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APPUNTI DEL CORSO.

A cura di Luca Ruiu

Introduzione
Vediamo la rilevanza attuale delle misure. Fino a solo 20 anni fa le misure erano abbastanza limitate
a degli ambiti particolari ed erano tipiche dei laboratori di ricerca e delle fasi di R&D o controllo di
qualità nella produzione. La ricerca richiede misure perché il metodo scientifico è basato sempre su
misure nel senso che qualsiasi affermazione scientifica viene validata tramite un confronto con dei
dati sperimentali che richiedono appunto misurazioni. Il metodo scientifico si basa sul fatto che io
vado ad osservare quello che avviene nella realtà e questo si traduce nel fare delle misure.
Anche l’evoluzione della scienza segue di pari passo l’evoluzione degli strumenti di misura che con-
sentono di fare le verifiche delle teorie scientifiche. Ad esempio, le verifiche della relatività sono
possibili quando si riescono a fare delle misure di tempo estremamente accurate che consentono
quindi di fare dei confronti sulla velocità della luce (vedi il caso di qualche anno fa con la “scoperta”
di particelle che si muovevano a velocità superiore a quella della luce, “scoperta” rivelatasi poi falsata
da un problema legato ad un errore strumentale che quindi ha riconfermato la teoria della relatività).
Sia nel campo dello sviluppo scientifico che in quello tecnologico, nei vari laboratori si fa largo utilizzo
di strumentazione di misura.
Quello che è cambiato negli ultimi anni è che la strumentazione è finita all’interno di tutti i prodotti.
Se prendiamo, per esempio, un cellulare piuttosto che un normale oggetto che può trovare posto
nella nostra cucina, se andiamo ad analizzarli nel loro interno ci accorgiamo che sono presenti una
sempre maggiore quantità di strumenti di misura. E’ una tendenza che viene definita come “il rendere
intelligenti le macchine” così come i sistemi, cioè dotare le macchine di un qualcosa che consenta
loro di “rendersi conto” dell’ambiente che le circonda o comunque di tutte quelle variazioni che sono
legate all’uso della macchina stessa.
Questo ha comportato che mentre un tempo le misure erano legate ad un ambito di ricerca e di
laboratorio, oggi chi si trova a progettare un prodotto industriale si trova a dover progettare anche
una parte di strumenti di misura al suo interno.

Questo corso si propone quindi da un lato di fornire allo studente la capacità di saper sce-
gliere in modo corretto uno strumento di misura e dall’altro di saper leggere in modo corretto
una misura (ad esempio, valutare l’affidabilità di quelle fornite da terzi in campo decisionale, cioè
quando i valori delle misure determinano delle azioni da intraprendere. Questo aspetto è legato al
concetto di INCERTEZZA della misura).

Sul mercato esiste una varietà crescente di strumenti e solo alcuni di questi verranno presi in consi-
derazione. Alla fine del corso poco importa se non ci si ricorderà le caratteristiche specifiche di un
certo strumento (ad esempio il tipo di ambiente, il costo, la sensibilità, ecc.) - questi dati verranno
forniti dalle relative schede tecniche - ma quello che sarà molto importante è sapere come opera
uno strumento in modo da poterne selezionare una certa tipologia al momento dell’acquisto in fun-
zione della misura specifica che dobbiamo fare. Come, per esempio, scegliere tra i numerosi mano-
metri presenti sul mercato quello più indicato per effettuare la misura di una pressione dinamica in
un certo campo di valori.

Cos’è una misura?


Quello che può essere il nostro concetto di misura è probabilmente legato, per esempio, al concetto
di misura Euclidea, cioè al rapporto tra la lunghezza di un segmento e l’altro, quindi un rapporto tra
segmenti che si traduce in un valore ben definito. Nell’ambito fisico, però, le misure sono notevol-
mente diverse da questo concetto. In quest’ambito possiamo aver già il concetto di grandezza fisica
che è poi legato a quello di misura, dato che viene definita come grandezza fisica una quantità che
riesco a misurare. Per rendere fisica una grandezza si implica la misurabilità della stessa, cioè il
fatto di poterle assegnare dei valori numerici.
Ma cosa dice se un “oggetto” è misurabile oppure non lo è? La risposta si basa sulla teoria della
misurabilità, molto generale e ancora in evoluzione. Il concetto moderno su cui si basa è legato al
confronto tra le manifestazioni della quantità che voglio misurare, vedi per esempio due temperature.
La condizione per dire se la temperatura è misurabile, è che si riesca a identificare una procedura
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di confronto tra due temperature e che consenta di stabilire che una è più grande dell’altra e con-
senta quindi di costruire una sequenza di manifestazioni crescenti o decrescenti. Se è soddisfatta
tale condizione si riuscirà alla fine a creare un procedimento di misura. Quindi se si riesce ad effet-
tuare un confronto tra due manifestazioni della misura che consente di stabilire una relazione di
minore o maggiore tra le due allora la stessa è misurabile.
Grazie a questo concetto è quindi anche possibile discriminare tra grandezze fisiche e non fisiche

La MISURAZIONE è l’operazione attraverso cui effettuo una misura e può essere definita come ogni
procedimento attraverso cui riesco ad associare numeri ad una grandezza fisica.
La nostra definizione di misura è ancora abbastanza limitata. La norma italiana UNI 4546 (del 1984)
ci dà una definizione di misura. La misura è un’informazione costituita da quattro elementi e cioè:

UN NUMERO
UN’INCERTEZZA
UN’UNITA’ DI MISURA
LO STATO DEL SISTEMA

Questa definizione ci dà un’informazione importante. Qualsiasi misura di un parametro (l’equivalente


di grandezza fisica) non si può fare in maniera indipendente da tutto quello che ci sta attorno, quindi
un parametro è definibile solo se si definisce anche l’ambiente nel quale viene misurato il parametro
stesso. L’esempio più semplice potrebbe essere quello della misura dimensionale, per esempio il
diametro di un cilindro o di un pistone.

In cosa si andrà a concretizzare quello STATO DEL SISTEMA?


Il problema di quando effettuo la misura del diametro di un cilindro è che devo associare ad un
oggetto fisico un modello, cioè trasformo un oggetto fisico che è un elemento formato da tanti aspetti
tra loro diversi (se prendo per esempio un pistone, questo è un oggetto che ha una certa geometria,
ma che è costruito anche con un determinato materiale) in un modello.
Dal momento in cui vado a fare una misurazione del diametro su quel pistone io mi svincolo normal-
mente dall’informazione sul materiale perché mi interesso solo di quello che è l’aspetto geometrico.
Però, già il trasformare la geometria del pistone in un modello non è semplice perché se vediamo
come è fatto scopriamo che è un oggetto complesso. Se solo lo analizziamo da un punto di vista
micro-geometrico, noteremo che ha una superficie che si discosta da quella di un cilindro ideale
perché ci sarà la rugosità con tutte le deviazioni ad essa legate. Nel momento in cui però parlo di
diametro del pistone ho già implicitamente assunto per questo oggetto fisico un modello che è quello
geometrico di cilindro. Allora per fare una misura implicitamente assumo per la rappresentazione
della realtà fisica un modello che può essere geometrico, nel nostro caso un cilindro quindi un og-
getto con punti equidistanti da un asse, oppure potrebbe essere in un altro caso un modello di tipo
fisico. Se, per esempio, anziché voler misurare il diametro del pistone ne voglio misurare la resi-
stenza meccanica del materiale a quel punto assumerò che l’alluminio di cui è composto è un ma-
teriale magari isotropo, cioè con caratteristiche uguali in tutte le direzioni, e quindi prenderò un pro-
vino in maniera casuale e andrò a fare una prova di trazione. Anche qui l’assunzione di materiale
isotropo, implica che faccio un certo tipo di misurazione del carico di rottura piuttosto che del modulo
elastico. Molto spesso non ci pensiamo ma sotto qualsiasi misura c’è l’assunzione di un modello.
La norma prima citata dà quale definizione di modello quella di insieme di relazioni tra i parametri
- in generale un modello è un’equazione, cioè una relazione tra i parametri che definiscono il mio
sistema fisico.
La norma ci ricorda quindi che per definire in modo univoco una misura devo anche ricordarmi di
definire qual è lo stato del sistema, cioè devo assegnare tutti i parametri che definiscono lo stato del
sistema nel momento in cui faccio la misura.
Esempio: se misuro il diametro del pistone non devo solo dire che mi interessa l’elemento diametro
ma anche fissare grandezze quali, per esempio, la temperatura (causa della dilatazione termica del
materiale) affinché la misura sia univoca, oppure la pressione se questa agisce sulla deformabilità
del materiale (non è il caso dell’alluminio) o l’umidità (agisce sulla dilatazione dei materiali compositi
perché assorbono l’umidità e quindi possono subire dilatazioni o contrazioni). Il modello, quindi lo
stato del sistema, può essere più o meno complesso in funzione di quello che sto misurando.

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L’altro punto che la norma ci ricorda che deve essere sempre presente nella misura è l’UNITA’ DI
MISURA. Questa è un valore di riferimento assunto convenzionalmente per consentire poi il con-
fronto tra misure diverse.

Un punto che a volte si dimentica è l’INCERTEZZA.


La normativa UNI definisce incertezza quell’intervallo di valori che può essere attribuito come misura
del parametro. Il concetto è che quando faccio una misurazione in generale non ho un valore singolo
bensì un intervallo di valori. Se per esempio voglio calcolare il calore disperso attraverso le pareti di
un edificio applico la formula “Q=α A ∆T” e non voglio far altro che mettere dentro dei valori singoli.
Però la realtà fisica è ben diversa perché di solito all’interno della nostra formula ho utilizzato, per
esempio, un “α” che ho calcolato tenendo conto di una certa rugosità della parete che però non
conosco tanto bene, il ∆T lo misuro prendendo una temperatura media dato che la temperatura della
parete può essere in ogni punto un po’ più elevata o un po’ più bassa, quindi anche qui il calore
scambiato dalla parete non è un valore unico ma è un intervallo di valori.
Ritornando allora alla misura diretta del diametro del mio pistone mi rendo conto che non riesco ad
ottenere un valore singolo. Se infatti proviamo a misurare “bene”, quindi con uno strumento che
abbia almeno una risoluzione centesimale, il diametro di un pistone, magari di un motorino che ha
già percorso “qualche chilometro”, ci si rende conto che la misura del diametro in una direzione lungo
l’asse dello spinotto differisce da quella in direzione ad essa perpendicolare (quest’ultima inferiore a
causa dell’usura dovuta alla spinta laterale della biella). Con l’usura infatti, quello che inizialmente
poteva essere un “vero” cilindro è ora diventato un’ellisse. Questo problema potrebbe essere legato
all’usura, ma misurando un pistone appena uscito da rettifica mi accorgo che la situazione non cam-
bia più di tanto. Anche stabilizzando alla perfezione tutti i parametri che definiscono lo stato del
sistema (vedi su tutti la temperatura), così come ipotizzando di avere uno strumento di misura “per-
fetto”, mi accorgo che alla fin fine il mio pistone nuovo non è un vero cilindro. Se miglioro infatti lo
strumento di misura rendendolo capace di distinguere le più piccole variazioni superficiali e quindi
entrando nel campo della rugosità superficiale, il modello di cilindro inizialmente adottato diventa
meno valido e nessun modello riuscirà ad aderire perfettamente alla realtà fisica al punto di avere
un unico valore come identificativo di quel parametro. Il limite ultimo è proprio la differenza tra la
realtà fisica e il modello che sto utilizzando. Quindi l’INCERTEZZA MINIMA è data dalla differenza
che c’è tra il modello che sto utilizzando e la realtà fisica.
Se restiamo sul pistone riesco a ridurre quell’incertezza minima? Finché dico che il pistone è un
cilindro, la differenza tra un cilindro e la superficie reale del mio oggetto farà sì che non potrò avere
un valore unico del diametro del pistone.
Dalle lavorazioni di rettifica tipicamente escono degli oggetti che sono in realtà, anziché cilindrici, dei
trilobati. Se anziché usare un cilindro utilizzassi un modello a forma trilobata e andassi a fare a quel
punto non più la misura di un diametro ma di tre, riuscirei a ridurre quell’incertezza minima prece-
dente. Cambiando il modello riduco l’incertezza minima di misura però anziché avere un singolo
parametro a quel punto ne avrei tre per rappresentare il sistema. Quindi l’unico modo per ridurre
l’incertezza minima è cambiare il modello, riducendo in questo modo la distanza tra la realtà fisica e
il modello stesso. Per il pistone adottando un modello non più a forma trilobata ma per punti coordi-
nati posso ridurre ulteriormente l’incertezza minima ma avrei a questo punto un numero tendente
all’infinito di parametri aumentando la complessità di rappresentazione. Questa incertezza minima
è chiamata INCERTEZZA INTRINSECA (l’intrinseca è esplicitamente riferita all’intrinseca del mo-
dello).

Fino a circa una decina di anni fa la misura e tutta la teoria della misura tendeva a far riferimento a
un valore di misura che veniva detto il VALORE VERO DI MISURA. Quando si faceva una misura
si diceva che esisteva un valore vero che non era mai possibile raggiungere a causa degli errori di
misura, o per l’impossibilità di stabilizzare perfettamente le variabili che definivano lo stato del si-
stema e così via, ma che da un punto di vista metafisico era possibile definire. Come conseguenza
le misurazioni restituivano anziché il valore vero una distribuzione di valori. Nel momento in cui dico
che c’è una incertezza intrinseca ci si accorge che non ha più senso dire che esiste un valore vero
di misura perché anche affinando sempre più il modello avrò sempre una differenza minima tra mo-
dello e realtà. La teoria moderna della misura fa a meno del concetto di valore vero considerando
che una singola misura è un intervallo di misura, cioè è costituita da un VALORE DI RIFERIMENTO

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che sarà un numero, ma anche da un’incertezza che è l’intervallo che metto attorno al valore di
riferimento. Graficamente qualsiasi misura può essere così rappresentata:

valore di riferimento

-i +i i = incertezza

misura

Sarà costituita da un valore centrale che è quello di riferimento e poi un intervallo che è “+ i” e “– i”,
cioè più e meno l’incertezza. Tutto l’intervallino è la misura.
Data la nuova definizione di misura potrò ancora dire che la misura del diametro del pistone fatta da
Mario è uguale a quella fatta da Giuseppe? Posso dire che due misure sono uguali? I due numeri
sono uguali ma i due intervalli potrei chiedere che siano esattamente uguali e quindi sovrapposti?
Questa condizioni è quasi irrealizzabile per i differenti fattori dai quali dipende l’ampiezza degli inter-
valli. Ma cosa mi garantisce che i due hanno misurato la stessa quantità? Uno dice che i valori che
potrei attribuire al diametro del pistone sono tra 49,5 e 50,5, l’altro dice che sono tra i 49,3 e 50,8.
Se entrambi dicono che tutti questi valori sono possibili come misura per il diametro non stiamo
dicendo niente in contraddizione dato che c’è un intervallo di valori che vanno bene per entrambi
(caso a) e b)):

a)

b)

c)

Non c’è nessuna ragione per dire che stanno misurando due cose diverse. Il fatto che ci sia un’in-
tersezione non nulla equivale a dire che le due misure sono in qualche modo equivalenti. Questa
relazione viene chiamata RELAZIONE DI COMPATIBILITA’, questa sostituisce la relazione di ugua-
glianza che non possiamo più considerare nel confronto tra misure. Parleremo allora di compatibilità
e di non compatibilità come, per esempio, nel caso c) dove un terzo sperimentatore ha fatto una
misura per la quale con il confronto con il caso b) non possiamo affermare che si tratta di misure
dello stesso oggetto dato che non hanno intervalli in comune. Rappresentandoli graficamente si
vede subito che b) e c) sono NON COMPATIBILI, mentre c) e a) SONO COMPATIBILI. A differenza
della relazione di uguaglianza che è transitiva, nel senso che se a) = b) e b) = c) anche a) = c), la

è
RELAZIONE DI COMPATIBILITA’ NON È TRANSITIVA: a) compatibile. b), a) compatibile c) ma b)
c).

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Dopo aver visto che tutte le misure dovrebbero contenere l’informazione sull’incertezza, la rappre-
sentazione convenzionale che viene adottata è:

D = Do ± con Do = valore di riferimento e i = incertezza

quei parametri un po’ critici, tipo la resistenza a trazione di un acciaio ( , σ = 510 ± 10 MPa), quindi
L’uso di questa rappresentazione con l’informazione esplicita sull’incertezza è d’uso comune per tutti

quelli importanti anche per un discorso legato alla sicurezza.


Normalmente l’incertezza non si indica. Ma perché malgrado questo tutto funziona abbastanza
bene? Perché di solito scrivendo il numero della misura riesco implicitamente a mettere dentro un’in-
certezza. Perché questo? Se io scrivo un carico di rottura come 510 MPa implicitamente io in realtà
ho scritto un intervallo perché quel 510 può corrispondere a un 509,8, così come a 510,4 approssi-
mando il valore numerico alle unità. Cioè l’approssimazione numerica, se fatta in modo ragionato,
può implicitamente includere l’incertezza. Questo ci porta a dire che anche quelle misure che non
riportano l’incertezza possono essere corrette utilizzando in maniera appropriata le cifre che le rap-
presentano per racchiudere in modo esplicito l’incertezza stessa. Questa è una modalità non racco-
mandata ma abbastanza comune nella pratica. Questo ci deve comunque responsabilizzare. Se
scrivo un numero di una misura e non voglio scrivere l’incertezza in modo esplicito, quello che devo
fare è aver cura di non mettere troppe cifre decimali.
Questa è una prima carrellata di informazioni relative all’incertezza perché il problema non è ancora
completamente risolto. La sua definizione infatti, parla di un intervallo di valori che possono essere
attribuiti. Quel “possono essere attributi” ci lascia abbastanza libertà di scelta da un lato e incapacità
di definire in maniera univoca l’intervallo dall’altro. Per definirlo in maniera quantitativa si fa ricorso
ai metodi della statistica. Noi possiamo dire che nessuna misura mi darà un intervallo che con as-
soluta certezza contiene tutti i possibili valori attribuibili a quel parametro ma grazie alla statistica
potremo dire che la misura mi offre un intervallo che con un certo livello di confidenza, cioè con una
certa probabilità, contiene i valori che possono essere attribuiti a quel parametro.

Per dare un valore all’incertezza noi faremo riferimento alla norma ISO – GUM (Guide to the expres-
sion of uncertainty in measurement - Guida per l'espressione dell'incertezza nelle misure) del 1994.
La normativa italiana ha recepito questo documento e l’ha chiamato UNI CEI 9 (1998), successiva-
mente c’è stato il recepimento da parte della normativa europea come ENV13005, che UNI ha a sua
volta recepito come UNI-CEI-ENV13005 (2000) ritirando la UNI-CEI-9.
Nel 2008 ISO ha pubblicato la GUM con revisioni minori come ISO GUIDE 98 part 3. Una copia di
questa norma è scaricabile gratuitamente dal sito della OIML (organizzazione internazionale di me-
trologia legale) che è tra gli autori della GUM e che la codifica come G1-100. La ENV era una norma
transitoria che è stata ritirata così nel 2016 la UNI corrispondente è stata sostituita dalla UNI-CEI
70098 parte 3

NOTA: Com’è strutturato il sistema normativo


La ISO è l’organismo internazionale che emana delle norme a livello mondiale. Nessuna normativa
della ISO può essere imposta agli Stati nazionali, ma questi possono decidere di recepire la norma-
tiva e la fanno loro modificandola all’interno della normativa nazionale. Abbiamo anche un livello
intermedio che è il livello europeo. A livello europeo c’è un ente che predispone le norme, il CEN
(Comitato Europeo di Normazione) gli Stati europei non sono obbligati a recepirle ma spesso lo
fanno ricodificandole nella normativa nazionale.

norma di riferimento è la UNI-CEI 70098-3 ≡ ISO – GUIDE 98 part. 3.


Il passo successivo che dobbiamo affrontare è quello relativo a come valutare l’INCERTEZZA. La

Questa norma è uscita per la prima volta nel 1994 e codificò procedure di valutazione dell’incertezza
che non erano comunemente applicate quindi incontrò soprattutto all’inizio anche forti resistenze
all’adozione, soprattutto nel mondo anglosassone. C’è comunque in atto un processo di progressivo
adeguamento perché normative “datate” specifiche di certi settori prevedevano metodi di valutazione
diversi e la completa armonizzazione del sistema normativo è un processo lento. Più avanti daremo
un cenno su quelle che sono le procedure “storicamente adottate”.

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Per prima cosa è interessante sottolineare il fatto che si parla di valutazione e non di calcolo dell’in-
certezza. Questo ci deve ricordare che l’incertezza non è mai determinata in maniere totalmente
deterministica, quindi c’è sempre una certa aleatorietà nella sua valutazione. Molto spesso si prefe-
risce chiamarla la STIMA dell’incertezza piuttosto che la valutazione.
Prima di andare a vedere la procedura dobbiamo acquisire un minimo di terminologia.

VERIFICA DI RIPETIBILITA’ (operazione spesso effettuata sugli strumenti di misura per verificarne
il funzionamento): consiste nell’eseguire la misura di una quantità nota, cioè un “campione di misura”
con un certo numero di ripetizioni e quindi analizzare i valori che si ottengono. Perché sia una ripe-
tibilità si deve fare la misura sempre nelle stesse condizioni (quindi con lo stesso operatore, stesse
condizioni di temperatura, la stessa strumentazione esattamente nella stessa configurazione ecc.).
C’è un termine simile che è detto di RIPRODUCIBILITA’. In questo caso si misura la stessa quantità
ma con un altro operatore, un altro strumento di misura ecc., cioè voglio solo vedere se le due
modalità di misura sono equivalenti.

La ripetibilità si concentra su un singolo strumento e in condizioni di misura ben determinate e fis-


sate. Quello che si misura in questo tipo di operazione è chiamato il CAMPIONE DI MISURA. Un
esempio di campione di misura, nel campo delle misure dimensionali, sono dei blocchetti che hanno
dei piani paralleli e sono chiamati BLOCCHETTI JOHANSSON. Sono blocchetti a facce parallele
dove due di queste sono lavorate con estrema accuratezza per ottenere un valore vicino a quello
nominale. Prendiamo come esempio il blocchetto da 10 mm - vuol dire che le due facce di riferimento
sono distanti 10 mm entro tolleranze molto piccole (per i 10 mm siamo tipicamente all’interno della
frazione di micrometro che nel campo della metrologia meccanica è irrilevante per l’accuratezza
dello strumento e per questo possono essere assunti quali campioni).

Se dovessimo scrivere la misura di questo blocchetto, questa sarebbe 10 mm e basta?


No, perché per la definizione di misura questa non può essere mai un valore singolo. Quindi il valore
centrale sarà 10 mm tuttavia avrà un intervallino di incertezza molto piccolo (decimi di µm).

Tradizionalmente faceva molto comodo pensare che ci fosse un valore vero di misura. In queste
situazioni siamo molto vicini alla condizione in cui c’è un valore vero perché il 10 mm non è l’unico
valore, ma è quello centrale all’intervallo che è molto piccolo. In questa situazione spesso si dà al
valore 10 mm la denominazione di valore convenzionalmente vero.

Se io faccio la misura ripetuta di questo oggetto che cosa ci possiamo aspettare quale valore di
uscita dello strumento se questo funziona correttamente? Il valore nominale è 10 e se lo strumento
funziona correttamente questo mi dovrebbe dare 10 mm (se utilizzerò uno strumento che non riesce
a discretizzare quegli 0,2 µm che sono l’intervallino).
Cosa succede nella realtà? Dipende dagli strumenti ovviamente ma normalmente non ottengo sem-
pre il valore 10 mm, ma otterrò che le misure saranno concentrate nell’intorno del valore 10, ma non
tutte esattamente su questo valore:

Frequenza

5-

10 = Vn X (quantità che misuro)

Vn è il valore nominale del campione


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Dopo aver visto che tutte le misure dovrebbero contenere l’informazione sull’incertezza, la rappre-
sentazione convenzionale che viene adottata è:

D = Do ± con Do = valore di riferimento e i = incertezza

quei parametri un po’ critici, tipo la resistenza a trazione di un acciaio ( , σ = 510 ± 10 MPa), quindi
L’uso di questa rappresentazione con l’informazione esplicita sull’incertezza è d’uso comune per tutti

quelli importanti anche per un discorso legato alla sicurezza.


Normalmente l’incertezza non si indica. Ma perché malgrado questo tutto funziona abbastanza
bene? Perché di solito scrivendo il numero della misura riesco implicitamente a mettere dentro un’in-
certezza. Perché questo? Se io scrivo un carico di rottura come 510 MPa implicitamente io in realtà
ho scritto un intervallo perché quel 510 può corrispondere a un 509,8, così come a 510,4 approssi-
mando il valore numerico alle unità. Cioè l’approssimazione numerica, se fatta in modo ragionato,
può implicitamente includere l’incertezza. Questo ci porta a dire che anche quelle misure che non
riportano l’incertezza possono essere corrette utilizzando in maniera appropriata le cifre che le rap-
presentano per racchiudere in modo esplicito l’incertezza stessa. Questa è una modalità non racco-
mandata ma abbastanza comune nella pratica. Questo ci deve comunque responsabilizzare. Se
scrivo un numero di una misura e non voglio scrivere l’incertezza in modo esplicito, quello che devo
fare è aver cura di non mettere troppe cifre decimali.
Questa è una prima carrellata di informazioni relative all’incertezza perché il problema non è ancora
completamente risolto. La sua definizione infatti, parla di un intervallo di valori che possono essere
attribuiti. Quel “possono essere attributi” ci lascia abbastanza libertà di scelta da un lato e incapacità
di definire in maniera univoca l’intervallo dall’altro. Per definirlo in maniera quantitativa si fa ricorso
ai metodi della statistica. Noi possiamo dire che nessuna misura mi darà un intervallo che con as-
soluta certezza contiene tutti i possibili valori attribuibili a quel parametro ma grazie alla statistica
potremo dire che la misura mi offre un intervallo che con un certo livello di confidenza, cioè con una
certa probabilità, contiene i valori che possono essere attribuiti a quel parametro.

Per dare un valore all’incertezza noi faremo riferimento alla norma ISO – GUM (Guide to the expres-
sion of uncertainty in measurement - Guida per l'espressione dell'incertezza nelle misure) del 1994.
La normativa italiana ha recepito questo documento e l’ha chiamato UNI CEI 9 (1998), successiva-
mente c’è stato il recepimento da parte della normativa europea come ENV13005, che UNI ha a sua
volta recepito come UNI-CEI-ENV13005 (2000) ritirando la UNI-CEI-9.
Nel 2008 ISO ha pubblicato la GUM con revisioni minori come ISO GUIDE 98 part 3. Una copia di
questa norma è scaricabile gratuitamente dal sito della OIML (organizzazione internazionale di me-
trologia legale) che è tra gli autori della GUM e che la codifica come G1-100. La ENV era una norma
transitoria che è stata ritirata così nel 2016 la UNI corrispondente è stata sostituita dalla UNI-CEI
70098 parte 3

NOTA: Com’è strutturato il sistema normativo


La ISO è l’organismo internazionale che emana delle norme a livello mondiale. Nessuna normativa
della ISO può essere imposta agli Stati nazionali, ma questi possono decidere di recepire la norma-
tiva e la fanno loro modificandola all’interno della normativa nazionale. Abbiamo anche un livello
intermedio che è il livello europeo. A livello europeo c’è un ente che predispone le norme, il CEN
(Comitato Europeo di Normazione) gli Stati europei non sono obbligati a recepirle ma spesso lo
fanno ricodificandole nella normativa nazionale.

norma di riferimento è la UNI-CEI 70098-3 ≡ ISO – GUIDE 98 part. 3.


Il passo successivo che dobbiamo affrontare è quello relativo a come valutare l’INCERTEZZA. La

Questa norma è uscita per la prima volta nel 1994 e codificò procedure di valutazione dell’incertezza
che non erano comunemente applicate quindi incontrò soprattutto all’inizio anche forti resistenze
all’adozione, soprattutto nel mondo anglosassone. C’è comunque in atto un processo di progressivo
adeguamento perché normative “datate” specifiche di certi settori prevedevano metodi di valutazione
diversi e la completa armonizzazione del sistema normativo è un processo lento. Più avanti daremo
un cenno su quelle che sono le procedure “storicamente adottate”.

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Per prima cosa è interessante sottolineare il fatto che si parla di valutazione e non di calcolo dell’in-
certezza. Questo ci deve ricordare che l’incertezza non è mai determinata in maniere totalmente
deterministica, quindi c’è sempre una certa aleatorietà nella sua valutazione. Molto spesso si prefe-
risce chiamarla la STIMA dell’incertezza piuttosto che la valutazione.
Prima di andare a vedere la procedura dobbiamo acquisire un minimo di terminologia.

VERIFICA DI RIPETIBILITA’ (operazione spesso effettuata sugli strumenti di misura per verificarne
il funzionamento): consiste nell’eseguire la misura di una quantità nota, cioè un “campione di misura”
con un certo numero di ripetizioni e quindi analizzare i valori che si ottengono. Perché sia una ripe-
tibilità si deve fare la misura sempre nelle stesse condizioni (quindi con lo stesso operatore, stesse
condizioni di temperatura, la stessa strumentazione esattamente nella stessa configurazione ecc.).
C’è un termine simile che è detto di RIPRODUCIBILITA’. In questo caso si misura la stessa quantità
ma con un altro operatore, un altro strumento di misura ecc., cioè voglio solo vedere se le due
modalità di misura sono equivalenti.

La ripetibilità si concentra su un singolo strumento e in condizioni di misura ben determinate e fis-


sate. Quello che si misura in questo tipo di operazione è chiamato il CAMPIONE DI MISURA. Un
esempio di campione di misura, nel campo delle misure dimensionali, sono dei blocchetti che hanno
dei piani paralleli e sono chiamati BLOCCHETTI JOHANSSON. Sono blocchetti a facce parallele
dove due di queste sono lavorate con estrema accuratezza per ottenere un valore vicino a quello
nominale. Prendiamo come esempio il blocchetto da 10 mm - vuol dire che le due facce di riferimento
sono distanti 10 mm entro tolleranze molto piccole (per i 10 mm siamo tipicamente all’interno della
frazione di micrometro che nel campo della metrologia meccanica è irrilevante per l’accuratezza
dello strumento e per questo possono essere assunti quali campioni).

Se dovessimo scrivere la misura di questo blocchetto, questa sarebbe 10 mm e basta?


No, perché per la definizione di misura questa non può essere mai un valore singolo. Quindi il valore
centrale sarà 10 mm tuttavia avrà un intervallino di incertezza molto piccolo (decimi di µm).

Tradizionalmente faceva molto comodo pensare che ci fosse un valore vero di misura. In queste
situazioni siamo molto vicini alla condizione in cui c’è un valore vero perché il 10 mm non è l’unico
valore, ma è quello centrale all’intervallo che è molto piccolo. In questa situazione spesso si dà al
valore 10 mm la denominazione di valore convenzionalmente vero.

Se io faccio la misura ripetuta di questo oggetto che cosa ci possiamo aspettare quale valore di
uscita dello strumento se questo funziona correttamente? Il valore nominale è 10 e se lo strumento
funziona correttamente questo mi dovrebbe dare 10 mm (se utilizzerò uno strumento che non riesce
a discretizzare quegli 0,2 µm che sono l’intervallino).
Cosa succede nella realtà? Dipende dagli strumenti ovviamente ma normalmente non ottengo sem-
pre il valore 10 mm, ma otterrò che le misure saranno concentrate nell’intorno del valore 10, ma non
tutte esattamente su questo valore:

Frequenza

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10 = Vn X (quantità che misuro)

Vn è il valore nominale del campione


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Facciamo l’esempio di un metro lineare con il quale misuriamo il diametro di un pistone, il quale ha
una tolleranza inferiore a un centesimo di millimetro, e di ripetere un procedimento simile a quello
prima descritto. Cosa possiamo aspettarci di ottenere?
Faccio, per esempio, 20 misurazioni del diametro del pistone con il mio metro a nastro. Otterrò 20
misure diverse? Considerando che l’operazione di misura con questo strumento è quella di andare
a vedere la tacca più vicina al bordo dell’oggetto e le tacche sono distanziate di 1 mm, la tacca più
vicina sarà sempre la stessa.

sempre 50, la differenza (" − ) sempre zero e quindi lo scarto tipo sarà nullo così come l’incer-
Applicando il metodo di prima, essendo tutte le misure pari per esempio a 50 mm, la media sarà

tezza tipo. Per assurdo il metro che non è certo uno strumento “di precisione” mi dà un’incertezza
pari a zero. Questo vuol dire che ci troviamo davanti ad un caso in cui non possiamo di certo appli-
care questo processo di valutazione dell’incertezza e la condizione per cui non è applicabile è proprio
quella iniziale e cioè che lo strumento non produca degli errori sistematici.
In questo caso infatti, lo strumento effettua in generale un errore sistematico. Perché? Proviamo a
ragionare su quello che avviene quando utilizziamo uno strumento di questo tipo.

Valore di misura La tacca indicata è quella più vicina al bordo


dell’oggetto e mi rappresenta il valore di misura. Se ri-
peto n volte la misura, ogni volta il valore viene arroton-
dato per difetto nel caso di figura. Quindi l’errore che
viene fatto dallo strumento è sempre lo stesso. Il suo
valor medio è esattamente l’arrotondamento per difetto
del valore reale. Questo strumento genera un errore di
tipo sistematico e quindi non posso utilizzare il metodo
di valutazione dell’incertezza di tipo “A”.
49,5 50,5

48 49 50 51

r = risoluzione
Se quella prima indicata è la scala dello strumento, la lettura 50 a cosa corrisponde?
Che l’oggetto è sicuramente lungo 50 mm oppure l’informazione è più complessa?
Alla lettura 50 non corrisponde solo il bordo coincidente con 50, ma tutti i bordi compresi tra 49,5 e
50,5 mm. In realtà ho un intervallino di valori che mi comprende delle possibili misure dell’oggetto
corrispondenti alla lettura di 50 mm. Verrebbe semplice a questo punto prendere la definizione ini-
ziale di incertezza, l’insieme di valori che posso attribuire ragionevolmente al mio misurando, dato
che l’ho già (intervallo tra 49,5 e 50,5 mm). Il problema di usare qui questa definizione è che prima
non avevo preso con lo scarto tipo tutti i valori, perché avevo preso un valore quadratico medio, cioè
avevo “mediato” tutte le distanze al quadrato e ne avevo preso un valore medio. Quindi ci sono, nel
caso di prima, valori più grandi dello scarto tipo della media che ho trovato e valori più piccoli, cioè
ho usato prima un criterio che non è quello di prendere dentro tutti i valori ma solo una certa quantità.
La norma dice che devo usare sempre lo stesso parametro, quindi avendo prima uno scarto tipo
e quindi un’incertezza tipo, anche qui devo usare uno scarto tipo per rappresentare l’incertezza,
quindi non devo usare tutto l’intervallo ma un qualcosa che è un valore quadratico medio.
Se dovessimo scommettere su un punto dell’intervallo 49,5÷50,5, e quindi scommettere che la mi-
sura è esattamente un certo valore, punteremo di più sul 50, o su un 49,7 o che altro? Purtroppo
ogni punto ha lo stesso peso, cioè la probabilità che uno di quei punti sia la misura più probabile è
uguale per tutti i punti.
É come dire che posso assegnare una distribuzione di probabilità uniforme uguale per tutti e una
volta che ho fatto questa operazione riesco a scrivere il valore di uno scarto tipo corrispondente
a questa situazione è uguale a:

%
&√'
S= SCARTO TIPO r = risoluzione (corrisponde alla distanza tra due tacche)

9
É lo scarto tipo, cioè il valore quadratico medio delle distanze tra i punti dell’intervallo e il valore
centrale.

Ho trovato un altro modo per scrivere un’incertezza senza fare misure ripetute. Ne faccio una sola
ma so come funziona lo strumento. Questo tipo di valutazione la chiamiamo di tipo B.

VALUTAZIONE DI TIPO “B” DELL’INCERTEZZA ≡ TUTTE LE VALUTAZIONI NON “A”

Mentre con la valutazione A abbiamo scritto una serie di operazioni da fare e l’incertezza viene
valutata sempre nello stesso modo, per la B abbiamo visto ora un caso in cui lo strumento sia affetto
da risoluzione pari a “r”.

• CASO DI STRUMENTO CON RISOLUZIONE r

%
&√'
= INCERTEZZA TIPO (per strumenti affetti da risoluzione)

Un’altra situazione che capita spesso è che quando compro uno strumento e non mi danno una
risoluzione, però mi dicono che l’errore massimo che può fare lo strumento è pari a un certo valore.
Per esempio, compro un termometro e mi dicono che l’errore massimo è di 1/10 di grado.
Questo vuol dire che se leggo adesso una temperatura di 24°, in realtà la temperatura potrebbe
essere 23,9° o 24,1°.
Se facciamo lo stesso ragionamento della “risoluzione” di prima,
anche qui tutti i punti compresi nell’intervallo sono indifferenti,
quindi la relazione che dobbiamo usare è sostanzialmente la
stessa, però qui l’errore massimo è sostanzialmente la metà
23,9° 24° 24,1° della risoluzione ed è la distanza tra il massimo dell’intervallo, o
εMax = 0,1 °C
()*+ & ()*+
il minimo dell’intervallo ed il valore letto:

% = & ()*+
√' & √'
• CASO ERRORE MAX “εMax” = = con

Questo errore massimo è spesso chiamato ACCURATEZZA o ACCURACY (anche se l’Accuracy


non dovrebbe essere una quantità, bensì una qualità secondo la ISO – GUIDE 99).

Altro caso è quando mi danno nella scheda tecnica dello strumento lo scarto tipo di ripetibilità Sr. Mi
danno un’informazione equivalente a quella che otterrei se io ripetessi n volte la mia misura. Questa
operazione è ovviamente stata fatta da qualcuno su un determinato campione di misura per carat-
terizzare lo strumento. Questo è uno stato equivalente di valutazione di tipo A ma fatta da un’altra
persona e che io devo cercare di utilizzare nel mio caso. L’operatore ha determinato Sr ma io faccio
una singola misura, cioè dovrei fare una stessa valutazione di tipo A in cui il numero di misure è pari
a 1. In questo caso avremo, omettendo la √1 ,

• CASO SCARTO TIPO DI RIPETIBILITA’ = Sr


Questi sono i casi più frequenti per la valutazione di tipo “B”. Un altro caso abbastanza frequente è
quello del sistema di misura che fa sempre la stessa cosa, per esempio misura il modulo elastico di
materiali metallici. Per tanti materiali metallici ho determinato l’incertezza con valutazione di tipo “A”.
Posso ad un certo punto dire che siccome l’incertezza del tipo “A” è sempre risultata la stessa, quindi
ho caratterizzato il comportamento del mio strumento di misura, gli attribuisco quell’incertezza e non
la vado più a valutare in seguito. In questo caso l’esperienza dello sperimentatore fa sì che egli
possa assegnare l’incertezza di tipo “B”, cioè lo fa senza ripetere le misura ma basandosi sulle prove
fatte in precedenza e sulla conoscenza acquisita sullo strumento stesso. Quindi grazie alle cono-
scenze pregresse, posso mettere un numero sull’incertezza di misura.

10
Questo ora descritto è il primo passo che faremo sempre quando facciamo una valu-
tazione di incertezza.

Quindi partiamo da informazioni più o meno strane, come quelle che possono essere fornite con la
documentazione tecnica dello strumento ecc., per definire un’incertezza tipo da mettere al fianco
della mia misura. A volte non è proprio semplice trovare le giuste informazioni dalla scheda tecnica.
Infatti l’errore massimo viene spesso indicato con nomi differenti in base al tipo di strumento (vedi
errore di isteresi, errore di linearità ecc.).

Se la nostra misura fosse sempre del tipo “ho lo strumento che mi da quello che voglio”, la nostra
trattazione potrebbe finire qui. Molto spesso, però, noi misuriamo più parametri per determinarne un
altro. Ad esempio misuriamo coppia e velocità angolare per calcolarci la potenza di un motore. Il
problema che ci poniamo ora è, ma se io conosco l’incertezza sulla coppia e l’incertezza sulla velo-
cità angolare, quale sarà l’incertezza sulla potenza del motore? La risposta ci viene data dalla

PROPAGAZIONE DELL’INCERTEZZA
Ho una variabile dipendente “y” che vorrei misurare che è funzione di “p” variabili statisticamente
indipendenti, quelle che riesco a misurare direttamente:

y = f (x1, ……, xp)


se questa relazione fosse molto semplice, del tipo y = x1 + x2 + … + xp allora potrei scrivere:

y = .
/
+ /
+⋯+ 2
/
cioè se la relazione fosse una somma la propagazione sarebbe
immediata. Avrei la cosiddetta combinazione quadratica delle incertezze dei singoli parametri. Il
quadrato dello scarto tipo si chiama VARIANZA, quindi se eleviamo tutto al quadrato otteniamo la
relazione che la varianza della somma è uguale alla somma delle varianze.

Quante relazioni di somma abbiamo nella pratica? Purtroppo decisamente poche e in pochissimi
casi la variabile dipendete è una semplice somma. Però dall’Analisi Matematica sappiamo che lo-
calmente qualsiasi funzione può essere trasformata in un qualcosa di simile alla somma di termini.
L’operazione che approssima una funzione localmente con una somma di termini è la serie di Tay-
lor.

Se applichiamo lo sviluppo in serie di Taylor per una funzione generica possiamo scrivere:

/ / /
y = 34
56 56 56
7 + 45 7 + ⋯ + 85 9
5 .
.
2
2

:;
:+
= FATTORI O COEFFICIENTI DI SENSIBILITA’

Questi fattori sono abbastanza importanti perché vanno a pesare l’incertezza dei singoli parametri.
Quindi paradossalmente a volte mi trovo che magari un parametro x1 l’ho misurato con un metro
lineare e ha un’incertezza dell’ordine di mezzo millimetro, un parametro xp l’ho misurato con un
comparatore centesimale e ha un’incertezza che è all’incirca 1/100 dell’altro. Se però i due rispettivi
fattori di derivata parziale sono in relazione opposta tra loro, cioè se il fattore di sensibilità del termine
che aveva un’incertezza più piccola è 100 volte quello più grande rispetto all’altra, paradossalmente
lo strumento molto accurato, il micrometro o il comparatore centesimale, può influire sull’incertezza
complessiva anche più di quanto non faccia il metro. Mentre nel caso semplice è sufficiente guardare
11
le incertezze, qui per vedere qual è l’elemento critico devo guardare il prodotto tra l’incertezza e
fattore di sensibilità. Posso avere uno strumento con incertezza molto piccola che ha un fattore di
sensibilità molto grande ed è lui che mi condiziona maggiormente l’incertezza complessiva. Questa
analisi è molto utile per scegliere gli strumenti.

Questa è la situazione più semplice ma si possono verificare delle situazioni più rischiose, cioè quelle
in cui I VARI PARAMETRI si dice che STATISTICAMENTE NON SONO INDIPENDENTI.
Questo vuol dire che se uno aumenta, aumenta anche l’altro o viceversa.

X2 X2

X1 X1

a) STATISTICAMENTE INDIPENDENTI b) STATISTICAMENTE DIPENDENTI


Ad un aumento di x1 può corrispondere Mediamente se x1 aumenta lo fa anche x2
una diminuzione di x2
Per il caso a) va bene la y prima vista, mentre per il caso b)

PROPAGAZIONE PER VARIABILI STATISTICAMENTE DIPENDENTI (questa formula si utilizza


raramente)

/
y = 3∑ = 4 7 + 2 ∑ = ∑A= B 85 5
56 56 56
@ A 9
< < <
5 ?
?

@ A = coefficiente di correlazione (nel caso in cui le variabili non sia correlate è nullo e ottengo la
relazione vista prima)

Una delle situazioni più critiche si può verificare quando più parametri dipendono da un terzo para-
metro che sovente è la temperatura. In questo caso conviene esplicitare nei vari x1…. xp
la dipendenza dalla temperatura.
La formula prima scritta non verrà chiesta all’esame ma è importante sapere che può esistere il caso

CD C D D
perché a volte la relazione semplice fallisce in maniera paradossale.

E E
Questa relazione A = si potrebbe pensare come = applicando la formula sopra.
I due parametri “d” e “d” non possono essere considerati come due “differenti variabili” e questa è
una situazione contemplabile nel caso b) prima trattato. Le due “d” hanno il massimo della correla-
zione essendo “d” uguale a sé stessa, rij=1. Si otterrebbe una valutazione errata dell’incertezza se
si considerasse la relazione per variabili non correlate interpretando il d2 come prodotto di due va-
riabili “d”.

12
d

45°

CASO PARTICOLARE (prodotto di potenze)

y=" "/G …. " H


F

56
"F "/G …. " H
5 .
=

56 F .IJ. K …. N
O F
" =
65 .
= I K O =
. …. N .

/ / /
;
4 7 +4 7 +⋯ +4 Q7
P. P PN
;
= = INCERTEZZA RELATIVA di y
. N

Abbiamo una INCERTEZZA RELATIVA quando divido l’incertezza per il valore della variabile,
P.
quindi anche è un’incertezza relativa. Il significato di questa incertezza è molto chiaro. Quando
.
dico che l’INCERTEZZA RELATIVA è l’1‰ di quello che sto misurando ho immediatamente la con-
sapevolezza di quello che sto facendo, cioè sto facendo una misura nella quale sto sbagliando di un
millesimo. Se invece dico che l’incertezza di misura è di 1 N, questa è alta o bassa? Se sto misu-
rando una forza di 100 KN, l’incertezza di 1 N è molto bassa, se sto invece misurando 10 N, la mia
incertezza di 1 N è il 10 % della misura, quindi una enormità.

Questa relazione di propagazione è conveniente perchè: non calcolo nessun coefficiente di sensibi-
lità perché mi scrivo direttamente le incertezze relative prima di fare la propagazione, non faccio
alcuna operazione di derivazione e quindi non ho alcuna possibilità di errore. Questo mi semplifica
di molto le operazioni in moltissimi casi. La raccomandazione è quella di non usarla quando al posto
di avere x S x/T …. xUV mi compare un bel fattore del tipo (x/ – xE ). Questo non è più un prodotto anche
se gli altri lo sono ancora. Posso giocare però sul fatto che x/ – xE . lo faccio diventare una variabile
x*, mi calcolo prima l’incertezza sulla differenza e poi saranno ancora tutti dei prodotti.

CASO DELLA RAPPRESENTAZIONE IMPLICITA DELL’INCERTEZZA

Cogliamo l’occasione di poter disporre di questa relazione per fare un interessante ragionamento.
Spesso scriviamo le misure senza mettere in modo esplicito l’incertezza perché abbiamo detto che
se facciamo attenzione a come rappresentiamo la misura in funzione delle cifre significative utiliz-
zate, l’incertezza è già implicitamente scritta all’interno della misura stessa.

Se scrivo X = 10,2 questo equivale a scrivere 10,2 ± 0,05. Vuol dire che ho arrotondato il centesimo
e nel fare questo posso aver fatto un arrotondamento per eccesso o per difetto di 5 centesimi.
13
Supponiamo di avere:

X1 = 10,2 (3 cifre significative)


X2 = 27 (2 cifre significative)
X3 = 256,48 (5 cifre significative)

cioè numeri che hanno decimali diversi e soprattutto che hanno numeri di cifre significative differente
(numero minimo di cui ho bisogno per non modificare il significato di quello che scrivo, cioè non
posso usare un numero inferiore di cifre per rappresentare il numero scritto).

X0 = 0,001 (1 cifra significativa potendolo scrivere come 1.10-3)


X0 = 0,0010 (2 cifre significative potendolo scrivere come 10. 10-3)

Bisogna fare attenzione perché gli zeri prima delle cifre diverse da zero non sono significativi,
mentre quelli dopo le cifre diverse da zero sono tutti significativi.

Se noi facciamo y = "W " "/ "X

/ /
4 7 +4 7 + ⋯
; PY P.
;
=
Y .

P
Vediamo quanto valgono le varie . Scriviamo tutti i numeri in forma esponenziale:

Y
X0 = 1,0*10-3 = ± 0,05*10-3 (per l’incertezza arrotondo sulla prima cifra che non compare)
.
X1 = 1,02*101 = ± 0,005*101 (per l’incertezza arrotondo sulla prima cifra che non compare)
X2 = 2,7*101
X3 = 2,5648*102

e proviamo a scrivere:

PY W,WZ∗ WJ\
,W∗ WJ\
= 0,05 = 5*10-2 (esponente pari a numero cifre significative)
Y
=

Nota che al denominatore 1.0 è il più piccolo numero di 2 cifre, il più grande sarebbe 9.9 che vuol
dire circa 10 volte maggiore, quella sopra quindi è l’incertezza relativa massima di un numero a 2
cifre e quella minima è circa 1/10, cioè 5*10-3, cioè esponente pari a numero di cifre significative +1.
Altro esempio che evidenzia come il valore assoluto o formato di scrittura non cambino il risultato:

P. W,WWZ. W.
≅ 5.10-3 (apice ancora pari a numero di cifre significative)
. ,W/. W.
=

Quello che sta a denominatore è un numero che è sempre compreso tra 1 e 9,9999 al massimo 10
come limite. Possiamo avere, infatti, quanti decimali vogliamo ma se abbiamo espresso il numero in
virgola mobile (potenze del 10) si potrà avere al massimo un numero compreso tra 1 e 9. Quindi
l’incertezza è sempre la stessa quantità, cioè un 5 posizionato sul decimale che coincide con il nu-
mero di cifre significative, diviso per un numero compreso tra 1 e 10.

(denominatore 9.9 che è ≅ 10), cioè l’incertezza relativa è strettamente legata al numero di cifre
Allora nel caso visto prima l’incertezza relativa sarà compresa tra 5.10-2 (denominatore 1) e 5.10-3

significative che ho. Quindi, in generale, l’incertezza relativa di un numero è compresa tra:

14
Facciamo l’esempio di un metro lineare con il quale misuriamo il diametro di un pistone, il quale ha
una tolleranza inferiore a un centesimo di millimetro, e di ripetere un procedimento simile a quello
prima descritto. Cosa possiamo aspettarci di ottenere?
Faccio, per esempio, 20 misurazioni del diametro del pistone con il mio metro a nastro. Otterrò 20
misure diverse? Considerando che l’operazione di misura con questo strumento è quella di andare
a vedere la tacca più vicina al bordo dell’oggetto e le tacche sono distanziate di 1 mm, la tacca più
vicina sarà sempre la stessa.

sempre 50, la differenza (" − ) sempre zero e quindi lo scarto tipo sarà nullo così come l’incer-
Applicando il metodo di prima, essendo tutte le misure pari per esempio a 50 mm, la media sarà

tezza tipo. Per assurdo il metro che non è certo uno strumento “di precisione” mi dà un’incertezza
pari a zero. Questo vuol dire che ci troviamo davanti ad un caso in cui non possiamo di certo appli-
care questo processo di valutazione dell’incertezza e la condizione per cui non è applicabile è proprio
quella iniziale e cioè che lo strumento non produca degli errori sistematici.
In questo caso infatti, lo strumento effettua in generale un errore sistematico. Perché? Proviamo a
ragionare su quello che avviene quando utilizziamo uno strumento di questo tipo.

Valore di misura La tacca indicata è quella più vicina al bordo


dell’oggetto e mi rappresenta il valore di misura. Se ri-
peto n volte la misura, ogni volta il valore viene arroton-
dato per difetto nel caso di figura. Quindi l’errore che
viene fatto dallo strumento è sempre lo stesso. Il suo
valor medio è esattamente l’arrotondamento per difetto
del valore reale. Questo strumento genera un errore di
tipo sistematico e quindi non posso utilizzare il metodo
di valutazione dell’incertezza di tipo “A”.
49,5 50,5

48 49 50 51

r = risoluzione
Se quella prima indicata è la scala dello strumento, la lettura 50 a cosa corrisponde?
Che l’oggetto è sicuramente lungo 50 mm oppure l’informazione è più complessa?
Alla lettura 50 non corrisponde solo il bordo coincidente con 50, ma tutti i bordi compresi tra 49,5 e
50,5 mm. In realtà ho un intervallino di valori che mi comprende delle possibili misure dell’oggetto
corrispondenti alla lettura di 50 mm. Verrebbe semplice a questo punto prendere la definizione ini-
ziale di incertezza, l’insieme di valori che posso attribuire ragionevolmente al mio misurando, dato
che l’ho già (intervallo tra 49,5 e 50,5 mm). Il problema di usare qui questa definizione è che prima
non avevo preso con lo scarto tipo tutti i valori, perché avevo preso un valore quadratico medio, cioè
avevo “mediato” tutte le distanze al quadrato e ne avevo preso un valore medio. Quindi ci sono, nel
caso di prima, valori più grandi dello scarto tipo della media che ho trovato e valori più piccoli, cioè
ho usato prima un criterio che non è quello di prendere dentro tutti i valori ma solo una certa quantità.
La norma dice che devo usare sempre lo stesso parametro, quindi avendo prima uno scarto tipo
e quindi un’incertezza tipo, anche qui devo usare uno scarto tipo per rappresentare l’incertezza,
quindi non devo usare tutto l’intervallo ma un qualcosa che è un valore quadratico medio.
Se dovessimo scommettere su un punto dell’intervallo 49,5÷50,5, e quindi scommettere che la mi-
sura è esattamente un certo valore, punteremo di più sul 50, o su un 49,7 o che altro? Purtroppo
ogni punto ha lo stesso peso, cioè la probabilità che uno di quei punti sia la misura più probabile è
uguale per tutti i punti.
É come dire che posso assegnare una distribuzione di probabilità uniforme uguale per tutti e una
volta che ho fatto questa operazione riesco a scrivere il valore di uno scarto tipo corrispondente
a questa situazione è uguale a:

%
&√'
S= SCARTO TIPO r = risoluzione (corrisponde alla distanza tra due tacche)

9
• CALCOLO DELLA MEDIA = ∑ =

∑Nc.( )
• STIMA DELLO SCARTO TIPO S =


• CALCOLO DELLO SCARTO TIPO DELLA MEDIA S =

• = S ≡ INCERTEZZA TIPO ≡ SCARTO TIPO DELLA MEDIA

Quando non è applicabile una valutazione dell’incertezza di tipo “A” o perché ci sono errori sistema-
tici o perché non possiamo ripetere le misure, facciamo una valutazione di tipo “B”.

