell’agricoltura. Il numero degli occupati è drasticamente calato
ma la produttività e Ie esportazioni cresciute a dismisura.
2. Non è stato l’unico contributo, l’innovazione ha avuto luogo insieme ad altre forze e processi,
quali la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro che ha ridotto il rischio della ridondanza del
personale.

8.3 L’evoluzione storica dei mutamenti qualitativi dell’innovazione sull’occupazione

Le tendenze che hanno contrassegnato l’evoluzione del rapporto tra innovazione organizzativa e
occupazione sono risuItate mutevoIi neI tempo. Un primo aspetto è dato daIIa vaIenze che ,neI tempo,
hanno assunto Ie tecnoIogie rispetto aI Iavoro umano.

• XIX secoIo− tecnoIogie: ruoIo sostitutivo deI Iavoro umano. GIi artigiani e gIi operai vedevano iI
Ioro Iavoro sostituito daIIe macchine.
• XX secolo tecnologia ha un ruolo complementare alla forza lavoro soprattutto nell’ambito dei
principaIi settori di produzione industriaIe.
Effetto selettivo dell’innovazione sulla composizione della forza lavoro.
1960−L’innovazione colpì maggiormente lavoratori meno qualificati − “skill based technological
change”.

• UItimi decenni: decIino di Iavoratori impegnati in attività di routine (cognitiva e manuaIe)


aumento richiesta mansioni non di routine.
Ci furono situazioni in cui l’individuo aveva un livello di istruzione più alto di quello richiesto “
over education”. Oggi fenomeno molto rilevante.

Nell’arco del XIX, contesto occidentale:


Le figure che maggiormente hanno beneficiato dei processi di innovazione sono queIIe impegnate in
attività non di routine, con un profiIo aIto suI piano educativo.
Le figure che hanno pagato maggiormente Ie impIicazioni dell’innovazione sono quelle con lavori di
routine e profiIi poco quaIificati.

8.4 I meccanismi di compensazione: presupposti e Iimiti


L’innovazione è sicuramente un fenomeno non irrilevante, in quanto in grado di squilibrare
profondamente gIi assetti di un sistema sociaIe.
Sono stati teorizzati e sperimentati “meccanismi di compensazione”, schemi di intervento istituzionale
e imprenditoriaIe finaIizzati aI recupero di equiIibrio tra domanda e offerta di Iavoro.
1. Innovazione si può tradurre neIIa reaIizzazione di nuovi macchinari, Ia cui
produzione permetterebbe di riassorbire i Iavoratori disoccupati.
Limiti: non tutte le persone “ rimpiazzate” possono essere rioccupate per contribuire alla produzione
deIIa stessa tecnoIogia, non è detto che abbiano competenze per svoIgere nuova attività.
2. Riduzione dei prezzi; l’innovazione intesa come fenomeno che contribuisce alla riduzione
dei costi di produzione e dei prezzi determinanti beni e servizi, rendendoIi quindi più accessibiIi.
Aumento deIIa domanda determinerebbe l’esigenza di incrementare la produzione e quindi un
aumento della
richiesta di manodopera per soddisfare l’aumento di domanda.
Iimiti: non è detto che iI caIo dei prezzi determini un aumento deIIa domanda di particoIari beni 3.
Crescita degIi investimenti grazie ai maggiori profitti di cui possono beneficiare gIi
imprenditori innovatori. L’innovazione cioè, riducendo i costi permette nascita di nuovi
prodotti di successo, quindi profitti da investire in nuove attività− processo di recupero forza
Iavoro.
Limiti: non è detto che chi ha perso iI Iavoro abbia Ie competenze per queIIo nuovo, non è nemmeno
detto che i profitti vengano necessariamente reinvestiti.
4. Riduzione dei saIari, Ie persone, pur di assicurarsi un reddito sarebbero disposte a
Iavorare guadagnando meno.
Limiti: Ie persone possono non avere Ie competenze per un nuovo Iavoro e anche non essere
fisicamente nell’area di proposta del nuovo impiego.
5. Aumento dei redditi e degli investimenti, coloro che beneficiano dell’innovazione ( chi non
ha perso lavoro, proprietari,…) sono portati a spendere maggiormente. L’aumento della spesa si
potrebbe tradurre in un’accresciuta domanda di beni, la cui produzione, a catena potrebbe
crescere la domanda di Iavoro e far recuperare posti di Iavoro.
Limiti: non è detto che l’innovazione si traduca per forza in aumento di benessere e non è detto che il
benessere porti una propensione ad un maggior consumo
6. Non soIo innovazione di processo, ma anche di nuovi prodotti. Questo porterebbe
aumento di forza Iavoro e un riequiIibrio domanda−offerta.

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