SE VALUTAZIONE “A” NON E’ APPLICABILE VALUTAZIONE DI TIPO “B”

Una valutazione di tipo “B” è qualunque procedimento che ci permette di ottenere uno scarto tipo,
ma senza effettuare delle misure ripetute. I casi più comuni sono:

• STRUMENTO CON RISOLUZIONE PARI A “r”


%
&√'
=

deIP
• STRUMENTO CON ERRORE MASSIMO “εMax”

√X
=
• SCARTO TIPO DI LINEARITA’ o di RIPETIBILITA’ (Sr)

= Sr
Abbiamo detto che se la valutazione di tipo “A” non è applicabile, allora faccio una valutazione di
tipo “B”. Nel caso invece che fossero applicabili entrambe, la norma non ci dice quale delle due
preferire lasciandoci piena libertà di scelta. Dal punto di vista della qualità della procedura le due
valutazioni sono equivalenti. E’ chiaro che la valutazione di tipo “A” implica misure ripetute e normal-
mente è quella più costosa dal punto di vista della sperimentazione.

Abbiamo visto l’incertezza di risoluzione in un caso particolare, quello della misura del diametro del
pistone con un metro lineare. Caso in cui una valutazione di tipo “A” dava dei riscontri paradossali.
Infatti misurando un oggetto con una forma ben definita, la misura era sempre uguale il che com-
portava, con una valutazione di tipo “A”, un’incertezza nulla.
Supponiamo ora che il nostro pistone abbia una forma meno definita:

Nel caso di forma definita, anche ruotando la direzione


di misura per farne più ripetizioni il risultato non cambie-
rebbe con la tacca più vicina al contorno dell’oggetto in-
variata e la medesima tipologia di errore (sistematico e,
per esempio, sempre per difetto).
Analizzando la nuova forma del cilindro, ruotando la di-
rezione di misura le cose non saranno più come nel
caso precedente. Potrà capitare un caso come quello di
prima e con errore per difetto, ma anche casi in cui la
tacca più vicina è esterna al contorno generando quindi
un errore per eccesso. Ora facendo misurazioni ripetute
16
non ottengo più errori con il medesimo segno come nel
caso di oggetto ben definito. In questa situazione l’er-
rore non è più sistematico e a volte è positivo e a volte
negativo.
Ovviamente non c’è un salto netto tra queste due posizioni, ma avrò tutte le condizioni intermedie in
cui l’errore è quasi sistematico e altre in cui l’errore diventa casuale.

C’è un CRITERIO PRATICO che mi dice se devo usare una valutazione “A” oppure “B”. Il criterio va
a confrontare lo scarto tipo delle misure (S) con l’incertezza valutata con la procedura di tipo “B”. Il
criterio dice:

%
se S > 4 ÷ 5
allora posso applicare la valutazione di tipo “A” perché l’effetto della risolu-
&√' zione non è sistematico.

Allora se non sono certo di poter o meno applicare una valutazione di tipo “A”, cosa faccio? Ripeto
un po’ di misure, mi calcolo lo scarto tipo delle stesse, e verifico la condizione sopra scritta.
Un approccio più banale sarebbe quello di calcolare l’incertezza tipo con la valutazione “A” e calco-
larla poi con la valutazione “B” e poi cautelativamente prendere la più grande delle due. E’ un criterio
ingegneristico perché ci si mette sul lato della sicurezza, però è un criterio che taglia le gambe a una
modalità di aumentare l’accuratezza di misura che è quella di aumentare il numero delle misure.
L’incertezza di tipo “A” è il rapporto tra una quantità che sarà circa costante (S) e la √ . Quindi se

di misura che voglio avere, infatti mi basta solo calcolare a priori “n” in modo tale S/√ sia abba-
sono in una situazione in cui è applicabile la valutazione di tipo “A”, io posso scegliere l’incertezza

stanza piccolo e pari al valore di incertezza voluto. Approccio abbastanza comune per quando si
vogliono ottenere misure con una elevata accuratezza.
Il criterio empirico prima enunciato mi permette proprio di vedere se posso operare con un certo
numero di misure per migliorare l’incertezza, oppure se l’errore sistematico mi impedisce di applicare
questo approccio. Nel criterio infatti non entra “n”. S è una caratteristica delle misure che sto facendo
e non dipende da “n” anche se nella formula abbiamo “n-1”, con la statistica si può vedere che S
tende al valore costante σ.

Questo era tutto quanto detto per la valutazione dell’incertezza sulla misura singola. Vediamo ora il
caso in cui per misurare un parametro non debba effettuare una misura diretta dello stesso, ma devo
passare attraverso la misura di altri parametri per ottenere una variabile dipendente del tipo
y = f(x1, x2, ..,xp). La mia valutazione di incertezza partirà determinando per ogni misura diretta l’in-
certezza tipo. Il passo successivo sarà quello che definiamo la

PROPAGAZIONE DELL’INCERTEZZA

/
56 /
∑<= 4
/ /
y = 34 7
56 56 56
7 + 45 7 + ⋯ + 85 9 =
5 . .
2
2 5

Ottenuta linearizzando localmente la funzione, quando questa non è una somma, grazie allo svi-
luppo in serie di Taylor. Le variabili x1,..,xp devono essere NON CORRELATE, cioè STATISTICA-
MENTE INDIPENDENTI.

potenze: y = " F "/G …. " H


Questa relazione si può scrivere in maniera più semplice se la nostra funzione è un prodotto di

/ / /
4 7 +4 7 + ⋯ + 4 Q7
; P. P PN
;
=
. N
= INCERTEZZA RELATIVA

17
+
+
= incertezza relativa di x (x valore nominale della misura)

L’incertezza relativa della variabile dipendente è la somma quadratica dell’incertezza relativa


delle variabili indipendenti moltiplicate per gli esponenti.

Abbiamo visto anche il caso di misure con incertezza non espressa in modo esplicito, ma implicita
nella rappresentazione decimale. Se abbiamo un prodotto tra numeri che hanno un diverso numero
di cifre significative, il risultato dovrà avere lo stesso numero di cifre significative di quello che ne ha
meno, dato che questo ha il maggior peso nella valutazione dell’incertezza.

Non abbiamo ancora finito il discorso sull’incertezza, dato che l’intervallo che definisce l’incertezza
tipo è abbastanza arbitrario. Cioè non mi dà l’insieme che contiene “tutte” le misure possibili, ma
solo una certa frazione delle stesse, quindi non rappresenta la differenza tra la misura massima e
minima rilevata. Associare quante delle misure possibili sono contenute nell’intervallo è un’opera-
zione specifica fatta dalla statistica, cioè trovare delle probabilità associate a degli intervalli che ven-
gono chiamati INTERVALLI DI CONFIDENZA. Non entreremo nel campo specifico della statistica
ma utilizzeremo delle relazioni.

Il passo successivo alla propagazione si chiama CALCOLO DELL’INCERTEZZA ESTESA.

L’incertezza estesa non è altro che l’incertezza tipo moltiplicata per un fattore K:

fghfg* =K h ij K = FATTORE DI COPERTURA

K serve per darci degli intervalli che contengono una frazione ben definita delle misure possibili.
Quindi ogni K è associato a quello che viene chiamato LIVELLO DI CONFIDENZA (LC).
Il livello di confidenza è la % di misure possibili contenute nell’intervallo  ± fghfg*

Ecco i valori di K che utilizzeremo più di frequente

K=1 LC = 68% Vero se ci riferiamo a misure


Gaussiane. Questa tratta-
K=2 LC = 95% zione si basa infatti su una
distribuzione di tipo Gaus-
siano delle misure.
K=3 LC = 99,7%

La distribuzione Gaussiana è una buona approssimazione in moltissimi casi, fa eccezione il caso in


cui le valutazioni sono state fatte con una procedura di tipo “A” e con pochi valori di misura.

SE L’INCERTEZZA TIPO E’ STATA VALUTATA CON PROCEDURA “A” ED “n” PICCOLO SI


USA ALLORA UNA DISTRIBUZIONE t-STUDENT

Cosa vuol dire “n”piccolo, cioè pochi valori?

Se n < 20 abbiamo davvero pochi valori e quindi uso la t-student

Se 20 < n < 100 dipende da quello che è il livello di confidenza che voglio. Se voglio un livello di
confidenza alto come il 99.7% devo comunque usare una distribuzione di tipo t-student, se voglio
un livello di confidenza basso la Gaussiana fornisce moltiplicatori corretti.

18
Se n > 100 utilizzo sempre la mia Gaussiana

Qual è la differenza nell’usare una t-student al posto di una Gaussiana? Che per avere il 68% anzi-
ché avere un K=1 ne avrò uno un po’ più grande. Non posso dire il valore perché la t-student non è
una funzione singola, ma è funzione del numero di gradi di libertà, cioè di quanti punti ho usato per
la valutazione di tipo “A”.

t-student t = f(probabilità, ν = n-1)

La t-studend è funzione della probabilità, cioè dato un LC mi da un valore del moltiplicatore K, e di


ν = gradi di libertà con n = numero misure.
Quindi avremo delle t-student per 10, 20, 35 ecc. gradi di libertà. Confrontando una funzione t-stu-
dent con ν oltre i 100 con una Gaussiana, le due distribuzioni diventano identiche.
Nell’uso pratico se uno ha un foglio di Excel, esiste la funzione inv.t.2t che, inserita come probabilità
il complementare a 1 del LC che voglio avere e il numero di gradi di libertà, restituisce il K (fattore t)
equivalente per il caso specifico.

Operativamente a noi interessa che se abbiamo fatto valutazioni di tipo “B”, oppure di tipo “A” con
più di 100 punti di misura allora possiamo usare i moltiplicatori sopra indicati. Altrimenti dovremo
andare a cercarci dei moltiplicatori diversi come visto ora con la t-student.

I K ottenuti con la t-student sono sempre più grandi di quelli relativi ad una Gaussiana. Se ho fatto
poche misure ho in effetti una cattiva conoscenza di come queste sono distribuite, l’S valutato con
poche misure è a sua volta incerto (σ potrebbe essere più grande). Il fattore K diventa più grande
per allargare l’intervallo corrispondente alla stessa probabilità.

Perché è importante dare una misura a quell’incertezza in modo tale che non sia sempre l’incertezza
tipo, ma quella corrispondente, per esempio, al 95% di Livello di Confidenza, cioè prendo in consi-
derazione un intervallo che contiene il 95% delle misure anziché solo il 68%? In quali casi sarà
importante poter contare su questa informazione?

E’ importante in tutte quelle applicazioni che hanno qualche implicazione molto grave, per esempio
delle strutture per le quali la sicurezza dipende dalla scelta che sto facendo. Se sottostimo il carico
di rottura posso mettere a rischio l’intera struttura. Se prendo questo parametro con un’incertezza
piccola (considero ovviamente nei calcoli il valore più piccolo per operare nel campo della maggiore
sicurezza) posso correre il rischio che l’effettivo carico di rottura del materiale che sto usando sia più
piccolo rispetto ai dati utilizzati perché si colloca in un punto non compreso all’interno del 68% delle
misure fatte.

Il Livello di Confidenza è spesso previsto da normative specifiche, quindi se faccio misure di conta-
minazione, per esempio di acque, per valutare la presenza di inquinanti nei fiumi le norme dicono
già di fare le misure con un LC predefinito.

Prima abbiamo parlato di gradi di libertà. Se passiamo attraverso la propagazione, i vari parametri
possono essere stati ottenuti con un differente numero di misurazioni. Uno con 20, un secondo con
10 e così via. In questo caso che t-student utilizzo? cioè quanti gradi di libertà considero?

C’è una formula, detta di WELCH-SATTERTHWHITE, che non è chiesto di memorizzare ma è ne-
cessario ricordare che esiste, che ci permette di trovare il numero di gradi di libertà equivalente.
(Importante è sapere che facciamo riferimento alla norma UNI-CEI 70098-3 per reperirla).
m
ql
m 8 P qP 9
<
l
= ∑ = da questa formula ricavo st r
nop nP

19
le incertezze, qui per vedere qual è l’elemento critico devo guardare il prodotto tra l’incertezza e
fattore di sensibilità. Posso avere uno strumento con incertezza molto piccola che ha un fattore di
sensibilità molto grande ed è lui che mi condiziona maggiormente l’incertezza complessiva. Questa
analisi è molto utile per scegliere gli strumenti.

Questa è la situazione più semplice ma si possono verificare delle situazioni più rischiose, cioè quelle
in cui I VARI PARAMETRI si dice che STATISTICAMENTE NON SONO INDIPENDENTI.
Questo vuol dire che se uno aumenta, aumenta anche l’altro o viceversa.

X2 X2

X1 X1

a) STATISTICAMENTE INDIPENDENTI b) STATISTICAMENTE DIPENDENTI


Ad un aumento di x1 può corrispondere Mediamente se x1 aumenta lo fa anche x2
una diminuzione di x2
Per il caso a) va bene la y prima vista, mentre per il caso b)

PROPAGAZIONE PER VARIABILI STATISTICAMENTE DIPENDENTI (questa formula si utilizza


raramente)

/
y = 3∑ = 4 7 + 2 ∑ = ∑A= B 85 5
56 56 56
@ A 9
< < <
5 ?
?

@ A = coefficiente di correlazione (nel caso in cui le variabili non sia correlate è nullo e ottengo la
relazione vista prima)

Una delle situazioni più critiche si può verificare quando più parametri dipendono da un terzo para-
metro che sovente è la temperatura. In questo caso conviene esplicitare nei vari x1…. xp
la dipendenza dalla temperatura.
La formula prima scritta non verrà chiesta all’esame ma è importante sapere che può esistere il caso

CD C D D
perché a volte la relazione semplice fallisce in maniera paradossale.

E E
Questa relazione A = si potrebbe pensare come = applicando la formula sopra.
I due parametri “d” e “d” non possono essere considerati come due “differenti variabili” e questa è
una situazione contemplabile nel caso b) prima trattato. Le due “d” hanno il massimo della correla-
zione essendo “d” uguale a sé stessa, rij=1. Si otterrebbe una valutazione errata dell’incertezza se
si considerasse la relazione per variabili non correlate interpretando il d2 come prodotto di due va-
riabili “d”.

12
fattori di copertura della gaussiana, non si tollera la mancanza di LC se non risulta chiaro ad esempio
per una dichiarazione iniziale.

*** con questo abbiamo finito la valutazione dell’incertezza ***

Manca un ultimo tassello per la definizione di misura che è quello relativo alle

UNITA’ DI MISURA
Vediamo come si ottengono le unità di misura dato che questo discorso è importante per le opera-
zioni di taratura di uno strumento.
Le unità di misura che utilizziamo normalmente arrivano dal Sistema Internazionale (SI). Il SI è de-
finito tramite 7 unità fondamentali.
Come sono definite e chi ne realizza i campioni? C’è un organismo francese con sede a Parigi che
si chiama BIPM (Boureau International Pois Meausures) che si occupa di questo.
LE 7 UNITA’ FONDAMENTALI
Si definisce con l’orologio al Cesio. 1 s è un multiplo del
TEMPO Secondo s periodo dell’oscillazione fondamentale del Cesio.
Distanza di propagazione di un’onda elettromagnetica
LUNGHEZZA Metro m nel vuoto nel tempo di 1/v (v = numero pari alla velocità
della luce: 299792458)
Il campione è il cilindro di platino iridio che è ancora
quello del 1889. E’ quindi un campione materiale che
come tale può dare dei problemi. I campioni nazionali
MASSA Chilogrammo* kg derivati da questo si è visto che stanno aumentando la
propria massa nel tempo, segnale che il campione ori-
ginale sta perdendo progressivamente la propria
massa. Il campione verrà prossimamente sostituito.
E’ la temperatura termodinamica, quindi fa riferimento
alla relazione di Carnot, assunto per il punto triplo
TEMPERATURA Kelvin K dell’acqua il valore 273,16 K. Si vuole sostituire la defi-
nizione riferendola alla costante di Boltzmann.
Un ampere è l'intensità di corrente elettrica che, se man-
tenuta in due conduttori lineari paralleli, di lunghezza in-
finita e sezione trasversale trascurabile, posti a un me-
CORRENTE Ampere A tro di distanza l'uno dall'altro nel vuoto, produce tra que-
sti una forza pari a 2 × 10-7 Newton per metro di lun-
ghezza.
E’ una unità legata alla percezione visiva e viene ripro-
INTENSITA’ LUMINOSA Candela Cd dotta tramite una sorgente monocromatica di intensità
nota.
Quantità di materia corrispondente a 12 gr di Carbonio-
MOLE Mole mol 12

*NB La k in kg è e tutti i moltiplicatori 1000 è MINUSCOLA

La parte interessante di tutto questo discorso è: come facciamo a garantirci che il metro che abbiamo
sul mio tavolo corrisponda effettivamente alla definizione di metro del BIPM?
Idealmente dovrei, quando realizzo un metro, andare al BIPM e confrontare il campione che sto
utilizzando con il loro. Questo non è ovviamente praticabile. Esiste allora una catena che è chia-
mata:

CATENA DI RIFERIBILITA’

21
Realizza i CAMPIONI FONDAMENTALI. Deve garantire il
BIPM confronto tra i suoi campioni e quelli degli Istituti Nazionali.

E’ l’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica che opera in Ita-


INRIM lia e ha sede a Torino. Dispone di campioni che confronta
con quelli del BIPM. Inoltre ne crea di propri che fornisce ai
laboratori di taratura, LaT, (ex SIT) dislocati sul territorio na-
zionale.

LaT(ex SIT) LaT, Laboratori di Taratura accreditati (in precedenza SIT,


Servizio Italiano taratura). Dispongono di campioni di riferi-
mento certificati dall’INRIM. Questi centri sono quelli che si
interfacciano direttamente con gli utenti/aziende per la tara-
UTENTI tura dei loro strumenti/campioni con quelli di riferimento.

La taratura LaT ha un costo. Quindi se voglio tarare il mio strumento o verificare il mio “campione di
metro”, devo pagare. Molti strumenti che troviamo in commercio non hanno la certificazione LaT e
sono stati tarati sfruttando campione privi di riferibilità, non necessariamente hanno prestazioni infe-
riori a quelli con taratura LaT semplicemente non vi è la garanzia di riferibilità.

Cosa succede per l’incertezza passando dal BIPM al LaT? Questa ovviamente aumenta. I campioni
fondamentali hanno la minima incertezza, in qualche caso come per i campioni materiali incertezza
nulla perché rappresentano la definizione delle quantità. Quando vado a confrontarmi con i campioni
l’incertezza aumenta per effetto dell’incertezza associata al metodo/strumento di confronto. Anche i
costi dei campioni aumentano passando però dal LaT al BIPM, quindi in direzione opposta all’au-
mento dell’incertezza. I campioni del LaT costano relativamente poco, rispetto a quelli dell’INRIM
che impegnano un’attività di ricerca e miglioramento continua.

Il Politecnico ha, come anche molte aziende laboratori accreditati Lat. Per le aziende che hanno
molti strumenti da tarare può infatti essere conveniente avere un centro LaT piuttosto che rivolgersi
a laboratori esterni.

I punti essenziali della lezione precedente:

Valutazione di INCERTEZZA ESTESA:

K=1 LC = 68%
fghfg* =K h ij Questa corrispondenza
K=2 LC = 95% è vera per una distribu-
K = FATTORE DI COPERTURA zione Gaussiana
K=3 LC = 99,7%

L’incertezza estesa altro non è che il prodotto dell’incertezza tipo moltiplicata per il fattore di coper-
tura. La cosa importante da ricordare sono i tre valori del fattore di copertura relativi ai vari campi di
Livello di Confidenza. L’ipotesi Gaussiana è quella che viene sempre richiesta di applicare all’interno
degli esercizi. Al limite verrà chiesto di annotare negli esercizi, nel caso di approccio tipo “A” e basso
numero di misure, che l’ipotesi Gaussiana decade solo quando abbiamo una valutazione dell’incer-
tezza di tipo “A” con un numero di elementi (n misure) abbastanza basso. Sicuramente se n < 20,
dubbio se 20 < n < 100, mentre è sicuramente valida l’ipotesi Gaussiana se n > 100.
Se non è valida l’ipotesi Gaussiana c’è sempre la distribuzione t-student che ci consente di determi-
nare il fattore di confidenza sulla base del numero di gradi di libertà (n-1) e del Livello di Confidenza.

REGOLE DI SCRITTURA:
22
Nella scrittura della misura ci dobbiamo sempre ricordare che:
INCERTEZZA: PUO’ AVERE 1 o AL MASSIMO 2 CIFRE SIGNIFICATIVE
La scelta tra 1 o 2 è arbitraria ma metterne più di 2 è un errore.
VALORE DI RIFERIMENTO: STESSO NUMERO DI CIFRE DECIMALI DELL’INCERTEZZA
Anziché essere deciso in termini di cifre significative è deciso in termini di cifre decimali. Quindi parto
scrivendo l’incertezza, vedo quante cifre decimali la caratterizzano e a quel punto so quanti numeri
decimali compariranno nel valore di riferimento.

IMPORTANTE: l’arrotondamento deve essere fatto alla fine altrimenti rischio di aggiungere nei vari
passaggi ulteriori elementi di incertezza dovuti agli arrotondamenti. Nei passaggi intermedi si pos-
sono tenere anche tutti i decimali disponibili e solo alla fine si faranno gli arrotondamenti per non
metterne troppi.

Nel caso di incertezza tipo la misura può essere scritta come:


x = 1,235 ± 0,025 kg ≡ (1,235 ± 0,025) kg Sono tutte forme accettate. Le ultime due sono
quelle suggerite dalla norma. La prima quella di
x = 1,235 (25) kg
fatto più utilizzata. Si può omettere di indicare il LC
se si precisa che l’incertezza riportata è l’incertezza
tipo

Nel caso di incertezza estesa nella misura va indicato anche il Livello di Confidenza:
x = 1,235 (25) kg (LC 95%)
x = 1,235 ± 0,025 kg (LC 95%)

Per le unità di misura non è molto importante ricordarsi le varie definizione delle 7 unità
fondamentali, mentre è importante il discorso relativo alla Catena di Riferibilità.
CATENA RIFERIBILITA’: ITALIA CATENA RIFERIBILITA’: es. USA

BIPM BIPM

INRIM NIST

CENTRI LaT Centri


taratura
UTENTI UTENTI
Il BIPM è l’organismo che gestisce le unità di misura a livello mondiale, l’INRIM è il nostro istituto
nazionale che gestisce le unità di misura e i campioni delle unità di misura e si occupa di diffondere
i campioni ai Centri di taratura LaT che tarano gli strumenti che noi utilizziamo.
Si chiama Catena di Riferibilità perché non si deve mai spezzare il collegamento dei confronti tra i
campioni dei LaT con quelli dell’INRIM e di questi ultimi con quelli del BIPM. La garanzia che le mie
unità di misura siano coerenti con quelle del Sistema Internazionale è proprio legata a questa catena
non interrotta di confronti tra i campioni. L’altra riportata è la medesima Catena di Riferibilità riferita
agli Stati Uniti di America. La cosa importante è che i centri di taratura statunitensi sottoscrivono un
ACCORDO DI MUTUO RICONOSCIMENTO cui concorrono i Centri europei dunque anche italiani,
quindi le tarature fatte negli Stati Uniti in condizioni di riferibilità sono riconosciute come valide anche
23
in Italia e viceversa. L’accordo di Mutuo Riconoscimento coinvolge quasi tutti gli Stati nel mondo,
quindi la taratura fatta in Italia sarà riconosciuta anche in Germania, Francia, Giappone…ecc. e
viceversa.

24
TARATURA STATICA DEGLI STRUMENTI DI MISURA
Questo argomento è importante non tanto perché ci troveremo frequentemente a fare tarature di
strumenti, ma per il fatto che da questa si evidenziano quei parametri riportati nelle schede tecniche
o nei certificati di taratura che noi andremo ad utilizzare assieme agli strumenti. É quindi importante
sapere il loro significato dato che da esso dipende il corretto utilizzo.
Lo strumento nell’operazione di taratura viene rappresentato come una “scatola nera”, cioè un og-
getto che ha un ingresso e un’uscita ma di contenuto sconosciuto:

STRUMENTO

INGRESSO ????? USCITA


X y

Il nostro problema è capire come un ingresso viene elaborato dal nostro strumento per ottenere poi
l’uscita, cioè come da x passo a y. Quando usiamo lo strumento noi cosa vogliamo? Ipotizziamo che
lo strumento abbia, per esempio, come ingresso una forza e come uscita, nel caso più semplice di
una bilancia, una rotazione di un indice. L’operazione che vogliamo fare è partire dall’angolo di ro-
tazione dell’indice e individuare il valore della forza in ingresso, cioè la vera relazione che ci interessa
è quella tra uscita ed ingresso cioè l’inversa di quella ottenuta in taratura.

La prima cosa che dobbiamo evidenziare è che solo uno strumento ideale è a singolo ingresso. Al
contrario in una bilancia reale, per esempio, lo spostamento dell’indice non sarà solo legato al peso
applicato, ma anche all’azione della temperatura che agirà sulla deformazione dei materiali dei vari
leveraggi ecc.. Quindi nel caso reale che andremo a trattare non parleremo più di INGRESSO, bensì
di ingressi: l’INGRESSO PRINCIPALE (voluto e che si vuole misurare) e gli INGRESSI di DI-
STURBO.

STRUMENTO

INGRESSO PRINCIPALE (x) USCITA (y)


(voluto)

INGRESSI DI
DISTURBO

Se voglio misurare una forza, l’ingresso principale è la forza stessa, mentre gli ingressi di disturbo
rappresentano qualsiasi altra grandezza, esclusa ovviamente la forza, che mi danno un effetto
sull’uscita e in generale questi ingressi sono più di uno. Il sistema in questo modo si è ovviamente
complicato abbastanza, perché anziché avere una sola relazione ingresso-uscita ora ho “n” relazioni
per gli “n” ingressi.
La prima operazione che facciamo è quella di congelare tutti gli ingressi di disturbo.

1. AMBIENTE CONTROLLATO: INGRESSI DI DISTURBO STABILI E MISURATI


Tutti i laboratori di taratura hanno un ambiente controllato all’interno del quale i parametri ambientali
come temperatura e umidità sono misurati e in molti casi stabilizzati.

2. INGRESSI PRINCIPALI “NOTI” <

27
Il secondo punto necessario per fare la taratura è quello di avere a disposizione un certo numero di
ingressi principali noti, cioè degli ingressi principali a valori diversi tra loro e che conosco bene. In
che cosa si identifica quel “noti”? Il noti è relativo all’incertezza di misura dell’ingresso principale,
cioè io devo aver già misurato l’ingresso principale e lo devo conoscere con una incertezza piccola.
Cioè l’incertezza di questi ingressi principali, chiamati CAMPIONI DI MISURA, dovrebbe essere: i
< i dove i è l’incertezza attesa per lo strumento. Quindi se sto tarando uno strumento che ha
incertezza 1 grammo, dovrei avere dei campioni di taratura con incertezza più piccola di 1/10
grammo. Per i campioni mi basta avere il valore nominale e non l’incertezza perché è abbastanza
piccola da ritenerla trascurabile. E’ importante ricordarsi sempre che l’incertezza ha un costo. Quindi
minore è i maggiore sarà il costo del campione. Per questo, oltre alla condizione ottimale per cui i
< i, ve ne è un’altra che è un ottimo compromesso tecnico-economico:

< LIMITE ACCETTATO dai centri di taratura LaT

Una volta che abbiamo la possibilità di stabilizzare l’ambiente e un certo numero di campioni a di-
sposizione, possiamo costruirci il DIAGRAMMA DI TARATURA.

Quasi sempre ho come ingresso noto quello


y nullo. Abbiamo detto quasi sempre perché, se
per esempio sto tarando un manometro l’in-
gresso più difficile da ottenere è proprio quello
nullo, cioè il vuoto assoluto. Però molto spesso
ne posso disporre e quindi un punto potrebbe
proprio coincidere con l’origine degli assi. C’è
una regola o comunque una preferenza per
come dovrebbero essere X1, X2, X3 e X4? Nel
grafico li abbiamo messi quasi equidistanti, ma
non c’è un’indicazione di questo tipo in propo-
sito. Molto spesso si utilizza una sorta di pro-
gressione geometrica mettendo es X1, 2 X1, 4
X0 X1 X2 X3 X4 X X1, 16 X1 e così via.
Anziché avere valori equi-spaziati, li tengo più densi all’inizio e più spaziati alla fine della scala. Non
c’è una regola e quindi la scelta è in genere legata a quello che già sappiamo dello strumento.
Quelli segnati sono esattamente dei punti, cioè a rappresentare una misura va bene una coppia (x,
y)? No, perché essendo delle misure avrò un intervallino x e uno y.

a) b) Però ho messo una condizione sull’intervallino


y y X, cioè questo dovrebbe essere talmente pic-
colo che non lo vedo. Quindi in linea di princi-
pio dovrei avere la situazione a), in realtà se
sto usando un campione corretto saranno delle
x x barrette, caso b).

Cioè ho un’incertezza apprezzabile solo sulla variabile in uscita. Fatto il diagramma di taratura in
teoria ho esaurito il mio compito avendo trovato una relazione tra ingresso e uscita. Questo l’ho fatto
solo per alcuni punti, ma ingegneristicamente parlando possiamo mettere una spezzata e fare un’in-
terpolazione lineare tra i punti trovati. Soluzione questa semplice ma non comoda, dato che la mia
y = f(x) è composta da quattro equazioni di altrettante rette a seconda dell’intervallo X considerato,
davvero troppo macchinoso.

La relazione ideale sarebbe del tipo y = S x dove S sia una costante.


Questa è la più semplice relazione che possiamo ottenere. L’eventuale presenza di un X2 ci potrebbe
dare fastidio?
Purtroppo sì, dato che a differenza di quello che si potrebbe pensare le relazioni quadratiche defor-
mano il segnale. Nelle relazioni lineari, invece, anche se aggiungo una costante mi trasla la rappre-
sentazione mantenendo però la stessa forma. Quindi malgrado non sia complicato trattare delle
28
d

45°

CASO PARTICOLARE (prodotto di potenze)

y=" "/G …. " H


F

56
"F "/G …. " H
5 .
=

56 F .IJ. K …. N
O F
" =
65 .
= I K O =
. …. N .

/ / /
;
4 7 +4 7 +⋯ +4 Q7
P. P PN
;
= = INCERTEZZA RELATIVA di y
. N

Abbiamo una INCERTEZZA RELATIVA quando divido l’incertezza per il valore della variabile,
P.
quindi anche è un’incertezza relativa. Il significato di questa incertezza è molto chiaro. Quando
.
dico che l’INCERTEZZA RELATIVA è l’1‰ di quello che sto misurando ho immediatamente la con-
sapevolezza di quello che sto facendo, cioè sto facendo una misura nella quale sto sbagliando di un
millesimo. Se invece dico che l’incertezza di misura è di 1 N, questa è alta o bassa? Se sto misu-
rando una forza di 100 KN, l’incertezza di 1 N è molto bassa, se sto invece misurando 10 N, la mia
incertezza di 1 N è il 10 % della misura, quindi una enormità.

Questa relazione di propagazione è conveniente perchè: non calcolo nessun coefficiente di sensibi-
lità perché mi scrivo direttamente le incertezze relative prima di fare la propagazione, non faccio
alcuna operazione di derivazione e quindi non ho alcuna possibilità di errore. Questo mi semplifica
di molto le operazioni in moltissimi casi. La raccomandazione è quella di non usarla quando al posto
di avere x S x/T …. xUV mi compare un bel fattore del tipo (x/ – xE ). Questo non è più un prodotto anche
se gli altri lo sono ancora. Posso giocare però sul fatto che x/ – xE . lo faccio diventare una variabile
x*, mi calcolo prima l’incertezza sulla differenza e poi saranno ancora tutti dei prodotti.

CASO DELLA RAPPRESENTAZIONE IMPLICITA DELL’INCERTEZZA

Cogliamo l’occasione di poter disporre di questa relazione per fare un interessante ragionamento.
Spesso scriviamo le misure senza mettere in modo esplicito l’incertezza perché abbiamo detto che
se facciamo attenzione a come rappresentiamo la misura in funzione delle cifre significative utiliz-
zate, l’incertezza è già implicitamente scritta all’interno della misura stessa.

Se scrivo X = 10,2 questo equivale a scrivere 10,2 ± 0,05. Vuol dire che ho arrotondato il centesimo
e nel fare questo posso aver fatto un arrotondamento per eccesso o per difetto di 5 centesimi.
13
Supponiamo di avere:

X1 = 10,2 (3 cifre significative)


X2 = 27 (2 cifre significative)
X3 = 256,48 (5 cifre significative)

cioè numeri che hanno decimali diversi e soprattutto che hanno numeri di cifre significative differente
(numero minimo di cui ho bisogno per non modificare il significato di quello che scrivo, cioè non
posso usare un numero inferiore di cifre per rappresentare il numero scritto).

X0 = 0,001 (1 cifra significativa potendolo scrivere come 1.10-3)


X0 = 0,0010 (2 cifre significative potendolo scrivere come 10. 10-3)

Bisogna fare attenzione perché gli zeri prima delle cifre diverse da zero non sono significativi,
mentre quelli dopo le cifre diverse da zero sono tutti significativi.

Se noi facciamo y = "W " "/ "X

/ /
4 7 +4 7 + ⋯
; PY P.
;
=
Y .

P
Vediamo quanto valgono le varie . Scriviamo tutti i numeri in forma esponenziale:

Y
X0 = 1,0*10-3 = ± 0,05*10-3 (per l’incertezza arrotondo sulla prima cifra che non compare)
.
X1 = 1,02*101 = ± 0,005*101 (per l’incertezza arrotondo sulla prima cifra che non compare)
X2 = 2,7*101
X3 = 2,5648*102

e proviamo a scrivere:

PY W,WZ∗ WJ\
,W∗ WJ\
= 0,05 = 5*10-2 (esponente pari a numero cifre significative)
Y
=

Nota che al denominatore 1.0 è il più piccolo numero di 2 cifre, il più grande sarebbe 9.9 che vuol
dire circa 10 volte maggiore, quella sopra quindi è l’incertezza relativa massima di un numero a 2
cifre e quella minima è circa 1/10, cioè 5*10-3, cioè esponente pari a numero di cifre significative +1.
Altro esempio che evidenzia come il valore assoluto o formato di scrittura non cambino il risultato:

P. W,WWZ. W.
≅ 5.10-3 (apice ancora pari a numero di cifre significative)
. ,W/. W.
=

Quello che sta a denominatore è un numero che è sempre compreso tra 1 e 9,9999 al massimo 10
come limite. Possiamo avere, infatti, quanti decimali vogliamo ma se abbiamo espresso il numero in
virgola mobile (potenze del 10) si potrà avere al massimo un numero compreso tra 1 e 9. Quindi
l’incertezza è sempre la stessa quantità, cioè un 5 posizionato sul decimale che coincide con il nu-
mero di cifre significative, diviso per un numero compreso tra 1 e 10.

(denominatore 9.9 che è ≅ 10), cioè l’incertezza relativa è strettamente legata al numero di cifre
Allora nel caso visto prima l’incertezza relativa sarà compresa tra 5.10-2 (denominatore 1) e 5.10-3

significative che ho. Quindi, in generale, l’incertezza relativa di un numero è compresa tra:

14
Posso definire un parametro che mi mostra come cambia la sensibilità. Questo parametro lo chiamo
Sensibilità Modificante che nel nostro esempio è riferito alla temperatura:

SENSIBILITA’ MODIFICANTE = = =S mod. termica


2 2
Definisco poi la:

SENSIBILITA’ INTERFERENTE = = =S inter. termica


2 2

Conoscendo questi due parametri posso ora scrivere una relazione ingresso-uscita un po’ più ge-
nerale, cioè posso scrivere che:

y = (m1 + Smod.(T – T1)) x + q1 + Sinter. (T – T1)


cambia la pendenza cambia l’intercetta sulla retta
della retta *

Ho assunto che la sensibilità cambi in maniera lineare con la temperatura. Ho implicitamente assunto
che la relazione tra temperatura e coefficiente angolare sia una retta, cioè che il coefficiente angolare
cambi in modo lineare con la temperatura. Questo non è assolutamente vero, ma l’approssimazione
più semplice è sempre quella lineare. Se abbiamo uno strumento decente le
due rette si distinguono appena, quindi quel coefficiente che mi serve
m
per correggere la Sensibilità, di solito ha dei valori piccoli, cioè se lo
m2 divido per m1 è una variazione di qualche 10-2, l’1% per una variazione
di una decina di gradi. Il fatto di linearizzare una funzione che mi porta
m1 a delle variazioni molto piccole è assolutamente ragionevole.
Quello che è importante ricordare è che gli effetti delle grandezze di
T1 T2 T disturbo vengono suddivisi in una componente MODIFICANTE che mi
cambia la sensibilità (m) e in una INTERFERENTE che mi cambia l’intercetta (q).
Me ne accorgo subito se è presente una componente interferente, perché mi cambia l’uscita anche
se “x” è nullo, quindi a strumento senza nessun carico. In pratica, senza nessun ingresso se cambio
la temperatura e vedo che l’uscita cambia vuol dire che c’è una sensibilità interferente. Mentre senza
un ingresso applicato non mi accorgo di una eventuale componente modificante.
Però se metto insieme due prove, cioè il punto a zero e faccio cambiare la temperatura e guardo
qual è l’uscita a zero, e poi applico un ingresso e vedo qual è la variazione con l’ingresso applicato,
ottengo entrambi i parametri. Quindi bastano due punti per ottenere la sensibilità interferente e anche
quella modificante.

Abbiamo fatto un’ottima caratterizzazione, cioè oltre ad aver dato la curva y = mx + q, abbiamo dato
anche la sensibilità modificante e interferente per cui se al posto di usare lo strumento a 24 °C lo
uso a -40 °C so calcolarmi i due parametri m e q. Questa impostazione dal punto di vista qualità
della misura è quella migliore perché utilizzo al meglio le informazioni riportate sullo strumento, dal
punto di vista praticità di utilizzo ci costringe ad avere almeno un termometro ogni volta che uso il
mio strumento per sapere qual è la temperatura. E se oltre a questa devo tener conto anche dell’umi-
dità e di altri parametri? La modalità applicata si complica sempre più.
Allora come possiamo dare un’unica informazione che mi permette però di utilizzare lo strumento in
un campo di condizioni ambientali che sono quelle normali, quindi temperatura tra -40 e + 24 °C, e
umidità tra il 10 e l’80% di umidità relativa? Quale potrebbe essere una buona approssimazione?
Non possiamo usare né una retta né l’altra, faccio allora un’unica retta di regressione che tiene
assieme tutti i punti.

31
Quindi la sola retta di regressione con i punti a -40 °C e a +24 °C è la retta c)
dall’equazione:
b) c)
y y = m* x + q*
a) i due parametri m e q saranno ovviamente diversi, ma
quello che sarà molto più grande sarà lo Scarto tipo
di linearità dato che prima i punti erano molto più vi-
cini alle rispettive rette e ora lo sono decisamente
meno. Quindi l’incertezza associata ad un modello
semplice ma che mi va bene da -40 °C a +24 °C sarà
più grande dell’incertezza che avrei se usassi una re-
lazione più complicata e che tenesse conto della tem-
X peratura, pressione, umidità ecc..
Quindi ho due scelte: relazione semplice e incertezza
grande, relazione complicata e incertezza limitata.

I punti essenziali della lezione precedente:

TARATURA STATICA
Abbiamo parlato di taratura statica e abbiamo visto:

- La RETTA DEI MINIMI QUADRATI per il modello IDEALE preferito: y = m x + q


1
- La definizione di SENSIBILITA’ STATICA GENERALE S = - se y = m x + q, cioè se lo strumento
1
è lineare, S = m con m = coefficiente angolare della retta

- SCARTO TIPO DI LINEARITA’ ≡ INCERTEZZA TIPO DI LINEARITA’

∑ # . (
Sy = = * (somma quadratica delle deviazioni punti-retta)
! )

Questa rappresenta l’INCERTEZZA STRUMENTALE se < cioè se si utilizza il campione di


taratura ottimale. Se non siamo in questa condizione dobbiamo combinare l’incertezza del campione
con quella di linearità. Quindi avremo che l’Incertezza Strumentale sarà pari a:

456 = *S )
S4 ) con S = sensibilità. E’ una applicazione di propagazione dell’incertezza dato

che il campione entra nell’espressione dell’errore. Se < in pratica la quantità S4 è molto


piccola e nell’ordine di 1/10 dell’altra e quindi può restare solo S . Se eleviamo al quadrato il secondo
termine è dell’ordine di 1/100 dell’altro. Approssimazione sicuramente valida considerando che l’in-
certezza ha solo due cifre significative.
Questa relazione si adotta per i campioni accettati dai SIT e caratterizzati da < . Anche in questo
caso comunque, non considerare il secondo termine vuol dire accettare una situazione non partico-
larmente compromettente dato che è circa 1/16 del primo.
Quindi se il campione è buono non serve introdurre la sua incertezza, se è al limite dell’accettazione
conviene tenerne conto con la relazione prima vista.

Gli ingressi interferenti e modificante cambiano i due parametri della retta di taratura:

- INGRESSI DI DISTRURBO MODIFICANTI (cambiano il coefficiente angolare “m”)


8 89
m = mo + Km (t - to) con Km = = SENSIBILITA’ MODIFICANTE
: :9
in questa relazione abbiamo messo la temperatura “t” come ingresso di disturbo ma ovviamente
questo vale per qualsiasi ingresso di disturbo (pressione, umidità ecc.)
32
- INGRESSI DI DISTRURBO INTERFERENTI (cambiano “q”)
; ;9
q = qo + Ki (t - to) con Ki = = SENSIBILITA’ INTERFERENTE
: :9
Se siamo ad ingresso nullo, il fatto che possa cambiare la pendenza della rette non lo potremmo
mai sapere, quindi con ingresso nullo riusciamo ad evidenziare la parte interferente (per esempio,
se cambia la temperatura cambia l’indicazione dello strumento, se la temperatura è interferente),
per ottenere l’effetto modificante dobbiamo applicare un carico e fare la differenza tra carichi, in
generale gli ingressi, a due valori della grandezza di disturbo diversi.

---------------------- oooo ----------------------


PER UTILIZZARE UNO STRUMENTO A NOI SERVONO PRINCIPALMENTE DUE PARAMETRI

• LA SENSIBILITA’ STATICA (S) (perché il caso q=0 è il più comune. Di fatto ci servirebbero S
e q, ma essendo q spesso nulla, se conosciamo S passiamo da ingresso a uscita e viceversa.
Quindi data l’uscita, risaliamo al valore dell’ingresso cioè a quello che volevamo misurare)
• INCERTEZZA STRUMENTALE (Sy) è importante perché quando facciamo la misura dobbiamo
poi aggiungere il valore dell’incertezza. L’incertezza strumentale è esattamente il contributo che
aggiunge lo strumento all’incertezza, quindi se non abbiamo altre cause di incertezza note, la
misura fatta con quello strumento ha associato quale incertezza proprio quella strumentale.

Vediamo ora alcuni effetti che si verificano negli strumenti di misura e che fan sì che l’espressione
di incertezza strumentale sia sempre la stessa ma viene identificata con un nome diverso. Sono casi
particolari presenti in alcuni strumenti e in altri no.

Prendiamo il caso degli strumenti che presentano elementi elastici che si deformano tipo, per esem-
pio, un dinamometro a molla dove, per avere un’indicazione di una forza devo deformare elastica-
mente una molla. C’è un fenomeno che si chiama l’ISTERESI ELASTICA DEI MATERIALI che fa
sì che se io deformo un materiale quello ha un po’ di resistenza a deformarsi, cioè la deformazione
è un po’ in ritardo rispetto all’applicazione dei carichi. Come si caratterizza lo strumento che presenta
nel suo interno un elemento elastico?
Se io faccio la taratura partendo da zero e aumentando l’ingresso ottengo una serie di valori. Arrivo
al punto massimo e quando torno indietro, invece di ripassare grossomodo sugli stessi valori (non
potrò in genere passare sugli stessi punti essendo misure note con una certa incertezza), a causa
dell’isteresi i punti stanno tutti sopra a quelli individuati nella fase di carichi crescenti, cioè è come
se lo strumento si accorgesse in ritardo che ho diminuito l’ingresso o, vedendolo sotto un’altra ottica,
che in fase di carico il sistema si è accorto in ritardo che aumentavo l’ingresso.

y ERRORE DI ISTERESI

Il diagramma viene percorso nel verso delle


frecce. Qui ovviamente l’effetto è molto amplificato
dato che graficamente questo tipo di errore non è
facile da vedere.
Se lo strumento avesse questo comportamento,
come dovrei comportarmi?
Posso seguire due strade. La prima è quella che
se so esattamente in quali condizioni effettuo la
misura, per esempio sempre con ingressi cre-
scenti, allora posso dire che la curva che mi inte-
ressa è solo il primo tratto di quella rappresentata
x qui a lato. Quindi posso costruirmi un diagramma
di taratura per ingressi crescenti e

33
uno per ingressi decrescenti e dare due caratteristiche diverse a chi utilizza lo strumento, situazione
però abbastanza rara nella pratica.

L’altra possibilità più generale e quindi non limitativa come quella ora esposta è quella di considerare
tutti i punti di questa curva che rappresentano il comportamento dello strumento, fare un’unica
RETTA DI TARATURA. L’isteresi andrà ad influenzare uno specifico parametro, lo scarto tipo di
linearità.

Alcuni costruttori forniscono l’ERRORE DI ISTERESI che definiscono come la massima distanza tra
la retta di taratura e i punti. Normalmente avrò che l’errore di isteresi è simmetrico, dato che con un
grafico ben disegnato si noterebbe che a pari carico, la distanza tra la retta di taratura e i punti della
curva a carichi crescenti e decrescenti è uguale. Quindi:
ε ist = max | $" % &" ' | ERRORE DI ISTERESI (è un errore massimo)

Quale parametro è preferibile avere, uno scarto tipo oppure un errore di isteresi, cioè un errore
massimo?
In una valutazione di incertezze, il primo passo da compiere è quello di portare tutte le incertezze a
incertezze tipo, cioè equivalenti a scarto tipo. Se ci danno direttamente uno scarto tipo di linearità
non dobbiamo fare alcuna operazione, è già il parametro che vogliamo. Quando invece ci danno un
errore massimo, lo dobbiamo convertire.
L’equivalente dello scarto tipo è l’errore massimo diviso per √3 (è la stessa relazione di quando ci
danno l’accuratezza = εmax. Quindi avremo:

εist
456 = INCERTEZZA STRUMENTO (è un’incertezza tipo)
√B

In genere non riusciamo a vedere l’errore di isteresi guardando il diagramma di taratura dato che è
un errore molto piccolo e quindi si confonde in pratica con la retta. Per evidenziarlo quello che si fa
è plottare i residui.

34
non ottengo più errori con il medesimo segno come nel
caso di oggetto ben definito. In questa situazione l’er-
rore non è più sistematico e a volte è positivo e a volte
negativo.
Ovviamente non c’è un salto netto tra queste due posizioni, ma avrò tutte le condizioni intermedie in
cui l’errore è quasi sistematico e altre in cui l’errore diventa casuale.

C’è un CRITERIO PRATICO che mi dice se devo usare una valutazione “A” oppure “B”. Il criterio va
a confrontare lo scarto tipo delle misure (S) con l’incertezza valutata con la procedura di tipo “B”. Il
criterio dice:

%
se S > 4 ÷ 5
allora posso applicare la valutazione di tipo “A” perché l’effetto della risolu-
&√' zione non è sistematico.

Allora se non sono certo di poter o meno applicare una valutazione di tipo “A”, cosa faccio? Ripeto
un po’ di misure, mi calcolo lo scarto tipo delle stesse, e verifico la condizione sopra scritta.
Un approccio più banale sarebbe quello di calcolare l’incertezza tipo con la valutazione “A” e calco-
larla poi con la valutazione “B” e poi cautelativamente prendere la più grande delle due. E’ un criterio
ingegneristico perché ci si mette sul lato della sicurezza, però è un criterio che taglia le gambe a una
modalità di aumentare l’accuratezza di misura che è quella di aumentare il numero delle misure.
L’incertezza di tipo “A” è il rapporto tra una quantità che sarà circa costante (S) e la √ . Quindi se

di misura che voglio avere, infatti mi basta solo calcolare a priori “n” in modo tale S/√ sia abba-
sono in una situazione in cui è applicabile la valutazione di tipo “A”, io posso scegliere l’incertezza

stanza piccolo e pari al valore di incertezza voluto. Approccio abbastanza comune per quando si
vogliono ottenere misure con una elevata accuratezza.
Il criterio empirico prima enunciato mi permette proprio di vedere se posso operare con un certo
numero di misure per migliorare l’incertezza, oppure se l’errore sistematico mi impedisce di applicare
questo approccio. Nel criterio infatti non entra “n”. S è una caratteristica delle misure che sto facendo
e non dipende da “n” anche se nella formula abbiamo “n-1”, con la statistica si può vedere che S
tende al valore costante σ.

Questo era tutto quanto detto per la valutazione dell’incertezza sulla misura singola. Vediamo ora il
caso in cui per misurare un parametro non debba effettuare una misura diretta dello stesso, ma devo
passare attraverso la misura di altri parametri per ottenere una variabile dipendente del tipo
y = f(x1, x2, ..,xp). La mia valutazione di incertezza partirà determinando per ogni misura diretta l’in-
certezza tipo. Il passo successivo sarà quello che definiamo la

PROPAGAZIONE DELL’INCERTEZZA

/
56 /
∑<= 4
/ /
y = 34 7
56 56 56
7 + 45 7 + ⋯ + 85 9 =
5 . .
2
2 5

Ottenuta linearizzando localmente la funzione, quando questa non è una somma, grazie allo svi-
luppo in serie di Taylor. Le variabili x1,..,xp devono essere NON CORRELATE, cioè STATISTICA-
MENTE INDIPENDENTI.

potenze: y = " F "/G …. " H


Questa relazione si può scrivere in maniera più semplice se la nostra funzione è un prodotto di

/ / /
4 7 +4 7 + ⋯ + 4 Q7
; P. P PN
;
=
. N
= INCERTEZZA RELATIVA

17
bilance tradizionali. Finché non recupero tutti i giochi dei leverismi non ho un inizio di movimento
dell’indice indicatore. Quindi c’è una massa minima che devo applicare per avere una risposta dello
strumento. In uno strumento la Risoluzione è sempre presente, ma la si trascura quando risulterà
piccola rispetto alle altre cause di incertezza.

ERRORE DI DERIVA (caso particolare di sensibilità)


Ci dice come cambia il comportamento dello strumento al variare del tempo. Se si fosse trattato della
temperatura abbiamo visto prima due parametri che sono la sensibilità modificante e interferente
che condizionano i valori di “m” (pendenza) e “q” (intercetta). Anche con il tempo può cambiare o la
pendenza o l’intercetta della retta di taratura. Allora ottengo due parametri, la variazione nel tempo
della sensibilità e la variazione nel tempo dell’intercetta che chiameremo:

DERIVA DI SENSIBILITA’: m = mo + Km τ
con τ = tempo trascorso dal momento in cui ho fatto la taratura, cioè rispetto a quando ho valutato
mo mentre Km è un coefficiente, dove la “m” sta per modificante.

DERIVA DI ZERO: q = 0 (o qo) + Ki τ


si riferisce al caso in cui l’intercetta iniziale è zero e quindi il primo termine qo lo poniamo uguale a
zero. Essendo però questo un caso particolare in cui sia stato effettivamente possibile portare lo
strumento sullo zero, in generale metteremo qo.
Ki = fattore di deriva dello zero
Km = fattore di deriva di sensibilità

------------ ooo ------------


Lo sostanza della taratura statica è stata quella di determinare la relazione y = f(x), cioè una rela-
zione ingresso-uscita che mi permette, noto un ingresso di determinare un’uscita, oppure data
un’uscita di capire quale era l’ingresso. La funzione che vorremmo sempre avere è quella di una
retta, cioè y = mx + q, e in generale quella scritta prima è la relazione che esce dalla taratura statica.

Supponiamo ora di avere dal certificato di taratura l’incertezza 4 . Cioè vi dicono che lo strumento,
ad esempio per effetto di una risoluzione legata alla misura di una temperatura, determina un’incer-
tezza strumentale di 1°C. Conoscendo la funzione “f” possiamo dire in cosa si traduce quel grado
Celsius nell’incertezza sull’uscita? Cioè siamo in grado di convertire un’incertezza data come equi-
valente intervallo sull’ingresso in un equivalente intervallo sull’uscita?
Se guardiamo la nostra espressione, questa è simile a quella che prendiamo in considerazione
quando facciamo delle misure indirette, cioè una variabile dipendente legata a “x” variabili indipen-
denti, in questo caso una sola. Quindi per ottenere l’incertezza sulla y ci basta propagare l’incertezza
della “x” dentro la nostra relazione y = f(x). Quindi:

E ) E
4 y = *D E 4 F =G G4 = |H|4 4 = |H|4
E

al posto della derivata parziale mettiamo la derivata totale avendo una sola variabile. L’incertezza è
sempre positiva essendo un intervallo, ma la derivata potrebbe invece essere negativa, quindi la
prendiamo in valore assoluto. Questa è sostanzialmente la SENSIBILITA’ STATICA nella sua
espressione generale. Quindi:
PER PASSARE DA INGRESSO A USCITA PER LE INCERTEZZE MI BASTA LA SENSIBILITÀ
STATICA. Se siamo nel caso particolare in cui la relazione è lineare c’è una costante che mi tra-
sforma le grandezze in ingresso in grandezze in uscita, ma questa la posso anche girare:
"I
4 =
|J|
questa è una ragione in più per preferire gli strumenti lineari.

36
Viene molto spesso indicato un parametro che anziché essere un’incertezza assoluta è riferita al
valore di fondo scala dello strumento.

INCERTEZZA STRUMENTALE RIFERITA AL FONDO SCALA


Il fondo scala in ingresso è il massimo ingresso che lo strumento può misurare e il fondo scala in
uscita è la massima uscita che lo strumento può generare. Se io chiamo “incertezza relativa al fondo
scala”:
"L
46K = se la relazione y = S x è di tipo lineare passante per lo zero e se moltiplico entrambi i
MNL
termini per S ottengo:

J "L "I
46K = = cioè l’incertezza relativa al fondo scala in uscita.
J MNL MNL

Per gli strumenti lineari con q = 0, cioè retta passante per lo zero, l’incertezza relativa al fondo può
essere data senza specificare se si tratta del fondo scala in ingresso o in uscita, dato che si mantiene
inalterata sull’ingresso e sull’uscita.

Questo è un parametro che da una buona indicazione sulla qualità dello strumento, cioè se mi viene
data una bilancia con una incertezza al fondo scala dell’1‰ vuol dire che è una bilancia di buona
qualità perché se misuro 1 kg come massa massima so che avrò un 1 grammo di incertezza, ma
anche misurando una tonnellata avrò sempre che l’incertezza in uscita sarà l’1‰ di una tonnellata.
Per un’incertezza strumentale assoluta, se non conosco il fondo scala è più difficile dare un’indica-
zione sulla qualità dello strumento.
Viene usata nella classificazione degli strumenti come:

SI DICE CLASSE DI PRECISIONE DI UNO STRUMENTO LA SUA INCERTEZZA RELATIVA AL


FONDO SCALA ESPRESSA IN %

Quindi uno strumento in CLASSE 1 vuol dire che ha un’incertezza relativa al fondo scala pari all’1%,
uno strumento in CLASSE 01 lo 0,1%.

TERMINOLOGIA
Nel 2008 c’è stata la release di una norma che va sotto l’acronimo VIM (Vocabolario Internazionale
di Metrologia) che ha cambiato alcune definizioni. Il VIM è la ISO GUIDE 99, cioè una norma inter-
nazionale. Anche questa è stata recepita in Italia con la UNI CEI 70099 (Dizionario delle misure).
Ci sono tre termini particolarmente critici legati al passaggio dalla vecchia normativa all’attuale e che
sono:

Inglese Italiano
Accuracy Accuratezza
Precision Precisione
Trueness Giustezza

Accuracy: rappresenta lo scostamento totale tra l’indicazione di uno strumento e il valore nominale
del campione di taratura, quindi tiene conto complessivamente dei termini sia sistematici, cioè sco-
stamento dei valori medi, sia dei termini casuali cioè quanto le misure ripetute sono disperse l’una
rispetto all’altra. La norma dice che l’accuracy è una qualità e quindi non dovrebbe essere quantifi-
cata con un valore numerico. Nella pratica il valore numerico che la quantifica è l’incertezza stru-
mentale.

37
Se n > 100 utilizzo sempre la mia Gaussiana

Qual è la differenza nell’usare una t-student al posto di una Gaussiana? Che per avere il 68% anzi-
ché avere un K=1 ne avrò uno un po’ più grande. Non posso dire il valore perché la t-student non è
una funzione singola, ma è funzione del numero di gradi di libertà, cioè di quanti punti ho usato per
la valutazione di tipo “A”.

t-student t = f(probabilità, ν = n-1)

La t-studend è funzione della probabilità, cioè dato un LC mi da un valore del moltiplicatore K, e di


ν = gradi di libertà con n = numero misure.
Quindi avremo delle t-student per 10, 20, 35 ecc. gradi di libertà. Confrontando una funzione t-stu-
dent con ν oltre i 100 con una Gaussiana, le due distribuzioni diventano identiche.
Nell’uso pratico se uno ha un foglio di Excel, esiste la funzione inv.t.2t che, inserita come probabilità
il complementare a 1 del LC che voglio avere e il numero di gradi di libertà, restituisce il K (fattore t)
equivalente per il caso specifico.

Operativamente a noi interessa che se abbiamo fatto valutazioni di tipo “B”, oppure di tipo “A” con
più di 100 punti di misura allora possiamo usare i moltiplicatori sopra indicati. Altrimenti dovremo
andare a cercarci dei moltiplicatori diversi come visto ora con la t-student.

I K ottenuti con la t-student sono sempre più grandi di quelli relativi ad una Gaussiana. Se ho fatto
poche misure ho in effetti una cattiva conoscenza di come queste sono distribuite, l’S valutato con
poche misure è a sua volta incerto (σ potrebbe essere più grande). Il fattore K diventa più grande
per allargare l’intervallo corrispondente alla stessa probabilità.

Perché è importante dare una misura a quell’incertezza in modo tale che non sia sempre l’incertezza
tipo, ma quella corrispondente, per esempio, al 95% di Livello di Confidenza, cioè prendo in consi-
derazione un intervallo che contiene il 95% delle misure anziché solo il 68%? In quali casi sarà
importante poter contare su questa informazione?

E’ importante in tutte quelle applicazioni che hanno qualche implicazione molto grave, per esempio
delle strutture per le quali la sicurezza dipende dalla scelta che sto facendo. Se sottostimo il carico
di rottura posso mettere a rischio l’intera struttura. Se prendo questo parametro con un’incertezza
piccola (considero ovviamente nei calcoli il valore più piccolo per operare nel campo della maggiore
sicurezza) posso correre il rischio che l’effettivo carico di rottura del materiale che sto usando sia più
piccolo rispetto ai dati utilizzati perché si colloca in un punto non compreso all’interno del 68% delle
misure fatte.

Il Livello di Confidenza è spesso previsto da normative specifiche, quindi se faccio misure di conta-
minazione, per esempio di acque, per valutare la presenza di inquinanti nei fiumi le norme dicono
già di fare le misure con un LC predefinito.

Prima abbiamo parlato di gradi di libertà. Se passiamo attraverso la propagazione, i vari parametri
possono essere stati ottenuti con un differente numero di misurazioni. Uno con 20, un secondo con
10 e così via. In questo caso che t-student utilizzo? cioè quanti gradi di libertà considero?

C’è una formula, detta di WELCH-SATTERTHWHITE, che non è chiesto di memorizzare ma è ne-
cessario ricordare che esiste, che ci permette di trovare il numero di gradi di libertà equivalente.
(Importante è sapere che facciamo riferimento alla norma UNI-CEI 70098-3 per reperirla).
m
ql
m 8 P qP 9
<
l
= ∑ = da questa formula ricavo st r
nop nP

19
che può avere un costo elevato, a volte comparabile con quello dello strumento se voglio regolazioni
ad esempio entro l’1‰ del fondo scala.

- INCERTEZZA STRUMENTALE: molto importante anche se spesso al posto di questo parametro


possiamo avere:

SCARTO TIPO DI LINEARITA’


RISOLUZIONE
ERRORI DI ISTERESI
ACCURATEZZA
ecc…

- CLASSE DI PROTEZIONE DELL’INVOLUCRO (resistenza a condizioni ambientali)


Si basa sulla norma IEC 60529

Esempio: IP68D Vedi sotto il significato dei tre parametri dopo la sigla IP.

CLASSE DI PROTEZIONE DEGLI INVOLUCRI


PROTEZIONE SOLIDI PROTEZIONE LIQUIDI CORPO UMANO
da 0 ÷ 6 da 0 ÷ 8 da A ÷ D
cambia la dimensione delle parti fornisce la resistenza ai liquidi, in E’ una classificazione non obbli-
che possono entrare nell’involucro genere acqua, per l’involucro dello gatoria, ma che può essere ag-
dello strumento ed eventualmente strumento. giunta, e che riguarda la possibi-
danneggiarlo. 0: la sola presenza di acqua nelle lità di accesso all’interno dello
0: possono entrare corpi di dimen- vicinanze può creare problemi di strumento di parti del corpo
sioni molto grandi. funzionamento allo strumento. umano, quindi è legata al rischio
6: tenuta stagna alla polvere. 8: lo strumento può funzionare im- di contatto con parti in tensione
Nella codifica può esserci anche il merso in acqua. oppure in movimento.
valore “X” che vuol dire che per 7: immersione temporanea in ac- A: possibilità di accesso con il
questa voce non è stata fatta al- qua. dorso delle mani
cuna certificazione. X: come nel caso dei solidi D: possibilità di accesso con le
dita delle mani

- CLASSE DI PROTEZIONE DEGLI INVOLUCRI DAGLI URTI

Si basa sulla norma IEC 50102

Esempio: IK 10

Valore numerico da 0 ÷ 10 che corrisponde alla resistenza dell’involucro all’impatto con una mazza
battente con energia via via crescente. IK 10 certifica la resistenza dell’involucro con l’impatto di una
mazza battente con energia di 20 J. Il valore 0 indica che non è stata testata la resistenza dell’invo-
lucro (è l’equivalente della “X” nell’altra classe di protezione IP).

- CARATTERISTICHE AMBIENTALI SOPPORTATE DAGLI STRUMENTI: non sempre sono pre-


senti, fatto salvo il dato sulla temperatura in genere indicato. Altri, tipo quello della pressione, umidità
relativa, presenza di vento o vibrazioni ecc. non sono indicati, ma già insiti nello strumento pensato,
magari, per un determinato settore e campo applicativo (vedi quello automobilistico ecc.).

Un ultimo punto che non è presente nelle schede tecniche ma che è sicuramente preso in conside-
razione nella scelta/acquisto di uno strumento è il COSTO.

39
I punti essenziali della lezione precedente:

DATI NELLA SCHEDA TECNICA DI UNO STRUMENTO


Insieme di parametri che si possono trovare nella scheda tecnica dello strumento come certificato
di taratura.

- CAMPO DI MISURA IN INGRESSO (ci serve per verificare se quello che dobbiamo misurare è
contenuto nel campo di misura dello strumento)

- FONDO SCALA IN USCITA o, in alternativa, la SENSIBILITA’ STATICA


Se ci danno la Sensibilità Statica passiamo dall’ingresso all’uscita moltiplicando per questo impor-
tante parametro. Se ci danno solo la Sensibilità Statica e non una retta di taratura con intercetta vuol
dire che per default c’è il passaggio per lo zero della retta di taratura, quindi abbiamo che
y=Sx

- INCERTEZZA STRUMENTALE
E’ il parametro più critico dato che spesso e volentieri nella scheda tecnica possono essere indicati
altri parametri attraverso i quali possiamo determinare (vedi formule indicate) l’Incertezza Strumen-
tale che è un’incertezza tipo:

- SCARTO TIPO DI LINEARITA’ ≡ S = Incertezza Strumentale


V
- RISOLUZIONE ⟹ S =
√W
X S/
- ISTERESI ⟹ S =
√W
Y
- ACCURATEZZA (ACCURACY) ⟹ S = è intesa come errore massimo
√W
XZY
- ERRORE MASSIMO (o ERRORE TOLLERATO) ⟹ S = √W

- ALIMENTAZIONE es: VAL = 10 V REGOLATA/NON REGOLATA


Se abbiamo una alimentazione regolata dobbiamo avere un alimentatore stabilizzato che ha un co-
sto maggiore. Se si richiedono 10 V regolati dobbiamo avere, per esempio, un alimentatore che
eroga un 10 V ± 1‰ della tensione nominale. Se non fosse regolata possiamo avere un (10 ± 2) V.
I valori tipici di alimentazione sono (5 V; 5,5 V; 10 V; 12 V; 24 V; 220 V in alternata)

porte USB PC campo automobilistico

- IP 68D (resistenza ai solidi e ai liquidi e protezione accesso al corpo umano)

- IK 10 (resiste all’impatto con una mazza battente che ha un’energia di 20 Joule)

COSTO non presente nella scheda tecnica dello strumento ma è strettamente legato a tutti gli altri.
Se paghiamo molto abbiamo strumenti con piccola incertezza strumentale con caratteristiche di ele-
vata insensibilità ai disturbi.

------------ ooo ------------

40
Quando viene fornito con uno strumento un valore di scarto tipo di ripetibilità, risoluzione, isteresi
ecc. può sorgere il dubbio se quella sia una componente sistematica dell’errore dello strumento
oppure sia una componente casuale e che può essere quindi trattata anche con una valutazione di
tipo “B”. Come sappiamo, una valutazione di tipo “A” non può essere usata quando ho una compo-
nente di tipo sistematico. Per la risoluzione abbiamo visto che c’è un criterio che ci dice: se ho una
misura ripetuta riesco a vedere se la risoluzione determina un errore sistematico oppure se è possi-
bile una valutazione di tipo “A”.
Per tutti gli altri come ci si comporta? Si devono considerare sistematici oppure casuali? In realtà è
difficile saperlo a priori. Spesso dipende da come sto facendo la misura. La situazione più cautelativa
è quella di considerarli come errori sistematici. Si fa quindi una valutazione di tipo “B” dell’incertezza
tramite i parametri prima visti. Non si fa quindi una valutazione di tipo “A”? In realtà la valutazione di
tipo “A” può essere legata non allo strumento ma a quello che sto misurando. Se quello che sto
misurando è variabile nel tempo, quindi facendo misure ripetute mi cambia di volta in volta, quello
mi genera una componente di ripetibilità, cioè una componente “A” che va combinata con quella
dello strumento. Nel dubbio è bene trattare quella come una componente sistematica facendo una
valutazione di tipo “B” e se si ha la possibilità di fare misure ripetute, anche se non sempre è possi-
bile, la si combina con la valutazione di tipo “A”.

APPROCCIO CAUTELATIVO: MISURE RIPETUTE PIU’ VALUTAZIONE TIPO “B” PER COMPO-
NENTI SISTEMATICHE

4[ = *4\4]^ _ ) 4\4]^ ` ) è una incertezza complessiva.

Questo può andar bene per tutte le cause, per la risoluzione porta ad una sovrastima.
Negli altri casi si deve guardare di volta in volta per fare una buona valutazione perché un errore del
tipo prima considerato può essere sistematico in qualche condizione e casuale in altre.

Esempio con un errore di isteresi:


Se io arrivo sempre con misure crescenti, quindi
y considero il primo ramo del grafico, il mio errore
sarà sempre negativo perché i punti sono sempre
sotto la retta di regressione, quindi l’errore lo pos-
siamo considerare sistematico. Se invece arrivo a
volte con carichi crescenti e altre con carichi de-
crescenti, a volte l’errore è positivo altre negativo
quindi l’errore è in questo caso casuale con un va-
lore medio pari a zero, essendo la media degli sco-
Errore di isteresi stamenti.
Quindi in linea di principio non è semplice dire a
priori se una componente dell’errore è sistematica
o casuale. Il fatto di considerarla sistematica, e
quindi di sommarla quadraticamente, mi mette in
una condizione di sicurezza. La critica mossa nei
x confronti delle valutazioni in sicurezza è che que-
ste diventano meno selettive, corro quindi il rischio di dare ampi intervalli di incertezza e quindi rendo
meno UTILE la misura. Posso trovarmi in difficoltà nel dire se una grandezza è più grande di un’altra
ecc..
Nel caso di estensione dell’incertezza, si estende sempre tutto perché l’4:"!a b l’abbiamo tradotto in
uno scarto tipo, perché malgrado abbia un andamento sistematico, lo consideriamo comunque ca-
suale in grande. Con la valutazione precedente diamo un’incertezza più grande della reale, e ci
mettiamo nel campo della sicurezza.

In generale a questo punto del corso siamo in grado di tirare fuori il valore di incertezza e quindi fare
la misura dato uno strumento con la relativa scheda di taratura (o scheda tecnica) perché da retta
di taratura più incertezza strumentale abbiamo valore nominale di misura e incertezza di misura. Se

41
la misura è indiretta sappiamo fare la propagazione ed eventualmente espandere l’incertezza per
avere un certo livello di confidenza.

C’è tuttavia una situazione molto comune che potrebbe creare qualche problema. Spesso si misura
una grandezza con uno strumento e l’uscita ottenuta diventa un ingresso per un altro strumento e
così via, cioè ho quella che chiamiamo una CATENA DI MISURA.

CATENA DI MISURA

X Y Z W
S1 S2 S3

1° strumento 2° strumento 3° strumento

Questa è la situazione che possiamo avere all’interno di uno strumento di misura complessivo di cui
noi vediamo solo un ingresso e una uscita. Per esempio, alla misura di temperatura con una termo-
coppia. In questo caso abbiamo un sensore di temperatura che produce una tensione elettrica che
è funzione della temperatura. Noi non possiamo leggere direttamente la tensione elettrica, ma dob-
biamo collegare il termometro ad uno strumento in grado di leggere quella tensione. Quindi in un
semplice termometro abbiamo già due oggetti che consentono di passare da un ingresso ad una
uscita, uno è il vero termometro e l’altro il misuratore di tensione. A volte questa tensione è molto
piccola, allora aggiungo un trasduttore che mi moltiplica il segnale per un fattore di amplificazione.
Quindi uno strumento può essere composto da un certo numero di componenti messi in serie tra
loro, cioè composto da una catena di strumenti rappresentata da uno schema a blocchi come quello
sopra riportato.

Partiamo dall’esempio sopra schematizzato. Mi metto nella condizione in cui i tre strumenti siano
lineari e quindi con S, sensibilità statica (S1, S2, S3), a rappresentarmi la relazione ingresso-uscita.
La relazione tra X e W la si trova facilmente dato che:

Y = S1 X
Z = S2 Y ⟹ W = S1 S2 S3 X
W = S3 Z

Il mio strumento visto nella sua globalità, si comporta come un unico strumento che ha una sensibilità
pari al prodotto delle singole sensibilità. Quindi siamo risaliti al legame ingresso-uscita per il nostro
strumento. Ci rimane il discorso legato all’incertezza strumentale.

Per ognuno dei blocchi prima disegnati, essendo singoli strumenti di misura, ci sarà stata un’opera-
zione di taratura in base alla quale sarà stata valutata la sua incertezza strumentale. Questo vuol
dire che questa operazione non è deterministica ma va ad aggiungere una parte sconosciuta sulla
catena che è una parte dell’incertezza complessiva. Nello schema questo lo possiamo rappresen-
tare come:

X Y Z W
S1 S2 S3

Qcd4ce4f4 cfgc\^d4g h 4 h) 4) hB 4B

Oltre all’ingresso X, entra nella catena un qualcosa che non conosco ma di cui conosco lo scarto
tipo e che è legato proprio allo strumento. Alla parte Y = S1 X si aggiunge una parte dovuta allo

42
Realizza i CAMPIONI FONDAMENTALI. Deve garantire il
BIPM confronto tra i suoi campioni e quelli degli Istituti Nazionali.

E’ l’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica che opera in Ita-


INRIM lia e ha sede a Torino. Dispone di campioni che confronta
con quelli del BIPM. Inoltre ne crea di propri che fornisce ai
laboratori di taratura, LaT, (ex SIT) dislocati sul territorio na-
zionale.

LaT(ex SIT) LaT, Laboratori di Taratura accreditati (in precedenza SIT,


Servizio Italiano taratura). Dispongono di campioni di riferi-
mento certificati dall’INRIM. Questi centri sono quelli che si
interfacciano direttamente con gli utenti/aziende per la tara-
UTENTI tura dei loro strumenti/campioni con quelli di riferimento.

La taratura LaT ha un costo. Quindi se voglio tarare il mio strumento o verificare il mio “campione di
metro”, devo pagare. Molti strumenti che troviamo in commercio non hanno la certificazione LaT e
sono stati tarati sfruttando campione privi di riferibilità, non necessariamente hanno prestazioni infe-
riori a quelli con taratura LaT semplicemente non vi è la garanzia di riferibilità.

Cosa succede per l’incertezza passando dal BIPM al LaT? Questa ovviamente aumenta. I campioni
fondamentali hanno la minima incertezza, in qualche caso come per i campioni materiali incertezza
nulla perché rappresentano la definizione delle quantità. Quando vado a confrontarmi con i campioni
l’incertezza aumenta per effetto dell’incertezza associata al metodo/strumento di confronto. Anche i
costi dei campioni aumentano passando però dal LaT al BIPM, quindi in direzione opposta all’au-
mento dell’incertezza. I campioni del LaT costano relativamente poco, rispetto a quelli dell’INRIM
che impegnano un’attività di ricerca e miglioramento continua.

Il Politecnico ha, come anche molte aziende laboratori accreditati Lat. Per le aziende che hanno
molti strumenti da tarare può infatti essere conveniente avere un centro LaT piuttosto che rivolgersi
a laboratori esterni.

I punti essenziali della lezione precedente:

Valutazione di INCERTEZZA ESTESA:

K=1 LC = 68%
fghfg* =K h ij Questa corrispondenza
K=2 LC = 95% è vera per una distribu-
K = FATTORE DI COPERTURA zione Gaussiana
K=3 LC = 99,7%

L’incertezza estesa altro non è che il prodotto dell’incertezza tipo moltiplicata per il fattore di coper-
tura. La cosa importante da ricordare sono i tre valori del fattore di copertura relativi ai vari campi di
Livello di Confidenza. L’ipotesi Gaussiana è quella che viene sempre richiesta di applicare all’interno
degli esercizi. Al limite verrà chiesto di annotare negli esercizi, nel caso di approccio tipo “A” e basso
numero di misure, che l’ipotesi Gaussiana decade solo quando abbiamo una valutazione dell’incer-
tezza di tipo “A” con un numero di elementi (n misure) abbastanza basso. Sicuramente se n < 20,
dubbio se 20 < n < 100, mentre è sicuramente valida l’ipotesi Gaussiana se n > 100.
Se non è valida l’ipotesi Gaussiana c’è sempre la distribuzione t-student che ci consente di determi-
nare il fattore di confidenza sulla base del numero di gradi di libertà (n-1) e del Livello di Confidenza.

REGOLE DI SCRITTURA:
22
Zi L’equivalente di una rete elettrica complessa è sempre un ge-
a neratore di tensione e una impedenza (o resistenza). Quindi
posso vedere il mio sistema su cui faccio la misura come un
generatore e un’impedenza interna.
Voltmetro

Vg Zm Io devo misurare la tensione tra i morsetti “a” e “b”. La V ideale


in assenza di strumenti di misura è ovviamente la Vg non cir-
colando corrente nel circuito.
b VID = Vg
Collego ora il misuratore ai morsetti “a” e “b”. Qual è la V che
misuro? Calcolo la corrente e tolgo dalla Vg la caduta di
tensione sulla Zm. Quindi:
s
I = Vg/(Zm + Zi) ⟹ Vm = Vg – Zi I = Vg – Vg
so . s

ε = no npqr nqr = nont nt =- v


ERRORE DI INSERZIONE PER UN VOLTMETRO
. u ow
v

Un voltmetro ideale deve avere impedenza infinita e comunque l’errore di inserzione è legato al
rapporto tra la sua impedenza e quella del sistema. Questa relazione non vale solo per il campo
elettrico. In molti settori, vedi per esempio quello meccanico e termico, posso avere un termine equi-
valente all’impedenza che posso inserire nella relazione sopra, quindi al posto delle impedenze elet-
triche metterò quelle del sistema su cui sto lavorando.

Vediamo ora il caso di un Amperometro e andiamo a verificare se la relazione prima scritta per il
voltmetro è ancora valida. La risposta è NO, perché se metto un Amperometro la condizione
Zi ideale, cioè assenza di effetto di inserzione, non è il circuito
aperto bensì il circuito cortocircuitato.
Facendo i vari calcoli trovo:
Amperometro

ERRORE DI INSERZIONE PER UN AMPEROMETRO


A
ε = no npqr nqr = - .D
v
F
vo

cioè Voltmetro e Amperometro devono avere caratteristiche


opposte.

I punti essenziali della lezione precedente:

CATENE DI MISURA

Y Z W
S1 S2 …… Sn

4 4) 4x

In una catena di misura con la presenza di più trasduttori che ipotizziamo a comportamento lineare,
abbiamo che la sensibilità equivalente è il prodotto della sensibilità dei singoli e quindi:

W = S1 S2…Sn X

con 4i = j 4 H) HB … Hx ) 4) HB Hz … Hx ) ⋯ 4x)

44
"m
Dato 4i per tornare 4 dividiamo per 4 =
J J Jl … J|

ERRORE DI INSERZIONE

ε=- v
caso MISURA DI TENSIONE
. u ow
v}~
no p nqr
ε= nqr
ε=- v}~ caso MISURA DI CORRENTE
.D F
vo

E’ il rapporto tra la differenza che misuriamo con il nostro strumento e quello che avremmo misurato
se il nostro strumento non avesse alterato il sistema, con quest’ultimo valore e cioè con la misura
se lo strumento non avesse alterato il sistema. Questo errore assume due espressioni diverse nel
caso elettrico andando a considerare un circuito equivalente di impedenza Zeq. A seconda della
quantità che misuriamo abbiamo bisogno di strumenti di misura con caratteristiche opposte. Il misu-
ratore di tensione deve avere un’impedenza Zm la più grande possibile, mentre il misuratore di cor-
rente la deve avere la più piccola possibile.
Queste due espressioni le troviamo anche negli altri campi, meccanico e termico, dove possiamo
trovare dei parametri equivalenti alle impedenze elettriche. Se prendo, per esempio, il campo mec-
canico e faccio un analogia rispetto a quanto avviene in quello elettrico, se devo misurare uno spo-
stamento o una velocità, il mio misuratore non deve esercitare alcuna forza, quindi se il misuratore
ha una rigidezza, questa deve essere idealmente nulla. Se invece devo misurare una forza e quindi
il misuratore si va ad inserire tra due elementi che si scambiano una forza, affinché non alteri il
sistema dovrà avere una rigidezza teoricamente infinita.

------------ ooo ------------

45
Dato per tornare dividiamo per =

ERRORE DI INSERZIONE

ε=- caso MISURA DI TENSIONE

ε=
ε=- caso MISURA DI CORRENTE

E’ il rapporto tra la differenza che misuriamo con il nostro strumento e quello che avremmo misurato
se il nostro strumento non avesse alterato il sistema, con quest’ultimo valore e cioè con la misura
se lo strumento non avesse alterato il sistema. Questo errore assume due espressioni diverse nel
caso elettrico andando a considerare un circuito equivalente di impedenza Zeq. A seconda della
quantità che misuriamo abbiamo bisogno di strumenti di misura con caratteristiche opposte. Il misu-
ratore di tensione deve avere un’impedenza Zm la più grande possibile, mentre il misuratore di cor-
rente la deve avere la più piccola possibile.
Queste due espressioni le troviamo anche negli altri campi, meccanico e termico, dove possiamo
trovare dei parametri equivalenti alle impedenze elettriche. Se prendo, per esempio, il campo mec-
canico e faccio un analogia rispetto a quanto avviene in quello elettrico, se devo misurare uno spo-
stamento o una velocità, il mio misuratore non deve esercitare alcuna forza, quindi se il misuratore
ha una rigidezza, questa deve essere idealmente nulla. Se invece devo misurare una forza e quindi
il misuratore si va ad inserire tra due elementi che si scambiano una forza, affinché non alteri il
sistema dovrà avere una rigidezza teoricamente infinita.

------------ ooo ------------

45
CONVERSIONE ANALOGICO/DIGITALE

L’uscita di quasi tutti i sistemi di misura è attualmente di tipo numerico con il vantaggio che tutti i dati
legati a delle operazioni di misura possono essere memorizzati e successivamente elaborati da un
calcolatore. In passato invece era rappresentata da, per esempio, un ago o da una colonnina che si
spostavano su una scala graduata, quindi “uscite visive” e “analogiche” che potevano essere lette
da un operatore. Per avere un’uscita numerica bisogna fare quell’operazione che va sotto il nome di
conversione analogico/digitale o con un acronimo A/D.
I registratori su carta usati spesso in passato con i termometri per vedere l’andamento della varia-
zione della temperatura nel tempo, rappresentano abbastanza bene quello che avviene ad una gran-
dezza di tipo analogico. Questo tipo di grandezza, infatti, è rappresentata da una curva continua nel
tempo.

Temperatura (Y)

T2
T1

t1 t2 Tempo (X)

La continuità nel tempo ha due aspetti che dobbiamo affrontare per passare da una rappresenta-
zione analogica ad una digitale. Se la grandezza assume, per esempio, i valori di temperatura T1 e
T2, assume anche qualsiasi valore intermedio tra T1 e T2, quindi tra due punti ci sono compresi altri
infiniti punti. E’ gestibile da un calcolatore una infinità di punti compresa tra due punti qualsiasi?
Ovviamente no, quindi un calcolatore interromperà questa continuità e ci fornirà solo valori discreti.
Il primo aspetto sarà quindi che:

1) I VALORI DI “Y” VENGONO DISCRETIZZATI


L’altra continuità è quella nel tempo. Se io osservo un qualunque fenomeno all’istante t1 e all’istante
t2, il fenomeno esiste anche in qualsiasi istante intermedio. Quindi anche nel tempo ho infiniti valori
tra due qualsiasi punti. Se vogliamo memorizzare su un calcolatore il fenomeno non potremmo me-
morizzare infiniti punti e quindi anche nel tempo quello che avremo sarà una discretizzazione:

2) CAMPIONAMENTO A TEMPI DISCRETI 0, Δt, 2Δt, …. NΔt


Mentre prima avevamo una funzione continua ora abbiamo una serie di valori al tempo 0, Δt, 2Δt
fino a NΔt. Ci saranno quindi dei tempi ben definiti in corrispondenza dei quali il mio sistema di
conversione analogico/digitale fotograferà il valore della grandezza in quel momento.

La discretizzazione qui sopra evidenziata ci porta a degli errori di misura. Andiamo ad analizzare
prima quelli dovuti alla discretizzazione dell’asse delle ordinate per poi vedere quelli dell’asse delle
ascisse.
Il nostro convertitore analogico/digitale che di solito viene indicato con il simbolo A/D, è un trasdut-
tore, cioè un qualcosa che trasforma una grandezza, che è sempre una tensione elettrica, in un’altra
46
TARATURA STATICA DEGLI STRUMENTI DI MISURA
Questo argomento è importante non tanto perché ci troveremo frequentemente a fare tarature di
strumenti, ma per il fatto che da questa si evidenziano quei parametri riportati nelle schede tecniche
o nei certificati di taratura che noi andremo ad utilizzare assieme agli strumenti. É quindi importante
sapere il loro significato dato che da esso dipende il corretto utilizzo.
Lo strumento nell’operazione di taratura viene rappresentato come una “scatola nera”, cioè un og-
getto che ha un ingresso e un’uscita ma di contenuto sconosciuto:

STRUMENTO

INGRESSO ????? USCITA


X y

Il nostro problema è capire come un ingresso viene elaborato dal nostro strumento per ottenere poi
l’uscita, cioè come da x passo a y. Quando usiamo lo strumento noi cosa vogliamo? Ipotizziamo che
lo strumento abbia, per esempio, come ingresso una forza e come uscita, nel caso più semplice di
una bilancia, una rotazione di un indice. L’operazione che vogliamo fare è partire dall’angolo di ro-
tazione dell’indice e individuare il valore della forza in ingresso, cioè la vera relazione che ci interessa
è quella tra uscita ed ingresso cioè l’inversa di quella ottenuta in taratura.

La prima cosa che dobbiamo evidenziare è che solo uno strumento ideale è a singolo ingresso. Al
contrario in una bilancia reale, per esempio, lo spostamento dell’indice non sarà solo legato al peso
applicato, ma anche all’azione della temperatura che agirà sulla deformazione dei materiali dei vari
leveraggi ecc.. Quindi nel caso reale che andremo a trattare non parleremo più di INGRESSO, bensì
di ingressi: l’INGRESSO PRINCIPALE (voluto e che si vuole misurare) e gli INGRESSI di DI-
STURBO.

STRUMENTO

INGRESSO PRINCIPALE (x) USCITA (y)


(voluto)

INGRESSI DI
DISTURBO

Se voglio misurare una forza, l’ingresso principale è la forza stessa, mentre gli ingressi di disturbo
rappresentano qualsiasi altra grandezza, esclusa ovviamente la forza, che mi danno un effetto
sull’uscita e in generale questi ingressi sono più di uno. Il sistema in questo modo si è ovviamente
complicato abbastanza, perché anziché avere una sola relazione ingresso-uscita ora ho “n” relazioni
per gli “n” ingressi.
La prima operazione che facciamo è quella di congelare tutti gli ingressi di disturbo.

1. AMBIENTE CONTROLLATO: INGRESSI DI DISTURBO STABILI E MISURATI


Tutti i laboratori di taratura hanno un ambiente controllato all’interno del quale i parametri ambientali
come temperatura e umidità sono misurati e in molti casi stabilizzati.

2. INGRESSI PRINCIPALI “NOTI” <

27
con la politica binaria, il primo, il valore “zero”, sarebbe 0 0 0, il secondo, il valore “uno”, 0 0 1, e così
via fino ad arrivare al “sette” con 1 1 1. In pratica non riesco a scrivere il valore “otto”, dato che gli
otto numeri che ho voluto rappresentare includono anche lo zero. Questo vuol dire che il Fs non
riuscirò a scriverlo avendo fatto questa scelta. Ovviamente questa non rappresenta per noi l’uscita
numerica ideale dal calcolatore. La più semplice potrebbe essere quella di dare i numeri dall’1 all’8,
anche se l’8 non me lo può dare perché avrebbe bisogno di 1 bit in più. Questa scrittura esadecimale
è migliore di quella binaria, ma anche questa non è proprio quella ottimale. L’8 che dovrebbe corri-
spondere al 10 non mi dà la lettura che vorrei leggere. Tanto vale moltiplicare il tutto per l’LSB e
avere il valore di tensione corrispondente, quello che vediamo nella colonna “Lettura”.

Se in ingresso entra zero, in uscita mi aspetto altrettanto. Se entra 1,25 V non ci sono problemi dato
che l’uscita corrisponderà al medesimo valore, così come per una tensione da 2,5 V ecc.. Il problema
è decidere cosa fa il convertitore quando entra, per esempio, 1 V. Se entra questo valore, il conver-
titore A/D può dare, non essendo l’uscita continua ma discreta, o 0 V oppure 1,25 V. La migliore
soluzione è quella per cui il convertitore A/D faccia l’errore minore e quindi faccia l’arrotondamento
al digit più vicino. Per avere l’errore minore divido l’intervallo in ingresso esattamente a metà. Se
sono al di sotto della metà dell’intervallo prendo il valore più basso, se sono sopra quello più alto.
Per il mio 1 V il punto di cambio di lettura sarà 0,625 V. Essendo al di sopra di questo valore, in
uscita avremo 1,25 V. Quindi se io vado a disegnare il reale comportamento del mio convertitore
A/D, questo non è dato dalla retta continua inclinata, bensì dalla spezzata in grassetto. Questo com-
portamento l’abbiamo già visto per la risoluzione dello strumento, quindi questo è uno strumento
affetto da risoluzione.

Questa vale 1,25 V che ≡ con LSB ≡ RISOLUZIONE


* +
Quindi l’incertezza tipo strumentale sarà pari a % =
" √-

E’ interessante andare a vedere qual è l’errore per le varie misure. Indichiamo con ε = VL – X il nostro
errore come differenza tra il valore letto (VL) e quello in ingresso (X):

ε = VL - X

0,625

10 V X
- 0,625

0,625 1,25 1,875 2,50 8,75

Se mi trovo nell’intervallo 0 ÷ 0,625, il valore letto è 0, quindi l’errore sarà ε = 0 – X = - X, quindi in


questo intervallo l’errore è rappresentato da una retta inclinata di – 45° con equazione ε = - X.
Nel punto 0,625 il valore di ε = 0,625 – 0,625 = 0, appena dopo lo 0,625 l’errore diventa
ε = 1,25 – 0,625 = 0,625, quindi l’errore passa da -0,625 a +0,625. Se vedo l’errore nel punto 1,25,
questo è pari a ε = 1,25 – 1,25 = 0 e così via. L’andamento è quello di un diagramma a dente di
sega in cui i punti passanti per lo zero coincidono con i punti di lettura, quindi 0, 1,25, 2,50 ecc.
L’ultimo punto interessante è quello dell’8,75 per il quale l’errore è pari a zero. Ma se vado oltre,
quindi do 10 V, 20V…100V, cosa succede?

48
La lettura strumentale sarà sempre di 8,75 perché lo strumento non riesce a fornire letture superiori,
quindi l’errore aumenterà sempre di più all’aumentare della X assumendo quindi valori negativi sem-
pre più grandi: 8,75 – 10; 8,75 – 20;…8,75 – 100 e così via. Quindi l’errore a partire dall’ultima lettura
diventa grande a piacere. Stesso discorso per eventuali ingressi negativi. La lettura strumentale sarà
sempre pari a 0, ma l’errore aumenterà sempre più con valori positivi: 0 – (-X) = +X. Se metto -1 V
l’errore sarà +1 V e così via.
Se dobbiamo mettere l’incertezza di misura al nostro strumento, il cui comportamento abbiamo gra-
ficamente rappresentato sopra, diremo che:

* +
%= per tutti i valori esclusi gli estremi della scala, quindi 0 e 10 V, cioè / e / ,
" √-
dato che per questi l’errore può andare da - ∞ a +∞.

Se leggo sullo strumento zero o leggo il fondo scala positivo concludo che il mio strumento è andato
fuori scala, cioè non posso sapere qual è il reale ingresso. Questo discorso vale anche per tutte le
varie tipologie di strumenti.

Questa è l’incertezza minima ed è legata alla discretizzazione fatta dallo strumento sul segnale in
ingresso, quindi alla risoluzione. Questa non è comunque la sola incertezza del convertitore, dato
che possono entrare in gioco anche tutte quelle viste in precedenza (isteresi, la non linearità, le
derive, le sensibilità alla temperatura). Di fatto, però, quando l’LSB è molto grande, in genere fino a
convertitori a 12 bit, la risoluzione copre quasi tutte le altre cause di incertezza. Quindi mi basta
valutare l’incertezza della risoluzione e ho l’incertezza del convertitore.

La SENSIBILITA’ di un convertitore A/D è pari, in condizioni ideali, a 1. Infatti, considerando la


linearità del dispositivo, e considerando che è pari alla derivata dell’uscita rispetto all’ingresso
(dx/dy), ad un ingresso di 5 V mi corrisponde un’uscita numerica pari a 5.

2 (456789)
S = 2 (;74< 947) = 1 V-1 cioè la sensibilità è pari a 1 con unità di misura pari a V-1

I convertitori più recenti arrivano a 24 bit. Calcolando l’incertezza su 24 bit questa viene piccolissima.
In quel caso dovrò guardare la scheda tecnica del convertitore nella quale mi diranno che la sensi-
bilità può derivare di uno 0.1% (come esempio, questa è una enormità per uno strumento reale)
dopo un anno dalla taratura.
Per DERIVA DI SENSIBILITÀ si intende che la Sensibilità anziché essere 1 V-1 diventa magari
1,001 V-1, questo si traduce nel fatto che l’uscita 8 (V) corrisponde all’intervallo di ingresso 8/1.001
±0.5LSB cioè mi cambiano i punti ideali di conversione. Vediamo come si valuta l’errore di lettura
corrispondente, quindi come trasformare un’incertezza sulla Sensibilità in un’incertezza sulla X.

Come sappiamo Y = S X quindi X = Y/S. Se S ha un’incertezza, considerando che il rapporto scritto


è l’equivalente di un prodotto, potremo utilizzare la relazione delle incertezze relative e quindi scri-
vere (su Y non stiamo ipotizzando nessuna incertezza):
%= %
= cioè l’incertezza relativa sulla X è uguale all’incertezza relativa sulla Sensibilità
>
Quindi se la mia Sensibilità può variare del 5% vuol dire che l’incertezza su quello che leggo sarà
del 5%. Se voglio il valore assoluto, se sto leggendo 1 V sarà il 5% di 1 V.

Quindi si deve fare molta attenzione nella scelta dello strumento. Anche se è un convertitore a 24
bit (molto utilizzati in acustica) dobbiamo tener conto di tutte le derive, sensibilità a temperatura ecc.
perché può essere che a causa dei vari errori gli ultimi 2 o 3 bit non risultino più significativi. Quindi
bisogna sempre valutare, quando il convertitore è superiore ai 12 bit, che l’incertezza non sia signi-
ficativamente maggiore di quella di risoluzione.

49
S/H A/D

Al convertitore viene spesso associato un elemento che si chiama SAMPLE AND HOLD (S/H) (cam-
piona e conserva). Questo dispositivo “congela” la tensione ad un certo istante e ne rende disponibile
il valore costante all’A/D per tutto il tempo che serve a quest’ultimo per fare la conversione. Per
capire meglio la funzione svolta da questo dispositivo, parliamo dei convertitori cosiddetti ad appros-
simazioni successive. Dal grafico prima tracciato vediamo che se la tensione in ingresso è maggiore
di 5, tutte le codifiche binarie superiori all’indicazione 5 hanno in comune il primo numero che è “1”.
Per fare la conversione A/D il convertitore confronta la tensione con quella di 5 V (se il Fs è 10 come
nel nostro caso). Se la tensione è maggiore di 5 V mette a “1” il primo bit. I valori corrispondenti a
tensioni maggiori di 7,5 hanno in comune il secondo bit che è “1”. Genera allora 7,5 V e la confronta
con la tensione in ingresso. Se la tensione è più grande di 7,5 mette “1” al secondo bit altrimenti “0”.
Se è più piccola deve allora decidere se è 6,25 o 7,5 e qui mi basta generare un 6,25. Per fare tutto
questo serve del tempo. Se il segnale in ingresso nel frattempo cambia, il secondo confronto non ha
più senso considerando la variazione subita dalla tensione. L’S/H congela la tensione all’istante “t”
e la rende disponibile costante all’A/D per tutto il tempo che serve per la conversione.

L’importanza dell’S/H la vediamo bene all’interno dei sistemi di acquisizione dove succede spesso
che un ho solo convertitore A/D ma più ingressi. Al convertitore vengono successivamente passati i
vari ingressi. Per esempio ho 4 canali di ingresso e faccio leggere in successione i 4 canali, cioè per
ogni acquisizione legge prima il canale 1, poi il 2 e così via grazie ad un Multiplexer (o MUX), cioè
un dispositivo, una sorta di selettore, capace di selezionare un singolo segnale elettrico fra diversi
segnali.

STRUTTURA SINCRONA

1
S/H

M
2
S/H U
A/D
X

n
S/H

Anche qui devo avere un dispositivo che mi congela i segnali in ingresso al tempo “t” per renderli poi
disponibili e costanti per il tempo necessario al MUX. Qui arrivano gli “n” canali dai S/H e questi
vengono poi indirizzati uno alla volta, prima il numero 1, poi il 2 fino all’n, verso l’A/D. Tutti i canali
sono campionati allo stesso momento.

STRUTTURA ASINCRONA
50
1

M
2
U S/H A/D
X

Un’alternativa al primo caso visto è quella qui sopra rappresentata. Qui il MUX quando deve leggere
il canale 1 lo connette all’S/H che lo congela il tempo necessario alla conversione e così via. Essendo
unico il S/H congela ogni canale ad un tempo diverso, con una distanza di tempo pari a quella
impiegata per fare una lettura. Non ho più una simultaneità nella lettura ma ci sarà un ritardo tra un
canale e l’altro. Questa struttura è detta Asincrona mentre la prima Sincrona.

Tra i due, il primo sistema è quello preferibile perché ho l’acquisizione sui vari canali fatta allo stesso
istante. Il secondo è comunque il più comune perché risparmio componenti. Altro motivo per il quale
è preferibile è che quando il convertitore ha pochi bit (10 o 12 bit) mi conviene avere un altro com-
ponente nella catena che è un AMPLIFICATORE, cioè un oggetto che se entra una tensione di 1 V
può farla risultare 10 V, 100 V ecc. a seconda della mia scelta su quello che viene detto il “GUA-
DAGNO”, cioè il fattore di amplificazione.

Vediamo perché è importante l’amplificatore. Supponiamo di avere uno strumento che ha un Fs di


100 mV. Quindi so che devo leggere qualcosa pari a X <100 mV.
Posso scegliere una soluzione a) con un convertitore a 10 bit e Fs= 0 ± 10 V a cui posso mettere in
ingresso un amplificatore con un guadagno (cioè la sensibilità di questo dispositivo) che può essere
0,1; 1; 10; 100, oppure una soluzione b) con un convertitore A/D a 16 bit.

0,1; 1; 10; 10; 100 10 bit

a) X Lettura Fs= 0 ÷ 10 V
A A/D

16 bit

b) X Lettura Fs= 0 ÷ 10 V
A/D

con X ≈ 100 mV.


Vediamo quale delle due soluzioni è preferibile. Per fare il confronto ipotizzo che la sola incertezza
sia introdotta dalla risoluzione del convertitore A/D. L’incertezza dovuta al secondo sistema la deter-
miniamo velocemente dato che è:

51
soluzione b)

A B ' ' '


= con LSB =
DE DE!
quindi H/J = K
= =
( √C ( FG ( ( √C L22CL ( √C

non avendo null’altro sulla catena, cioè il solo A/D.

soluzione a)

' ' '


H/J = M
=
( ( √C '(N ( √C

Apparentemente sembrerebbe più conveniente la soluzione b). Però questa non è l’incertezza equi-
valente della misura di X. Per passare da alla X devo dividere per la sensibilità. Quindi, ipotizzando
un guadagno e quindi una Sensibilità dell’amplificatore pari a 100 dato che con un ingresso da 100
mV ottengo 10 V e quindi mi adatto perfettamente al Fs dell’A/D avremo:

' '
=
O/
= = ora sarebbe questa la soluzione preferibile.
'(N ( √C '' '(N'' ( √C

Grazie all’amplificatore, malgrado l’A/D abbia un’incertezza maggiore di quella del caso b), l’incer-
tezza complessiva viene ridotta rendendo questo sistema più accurato dell’altro.

Questa nuova rappresentazione farebbe preferire la soluzione a) alla b), ma non sempre è così.
Supponiamo ora di avere un sensore che al posto di avere 100 mV di Fs abbia 2 V di Fs (diverso
sensore o scelta sbagliata).
Se mando questo nuovo segnale X in ingresso nel primo sistema non posso più tenere l’amplifica-
zione 100 ma dovrò optare per la 1 per evitare di andare oltre il Fs dell’A/D.
In questo caso la soluzione b) continuerà ad avere la medesima incertezza, mentre per la a) le cose
cambiano.
' '
=
O/
= =
'(N ( √C '(N ( √C

In generale è quindi preferire il secondo sistema dato che è meno problematico del primo per il quale
si devono avere informazioni preliminari su quello che si misura per adattare l’amplificazione. In
qualche caso, però, il primo è ancora preferibile. Per esempio se i dati li ho raccolti con un cellulare
e li devo poi mandare da un’altra parte. Nel primo caso sono dati a 10 bit nel secondo a 16 bit quindi
il volume di dati maggiore del 60%. Per trasmettere la medesima misura devo trasmettere nel caso
b) un volume di dati che è una volta e mezza quelli del caso a).

52
funzioni non lineari, dal punto di vista dell’effetto che abbiamo sul segnale è molto più vantaggioso
avere delle relazioni lineari perché non ci deformano il segnale. Quello che abbiamo in ingresso ci
può uscire con un differente fattore di scala, ma con la stessa forma di prima.

IMPORTANTE: LA RELAZIONE LINEARE È QUELLA CHE VORREMMO SEMPRE AVERE

y Nel nostro caso, invece di usare più rette per


costruire una spezzata potremmo cercare di
mettere una retta che approssimi al meglio tutti
i punti. Il criterio di scegliere la retta migliore tra
tutte le infinite presenti è quello di mettere quella
che determina degli errori, cioè delle distanze
punto-retta, che siano le più piccole possibili. Se
metto queste distanze le dovrei ovviamente
mettere in valore assoluto perché se le prendo
positive e negative alla fine potrei avere che la
somma delle distanze vada a zero solo per la
compensazione delle parti positive bilanciate da
X1 X2 X3 X4 X quelle negative. Invece delle distanze semplici,
si prendono le distanze al
quadrato in modo tale che siano sempre positive. Cerco quindi la condizione in cui:
∑ sia MINIMA
Qui ho due parametri liberi che sono “m” e “q”. Devo affrontare un “banale” problema di minimo. I
due valori di “m” e “q” che mi danno il minimo sono:

∑ ! !
con = ∑" e = ∑"
 
m= per “p” punti
∑  ! !

q=–m

Tra tutte le possibili rette che potevamo tracciare quella che minimizza la somma dei quadrati delle
distanze tra i nostri punti sperimentali e la retta è quella che ha “m” e “q” prima riportati.
Richiamiamo ora l’attenzione su questa somma dei quadrati:
!
SQ = ∑" #$" %&" ' ()
h
la distanza h rappresenta la distanza tra il nostro punto e quello sulla retta avente la stessa ascissa.
Sono quindi dei piccoli segmenti e il fatto di sommarli tutti mi dà un indice di quanto sono distanti i
punti rispetto alla retta. Se vogliamo però avere un parametro che mi dica quanto sono mediamente
distanti i punti dalla retta, si divide la relazione sopra per “p-2” e mettendo poi tutto sotto radice
quadrata ottengo:

+, ∑ # . (
*- =* = SCARTO TIPO DI LINEARITA’ = sy
) ! )

Si mette p-2 per il fatto che dei punti di partenza in pratica ne ho estratti due che sono “m” e “q” e
quindi i punti teoricamente liberi rimasti anziché essere pari a “p” sono pari a “p-2”. Si chiama scarto
tipo di linearità perché ci ricorda uno scarto tipo, cioè una distanza quadratica media dei punti. Lo
avevamo visto come scarto tipo nella misure ripetute. In quel caso era la distanza quadratica media
dei punti rispetto alla loro media. Qui è la distanza quadratica dei punti rispetto al loro modello che
è la relazione lineare, ma concettualmente è la stessa cosa. Questa allora sarà:

29
A B
INCERTEZZA DEL CONVERTITORE: H/J =
( √C

Questa è tutta l’incertezza del convertitore quando abbiamo convertitori con una risoluzione relati-
vamente bassa, quindi 10, 12 o 16 bit. Con questo termine copriamo tutte le incertezze. Quando
abbiamo convertitori con risoluzioni più alte dobbiamo andare a cercarci anche le altre caratteristiche
che determinano l’accuratezza e quindi avremo delle derive dello zero, delle sensibilità alla tempe-
ratura che aumentano ancora l’incertezza ecc. che andremo a combinare tra loro.

Se abbiamo un convertitore e aggiungiamo un amplificatore in ingresso possiamo variare la risolu-


zione equivalente del convertitore. Di fatto, però, è come cambiare il fondo scala del convertitore
trasformandolo nel fondo scala originale moltiplicato per il guadagno dell’amplificatore. La formula
che possiamo usare è la stessa se teniamo conto che il Fs anziché essere quello direttamente all’in-
gresso del convertitore è quello all’ingresso della catena amplificatore più convertitore. A questo
punto la formula da utilizzare è sempre la stessa.

------------ ooo ------------

Quando abbiamo parlato di conversione A/D abbiamo visto che un aspetto è la discretizzazione della
scala delle Y, ed è quello che abbiamo già visto, l’altro aspetto è la discretizzazione dei tempi. Non
potremmo avere la conoscenza del nostro segnale per qualsiasi tempo, ma il segnale andrà cam-
pionato a tempi che sceglieremo inizialmente. Quindi dal segnale inizialmente continuo, dopo il cam-
pionamento, sia per l’asse delle X sia per quello delle Y, non avremo più un segnale continuo ma
campionato. Quest’ultimo per i tempi 0, Δt, 2Δt, 3Δt ecc. da noi scelti che comunque non potranno,
come è d’altronde immaginabile, essere scelti in modo del tutto arbitrario.

X(t)

0 Δt 2Δt 3Δt tempo


0 Δt 2Δt

Se infatti prendo, per esempio, intervalli di tempo troppo grandi, vedi i Δt, 2Δt indicati e poi congiungo
tra loro i punti ottenuti otterrei una spezzata poco significativa che ha ben poco a che fare con il
segnale originale, non così per i Δt più piccoli (0, Δt, 2Δt, 3Δt) che danno origine ad una spezzata
che ricalca l’andamento del segnale originale. Intuitivamente, più piccolo è l’intervallo di campiona-
mento, cioè più piccolo è il Δt, e meglio riesco a riprodurre l’andamento del segnale originale. Il
problema è vedere se c’è un Δt minimo al di sotto del quale non ha senso spingersi per renderlo più
piccolo oppure, al contrario, se c’è un Δt tale che se vado oltre quell’intervallo comincio ad acquisire
in maniera errata il segnale.
Per farlo vediamo quello che succede su un segnale sinusoidale al quale possiamo sempre ricon-
durci come vedremo meglio in seguito. Infatti tutti i segnali tenderemo a ricondurli a somme di segnali
semplici e in modo particolare a somma di sinusoidi per valutare facilmente come vengono elaborati
dagli strumenti di misura.

54
In primo luogo definiamo:

Δt = INTERVALLO DI CAMPIONAMENTO

= FREQUENZA DI CAMPIONAMENTO = fc
∆R

La fc, se considero 1 a numeratore come un secondo, mi dice quanti campioni acquisisco in 1 s. Se


ho una fc pari a 10 Hz, vuol dire che in 1 s metto via 10 campioni.

X(t) Ts
A C E

0 t

B D F
(Caso 3) Ta = 3 Ts

Ts = periodo del segnale, cioè della sinusoide ST


= frequenza del segnale

Proviamo a campionare la nostra sinusoide utilizzando degli intervalli di campionamento sempre più
grandi per vedere se c’è un limite oltre il quale succede qualcosa di strano.
U
CASO 1) Δt = V WX ⟹ fc = 4 fs ottengo i punti sulla nostra curva.
Dopo il campionamento perdo delle informazioni del segnale di partenza. Per esempio perdo tutte
le informazioni tra i punti 0 e A. Se mi trovo con un segnale campionato e quindi formato da tutti i
punti per dare un senso a questa informazione unisco i punti tramite una spezzata (quella rossa in
figura). Se confrontiamo la sinusoide di partenza con quello che abbiamo ottenuto, il segnale non è
ovviamente più quello originale, ne perdo il dettaglio della forma, ma mi ritrovo con alcune delle sue
caratteristiche importanti. Queste sono il PERIODO e l’AMPIEZZA.

Dati positivi Caso 1) PERIODO CORRETTO


AMPIEZZA CORRETTA

Per l’ampiezza mi sono messo in una condizione particolare, dato che ho disegnato la sinusoide
partendo da zero, ma se campiono evitando il caso limite di avere la frequenza di campionamento
e del segnale uno un multiplo dell’altro riesco sempre a ritrovarmi l’informazione sulla massima am-
piezza, dato che prima o poi mi ritrovo questo punto. Quindi, in generale, dovrei riuscire a stimare
per questo particolare caso anche l’ampiezza del segnale di partenza.
Proviamo, con il prossimo esempio, a risparmiare punti di campionamento.
U
CASO 2) Δt = " WX ⟹ fc = 2 fs mi trovo tutti i punti sullo zero

In pratica AMPIEZZA NULLA, PERIODO T=0 ?

La spezzata si sovrappone all’asse dei tempi. Questo si traduce in un segnale completamente nullo,
quindi una situazione ovviamente non accettabile. Ma se anziché partire dal punto di intersezione
55
degli assi fossimo partiti dal punto A, mi sarei ritrovato con i punti A, B, C, D ecc., in pratica tracciando
la spezzata mi ritrovo nella stessa situazione del CASO 1). Quindi se anziché partire dall’asse indi-
cato, questo si sovrapponesse al punto A, in pratica passerei da una funzione seno ad una coseno
e riuscirei a campionarla in modo simile al CASO 1).
Quindi in questa situazione con fc = 2 fs se ho una funzione seno non vedo nulla, se ho una funzione
coseno la vedo correttamente. Qui abbiamo quella che si definisce una:

Sinusoidi NON SI VEDONO


SITUAZIONE AMBIGUA
Cosinusoidi SI VEDONO

Vediamo una situazione ancora più critica:


- V
CASO 3) Δt = WX ⟹ fc = fs otteniamo i punti 0, B, H, E….
V -

In questo caso otterrei la spezzata “linea – punto”. Abbiamo ancora un segnale a forma triangolare
come nel CASO 1), l’ampiezza assomiglia a quella corretta ma cambia il periodo del segnale origi-
nale e inoltre si è anche invertito il segno (da “+” seno a “-“ seno):
Tapparente = 3 Ts

AMPIEZZA CORRETTA

PERIODO ERRATO Ta = 3 Ts

In pratica abbiamo visto che se operiamo con frequenze di campionamento abbastanza alte rispetto
a quelle del segnale tutto funziona bene. C’è un punto critico che è quello per cui fc = 2 fs in cui a
volte il campionamento funziona bene, caso dei coseni, a volte funziona male, caso dei seni. Se
andiamo oltre la situazione è ancora peggiore perché otteniamo sempre una sinusoide, ma comple-
tamente diversa da quella reale, cioè otteniamo un andamento oscillante ma con un periodo di un
segnale che non esiste. Inoltre se io avessi sotto un segnale con una sinusoide proprio con quel
periodo pari a 3 Ts campionerei esattamente gli stessi punti, quindi dopo il campionamento non avrei
alcun modo di dire se erano punti di una sinusoide che aveva esattamente i massimi nei punti cam-
pionati oppure se questi sono venuti fuori casualmente e magari il segnale originale aveva altri mas-
simi intermedi che non sono riuscito a vedere. Questa è proprio la situazione peggiore che potrei
avere: vedo qualcosa che non esiste, cioè una sinusoide con una frequenza che non esiste, e non
riesco a distinguerla da una vera che fosse presente a quella frequenza.
Tutto questo si riassume in un teorema:
TEOREMA DEL CAMPIONAMENTO (o di SHANNON)
Per ottenere il campionamento corretto la frequenza di campionamento deve essere strettamente
maggiore della frequenza del segnale. In pratica ci dice che dobbiamo campionare con una fre-
quenza di campionamento pari a più del doppio della frequenza del segnale, quindi con fc > 2fs.
Inoltre, cosa molto importante, ci dice anche che se campiono correttamente è possibile ricostruire
il segnale continuo anche dopo averlo campionato.
In pratica è inutile eccedere nei punti di campionamento, dato che è sufficiente rispettare la condi-
zione fc > 2fs per poter poi ricostruire il segnale continuo.

Se non abbiamo alcuna informazione sul segnale in ingresso, cosa normalmente molto rara, dovrò
adattare il segnale al mio sistema di campionamento. Se il mio sistema può campionare al massimo
a 2 KHz, per campionare correttamente devo mettere un elemento (filtro) a monte per adattare il
segnale a quello che riesco effettivamente ad acquisire. Questo filtro mi elimina tutte le componenti
del segnale che si trovano oltre 1 KHz, per rispettare la condizione fc > 2fs. In questo caso non
campiono più il segnale di partenza, dato che ne ho eliminato una parte ma questo è la sola cosa
che posso fare. Quindi se non conosco niente del segnale in ingresso, allora parto con la massima
frequenza di campionamento consentita dal mio sistema eliminando con un apposito filtro le parti

56
del segnale che ne pregiudicherebbero il suo corretto campionamento (non rispetto del teorema di
Shannon). Acquisisco il segnale e guardo quello ottenuto. Potrei accorgermi che non c’è nel segnale
nulla oltre una certa frequenza e allora era inutile aver campionato a 2 KHz perché mi accorgo che
il segnale si caratterizza con frequenze fino a 200 Hz. A quel punto conosco il segnale e quindi so
che se devo acquisirlo di nuovo andrò a campionare con una frequenza di campionamento di, per
esempio, 420 Hz.

Se fc < 2fs si verifica un fenomeno che viene chiamato ALIASING. Questo è il fenomeno che ab-
biamo visto nell’esempio precedente campionando a 3/4 del periodo del segnale (Caso 3). Cioè
frequenze superiori a quelle che potrei campionare correttamente vengono trasformate in basse
frequenze inesistenti.
U
C’è anche una frequenza particolare fc = fNY = FREQUENZA DI NYQUIST
"
che rappresenta anche il limite delle frequenze che riesco a campionare correttamente (fny > fs), cioè
è la frequenza massima che rispetta il Teorema del campionamento.
Tutte le frequenze superiori alla fNY subiscono il fenomeno dell’ALIASING. Si può ottenere la fre-
quenza di Aliasing con un semplice diagramma. Se indico la frequenza di campionamento fc, a metà
metto la frequenza di Nyquist fNY. Se ho delle componenti in frequenza prima di fNY, ho una frequenza
di campionamento più che doppia rispetto a quella del segnale, quindi campiono correttamente.

f apparente in Aliasing
(
C
fs = ( fc

fa Δf Δf fs

0
C
fNY fs fc f
C

campiono correttamente non campiono correttamente


2fs < fc 2fs > fc
(frequenze tra 0 e fNY )
I segnali con frequenze superiori a fNY non vengono campionati correttamente dato che 2fs > fc. Un
segnale a questa frequenza viene ribaltato a frequenza più bassa. Questo segnale viene ribaltato in
modo speculare rispetto alla frequenza di Nyquist. Quindi la frequenza apparente, fa, è la simmetrica,
rispetto alla fNY, della frequenza del segnale fs.
Questo discorso torna perfettamente con quanto visto nel Caso 3). Infatti:
N (
fc = C fs fNY = ( fc = C
fs
3 ( (
Δf = fs - C fs = C f s quindi fNY – Δf = fs - C f s = C fs
3 C

Cioè la f apparente = fa = fs
C
quindi ottengo proprio un segnale con periodo pari a = Ta = 3 fs = 3 Ts come visto prima.
[\

Questo viene a volte rappresentato in modo semplice da un diagramma denominato:

57
+,
*- )
= INCERTEZZA TIPO DI LINEARITÀ = slinearità = / 0

Cioè l’incertezza tipo legata alla linearità dello strumento. Questo è un primo dato importante. Se
per uno strumento ci viene riportato lo “Scarto tipo di linearità” e a noi serve l’incertezza tipo per
quello strumento questo è già il parametro che ci serve.

C’è differenza tra queste due relazioni? y = S x y = mx + q


Abbiamo solo traslato la retta. Molto spesso per gli strumenti il traslare vuol dire aggiustare lo zero,
quindi di solito riesco ad annullare il “q” una volta fatta la retta di regressione, traslando lo zero della
scala. Quindi noi considereremo sempre per lo strumento la reazione del tipo y = S x.

S si chiama SENSIBILITA’ STATICA, cioè è il coefficiente angolare della retta


Purtroppo ci sono degli strumenti che non riusciamo a rappresentare con una relazione di tipo lineare
(vedi, per esempio, il tubo di Pitot). In questi casi abbiamo a volte una rappresentazione più compli-
cata. Consideriamo allora una definizione più ampia di Sensibilità statica:

1
SENSIBILITA’ STATICA IN GENERALE: S = (derivata dell’uscita rispetto all’ingresso)
1
Nel caso lineare S = cost, altrimenti sarà una funzione di x o y.

Siamo partiti dicendo che andavamo a stabilizzare l’ambiente bloccando tutti gli ingressi di disturbo.
Quando però andremo ad utilizzare lo strumento non saremo più, in generale, nelle stesse condi-
zioni. Taro per esempio un manometro nel nostro centro di taratura a T=24 °C e poi lo vado ad usare
con un T=-40 °C. La taratura fatta a 24°C è sufficiente per sapere il comportamento dello strumento
a -40°C? Se sappiamo a priori che, sulla base di come è costruito lo strumento la temperatura è
ininfluente stiamo tranquilli, altrimenti no. In generale se uno strumento è in grado di operare tra una
temperatura di -40 e 80°C ne devo fare una caratterizzazione in tutte le condizioni operative. In realtà
quello che si fa normalmente è la caratterizzazione ad una temperatura media (24°C), al minimo (-
40°C) e al massimo (80°C). Cosa ci dobbiamo aspettare dopo aver fatto una taratura a 24°C facen-
done poi una a -40°C? Se fosse uno strumento ideale uscirebbe la stessa retta di taratura, quello
reale ne avrà una leggermente diversa.
ANALISI DELLE GRANDEZZE DI DISTURBO: LA TEMPERATURA
Cioè l’analisi di quello che può fare una grandezza di disturbo (es. la temperatura), e quindi quello
che può cambiare sul nostro strumento.

b)
y La retta a) rappresenta la taratura a T=24°C ed è una
a) retta di equazione:
y = m1 x + q1 a T = 24 °C.
Ripeto l’operazione di taratura a T=-40 °C e ottengo
un’altra retta di taratura b) di equazione:
y = m2 x + q2 a T = - 40 °C.
A cambiare in generale sono i due parametri “m” e
“q”. Vengono distinti i due effetti come effetto modifi-
cante ed effetto interferente.
X

EFFETTO MODIFICANTE CAMBIA LA SENSIBILITA’


EFFETTO INTERFERENTE CAMBIA LA PENDENZA

30
Se restiamo nell’esempio dell’acustica noi vorremmo avere una banda passante a 20 kHz, il cam-
pionamento (con i filtri che si utilizzano comunemente) viene fatto a 44 kHz e quindi la frequenza di
Nyquist è a 22 kHz. Il tratto tra 22 kHz e 24 kHz (banda di transizione) è un tratto dove c’è Aliasing,
cioè tutto quello che c’è dopo i 22 kHz viene ribaltato nella zona tra 20 e 22 kHz. Questo non ci da
alcun problema dato che questa parte non verrà presa in considerazione nella riproduzione per la
quale ci interessa il solo tratto fino a 20 kHz.

Con questo abbiamo concluso la parte relativa alla conversione A/D. Quindi sappiamo che i due
effetti della discretizzazione del tempo e della discretizzazione dell’ambiente si ripercuotono per il
tempo nel fare attenzione a non commettere errori di Aliasing e per le ampiezze nel guardare se la
risoluzione sia compatibile con i miei requisiti di incertezza di misura.

Un convertitore A/D di basso costo (es100 euro) non conterrà un filtro anti-Aliasing, quindi sarà
nostra cura garantire di non commettere Aliasing. Nel caso si opti per un sistema che comprenda
anche un filtro anti-Aliasing che operi in un ampio campo di frequenze il prezzo tipicamente raddop-
pia. Se devo fare misure in campo termico spesso si omette filtro anti-Aliasing dato che i sistemi
termici sono normalmente caratterizzati da basse frequenze (la temperatura in genere varia “lenta-
mente” nel tempo).

ANALISI SPETTRALE
Il Teorema di Shannon ci dice che possiamo ricostruire il segnale per qualsiasi valore del tempo
anche dopo averlo campionato a intervalli di tempo discreti. La procedura che suggerisce il teorema
di Shannon è quella di prendere tutti i tempi e mettere sopra dei polinomi interpolatori. E’ una pro-
cedura molto complessa perché si basa su un processo che si chiama Convoluzione. Noi però riu-
sciamo a fare la stessa operazione passando attraverso l’analisi in frequenza. In pratica se ho un
segnale periodico, lo posso scrivere con lo SVILUPPO IN SERIE DI FOURIER.

X (t)

Ts Ts t

Se ho un segnale periodico nel tempo, vuol dire che si ripete in maniera perfettamente identica a
distanze pari al periodo del segnale (Ts). Per quale motivo diamo questa importanza ai segnali pe-
riodici che potrebbero sembrare dei casi molto particolari? Che utilità avrà nei casi pratici di misura
il fatto di saper rappresentare un segnale periodico? Ci sono due estremi: uno è quello in cui il
segnale è periodico su un periodo molto lungo, oppure posso immaginarlo io periodico perché è
diverso da zero per un tempo limitato, l’altro è quello di segnali che non sono limitati nel tempo e
non periodici. Per il primo caso se, per esempio, prendo in considerazione il segnale di pressione
dovuto all’esplosione di una carica e voglio analizzarlo in termini di componenti in frequenza, questo
non è ovviamente periodico. Ma se il giorno dopo c’è un’altra esplosione e metto in grafico anche la
seconda curva ho una rappresentazione come questa:

prima esplosione seconda esplosione t


59
Quindi il fatto di considerare un segnale non periodico nella finestra temporale che mi interessa
come se lo fosse, non mi limita dato che non vado a vedere quello che succede al di fuori della
stessa dove, per esempio, si potrebbe poi verificare una situazione analoga a quella sopra. Quindi i
segnali non periodici possono essere resi tali quando nella finestra che stiamo osservando vediamo
tutto quello che ci interessa e poi il fatto che si ripeta o meno al di fuori della stessa diventa poco
importante ai nostri fini. Per il caso in cui il segnale non si esaurisca dopo un certo tempo e non sia
propriamente periodico (es la temperatura ambientale) l’approccio è di prendere il segnale in un
tempo che per noi è rappresentativo e considerarlo periodico al di fuori di questo

Di fatto andremo ad utilizzare un sistema di rappresentazione relativo a segnali periodici, ma


questo lo applicheremo a tutte le situazioni compresi i casi in cui il segnale non è per nulla
periodico valutando però che tipo di errori questo comporta.

Se siamo nella condizione ipotetica di segnale periodico e periodo Ts, grazie allo sviluppo in serie di
Fourier noi possiamo scrivere :

a) SVILUPPO SENO - COSENO



X(t) =  + dean cos(nωo t) + bn sin(nωo t)m
n=1

S ( S ( S
= ST
o' X(t) dt
T
q4 = ST
o' X(t)cos(nωr t) dt
T
s4 = ST
o' X(t)sin(nωr t) dt
T

2v
t9 =
Ts

IMPORTANTE: Il Ts ci dice anche qual è la frequenza più piccola che possiamo trovare dentro il
segnale, ovvero la pulsazione più piccola. Quindi se il mio segnale ha un Ts = 1 s non ci potranno
essere componenti in frequenza con frequenza più bassa di 1 Hz (1/Ts).
La componente in frequenza più alta invece non è legata al periodo quindi sulla base di questo dato
non posso sapere quale sarà la massima componente in frequenza del segnale.
Usando le relazioni di prostaferesi lo sviluppo precedente può essere riscritto come

b) SVILUPPO COSENO

X(t) =  + d Cn cosynωo t + φn {
n=1

s
Dove |4 =}q4( + s4( e φ~ = −q€•‚ƒ(q„ )

c) SVILUPPO IN TERMINI COMPLESSI (quella preferita per la forma più compatta)


+∞
X(t) = d Hn e† n ωo t
−∞

‡ ˆ
H~ = − †
( (

‡ ˆ
H ~ = + †
( (

60
Hr = 

1 ‹
H~ = Š X(t) e− † n ωot Œ‚
T‰ '

La cosa interessante, se noi riusciamo a fare uno sviluppo in sin e cos, è che di solito non è neces-
sario fare arrivare “n” fino a +∞. I segnali reali oltre un certo termine dello sviluppo normalmente non
hanno più componenti significative.

n=N
X(t) = d Hn e† n ωo t
n=−N

Dove:
N ωo = ωMax (massima frequenza presente nello sviluppo in serie)
N fo = fMax con fo = 1/Ts

Se noi conosciamo N, siamo in grado di campionare i segnali in modo corretto?


Sappiamo per esempio che: Ts = 86400 s quindi supponiamo di avere un segnale con andamento
ciclico diurno. Sappiamo anche che ci sono solo N=100 componenti dello sviluppo in serie significa-
tive. Con quale fc andremmo a campionare il nostro segnale?

fMax = N fo = 100 •LN''


≅ 10 C
Hz

Campioniamo con fc = 2 fMax = 2.10-3 Hz

Cioè ogni Δt = 1/fc = 1/(2.10-3) = 500 s (circa 9 minuti)

Il solo problema sarà conoscere N. Per trovare l’N massimo che ha senso devo per forza passare
attraverso gli integrali visti prima e calcolare gli Hn. Se calcolo gli Hn e vedo che dopo un certo punto
sono abbastanza piccoli da considerarli nulli dico che il segnale non ha componenti significative oltre
l’N corrispondente. Ma devo per forza calcolarli analiticamente questi integrali?
Noi abbiamo appena visto come passare da un segnale continuo ad uno discretizzato. Quegli inte-
grali verranno valutati numericamente da un calcolatore e quindi non richiederanno un approccio
analitico diretto.

I punti essenziali della lezione precedente:

La volta scorsa abbiamo completato la conversione A/D per la parte che riguarda il tempo. Abbiamo
visto che c’è un effetto molto rilevante che è la possibilità di commettere un errore di Aliasing nel
caso in cui il campionamento non è corretto.
Tutto si riassume nel Teorema del Campionamento che ci dice che per campionare correttamente
un segnale dobbiamo usare una frequenza di campionamento che deve essere più grande del dop-
pio della frequenza del segnale. Abbiamo visto che c’è una frequenza particolare che è la frequenza
di Nyquist (fNY), che è la metà della frequenza di campionamento, e il segnale a questa frequenza,
che si trova esattamente al limite tra un campionamento corretto e uno non corretto, lo vediamo in
maniera casuale, cioè lo campioniamo correttamente se è un coseno, non lo vediamo del tutto nel
caso sia un seno.

CAMPIONAMENTO CORRETTO SE fc > 2fs


U
FREQUENZA DI NYQUIST fNY = " fc segnale di soglia tra campionamento corretto e non corretto
61
A volte il teorema del Campionamento viene espresso con un fc ≥ 2fs. Infatti con fc = 2fs non si
commette Aliasing, ma ci troviamo in una situazione in cui, se il segnale fosse un seno, perderei una
parte di informazione, non più recuperabile, dello stesso. In questo modo non riusciremo più a rico-
struire, come dice la seconda parte del teorema, il nostro segnale continuo nel tempo anche dopo
averlo campionato.

L’Aliasing consiste nel fatto che le frequenze maggiori della fNY vengono viste come frequenze ribal-
tate rispetto alla frequenza di Nyquist. Quindi tutto quello che si trova oltre la fNY viene ribaltato a
frequenze più basse e la sua frequenza è proprio la simmetrica rispetto a quella di Nyquist.
Grazie al diagramma a Ventaglio posso trovare velocemente tutte le frequenze apparenti per i se-
gnali con frequenza maggiore a quella di Nyquist:

= = (triangolo isoscele di altezza qualsiasi)

fa fNY fs fc

All’inizio ci siamo occupati di soli segnali sinusoidali, ma in realtà i segnali sono sempre più com-
plessi di una pura sinusoide. Con un segnale generale abbiamo visto che possiamo scomporre un
segnale qualsiasi, anche se il limite sarebbe “purché sia periodico”, come somma di serie di termini
armonici. Li abbiamo visti come sviluppo in termini di seno e coseno.

x(t), periodico con periodo T



X(t) = Ao + deAn cos(nωo t) + Bn sin(nωo t)m
n=1

 = valore medio del segnale = Ao


+∞
X(t) = d Hn e† n ωo t
−∞
Quest’ultimo è lo sviluppo in forma complessa, dove Hn sono dei coefficienti complessi che sono
legati agli An e Bn dalle relazioni:

H B
H~ = − †
( (

H B
H ~ = + †
( (

H0 = A0 = valor medio del segnale

Gli Hn si possono ottenere dal seguente integrale:

1 ‹
H~ = Š X(t) e− † n ωot Œ‚
T‰ '

62
Quindi la sola retta di regressione con i punti a -40 °C e a +24 °C è la retta c)
dall’equazione:
b) c)
y y = m* x + q*
a) i due parametri m e q saranno ovviamente diversi, ma
quello che sarà molto più grande sarà lo Scarto tipo
di linearità dato che prima i punti erano molto più vi-
cini alle rispettive rette e ora lo sono decisamente
meno. Quindi l’incertezza associata ad un modello
semplice ma che mi va bene da -40 °C a +24 °C sarà
più grande dell’incertezza che avrei se usassi una re-
lazione più complicata e che tenesse conto della tem-
X peratura, pressione, umidità ecc..
Quindi ho due scelte: relazione semplice e incertezza
grande, relazione complicata e incertezza limitata.

I punti essenziali della lezione precedente:

TARATURA STATICA
Abbiamo parlato di taratura statica e abbiamo visto:

- La RETTA DEI MINIMI QUADRATI per il modello IDEALE preferito: y = m x + q


1
- La definizione di SENSIBILITA’ STATICA GENERALE S = - se y = m x + q, cioè se lo strumento
1
è lineare, S = m con m = coefficiente angolare della retta

- SCARTO TIPO DI LINEARITA’ ≡ INCERTEZZA TIPO DI LINEARITA’

∑ # . (
Sy = = * (somma quadratica delle deviazioni punti-retta)
! )

Questa rappresenta l’INCERTEZZA STRUMENTALE se < cioè se si utilizza il campione di


taratura ottimale. Se non siamo in questa condizione dobbiamo combinare l’incertezza del campione
con quella di linearità. Quindi avremo che l’Incertezza Strumentale sarà pari a:

456 = *S )
S4 ) con S = sensibilità. E’ una applicazione di propagazione dell’incertezza dato

che il campione entra nell’espressione dell’errore. Se < in pratica la quantità S4 è molto


piccola e nell’ordine di 1/10 dell’altra e quindi può restare solo S . Se eleviamo al quadrato il secondo
termine è dell’ordine di 1/100 dell’altro. Approssimazione sicuramente valida considerando che l’in-
certezza ha solo due cifre significative.
Questa relazione si adotta per i campioni accettati dai SIT e caratterizzati da < . Anche in questo
caso comunque, non considerare il secondo termine vuol dire accettare una situazione non partico-
larmente compromettente dato che è circa 1/16 del primo.
Quindi se il campione è buono non serve introdurre la sua incertezza, se è al limite dell’accettazione
conviene tenerne conto con la relazione prima vista.

Gli ingressi interferenti e modificante cambiano i due parametri della retta di taratura:

- INGRESSI DI DISTRURBO MODIFICANTI (cambiano il coefficiente angolare “m”)


8 89
m = mo + Km (t - to) con Km = = SENSIBILITA’ MODIFICANTE
: :9
in questa relazione abbiamo messo la temperatura “t” come ingresso di disturbo ma ovviamente
questo vale per qualsiasi ingresso di disturbo (pressione, umidità ecc.)
32
ž
1
H4 = d —‚ ˜™ š 4›M œ•;
N∆t
™Ÿ'

area rettangoli

con Xk la X(t) calcolata al tempo t=kΔt. Nella sommatoria posso già semplificare i due Δt, essendo
un fattore comune.
( (
Considerando che ω0 = = allora posso scrivere:
S ¡∆R
ž
1 4

ϥ;
H4 = d ˜™ š ž•;
N
™Ÿ'

E semplificando ancora il Δt si ottiene:

§ U
U %#
¥

£# = d >¥ ¦ §
¤
¥Ÿ©

quindi il Δt scompare e questo vuol dire che questa operazione la posso sempre fare anche senza
sapere il Δt di partenza, cioè anche senza conoscere la frequenza di campionamento.
ª
Per calcolare ogni singolo coefficiente Hn devo fare il prodotto di ˜™ š 4 « (¢ per N volte, dato che k
varia tra 0 e N-1, per poi farne la somma.
Questa operazione non è proprio leggera da fare da un punto di vista computazionale. “n”, se ve-
diamo la formula dello sviluppo in serie, andrebbe da - ∞ a + ∞. Con la trattazione ora fatta, “n” non
può comunque andare più da - ∞ a + ∞ per il fatto che questo vorrebbe dire che nω0, cioè la pulsa-
zione, può andare anch’essa da - ∞ a + ∞. Questo perché nel nostro segnale non possiamo avere
componenti con frequenza che possono arrivare a - ∞ o + ∞ dato che per fare il campionamento in
modo corretto la frequenza del segnale si deve fermare a metà della frequenza di campionamento.
Quindi sappiamo che “n” deve essere minore di:
n < nMax tale per cui nMax.f0 = ( fc
Non possiamo quindi avere componenti in frequenza oltre la frequenza di Nyquist (fNY) per un cam-
pionamento corretto. Vediamo quanto vale nMax: sappiamo che fo è la frequenza al tempo zero, cioè
corrisponde a ω0 a parte ovviamente il 2v. Quindi f0 = 1/T, cioè
¤
nMax S = ( fc quindi nMax ¡∆R = ( ∆R cioè nMax = con N= numero di punti campionati (nel tempo)
"

Mi ritrovo con lo spettro composto da N/2 coefficienti, dove ad ogni “n” corrisponde un Hn (per n=0
trovo Ho, con n=1 trovo H1 e così via fino a HN/2).
Quindi la rappresentazione con lo sviluppo in serie utilizza N/2 coefficienti Hn per rappresentare un
segnale che era fatto da N punti. Sembrerebbe una situazione più favorevole rispetto a prima, cioè
con N/2 punti riusciamo a scrivere N punti, ma così non è dato che gli Hn sono numeri complessi,
quindi se ne scrivo N/2 ne devo scrivere comunque N, dato che sono composti da una parte reale e
da una immaginaria. Quindi dal punto di vista del numero totale di punti non cambia nulla e sono
sempre N e quindi il volume di dati da utilizzare non cambia.
Se scrivo la X(t) come spettro ho bisogno di N valori puntuali campionati, oppure N/2 valori complessi
che sono le righe spettrali.
Il risultato sarà rappresentato da questo vettore:

Ho ao + i b0 numero reale essendo b0 = 0


H1 a1 + i b1
… …
… = … tutti numeri complessi
64
… …
… …
HN/2 aN/2 + i bN/2 numero reale essendo bN/2 = 0

In teoria avremmo N/2 + 1 punti. Però i numeri che abbiamo qui sopra rappresentato non sono tutti
complessi. Infatti H0 è reale perché è il valor medio, mentre quello a N/2 (Nyquist) campionava la
funzione seno sempre sull’asse, quindi con valore zero, di conseguenza anche per N/2 non abbiamo
la parte immaginaria e il coefficiente è reale. Quindi alla fine avremo N/2 + 1 coefficienti di cui 2 reali
(che messi insieme mi danno l’equivalente di un complesso, cioè due termini) e il resto complessi,
quindi il numero complessivo di numeri da scrivere rimangono sempre N.

Ottenere il vettore sopra è facile dato che faccio elaborare al calcolatore il vettore X(t) visto prima,
vengono calcolate le varie sommatorie che definiscono le Hn e mi restituisce il vettore qui sopra.

Questo vettore è molto utile. Noi al posto di scrivere X(t) possiamo scrivere una sommatoria, quindi
se ho quel vettore posso scrivere la X(t) come:
N
n= 2

X(t) = d Hn e† n ωo t
N
n=− 2

NOTA: il “-“ davanti alla “i” è quando passo dal tempo agli Hn il “+” quando passo dagli Hn al tempo.

STRUMENTO MOLTO IMPORTANTE: Questa relazione è molto interessante perché dopo il cam-
pionamento conosco il segnale solo al t=0, t=Δt, t=2Δ…, quindi se Δt=1s conoscerò il tempo a 1s,
2s.. ecc.. Se ora vogliamo sapere il segnale a 1,27s non devo far altro che mettere nella funzione
sopra scritta al posto di t il valore 1,27. Abbiamo quindi ottenuto quello che avevamo in precedenza
affermato, cioè se si campiona correttamente non si perde nulla del segnale iniziale (continuo),
quindi si riesce a posteriori a calcolare il segnale ad un tempo qualsiasi.
Malgrado si sia immagazzinato un volume di dati tutto sommato contenuto, cioè il vettore di N punti,
a posteriori posso scegliere di andare a vedere cos’era X(t) ad un tempo qualsiasi.

La funzione che mi permette di calcolare gli Hn viene chiamata DFT (Discrete Fourier Transform),
cioè mi rappresenta la trasformata di Fourier nel campo discreto, avendo discretizzato i tempi grazie
al campionamento. L’operazione di calcolo degli Hn è abbastanza pesante dovendo fare numerosi
conti. In realtà se N è una potenza di 2, ci sono alcune moltiplicazioni che vengono ripetute identiche
®
nei vari Hn cioè più volte utilizzo la stessa X ¬ e - ~ ¯ ( . Questo consente di velocizzare le operazioni
di calcolo e l’algoritmo prende il nome, anziché di DFT, di FFT (Fast Fourier Transform), cioè un
algoritmo più veloce rispetto a quello standard. Funziona solo se N è una potenza di 2. Se N è un
numero primo si ritorna alla DFT.
Gli Hn ci danno altre importanti informazioni. Mettiamo in diagramma i moduli di Hn:

IHnI Banda del segnale


20 Hz
H0 A

H1 B

C
( C N ž
0 S S S S (S
f

65
devo associare, per costruire l’asse delle ascisse, ad ogni valore di “n” una frequenza. La frequenza
zero corrisponde al valor medio e quindi avrò come primo punto H0. Il coefficiente H1 lo devo riportare
alla frequenza 1/T, infatti:
( ›M
da nω0 (della X(t)) se n=1 ottengo ω0. La frequenza corrispondente a ω0 = è f0 = =
S S (

Tra i punti A e B non c’è nulla, quindi non ha senso mettere una spezzata che unisce i due punti
dato che il significato degli Hn è celato dall’espressione prima scritta per X(t). Questa infatti ci dice
che per scrivere X(t) ho bisogno di componenti discrete che sono H0, H1, H2 ecc… e le frequenze tra
0, 1/T, 2/T ecc… nell’espressione non compaiono. I soli punti che hanno senso sono quelli legati
alle frequenze 0, 1/T, 2/T, 3/T e così via.

Dovrei operare anche con le frequenze negative dato che per gli Hn ci sono anche per gli “n” negativi.
Questi non sono importanti da riportare dato che gli H-n sono i complessi coniugati degli Hn, cioè
stessa parte reale e parte immaginaria rovesciata di segno. Se io disegno i moduli questi sono esat-
tamente gli stessi (il complesso coniugato ha lo stesso modulo di quello di partenza) quindi dovrei
semplicemente specchiare il diagramma rispetto all’asse delle ordinate, ma questo non ci aggiunge
alcuna informazione significativa (so che le frequenze negative hanno le stesse ampiezze e fasi
opposte).

Supponiamo che dopo aver calcolato gli Hn e disegnato i moduli otteniamo una situazione come
quella riportata nel grafico. A partire dal punto “C” le componenti son tutte nulle. Allora se il mio
segnale si ferma a, supponiamo 20 Hz, N/2T lo possiamo considerare circa 50 Hz. Essendo questa
la frequenza di Nyquist vuol dire che la campionatura è avvenuta a circa 100 Hz. In pratica il segnale
è stato campionato a 100 Hz ma facendone lo spettro mi accorgo che oltre i 20 Hz non c’è più nulla.
Questo ci dice che se dovessimo ricampionare questo segnale lo farei a 40 Hz, cioè la frequenza
minima per non avere Aliasing. La conoscenza della massima frequenza del segnale mi consente
di fare un campionamento ottimizzato, cioè se prima avevo acquisito 100 punti, dimezzando la fre-
quenza di campionamento ho la stessa informazione con 50 punti anziché con 100.

BANDA DEL SEGNALE: è il campo di frequenze che contiene tutte le componenti significative dello
spettro.

Nel grafico sopra non ci sono tutte le informazioni. Trattandosi di numeri complessi, infatti, avendone
dato solo il modulo per la loro rappresentazione complessa ci servono anche le fasi.

Asse immaginario

y z = x + iy

r r = modulo e φ = fase
φ
Asse reale
φ x

-y z = x – iy (complesso coniugato)

SPETTRO FREQUENZA DEL SEGNALE

66
°± (²± ) µ‡8;7 66‡¶ 4‡8 ‡
Nel nostro caso φ = arctg
³´ (²± ) µ‡8;7 87‡·7

IHnI Banda del segnale


20 Hz
H0 A

H1 B

C
( C N ž
0 f
S S S S (S

φn
v

( C ž
0 S S S (S
f

-v

Di quest’ultimo grafico conosco già due punti. Il primo e l’ultimo essendo due numeri reali dato che
la fase è nulla. Tutti gli altri, rappresentati a caso sul grafico, sono compresi tra v e – v

Lo strumento di analisi spettrale, quindi il costruirsi lo spettro del segnale, è molto più importante
per altre applicazioni. Per esempio, faccio la misura di vibrazione su un mozzo di una automobile e
mi trovo uno spettro che è quasi tutto a zero e poi c’è una grande componente a una frequenza che
corrisponde alla frequenza di rotazione della ruota. L’informazione che ricavo è che c’è un qualcosa
che mi forza la sospensione con la stessa frequenza con cui sta girando la ruota. Questo vuol dire
che c’è uno sbilanciamento e allora lo vedo come una forza pulsante che ha la stessa frequenza di
rotazione della ruota, oppure c’è una ruota che al posto di essere rotonda è ellittica. Questo per dire
che l’analisi dello spettro mi da a volte informazioni molto più utili rispetto a quelle di guardare il
segnale. A volte la frequenza del disturbo da informazioni molto più importanti di quelle relative al
segnale stesso. L’analisi spettrale si usa molto sia per la diagnostica ma anche nelle fasi di proget-
tazione.
Esiste una frequenza particolare, detta di risonanza, in corrispondenza della quali si hanno enormi
amplificazioni, frequenza che è bene far evitare al sistema con un’adeguata progettazione.
Se ho raccolto, per esempio, lo spettro delle vibrazioni trasmesse dalle sospensioni di un’auto che
percorre una strada dissestata, potrò evidenziare delle componenti più critiche a certe frequenze.
Se devo progettare la portiera dell’auto farò in modo questa non vada in risonanza con la frequenza
a cui corrisponde la maggiore componente dell’analisi spettrale.

L’analisi spettrale è così apprezzata che malgrado sia nata per segnali periodici viene utilizzata an-
che per segnali che non lo sono. Vale il discorso fatto in precedenza di poter considerare il segnale
come periodico al di fuori della finestra temporale di osservazione, anche se non lo è.

67
Ma ci sono delle situazioni in cui è difficile applicare questo concetto. Se prendo, per esempio, la
vibrazione alle ruote di un’auto che percorre una strada, questa potrebbe avere un andamento di
questo tipo:

a(t) T

A A’

t
B’ B

Fig. A

posizionando un accelerometro su un mozzo di una ruota. In questo segnale non riconosco alcun
periodo. Voglio comunque applicare l’analisi spettrale quindi osservo il segnale in una certa finestra
temporale T e assumo questa come periodo. Il problema è capire che impatto ha questa assunzione
di periodicità su un segnale che in realtà non è periodico.
Come prima osservazione vediamo che l’aver reso periodico quel segnale si traduce nel fatto che
se “A” e “B” sono il primo e l’ultimo punto di osservazione, il segnale si deve poi ripetere identico dai
quei punti, quindi deve ripartire in “B” come era partito in “A”, punto A’, e deve arrivare in “A’” così
come si era concluso in “B”, punto B’. L’assunzione di periodicità mi forza il segnale ad essere di-
verso da quello che era perché gli impongo sicuramente delle discontinuità agli estremi (salti AB’ e
A’B) a meno che non scelga dei punti per cui questo non avvenga, e quindi vi sia una perfetta coin-
cidenza tra inizio e fine, ma in generale è abbastanza difficile. Anche scegliendo due punti uguali
avrei comunque delle discontinuità sulle derivate, quindi evitarle è davvero difficile. Vediamo che
impatto ha sullo spettro il rendere periodico il segnale.

EFFETTO FINESTRA (o errore di LEAKAGE)


Si chiama così perché è l’effetto legato alla mia finestra di osservazione. Guardo il segnale nella
finestra 0-T e questo altera il segnale perché lo rendo periodico su un periodo T che non è un periodo
reale di un segnale periodico.
Il termine inglese Leakage vuol dire perdita, questo perché, come vedremo, l’effetto è che c’è
una apparente perdita di segnale dalle vere componenti armoniche alle componenti vicine.
Per guardarlo facciamo ancora riferimento ad un segnale armonico. Questo perché di fatto quell’ef-
fetto corrisponde a tagliare i segnali armonici che sono nascosti dentro quella forma, tagliandoli in
maniera casuale. Mentre in un segnale periodico se io mi fermo su un periodo esatto tutte le com-
ponenti hanno un numero esatto di cicli all’interno, il fatto di mettere un periodo arbitrario fa si che i
segnali armonici nascosti dentro a quella forma d’onda verranno tagliati in un punto qualsiasi.

x(t) T
Ts
1

0 A t

-1
T1

68
1° caso) Finestra di osservazione con T multiplo intero del periodo. Questa finestra è individuata da
T (0A) che è pari a T = 2 Ts.

Se noi facciamo lo spettro avendo un tempo di riferimento pari a T, le nostre componenti spettrali
( C
saranno presenti in ecc..
S S S

IHnI

( C N
0 f
S S S S

Qui abbiamo che il periodo del segnale è Ts = T/2 cioè è la metà del periodo di osservazione, quindi
se guardo la frequenza del segnale è fs = 2/T. Vediamo cosa verrà rappresentato nel diagramma dei
moduli di Hn.
Ci chiediamo se ci possiamo aspettare una componente ad una frequenza corrispondente al tempo
di osservazione, cioè se è possibile che per scrivere la funzione seno sopra disegnata possa usare
una funzione seno con un periodo che è la metà.
Ricordando che:
2
X(t) = Ao + deAn cos(nωo t) + Bn sin(nωo t)m
n=1

abbiamo che:
( ( ( (
X(t) = A0 + A1 cos t + B1 sen t + A2 cos 2t + B2 sen 2t
S S S S

(
Ma X(t) abbiamo visto che ha una frequenza pari a 2/T ed è un seno, quindi X(t) = sen (2v ‹ t). Ora
confrontiamo questa relazione con quella sopra per vedere il valore dei vari coefficienti, cioè per
vedere se c’è una particolare combinazione di coefficienti in grado di darmi l’uguaglianza con la vera
espressione di X(t).
(
A0 = 0 dato che non abbiamo alcun valor medio diverso da zero nella X(t) = sen (2v ‹ t)
Provando a mettere B2 = 1 e a mettere zero tutti gli altri (A1, B1, A2), l’uguaglianza è soddisfatta.
Siccome lo sviluppo in serie è univoco, cioè c’è una sola sequenza di valori dei coefficienti che mi
da lo sviluppo in serie, dato che ne ho trovata una che è quella con A0= A1= B1=A2=0 e B2=1, vuol
dire che questa è anche l’unica possibile.

Se scrivo gli An, in corrispondenza di H2 avrò che il modulo di Hn sarà pari a 0,5 essendo
A( B(
H( = − †
2 2
Mi sarei aspettato 1 essendo l’ampiezza della funzione seno pari a 1, ma l’altro 0,5 che mi manca
per fare l’ampiezza unitaria l’ho in corrispondenza della frequenza negativa speculare all’asse delle
ordinate. Si sommano le ampiezze delle frequenze positive e negative per avere la parte reale cor-
rispondente.

69
bilance tradizionali. Finché non recupero tutti i giochi dei leverismi non ho un inizio di movimento
dell’indice indicatore. Quindi c’è una massa minima che devo applicare per avere una risposta dello
strumento. In uno strumento la Risoluzione è sempre presente, ma la si trascura quando risulterà
piccola rispetto alle altre cause di incertezza.

ERRORE DI DERIVA (caso particolare di sensibilità)


Ci dice come cambia il comportamento dello strumento al variare del tempo. Se si fosse trattato della
temperatura abbiamo visto prima due parametri che sono la sensibilità modificante e interferente
che condizionano i valori di “m” (pendenza) e “q” (intercetta). Anche con il tempo può cambiare o la
pendenza o l’intercetta della retta di taratura. Allora ottengo due parametri, la variazione nel tempo
della sensibilità e la variazione nel tempo dell’intercetta che chiameremo:

DERIVA DI SENSIBILITA’: m = mo + Km τ
con τ = tempo trascorso dal momento in cui ho fatto la taratura, cioè rispetto a quando ho valutato
mo mentre Km è un coefficiente, dove la “m” sta per modificante.

DERIVA DI ZERO: q = 0 (o qo) + Ki τ


si riferisce al caso in cui l’intercetta iniziale è zero e quindi il primo termine qo lo poniamo uguale a
zero. Essendo però questo un caso particolare in cui sia stato effettivamente possibile portare lo
strumento sullo zero, in generale metteremo qo.
Ki = fattore di deriva dello zero
Km = fattore di deriva di sensibilità

------------ ooo ------------


Lo sostanza della taratura statica è stata quella di determinare la relazione y = f(x), cioè una rela-
zione ingresso-uscita che mi permette, noto un ingresso di determinare un’uscita, oppure data
un’uscita di capire quale era l’ingresso. La funzione che vorremmo sempre avere è quella di una
retta, cioè y = mx + q, e in generale quella scritta prima è la relazione che esce dalla taratura statica.

Supponiamo ora di avere dal certificato di taratura l’incertezza 4 . Cioè vi dicono che lo strumento,
ad esempio per effetto di una risoluzione legata alla misura di una temperatura, determina un’incer-
tezza strumentale di 1°C. Conoscendo la funzione “f” possiamo dire in cosa si traduce quel grado
Celsius nell’incertezza sull’uscita? Cioè siamo in grado di convertire un’incertezza data come equi-
valente intervallo sull’ingresso in un equivalente intervallo sull’uscita?
Se guardiamo la nostra espressione, questa è simile a quella che prendiamo in considerazione
quando facciamo delle misure indirette, cioè una variabile dipendente legata a “x” variabili indipen-
denti, in questo caso una sola. Quindi per ottenere l’incertezza sulla y ci basta propagare l’incertezza
della “x” dentro la nostra relazione y = f(x). Quindi:

E ) E
4 y = *D E 4 F =G G4 = |H|4 4 = |H|4
E

al posto della derivata parziale mettiamo la derivata totale avendo una sola variabile. L’incertezza è
sempre positiva essendo un intervallo, ma la derivata potrebbe invece essere negativa, quindi la
prendiamo in valore assoluto. Questa è sostanzialmente la SENSIBILITA’ STATICA nella sua
espressione generale. Quindi:
PER PASSARE DA INGRESSO A USCITA PER LE INCERTEZZE MI BASTA LA SENSIBILITÀ
STATICA. Se siamo nel caso particolare in cui la relazione è lineare c’è una costante che mi tra-
sforma le grandezze in ingresso in grandezze in uscita, ma questa la posso anche girare:
"I
4 =
|J|
questa è una ragione in più per preferire gli strumenti lineari.

36
quella del segnale. Infatti il 2/T1 non corrisponde al 2/T. Intuitivamente cosa uscirà per il fatto che
cerco di rappresentare la frequenza originale del segnale (quella in corrispondenza di 2/T) con quelle
due a fianco (quelle in corrispondenza di 2/T1 e 3/T1)? Che oltre a comparire le due righe ora citate,
compariranno valori anche per le altre componenti armoniche, quindi per 1/T1, 3/T1, 5/T1 ecc., e lo
spettro anziché essere composto da una singola riga netta diventa una campana di valori. Anche il
valore medio, quindi il punto ad f=0 avrà un valore non nullo corrispondente all’integrale di un semi-
periodo diviso per T1 . La situazione non è troppo piacevole nel senso che avrei voluto ottenere la
sola riga rossa rappresentativa del mio segnale e invece mi ritrovo con uno spettro che non la com-
prende. Questo mi fa comunque vedere che in quella zona c’è qualcosa perché mi mostra che le
due righe più vicine sono più grandi, però mi fa vedere anche delle componenti in alta frequenza
che non hanno niente a che vedere con la frequenza del mio segnale. Questo mi può indurre in
errori abbastanza pesanti. Pensare che il segnale ha componenti in alta frequenza fa sì che io, per
esempio, scelga il campionamento ad alta frequenza, fa sì che se devo progettare un qualcosa che
isola le vibrazioni devo tener conto delle componenti in alta frequenza ecc., cioè mi dà una situazione
molto forviante rispetto alla realtà del mio sistema.

Posso migliorare questa situazione. Andiamo a rivedere il caso esaminato in partenza (Fig. a pag.
68) nel quale l’assunzione del periodo T sbagliato introduceva delle discontinuità. Un modo ottenere
una situazione in cui il sistema non cambia molto è quello di ricondurci ad un sistema in cui il segnale
va a zero alla fine della finestra di osservazione. Per ridurre l’effetto finestra moltiplico il segnale
sopra per un qualcosa che lo mandi a zero agli estremi della finestra, cioè lo moltiplico per una
funzione che ha la forma di una campana.

a(t) T

Un esempio di questa funzione è la FINESTRA DI HANNING



W(t) = ( (1 − cos ‹
‚)

Per t=0, W(0)=0 e per t=T, W(T)=0 quindi la finestra va a zero agli estremi proprio come volevamo.
Ma la finestra di Hanning fa ancor meglio, dato che la derivata di W(t):

Œ¾ π 2π
= sin( t)
Œ‚ T T

per t=0 va a zero e anche per t=T va a zero, quindi oltre ad andare a zero agli estremi della finestra,
in questi punti ha anche derivate nulle. Questo fa sì che anche se la funzione arrivava con derivate
diverse all’inizio e alla fine ora sono uguali e quindi mi evita anche le discontinuità di seconda specie
(quella di prima specie è il salto del valore, mentre quelle di seconda specie il salto delle derivate).
Questo mi migliora un po’ la situazione perché mi evita quelle discontinuità che avevo introdotto
forzando la funzione ad essere periodica su un periodo che non era quello corretto.

71
Se guardo lo spettro dovuto al Leakage, questo aveva componenti anche ad alta frequenza. Se
moltiplico la funzione per la funzione finestra mi trovo sostanzialmente con quattro righe attorno alla
frequenza vera che sono grandi, ma le altre sono quasi a zero e molto velocemente vanno a zero.
Mi concentra lo spettro non su una riga sola, ma su tre o quattro righe vicine alla frequenza vera. A
questo punto sto facendo non lo spettro del segnale di partenza, ma quello del prodotto tra questo
e la funzione finestra di Hanning.

X(t) W(t) = XFinestra

Qui capiamo la ragione del termine inglese Leakage, dato che la frequenza vera sarebbe quella
evidenziata in rosso, ma questa viene dispersa in componenti vicine, quindi perdita di componenti
armoniche da quella vera a quelle vicine.

Del Leakage deve rimanere ben chiara una cosa, che quando osservo un segnale e non riesco a
riconoscerne in maniera corretta il periodo lo spettro che ottengo sarà alterato, cioè invece di avere
le frequenze giuste le frequenze si andranno ad aprire su una campana di valori. Riesco a stringere
un po’ quella campana moltiplicando il segnale che ho acquisito per, ad esempio, la finestra di Han-
ning. Questo è anche un modo per vedere se sto facendo Leakage perché prendo il segnale, ne
faccio lo spettro e guardo se ci sono le componenti aperte. Confronto lo spettro con quello con la
finestra di Hanning. Se la finestra di Hanning mi ha stretto le componenti vuol dire che era colpa del
Leakage il fatto che fossero aperte su delle campane. Può succedere che invece le componenti
iniziali sono molto strette, applico Hanning e me le trovo leggermente allargate. Questo vuol dire che
non stavo facendo Leakage

I punti essenziali della lezione precedente:

ANALISI DI FOURIER (o ANALISI IN FREQUENZA o ANALISI SPETTRALE)


E’ relativa all’analizzare il contenuto in termini di componenti armoniche di un segnale, cioè riscri-
viamo un segnale nel dominio del tempo come somma di termini semplici che sono dei termini ar-
monici.
Per i SEGNALI CONTINUI abbiamo visto che:

X(t) = Ao + deAn cos(nωo t) + Bn sin(nωo t)m
n=1

che è uguale anche a:


+∞
X(t) = d Hn e† n ωo t
−∞

Per i SEGNALI DISCRETI assume invece la forma:


N
n= 2

X(t) = d Hn e† n ωo t
N
n=− 2

dove N = numero dei dati campionati

La cosa interessante è che pur avendo fatto il campionamento ritorniamo a scrivere una funzione
continua nel tempo, quindi abbiamo ancora la funzione per ogni valore del tempo t.

Abbiamo anche visto che i coefficienti Hn si ottengono con una relazione abbastanza semplice che
utilizza gli N valori che vanno da 0 a K che noi abbiamo ottenuto dal campionamento del segnale
continuo:
72
ž
1 4


H4 = d ˜™ š ž
N
™Ÿ'

Abbiamo altresì visto come si presenta uno spettro di frequenza che è costituito da righe discrete
che sono distanti tra di loro di una quantità pari a 1/T con T= tempo di osservazione. Questo T è
anche uguale a T=NΔt e 1/T=f0 (=Δf):

IHnI

( C
0 f
S S S
Δf 2Δf 3Δf

Questa è una operazione matematica di trasformazione del segnale dal dominio del tempo al domi-
nio della frequenza.
Se vogliamo vederla come una sorta di strumento, questo strumento ha delle uscite discrete che
sono in f (o Δf), 2Δf, 3Δf ecc.. Quando abbiamo uno strumento che ha delle uscite discrete, la di-
stanza che intercorre tra queste è chiamata RISOLUZIONE ed è per questo che il
Δf = RISOLUZIONE SPETTRALE
Oltre al diagramma dei moduli abbiamo anche il diagramma delle fasi.

φ
v

( C
0 f
S S S

-v

Sappiamo che la fase del primo elemento è nulla perché è sempre un valore reale (in realtà può
essere o nulla oppure, convenzionalmente, se il valore medio è negativo diciamo che è pari, arbitra-
riamente, a v o -v).

Quello che ci aspettiamo da uno spettro è una serie di valori così come li abbiamo ora rappresentati.
Nella relazione
ž
1 4


H4 = d ˜™ š ž
N
™Ÿ'

non compare né il Δt né la frequenza di campionamento. Quindi non vedo con quale frequenza ho
campionato e quindi quale sarà la frequenza massima, ma ho solo Xk, cioè i valori campionati di cui
non ho più la relazione con il tempo. Quindi gli algoritmi che mi calcolano la serie di Fourier (o la
trasformata di Fourier) non chiederanno di fornire il vettore dei tempi, né la frequenza di campiona-
mento, ma mi daranno in uscita il vettore Hn completamente slegato rispetto alla scala delle fre-
quenze. Per costruire la scala delle frequenze devo sapere per quanto tempo ho osservato il mio
segnale, cioè T. Questo è anche legato alla frequenza di campionamento, infatti:

73

= = =
S ¡∆R ¡ ∆R ¡

Per costruire la scala delle frequenze posso o guardare quant’è il tempo totale di osservazione dato
che 1/T = distanza tra le righe spettrali, oppure se mi ricordo qual è la frequenza di campionamento
e il numero di punti che ho campionato risalire, come visto, sempre a 1/T.

In laboratorio utilizzeremo uno dei tanti programmi che ci consentono di ottenere gli Hn. L’uscita del
calcolatore non sarà nella forma che preferiremo avere, cioè i vari Hn con le frequenze corrispon-
denti, ma sarà semplicemente un vettore degli Hn che non fa nemmeno la divisione per N. Per avere
i coefficienti esattamente corrispondenti agli Hn dobbiamo dividerli per N. Molto spesso invece si
divide per N/2 in modo da trovare il doppio degli Hn con il vantaggio di avere il modulo dimezzato
che tiene conto anche dei complessi coniugati (H-n) legati alle frequenze negative. Quando detto è
vero, quindi dobbiamo dividere per N o N/2, per tutti i punti tranne che per il primo e per quello alla
frequenza di Nyquist (fc/2). Nel vettore che fornirà MATLAB il termine corrispondente a Nyquist non
sarà l’ultimo, perché appiccica dopo il valore di Nyquist tutte le frequenze negative. Ci dà un vettore
che è lungo complessivamente ancora N, ma mette prima le frequenze positive e poi quelle negative
in serie che è tutto equivalente a mettere frequenze oltre a Nyquist, perché per l’Aliasing si hanno
frequenze ribaltate. A noi interessa solo il primo pezzo da 0 al valore di Hn corrispondente a Nyquist.
Il solo problema è che ci dobbiamo costruire la scala delle frequenze perché ci dà gli Hn ma non
sappiamo a quali frequenze corrispondono. Poco male perché andremo a controllare con quale fre-
quenza abbiamo campionato oppure controlleremo la durata totale del tempo di osservazione.

Abbiamo visto che utilizzare lo strumento dell’analisi spettrale quando lo strumento non è periodico
possiamo avere un problema che va sotto il nome di

EFFETTO FINESTRA o ERRORE DI LEAKAGE.


Questo consiste nel fatto che se il mio periodo di osservazione è un multiplo del periodo del segnale
(Ts) ci accorgiamo che nello spettro c’è una riga che corrisponde alla frequenza del segnale, se
invece non si verifica questa condizione facciamo Errore di Leakage. Anziché avere la riga spettrale
dove la vorremmo avere, avremo che la frequenza vera risulta intermedia tra due righe e lo spettro
anziché essere costituito da una singola frequenza come lo sarebbe per il nostro segnale, mi dà un
certo numero di righe che stanno attorno alla frequenza vera.
Se T = K Ts (con K = numero intero) NO LEAKAGE

------------ ooo ------------

Vediamo l’ultimo argomento legato all’Analisi di Fourier. Le grandezze armoniche si possono rap-
presentare come un vettore rotante.

X(t) = d Hn e† n ωo t

Per esempio il termine e † ~ •–R lo possiamo rappresentare come:


cerchio di raggio unitario R=1

asse immaginario
e † ~ •– R è rappresentato da questo vettore che ruota in senso
antiorario

nω0t

asse reale
- nω0t

74
In corrispondenza dell’Hn abbiamo anche la frequenza corrispondente ad H-n che ha argomento
e † ~ •–R . L’angolo “- nω0t” è il simmetrico ma dalla parte opposta. Se considero la componente a
frequenza positiva e quella a frequenza negativa, sono due quantità moltiplicate una per un vettore
che ruota in senso antiorario e l’altra per un vettore che ruota in senso orario. Vediamo l’effetto che
si ottiene moltiplicandola per Hn. Questo termine lo possiamo scrivere come:
Hn = IHnI š Á
cioè il prodotto di modulo e fase

H-n = IH-nI š Á!

I due moduli sono uguali dato che i due coefficienti, Hn e H-n, sono numeri complessi coniugati e
quindi la fase è l’arcotangente della parte immaginaria su quella reale:
º» /(
φ = -arctg
¼» /(
Se cambio il segno della parte immaginaria, cambia anche il segno di φn, quindi:

φ-n = - φn e di conseguenza:
H-n = IH-nI š Á!
= IHnI š Á

Ora moltiplico questo numero per la quantità e † ~ •– R (prodotto di numeri complessi).


Questo prodotto è un numero complesso il cui modulo è il prodotto dei moduli. Dato che e † ~ •– R ha
modulo unitario, mi resta il solo modulo di Hn (supponiamolo maggiore di 1). Graficamente abbiamo
che (vettori neri di modulo Hn):

asse immaginario φn

IHnI = modulo di Hn
nω0t
asse reale
vettore somma
- nω0t
IH-nI = IHnI

- φn

Le fasi di questo prodotto sono le somme delle fasi, quindi all’nω0t devo sommare φn e lo stesso
vale per “- nω0t” al quale sommiamo - φn . Otteniamo i due vettori evidenziati in rosso che altro non
sono che la rotazione di quelli neri di un angolo pari a φn, cioè non faccio altro che ruotare in verso
antiorario il vettore di modulo IHnI di un angolo pari a φn, e il vettore di modulo IH-nI in senso orario
di un angolo pari a “-φn”. I due vettori, frequenze positive e negative, hanno sempre la stessa parte
immaginaria ma opposta, e quindi la loro somma è un numero reale e d’altra parte dallo sviluppo in
serie deve uscire una funzione reale e non può certo uscire una funzione complessa.
Sono quindi due vettori controrotanti, uno ruota in senso orario e l’altro in senso antiorario. Quindi
possiamo tener conto che la rappresentazione corrispondente alle componenti armoniche è quella
di due vettori che hanno modulo pari al modulo di Hn e che ruotano uno in senso antiorario e l’altro
in senso orario. La somma dei due vettori è rappresentata nel grafico ed è la componente di X(t)
dovuta alla sola parte Hn, cioè la componente armonica corrispondente a “nf0”.
La rappresentazione grafica ci fa vedere cosa fa la fase di Hn, cioè di fatto ci fa vedere con t=0 di
quanto sono aperti i due vettori inizialmente.

75
che può avere un costo elevato, a volte comparabile con quello dello strumento se voglio regolazioni
ad esempio entro l’1‰ del fondo scala.

- INCERTEZZA STRUMENTALE: molto importante anche se spesso al posto di questo parametro


possiamo avere:

SCARTO TIPO DI LINEARITA’


RISOLUZIONE
ERRORI DI ISTERESI
ACCURATEZZA
ecc…

- CLASSE DI PROTEZIONE DELL’INVOLUCRO (resistenza a condizioni ambientali)


Si basa sulla norma IEC 60529

Esempio: IP68D Vedi sotto il significato dei tre parametri dopo la sigla IP.

CLASSE DI PROTEZIONE DEGLI INVOLUCRI


PROTEZIONE SOLIDI PROTEZIONE LIQUIDI CORPO UMANO
da 0 ÷ 6 da 0 ÷ 8 da A ÷ D
cambia la dimensione delle parti fornisce la resistenza ai liquidi, in E’ una classificazione non obbli-
che possono entrare nell’involucro genere acqua, per l’involucro dello gatoria, ma che può essere ag-
dello strumento ed eventualmente strumento. giunta, e che riguarda la possibi-
danneggiarlo. 0: la sola presenza di acqua nelle lità di accesso all’interno dello
0: possono entrare corpi di dimen- vicinanze può creare problemi di strumento di parti del corpo
sioni molto grandi. funzionamento allo strumento. umano, quindi è legata al rischio
6: tenuta stagna alla polvere. 8: lo strumento può funzionare im- di contatto con parti in tensione
Nella codifica può esserci anche il merso in acqua. oppure in movimento.
valore “X” che vuol dire che per 7: immersione temporanea in ac- A: possibilità di accesso con il
questa voce non è stata fatta al- qua. dorso delle mani
cuna certificazione. X: come nel caso dei solidi D: possibilità di accesso con le
dita delle mani

- CLASSE DI PROTEZIONE DEGLI INVOLUCRI DAGLI URTI

Si basa sulla norma IEC 50102

Esempio: IK 10

Valore numerico da 0 ÷ 10 che corrisponde alla resistenza dell’involucro all’impatto con una mazza
battente con energia via via crescente. IK 10 certifica la resistenza dell’involucro con l’impatto di una
mazza battente con energia di 20 J. Il valore 0 indica che non è stata testata la resistenza dell’invo-
lucro (è l’equivalente della “X” nell’altra classe di protezione IP).

- CARATTERISTICHE AMBIENTALI SOPPORTATE DAGLI STRUMENTI: non sempre sono pre-


senti, fatto salvo il dato sulla temperatura in genere indicato. Altri, tipo quello della pressione, umidità
relativa, presenza di vento o vibrazioni ecc. non sono indicati, ma già insiti nello strumento pensato,
magari, per un determinato settore e campo applicativo (vedi quello automobilistico ecc.).

Un ultimo punto che non è presente nelle schede tecniche ma che è sicuramente preso in conside-
razione nella scelta/acquisto di uno strumento è il COSTO.

39
CONVERSIONE ANALOGICO/DIGITALE

L’uscita di quasi tutti i sistemi di misura è attualmente di tipo numerico con il vantaggio che tutti i dati
legati a delle operazioni di misura possono essere memorizzati e successivamente elaborati da un
calcolatore. In passato invece era rappresentata da, per esempio, un ago o da una colonnina che si
spostavano su una scala graduata, quindi “uscite visive” e “analogiche” che potevano essere lette
da un operatore. Per avere un’uscita numerica bisogna fare quell’operazione che va sotto il nome di
conversione analogico/digitale o con un acronimo A/D.
I registratori su carta usati spesso in passato con i termometri per vedere l’andamento della varia-
zione della temperatura nel tempo, rappresentano abbastanza bene quello che avviene ad una gran-
dezza di tipo analogico. Questo tipo di grandezza, infatti, è rappresentata da una curva continua nel
tempo.

Temperatura (Y)

T2
T1

t1 t2 Tempo (X)

La continuità nel tempo ha due aspetti che dobbiamo affrontare per passare da una rappresenta-
zione analogica ad una digitale. Se la grandezza assume, per esempio, i valori di temperatura T1 e
T2, assume anche qualsiasi valore intermedio tra T1 e T2, quindi tra due punti ci sono compresi altri
infiniti punti. E’ gestibile da un calcolatore una infinità di punti compresa tra due punti qualsiasi?
Ovviamente no, quindi un calcolatore interromperà questa continuità e ci fornirà solo valori discreti.
Il primo aspetto sarà quindi che:

1) I VALORI DI “Y” VENGONO DISCRETIZZATI


L’altra continuità è quella nel tempo. Se io osservo un qualunque fenomeno all’istante t1 e all’istante
t2, il fenomeno esiste anche in qualsiasi istante intermedio. Quindi anche nel tempo ho infiniti valori
tra due qualsiasi punti. Se vogliamo memorizzare su un calcolatore il fenomeno non potremmo me-
morizzare infiniti punti e quindi anche nel tempo quello che avremo sarà una discretizzazione:

2) CAMPIONAMENTO A TEMPI DISCRETI 0, Δt, 2Δt, …. NΔt


Mentre prima avevamo una funzione continua ora abbiamo una serie di valori al tempo 0, Δt, 2Δt
fino a NΔt. Ci saranno quindi dei tempi ben definiti in corrispondenza dei quali il mio sistema di
conversione analogico/digitale fotograferà il valore della grandezza in quel momento.

La discretizzazione qui sopra evidenziata ci porta a degli errori di misura. Andiamo ad analizzare
prima quelli dovuti alla discretizzazione dell’asse delle ordinate per poi vedere quelli dell’asse delle
ascisse.
Il nostro convertitore analogico/digitale che di solito viene indicato con il simbolo A/D, è un trasdut-
tore, cioè un qualcosa che trasforma una grandezza, che è sempre una tensione elettrica, in un’altra
46
grandezza che nel caso specifico è un numero, cioè un dato memorizzabile da un calcolatore in
codice binario.
numero di bit

Tensione Numeri
X A/D

I numeri sono caratterizzati da quanto spazio di memoria posso utilizzare per rappresentarli, questo
è legato al numero di bit, cioè a quante caselline con la rappresentazione binaria 0, 1 sono rese
disponibili dal calcolatore. Se io ho un calcolatore con numero “n” di bit per rappresentare un numero,
quanti valori riesco a scrivere? La risposta è 2n, quindi:
N° di elementi = 2n
Se dobbiamo leggere una tensione che è compresa tra 0 e 10 V e abbiamo a disposizione un cal-
colatore a 10 bit, posso disporre di numero di elementi pari a 210 = 1024. Ad ogni elemento di codifica
che intervallo di tensione dovrà corrispondere? Devo distribuire 10 V su 1024 punti quindi il corri-
spondente intervallo di una singola lettura sarà, indicando con Fs il Fondo Scala:

LSB = Least Significant Bit, cioè il valore corrispondente al bit meno significativo

Quando mi scala di 1, il bit meno significativo mi indica di quanto è cambiata la tensione in ingresso.
Dobbiamo ora assegnare i valori corrispondenti ai singoli bit. Per farlo possiamo tracciare l’equiva-
lente di un diagramma di taratura.
Supponiamo, per fare un caso semplice, che abbiamo 10 V come Fs e 3 bit per il convertitore A/D,
in modo da poter disegnare solo 8 livelli (23).

Quindi LSB = = 1,25 V

Lettura Esad. bit

8,75 7 1 11

7,5 6 1 1 0

6,25 5 1 0 1

5 4 1 0 0

3,75 3 0 1 1

2,50 2 0 1 0

1,25 1 0 0 1

0 0 0 0 0
0,625 1,875 3,125 4,375
1,25 2,50 3,75 5 10 V
Segniamo in ordinate i punti da 0 a 8 e facciamo corrispondere il punto 8 ai 10 V. Andremo ora a
distribuire le letture in modo da fare l’errore minimo. Scriviamo i valori di cui ho bisogno. Se andassi
47
con la politica binaria, il primo, il valore “zero”, sarebbe 0 0 0, il secondo, il valore “uno”, 0 0 1, e così
via fino ad arrivare al “sette” con 1 1 1. In pratica non riesco a scrivere il valore “otto”, dato che gli
otto numeri che ho voluto rappresentare includono anche lo zero. Questo vuol dire che il Fs non
riuscirò a scriverlo avendo fatto questa scelta. Ovviamente questa non rappresenta per noi l’uscita
numerica ideale dal calcolatore. La più semplice potrebbe essere quella di dare i numeri dall’1 all’8,
anche se l’8 non me lo può dare perché avrebbe bisogno di 1 bit in più. Questa scrittura esadecimale
è migliore di quella binaria, ma anche questa non è proprio quella ottimale. L’8 che dovrebbe corri-
spondere al 10 non mi dà la lettura che vorrei leggere. Tanto vale moltiplicare il tutto per l’LSB e
avere il valore di tensione corrispondente, quello che vediamo nella colonna “Lettura”.

Se in ingresso entra zero, in uscita mi aspetto altrettanto. Se entra 1,25 V non ci sono problemi dato
che l’uscita corrisponderà al medesimo valore, così come per una tensione da 2,5 V ecc.. Il problema
è decidere cosa fa il convertitore quando entra, per esempio, 1 V. Se entra questo valore, il conver-
titore A/D può dare, non essendo l’uscita continua ma discreta, o 0 V oppure 1,25 V. La migliore
soluzione è quella per cui il convertitore A/D faccia l’errore minore e quindi faccia l’arrotondamento
al digit più vicino. Per avere l’errore minore divido l’intervallo in ingresso esattamente a metà. Se
sono al di sotto della metà dell’intervallo prendo il valore più basso, se sono sopra quello più alto.
Per il mio 1 V il punto di cambio di lettura sarà 0,625 V. Essendo al di sopra di questo valore, in
uscita avremo 1,25 V. Quindi se io vado a disegnare il reale comportamento del mio convertitore
A/D, questo non è dato dalla retta continua inclinata, bensì dalla spezzata in grassetto. Questo com-
portamento l’abbiamo già visto per la risoluzione dello strumento, quindi questo è uno strumento
affetto da risoluzione.

Questa vale 1,25 V che ≡ con LSB ≡ RISOLUZIONE

Quindi l’incertezza tipo strumentale sarà pari a =


E’ interessante andare a vedere qual è l’errore per le varie misure. Indichiamo con ε = VL – X il nostro
errore come differenza tra il valore letto (VL) e quello in ingresso (X):

ε = VL - X

0,625

10 V X
- 0,625

0,625 1,25 1,875 2,50 8,75

Se mi trovo nell’intervallo 0 ÷ 0,625, il valore letto è 0, quindi l’errore sarà ε = 0 – X = - X, quindi in


questo intervallo l’errore è rappresentato da una retta inclinata di – 45° con equazione ε = - X.
Nel punto 0,625 il valore di ε = 0,625 – 0,625 = 0, appena dopo lo 0,625 l’errore diventa
ε = 1,25 – 0,625 = 0,625, quindi l’errore passa da -0,625 a +0,625. Se vedo l’errore nel punto 1,25,
questo è pari a ε = 1,25 – 1,25 = 0 e così via. L’andamento è quello di un diagramma a dente di
sega in cui i punti passanti per lo zero coincidono con i punti di lettura, quindi 0, 1,25, 2,50 ecc.
L’ultimo punto interessante è quello dell’8,75 per il quale l’errore è pari a zero. Ma se vado oltre,
quindi do 10 V, 20V…100V, cosa succede?

48
La lettura strumentale sarà sempre di 8,75 perché lo strumento non riesce a fornire letture superiori,
quindi l’errore aumenterà sempre di più all’aumentare della X assumendo quindi valori negativi sem-
pre più grandi: 8,75 – 10; 8,75 – 20;…8,75 – 100 e così via. Quindi l’errore a partire dall’ultima lettura
diventa grande a piacere. Stesso discorso per eventuali ingressi negativi. La lettura strumentale sarà
sempre pari a 0, ma l’errore aumenterà sempre più con valori positivi: 0 – (-X) = +X. Se metto -1 V
l’errore sarà +1 V e così via.
Se dobbiamo mettere l’incertezza di misura al nostro strumento, il cui comportamento abbiamo gra-
ficamente rappresentato sopra, diremo che:

= per tutti i valori esclusi gli estremi della scala, quindi 0 e 10 V, cioè e ,

dato che per questi l’errore può andare da - ∞ a +∞.

Se leggo sullo strumento zero o leggo il fondo scala positivo concludo che il mio strumento è andato
fuori scala, cioè non posso sapere qual è il reale ingresso. Questo discorso vale anche per tutte le
varie tipologie di strumenti.

Questa è l’incertezza minima ed è legata alla discretizzazione fatta dallo strumento sul segnale in
ingresso, quindi alla risoluzione. Questa non è comunque la sola incertezza del convertitore, dato
che possono entrare in gioco anche tutte quelle viste in precedenza (isteresi, la non linearità, le
derive, le sensibilità alla temperatura). Di fatto, però, quando l’LSB è molto grande, in genere fino a
convertitori a 12 bit, la risoluzione copre quasi tutte le altre cause di incertezza. Quindi mi basta
valutare l’incertezza della risoluzione e ho l’incertezza del convertitore.

La SENSIBILITA’ di un convertitore A/D è pari, in condizioni ideali, a 1. Infatti, considerando la


linearità del dispositivo, e considerando che è pari alla derivata dell’uscita rispetto all’ingresso
(dx/dy), ad un ingresso di 5 V mi corrisponde un’uscita numerica pari a 5.

( !"#)
S= (%! &'# !)
= 1 V-1 cioè la sensibilità è pari a 1 con unità di misura pari a V-1

I convertitori più recenti arrivano a 24 bit. Calcolando l’incertezza su 24 bit questa viene piccolissima.
In quel caso dovrò guardare la scheda tecnica del convertitore nella quale mi diranno che la sensi-
bilità può derivare di uno 0.1% (come esempio, questa è una enormità per uno strumento reale)
dopo un anno dalla taratura.
Per DERIVA DI SENSIBILITÀ si intende che la Sensibilità anziché essere 1 V-1 diventa magari
1,001 V-1, questo si traduce nel fatto che l’uscita 8 (V) corrisponde all’intervallo di ingresso 8/1.001
±0.5LSB cioè mi cambiano i punti ideali di conversione. Vediamo come si valuta l’errore di lettura
corrispondente, quindi come trasformare un’incertezza sulla Sensibilità in un’incertezza sulla X.

Come sappiamo Y = S X quindi X = Y/S. Se S ha un’incertezza, considerando che il rapporto scritto


è l’equivalente di un prodotto, potremo utilizzare la relazione delle incertezze relative e quindi scri-
vere (su Y non stiamo ipotizzando nessuna incertezza):
(
= cioè l’incertezza relativa sulla X è uguale all’incertezza relativa sulla Sensibilità
)
Quindi se la mia Sensibilità può variare del 5% vuol dire che l’incertezza su quello che leggo sarà
del 5%. Se voglio il valore assoluto, se sto leggendo 1 V sarà il 5% di 1 V.

Quindi si deve fare molta attenzione nella scelta dello strumento. Anche se è un convertitore a 24
bit (molto utilizzati in acustica) dobbiamo tener conto di tutte le derive, sensibilità a temperatura ecc.
perché può essere che a causa dei vari errori gli ultimi 2 o 3 bit non risultino più significativi. Quindi
bisogna sempre valutare, quando il convertitore è superiore ai 12 bit, che l’incertezza non sia signi-
ficativamente maggiore di quella di risoluzione.

49
la misura è indiretta sappiamo fare la propagazione ed eventualmente espandere l’incertezza per
avere un certo livello di confidenza.

C’è tuttavia una situazione molto comune che potrebbe creare qualche problema. Spesso si misura
una grandezza con uno strumento e l’uscita ottenuta diventa un ingresso per un altro strumento e
così via, cioè ho quella che chiamiamo una CATENA DI MISURA.

CATENA DI MISURA

X Y Z W
S1 S2 S3

1° strumento 2° strumento 3° strumento

Questa è la situazione che possiamo avere all’interno di uno strumento di misura complessivo di cui
noi vediamo solo un ingresso e una uscita. Per esempio, alla misura di temperatura con una termo-
coppia. In questo caso abbiamo un sensore di temperatura che produce una tensione elettrica che
è funzione della temperatura. Noi non possiamo leggere direttamente la tensione elettrica, ma dob-
biamo collegare il termometro ad uno strumento in grado di leggere quella tensione. Quindi in un
semplice termometro abbiamo già due oggetti che consentono di passare da un ingresso ad una
uscita, uno è il vero termometro e l’altro il misuratore di tensione. A volte questa tensione è molto
piccola, allora aggiungo un trasduttore che mi moltiplica il segnale per un fattore di amplificazione.
Quindi uno strumento può essere composto da un certo numero di componenti messi in serie tra
loro, cioè composto da una catena di strumenti rappresentata da uno schema a blocchi come quello
sopra riportato.

Partiamo dall’esempio sopra schematizzato. Mi metto nella condizione in cui i tre strumenti siano
lineari e quindi con S, sensibilità statica (S1, S2, S3), a rappresentarmi la relazione ingresso-uscita.
La relazione tra X e W la si trova facilmente dato che:

Y = S1 X
Z = S2 Y ⟹ W = S1 S2 S3 X
W = S3 Z

Il mio strumento visto nella sua globalità, si comporta come un unico strumento che ha una sensibilità
pari al prodotto delle singole sensibilità. Quindi siamo risaliti al legame ingresso-uscita per il nostro
strumento. Ci rimane il discorso legato all’incertezza strumentale.

Per ognuno dei blocchi prima disegnati, essendo singoli strumenti di misura, ci sarà stata un’opera-
zione di taratura in base alla quale sarà stata valutata la sua incertezza strumentale. Questo vuol
dire che questa operazione non è deterministica ma va ad aggiungere una parte sconosciuta sulla
catena che è una parte dell’incertezza complessiva. Nello schema questo lo possiamo rappresen-
tare come:

X Y Z W
S1 S2 S3

Qcd4ce4f4 cfgc\^d4g h 4 h) 4) hB 4B

Oltre all’ingresso X, entra nella catena un qualcosa che non conosco ma di cui conosco lo scarto
tipo e che è legato proprio allo strumento. Alla parte Y = S1 X si aggiunge una parte dovuta allo

42
1

M
2
U S/H A/D
X

Un’alternativa al primo caso visto è quella qui sopra rappresentata. Qui il MUX quando deve leggere
il canale 1 lo connette all’S/H che lo congela il tempo necessario alla conversione e così via. Essendo
unico il S/H congela ogni canale ad un tempo diverso, con una distanza di tempo pari a quella
impiegata per fare una lettura. Non ho più una simultaneità nella lettura ma ci sarà un ritardo tra un
canale e l’altro. Questa struttura è detta Asincrona mentre la prima Sincrona.

Tra i due, il primo sistema è quello preferibile perché ho l’acquisizione sui vari canali fatta allo stesso
istante. Il secondo è comunque il più comune perché risparmio componenti. Altro motivo per il quale
è preferibile è che quando il convertitore ha pochi bit (10 o 12 bit) mi conviene avere un altro com-
ponente nella catena che è un AMPLIFICATORE, cioè un oggetto che se entra una tensione di 1 V
può farla risultare 10 V, 100 V ecc. a seconda della mia scelta su quello che viene detto il “GUA-
DAGNO”, cioè il fattore di amplificazione.

Vediamo perché è importante l’amplificatore. Supponiamo di avere uno strumento che ha un Fs di


100 mV. Quindi so che devo leggere qualcosa pari a X <100 mV.
Posso scegliere una soluzione a) con un convertitore a 10 bit e Fs= 0 ± 10 V a cui posso mettere in
ingresso un amplificatore con un guadagno (cioè la sensibilità di questo dispositivo) che può essere
0,1; 1; 10; 100, oppure una soluzione b) con un convertitore A/D a 16 bit.

0,1; 1; 10; 10; 100 10 bit

a) X Lettura Fs= 0 ÷ 10 V
A A/D

16 bit

b) X Lettura Fs= 0 ÷ 10 V
A/D

con X ≈ 100 mV.


Vediamo quale delle due soluzioni è preferibile. Per fare il confronto ipotizzo che la sola incertezza
sia introdotta dalla risoluzione del convertitore A/D. L’incertezza dovuta al secondo sistema la deter-
miniamo velocemente dato che è:

51
soluzione b)

- .
,= con LSB =
01 01
quindi ,6/8 = 9:
= = ,<
√/ 2 345
√/ ; /; √/

non avendo null’altro sulla catena, cioè il solo A/D.

soluzione a)

,6/8 = 9=
=
√/ > √/

Apparentemente sembrerebbe più conveniente la soluzione b). Però questa non è l’incertezza equi-
valente della misura di X. Per passare da alla X devo dividere per la sensibilità. Quindi, ipotizzando
un guadagno e quindi una Sensibilità dell’amplificatore pari a 100 dato che con un ingresso da 100
mV ottengo 10 V e quindi mi adatto perfettamente al Fs dell’A/D avremo:

'?/@
,< = = = ora sarebbe questa la soluzione preferibile.
> √/ > √/

Grazie all’amplificatore, malgrado l’A/D abbia un’incertezza maggiore di quella del caso b), l’incer-
tezza complessiva viene ridotta rendendo questo sistema più accurato dell’altro.

Questa nuova rappresentazione farebbe preferire la soluzione a) alla b), ma non sempre è così.
Supponiamo ora di avere un sensore che al posto di avere 100 mV di Fs abbia 2 V di Fs (diverso
sensore o scelta sbagliata).
Se mando questo nuovo segnale X in ingresso nel primo sistema non posso più tenere l’amplifica-
zione 100 ma dovrò optare per la 1 per evitare di andare oltre il Fs dell’A/D.
In questo caso la soluzione b) continuerà ad avere la medesima incertezza, mentre per la a) le cose
cambiano.
'?/@
,< = = =
> √/ > √/

In generale è quindi preferire il secondo sistema dato che è meno problematico del primo per il quale
si devono avere informazioni preliminari su quello che si misura per adattare l’amplificazione. In
qualche caso, però, il primo è ancora preferibile. Per esempio se i dati li ho raccolti con un cellulare
e li devo poi mandare da un’altra parte. Nel primo caso sono dati a 10 bit nel secondo a 16 bit quindi
il volume di dati maggiore del 60%. Per trasmettere la medesima misura devo trasmettere nel caso
b) un volume di dati che è una volta e mezza quelli del caso a).

52
SISTEMA SINCRONO CON AMPLIFICATORI

X1
A S/H

M
X2 Lettura
A S/H
U A/D

Xn
A S/H

SISTEMA ASINCRONO: VERSIONE PIU’ ECONOMICA


In questo caso si risparmia non solo sui S/H ma anche sugli Amplificatori. Quella del costo più basso
è la sola ragione per la quale si potrebbe preferire questo sistema, dato che ha tutti gli svantaggi
possibili.

X1

M
X2 Lettura
U A S/H A/D

Xn

I punti essenziali della lezione precedente:

CONVERSIONE A/D
Tutto si riassume nel fatto che il convertitore discretezza la nostra grandezza continua che è una
tensione. La discretezza in un certo numero di livelli che sono i valori con cui lui riesce a codificare
la tensione in ingresso e questo si ripercuote in una incertezza di risoluzione.
01 01
RISOLUZIONE DEL CONVERTITORE: LSB = 2 345 ⇒
53
- .
INCERTEZZA DEL CONVERTITORE: ,6/8 =
√/

Questa è tutta l’incertezza del convertitore quando abbiamo convertitori con una risoluzione relati-
vamente bassa, quindi 10, 12 o 16 bit. Con questo termine copriamo tutte le incertezze. Quando
abbiamo convertitori con risoluzioni più alte dobbiamo andare a cercarci anche le altre caratteristiche
che determinano l’accuratezza e quindi avremo delle derive dello zero, delle sensibilità alla tempe-
ratura che aumentano ancora l’incertezza ecc. che andremo a combinare tra loro.

Se abbiamo un convertitore e aggiungiamo un amplificatore in ingresso possiamo variare la risolu-


zione equivalente del convertitore. Di fatto, però, è come cambiare il fondo scala del convertitore
trasformandolo nel fondo scala originale moltiplicato per il guadagno dell’amplificatore. La formula
che possiamo usare è la stessa se teniamo conto che il Fs anziché essere quello direttamente all’in-
gresso del convertitore è quello all’ingresso della catena amplificatore più convertitore. A questo
punto la formula da utilizzare è sempre la stessa.

------------ ooo ------------

Quando abbiamo parlato di conversione A/D abbiamo visto che un aspetto è la discretizzazione della
scala delle Y, ed è quello che abbiamo già visto, l’altro aspetto è la discretizzazione dei tempi. Non
potremmo avere la conoscenza del nostro segnale per qualsiasi tempo, ma il segnale andrà cam-
pionato a tempi che sceglieremo inizialmente. Quindi dal segnale inizialmente continuo, dopo il cam-
pionamento, sia per l’asse delle X sia per quello delle Y, non avremo più un segnale continuo ma
campionato. Quest’ultimo per i tempi 0, Δt, 2Δt, 3Δt ecc. da noi scelti che comunque non potranno,
come è d’altronde immaginabile, essere scelti in modo del tutto arbitrario.

X(t)

0 Δt 2Δt 3Δt tempo


0 Δt 2Δt

Se infatti prendo, per esempio, intervalli di tempo troppo grandi, vedi i Δt, 2Δt indicati e poi congiungo
tra loro i punti ottenuti otterrei una spezzata poco significativa che ha ben poco a che fare con il
segnale originale, non così per i Δt più piccoli (0, Δt, 2Δt, 3Δt) che danno origine ad una spezzata
che ricalca l’andamento del segnale originale. Intuitivamente, più piccolo è l’intervallo di campiona-
mento, cioè più piccolo è il Δt, e meglio riesco a riprodurre l’andamento del segnale originale. Il
problema è vedere se c’è un Δt minimo al di sotto del quale non ha senso spingersi per renderlo più
piccolo oppure, al contrario, se c’è un Δt tale che se vado oltre quell’intervallo comincio ad acquisire
in maniera errata il segnale.
Per farlo vediamo quello che succede su un segnale sinusoidale al quale possiamo sempre ricon-
durci come vedremo meglio in seguito. Infatti tutti i segnali tenderemo a ricondurli a somme di segnali
semplici e in modo particolare a somma di sinusoidi per valutare facilmente come vengono elaborati
dagli strumenti di misura.

54
"m
Dato 4i per tornare 4 dividiamo per 4 =
J J Jl … J|

ERRORE DI INSERZIONE

ε=- v
caso MISURA DI TENSIONE
. u ow
v}~
no p nqr
ε= nqr
ε=- v}~ caso MISURA DI CORRENTE
.D F
vo

E’ il rapporto tra la differenza che misuriamo con il nostro strumento e quello che avremmo misurato
se il nostro strumento non avesse alterato il sistema, con quest’ultimo valore e cioè con la misura
se lo strumento non avesse alterato il sistema. Questo errore assume due espressioni diverse nel
caso elettrico andando a considerare un circuito equivalente di impedenza Zeq. A seconda della
quantità che misuriamo abbiamo bisogno di strumenti di misura con caratteristiche opposte. Il misu-
ratore di tensione deve avere un’impedenza Zm la più grande possibile, mentre il misuratore di cor-
rente la deve avere la più piccola possibile.
Queste due espressioni le troviamo anche negli altri campi, meccanico e termico, dove possiamo
trovare dei parametri equivalenti alle impedenze elettriche. Se prendo, per esempio, il campo mec-
canico e faccio un analogia rispetto a quanto avviene in quello elettrico, se devo misurare uno spo-
stamento o una velocità, il mio misuratore non deve esercitare alcuna forza, quindi se il misuratore
ha una rigidezza, questa deve essere idealmente nulla. Se invece devo misurare una forza e quindi
il misuratore si va ad inserire tra due elementi che si scambiano una forza, affinché non alteri il
sistema dovrà avere una rigidezza teoricamente infinita.

------------ ooo ------------

45
degli assi fossimo partiti dal punto A, mi sarei ritrovato con i punti A, B, C, D ecc., in pratica tracciando
la spezzata mi ritrovo nella stessa situazione del CASO 1). Quindi se anziché partire dall’asse indi-
cato, questo si sovrapponesse al punto A, in pratica passerei da una funzione seno ad una coseno
e riuscirei a campionarla in modo simile al CASO 1).
Quindi in questa situazione con fc = 2 fs se ho una funzione seno non vedo nulla, se ho una funzione
coseno la vedo correttamente. Qui abbiamo quella che si definisce una:

Sinusoidi NON SI VEDONO


SITUAZIONE AMBIGUA
Cosinusoidi SI VEDONO

Vediamo una situazione ancora più critica:


G
CASO 3) Δt = HI ⟹ fc = fs otteniamo i punti 0, B, H, E….
G

In questo caso otterrei la spezzata “linea – punto”. Abbiamo ancora un segnale a forma triangolare
come nel CASO 1), l’ampiezza assomiglia a quella corretta ma cambia il periodo del segnale origi-
nale e inoltre si è anche invertito il segno (da “+” seno a “-“ seno):
Tapparente = 3 Ts

AMPIEZZA CORRETTA

PERIODO ERRATO Ta = 3 Ts

In pratica abbiamo visto che se operiamo con frequenze di campionamento abbastanza alte rispetto
a quelle del segnale tutto funziona bene. C’è un punto critico che è quello per cui fc = 2 fs in cui a
volte il campionamento funziona bene, caso dei coseni, a volte funziona male, caso dei seni. Se
andiamo oltre la situazione è ancora peggiore perché otteniamo sempre una sinusoide, ma comple-
tamente diversa da quella reale, cioè otteniamo un andamento oscillante ma con un periodo di un
segnale che non esiste. Inoltre se io avessi sotto un segnale con una sinusoide proprio con quel
periodo pari a 3 Ts campionerei esattamente gli stessi punti, quindi dopo il campionamento non avrei
alcun modo di dire se erano punti di una sinusoide che aveva esattamente i massimi nei punti cam-
pionati oppure se questi sono venuti fuori casualmente e magari il segnale originale aveva altri mas-
simi intermedi che non sono riuscito a vedere. Questa è proprio la situazione peggiore che potrei
avere: vedo qualcosa che non esiste, cioè una sinusoide con una frequenza che non esiste, e non
riesco a distinguerla da una vera che fosse presente a quella frequenza.
Tutto questo si riassume in un teorema:
TEOREMA DEL CAMPIONAMENTO (o di SHANNON)
Per ottenere il campionamento corretto la frequenza di campionamento deve essere strettamente
maggiore della frequenza del segnale. In pratica ci dice che dobbiamo campionare con una fre-
quenza di campionamento pari a più del doppio della frequenza del segnale, quindi con fc > 2fs.
Inoltre, cosa molto importante, ci dice anche che se campiono correttamente è possibile ricostruire
il segnale continuo anche dopo averlo campionato.
In pratica è inutile eccedere nei punti di campionamento, dato che è sufficiente rispettare la condi-
zione fc > 2fs per poter poi ricostruire il segnale continuo.

Se non abbiamo alcuna informazione sul segnale in ingresso, cosa normalmente molto rara, dovrò
adattare il segnale al mio sistema di campionamento. Se il mio sistema può campionare al massimo
a 2 KHz, per campionare correttamente devo mettere un elemento (filtro) a monte per adattare il
segnale a quello che riesco effettivamente ad acquisire. Questo filtro mi elimina tutte le componenti
del segnale che si trovano oltre 1 KHz, per rispettare la condizione fc > 2fs. In questo caso non
campiono più il segnale di partenza, dato che ne ho eliminato una parte ma questo è la sola cosa
che posso fare. Quindi se non conosco niente del segnale in ingresso, allora parto con la massima
frequenza di campionamento consentita dal mio sistema eliminando con un apposito filtro le parti

56
del segnale che ne pregiudicherebbero il suo corretto campionamento (non rispetto del teorema di
Shannon). Acquisisco il segnale e guardo quello ottenuto. Potrei accorgermi che non c’è nel segnale
nulla oltre una certa frequenza e allora era inutile aver campionato a 2 KHz perché mi accorgo che
il segnale si caratterizza con frequenze fino a 200 Hz. A quel punto conosco il segnale e quindi so
che se devo acquisirlo di nuovo andrò a campionare con una frequenza di campionamento di, per
esempio, 420 Hz.

Se fc < 2fs si verifica un fenomeno che viene chiamato ALIASING. Questo è il fenomeno che ab-
biamo visto nell’esempio precedente campionando a 3/4 del periodo del segnale (Caso 3). Cioè
frequenze superiori a quelle che potrei campionare correttamente vengono trasformate in basse
frequenze inesistenti.
F
C’è anche una frequenza particolare fc = fNY = FREQUENZA DI NYQUIST
che rappresenta anche il limite delle frequenze che riesco a campionare correttamente (fny > fs), cioè
è la frequenza massima che rispetta il Teorema del campionamento.
Tutte le frequenze superiori alla fNY subiscono il fenomeno dell’ALIASING. Si può ottenere la fre-
quenza di Aliasing con un semplice diagramma. Se indico la frequenza di campionamento fc, a metà
metto la frequenza di Nyquist fNY. Se ho delle componenti in frequenza prima di fNY, ho una frequenza
di campionamento più che doppia rispetto a quella del segnale, quindi campiono correttamente.

f apparente in Aliasing

/
fs = fc

fa Δf Δf fs

0
/
fNY fs fc f
/

campiono correttamente non campiono correttamente


2fs < fc 2fs > fc
(frequenze tra 0 e fNY )
I segnali con frequenze superiori a fNY non vengono campionati correttamente dato che 2fs > fc. Un
segnale a questa frequenza viene ribaltato a frequenza più bassa. Questo segnale viene ribaltato in
modo speculare rispetto alla frequenza di Nyquist. Quindi la frequenza apparente, fa, è la simmetrica,
rispetto alla fNY, della frequenza del segnale fs.
Questo discorso torna perfettamente con quanto visto nel Caso 3). Infatti:
>
fc = / fs fNY = fc = /
fs
3
Δf = fs - / fs = / f s quindi fNY – Δf = fs - / f s = / fs
3 /

Cioè la f apparente = fa = fs
/
quindi ottengo proprio un segnale con periodo pari a = Ta = 3 fs = 3 Ts come visto prima.
LM

Questo viene a volte rappresentato in modo semplice da un diagramma denominato:

57
DIAGRAMMA A VENTAGLIO

(triangolo isoscele di altezza qualsiasi)

fa fNY fs fc

consente di trovare direttamente la frequenza apparente per il fenomeno dell’aliasing partendo dalla
frequenza del segnale (punto speculare rispetto alla frequenza di Nyquist).
Consideriamo ora un segnale che interessa l’acustica. L’orecchio umano riesce a percepire suoni in
un campo di frequenza compreso tra i 20 Hz (al di sotto abbiamo gli infrasuoni) e i 20 kHz (al di
sopra abbiamo gli ultrasuoni). Questa è la banda di frequenze dell’udibile, cioè dove il nostro orec-
chio riesce a percepire le onde di pressione.
Se dobbiamo registrare un concerto andremo a registrare con una frequenza di campionamento di
40 kHz, dato che le componenti del segnale oltre i 20 kHz non riusciremo comunque ad udirle. C’è
tuttavia il rischio che se ci sono degli ultrasuoni, quindi frequenze oltre i 20 kHz, per esempio a 22
kHz, queste campionando a 40 kHz andranno a finire come frequenze a 18 KHz nel segnale cam-
pionato (2 kHz oltre i 20 kHz che è la frequenza di Nyquist, quindi Δf = 2 kHz e fa = 18 kHz). Cioè ci
troveremo con un suono percepito (avendo frequenza di 18 kHz) che non è reale essendo dovuto al
fenomeno dell’Aliasing. Per eliminarlo dobbiamo mettere un componente che non lascia passare le
frequenze oltre i 20 kHz. Quindi prima di arrivare al convertitore A/D inseriamo un oggetto che si
chiama FILTRO IN FREQUENZA che idealmente dovrebbe troncare le frequenze a 20 kHz (linea
rossa).
In ordinate abbiamo il rapporto tra l’ingresso
P
dell’ampiezza della sinusoide in uscita e l’ampiezza
Q
20 kHz della sinusoide in ingresso. Per tutti i segnali fino
1 alla frequenza di Nyquist vorremmo che il filtro non
intervenga, cioè se entra 1 deve uscire 1 (rapporto
costante). Alla frequenza di Nyquist vorremmo la si-
tuazione indicata dalla linea rossa, ma questo sap-
fNY A f piamo che è solo una situazione ideale.

banda di transizione
Nella realtà avremo una curva come quella indicata nel grafico. Se vogliamo vedere in modo perfetto
fino ai 20 kHz il rapporto x/y deve restare 1 fino proprio ai 20 kHz. Superati i 20 kHz, i segnali oltre
a questa frequenza non sono stati del tutto eliminati ma solo attenuati. Se ho un segnale di 22 kHz,
questo verrà ribaltato rispetto alla fNY e me lo ritroverei come segnale a 18 kHz. Quindi non mi posso
permettere di campionare esattamente al doppio della frequenza che voglio avere altrimenti nella
zona di transizione oltre i 20 kHz avrei dei segnali che mi ritroverei come una sorta di disturbo nel
campo dell’udibile (Aliasing). Devo fare in modo che l’ultimo segnale oltre i 20 kHz prima di avere
una traccia pari a zero (punto A), ribaltato non mi vada a finire nel campo della zona utile (tra i 20
Hz e i 20 kHz, quindi alla sinistra della linea rossa).
P
La condizione ottimale è quella di scegliere la fNY
Q proprio a metà della zona di transizione (linea trat-
Banda passante 20 KHz
1 teggiata). Ora la frequenza di 20 kHz non sarà più
Banda di la frequenza di Nyquist, ma viene chiamata la
reiezione BANDA PASSANTE dove cioè il segnale passa
inalterato. La BANDA DI REIEZIONE è quella
dove il filtro fa effettivamente il suo lavoro e quindi
fNY f
manda “praticamente” a zero il segnale che non
Banda di transizione potremmo acquisire. La banda tra le due è chia-
mata, BANDA DI TRANSIZIONE.
58
Se restiamo nell’esempio dell’acustica noi vorremmo avere una banda passante a 20 kHz, il cam-
pionamento (con i filtri che si utilizzano comunemente) viene fatto a 44 kHz e quindi la frequenza di
Nyquist è a 22 kHz. Il tratto tra 22 kHz e 24 kHz (banda di transizione) è un tratto dove c’è Aliasing,
cioè tutto quello che c’è dopo i 22 kHz viene ribaltato nella zona tra 20 e 22 kHz. Questo non ci da
alcun problema dato che questa parte non verrà presa in considerazione nella riproduzione per la
quale ci interessa il solo tratto fino a 20 kHz.

Con questo abbiamo concluso la parte relativa alla conversione A/D. Quindi sappiamo che i due
effetti della discretizzazione del tempo e della discretizzazione dell’ambiente si ripercuotono per il
tempo nel fare attenzione a non commettere errori di Aliasing e per le ampiezze nel guardare se la
risoluzione sia compatibile con i miei requisiti di incertezza di misura.

Un convertitore A/D di basso costo (es100 euro) non conterrà un filtro anti-Aliasing, quindi sarà
nostra cura garantire di non commettere Aliasing. Nel caso si opti per un sistema che comprenda
anche un filtro anti-Aliasing che operi in un ampio campo di frequenze il prezzo tipicamente raddop-
pia. Se devo fare misure in campo termico spesso si omette filtro anti-Aliasing dato che i sistemi
termici sono normalmente caratterizzati da basse frequenze (la temperatura in genere varia “lenta-
mente” nel tempo).

ANALISI SPETTRALE
Il Teorema di Shannon ci dice che possiamo ricostruire il segnale per qualsiasi valore del tempo
anche dopo averlo campionato a intervalli di tempo discreti. La procedura che suggerisce il teorema
di Shannon è quella di prendere tutti i tempi e mettere sopra dei polinomi interpolatori. E’ una pro-
cedura molto complessa perché si basa su un processo che si chiama Convoluzione. Noi però riu-
sciamo a fare la stessa operazione passando attraverso l’analisi in frequenza. In pratica se ho un
segnale periodico, lo posso scrivere con lo SVILUPPO IN SERIE DI FOURIER.

X (t)

Ts Ts t

Se ho un segnale periodico nel tempo, vuol dire che si ripete in maniera perfettamente identica a
distanze pari al periodo del segnale (Ts). Per quale motivo diamo questa importanza ai segnali pe-
riodici che potrebbero sembrare dei casi molto particolari? Che utilità avrà nei casi pratici di misura
il fatto di saper rappresentare un segnale periodico? Ci sono due estremi: uno è quello in cui il
segnale è periodico su un periodo molto lungo, oppure posso immaginarlo io periodico perché è
diverso da zero per un tempo limitato, l’altro è quello di segnali che non sono limitati nel tempo e
non periodici. Per il primo caso se, per esempio, prendo in considerazione il segnale di pressione
dovuto all’esplosione di una carica e voglio analizzarlo in termini di componenti in frequenza, questo
non è ovviamente periodico. Ma se il giorno dopo c’è un’altra esplosione e metto in grafico anche la
seconda curva ho una rappresentazione come questa:

prima esplosione seconda esplosione t


59
grandezza che nel caso specifico è un numero, cioè un dato memorizzabile da un calcolatore in
codice binario.
numero di bit

Tensione Numeri
X A/D

I numeri sono caratterizzati da quanto spazio di memoria posso utilizzare per rappresentarli, questo
è legato al numero di bit, cioè a quante caselline con la rappresentazione binaria 0, 1 sono rese
disponibili dal calcolatore. Se io ho un calcolatore con numero “n” di bit per rappresentare un numero,
quanti valori riesco a scrivere? La risposta è 2n, quindi:
N° di elementi = 2n
Se dobbiamo leggere una tensione che è compresa tra 0 e 10 V e abbiamo a disposizione un cal-
colatore a 10 bit, posso disporre di numero di elementi pari a 210 = 1024. Ad ogni elemento di codifica
che intervallo di tensione dovrà corrispondere? Devo distribuire 10 V su 1024 punti quindi il corri-
spondente intervallo di una singola lettura sarà, indicando con Fs il Fondo Scala:
!
LSB = Least Significant Bit, cioè il valore corrispondente al bit meno significativo
"# $%&
Quando mi scala di 1, il bit meno significativo mi indica di quanto è cambiata la tensione in ingresso.
Dobbiamo ora assegnare i valori corrispondenti ai singoli bit. Per farlo possiamo tracciare l’equiva-
lente di un diagramma di taratura.
Supponiamo, per fare un caso semplice, che abbiamo 10 V come Fs e 3 bit per il convertitore A/D,
in modo da poter disegnare solo 8 livelli (23).
' '
Quindi LSB = = 1,25 V
(

Lettura Esad. bit

8,75 7 1 11

7,5 6 1 1 0

6,25 5 1 0 1

5 4 1 0 0

3,75 3 0 1 1

2,50 2 0 1 0

1,25 1 0 0 1

0 0 0 0 0
0,625 1,875 3,125 4,375
1,25 2,50 3,75 5 10 V
Segniamo in ordinate i punti da 0 a 8 e facciamo corrispondere il punto 8 ai 10 V. Andremo ora a
distribuire le letture in modo da fare l’errore minimo. Scriviamo i valori di cui ho bisogno. Se andassi
47
Hc = 

1 |}
Ho = { X(t) e− w n ωot ~s
Tz

La cosa interessante, se noi riusciamo a fare uno sviluppo in sin e cos, è che di solito non è neces-
sario fare arrivare “n” fino a +∞. I segnali reali oltre un certo termine dello sviluppo normalmente non
hanno più componenti significative.

n=N
X(t) = U Hn ew n ωo t
n=−N

Dove:
N ωo = ωMax (massima frequenza presente nello sviluppo in serie)
N fo = fMax con fo = 1/Ts

Se noi conosciamo N, siamo in grado di campionare i segnali in modo corretto?


Sappiamo per esempio che: Ts = 86400 s quindi supponiamo di avere un segnale con andamento
ciclico diurno. Sappiamo anche che ci sono solo N=100 componenti dello sviluppo in serie significa-
tive. Con quale fc andremmo a campionare il nostro segnale?

fMax = N fo = 100 •;>


≅ 10 /
Hz

Campioniamo con fc = 2 fMax = 2.10-3 Hz

Cioè ogni Δt = 1/fc = 1/(2.10-3) = 500 s (circa 9 minuti)

Il solo problema sarà conoscere N. Per trovare l’N massimo che ha senso devo per forza passare
attraverso gli integrali visti prima e calcolare gli Hn. Se calcolo gli Hn e vedo che dopo un certo punto
sono abbastanza piccoli da considerarli nulli dico che il segnale non ha componenti significative oltre
l’N corrispondente. Ma devo per forza calcolarli analiticamente questi integrali?
Noi abbiamo appena visto come passare da un segnale continuo ad uno discretizzato. Quegli inte-
grali verranno valutati numericamente da un calcolatore e quindi non richiederanno un approccio
analitico diretto.

I punti essenziali della lezione precedente:

La volta scorsa abbiamo completato la conversione A/D per la parte che riguarda il tempo. Abbiamo
visto che c’è un effetto molto rilevante che è la possibilità di commettere un errore di Aliasing nel
caso in cui il campionamento non è corretto.
Tutto si riassume nel Teorema del Campionamento che ci dice che per campionare correttamente
un segnale dobbiamo usare una frequenza di campionamento che deve essere più grande del dop-
pio della frequenza del segnale. Abbiamo visto che c’è una frequenza particolare che è la frequenza
di Nyquist (fNY), che è la metà della frequenza di campionamento, e il segnale a questa frequenza,
che si trova esattamente al limite tra un campionamento corretto e uno non corretto, lo vediamo in
maniera casuale, cioè lo campioniamo correttamente se è un coseno, non lo vediamo del tutto nel
caso sia un seno.

CAMPIONAMENTO CORRETTO SE fc > 2fs


F
FREQUENZA DI NYQUIST fNY = fc segnale di soglia tra campionamento corretto e non corretto
61
A volte il teorema del Campionamento viene espresso con un fc ≥ 2fs. Infatti con fc = 2fs non si
commette Aliasing, ma ci troviamo in una situazione in cui, se il segnale fosse un seno, perderei una
parte di informazione, non più recuperabile, dello stesso. In questo modo non riusciremo più a rico-
struire, come dice la seconda parte del teorema, il nostro segnale continuo nel tempo anche dopo
averlo campionato.

L’Aliasing consiste nel fatto che le frequenze maggiori della fNY vengono viste come frequenze ribal-
tate rispetto alla frequenza di Nyquist. Quindi tutto quello che si trova oltre la fNY viene ribaltato a
frequenze più basse e la sua frequenza è proprio la simmetrica rispetto a quella di Nyquist.
Grazie al diagramma a Ventaglio posso trovare velocemente tutte le frequenze apparenti per i se-
gnali con frequenza maggiore a quella di Nyquist:

= = (triangolo isoscele di altezza qualsiasi)

fa fNY fs fc

All’inizio ci siamo occupati di soli segnali sinusoidali, ma in realtà i segnali sono sempre più com-
plessi di una pura sinusoide. Con un segnale generale abbiamo visto che possiamo scomporre un
segnale qualsiasi, anche se il limite sarebbe “purché sia periodico”, come somma di serie di termini
armonici. Li abbiamo visti come sviluppo in termini di seno e coseno.

x(t), periodico con periodo T



X(t) = Ao + UVAn cos(nωo t) + Bn sin(nωo t)^
n=1

 = valore medio del segnale = Ao


+∞
X(t) = U Hn ew n ωo t
−∞
Quest’ultimo è lo sviluppo in forma complessa, dove Hn sono dei coefficienti complessi che sono
legati agli An e Bn dalle relazioni:

62 .2
Ho = − w

62 .2
H o = + w

H0 = A0 = valor medio del segnale

Gli Hn si possono ottenere dal seguente integrale:

1 |}
Ho = { X(t) e− w n ωot ~s
Tz

62
Dato che lo sviluppo di e w o ‡ˆ C è, sfruttando le formule di Eulero, pari a: cos(n ωo t) - i sen(n ωo t),
riotteniamo le espressioni degli an e bn, quindi riotteniamo sempre le stesse cose anche se qui ab-
biamo una rappresentazione dalla forma più compatta.

------------ ooo ------------

Noi abbiamo fatto un’operazione con i nostri segnali che è stata quella di passare da un segnale
continuo nel tempo a una serie di valori numerici che abbiamo campionato. Di fatto non ci troviamo
più nella situazione di avere una funzione X(t) continua, ma di avere solo i valori dei punti in cui
abbiamo fatto il campionamento.

X(t)

0 Δt 2Δt 3Δt (N-1) Δt tempo

Di fatto la X(t) è diventata:

Xo = X(t=0) Xo
X1 = X(t=Δt) X1
… …
… …
… …
… …
XN-1 = X(t=(N-1)Δt)) XN-1

Quindi ho il vettore sopra scritto e vorrei calcolare l’integrale per trovare Hn. Sappiamo che l’integrale
numerico è un’approssimazione dell’integrale continuo, quindi l’area che sta sotto la curva diventa,
nel nostro esempio, la somma dei rettangoli che costituiscono l’altezza attorno a ciascuno dei punti
(immagine precedente - rettangoli rossi di base Δt). Noi però non dobbiamo calcolare direttamente
l’integrale di X(t), bensì il prodotto di X(t) con un’altra funzione, la e w o ‡ˆ C che è comunque una
funzione nota. Basta solo mettere dentro il valore di “t” e la posso calcolare. Il concetto è quello di
poter calcolare questo integrale con la procedura ora descritta. Proviamo a farlo.
Per prima cosa vediamo a cosa corrispondente il tempo Ts (o per semplicità, il tempo T). In totale
ho raccolto N punti, da 0 a N-1. Ad ognuno corrisponde un intervallino Δt, quindi:
T = N Δt
questo dovrebbe essere il periodo esatto della mia funzione periodica, ma in realtà non conosco il
periodo esatto della funzione, quindi sarà più semplicemente il tempo della mia finestra di osserva-
zione. A volte non disporrò di funzioni periodiche e quindi forzerò la mia funzione ad esserlo. Quindi
T come tempo di osservazione ma anche come periodo della funzione che sto sviluppando in serie
(ipotesi di base per lo sviluppo: funzione periodica su T).

Cominciamo a scrivere Hn mettendo al posto dell’integrale la somma delle aree per il valore della
funzione e w o ‡ˆC .

63

1
H = U ‰s Š‹ Œ ' •= Ž•%
N∆t
‹‘

area rettangoli

con Xk la X(t) calcolata al tempo t=kΔt. Nella sommatoria posso già semplificare i due Δt, essendo
un fattore comune.
’ ’
Considerando che ω0 = = allora posso scrivere:
D “∆C

1 '

Ž•%
H = U Š‹ Œ ••%
N
‹‘

E semplificando ancora il Δt si ottiene:

™ F
F —
š
• = U )— ˜ ™

—‘›

quindi il Δt scompare e questo vuol dire che questa operazione la posso sempre fare anche senza
sapere il Δt di partenza, cioè anche senza conoscere la frequenza di campionamento.
œ
Per calcolare ogni singolo coefficiente Hn devo fare il prodotto di Š‹ Œ ' • ” per N volte, dato che k
varia tra 0 e N-1, per poi farne la somma.
Questa operazione non è proprio leggera da fare da un punto di vista computazionale. “n”, se ve-
diamo la formula dello sviluppo in serie, andrebbe da - ∞ a + ∞. Con la trattazione ora fatta, “n” non
può comunque andare più da - ∞ a + ∞ per il fatto che questo vorrebbe dire che nω0, cioè la pulsa-
zione, può andare anch’essa da - ∞ a + ∞. Questo perché nel nostro segnale non possiamo avere
componenti con frequenza che possono arrivare a - ∞ o + ∞ dato che per fare il campionamento in
modo corretto la frequenza del segnale si deve fermare a metà della frequenza di campionamento.
Quindi sappiamo che “n” deve essere minore di:
n < nMax tale per cui nMax.f0 = fc
Non possiamo quindi avere componenti in frequenza oltre la frequenza di Nyquist (fNY) per un cam-
pionamento corretto. Vediamo quanto vale nMax: sappiamo che fo è la frequenza al tempo zero, cioè
corrisponde a ω0 a parte ovviamente il 2g. Quindi f0 = 1/T, cioè

nMax D = fc quindi nMax “∆C =
∆C
cioè nMax = con N= numero di punti campionati (nel tempo)

Mi ritrovo con lo spettro composto da N/2 coefficienti, dove ad ogni “n” corrisponde un Hn (per n=0
trovo Ho, con n=1 trovo H1 e così via fino a HN/2).
Quindi la rappresentazione con lo sviluppo in serie utilizza N/2 coefficienti Hn per rappresentare un
segnale che era fatto da N punti. Sembrerebbe una situazione più favorevole rispetto a prima, cioè
con N/2 punti riusciamo a scrivere N punti, ma così non è dato che gli Hn sono numeri complessi,
quindi se ne scrivo N/2 ne devo scrivere comunque N, dato che sono composti da una parte reale e
da una immaginaria. Quindi dal punto di vista del numero totale di punti non cambia nulla e sono
sempre N e quindi il volume di dati da utilizzare non cambia.
Se scrivo la X(t) come spettro ho bisogno di N valori puntuali campionati, oppure N/2 valori complessi
che sono le righe spettrali.
Il risultato sarà rappresentato da questo vettore:

Ho ao + i b0 numero reale essendo b0 = 0


H1 a1 + i b1
… …
… = … tutti numeri complessi
64
S/H A/D

Al convertitore viene spesso associato un elemento che si chiama SAMPLE AND HOLD (S/H) (cam-
piona e conserva). Questo dispositivo “congela” la tensione ad un certo istante e ne rende disponibile
il valore costante all’A/D per tutto il tempo che serve a quest’ultimo per fare la conversione. Per
capire meglio la funzione svolta da questo dispositivo, parliamo dei convertitori cosiddetti ad appros-
simazioni successive. Dal grafico prima tracciato vediamo che se la tensione in ingresso è maggiore
di 5, tutte le codifiche binarie superiori all’indicazione 5 hanno in comune il primo numero che è “1”.
Per fare la conversione A/D il convertitore confronta la tensione con quella di 5 V (se il Fs è 10 come
nel nostro caso). Se la tensione è maggiore di 5 V mette a “1” il primo bit. I valori corrispondenti a
tensioni maggiori di 7,5 hanno in comune il secondo bit che è “1”. Genera allora 7,5 V e la confronta
con la tensione in ingresso. Se la tensione è più grande di 7,5 mette “1” al secondo bit altrimenti “0”.
Se è più piccola deve allora decidere se è 6,25 o 7,5 e qui mi basta generare un 6,25. Per fare tutto
questo serve del tempo. Se il segnale in ingresso nel frattempo cambia, il secondo confronto non ha
più senso considerando la variazione subita dalla tensione. L’S/H congela la tensione all’istante “t”
e la rende disponibile costante all’A/D per tutto il tempo che serve per la conversione.

L’importanza dell’S/H la vediamo bene all’interno dei sistemi di acquisizione dove succede spesso
che un ho solo convertitore A/D ma più ingressi. Al convertitore vengono successivamente passati i
vari ingressi. Per esempio ho 4 canali di ingresso e faccio leggere in successione i 4 canali, cioè per
ogni acquisizione legge prima il canale 1, poi il 2 e così via grazie ad un Multiplexer (o MUX), cioè
un dispositivo, una sorta di selettore, capace di selezionare un singolo segnale elettrico fra diversi
segnali.

STRUTTURA SINCRONA

1
S/H

M
2
S/H U
A/D
X

n
S/H

Anche qui devo avere un dispositivo che mi congela i segnali in ingresso al tempo “t” per renderli poi
disponibili e costanti per il tempo necessario al MUX. Qui arrivano gli “n” canali dai S/H e questi
vengono poi indirizzati uno alla volta, prima il numero 1, poi il 2 fino all’n, verso l’A/D. Tutti i canali
sono campionati allo stesso momento.

STRUTTURA ASINCRONA
50
devo associare, per costruire l’asse delle ascisse, ad ogni valore di “n” una frequenza. La frequenza
zero corrisponde al valor medio e quindi avrò come primo punto H0. Il coefficiente H1 lo devo riportare
alla frequenza 1/T, infatti:
’ •=
da nω0 (della X(t)) se n=1 ottengo ω0. La frequenza corrispondente a ω0 = è f0 = =
D D ’

Tra i punti A e B non c’è nulla, quindi non ha senso mettere una spezzata che unisce i due punti
dato che il significato degli Hn è celato dall’espressione prima scritta per X(t). Questa infatti ci dice
che per scrivere X(t) ho bisogno di componenti discrete che sono H0, H1, H2 ecc… e le frequenze tra
0, 1/T, 2/T ecc… nell’espressione non compaiono. I soli punti che hanno senso sono quelli legati
alle frequenze 0, 1/T, 2/T, 3/T e così via.

Dovrei operare anche con le frequenze negative dato che per gli Hn ci sono anche per gli “n” negativi.
Questi non sono importanti da riportare dato che gli H-n sono i complessi coniugati degli Hn, cioè
stessa parte reale e parte immaginaria rovesciata di segno. Se io disegno i moduli questi sono esat-
tamente gli stessi (il complesso coniugato ha lo stesso modulo di quello di partenza) quindi dovrei
semplicemente specchiare il diagramma rispetto all’asse delle ordinate, ma questo non ci aggiunge
alcuna informazione significativa (so che le frequenze negative hanno le stesse ampiezze e fasi
opposte).

Supponiamo che dopo aver calcolato gli Hn e disegnato i moduli otteniamo una situazione come
quella riportata nel grafico. A partire dal punto “C” le componenti son tutte nulle. Allora se il mio
segnale si ferma a, supponiamo 20 Hz, N/2T lo possiamo considerare circa 50 Hz. Essendo questa
la frequenza di Nyquist vuol dire che la campionatura è avvenuta a circa 100 Hz. In pratica il segnale
è stato campionato a 100 Hz ma facendone lo spettro mi accorgo che oltre i 20 Hz non c’è più nulla.
Questo ci dice che se dovessimo ricampionare questo segnale lo farei a 40 Hz, cioè la frequenza
minima per non avere Aliasing. La conoscenza della massima frequenza del segnale mi consente
di fare un campionamento ottimizzato, cioè se prima avevo acquisito 100 punti, dimezzando la fre-
quenza di campionamento ho la stessa informazione con 50 punti anziché con 100.

BANDA DEL SEGNALE: è il campo di frequenze che contiene tutte le componenti significative dello
spettro.

Nel grafico sopra non ci sono tutte le informazioni. Trattandosi di numeri complessi, infatti, avendone
dato solo il modulo per la loro rappresentazione complessa ci servono anche le fasi.

Asse immaginario

y z = x + iy

r r = modulo e φ = fase
φ
Asse reale
φ x

-y z = x – iy (complesso coniugato)

SPETTRO FREQUENZA DEL SEGNALE

66
¢£ (¤£ ) §x"%! ' x¨' x"'x
Nel nostro caso φ = arctg
¥¦ (¤£ ) §x"%! "!x©!

IHnI Banda del segnale


20 Hz
H0 A

H1 B

C
/ > •
0 f
D D D D D

φn
g

/ •
0 D D D D
f

-g

Di quest’ultimo grafico conosco già due punti. Il primo e l’ultimo essendo due numeri reali dato che
la fase è nulla. Tutti gli altri, rappresentati a caso sul grafico, sono compresi tra g e – g

Lo strumento di analisi spettrale, quindi il costruirsi lo spettro del segnale, è molto più importante
per altre applicazioni. Per esempio, faccio la misura di vibrazione su un mozzo di una automobile e
mi trovo uno spettro che è quasi tutto a zero e poi c’è una grande componente a una frequenza che
corrisponde alla frequenza di rotazione della ruota. L’informazione che ricavo è che c’è un qualcosa
che mi forza la sospensione con la stessa frequenza con cui sta girando la ruota. Questo vuol dire
che c’è uno sbilanciamento e allora lo vedo come una forza pulsante che ha la stessa frequenza di
rotazione della ruota, oppure c’è una ruota che al posto di essere rotonda è ellittica. Questo per dire
che l’analisi dello spettro mi da a volte informazioni molto più utili rispetto a quelle di guardare il
segnale. A volte la frequenza del disturbo da informazioni molto più importanti di quelle relative al
segnale stesso. L’analisi spettrale si usa molto sia per la diagnostica ma anche nelle fasi di proget-
tazione.
Esiste una frequenza particolare, detta di risonanza, in corrispondenza della quali si hanno enormi
amplificazioni, frequenza che è bene far evitare al sistema con un’adeguata progettazione.
Se ho raccolto, per esempio, lo spettro delle vibrazioni trasmesse dalle sospensioni di un’auto che
percorre una strada dissestata, potrò evidenziare delle componenti più critiche a certe frequenze.
Se devo progettare la portiera dell’auto farò in modo questa non vada in risonanza con la frequenza
a cui corrisponde la maggiore componente dell’analisi spettrale.

L’analisi spettrale è così apprezzata che malgrado sia nata per segnali periodici viene utilizzata an-
che per segnali che non lo sono. Vale il discorso fatto in precedenza di poter considerare il segnale
come periodico al di fuori della finestra temporale di osservazione, anche se non lo è.

67
Ma ci sono delle situazioni in cui è difficile applicare questo concetto. Se prendo, per esempio, la
vibrazione alle ruote di un’auto che percorre una strada, questa potrebbe avere un andamento di
questo tipo:

a(t) T

A A’

t
B’ B

Fig. A

posizionando un accelerometro su un mozzo di una ruota. In questo segnale non riconosco alcun
periodo. Voglio comunque applicare l’analisi spettrale quindi osservo il segnale in una certa finestra
temporale T e assumo questa come periodo. Il problema è capire che impatto ha questa assunzione
di periodicità su un segnale che in realtà non è periodico.
Come prima osservazione vediamo che l’aver reso periodico quel segnale si traduce nel fatto che
se “A” e “B” sono il primo e l’ultimo punto di osservazione, il segnale si deve poi ripetere identico dai
quei punti, quindi deve ripartire in “B” come era partito in “A”, punto A’, e deve arrivare in “A’” così
come si era concluso in “B”, punto B’. L’assunzione di periodicità mi forza il segnale ad essere di-
verso da quello che era perché gli impongo sicuramente delle discontinuità agli estremi (salti AB’ e
A’B) a meno che non scelga dei punti per cui questo non avvenga, e quindi vi sia una perfetta coin-
cidenza tra inizio e fine, ma in generale è abbastanza difficile. Anche scegliendo due punti uguali
avrei comunque delle discontinuità sulle derivate, quindi evitarle è davvero difficile. Vediamo che
impatto ha sullo spettro il rendere periodico il segnale.

EFFETTO FINESTRA (o errore di LEAKAGE)


Si chiama così perché è l’effetto legato alla mia finestra di osservazione. Guardo il segnale nella
finestra 0-T e questo altera il segnale perché lo rendo periodico su un periodo T che non è un periodo
reale di un segnale periodico.
Il termine inglese Leakage vuol dire perdita, questo perché, come vedremo, l’effetto è che c’è
una apparente perdita di segnale dalle vere componenti armoniche alle componenti vicine.
Per guardarlo facciamo ancora riferimento ad un segnale armonico. Questo perché di fatto quell’ef-
fetto corrisponde a tagliare i segnali armonici che sono nascosti dentro quella forma, tagliandoli in
maniera casuale. Mentre in un segnale periodico se io mi fermo su un periodo esatto tutte le com-
ponenti hanno un numero esatto di cicli all’interno, il fatto di mettere un periodo arbitrario fa si che i
segnali armonici nascosti dentro a quella forma d’onda verranno tagliati in un punto qualsiasi.

x(t) T
Ts
1

0 A t

-1
T1

68
1° caso) Finestra di osservazione con T multiplo intero del periodo. Questa finestra è individuata da
T (0A) che è pari a T = 2 Ts.

Se noi facciamo lo spettro avendo un tempo di riferimento pari a T, le nostre componenti spettrali
/
saranno presenti in ecc..
D D D

IHnI

/ >
0 f
D D D D

Qui abbiamo che il periodo del segnale è Ts = T/2 cioè è la metà del periodo di osservazione, quindi
se guardo la frequenza del segnale è fs = 2/T. Vediamo cosa verrà rappresentato nel diagramma dei
moduli di Hn.
Ci chiediamo se ci possiamo aspettare una componente ad una frequenza corrispondente al tempo
di osservazione, cioè se è possibile che per scrivere la funzione seno sopra disegnata possa usare
una funzione seno con un periodo che è la metà.
Ricordando che:
2
X(t) = Ao + UVAn cos(nωo t) + Bn sin(nωo t)^
n=1

abbiamo che:
’ ’ ’ ’
X(t) = A0 + A1 cos t + B1 sen t + A2 cos 2t + B2 sen 2t
D D D D

Ma X(t) abbiamo visto che ha una frequenza pari a 2/T ed è un seno, quindi X(t) = sen (2g | t). Ora
confrontiamo questa relazione con quella sopra per vedere il valore dei vari coefficienti, cioè per
vedere se c’è una particolare combinazione di coefficienti in grado di darmi l’uguaglianza con la vera
espressione di X(t).
A0 = 0 dato che non abbiamo alcun valor medio diverso da zero nella X(t) = sen (2g | t)
Provando a mettere B2 = 1 e a mettere zero tutti gli altri (A1, B1, A2), l’uguaglianza è soddisfatta.
Siccome lo sviluppo in serie è univoco, cioè c’è una sola sequenza di valori dei coefficienti che mi
da lo sviluppo in serie, dato che ne ho trovata una che è quella con A0= A1= B1=A2=0 e B2=1, vuol
dire che questa è anche l’unica possibile.

Se scrivo gli An, in corrispondenza di H2 avrò che il modulo di Hn sarà pari a 0,5 essendo
A B
H = − w
2 2
Mi sarei aspettato 1 essendo l’ampiezza della funzione seno pari a 1, ma l’altro 0,5 che mi manca
per fare l’ampiezza unitaria l’ho in corrispondenza della frequenza negativa speculare all’asse delle
ordinate. Si sommano le ampiezze delle frequenze positive e negative per avere la parte reale cor-
rispondente.

69
SISTEMA SINCRONO CON AMPLIFICATORI

X1
A S/H

M
X2 Lettura
A S/H
U A/D

Xn
A S/H

SISTEMA ASINCRONO: VERSIONE PIU’ ECONOMICA


In questo caso si risparmia non solo sui S/H ma anche sugli Amplificatori. Quella del costo più basso
è la sola ragione per la quale si potrebbe preferire questo sistema, dato che ha tutti gli svantaggi
possibili.

X1

M
X2 Lettura
U A S/H A/D

Xn

I punti essenziali della lezione precedente:

CONVERSIONE A/D
Tutto si riassume nel fatto che il convertitore discretezza la nostra grandezza continua che è una
tensione. La discretezza in un certo numero di livelli che sono i valori con cui lui riesce a codificare
la tensione in ingresso e questo si ripercuote in una incertezza di risoluzione.
DE DE!
RISOLUZIONE DEL CONVERTITORE: LSB =
( FG ⇒
53
quella del segnale. Infatti il 2/T1 non corrisponde al 2/T. Intuitivamente cosa uscirà per il fatto che
cerco di rappresentare la frequenza originale del segnale (quella in corrispondenza di 2/T) con quelle
due a fianco (quelle in corrispondenza di 2/T1 e 3/T1)? Che oltre a comparire le due righe ora citate,
compariranno valori anche per le altre componenti armoniche, quindi per 1/T1, 3/T1, 5/T1 ecc., e lo
spettro anziché essere composto da una singola riga netta diventa una campana di valori. Anche il
valore medio, quindi il punto ad f=0 avrà un valore non nullo corrispondente all’integrale di un semi-
periodo diviso per T1 . La situazione non è troppo piacevole nel senso che avrei voluto ottenere la
sola riga rossa rappresentativa del mio segnale e invece mi ritrovo con uno spettro che non la com-
prende. Questo mi fa comunque vedere che in quella zona c’è qualcosa perché mi mostra che le
due righe più vicine sono più grandi, però mi fa vedere anche delle componenti in alta frequenza
che non hanno niente a che vedere con la frequenza del mio segnale. Questo mi può indurre in
errori abbastanza pesanti. Pensare che il segnale ha componenti in alta frequenza fa sì che io, per
esempio, scelga il campionamento ad alta frequenza, fa sì che se devo progettare un qualcosa che
isola le vibrazioni devo tener conto delle componenti in alta frequenza ecc., cioè mi dà una situazione
molto forviante rispetto alla realtà del mio sistema.

Posso migliorare questa situazione. Andiamo a rivedere il caso esaminato in partenza (Fig. a pag.
68) nel quale l’assunzione del periodo T sbagliato introduceva delle discontinuità. Un modo ottenere
una situazione in cui il sistema non cambia molto è quello di ricondurci ad un sistema in cui il segnale
va a zero alla fine della finestra di osservazione. Per ridurre l’effetto finestra moltiplico il segnale
sopra per un qualcosa che lo mandi a zero agli estremi della finestra, cioè lo moltiplico per una
funzione che ha la forma di una campana.

a(t) T

Un esempio di questa funzione è la FINESTRA DI HANNING



W(t) = (1 − cos |
s)

Per t=0, W(0)=0 e per t=T, W(T)=0 quindi la finestra va a zero agli estremi proprio come volevamo.
Ma la finestra di Hanning fa ancor meglio, dato che la derivata di W(t):

~° π 2π
= sin( t)
~s T T

per t=0 va a zero e anche per t=T va a zero, quindi oltre ad andare a zero agli estremi della finestra,
in questi punti ha anche derivate nulle. Questo fa sì che anche se la funzione arrivava con derivate
diverse all’inizio e alla fine ora sono uguali e quindi mi evita anche le discontinuità di seconda specie
(quella di prima specie è il salto del valore, mentre quelle di seconda specie il salto delle derivate).
Questo mi migliora un po’ la situazione perché mi evita quelle discontinuità che avevo introdotto
forzando la funzione ad essere periodica su un periodo che non era quello corretto.

71
Se guardo lo spettro dovuto al Leakage, questo aveva componenti anche ad alta frequenza. Se
moltiplico la funzione per la funzione finestra mi trovo sostanzialmente con quattro righe attorno alla
frequenza vera che sono grandi, ma le altre sono quasi a zero e molto velocemente vanno a zero.
Mi concentra lo spettro non su una riga sola, ma su tre o quattro righe vicine alla frequenza vera. A
questo punto sto facendo non lo spettro del segnale di partenza, ma quello del prodotto tra questo
e la funzione finestra di Hanning.

X(t) W(t) = XFinestra

Qui capiamo la ragione del termine inglese Leakage, dato che la frequenza vera sarebbe quella
evidenziata in rosso, ma questa viene dispersa in componenti vicine, quindi perdita di componenti
armoniche da quella vera a quelle vicine.

Del Leakage deve rimanere ben chiara una cosa, che quando osservo un segnale e non riesco a
riconoscerne in maniera corretta il periodo lo spettro che ottengo sarà alterato, cioè invece di avere
le frequenze giuste le frequenze si andranno ad aprire su una campana di valori. Riesco a stringere
un po’ quella campana moltiplicando il segnale che ho acquisito per, ad esempio, la finestra di Han-
ning. Questo è anche un modo per vedere se sto facendo Leakage perché prendo il segnale, ne
faccio lo spettro e guardo se ci sono le componenti aperte. Confronto lo spettro con quello con la
finestra di Hanning. Se la finestra di Hanning mi ha stretto le componenti vuol dire che era colpa del
Leakage il fatto che fossero aperte su delle campane. Può succedere che invece le componenti
iniziali sono molto strette, applico Hanning e me le trovo leggermente allargate. Questo vuol dire che
non stavo facendo Leakage

I punti essenziali della lezione precedente:

ANALISI DI FOURIER (o ANALISI IN FREQUENZA o ANALISI SPETTRALE)


E’ relativa all’analizzare il contenuto in termini di componenti armoniche di un segnale, cioè riscri-
viamo un segnale nel dominio del tempo come somma di termini semplici che sono dei termini ar-
monici.
Per i SEGNALI CONTINUI abbiamo visto che:

X(t) = Ao + UVAn cos(nωo t) + Bn sin(nωo t)^
n=1

che è uguale anche a:


+∞
X(t) = U Hn ew n ωo t
−∞

Per i SEGNALI DISCRETI assume invece la forma:


N
n= 2

X(t) = U Hn ew n ωo t
N
n=− 2

dove N = numero dei dati campionati

La cosa interessante è che pur avendo fatto il campionamento ritorniamo a scrivere una funzione
continua nel tempo, quindi abbiamo ancora la funzione per ogni valore del tempo t.

Abbiamo anche visto che i coefficienti Hn si ottengono con una relazione abbastanza semplice che
utilizza gli N valori che vanno da 0 a K che noi abbiamo ottenuto dal campionamento del segnale
continuo:
72

1 '


H = U Š‹ Œ •
N
‹‘

Abbiamo altresì visto come si presenta uno spettro di frequenza che è costituito da righe discrete
che sono distanti tra di loro di una quantità pari a 1/T con T= tempo di osservazione. Questo T è
anche uguale a T=NΔt e 1/T=f0 (=Δf):

IHnI

/
0 f
D D D
Δf 2Δf 3Δf

Questa è una operazione matematica di trasformazione del segnale dal dominio del tempo al domi-
nio della frequenza.
Se vogliamo vederla come una sorta di strumento, questo strumento ha delle uscite discrete che
sono in f (o Δf), 2Δf, 3Δf ecc.. Quando abbiamo uno strumento che ha delle uscite discrete, la di-
stanza che intercorre tra queste è chiamata RISOLUZIONE ed è per questo che il
Δf = RISOLUZIONE SPETTRALE
Oltre al diagramma dei moduli abbiamo anche il diagramma delle fasi.

φ
g

/
0 f
D D D

-g

Sappiamo che la fase del primo elemento è nulla perché è sempre un valore reale (in realtà può
essere o nulla oppure, convenzionalmente, se il valore medio è negativo diciamo che è pari, arbitra-
riamente, a g o -g).

Quello che ci aspettiamo da uno spettro è una serie di valori così come li abbiamo ora rappresentati.
Nella relazione

1 '


H = U Š‹ Œ •
N
‹‘

non compare né il Δt né la frequenza di campionamento. Quindi non vedo con quale frequenza ho
campionato e quindi quale sarà la frequenza massima, ma ho solo Xk, cioè i valori campionati di cui
non ho più la relazione con il tempo. Quindi gli algoritmi che mi calcolano la serie di Fourier (o la
trasformata di Fourier) non chiederanno di fornire il vettore dei tempi, né la frequenza di campiona-
mento, ma mi daranno in uscita il vettore Hn completamente slegato rispetto alla scala delle fre-
quenze. Per costruire la scala delle frequenze devo sapere per quanto tempo ho osservato il mio
segnale, cioè T. Questo è anche legato alla frequenza di campionamento, infatti:

73

= = =
D “∆C “ ∆C “

Per costruire la scala delle frequenze posso o guardare quant’è il tempo totale di osservazione dato
che 1/T = distanza tra le righe spettrali, oppure se mi ricordo qual è la frequenza di campionamento
e il numero di punti che ho campionato risalire, come visto, sempre a 1/T.

In laboratorio utilizzeremo uno dei tanti programmi che ci consentono di ottenere gli Hn. L’uscita del
calcolatore non sarà nella forma che preferiremo avere, cioè i vari Hn con le frequenze corrispon-
denti, ma sarà semplicemente un vettore degli Hn che non fa nemmeno la divisione per N. Per avere
i coefficienti esattamente corrispondenti agli Hn dobbiamo dividerli per N. Molto spesso invece si
divide per N/2 in modo da trovare il doppio degli Hn con il vantaggio di avere il modulo dimezzato
che tiene conto anche dei complessi coniugati (H-n) legati alle frequenze negative. Quando detto è
vero, quindi dobbiamo dividere per N o N/2, per tutti i punti tranne che per il primo e per quello alla
frequenza di Nyquist (fc/2). Nel vettore che fornirà MATLAB il termine corrispondente a Nyquist non
sarà l’ultimo, perché appiccica dopo il valore di Nyquist tutte le frequenze negative. Ci dà un vettore
che è lungo complessivamente ancora N, ma mette prima le frequenze positive e poi quelle negative
in serie che è tutto equivalente a mettere frequenze oltre a Nyquist, perché per l’Aliasing si hanno
frequenze ribaltate. A noi interessa solo il primo pezzo da 0 al valore di Hn corrispondente a Nyquist.
Il solo problema è che ci dobbiamo costruire la scala delle frequenze perché ci dà gli Hn ma non
sappiamo a quali frequenze corrispondono. Poco male perché andremo a controllare con quale fre-
quenza abbiamo campionato oppure controlleremo la durata totale del tempo di osservazione.

Abbiamo visto che utilizzare lo strumento dell’analisi spettrale quando lo strumento non è periodico
possiamo avere un problema che va sotto il nome di

EFFETTO FINESTRA o ERRORE DI LEAKAGE.


Questo consiste nel fatto che se il mio periodo di osservazione è un multiplo del periodo del segnale
(Ts) ci accorgiamo che nello spettro c’è una riga che corrisponde alla frequenza del segnale, se
invece non si verifica questa condizione facciamo Errore di Leakage. Anziché avere la riga spettrale
dove la vorremmo avere, avremo che la frequenza vera risulta intermedia tra due righe e lo spettro
anziché essere costituito da una singola frequenza come lo sarebbe per il nostro segnale, mi dà un
certo numero di righe che stanno attorno alla frequenza vera.
Se T = K Ts (con K = numero intero) NO LEAKAGE

------------ ooo ------------

Vediamo l’ultimo argomento legato all’Analisi di Fourier. Le grandezze armoniche si possono rap-
presentare come un vettore rotante.

X(t) = U Hn ew n ωo t

Per esempio il termine e w o ‡ˆC lo possiamo rappresentare come:


cerchio di raggio unitario R=1

asse immaginario
e w o ‡ˆ C è rappresentato da questo vettore che ruota in senso
antiorario

nω0t

asse reale
- nω0t

74
degli assi fossimo partiti dal punto A, mi sarei ritrovato con i punti A, B, C, D ecc., in pratica tracciando
la spezzata mi ritrovo nella stessa situazione del CASO 1). Quindi se anziché partire dall’asse indi-
cato, questo si sovrapponesse al punto A, in pratica passerei da una funzione seno ad una coseno
e riuscirei a campionarla in modo simile al CASO 1).
Quindi in questa situazione con fc = 2 fs se ho una funzione seno non vedo nulla, se ho una funzione
coseno la vedo correttamente. Qui abbiamo quella che si definisce una:

Sinusoidi NON SI VEDONO


SITUAZIONE AMBIGUA
Cosinusoidi SI VEDONO

Vediamo una situazione ancora più critica:


- V
CASO 3) Δt = WX ⟹ fc = fs otteniamo i punti 0, B, H, E….
V -

In questo caso otterrei la spezzata “linea – punto”. Abbiamo ancora un segnale a forma triangolare
come nel CASO 1), l’ampiezza assomiglia a quella corretta ma cambia il periodo del segnale origi-
nale e inoltre si è anche invertito il segno (da “+” seno a “-“ seno):
Tapparente = 3 Ts

AMPIEZZA CORRETTA

PERIODO ERRATO Ta = 3 Ts

In pratica abbiamo visto che se operiamo con frequenze di campionamento abbastanza alte rispetto
a quelle del segnale tutto funziona bene. C’è un punto critico che è quello per cui fc = 2 fs in cui a
volte il campionamento funziona bene, caso dei coseni, a volte funziona male, caso dei seni. Se
andiamo oltre la situazione è ancora peggiore perché otteniamo sempre una sinusoide, ma comple-
tamente diversa da quella reale, cioè otteniamo un andamento oscillante ma con un periodo di un
segnale che non esiste. Inoltre se io avessi sotto un segnale con una sinusoide proprio con quel
periodo pari a 3 Ts campionerei esattamente gli stessi punti, quindi dopo il campionamento non avrei
alcun modo di dire se erano punti di una sinusoide che aveva esattamente i massimi nei punti cam-
pionati oppure se questi sono venuti fuori casualmente e magari il segnale originale aveva altri mas-
simi intermedi che non sono riuscito a vedere. Questa è proprio la situazione peggiore che potrei
avere: vedo qualcosa che non esiste, cioè una sinusoide con una frequenza che non esiste, e non
riesco a distinguerla da una vera che fosse presente a quella frequenza.
Tutto questo si riassume in un teorema:
TEOREMA DEL CAMPIONAMENTO (o di SHANNON)
Per ottenere il campionamento corretto la frequenza di campionamento deve essere strettamente
maggiore della frequenza del segnale. In pratica ci dice che dobbiamo campionare con una fre-
quenza di campionamento pari a più del doppio della frequenza del segnale, quindi con fc > 2fs.
Inoltre, cosa molto importante, ci dice anche che se campiono correttamente è possibile ricostruire
il segnale continuo anche dopo averlo campionato.
In pratica è inutile eccedere nei punti di campionamento, dato che è sufficiente rispettare la condi-
zione fc > 2fs per poter poi ricostruire il segnale continuo.

Se non abbiamo alcuna informazione sul segnale in ingresso, cosa normalmente molto rara, dovrò
adattare il segnale al mio sistema di campionamento. Se il mio sistema può campionare al massimo
a 2 KHz, per campionare correttamente devo mettere un elemento (filtro) a monte per adattare il
segnale a quello che riesco effettivamente ad acquisire. Questo filtro mi elimina tutte le componenti
del segnale che si trovano oltre 1 KHz, per rispettare la condizione fc > 2fs. In questo caso non
campiono più il segnale di partenza, dato che ne ho eliminato una parte ma questo è la sola cosa
che posso fare. Quindi se non conosco niente del segnale in ingresso, allora parto con la massima
frequenza di campionamento consentita dal mio sistema eliminando con un apposito filtro le parti

56
In pratica noi misuriamo il nostro segnale il che vuol dire andare a registrare i vettori di valori X1, X2,
X3…, cioè gli N valori campionati che vengono immagazzinati dal nostro calcolatore, dopodiché un
software ci calcola le componenti che abbiamo prima diagrammato. E’ di solito molto più chiaro
avere le componenti in frequenza rispetto al guardare un segnale nel dominio del tempo, dato che
quest’ultimo è spesso un qualcosa di incomprensibile, mentre guardando lo spettro ci accorgiamo
che il segnale è fatto di certe componenti particolari che quasi sempre sono associabili a qualcosa
che sta succedendo (vedi esempi fatti in fondo a pag. 67). E con questo abbiamo concluso l’analisi
spettrale.

76
Comportamento dinamico degli strumenti di misura
Mettendo insieme quello che abbiamo visto nella prima parte del corso con l’argomento sopra trat-
tato vediamo che riscontriamo una certa incongruenza. Noi abbiamo guardato come si comportano
gli strumenti e lo abbiamo fatto in particolare con la TARATURA STATICA. Abbiamo tirato fuori
caratteristiche quali l’incertezza strumentale, quelle per passare dall’uscita all’ingresso ecc. ma ab-
biamo sempre operato associando ad ogni cosa l’aggettivo STATICO (taratura statica, sensibilità
statica ecc.). Abbiamo sempre ipotizzato di avere un ingresso che nel tempo è costante. Con l’analisi
spettrale siamo invece passati ad una situazione differente trattando segnali che sono funzione del
tempo.
Quindi sappiamo bene come funziona uno strumento in corrispondenza di un ingresso statico (cioè
un ingresso che “non varia” nel tempo ovvero consente allo strumento di stabilizzarsi per dare poi
una certa uscita), ma non sappiamo come questo si comporterà con un ingresso che varia nel tempo.
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo vedere la TARATURA DINAMICA.

RISPOSTA DINAMICA DEGLI STRUMENTI


Per dire come si comporta uno strumento che abbiamo già caratterizzato con un ingresso statico
quando l’ingresso varia in funzione del tempo, partiamo da quello che già conosciamo dello stru-
mento, cioè proprio dal suo comportamento statico e vediamo quanto, con un ingresso dinamico
questo si avvicina al comportamento statico.
Per l’ingresso statico la relazione di riferimento è y = S x con S = sensibilità statica
Anche con un ingresso del tipo x(t) la relazione che si vorrebbe avere per caratterizzare il legame
ingresso-uscita dovrebbe essere del tipo:

STRUMENTO IDEALE
y = S x(t)
o STRUMENTO DI ORDINE ZERO

Questo è uno strumento ideale che viene chiamato Ordine Zero. Tutta la nostra caratterizzazione
dinamica degli strumenti sarà finalizzata ad andare a cercare in quali condizioni uno strumento reale
si comporta ancora come se fosse ideale cioè di ordine zero. In pratica andremo a cercare quelle
condizioni per cui uno strumento potrà utilizzare la relazione ingresso-uscita statica anche in un caso
dinamico. Questo si può anche tradurre in, cercare in quali condizioni uno strumento non ideale si
comporta come uno strumento di Ordine Zero.
Lo strumento ideale si chiama di Ordine Zero perché in generale la relazione ingresso-uscita di uno
strumento viene rappresentata con una equazione differenziale lineare a coefficienti costanti (con m
≤ n):

𝑑 𝑦 𝑑 𝑦 𝑑 𝑥 𝑑 𝑥
𝑎 + 𝑎 + ….+ 𝑎 𝑦 = 𝑏 + 𝑏 + ….+ 𝑏 𝑥
𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡

“n” viene chiamato ORDINE DELLO STRUMENTO


Se il massimo “n” è uguale a zero, “m” deve per forza essere m=0. Ci resta che:
𝒃𝟎 𝒃
𝒂𝟎 𝒚 = 𝒃𝟎 𝒙 e quindi y= x ⇒ y = S x(t) con S = 𝒂𝟎 = SENSIBILITÀ STATICA
𝒂𝟎 𝟎

STRUMENTI DI ORDINE 1 o DEL 𝚰 ORDINE


Con n=1 e quindi m può anch’esso essere pari ad 1 otteniamo che:

77
𝑑𝑦 𝑑𝑥
𝑎 + 𝑎 𝑦= 𝑏 +𝑏 𝑥
𝑑𝑡 𝑑𝑡

Nel seguito ipotizziamo che si verifichi la condizione che il coefficiente b1=0 e quindi andiamo
a vedere nel dettaglio come si comportano un sottoinsieme degli strumenti del primo ordine che
sono molto comuni. L’equazione ora vista diventa:
𝑏
≜ S 𝐒𝐞𝐧𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭à 𝐒𝐭𝐚𝐭𝐢𝐜𝐚
𝑎
𝑑𝑦 𝑎 𝑑𝑦 𝑏
𝑎 + 𝑎 𝑦= 𝑏 𝑥 ⇒ + 𝑦= 𝑥
𝑑𝑡 𝑎 𝑑𝑡 𝑎 𝑎
≜ τ 𝐂𝐨𝐬𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨
𝑎

𝐝𝐲
Quindi 𝛕 + 𝐲= 𝐒𝐱 equazione differenziale in forma normale.
𝐝𝐭
Data l’equazione differenziale prima scritta, lo strumento è caratterizzato. Se noi pensiamo di avere
come ingresso una funzione x(t), integrando l’equazione differenziale riusciremo a trovare la y(t),
cioè trovare l’uscita dato l’ingresso. Questa non è forse la modalità più agevole dato che richiede,
ogni volta che si utilizza lo strumento, di passare attraverso l’integrazione di una equazione differen-
ziale. Una soluzione più semplice sarebbe quella di non andare a guardare una x(t) che può assu-
mere qualsiasi forma, bensì delle x(t) particolari e valutata la risposta a quel tipo di ingresso ottenere
quella ad un ingresso generico. Una funzione particolarmente rilevante è quella armonica, dato che
abbiamo visto che ogni x(t) la possiamo scrivere come somma di componenti armoniche. Se vedo
come si comporta il nostro strumento del Ι ordine quando l’ingresso è armonico ci basta scomporre
un ingresso qualsiasi in termini armonici e usare la relazione ingresso-uscita per il caso armonico.

Prima di affrontare questa analisi, vediamo come si comporta il nostro strumento con un altro in-
gresso abbastanza tipico che è:
INGRESSO A GRADINO
Vediamo un ingresso a gradino con il gradino sullo zero. Per t< 0 l’ingresso ha valore X1 e per t ≥ 0
valore X2.

X(t)
L’ingresso a gradino è particolar-
X2(t) mente utilizzato da chi fa misure di
temperatura.
t≥0

ingresso reale che tiene conto della transizione tra le due zone
X1(t)

t<0

0 t

Un ingresso a gradino su un termometro lo si può produrre mettendo, per esempio, il termometro


che si trova a temperatura ambiente a contatto con un oggetto più caldo (es acqua in ebollizione) o
freddo (bagno di acqua e ghiaccio) e così via. In un tempo molto breve, in teoria nullo, si deve
passare lo strumento da un ambiente all’altro, quindi è un’operazione facile da compiere. Per questo
l’ingresso a gradino viene utilizzato come ingresso per la caratterizzazione dei termometri.
Ovviamente il nostro sistema impiegherà un certo tempo per passare dal valore X1 a X2 dando ori-
gine ad una zona di transizione. Il gradino potrà tuttavia essere considerato ideale se il tempo di
transizione è trascurabile rispetto al tempo che serve allo strumento per arrivare a regime.

78
Partiamo assumendo che il gradino sia ideale e andiamo a trovare la y(t). Dobbiamo risolvere l’equa-
zione differenziale lineare a coefficienti costanti.
Per fare questo bisogna prima trovare l’integrale generale usando l’equazione caratteristica
dell’omogenea associata e l’integrale particolare per un particolare x(t). Quindi con la somma dell’in-
tegrale generale e dell’integrale particolare messo a sistema con le condizioni iniziali per trovare le
costanti, forniscono la risposta.

L’omogenea associata della τ + 1 y = S x la si trova ponendo uguale a zero il secondo ter-


mine dell’equazione, cioè togliendo Sx. Al posto della variabile in quello che rimane si usa la variabile
che chiamiamo K, del polinomio associato.

Sostituendo = K ottengo l’equazione caratteristica τ K + 1 = 0 (1 = coefficiente della y) e quindi


K = - 1/τ
L’integrale generale è nella forma “costante per “e” elevato a K moltiplicata per il tempo”.

INTEGRALE GENERALE ygen = A 𝑒


La costante A è una di quelle che andremo a determinare con le condizioni iniziali. Cerchiamo ora
l’integrale particolare. La funzione di x(t) corrispondente a x = x2 è una costante. L’integrale partico-
lare corrispondente a una costante è (se fosse un polinomio sarebbe sempre un polinomio con coef-
ficiente incogniti) nel nostro caso un polinomio di ordine zero e quindi una costante che chiamiamo
B.

y(t) = B = cost (quindi = 0)


INTEGRALE
PARTICOLARE ⇒ B = Sx2
Per trovare B sostituisco in τ.0 + B = Sx2

Quindi l’integrale particolare è y(t) = Sx2


E’ in pratica la risposta del nostro sistema quando l’ingresso è una costante che è la condizione per
la quale abbiamo ottenuto la taratura statica. Quindi ci bastava, senza fare tutta la procedura stan-
dard, dire che l’integrale particolare è quello della taratura statica cioè y2 = Sx2.
Per trovare la soluzione complessiva devo sommare l’integrale particolare con il generale e per tro-
vare A devo mettere le condizioni iniziali. Per t=0 la y(t) quanto vale? Arrivavamo con un x(t) uguale
a x1 da un tempo infinito e cioè avevamo un ingresso che era costante nel tempo, cioè un ingresso
statico a cui corrisponde un’uscita statica e quindi y(0) = Sx1:

y(t) = Sx2 + A 𝑒
⇒ y(0) = Sx2 + A = Sx1 ⇒ A= S (x1 - x2) sostituendo:
y(0) = Sx1

l’EQUAZIONE DELLA RISPOSTA AL GRADINO sarà:

y(t) = S x2 + S (x1 - x2) e


e vale solo dal tempo t = 0 in poi.
La taratura statica aveva quali obiettivi quelli di determinare la Sensibilità statica e l’incertezza di
misura. La taratura dinamica visto che la dinamica dello strumento è rappresentata dall’equazione
differenziale sopra riportata, potrà darci in più rispetto a quella statica la costante di tempo τ. Questa

79
equazione verrà utilizzata proprio per trovare τ da una risposta al gradino, cioè la costante che
caratterizza il suo comportamento dinamico.
1) Per essere più compatti nella scrittura possiamo chiamare y1 = Sx1 e y2 = Sx2 e quindi:

y(t) = y2 + (y1 – y2) e

x(t) y(t) y2 =Sx2 (risposta ordine 0)


x2
con S>1

y1 = Sx1 curva esponenziale


x1

t t

La nostra curva per t=0, y(0) = y1 = Sx1 e per t che tende a ∞, y(t) tende a y2 = Sx2.

L’uscita dopo un tempo pari a τ vale: y(τ) = y2 + (y1 – y2) e = y2 – 0,37 (y2 – y1)

tg all’origine
y2
y(τ)

0,63 (y2 – y1)


y1 0,37 (y2 – y1)

τ t

La scrittura 0,37 (y2 – y1) ci indica che è il 37% della differenza (y2 – y1), quindi dobbiamo abbassarci
da y2 di questa quota e troviamo il punto sulla curva corrispondente a y(τ), punto la cui ascissa
sull’asse dei tempi è proprio τ, cioè il tempo in cui mi manca il 37% per raggiungere la risposta a
regime, oppure il tempo dopo il quale ho fatto il 63% del gradino che dovrei raggiungere a regime.

2) Altro metodo per trovare τ è quello di tracciare la tangente alla curva nel punto t=0.

𝑑𝑦 1 𝑦 − 𝑦
= − (y – y )e =
𝑑𝑡 𝜏 𝜏
t=0

Se considero la retta tangente che passa per y1 con equazione y = y1 + 𝑡 per t= τ abbiamo
che y = y2, quindi nel punto di intersezione con y = y2 dovrei proprio trovare τ. Quindi traccio la
tangente all’origine, vado a intercettare la risposta a regime e nel punto di intersezione dovrei trovare
proprio τ.

3) Ultimo metodo. Riscriviamo la relazione


( ) ( )
y(t) = y2 + (y1 – y2) e ⇒ = e ⇒ z = ln = ln e = −

80
Quindi il fatto di considerare un segnale non periodico nella finestra temporale che mi interessa
come se lo fosse, non mi limita dato che non vado a vedere quello che succede al di fuori della
stessa dove, per esempio, si potrebbe poi verificare una situazione analoga a quella sopra. Quindi i
segnali non periodici possono essere resi tali quando nella finestra che stiamo osservando vediamo
tutto quello che ci interessa e poi il fatto che si ripeta o meno al di fuori della stessa diventa poco
importante ai nostri fini. Per il caso in cui il segnale non si esaurisca dopo un certo tempo e non sia
propriamente periodico (es la temperatura ambientale) l’approccio è di prendere il segnale in un
tempo che per noi è rappresentativo e considerarlo periodico al di fuori di questo

Di fatto andremo ad utilizzare un sistema di rappresentazione relativo a segnali periodici, ma


questo lo applicheremo a tutte le situazioni compresi i casi in cui il segnale non è per nulla
periodico valutando però che tipo di errori questo comporta.

Se siamo nella condizione ipotetica di segnale periodico e periodo Ts, grazie allo sviluppo in serie di
Fourier noi possiamo scrivere :

a) SVILUPPO SENO - COSENO



X(t) =  + dean cos(nωo t) + bn sin(nωo t)m
n=1

S ( S ( S
= ST
o' X(t) dt
T
q4 = ST
o' X(t)cos(nωr t) dt
T
s4 = ST
o' X(t)sin(nωr t) dt
T

2v
t9 =
Ts

IMPORTANTE: Il Ts ci dice anche qual è la frequenza più piccola che possiamo trovare dentro il
segnale, ovvero la pulsazione più piccola. Quindi se il mio segnale ha un Ts = 1 s non ci potranno
essere componenti in frequenza con frequenza più bassa di 1 Hz (1/Ts).
La componente in frequenza più alta invece non è legata al periodo quindi sulla base di questo dato
non posso sapere quale sarà la massima componente in frequenza del segnale.
Usando le relazioni di prostaferesi lo sviluppo precedente può essere riscritto come

b) SVILUPPO COSENO

X(t) =  + d Cn cosynωo t + φn {
n=1

s
Dove |4 =}q4( + s4( e φ~ = −q€•‚ƒ(q„ )

c) SVILUPPO IN TERMINI COMPLESSI (quella preferita per la forma più compatta)


+∞
X(t) = d Hn e† n ωo t
−∞

‡ ˆ
H~ = − †
( (

‡ ˆ
H ~ = + †
( (

60
Al di la di questo modello generale abbiamo visto la forma più semplice se abbiamo uno strumento
ideale:
- STRUMENTO DI ORDINE ZERO
b0
a y=b x e quindi y= x ⇒ y = S x(t) con S =
a0
= SENSIBILITÀ STATICA

E’ lo strumento più semplice ma è anche quello preferibile e che vorremmo sempre avere.

- STRUMENTI DEL 𝚰 ORDINE

τ + y= Sx

Questo tipo di strumento è particolarmente interessante perché normalmente è la rappresentazione


che facciamo dei termometri. Perché per i termometri si usa una equazione differenziale di questo
tipo?
Proviamo a rappresentare un termometro dal punto di vista di quello che avviene fisicamente. Pren-
diamo in considerazione una termocoppia. Di fatto questa è rappresentata da una giunzione tra due
fili. Il segnale in tensione che si ottiene agli estremi dei due fili è proporzionale alla temperatura della
giunzione.

Termocoppia
T1=x

m, c, Tensione
area A, α elettrica

giunzione tra due fili y=T2


(pallina di stagno)
bagno liquido: ambiente di cui
devo misurare la temperatura

Per quale motivo, però, il segnale che otteniamo nel punto di giunzione non è esattamente quello
corrispondente alla temperatura T1, cioè quella del bagno in cui la termocoppia è immersa? Quindi
perché la T2 misurata non coincide con la T1? Il segnale in uscita è proporzionale alla temperatura
del giunto quindi alla “y”. La quantità che vogliamo misurare, quindi l’ingresso nel nostro strumento
di misura è proprio la “y”.
Nella catena di misura abbiamo anche un blocco legato alla conversione della temperatura in ten-
sione elettrica che è poi il segnale che otteniamo in uscita. La “y” non segue direttamente la “x”, cioè
la pallina di stagno che fa da congiunzione elettrica non è esattamente alla stessa temperatura del
bagno. Parto dalla termocoppia alla temperatura ambiente e poi la immergo nel bagno liquido. La
differenza tra T2 e T1 è legata all’efficienza dello scambio termico, quindi la T2 evolve nel tempo.
Vediamo come si evidenzia questa evoluzione. L’equilibrio di scambio termico dinamico si basa sul
fatto che il calore scambiato deve essere uguale alla variazione di energia interna (Primo principio
della termodinamica) e il tutto è rappresentato, considerando che la pallina di stagno ha una massa
“m”, un calore specifico “c” e una superficie di scambio termico pari ad “A”, da questa equazione:
mc = α A (x − y)

variazione di calore scambiato


energia interna

y è la nostra temperatura che varia nel tempo e (x-y) è il ΔT tra la superficie della pallina e il bagno
liquido, cioè dell’ambiente in cui è immersa.
82
L’equazione scritta, come vediamo, assomiglia a quella degli strumenti del primo ordine. Facendo
alcuni semplici passaggi otteniamo che:
dy m c dy
mc + αAy= αAx ⟹ + y=x
dt α A dt
quindi abbiamo che:
𝐦𝐜
𝛕= ; 𝐒=𝟏
𝛂𝐀
Qui abbiamo scritto come uscita direttamente la temperatura del giunto che sarà identica alla tem-
peratura del bagno. A regime, con temperatura statica devo avere una sensibilità unitaria: T giunto
uguale a T bagno (quindi y = x e la variazione di y nel tempo = 0).
Quindi la mia equazione rappresenta proprio la risposta dinamica di un termometro in condizioni non
troppo complicate (abbiamo trascurato infatti che lo scambio termico può essere anche per irraggia-
mento).
Se abbiamo uno strumento del primo ordine riusciamo a ricavarne facilmente il parametro dinamico
del sistema che è la costante di tempo vedendo come si comporta con un ingresso particolare che
è quello a gradino.

RISPOSTA AL GRADINO
X1 t<0
Se X(t) =
X2 t≥0

allora y(t) = y2 + (y1 – y2) e


Data questa relazione abbiamo visto tre metodi per ricavare la costante di tempo τ.
1) y(t) = y2 + 0,37 (y1 –y2) mettendo t= τ

tg all’origine
y2
y(τ)

0,63 (y2 – y1)


y1 0,37 (y2 – y1)

τ t
2) Tangente per t = 0 (tg al’origine)
()
3) z = ln = −
z

t
tgφ= - 1/ τ (pendenza)

retta dei minimi quadrati

83
RISPOSTA DELLO STRUMENTO DEL 𝚰 ORDINE AD INGRESSI ARMONICI
A noi interessa vedere come si comporta lo strumento quando l’ingresso non è uno così particolare
come quello a gradino, ma come quello armonico tramite il quale riusciamo a scrivere tutte le funzioni
del tempo.

Nella τ + y = S x consideriamo X = X0 𝑒
Usiamo la scrittura complessa perché più comoda sottintendendo che ci interessa la sola parte reale.
La soluzione la troviamo con lo stesso procedimento visto per la risposta al gradino, quindi risol-
vendo la nostra equazione differenziale lineare a coefficienti costanti passando attraverso l’integrale
generale dell’omogenea associata, che è lo stesso, e quello particolare corrispondente al nuovo
ingresso e che dobbiamo invece ricercare.
Per t ⟶ ∞ questo integrale va a zero. A me interessa
INTEGRALE GENERALE: ygen = A 𝑒 ⇒ la situazione a regime e quindi non ne tengo conto.
INTEGRALE PARTICOLARE: quando abbiamo un ingresso rappresentato da una funzione di tipo
esponenziale, anche l’integrale particolare sarà ancora una funzione esponenziale e quindi del tipo
y = Y0 𝑒
Dobbiamo determinare Y0 e per farlo andiamo a sostituire il nostro integrale particolare dentro l’equa-
zione differenziale:

τ Yo 𝑖ω e + Yo e = S X0 𝑒
Semplifichiamo i tre termini 𝑒 e otteniamo:

Yo (1 + 𝑖ωτ) = S X0 da cui: Y = X
𝑺 𝐘𝟎
con 𝐓(𝛚) = = ≜ 𝐅𝐔𝐍𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐃𝐈 𝐓𝐑𝐀𝐒𝐅𝐄𝐑𝐈𝐌𝐄𝐍𝐓𝐎 𝐀𝐑𝐌𝐎𝐍𝐈𝐂𝐀
𝟏 + 𝒊𝛚𝛕 𝐗𝟎

La rappresentazione dell’ingresso armonico X = X0 𝑒 è quella del vettore rotante in senso antio-


rario di modulo pari a X0 (il modulo di 𝑒 è unitario) e di argomento pari a ωt:

asse immaginario

modulo X0
ωt

asse reale

L’uscita corrisponde a questo ingresso è il vettore Y0 𝑒𝑖𝜔𝑡 .


Per ottenere Yo in modulo, cioè la lunghezza del secondo vettore, dato che il modulo del prodotto è
il prodotto dei moduli ottengo:
* IY0I = X0 IT(ω)I
X0 è stata già pensata come una quantità positiva quindi è inutile farne il modulo.

84
L’argomento di questo vettore che è il prodotto di 𝑒 e Y0, sarà dato dalla somma della fase del
primo termine, cioè ωt, con quella del secondo termine che indichiamo come φ(T(ω)) dato che nella
* X0 è un numero reale e quindi ha fase nulla:
arg (y) = (ωt + φ(T(ω)))
Quindi la fase di T(ω) coincide con la fase di Y0. Per trovarla devo trovare la fase di 1/(1 + iωτ) dato
che la Y = X :

φ(T(ω)) = 0 – arctg = φ(ω)

ricordando che la fase di un rapporto è la differenza delle fasi quindi 0, che è la fase del numeratore
che è un numero reale, meno la fase del denominatore che è l’arctg della parte immaginaria diviso
la parte reale (stiamo parlando del numero complesso 1 + i ωτ).

Per vedere l’andamento nel tempo della y(t) devo prendere la X0 e moltiplicarla per la T(ω)

X0 IT(ω)I
asse immaginario φ(ω) = arctg (ωτ)

modulo X0
ωt

asse reale

La y(t) è la parte reale del vettore rotante di modulo X0 IT(ω)I e fase (ωt + arctg (ωτ)).

Abbiamo già visto uno strumento che da una qualsiasi funzione del tempo ci permette di ottenere
una somma di componenti armoniche ed è lo sviluppo in serie di Fourier. Per ciascuna componente
armonica in ingresso posso tramite la T(ω) determinare come lo strumento la trasforma nella corri-
spondente componente in uscita. Quindi non sono più legato allo strumento con un ingresso
particolare tipo quello a gradino, a rampa, triangolare ecc., ma ora posso gestire un ingresso qual-
siasi, lo trasformo con la serie di Fourier, lo moltiplico per la T(ω), ho la serie di Fourier dell’uscita,
dalla somma della serie ho l’andamento nel tempo dell’uscita. Tutto questo a fronte della “piccola
alterazione” che imponiamo di considerare periodico il nostro segnale in ingresso nella nostra fine-
stra di osservazione.

Dopo che abbiamo fatto lo sviluppo in serie, vediamo come si fa a trovare la y(t).
N
n= 2

X(t) = Hn e𝒾 n ωo t y(t) = ?
N
n=− 2

Dimentichiamoci un attimo della sommatoria e vediamo cos’ha di diverso questo H e𝒾 rispetto


𝒾
alla X0 𝑒 . Abbiamo che H è un numero complesso e quindi vuol dire che il vettore H e al
posto di essere ruotato di nωot, sarà ruotato di nωot, più la fase di Hn, ma concettualmente nulla di
diverso.
Vediamo come otteniamo la prima componente di y, cioè la y1comp: devo prendere il primo coefficiente
della x(t) e moltiplicarlo per la T(ω)
85
Dato che lo sviluppo di e † ~ •– R è, sfruttando le formule di Eulero, pari a: cos(n ωo t) - i sen(n ωo t),
riotteniamo le espressioni degli an e bn, quindi riotteniamo sempre le stesse cose anche se qui ab-
biamo una rappresentazione dalla forma più compatta.

------------ ooo ------------

Noi abbiamo fatto un’operazione con i nostri segnali che è stata quella di passare da un segnale
continuo nel tempo a una serie di valori numerici che abbiamo campionato. Di fatto non ci troviamo
più nella situazione di avere una funzione X(t) continua, ma di avere solo i valori dei punti in cui
abbiamo fatto il campionamento.

X(t)

0 Δt 2Δt 3Δt (N-1) Δt tempo

Di fatto la X(t) è diventata:

Xo = X(t=0) Xo
X1 = X(t=Δt) X1
… …
… …
… …
… …
XN-1 = X(t=(N-1)Δt)) XN-1

Quindi ho il vettore sopra scritto e vorrei calcolare l’integrale per trovare Hn. Sappiamo che l’integrale
numerico è un’approssimazione dell’integrale continuo, quindi l’area che sta sotto la curva diventa,
nel nostro esempio, la somma dei rettangoli che costituiscono l’altezza attorno a ciascuno dei punti
(immagine precedente - rettangoli rossi di base Δt). Noi però non dobbiamo calcolare direttamente
l’integrale di X(t), bensì il prodotto di X(t) con un’altra funzione, la e † ~ •– R che è comunque una
funzione nota. Basta solo mettere dentro il valore di “t” e la posso calcolare. Il concetto è quello di
poter calcolare questo integrale con la procedura ora descritta. Proviamo a farlo.
Per prima cosa vediamo a cosa corrispondente il tempo Ts (o per semplicità, il tempo T). In totale
ho raccolto N punti, da 0 a N-1. Ad ognuno corrisponde un intervallino Δt, quindi:
T = N Δt
questo dovrebbe essere il periodo esatto della mia funzione periodica, ma in realtà non conosco il
periodo esatto della funzione, quindi sarà più semplicemente il tempo della mia finestra di osserva-
zione. A volte non disporrò di funzioni periodiche e quindi forzerò la mia funzione ad esserlo. Quindi
T come tempo di osservazione ma anche come periodo della funzione che sto sviluppando in serie
(ipotesi di base per lo sviluppo: funzione periodica su T).

Cominciamo a scrivere Hn mettendo al posto dell’integrale la somma delle aree per il valore della
funzione e † ~ •–R .

63
Proviamo a pensare di avere una φ = αω con α = cost. Si otterrebbe che:
y = IT(ω)I X0 cos(ωt + αω) = IT(ω)I X0 cos[ω (t+ α)]
cioè è come aver traslato i tempi. La traslazione del tempo è sempre pari ad α anche prendendo
degli ω diversi. È una condizione di fase particolare perché proporzionale ad ω e quindi nella rela-
zione riesco a raccogliere ω, cosa non possibile se la fase fosse costante. Se tutti i segnali vengono
spostati in avanti di α, ammettiamo che α sia un secondo, vuol dire che acquisisco il segnale e so
che è spostato in avanti di un secondo. La forma del segnale è come se avessi uno strumento di
ordine zero e devo solo considerare lo , così come consideravo l’inversione del segno con i K𝝿 a K
dispari.
Quindi alla fine potrò scrivere:

IT(ω)I = S ± Tolleranza
**T(ω) = S
Iφ(T(ω))I = 0, K𝝿, αω (± Tolleranza)

Sotto queste condizioni lo strumento è sostanzialmente equivalente a uno strumento di OR-


DINE ZERO. Quindi l’uscita è uguale all’ingresso moltiplicata per una costante e abbiamo aggiunto
che potremmo aver bisogno di cambiarne il segno (caso K𝝿 con K dispari) e di traslarla nel tempo
di una quantità pari ad α (caso αω).

Queste sono anche le condizioni che vengono usate per definire la BANDA PASSANTE.

BANDA PASSANTE DELLO STRUMENTO: CAMPO DI FREQUENZE IN CUI VALGONO LE **

Quindi frequenze con modulo della T(ω) costante a meno di una tolleranza, e fase nulla, K𝝿 o lineare,
anche qui a meno di una tolleranza.
Se siamo in banda passante, per ottenere l’uscita dato l’ingresso ci basta solo moltiplicare per la
sensibilità ed eventualmente ribaltare o traslare il segnale, quindi non è la perfetta equivalenza di
uno strumento di Ordine Zero ma abbiamo allargato un poco il campo delle condizioni accettate.
Se siamo in banda passante, per ottenere l’uscita dato l’ingresso ci basta solo moltiplicare per la
sensibilità ed eventualmente ribaltare o traslare il segnale, quindi non è la perfetta equivalenza
di uno strumento di Ordine Zero ma abbiamo allargato un poco il campo delle condizioni accettate.
IMPORTANTE: CRITERIO DI SCELTA DELLO STRUMENTO
Lo strumento va bene per la misura che si deve fare se, ipotizzando per esempio che la banda
passante sia da 0 a 100 Hz i segnali da misurare abbiano banda contenuta all’interno di questa
banda quindi per esempio per un segnale a 70 Hz sarebbe corretto, per uno a 120 Hz no. Dato che
la banda in cui sono contenute le frequenze del segnale l’avevamo chiamata BANDA DEL SE-
GNALE, ne segue che la BANDA DEL SEGNALE deve essere contenuta nella BANDA PAS-
SANTE DELLO STRUMENTO.

Dato il T(ω) = del nostro termometro, vediamo come si calcola la BANDA PASSANTE.

a) IT(ω)I = S ⇒ (modulo di S/modulo di (1 + 𝑖ωτ))



Banda passante ?
b) IT(ω)I = S - Tolleranza

Per il caso a) la condizioni affinché il modulo di T(ω) sia uguale a S è che ω=0. Sembrerebbe che la
banda passante sia solo per ω=0. Questo vorrebbe dire che è un coseno di un qualcosa che ha zero
come argomento (cioè nella forma cos(z) con z=0) quindi un coseno che assume come valore 1,

87
cioè diventa una costante. ω=0 è la degenerazione di una armonica verso il segnale costante nel
tempo, cioè un segnale armonico con periodo infinito quindi di fatto una costante nel tempo.
Se metto quindi un uguale stretto ottengo la condizione di ingresso statico.
Devo quindi permettermi una tolleranza, caso b). La quantità è sempre minore di S perché

la divido per denominatore che è sempre maggiore di 1 (somma sotto radice quadrata). Allora nel
caso b) posso mettere un “-“ Tolleranza. Devo solo fissare una tolleranza che ritengo accettabile.
Per averne una accettabile dovrebbe essere nell’ordine di qualche % del fondo scala, considerando
che questa interviene sulla sensibilità dello strumento. Potrei quindi mettere un 1, 2, 3 o 4%. Questo
vuol dire che le componenti a quell’ω vengono sottostimate dell’1, 2, 3 o 4%.
Mettiamo invece un valore che è estremamente grande che è il 30%, perché utilizzando questa %
ottengo un punto particolare che andiamo ora a vedere.

CASO PARTICOLARE: TOLLERANZA = 0,3 S (30%)


Vediamo cosa succede dato che se metto un segnale a ingresso 1 mi esce 0,7. Sto facendo una
grossa alterazione ma lo vediamo perché uscirà un numero molto particolare.

S S 𝟏
= S − 0,3 S = 0,7 S ⇒ 1+ ω τ = ≅ √2 ⇒ ω τ = 1 ⇒ 𝛚 =
√1 + ω τ 0,7 S 𝛕

Se io vado con le mie pulsazioni a quella particolare pulsazione che è 1 diviso la costante di tempo
τ ho il modulo che è costante, ma in realtà “quasi” costante con attenuazioni fino al 30%. Questa
banda passante ha di buono che identifica immediatamente la costante di tempo τ. Se ho un termo-
metro con un τ = 1 s, la banda passante ω vale 1/1 = 1 rad/s cioè una frequenza di circa 1/6 Hz.
Quindi la banda al 70% di rapporto uscita/ingresso (Yo/Xo) è identificata direttamente dalla costante
di tempo 1/ τ. Non utilizzeremo quasi mai uno strumento fino a questa banda passante perché il
30% di errore è troppo, però se invece di mettere una tolleranza 0,3 ne metto una pari a 0,03 ottengo
un’altra frazione. Al posto di 1/ τ otterrò una frazione dell’ordine di 0,25/ τ, quindi a seconda della
tolleranza con questa relazione io posso ottenere la banda passante per il mio strumento.
Vediamo ora cosa succede per la fase. La condizione di banda passante per la fase è che la fase
sia idealmente nulla. Se mettiamo
φ = - arctg (ωτ) = 0
ω deve essere nulla dato che τ non può essere nulla altrimenti saremo negli strumenti di ordine zero.
La condizione di fase nulla mi riporterebbe alla condizione di ingresso statico. Se metto una tolle-
ranza, per esempio mettiamo – 𝝿/10, ottengo una ω tale che mi venga soddisfatta la condizione,
( )
quindi per ogni tolleranza che metto mi trovo una ω. Nell’esempio ω = .
Vediamo quanto vale la fase se ci mettiamo in quel particolare punto che ci dava la banda pas-
sante del modulo al 30% di attenuazione, cioè nel punto ω = 1/τ. Qui la fase è data da:

φ = - arctg ( 𝜏) = - arctg(1) = -
𝟏 𝝅
Nel punto cosiddetto PUNTO di ROTTURA 𝝎= 𝝉
⇒ 𝝋= − 𝟒
Questa è una fase che normalmente non sarebbe accettabile per la banda passante, però ricordia-
moci che possiamo degradare la condizione di fase nulla a quella di fase lineare e allora il punto
𝝿/4 diventa accettabile perché tra 0 e 𝝿/4 se io guardo la funzione arctg la posso linearizzare e
l’errore sulla linearizzazione è di pochi gradi, quindi:

BANDA PASSANTE PER LA FASE: fino al punto 𝜔 = è accettabile considerando la condizione


di fase lineare φ = αω

DIAGRAMMA FUNZIONE DI TRASFERIMENTO

88
Disegniamo il grafico di IT(ω)I:

IT(ω)I = φ(ω) = - arctg (ωτ)


IT(ω)I
Funzione simile a filtro anti-aliasing
S

0,7 S
0,99 S va a zero

ωBP1% ω=1/τ ω

I punti conosciuti sono per ω=0 (IT(ω)I = S) e ω=1/τ (IT(ω)I = 0,7 S). Se abbiamo questo diagramma
e ci chiedono la banda all’1% (ωBP1%) la possiamo facilmente trovare graficamente dato che basta
togliere alla sensibilità S l’1%. “BP” sta per banda passante.
Per quanto riguarda la fase:

φ(ω)

ω=1/τ

- 𝝿/4

- 𝝿/2 asintoto

Nella scheda tecnica dello strumento oltre a Sensibilità, linearità, derive ecc. abbiamo anche il dia-
gramma della funzione di trasferimento (in modulo e fase in genere su scala logaritmica)).

I punti essenziali della lezione precedente:


Abbiamo visto come scegliere uno strumento nel caso di misure statiche, quindi quali sono i para-
metri da prendere in considerazione. Questi ricordiamo che sono la Sensibilità e il Fondo scala dello
strumento per misurare in modo corretto il segnale in ingresso e l’incertezza strumentale per definire
nel suo complesso la misura (l’incertezza strumentale la possiamo trovare sotto differenti voci come
risoluzione, isteresi ecc.).
Quello che vogliamo è avere la stessa tranquillità nella scelta dello strumento quando dobbiamo
eseguire una misura dinamica (ingresso variabile nel tempo). Abbiamo iniziato a vedere su cosa si
basa la modalità di scelta vedendola per uno strumento particolare che è quello del Ι ORDINE, ma
in sostanza noi scegliamo uno strumento in modo tale che si comporti come lo strumento di ORDINE
0. Cioè il criterio di scelta nel campo delle misure dinamiche è andare a vedere se lo strumento si
comporta con il nostro segnale come se fosse di ORDINE 0, cioè con le stesse caratteristiche viste
in campo statico. Questa verifica la facciamo vedendo lo spettro in frequenza del segnale e affer-
mando che UNO STRUMENTO E’ ADATTO A FARE UNA MISURA DINAMICA QUANDO TUTTA
LA BANDA DEL SEGNALE E’ CONTENUTA NELLA BANDA PASSANTE DELLO STRUMENTO.
89
STRUMENTI DEL 𝚰 ORDINE: RISPOSTA AD INGRESSI ARMONICI
Per evidenziare il comportamento dinamico dello strumento, a questa equazione differenziale
τ + y = Sx
corrisponde una funzione di trasferimento armonica:
T(ω) =

che ci dice tutto quello che ci serve sapere riguardo alla risposta dello strumento ad ingressi armo-
nici, perché:
se X = X0 𝑒 ⇒ y = T(ω) . X0 𝑒
cioè l’uscita dello strumento è semplicemente la funzione di ingresso moltiplicata per la funzione di
trasferimento.
Nella forma reale e non complessa, quanto scritto sopra è corrispondente a:
X = X0 cos(ωt) ⇒ y = IT(ω)I X0 cos(ωt + φ(ω))
( )
con φ(ω) = fase di T(ω) = arctg ( )

T(ω) è una caratteristica generale dello strumento, anche se noi l’abbiamo vista per ora solo per
quelli del PRIMO ORDINE, quindi ad ogni strumento è associato una funzione di trasferimento ar-
monica. E’ una caratteristica del tutto analoga alla sensibilità statica, quindi caratterizza la natura
dello strumento e fa parte di quella che possiamo definire la sua “carta di identità”.
Uno strumento è adatto a fare una misura dinamica se, come detto, tutto il segnale in ingresso è
contenuto nella sua banda passante. Questa è definita come il campo di frequenze in cui val-
gono le seguenti condizioni:
IT(ω)I = costante (± Tolleranza)

φ(ω) = 0 (± Tolleranza) - caso ideale


φ(ω)
φ(ω) = K 𝝿 (± Tolleranza) - per K dispari, cambia segno
φ(ω) = αω (± Tolleranza) - α è la quantità di cui trasla il segnale nel tempo

------------ ooo ------------

La funzione di trasferimento T(ω) fornisce una informazione così importante che se ne fa anche una
rappresentazione particolare in scala logaritmica che viene chiamata la rappresentazione di Bode.

DIAGRAMMA DI BODE
E’ sempre un diagramma modulo-fase in
20 Log IT(ω)I cui però si utilizzano delle scale logaritmi-
che in base 10. Al posto di ω si utilizza Log
ω e al posto di IT(ω)I, 20Log IT(ω)I. La
quantità 20Log viene chiamata il decibel
(dB).
Log ω

Il decibel nasce nelle trasmissioni elettriche dove è nato per quantificare l’attenuazione del segnale
nella trasmissione sulle linee, infatti – 20 dB corrispondono ad una riduzione dell’ampiezza del se-
gnale a 1/ 10. Cioè quando:
20Log IT(ω)I = 20 vuol dire che Log IT(ω)I vale 1, quindi il modulo di IT(ω)I vale 10.
90
devo associare, per costruire l’asse delle ascisse, ad ogni valore di “n” una frequenza. La frequenza
zero corrisponde al valor medio e quindi avrò come primo punto H0. Il coefficiente H1 lo devo riportare
alla frequenza 1/T, infatti:
( ›M
da nω0 (della X(t)) se n=1 ottengo ω0. La frequenza corrispondente a ω0 = è f0 = =
S S (

Tra i punti A e B non c’è nulla, quindi non ha senso mettere una spezzata che unisce i due punti
dato che il significato degli Hn è celato dall’espressione prima scritta per X(t). Questa infatti ci dice
che per scrivere X(t) ho bisogno di componenti discrete che sono H0, H1, H2 ecc… e le frequenze tra
0, 1/T, 2/T ecc… nell’espressione non compaiono. I soli punti che hanno senso sono quelli legati
alle frequenze 0, 1/T, 2/T, 3/T e così via.

Dovrei operare anche con le frequenze negative dato che per gli Hn ci sono anche per gli “n” negativi.
Questi non sono importanti da riportare dato che gli H-n sono i complessi coniugati degli Hn, cioè
stessa parte reale e parte immaginaria rovesciata di segno. Se io disegno i moduli questi sono esat-
tamente gli stessi (il complesso coniugato ha lo stesso modulo di quello di partenza) quindi dovrei
semplicemente specchiare il diagramma rispetto all’asse delle ordinate, ma questo non ci aggiunge
alcuna informazione significativa (so che le frequenze negative hanno le stesse ampiezze e fasi
opposte).

Supponiamo che dopo aver calcolato gli Hn e disegnato i moduli otteniamo una situazione come
quella riportata nel grafico. A partire dal punto “C” le componenti son tutte nulle. Allora se il mio
segnale si ferma a, supponiamo 20 Hz, N/2T lo possiamo considerare circa 50 Hz. Essendo questa
la frequenza di Nyquist vuol dire che la campionatura è avvenuta a circa 100 Hz. In pratica il segnale
è stato campionato a 100 Hz ma facendone lo spettro mi accorgo che oltre i 20 Hz non c’è più nulla.
Questo ci dice che se dovessimo ricampionare questo segnale lo farei a 40 Hz, cioè la frequenza
minima per non avere Aliasing. La conoscenza della massima frequenza del segnale mi consente
di fare un campionamento ottimizzato, cioè se prima avevo acquisito 100 punti, dimezzando la fre-
quenza di campionamento ho la stessa informazione con 50 punti anziché con 100.

BANDA DEL SEGNALE: è il campo di frequenze che contiene tutte le componenti significative dello
spettro.

Nel grafico sopra non ci sono tutte le informazioni. Trattandosi di numeri complessi, infatti, avendone
dato solo il modulo per la loro rappresentazione complessa ci servono anche le fasi.

Asse immaginario

y z = x + iy

r r = modulo e φ = fase
φ
Asse reale
φ x

-y z = x – iy (complesso coniugato)

SPETTRO FREQUENZA DEL SEGNALE

66
Sull’asse delle ascisse i numeri “n” riportati corrispondono ai valori di ω=10 n quindi l’1 è pari a 10, il
2 a 100 e così via dato che Logω=1 vuol dire ω=101, Logω=2 vuol dire ω=102=100 e così via. Con
Logω tendente a - ∞, ω tende a zero. Il diagramma esiste per valori di Logω positivi e negativi,
ovviamente all’interno del campo di frequenze che ci interessa.
Vediamo ora la forma del denominatore. Per costruire in generale le funzioni si va a cercare il loro
comportamento agli asintoti. Vediamo allora il comportamento del denominatore per ω tendenze a
zero e a ∞.
Per il denominatore della T(ω) andiamo a definire:
1) Asintoto per ω ⟶ 0
Asintoto di sinistra = lim −20 Log√1 + ω τ = −20 Log1 = 0

(retta poggiata sull’asse delle ascisse)


2) Asintoto per ω ⟶ ∞
Asintoto di destra = lim −20 Log√1 + ω τ = (l’1 sotto radice è trascurabile per ω ⟶ ∞ quindi) ⇒

⇒ = -20 Logωτ= = - 20 Logω - 20 Logτ

z = - 20 Logτ è una retta (“a”) parallela all’asse delle ascisse. E’ > 0 quindi τ < 1

z = - 20 Logω = - 20w nel piano (z, w) è una retta (“b”) con pendenza – 20 dB/decadi e passante
per l’origine degli assi
Sull’asse delle ascisse, infatti, la distanza tra due divisioni corrisponde ad un fattore 10 di ω e questa
unità viene chiamata DECADE. Sull’asse delle ordinate, invece, l’unità l’abbiamo chiamata DECI-
BEL (dB).
Sappiamo quindi che l’asintoto di sinistra è fatto dalla retta orizzontale, quello di destra è la compo-
sizione delle due rette “a” e “b” che rappresenta tutto il denominatore della T(ω).
La domanda che ci poniamo ora è fino a dove usiamo l’asintoto di destra e fino a dove quello di
sinistra. Cerchiamo qualche punto particolare.
- Vediamo quando vale il modulo per una pulsazione ω=1/τ.

IT(ω)Iω=1/τ = =

Abbiamo che:
Numeratore: è sempre un 20 LogS [dB]
Denominatore: è pari a: - 20 Log√𝟐 ≅ 3 dB
In pratica il 20 Log IT(ω)I per ω=1/τ è un punto che dista 3 dB dalla retta “z = 20 LogS” prima
disegnata (ricordiamoci che il Log di un rapporto è la differenza tra il Log del numeratore e di quello
del denominatore) e con ascissa pari a Log(1/τ).
Vediamo ora dove -20 Logωτ = 0, cioè dove questa retta interseca l’asse delle ascisse. Questo si
verifica quando ωτ=1, cioè di nuovo nel punto ω=1/τ.
La rappresentazione asintotica prende come punto di separazione il punto ω=1/τ. Quindi fino a que-
sto punto utilizzeremo come asintoto quello relativo a ω ⟶ 0, dal punto 1/τ in poi utilizzeremo come
asintoto quello relativo ad ω ⟶ ∞.
Fino al punto 1/τ la funzione vale z = 20LogS – 0 = 20LogS (dato che la parte relativa al denomina-
tore vale 0), mentre al di là di questo punto la funzione varrà:
z = 20LogS – 20Logωτ

92
Graficamente quest’ultima situazione, somma di una retta (a + b) con una quantità costante, si tra-
duce nel traslare la retta fino al punto A. La rappresentazione asintotica, con gli asintoti a destra e
sinistra del punto ω=1/τ è indicata dalle due rette rosse.
Il punto ω=1/τ è chiamato il PUNTO DI ROTTURA
Nel punto ω=1/τ il diagramma corretto della nostra curva passa, fino ad ora abbiamo solo disegnato
i suoi asintoti, nel punto che si trova a 3 dB più in basso di 20LogS, cioè nel punto “B”. La funzione
corretta sarà sempre decrescente (diminuisce all’aumentare di ω) e tenderà ai due asintoti in prece-
denza definiti, quindi avrà un andamento qualitativo tipo quello tracciato in verde.
Abbiamo anche un’indicazione su quant’è la massima distanza tra il diagramma asintotico (rette
rosse) e il diagramma corretto (curva verde), infatti la massima deviazione l’abbiamo proprio nel
punto 1/τ, quindi se approssimo la funzione di trasferimento armonica con la spezzata al massimo
faccio un errore pari a 3 dB e lo faccio nel Punto di Rottura.
La comodità del diagramma di Bode è quella di vedere a colpo d’occhio la banda passante. Infatti
ricordando che la banda passante è definita come il campo di frequenze in cui valgono le seguenti
condizioni :
IT(ω)I = S ± Tolleranza
T(ω) = S
Iφ(T(ω))I = 0, K𝝿, αω (± Tolleranza)

una volta fissata una tolleranza per IT(ω)I, che viene espressa nel diagramma in decibel, poniamola
per esempio pari a 3 dB, considerando che la tolleranza è ± prenderò un + 3 dB e un – 3 dB rispetto
alla 20 LogS e andrò a trovare le intersezioni con la mia T(ω). Il riferimento 20 LogS + 3 dB non
interseca mai, mentre la 20 LogS – 3 dB interseca la T(ω) nel punto ω=1/τ. La banda passante a –
3 dB è ω < 1/τ. Stessa procedura se dovessi fissare una tolleranza di ± 1 dB o ± 2 dB.
Il diagramma di Bode viene spesso dato insieme agli strumenti perché consente di identifi-
care velocemente la banda passante e quindi di verificare se lo strumento è idoneo ad effet-
tuare le nostre misure dinamiche ipotizzando di conoscere la banda del segnale.
Dal diagramma di Bode del modulo di T(ω) dello strumento del 1 ordine si vede che che questo
strumento può funzionare come filtro anti-Aliasing, dato che da 1/τ in poi inizia ad attenuare gli in-
gressi in maniera sempre più importante all’aumentare di ω. Se volessimo un’attenuazione di un
fattore 1000 utilizzando il diagramma asintotico, dato che l’abbassamento è di 20 dB per ogni de-
cade, quindi una decade ha un fattore 10, un fattore 1000 corrisponde a tre decadi, di conseguenza
per avere un fattore di attenuazione pari a 1000 devo andare avanti di tre decadi dal punto 1/τ, cioè
dal Punto di Rottura, quindi vado a 1000 volte 1/τ che mi da il punto ad attenuazione a 60 dB.
Ovviamente per avere un’informazione completa non mi basta il solo modulo, ma devo conoscere
anche la fase. La fase nel diagramma di Bode conserva la scala logaritmica delle ascisse, mentre
quella delle ordinate resta lineare.

φ(ω)

per convenzione
0,1/τ 10/τ

A 1/τ Logω
- 𝝿/4

- 𝝿/2
B

( )
Ricordiamo che φ(ω) = fase di T(ω) = - arctg ( )
con T(ω) =

93
Questo comporta che per ω = 1/τ, φ = - arctg(ωτ/1) cioè φ = - arctg(1) = - 𝝿/4.

La fase T(ω) è infatti uguale alla fase del numeratore “-“ quella del denominatore. Il numeratore è S
quindi un numero reale con fase nulla, mentre il denominatore è un numero complesso la cui fase è
( ) ( )
pari a arctg quindi φ(ω) = - arctg
( ) ( )

Possiamo vedere il lim φ(ω) = arctg (0) = 0 asintoto di sinistra


Invece il lim φ(ω) = arctg (∞) = − π/2 asintoto di destra


Il passaggio tra i due asintoti lo si fa in modo convenzionale. Si prende una decade, quindi vado a
considerare l’ascissa 0,1/τ e 10/τ, cioè una decade prima e una dopo di 1/τ, trovo i due punti A e B
e li congiungo. Questo semplifica quella che è la vera forma dell’arctg.
Se ci viene fornito un diagramma di Bode sappiamo ora da dove salta fuori il decibel e sappiamo
valutare in modo veloce la banda passante

Abbiamo visto come il termometro sia rappresentabile come strumento del I ordine tuttavia i termo-
metri per uso industriale sono spesso realizzati incapsulando l’elemento sensibile in un contenitore
di protezione, spesso in acciaio inox per conferire resistenza meccanica, protezione dall’acqua, re-
sistenza ad ambienti corrosivi ecc. vediamo come si modifica il comportamento dinamico.
TERMOMETRO CON PROTEZIONE
contenitore protettivo (es. acciaio inox)

X = temperatura acqua
isolante elettrico (verde), Y = uscita del termometro, cioè
tipo ossido di alluminio, temperatura elemento sensibile
termicamente conduttivo Z = temperatura contenitore
A, α = area e coeff. trasmissione
z termica del contenitore
m, c= massa e calore specifico del
y contenitore
m1, c1= massa e calore specifico del
x termometro

elemento sensibile (es. platino)

Vediamo di scrivere il bilancio termico di questo sistema per ottenere la relazione tra la tempera-
tura dell’acqua e l’uscita del termometro. Ora non ho più uno scambio diretto tra l’elemento sensi-
bile e l’acqua, ma abbiamo un elemento intermedio che è il contenitore. Dobbiamo quindi scrivere
un sistema di equazioni differenziali:
1) equilibrio termico del contenitore, scambio termico tra acqua e contenitore e contenitore-ele-
mento sensibile:
dz (y − z)
mc = α A (x − z) +
dt R

a b
a) variazione energia interna; b) somma dei calori entranti
RT = resistenza termica (in analogia con il caso elettrico, esprime la “resistenza” del calore nell’
attraversare un mezzo liquido, solido o gassoso)
2) equilibrio termico dell’elemento sensibile, scambio termico tra contenitore ed elemento sensibile:
dy z−y
m c =
dt R
Ricavando z dalla seconda equazione e sostituendo i vari termini z nella prima si risolve il sistema
formato dalle due equazioni differenziali giungendo ad una espressione del tipo:
94
d y dy
a + a + y=x
dt dt
che rappresenta l’EQUAZIONE DIFFERENZIALE DI UNO STRUMENTO DEL 𝚰𝚰 ORDINE.
Quindi il fatto di avere un termometro caratterizzato non da una singola massa (vedi esempio del
modello iniziale) ma da due, fa sì che il nostro strumento non sia più del Ι ORDINE ma diventi del ΙΙ
ORDINE. Vediamo come si comporta questo tipo di strumento.

FORMA NORMALE DELL’EQUAZIONE DIFFERENZIALE PER STRUMENTI DEL 𝚰𝚰 ORDINE


1 d y 2h dy
+ + y = Sx
ω dt ω dt
che è quella comunemente utilizzata per rappresentare gli strumenti del ΙΙ ORDINE e dove abbiamo
assegnato particolari valori ai parametri a2 e a1. Utilizza dei parametri con dei nomi particolari che
derivano dai sistemi meccanici oscillanti con un grado di libertà che si basano proprio su equazioni
differenziali del ΙΙ ORDINE.
ω0 = PULSAZIONE NATURALE

= RAPPORTO DI SMORZAMENTO

Per un sistema meccanico come quello rappresentato a


lato e che ha un’equazione simile a quella prima scritta,
m (massa) abbiamo che:
K = rigidezza; m = massa

K
K C ω =
(molla) (smorzatore) m
C
h=
2 √K m

Esempio tipico di un’auto sospesa su molle e smorzatori.

Anche per gli strumenti del 𝚰𝚰 ORDINE quello che ci interessa è vedere come si comporta con
ingressi di tipo armonico, quindi trovare la sua T(ω) e andare a vedere dove si trova la sua
Banda Passante. Questi infatti sono gli elementi di scelta dello strumento del ΙI ORDINE così come
la Sensibilità S e l’accuratezza lo sono per quelli del Ι ORDINE. Prima di affrontare questo caso
vediamo, come visto anche per gli strumenti del Ι ORDINE, la risposta dello strumento ad un in-
gresso a gradino dato che questo viene utilizzato per determinare i parametri che lo caratterizzano.

X(t) X1
X0 per t ≤ 0
X(t) = X0
X1 per t > 0
t

Procediamo come abbiamo già visto per gli strumenti del Ι ORDINE, quindi ricercando l’integrale
generale dell’equazione differenziale prima scritta e lo facciamo prendendo in considerazione la po-
linomiale associata. Dall’omogenea associata:

95
1 d y 2h dy
+ + y=0 ⇒
ω dt ω dt
passiamo alla polinomiale associata e alle sue radici:
λ 2h λ,
+ λ + 1=0 ⇒ = −h ± h − 1 ⇒ λ , = ω −h ± h − 1
ω ω ω

C’è un valore di h che è critico ed è h=1 perché distingue due casi, cioè il caso in cui la radice
quadrata da origine a un numero immaginario oppure reale. Per questo i sistemi del ΙI ORDINE
vengono distinti in due categorie:

h < 1 SISTEMA SOTTOSMORZATO (in genere usato per i sistemi meccanici)

h < 1 SISTEMA SOVRASMORZATO (in genere usato per i sistemi termici)

L’integrale generale corrispondente alle radici λ e λ è (caso sovrasmorzato con radici reali):

( √ ) ( √ )
y(t) = Ae + Be = Ae + Be
Definiamo le due costanti di tempo (reciproci delle λ cambiati di segno):
1
𝜏 =
ω (h − h2 − 1)
1
𝜏 =
ω (h + h2 − 1)

quindi:
/ /
y(t) = Ae + Be
Dobbiamo trovare A e B per trovare la risposta al gradino del nostro strumento. Già sappiamo che
l’integrale particolare relativo ad un ingresso statico (cioè costante) è
y=Sx

quindi la somma dell’integrale particolare con quello generale sarà:


/ /
y = S x + Ae + Be
Per trovare le due costanti, e quindi la soluzione completa, dobbiamo mettere le seguenti condizioni:

y(0) = S x = y
condizioni 𝑑𝑦
= 0
𝑑𝑡
t=0

Scriviamo: y = S x ; y = S x e quindi:

𝒕 𝒕
𝝉𝟏 𝝉𝟐
𝐲(𝐭) = 𝐲𝟏 + (𝐲𝟎 − 𝐲𝟏 ) 𝒆 𝝉𝟏
− 𝒆 𝝉𝟐
𝝉𝟏 𝝉𝟐 𝝉𝟏 𝝉𝟐

equazione verificata inserendo le condizioni prima considerate.

96
IHnI

0,5

( C N
0 f
S S S S

φn

( C N
0 S S S S
f

- v/2

º» /( ',2
La fase è φ = arctg - = arctg = arctg (- ∞) = - v/2
¼» /( '
Per la frequenza negativa corrispondente avremo + v/2. I numeri sono complessi coniugati e quindi
le fasi sono rovesciate.
In questa situazione funziona tutto bene dato che abbiamo esattamente la rappresentazione del
segnale, cioè abbiamo l’ampiezza corretta alla frequenza corretta.
Se il segnale è così non sbaglio, ma se il segnale è nascosto dentro una finestra temporale diversa,
nel senso che è mescolato con altre componenti armoniche cosi da non vedere quanti cicli sta fa-
cendo nella finestra di osservazione, quindi al posto di osservarlo nel tempo T lo osservo nel nuovo
tempo T1, cosa succederà?

2° caso) Finestra di osservazione con T1 non più multiplo del periodo della sinusoide.
Al posto di fare 1/T, qui devo mettere 1/T1 che è un po’ più piccolo rispetto a 1/T, essendo T1 un po’
più grande di T. Il rapporto esatto è T1/T=5/4 (quindi T1 = 5/4 di T). Rappresentiamo nel grafico dei
moduli di Hn le nuove frequenze (scala modificata per chiarezza grafica):

IHnI

0,5

( ( C C N 2
0 S S S S S SS S
f

Il segnale si trova sempre, come abbiamo visto prima, in corrispondenza della frequenza 2/T e mo-
dulo di Hn pari a 0,5, ma le righe che ho a disposizione per rappresentarlo non coincidono più con
70
Eliminando la zona iniziale dove vi è un misto della presenza dei due esponenziali (zona tratteggiata)
e prendendo in considerazione l’asintoto, possiamo trovare τ essendo legato alla sua pendenza
(tangφ = - 1/τ ), mentre possiamo trovare τ considerando che l’intercetta dell’asintoto con l’asse
delle ordinate (per t=0) è pari a ln . Nota la quantità dell’intercetta e noto τ posso trovare τ .
Grazie all’asintoto, con la sua pendenza trovo τ e con l’intercetta τ .

Il punto più critico è decidere dove inizia l’asintoto dato che mentre nel digramma ora disegnato è
ben evidente questo punto nella realtà avremo tutti i vari punti sperimentali dispersi e quindi dob-
biamo decidere da che punto iniziare a considerare i dati di cui disponiamo.

I punti essenziali della lezione precedente:


Fino ad ora non abbiamo mai guardato delle misure fatte con un particolare strumento, ma abbiamo
visto delle caratteristiche che si possono applicare a tutti gli strumenti. Tutti gli strumenti vengono
analizzati come composizioni di termini di Ι e di ΙΙ ORDINE e il fatto che noi vediamo solo strumenti
del secondo ordine non è limitativo perché con le nostre nozioni di base possiamo rappresentare
qualsiasi strumento. Completata la trattazione sugli strumenti del II Ordine in linea di principio sa-
remo in grado di realizzare qualsiasi misura dato che disporremo di tutti i mezzi per scegliere gli
strumenti sia dal punto di vista statico che dinamico ed inoltre, sapendo leggere le schede tecniche
che accompagnano gli strumenti stessi, decidere quale risulti preferibile per le nostre esigenze. Da
questo momento in poi vedremo quali strumenti sono disponibili sul mercato per realizzare certi tipi
di misure, quindi, nel caso si debba fare una misura di temperatura, vedremo quali tipologie di ter-
mometri sono disponibili, quali caratteristiche hanno e di conseguenza quale scegliere.
Una cosa molto importante che va sottolineata è che abbiamo più volte evidenziato che uno stru-
mento viene scelto sulla base della sua banda passante, dato che le frequenze del segnale in in-
gresso devono essere contenute all’interno di questa banda. Questo però non sempre è vero.
Spesso può capitare che di tutte le frequenze che compongono il segnale della grandezza da misu-
rare ce ne serva una specifica, si pensi per esempio alla valutazione della potenza mediamente
fornita da un motore. Se la nostra coppia ha componenti in frequenza fino a 1 KHz, noi non abbiamo
bisogno di uno strumento in grado di contenere tutta la banda del segnale, dato che l’informazione
sul valor medio del segnale, se facciamo lo sviluppo in serie delle componenti dello stesso, è posi-
zionata proprio a ω = 0. Le altre componenti le troveremo a ω0, 2ω0 e così via. Questo vuol dire che
la coppia del motore avrà delle componenti che saranno il valor medio e altre fino a 1 KHz. Se io
sono interessato al valor medio della coppia per trovare la potenza mediamente erogata dal motore,
vuol dire che non necessito di uno strumento in grado di leggere tutta la banda del segnale, ma solo
la frequenza della componente che mi interessa. Quindi in generale lo strumento lo sceglierò con
una banda passante in grado di contenere non tutta la banda del segnale ma solo quella di mio
interesse.

L’ultima volta abbiamo visto gli strumenti del ΙΙ ORDINE la cui equazione in forma normale è:
1 d y 2h dy
+ + y =Sx
ω dt ω dt

Se h > 1 la risposta al gradino, considerata per valutare le costanti di tempo, è:


𝜏 𝜏
y(t) = y + (y − y ) 𝑒 − 𝑒
𝜏 −𝜏 𝜏 −𝜏
con:
1
𝜏 =
ω (h − h2 − 1)
1
𝜏 =
ω (h + h2 − 1)

98
con, per come le abbiamo definite, 𝜏 > 𝜏 .

ln

ln > 0 dato che 𝜏 > 𝜏 e quindi >1

𝜑 = 𝑎𝑟𝑐𝑡𝑔 − τ
1

asintoto

In pratica dall’asintoto riusciamo ad ottenere entrambe le costanti di tempo: dalla pendenza 𝜏 e


dalla intercetta 𝜏 . Una volta noto 𝜏 ricaviamo 𝜏 .
Uno strumento del secondo ordine di questo tipo lo otteniamo, per esempio, con un termometro
caratterizzato da una struttura protettiva dell’elemento sensibile a differenza della termocoppia
senza protezione dove questo è a diretto contatto con l’ambiente. La termocoppia, infatti, è uno
strumento del Ι ORDINE.

Vediamo ora come rispondiamo al gradino nel caso in cui h < 1.


Avevamo visto che le due radici della polinomiale associata erano: λ , = ω −h ± √h − 1

Se h < 1 ⇒ √h − 1 = (− 1)(1 − h ) = 𝑖 √1 − h ; la (− 1) = 𝑖 unità immaginaria


<0

In questo caso l’integrale generale è sempre:

y(t) = Ae + Be = ⇒ ora λ , = −ω h ± 𝑖√1 − h ⇒

( √ ) ( √ ) √ √
= Ae + Be = e Ae + Be
( √ ) ( √ ) √ √
= Ae + Be = e Ae + Be

dato che a noi interessa la sola parte reale di questa scrittura e considerando che valgono le seguenti
relazioni:

𝑒 +𝑒
= 𝑐𝑜𝑠𝜔𝑡
2
𝑒 −𝑒
= 𝑠𝑖𝑛𝜔𝑡
2𝑖

possiamo scrivere (parte reale):

99
y(t) = e C cos ω √1 − h t + ∅
Questa relazione è importante perché ci serve per ottenere le caratteristiche dinamiche.
C e ∅ sono le due costanti per avere l’esatto andamento della risposta.
ω0 e h sono invece le caratteristiche dinamiche dello strumento, quelle equivalenti a 𝜏 e 𝜏 .

La soluzione completa è data dalla somma dell’integrale generale e di quello particolare (che corri-
sponde all’ingresso particolare che è x = x1), quindi:

y(t) = C e cos ω 1−h t+ ∅ + 𝑦

integrale generale integrale particolare

y(0) = y ( = S x ) ⇒ Ce∅

y′(0) = 0 (dato che arriviamo con ingresso costante, y’=0)

potremmo risolvere il sistema e trovare di conseguenza C e ∅. In realtà non ci interessa farlo perché
possiamo ottenere i due parametri che interessano, ω0 e h, anche lasciando C e ∅ non determinate.
Non valuteremo questi due parametri ma andremo a vedere la forma che assume la risposta, cioè
la y(t):

y A1 A2

Sx1 = y1 asintoto t⟶ ∞

Sx0 = y0 T

t1 t1+T

zona a derivate nulla

NOTA: Periodo costante ma con attenuazione dell’ampiezza nel tempo.

La “y” per t < 0, dato che arriviamo da un ingresso costante pari a x0, varrà “S x0”, cioè y0.
Asintoticamente, cioè quando è applicato per un tempo infinito il valore x1, siamo ancora in condizioni
statiche e quindi l’asintoto varrà Sx1 = y1.
Se il nostro fosse uno strumento di ORDINE ZERO, arrivati nel punto t=0 si passerebbe istantanea-
mente dal valore y0 a y1 per poi proseguire costante, creando quindi in t=0 una discontinuità.
Nel nostro caso invece, dalle condizioni iniziali sappiamo che la derivata prima per t=0 è nulla, quindi
ci troviamo in una condizione di tangenza orizzontale, cioè in assenza di discontinuità.
Per t > 0 ci troviamo in una condizione caratterizzata dalla somma di una costante (y1), che rappre-
senta un valore medio perché attorno abbiamo la presenza di un termine oscillante, cioè la funzione
“cos” che ha un valor medio nullo. La funzione nel suo complesso è quindi rappresentata da un
100
ž
1 4


H4 = d ˜™ š ž
N
™Ÿ'

Abbiamo altresì visto come si presenta uno spettro di frequenza che è costituito da righe discrete
che sono distanti tra di loro di una quantità pari a 1/T con T= tempo di osservazione. Questo T è
anche uguale a T=NΔt e 1/T=f0 (=Δf):

IHnI

( C
0 f
S S S
Δf 2Δf 3Δf

Questa è una operazione matematica di trasformazione del segnale dal dominio del tempo al domi-
nio della frequenza.
Se vogliamo vederla come una sorta di strumento, questo strumento ha delle uscite discrete che
sono in f (o Δf), 2Δf, 3Δf ecc.. Quando abbiamo uno strumento che ha delle uscite discrete, la di-
stanza che intercorre tra queste è chiamata RISOLUZIONE ed è per questo che il
Δf = RISOLUZIONE SPETTRALE
Oltre al diagramma dei moduli abbiamo anche il diagramma delle fasi.

φ
v

( C
0 f
S S S

-v

Sappiamo che la fase del primo elemento è nulla perché è sempre un valore reale (in realtà può
essere o nulla oppure, convenzionalmente, se il valore medio è negativo diciamo che è pari, arbitra-
riamente, a v o -v).

Quello che ci aspettiamo da uno spettro è una serie di valori così come li abbiamo ora rappresentati.
Nella relazione
ž
1 4


H4 = d ˜™ š ž
N
™Ÿ'

non compare né il Δt né la frequenza di campionamento. Quindi non vedo con quale frequenza ho
campionato e quindi quale sarà la frequenza massima, ma ho solo Xk, cioè i valori campionati di cui
non ho più la relazione con il tempo. Quindi gli algoritmi che mi calcolano la serie di Fourier (o la
trasformata di Fourier) non chiederanno di fornire il vettore dei tempi, né la frequenza di campiona-
mento, ma mi daranno in uscita il vettore Hn completamente slegato rispetto alla scala delle fre-
quenze. Per costruire la scala delle frequenze devo sapere per quanto tempo ho osservato il mio
segnale, cioè T. Questo è anche legato alla frequenza di campionamento, infatti:

73
A 2π 𝟏 𝐀𝟏
ln = ω h 𝐡= 𝐥𝐧
A ω0 𝟐𝛑 𝐀𝟐 Per sistema del
se 𝐡 ≤ 𝟎, 𝟏 ⇒ ΙΙ ORDINE
2π 𝟐𝛑 SOTTOSMORZATO
T= 𝛚𝟎 =
ω 𝑻√𝟏 − 𝐡𝟐 h<0.1

Il valore di h lo posso stimare guardando il diagramma. Se vedo che l’ampiezza dell’oscillazione va


a zero dopo poche oscillazioni vuol dire che h è molto grande e quindi l’approssimazione fatta non
mi va bene. A questo punto vado a utilizzare la soluzione corretta senza introdurre l’approssimazione
√1 − h ≈ 1. Se invece ci sono un bel po’ di oscillazioni prima di vedere andare a zero l’ampiezza,
allora vuol dire che h è piccolo e quindi posso operare come sopra. Comunque se a posteriori trovo
un, per esempio, h = 0,3, posso anche tornare indietro e utilizzare la relazione corretta.

Per questa trattazione abbiamo preso in considerazione le ampiezze A1 e A2, ma se avessimo preso
in considerazione l’ampiezza successiva A3, la sola cosa che cambia sarebbe quella relativa al
tempo, t1+2T al posto di t1+T, e quindi al cos, al posto di avere 2 π avrei avuto un 4 π. Questo discorso
vale fino all’ennesima ampiezza An successiva alla prima con t1+nT e al posto di 2π si trova un
“2nπ"nelle relazioni precedenti.

A volte la risposta dello strumento al gradino ha un andamento oscillante come quello prima visto
anche se lo strumento non è propriamente del ΙΙ ORDINE, cioè non è uno strumento che soddisfa
la loro equazione differenziale lineare a coefficienti costanti. Per verificare questa cosa è sufficiente
vedere se si mantiene costante il rapporto di smorzamento man mano chi mi allontano dall’inizio
gradino, quindi calcolare il rapporto A1/A2 per i primi due massimi e poi ricalcolarlo per altri due mas-
simi consecutivi dopo un certo numero di oscillazioni An/An+1 e verificare se sono uguali. Il caso più
comune di strumento non del ΙΙ ORDINE con un andamento oscillante è quello dell’attrito non di tipo
viscoso bensì coulombiamo (ω0=cost, h cambia; negli strumenti del 𝚰𝚰 ORDINE ω0 e h sono sem-
pre costanti). Questo da origine a un comportamento non lineare, cioè che non soddisfa l’equazione
differenziale che caratterizza gli strumenti del ΙΙ ORDINE.
Ora sappiamo trovare tutti i parametri caratterizzanti gli strumenti del Ι e ΙΙ ORDINE, ma ci manca
ancora la trattazione relativa alla risposta dello strumento del ΙΙ ORDINE ad un ingresso di tipo
armonico, la sola che ci dice la banda passante ovvero quando posso utilizzare lo strumento.

RISPOSTA AD INGRESSO ARMONICO

Consideriamo la nostra equazione differenziale


1 d y 2h dy
+ + y =Sx
ω dt ω dt

con X = X0 𝑒

Troviamo qual è la risposta a regime, cioè l’integrale particolare che sarà nella forma:

Y = Y0 𝑒

Proviamo a sostituirla nell’equazione sopra scritta e otteniamo:

Y + hY +Y e =SX 𝑒

102
Andiamo ancora a calcolarci il rapporto = T(ω) Funzione di trasferimento armonica

T(ω) =

al denominatore abbiamo un trinomio di secondo grado in . Questo è scomponibile nel prodotto


di tue termini che sono costituiti dalle radici del trinomio di secondo grado quando il determinante è
> 0 (4h2 – 4 > 0) che nel nostro caso equivale ad h > 1.

NOTA:

Ne segue che:

1
𝜏 =
ω (h − h2 − 1)
T(ω) = ( )( )
con
1
𝜏 =
ω (h + h2 − 1)

Andiamo a tracciare il diagramma di BODE di T(ω) ricordando che il Log di un prodotto è la somma
dei logaritmi;

CASO h > 1

Z=20 Log IT(ω)I

20LogS (numeratore)

3dB

(τ1 > τ2)

1/τ1 1/τ2 20dB/decade Logω

-40dB/decade

(a) (b)

I denominatori da soli (pag. 91-92) erano fatti da una spezzata con asintoto di sinistra che era coin-
cidente con l’asse delle ascisse (z=0), mentre quello di destra inclinato di – 20dB/decade con il punto

103
In corrispondenza dell’Hn abbiamo anche la frequenza corrispondente ad H-n che ha argomento
e † ~ •–R . L’angolo “- nω0t” è il simmetrico ma dalla parte opposta. Se considero la componente a
frequenza positiva e quella a frequenza negativa, sono due quantità moltiplicate una per un vettore
che ruota in senso antiorario e l’altra per un vettore che ruota in senso orario. Vediamo l’effetto che
si ottiene moltiplicandola per Hn. Questo termine lo possiamo scrivere come:
Hn = IHnI š Á
cioè il prodotto di modulo e fase

H-n = IH-nI š Á!

I due moduli sono uguali dato che i due coefficienti, Hn e H-n, sono numeri complessi coniugati e
quindi la fase è l’arcotangente della parte immaginaria su quella reale:
º» /(
φ = -arctg
¼» /(
Se cambio il segno della parte immaginaria, cambia anche il segno di φn, quindi:

φ-n = - φn e di conseguenza:
H-n = IH-nI š Á!
= IHnI š Á

Ora moltiplico questo numero per la quantità e † ~ •– R (prodotto di numeri complessi).


Questo prodotto è un numero complesso il cui modulo è il prodotto dei moduli. Dato che e † ~ •– R ha
modulo unitario, mi resta il solo modulo di Hn (supponiamolo maggiore di 1). Graficamente abbiamo
che (vettori neri di modulo Hn):

asse immaginario φn

IHnI = modulo di Hn
nω0t
asse reale
vettore somma
- nω0t
IH-nI = IHnI

- φn

Le fasi di questo prodotto sono le somme delle fasi, quindi all’nω0t devo sommare φn e lo stesso
vale per “- nω0t” al quale sommiamo - φn . Otteniamo i due vettori evidenziati in rosso che altro non
sono che la rotazione di quelli neri di un angolo pari a φn, cioè non faccio altro che ruotare in verso
antiorario il vettore di modulo IHnI di un angolo pari a φn, e il vettore di modulo IH-nI in senso orario
di un angolo pari a “-φn”. I due vettori, frequenze positive e negative, hanno sempre la stessa parte
immaginaria ma opposta, e quindi la loro somma è un numero reale e d’altra parte dallo sviluppo in
serie deve uscire una funzione reale e non può certo uscire una funzione complessa.
Sono quindi due vettori controrotanti, uno ruota in senso orario e l’altro in senso antiorario. Quindi
possiamo tener conto che la rappresentazione corrispondente alle componenti armoniche è quella
di due vettori che hanno modulo pari al modulo di Hn e che ruotano uno in senso antiorario e l’altro
in senso orario. La somma dei due vettori è rappresentata nel grafico ed è la componente di X(t)
dovuta alla sola parte Hn, cioè la componente armonica corrispondente a “nf0”.
La rappresentazione grafica ci fa vedere cosa fa la fase di Hn, cioè di fatto ci fa vedere con t=0 di
quanto sono aperti i due vettori inizialmente.

75
T(ω) = passiamo, considerando che il modulo di un numero complesso è la parte

reale al quadrato più la parte immaginaria al quadrato tutto sotto radice quadrata, alla:

20 Log IT(ω)I = 20LogS – 20Log 1− + 2ℎ ordine di ω4.

parte reale parte immaginaria

Vediamo ora come si comporta il modulo di T(ω) guardando gli asintoti:

CASO h < 1

asintoto per h ⟶ 0
Z=20Log IT(ω)I

h=1

20LogS (asintoto numeratore)


6 dB

asintoto di sin. denominatore


ω0 Logω

h crescente -40dB/decade

- 40Log

asintoto di destra del denominatore

Chiamiamo H = 1− + 2ℎ

lim −20LogH = 0 dato che la quantità sotto radice tende a 1 (asintoto di sinistra del denominatore)

lim −20LogH = −20Log dato che tende a ∞ più velocemente degli altri parametri usando l’ordine

degli infiniti (asintoto di destra del denominatore) ⇒ -20Log = - 40Log

Questa è una retta non passante per lo zero, inclinata di -40 dB/decade e che intercetta l’asse
delle ascisse per ω= ω0 dato che Log(ω/ω0) = Log1 = 0.

105
Non ci rimane che sommare graficamente i due asintoti ora trovati con il 20LogS. Fino al punto ω=ω0
usiamo l’asintoto di sinistra che essendo pari a zero, sommato con 20LogS rimane pari a quest’ul-
timo valore (tratto rosso orizzontale). Dal punto ω=ω0 dobbiamo sommare -40dB/decade, quindi
l’asintoto della nostra funzione scenderà verso il basso con una pendenza di -40dB/decade (tratto
rosso inclinato). Ora guardando il nostro diagramma asintotico, la banda passante sarebbe fino al
punto ω0. Il diagramma corretto in questo caso varia molto in funzione del rapporto di smorzamento
e può assumere valori molto diversi in funzione di h. Per ω=ω0, H=2h. Se h=1, per esempio, 20Log
IT(ω)I = 20LogS – 20Log2 = 20Log(S/2), se h invece ⟶ ∞, otteniamo un 20 Log(S/2h), cioè il Log di
una quantità che tende a zero, cioè un Log che tende a ⟶ - ∞.
Quindi per h=1 il punto in ω=ω0 in cui passa la mia curva si trova a 20Log2 da 20LogS, cioè a:
20Log2 ≈ 6 dB da 20LogS.
Per h > 1 dovrei tornare al primo diagramma visto prima
Però se h ⟶ ∞, il Log(S/2h) ⟶ - ∞, quindi il punto si sposta verso il basso.
Se h ⟶ 0, Log(s/2h) ⟶ ∞, quindi il punto si sposta verso l’alto (asintoto verticale).
Aumentando h il punto in cui le varie curve iniziano la discesa si sposta sempre più verso sinistra,
cioè il punto di inizio discesa viene progressivamente anticipato .

In generale la banda passante non dovrà essere più indicata con il solo valore negativo come ave-
vamo fatto per gli strumenti del Ι ORDINE, dato che in questo caso questa può interessare punti di
modulo maggiore a 20LogS, quindi scriveremo:

20Log IT(ω)I = 20LogS ± Tolleranza

Z=20Log IT(ω)I

20LogS
±Tolleranza
A

ω0 Logω

Il massimo della funzione del modulo si ha per ω=ωo√1 − 2ℎ quindi si sposta sempre più a sinistra
di ωo all’aumentare di h. C’è un rapporto di smorzamento in cui si ottiene una banda passante che
è molto ampia ed è il rapporto di smorzamento 0,7 oltre questo valore di h il modulo risulta una
funzione sempre decrescente. Vediamo cosa succede nel punto ωo ricordando che a quella pulsa-
zione si ha : 20 Log IT(ω)I = 20LogS – 20Log2h
106
Per rapporto di smorzamento 1 (h=1), il punto ad ωo passa su -6 dB (20Log2), per rapporto di smor-
zamento 0,7 il punto passa a -3 dB (-20Log1,4) . Questo rapporto di smorzamento viene utilizzato
come una sorta di compromesso, una situazione per massimizzare la banda passante degli stru-
menti. Quando posso regolare il rapporto di smorzamento dello strumento spesso cerco di avvici-
narmi allo 0,7 per massimizzare appunto la banda passante.

Andiamo a vedere la fase sempre utilizzando il diagramma di BODE. Questa la possiamo ricavare
guardando il diagramma del modulo prima analizzato. Abbiamo detto che la distanza tra τ1 e τ2 di-
pende dal rapporto di smorzamento. Con rapporto di smorzamento piccolo τ1 e τ2 coincidono. Se li
faccio coincidere, al posto di avere un doppio gradino mi ritrovo con un unico gradino che va diret-
tamente a – 𝜋.

0,1ω0 ω0 10ω0

Logω

-𝜋/2

-𝜋

Convenzionalmente rappresentiamo il passaggio su un intervallo di una decade, con un passaggio


che però va direttamente da 0 a – 𝜋.
Guardando la fase di T(ω), abbiamo che questa è la fase del numeratore meno quella del denomi-
natore. Al numeratore abbiamo una costante, quindi con fase nulla, mentre il denominatore è un
numero complesso. La fase di questo è l’arctg del rapporto tra la parte immaginaria su quella
reale, quindi:

T(ω) =

Φ = - arctg

Abbiamo una particolarità se h = 0, infatti:

se h = 0, l’arctg 0 = 0 se ω < ω0, quindi φ = 0

se h = 0, l’arctg 0 = 𝜋 se ω > ω0, infatti il denominatore < 0, quindi φ = - 𝜋

Con questo argomento abbiamo finito gli strumenti del ΙΙ ORDINE.

107
I punti essenziali della lezione precedente:

RISPOSTA AD INGRESSI ARMONICI PER GLI STRUMENTI DEL 𝚰𝚰 ORDINE


Avevamo visto che la funzione di trasferimento armonica per i sistemi del ΙΙ ORDINE può essere
scritta nella forma:

T(ω) = e se h > 1 come: T(ω) = ( )( )

dove τ1 e τ2 sono i due valori ricavati anche per la risposta al gradino e sono in sostanza i reciproci
delle due radici dell’omogenea associata (1/λ e 1/λ ).
Per questo caso, cioè h > 1, avevamo poi visto il diagramma asintotico di BODE che è rappresentato
da una spezzata con punti di rottura nei reciproci di τ1 e τ2, cioè delle due costanti di tempo:

Z=20 Log IT(ω)I In questo caso la banda passante è identificata


dalla costante di tempo più grande. La banda
a 3 dB è per ω < 1/ τ1.
Quello che viene dopo questo punto non ha in-
20LogS fluenza sulla banda passante quanto piuttosto
3dB su quella che abbiamo chiamato per i filtri la
banda di REIEZIONE, cioè quanto veloce-
mente il modulo passa da 20 Log S a qualcosa
che possiamo ritenere zero.

1/τ1 1/τ2 Logω

-40dB/decade

La presenza della seconda costante di tempo influenza la banda di transizione perché aumenta la
pendenza da -20 dB/decade a -40 dB/decade.
Per quanto concerne la fase, il diagramma di BODE assume la seguente forma:

0,1/τ1 10/τ1 0,1/τ2 10/τ2

1/τ1 1/τ2 Logω

-𝜋/4

-𝜋/2

-3𝜋/4

-𝜋

I veri punti noti sono quelli corrispondenti alle fasi di 1/τ1 (-𝜋/4) e 1/τ2 (-3𝜋/4) e sappiamo che l’asin-
toto finale è a –𝜋. E’ al solito un diagramma semplificato dove convenzionalmente mettiamo i punti
108
grandezza che nel caso specifico è un numero, cioè un dato memorizzabile da un calcolatore in
codice binario.
numero di bit

Tensione Numeri
X A/D

I numeri sono caratterizzati da quanto spazio di memoria posso utilizzare per rappresentarli, questo
è legato al numero di bit, cioè a quante caselline con la rappresentazione binaria 0, 1 sono rese
disponibili dal calcolatore. Se io ho un calcolatore con numero “n” di bit per rappresentare un numero,
quanti valori riesco a scrivere? La risposta è 2n, quindi:
N° di elementi = 2n
Se dobbiamo leggere una tensione che è compresa tra 0 e 10 V e abbiamo a disposizione un cal-
colatore a 10 bit, posso disporre di numero di elementi pari a 210 = 1024. Ad ogni elemento di codifica
che intervallo di tensione dovrà corrispondere? Devo distribuire 10 V su 1024 punti quindi il corri-
spondente intervallo di una singola lettura sarà, indicando con Fs il Fondo Scala:

LSB = Least Significant Bit, cioè il valore corrispondente al bit meno significativo

Quando mi scala di 1, il bit meno significativo mi indica di quanto è cambiata la tensione in ingresso.
Dobbiamo ora assegnare i valori corrispondenti ai singoli bit. Per farlo possiamo tracciare l’equiva-
lente di un diagramma di taratura.
Supponiamo, per fare un caso semplice, che abbiamo 10 V come Fs e 3 bit per il convertitore A/D,
in modo da poter disegnare solo 8 livelli (23).

Quindi LSB = = 1,25 V

Lettura Esad. bit

8,75 7 1 11

7,5 6 1 1 0

6,25 5 1 0 1

5 4 1 0 0

3,75 3 0 1 1

2,50 2 0 1 0

1,25 1 0 0 1

0 0 0 0 0
0,625 1,875 3,125 4,375
1,25 2,50 3,75 5 10 V
Segniamo in ordinate i punti da 0 a 8 e facciamo corrispondere il punto 8 ai 10 V. Andremo ora a
distribuire le letture in modo da fare l’errore minimo. Scriviamo i valori di cui ho bisogno. Se andassi
47
individuati da una decade precedente e successiva a ω0. In questo modo troviamo la classica spez-
zata. Per h=0 abbiamo il gradino netto, mentre per h crescente troviamo le curve intermedie in nero,
quindi la curva si ammorbidisce e diventa sempre più graduale.
Dal punto di vista banda passante sulla fase abbiamo le tre possibilità, cioè quella di fase nulla, di
k𝜋 e di αω. Se guardo il passaggio a scalino netto per la prima condizione sarebbe il più conveniente
avendo fase esattamente nulla fino al punto ω0.
Quindi gli smorzamenti bassi funzionano molto bene per la fase ma funzionano male per il modulo.
Per rapporto di smorzamento 0,7 mi da una fase che è abbastanza lineare (non è facile vederlo nel
grafico qui sopra riportato), quindi una condizione che è buona per il modulo perché la banda pas-
sante va a coincidere con la fascia a 3 dB. Quindi con rapporto di smorzamento pari a 0,7 abbiamo
anche con ω0 un caso che ci dà la banda a 3 dB (lo stesso valore trovato per ω=1/τ per gli strumenti
del Ι ORDINE). Ricordiamoci che in generale ω0 ci da un modulo che è dipendente da h.

I parametri ωn, ω0 e h mi permettono di sapere qual è la banda passante dello strumento che è il
criterio di scelta dello strumento del ΙΙ ORDINE, dato che la banda passante del mio strumento deve
contenere la banda del segnale. Devo quindi conoscere a priori quale potrebbe essere il campo di
frequenze del segnale per poi scegliere lo strumento di misura più adeguato.

------------ ooo ------------

Spesso si usa il termine di PRONTEZZA per indicare la caratteristica dello strumento di comportarsi
in modo corretto dal punto di vista dinamico. Uno strumento viene detto PRONTO, se è in grado di
leggere correttamente un segnale dinamico, quindi la prontezza è legata alla capacità di leggere uno
specifico segnale. Da un punto di vista quantitativo, uno strumento è PRONTO se la sua banda
passante contiene la banda del segnale.

ORDINE COMPLESSIVO DEGLI STRUMENTI DI MISURA


Grazie allo studio degli strumenti del Ι e del ΙΙ ORDINE, siamo ora in grado di trattare gli strumenti
di qualsiasi ordine dato che questi, anche se particolarmente complicati, sono sempre ottenuti come
combinazioni di termini di Ι e di ΙΙ ORDINE.
Consideriamo il seguente schema già visto in campo statico:

a) x y z

T1(ω) = T2(ω) =

ΙΙ ORDINE Ι ORDINE

Vediamo quanto vale Z se X = X 0 𝑒 .


A differenza di quanto visto nel caso statico, non possiamo ora considerare la sola sensibilità S, ma
dobbiamo mettere la funzione di trasferimento armonica, così come indicato sopra.
La y, considerando la T1(ω), vale: y = T1(ω) X = T1(ω) . X0 𝑒
Per la z invece, z = T2(ω) y = T2(ω) T1(ω) X0 𝑒 = T1(ω) T2(ω) X = Z
Questo ci fa vedere che, in generale, se abbiamo una catena di strumenti la funzione di trasferimento
armonica complessiva la otteniamo molto semplicemente come il prodotto di tutte le funzioni di tra-
sferimento.

110
L’ORDINE dello strumento complessivo è dato dalla somma degli ordini. Nel nostro esempio ave-
vamo uno strumento del Ι e uno del ΙΙ ORDINE, quindi lo strumento era complessivamente del ΙΙΙ
ORDINE.

T(ω) =
( )

Se vogliamo costruire il diagramma di BODE dello strumento nel suo insieme disponendo dei singoli
diagrammi di BODE, considerando che sono diagrammi logaritmici i prodotti diventano somme,
quindi basta sommare i vari diagrammi l’uno rispetto all’altro.

PARAMETRI DI CARATTERIZZAZIONE DINAMICA RIFERITI ALLA RISPOSTA AL GRADINO


Per noi i parametri dinamici fondamentali sono le costanti di tempo, ω0 e i rapporti di smorzamento
perché con essi scriviamo le funzioni di trasferimento dei nostri sistemi. A volte però, anziché entrare
nella costruzione della funzione di trasferimento, si preferisce dare una caratterizzazione dello stru-
mento semplificata e che fa riferimento solo a come si comporta rispetto alla risposta al gradino.
Questo di fatto non basta per scegliere lo strumento se devo fare la misura di una grandezza dina-
mica qualsiasi, dato che la risposta al gradino non mi da la banda passante dello strumento che è il
vero parametro di scelta. In molte applicazioni lo strumento non serve per fare una misura dinamica
particolarmente complessa ma solo per individuare eventi simili al gradino. Per fare un semplice
esempio, se abbiamo una fotocellula che serve come elemento di sicurezza su una pressa per bloc-
carla se entra nell’area di lavoro un qualcosa che potrebbe danneggiarla oppure ferire un eventuale
operatore, l’evento di attraversamento della fotocellula è molto simile a quello di una risposta al
gradino, cioè la luce passa dal valore 1 (fotocellula illuminata) al valore 0. Qui è particolarmente
critico sapere quanto tempo il nostro sensore impiega a darci la segnalazione dell’evento, dato che
da questo si arriverà al successivo blocco della pressa. In questo caso sapere se stiamo facendo
riferimento ad uno strumento del Ι o ΙΙ ORDINE non è importante, ma lo è sapere se il segnale che
indica l’evento arriverà dopo 1 ms o 5 ms può fare la differenza dato che la pressa può essere già
arrivata o meno a fondo rispetto alla sua posizione alta di partenza. Per dare questa informazione si
prende la risposta al gradino. Per esempio, in riferimento a un segnale come questo (che potrebbe
essere di uno strumento del ΙΙ ORDINE sotto smorzato):

y2 A 0,05 Δ

0,05 Δ
Δ=y2-y1 90% TS5-95%

y1
0,05 Δ

T1 T2 TA5% t
TR90%

definiamo:
1) TEMPO DI RISPOSTA AL (per esempio) 90%
Abbiamo fatto riferimento al 90%, ma potremmo trovare un 95% o un 70% ecc. in relazione allo
specifico caso. Vediamo com’è definito.
Prendo la differenza y2-y1 che chiamiamo Δ, prendo il 90% Δ della risposta e lo riporto come indicato
nel grafico. Vado a trovare la prima intersezione con la curva di risposta e il tempo corrispondente è

111
proprio il tempo di risposta al 90% che indico come TR90%. Per l’esempio prima fatto, questo è sicu-
ramente il parametro essenziale.
Il tempo di risposta al 63% di uno strumento del Ι ORDINE è direttamente la τ.

2) TEMPO DI ASSESTAMENTO AL 5%
Ma potrebbe essere anche al 10% ecc.. Rappresenta il tempo dopo il quale l’errore rispetto al valore
a regime è inferiore alla tolleranza data. Per definirlo prendo 0,05 Δ (dato che le % sono sempre
riferite al gradino, quindi al Δ) e traccio una banda ± 0,05 Δ rispetto al valore a regime y2. Vado a
cercare l’ultima intersezione della curva di risposta con la banda tracciata (punto A). Il tempo corri-
spondente è proprio il tempo di assestamento al 5% che indico come TA5%.
Il tempo di assestamento al 37% di uno strumento del Ι ORDINE è sempre la τ, dato che la curva
non è caratterizzata dalla presenza delle oscillazioni.

3) TEMPO DI SALITA DAL 5% AL 95%


Anche in questo caso le % sono puramente indicative. Questo va ad eliminare il tempo iniziale, per
esempio quando nel tratto iniziale vi è un segnale di disturbo che non voglio prendere in considera-
zione. Prendo il tempo corrispondente al 5% (T1), prendo poi il tempo corrispondente al 95% (T2). Il
tempo di salita al gradino dal 5% al 95% è valutato come: TS5-95% = T2 – T1

Per certi strumenti possiamo quindi trovarci i tempi qui sopra definiti al posto dei vari ω0, rapporti di
smorzamento e costanti di tempo. Potendo scegliere è sicuramente preferibile avere i parametri
dinamici dato che con questi riesco a trovarmi tutte le informazioni sullo strumento e non solo quelle
particolari qui sopra riportate.

Ora abbiamo a diposizione tutti i mezzi per poter scegliere e mettere in serie degli strumenti per
poter fare qualsiasi misura. Poco importa se non abbiamo una conoscenza perfetta del segnale in
ingresso per la scelta del fondo scala o della banda passante, cioè non dobbiamo pensare che per
fare la misura di un certo segnale lo si debba conoscere come se fosse già stato misurato in prece-
denza. Nella pratica, infatti, la situazione che troviamo è quella di dover misurare un qualcosa che
grossomodo già si conosce e quindi ben difficilmente si parte da una situazione del tipo “non so nulla
del segnale”. Molto spesso si dispone di dati numerici sui quali si prendono i dovuti margini, per
esempio mi aspetto una temperatura di 200 gradi e allora scelgo uno strumento con un fondo scala
di almeno 300 gradi, se mi aspetto che la banda del segnale sia di 50 Hz costruirò una catena,
sempre che disponga degli strumenti giusti, con una banda passante fino a 100 Hz. Per la banda
passante a volte non è tanto il conoscere la banda del segnale ma la componente che mi interessa
misurare. Per fare un esempio consideriamo il campo dell’acustica. Il suono può avere, includendo
anche gli ultrasuoni, una banda qualsiasi ma se io lo registro per poi fare una riproduzione tutto
quello che sta oltre i 20 KHz è assolutamente non interessante perché non è nel campo dell’udibile
per l’orecchio umano.

112
MISURE DI SPOSTAMENTO RELATIVO.

TRASDUTTORI DI SPOSTAMENTO: I POTENZIOMETRI


Il concetto su cui si basa il potenziometro è molto semplice. Se ho un conduttore con sezione A,
lunghezza L e resistività ρ, la resistenza totale è pari a:

R = ρ Resistenza totale del potenziometro

Se vado a prelevare il valore di tensione in un punto intermedio tra gli estremi, elettricamente vuol
dire che avrò uno schema rappresentabile come:

V che può essere ulteriormente schematizzato con il se-


condo circuito con due resistenze in serie, la Rx e la Rp-
Rx.
La tensione che abbiamo sulla resistenza Rx, essendo
X resistore quello rappresentato un ripartitore di tensioni, è pari a:
E E
V= R , con =I
R R
L
ma R = ρ ⇒ ρ = X = V quindi:
𝐄𝟎
𝐕= 𝐗
𝐋
=
E0 Relazione di tipo lineare che lega lo spostamento X
con la caduta di tensione visualizzata dal voltmetro. La
V sensibilità è quindi pari a:
Rx Rp-Rx 𝐄𝟎
𝐒= 𝐒𝐄𝐍𝐒𝐈𝐁𝐈𝐋𝐈𝐓𝐀
𝐋

Per avere un buon strumento, dobbiamo avere una ele-


vata sensibilità. Qui il solo parametro libero è E0 dato
= che L non lo è. Infatti, se devo misurare 100 mm, L deve
E0 essere almeno 100 mm. L è la corsa del nostro stru-
mento.
Per avere quindi una elevata sensibilità posso agire solo su E0. Più alta è la tensione, maggiore sarà
la sensibilità del potenziometro. La tensione massima in uscita dallo strumento è quella che otte-
niamo per X = L e in quel caso vale proprio E0. Quindi dobbiamo essere in grado con il Voltmetro di
leggere la tensione E0. Il fondo scala standard per questi strumenti è 10 V ed è questa la tensione
che ci va bene fissare per E0.
E0 = 10 V (valore che in genere caratterizza questi strumenti di misura)
In questo modo non necessito di attenuatori prima del Voltmetro per adeguare la tensione al fondo
scala standard del convertitore analogico/digitale al quale è connesso il Voltmetro stesso.
Questa è una caratteristica comune a quasi tutti gli strumenti che hanno uscite in tensione per i quali
l’uscita massima è ± 10 V. Ci sono ovviamente delle eccezioni che vengono trattate caso per caso.
Se alimento a 10 V una resistenza R, avrò una dissipazione di potenza sul resistore che vale:
W = E I = E0 E0/R = E02/R
Se avessi una resistenza di 1 Ω e un E0 = 10 V avrei una potenza dissipata di 100 W, assolutamente
non accettabile. Gli strumenti meno potenza assorbono, più è vantaggioso il loro utilizzo. Per questo
motivo R è normalmente elevata.
R normalmente è ≅ 500 Ω ÷ 10 KΩ

152
S/H A/D

Al convertitore viene spesso associato un elemento che si chiama SAMPLE AND HOLD (S/H) (cam-
piona e conserva). Questo dispositivo “congela” la tensione ad un certo istante e ne rende disponibile
il valore costante all’A/D per tutto il tempo che serve a quest’ultimo per fare la conversione. Per
capire meglio la funzione svolta da questo dispositivo, parliamo dei convertitori cosiddetti ad appros-
simazioni successive. Dal grafico prima tracciato vediamo che se la tensione in ingresso è maggiore
di 5, tutte le codifiche binarie superiori all’indicazione 5 hanno in comune il primo numero che è “1”.
Per fare la conversione A/D il convertitore confronta la tensione con quella di 5 V (se il Fs è 10 come
nel nostro caso). Se la tensione è maggiore di 5 V mette a “1” il primo bit. I valori corrispondenti a
tensioni maggiori di 7,5 hanno in comune il secondo bit che è “1”. Genera allora 7,5 V e la confronta
con la tensione in ingresso. Se la tensione è più grande di 7,5 mette “1” al secondo bit altrimenti “0”.
Se è più piccola deve allora decidere se è 6,25 o 7,5 e qui mi basta generare un 6,25. Per fare tutto
questo serve del tempo. Se il segnale in ingresso nel frattempo cambia, il secondo confronto non ha
più senso considerando la variazione subita dalla tensione. L’S/H congela la tensione all’istante “t”
e la rende disponibile costante all’A/D per tutto il tempo che serve per la conversione.

L’importanza dell’S/H la vediamo bene all’interno dei sistemi di acquisizione dove succede spesso
che un ho solo convertitore A/D ma più ingressi. Al convertitore vengono successivamente passati i
vari ingressi. Per esempio ho 4 canali di ingresso e faccio leggere in successione i 4 canali, cioè per
ogni acquisizione legge prima il canale 1, poi il 2 e così via grazie ad un Multiplexer (o MUX), cioè
un dispositivo, una sorta di selettore, capace di selezionare un singolo segnale elettrico fra diversi
segnali.

STRUTTURA SINCRONA

1
S/H

M
2
S/H U
A/D
X

n
S/H

Anche qui devo avere un dispositivo che mi congela i segnali in ingresso al tempo “t” per renderli poi
disponibili e costanti per il tempo necessario al MUX. Qui arrivano gli “n” canali dai S/H e questi
vengono poi indirizzati uno alla volta, prima il numero 1, poi il 2 fino all’n, verso l’A/D. Tutti i canali
sono campionati allo stesso momento.

STRUTTURA ASINCRONA
50
Questo è il solo limite che potrebbe precludere l’uso di questi dispositivi dato che il loro costo di euro
o frazione di euro è davvero irrisorio.
Qualche caratteristica dei potenziometri a film conduttivo:
CORSA: 1 ÷ 500 mm
LINEARITA’: 0,05% fs ÷ 2% fs con fs = fondo scala
Lo 0,05% fs è quello che otteniamo per gli strumenti migliori e il tutto a fronte di un costo davvero
basso (è uno 0,5 per mille del fs). Bisogna però porre attenzione al fatto che
𝐄𝟎
𝐕= 𝐗 ± 𝒊𝑳
𝐋
e quindi quando facciamo una misura possiamo già dire che su questa relazione abbiamo un’incer-
tezza che è quella legata alla linearità dello strumento e che evidenziamo con iL. Quando però utilizzo
la relazione inversa, quanti parametri ci sono nella relazione che possono avere un’incertezza per
conto loro? La lunghezza L la possiamo escludere essendo di fatto quella di taratura, E0 dipende
dall’alimentatore utilizzato. Se questo non è stabile e quindi se nel momento che faccio la misura mi
indica 11 V anziché 10 V, questo diventa una fonte di incertezza. L’altra fonte di incertezza è come
misuro la tensione. Avrò un voltmetro e anche quello avrà una sua incertezza. Quindi alla fin fine
dovremo combinare a iL che ha un valore molto piccolo, anche l’incertezza sulla stabilità dell’alimen-
tatore e quella del voltmetro. Lo strumento deve quindi essere inteso non solo come il potenziometro
ma come la catena composta dal potenziometro, alimentatore e voltmetro e quindi tutti e tre devono
avere una buona qualità per avere una buona qualità complessiva della misura.

IL POTENZIOMETRO È MODELLATO COME STRUMENTO DI ORDINE 0 ESSENDO UN CIR-


CUITO PURAMENTE RESISTIVO (sistema lineare, corrente direttamente proporzionale alle
tensioni, quindi senza alcun termine che contenga delle derivate. Tutto questo finché non si
tiene conto delle induttanze e delle capacità nel potenziometro che in genere sono molto
basse rispetto alle parti resistive).

CENNO SU TIPOLOGIE DI POTENZIOMETRI TRADIZIONALI. (strumenti a filo avvolto)


Ve ne sono ancora sul mercato anche se oramai non vengono quasi più prodotti. Dovendo restare
su conduttori metallici, per poter aumentare la resistenza (condizione necessaria per avere una
maggiore sensibilità) se ne aumenta la lunghezza avvolgendo più volte il filo su un supporto isolante
in modo tale che la lunghezza del conduttore sia molto maggiore di quella di misura (corsa: L).

L
R

r x

r ≈ 𝝫 filo

Se però vado ad osservare quello che avviene al contatto, potrò vedere che inizialmente il contatto
è solo su una spira ma mentre mi sposto ad un certo punto verrà interessata anche la seconda spira.
Quando terminerà il contatto con la prima spira e sarò in contatto solo con la seconda, avrò un

154
aumento a gradino di resistenza che corrisponderà ad una spira in più (la resistenza è infatti il tratto
compreso tra l’inizio del conduttore e il primo punto di contatto). Se guardo come varia la resistenza,
avrò che questa rimarrà costante fino a quando sarò in contatto con un filo, poi avrò un salto corri-
spondente alla resistenza di un avvolgimento. La distanza che intercorre tra una variazione di resi-
stenza e la successiva l’abbiamo chiamata all’inizio del corso RISOLUZIONE (“r” :minima variazione
dell’ingresso per avere una variazione sull’uscita). Questi strumenti detti “a filo avvolto”, sono il tipico
esempio di strumento con risoluzione. La distanza tra due fili l’abbiamo chiamata “r”. Vediamo
quanto vale rispetto alle caratteristiche del filo. Tra una spira e l’altra è sufficiente avere solo del
materiale isolante per evitare un corto, di fatto i fili sono smaltati, quindi la distanza “r” coincide in
pratica con il diametro del filo. La risoluzione è quindi tanto più piccola quanto più piccolo è il diametro
del filo. Con le normali tecnologie:

r≥ mm

Questa modalità di costruzione non presenta vantaggi rispetto a quella a film, infatti è più costosa,
ha una resistenza all’usura più bassa, ha una linearità peggiore che dipende da quanto è regolare
l’avvolgimento. C’è una procedura di avvolgimento meccanico con la fase di avvio e di fermata della
macchina per cui la spaziatura tra le spire a inizio e fine avvolgimento è meno buona.

Il costo di un potenziometro a film può essere di pochi euro per dispositivi con ridotte prestazioni (es.
linearità 2% fs) fino ad arrivare a 30 € - 50€ per strumenti di buona qualità.
Sebbene il costo sia basso per uno strumento, dobbiamo ricordarci che oltre al potenziometro serve
anche un alimentatore e un voltmetro per ottenere una lettura.

TRASDUTTORI DI SPOSTAMENTO
LVDT (LINEAR VARIABLE DIFFERENTIAL TRANSFORMER)

collegamento dei secondari


in opposizione ~ E0

V1 V2
bobina secondario

posizione x < 0

posizione x > 0
cilindro
ferromagnetico posizione centrale x=0

bobina primario
VISTA IN SEZIONE DI UN LVDT

Questo tipo di strumento risolve il problema dell’usura dovuta al contatto strisciante, tipica dei po-
tenziometri, infatti non ha funzionalmente necessità di avere un contatto tra parte mobile e parte
fissa dello strumento stesso. Vedendo lo strumento in sezione, abbiamo la parte mobile costituita
da un elemento ferromagnetico, tipicamente un cilindro in acciaio dolce, sull’esterno ci sono due
circuiti diversi: uno è un primario, una bobina interna collegata ad un generatore di tensione alter-
nata, e sopra a questo ci sono due bobine distinte affiancate in modo tale che l’intera lunghezza
dello strumento sia suddivisa in due parti identiche occupate dalle stesse. Le tensioni V 1 e V2 sono
indotte perché di fatto rappresentano il secondario di due trasformatori che condividono lo stesso
primario.
155
Riportiamo graficamente l’andamento delle tensioni E0, V1 e V2 nel tempo nel caso in cui, come
evidenziato nello schema sopra riportato, l’elemento ferromagnetico sia simmetrico. Lo strumento si
utilizza collegando i due secondari in opposizione, cioè si va a leggere la differenza tra V1 e V2.

E0 Le curve V1 e V2 caratterizzate da una


linea rossa continua, rappresentano la
situazione in cui l’elemento ferroma-
gnetico si trova in posizione simmetrica
t rispetto ai due avvolgimenti secondari
(x=0). Essendo in questo caso le ten-
sioni V1 e V2 che si generano sul se-
condario identiche, la loro differenza è
pari a zero (linea rossa del grafico V1-
V2). Se sposto l’anima ferromagnetica
V1 x=0 a destra (x>0), vado ad accoppiare ma-
x<0 gneticamente molto meglio il seconda-
rio della V2 con il primario, mentre peg-
giora l’accoppiamento magnetico con
l’altro avvolgimento, quello relativo alla
t V1. Il risultato di tutto questo è che la V2
x>0 aumenta e la V1 diminuisce (linea con-
tinua verde) e la loro differenza è rap-
presentata nel grafico V1-V2 dalla curva
in verde.
V2 Se spostiamo l’elemento ferromagne-
x>0 x=0 tico in direzione opposta rispetto a
quella centrale (x < 0), il quadro che si
presente è praticamente opposto al
precedente. La V1 aumenta per il mi-
t gliore accoppiamento magnetico, men-
tre diminuisce la V2 (linea continua
x<0 viola). La differenza V1-V2 è la curva
viola nell’ultimo dei grafici qui a lato
rappresentati. Spostando l’anima ferro-
V1- V2 magnetica passiamo da valori in uscita
x>0 zero, a valori in uscita negativi a valori
x = 0 in uscita positivi. Il problema di questo
positivo e negativo è che va moltipli-
cato per E0 che di per sé è una funzione
t che diventa positiva e negativa, se
fosse a 50 Hz, 50 volte al secondo. Per
x<0 capire da che parte ci siamo mossi ab-
biamo bisogno di sapere se quanto E0
> 0 l’uscita è negativa o positiva.

Dobbiamo quindi sapere il segno del segnale in uscita rispetto a quello della forzante, cioè della
tensione di alimentazione E0. C’è una modalità molto semplice per farlo. Il problema è che io faccio
una differenza tra due quantità che a volte sono positive a volte negative a seconda del tempo. Se
riuscissi a renderle entrambe positive avrei risolto il problema. Questa operazione prende il nome di
RADDRIZZAMENTO DELLA TENSIONE ALTERNATA. Si fa con un circuito molto semplice che è
un ponte a diodi e dopo questa operazione posso far diventare positive tutte le parti negative.

156
Raddrizzando i due secondari, anziché avere due sinusoidi abbiamo quelli che possiamo definire
moduli di sinusoide:
Nel caso x = 0 siamo nelle medesima
V1 x<0 x=0 x>0 situazione di prima e quindi l’uscita
sarà sempre nulla (V1=V2). Nel caso x
> 0 sottraggo la quantità relativa a V1
alla V2 che è sempre più grande. Ot-
tengo allora una risultante ribaltata,
t quindi sempre negativa (curva verde).
Situazione opposta per x < 0. Sot-
V2 x<0 x=0 x>0 traggo una V1 ad una V2 che è sempre
più piccola ottenendo quindi un se-
gnale in uscita sempre positivo (curva
viola) e che ha la stessa forma di V1.
Ora ho un segnale che è per:
t x < 0 SEMPRE POSITIVO
x = 0 SEMPRE NULLO
V1- V2 x > 0 SEMPRE NEGATIVO
x<0 x=0
cioè riesco a sapere da che parte mi
sono spostato. L’ampiezza è propor-
zionale allo spostamento.
Come leggiamo le tensioni alternate?
t
Il 220V della tensione di rete non è il
valore di picco dell’armonica ma è il
valore quadratico medio (cioè
x>0
la media dei quadrati). Facendo il valore quadratico medio dei valori delle curve in precedenza rap-
presentate ottengo sempre in uscita un valore positivo, quindi con un tradizionale voltmetro RMS
(root mean square – radice del valore quadratico medio) non vedo alcun cambiamento di segno. Il
segno nel segnale che è comunque ancora oscillante non è espresso dal valore RMS, ma dal valore
medio. Ma il valore medio è una delle componenti dello spettro del segnale, quella con ω = 0, cioè
la prima componente. Di fatto vorrei eliminare dal mio segnale le oscillazioni la cui parte prevalente
di componente dinamica è data dalla tensione di alimentazione (quindi legata alla frequenza di ali-
mentazione), lasciando invece quelle a bassa frequenza, come appunto è quella del valor medio (la
frequenza del segnale raddrizzato è doppia di quella di alimentazione, cioè della portante, dato che
il periodo è quello di mezza sinusoide). In questo modo potrei eliminare anche tutte quelle compo-
nenti in alta frequenza dovute, per esempio, ad uno spostamento nel tempo dell’elemento ferroma-
gnetico (sono richiesti movimenti lenti o posizioni fisse dell’elemento ferromagnetico per le misure).
Per raggiungere l’obiettivo utilizziamo un FILTRO PASSA BASSO messo a valle dell’LVDT, tiene
le basse frequenze ma ci elimina quelle alte che, come detto, sono nell’ordine dei 100 Hz (il doppio
della frequenza del segnale di alimentazione).
Vediamo quale dovrà essere la frequenza di taglio, cioè la frequenza oltre la quale il filtro inizia ad
attenuare. Dobbiamo eliminare sicuramente 2 volte la frequenza di alimentazione, quindi con questa
frequenza dovrò essere sicuramente nella banda di reiezione (zona dove il filtro fa il suo lavoro e
quindi manda a zero le frequenze indesiderate).

Inoltre, l’ampiezza dell’oscillazione che dob-


biamo attenuare è molto grande quindi dob-
2fportante biamo eliminare con un fattore 80-100 dB, cioè
dividere per 104, 105. Per avere una banda di
reiezione a 80-100 dB, la frequenza di taglio do-
ft 80 dB vrà essere:
𝟏 𝟏
FREQUENZA DI TAGLIO ≅ ÷ 𝐟𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞
𝟏𝟎 𝟐

157
Girando il discorso, se voglio che il mio strumento abbia una banda passante di 1000 Hz , cioè che
ft = =1000 Hz la frequenza alla quale andrò alimentare il sistema, cioè la frequenza della portante,
sarà:
ipotizzando ft = (1/10) fportante, pari a fportante = 10 KHz
Un po’ esagerato dato che il fattore 10 è quello estremo, ma è molto comune per questi strumenti
avere alimentazioni fino ai 5 KHz per avere banda passante fino a 1000, 1500, 2000 Hz.
Quindi il sistema è limitato in frequenza da questo filtro..

Il vantaggio di questo strumento è che non ho bisogno di avere il contatto, o meglio questo ci sarà
perché devo spostare il cilindro ferromagnetico ma anche se ci fosse usura, questa non andrà a
modificare la funzionalità del sistema come invece avviene con i potenziometri.

CARATTERISTICHE LVDT
CORSA: 1 ÷ 300 mm (alcuni produttori arrivano anche ai 500 mm)
LINEARITA’: 0,05% ÷ 2% fs (accuratezza simile a quella dei potenziometri)
SENSIBILITA’: legata al fs in ingresso. Quando si può regolare l’uscita, si fa in modo che i 10 V
corrispondano al fondo scala, quindi se ho uno strumento con corsa pari a 1 mm, avrò una sensibilità
di 10V/mm, se avrò una corsa di 300 mm avrò una S= 10/300 V/mm.
BANDA PASSANTE TIPICA: ≅ 1 ÷ 5 KHz (molto più comune 1 KHz. Questo perché questi sistemi
sono poco adatti per le alte frequenze, perchè dovrei collegare un elemento massivo dato che
l’anima ferromagnetica non può essere leggera. Facendo questa operazione, però, altero il sistema
vibrante perché aggiungo massa quindi cambia la dinamica del sistema).

Rispetto ai potenziometri, la differenza di costo per gli strumenti di maggiore qualità è molto più
marcata. Acquistare uno strumento con linearità pari allo 0,05% del fs vuol dire acquistare i migliori
prodotti sul mercato a costo di almeno 1000 euro. Per uno strumento standard con linearità pari al
0,5% (5 per mille) del fs siamo sull’ordine dei 350-400 euro.
Il costo è giustificato quando voglio evitare problemi di usura, quindi impianti dove non voglio manu-
tenzioni e necessito di vita operativa lunga (esempio: valvole motorizzate per impianti petroliferi).

Si trovano sul mercato degli LVDT perfettamente corrispondenti allo schema prima riportato, cioè
forniscono un oggetto con tre avvolgimenti e il resto deve essere realizzato direttamente dall’utente
(alimentazione e sistema di lettura), oppure si possono trovare strumenti con l’acronimo “DC/DC”
che vuol dire ingresso e uscita in tensione continua. Il fatto di avere una tensione in uscita continua
è per la configurazione di demodulazione e filtraggio vista prima. Ovviamente il sistema non può
funzionare con tensione continua in ingresso (è un trasformatore e questi non funzionano in tensione
continua) ed è per questo motivo che dentro allo strumento c’è un oscillatore che trasforma la con-
tinua in ingresso in tensione alternata. Quindi gli LVDT DC/DC evidenziano la loro caratteristica
esterna (ingresso e uscita in tensione continua), mentre all’interno il dispositivo funziona come ab-
biamo in precedenza descritto.

158
- .
INCERTEZZA DEL CONVERTITORE: ,6/8 =
√/

Questa è tutta l’incertezza del convertitore quando abbiamo convertitori con una risoluzione relati-
vamente bassa, quindi 10, 12 o 16 bit. Con questo termine copriamo tutte le incertezze. Quando
abbiamo convertitori con risoluzioni più alte dobbiamo andare a cercarci anche le altre caratteristiche
che determinano l’accuratezza e quindi avremo delle derive dello zero, delle sensibilità alla tempe-
ratura che aumentano ancora l’incertezza ecc. che andremo a combinare tra loro.

Se abbiamo un convertitore e aggiungiamo un amplificatore in ingresso possiamo variare la risolu-


zione equivalente del convertitore. Di fatto, però, è come cambiare il fondo scala del convertitore
trasformandolo nel fondo scala originale moltiplicato per il guadagno dell’amplificatore. La formula
che possiamo usare è la stessa se teniamo conto che il Fs anziché essere quello direttamente all’in-
gresso del convertitore è quello all’ingresso della catena amplificatore più convertitore. A questo
punto la formula da utilizzare è sempre la stessa.

------------ ooo ------------

Quando abbiamo parlato di conversione A/D abbiamo visto che un aspetto è la discretizzazione della
scala delle Y, ed è quello che abbiamo già visto, l’altro aspetto è la discretizzazione dei tempi. Non
potremmo avere la conoscenza del nostro segnale per qualsiasi tempo, ma il segnale andrà cam-
pionato a tempi che sceglieremo inizialmente. Quindi dal segnale inizialmente continuo, dopo il cam-
pionamento, sia per l’asse delle X sia per quello delle Y, non avremo più un segnale continuo ma
campionato. Quest’ultimo per i tempi 0, Δt, 2Δt, 3Δt ecc. da noi scelti che comunque non potranno,
come è d’altronde immaginabile, essere scelti in modo del tutto arbitrario.

X(t)

0 Δt 2Δt 3Δt tempo


0 Δt 2Δt

Se infatti prendo, per esempio, intervalli di tempo troppo grandi, vedi i Δt, 2Δt indicati e poi congiungo
tra loro i punti ottenuti otterrei una spezzata poco significativa che ha ben poco a che fare con il
segnale originale, non così per i Δt più piccoli (0, Δt, 2Δt, 3Δt) che danno origine ad una spezzata
che ricalca l’andamento del segnale originale. Intuitivamente, più piccolo è l’intervallo di campiona-
mento, cioè più piccolo è il Δt, e meglio riesco a riprodurre l’andamento del segnale originale. Il
problema è vedere se c’è un Δt minimo al di sotto del quale non ha senso spingersi per renderlo più
piccolo oppure, al contrario, se c’è un Δt tale che se vado oltre quell’intervallo comincio ad acquisire
in maniera errata il segnale.
Per farlo vediamo quello che succede su un segnale sinusoidale al quale possiamo sempre ricon-
durci come vedremo meglio in seguito. Infatti tutti i segnali tenderemo a ricondurli a somme di segnali
semplici e in modo particolare a somma di sinusoidi per valutare facilmente come vengono elaborati
dagli strumenti di misura.

54
L(ε) dR
R = ρ(ε) ⇒ Sensibilità ⇒ R = R + ε+⋯
A(ε) dε
Per trovare la sensibilità devo fare una linearizzazione e andare a trovare la derivata di R. Dai vari
passaggi matematici possiamo risalire alla seguente relazione:
𝐑 − 𝐑𝟎 𝟏 𝐝𝛒
𝐲= = 𝟏 + 𝟐𝛎 + 𝛆 con 𝛆 = 𝐱
𝐑𝟎 𝛒 𝐝𝛆
𝟏 𝐝𝛒
Dal confronto con la relazione y = S x ne segue che 𝐒 = 𝟏 + 𝟐𝛎 + che prende il nome di
𝛒 𝐝𝛆

S = Gf = GAUGE FACTOR simbolo spesso utilizzato nelle schede tecniche


La sensibilità è legata a tre termini:
a) il primo è una costante
b) il secondo è ν (coef. Poisson) che per i materiali metallici assume mediamente il valore di 0,3
c) il terzo è chiamato TERMINE PIEZORESISTIVO
Quest’ultimo termine mi indica di quanto varia la resistività per effetto di una deformazione. Se non
ci fosse nessun effetto sulla resistività quando deformo il mio materiale questo termine dovrebbe
essere nullo. Sui materiali metallici è abbastanza piccolo per cui il Gf è all’incirca pari a:

1,7 ÷ 2,5 Materiali metallici (ESTENSIMETRI A GRIGLIA METALLICA)


Gf
60 ÷ 1000 SEMICONDUTTORI

Per i materiali metallici il valore è dato dalla somma di “1 + 2.0,3 + a = 1,6 + a” con “a” che varia tra
0,1 e 0,9 per il Nichel. Per i semiconduttori il Termine Piezoresistivo è prevalente rispetto agli altri.
Dai valori sopra riportati sembrerebbe molto più logico realizzare estensimetri con dei semiconduttori
per via della maggiore sensibilità, mentre nella pratica sono molto più utilizzati quelli a griglia metal-
lica confinando i primi ad applicazioni molto specifiche (costruzioni di strumenti di misura nei casi in
cui riesco a controllare molto bene la temperatura). Questo perché il termine Piezoresistivo rispetto
agli altri due, è fortemente condizionato dalla variazione di temperatura (per variazioni di 50°C posso
avere variazioni anche di un ordine di grandezza).
Vediamo come vengono realizzati. Concettualmente se devo misurare la deformazione di una trave
a seguito dell’applicazione di un carico, dovrei allineare il conduttore lungo la direzione in cui voglio
misurare la deformazione stessa e andare poi a misurarmi la resistenza. Devo quindi avere anche
due contatti e due fili che escono dall’estensimetro. Per riuscire a misurare la deformazione della
trave è importante che il conduttore subisca la medesima deformazione. Per ottenere questo, il con-
duttore viene in genere incollato sulla superficie del corpo.

estensimetro

Qui sopra è riportato lo schema più semplice che possiamo avere. Il vero problema che dobbiamo
affrontare è quello relativo alla deformazione trasversale del conduttore.

ESTENSIMETRO A GRIGLIA METALLICA

160
ASSE SENSIBILITA’

zone più
spesse ε

εT
ESTENSIMETRO A GRIGLIA
(vista dall’alto)

Il circuito che viene utilizzato è del tipo a serpentina anziché a filo singolo (caso visto prima). Questa
particolare configurazione è dovuta al fatto che, abbiamo bisogno di avere una resistenza non troppo
bassa perché altrimenti la potenza dissipata potrebbe essere eccessiva (W=E02/R a parità di ten-
sione di alimentazione, se R è bassa aumenta la potenza dissipata). La dimensione della griglia
potrebbe essere molto piccola perché questa dovrà essere scelta in funzione della lunghezza sulla
quale vogliamo mediare la deformazione. Se vogliamo vedere un gradiente di deformazione in un
punto in cui la deformazione varia molto velocemente lungo la dimensione dell’oggetto, dobbiamo
fare una misura con una griglia molto piccola. Le griglie in commercio hanno lunghezze (L 0) che
vanno da circa 0,2 ai 200 mm. Con il dispositivo più piccolo parliamo allora di potenze dissipate su
una superficie pari a circa 0,2x0,2 mm = 0,04 mm2.
Il circuito non è a sezione costante. Le parti trasversali, infatti, risultano più larghe rispetto a quelle
longitudinali. Quando tiriamo il conduttore lungo il suo asse abbiamo come effetto quello che il con-
duttore si allunga, aumenta la resistenza e la sezione trasversale si riduce. Se però vogliamo misu-
rare la deformazione lungo l’asse longitudinale (asse di sensibilità) e abbiamo dei conduttori che
sono messi anche in direzione trasversale, l’effetto indesiderato che potremmo avere è che se c’è
una deformazione lungo l’asse trasversale questa ci da un’uscita che si va a sommare a quella
ottenuta lungo l’asse principale. Quindi anziché avere il dato della sola deformazione lungo l’asse
griglia, avremo una deformazione che è la combinazione di quella lungo l’asse griglia e lungo la
direzione trasversale. Il dato è ovviamente confuso, infatti se volessi il valore anche della deforma-
zione trasversale non farei altro che mettere un secondo estensimetro in quella direzione così da
avere i due dati separati. Aumentando la sezione del circuito in direzione trasversale riduciamo que-
sto effetto indesiderato. Infatti, possiamo vedere la resistenza totale dell’estensimetro come:
R0 = RL + RT (L=Longitudinale, T=Trasversale)
RL data dalla somma di tutti i tratti longitudinali
RT data dalla somma di tutti i tratti trasversali
Visto che la RT è quella principalmente affetta da deformazioni lungo la direzione trasversale, affin-
ché R non sia influenzata da RT l’ideale sarebbe avere una RT = 0. Questo ovviamente non è possi-
bile, ma facendo il tratto trasversale molto più largo di quello longitudinale, questi tratti hanno una
resistenza molto più piccola di RL (piccola Lt e grande At, quindi RT=ρLt/At diventa piccola). Se fosse
εL=εT, entrambe le resistenze cambierebbero della medesima %, ma se il valore iniziale della RT è
quasi zero, questa variazione sarà poco influente. Quindi la particolare conformazione del condut-
tore serve per rendere trascurabile l’effetto della deformazione trasversale rispetto a quella dell’asse
griglia.
Per esprimere quello che è l’effetto della presenza delle deformazioni trasversali, la relazione vista
prima si modifica in questo modo:
𝚫𝐑
= 𝐆𝐟 𝛆 𝐒𝐈𝐓𝐔𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐈𝐃𝐄𝐀𝐋𝐄
𝐑
𝚫𝐑
= 𝐆𝐟 (𝛆 + 𝛆𝐓 𝐊 𝐓 ) 𝐍𝐄𝐋 𝐂𝐀𝐒𝐎 𝐕𝐈 𝐒𝐈𝐀 𝐃𝐄𝐅𝐎𝐑𝐌𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐓𝐑𝐀𝐒𝐕𝐄𝐑𝐒𝐀𝐋𝐄
𝐑
Con KT = SENSIBILITA’ TRASVERSALE
Per estensimetri di buona qualità: |𝐊 𝐓 | < 1% (in genere lo 0,5 ÷ 0,7%)
161
Per realizzare il circuito a serpentina si utilizza il medesimo processo di Fotoincisione delle schede
elettroniche. Il processo è abbastanza semplice perché si stampa sopra a un foglio, nel nostro caso
di lega rame-nichel (costantana), l’immagine che si vuole ottenere, cioè il circuito a serpentina. Ven-
gono utilizzate delle stampanti laser. Queste lasciano la traccia della pista che si vuole ottenere sul
foglio di costantana. Inserendo la lastra in un bagno acido, questo asporta tutto il materiale metallico
non coperto dalla stampa. Rimarrà in questo modo il solo il materiale metallico protetto che riprodurrà
la pista voluta. Procedura semplice e costo basso (per estensimetri economici 4 o 5 euro per esten-
simetro) e grandi lotti di produzione a fronte di caratteristiche molto buone in termini di ripetibilità.
Questo è importante perché di solito la taratura statica di questi dispositivi (serve per valutare il Gf,
cioè la Sensibilità) viene fatta applicando una deformazione nota in una configurazioni tipo:
Il Mf tra i due appoggi è costante e noto. Quindi si controlla
Mf facilmente la sollecitazione e la deformazione.
Ovviamente non è possibile tarare tutti gli estensimetri,
Δ Δ dato che per poter fare la misura devo incollare l’estensi-
P estensimetri P metro sul supporto sollecitato il che lo rende poi inutilizza-
bile.
Quindi la taratura viene fatta su un campione estratto dal lotto, mi fornisce un valore medio delle
caratteristiche quindi Gf, fattori di taratura più sensibilità trasversale e il costruttore poi fornisce il
valore medio con lo scarto tipo delle caratteristiche o con lo scarto massimo. Quindi il Gf è sempre
con incertezza non bassissima, tipicamente è nell’ordine dello 0,5% ed è tanto più bassa quanto
maggiore è la qualità produttiva del lotto di produzione e quindi anche l’uniformità delle caratteristi-
che dei vari estensimetri. Lo 0,5% è di fatto l’incertezza minima che troviamo su qualsiasi mi-
sura fatta con estensimetri quando non si può fare una taratura dopo l’incollaggio:
Gf ≅ 2 ± 0,5%
Dato che la sensibilità da scheda tecnica ha una incertezza dello 0,5%, se non abbiamo un
altro metodo per determinarla, quella sarà l’incertezza relativa minima di qualsiasi misura.
L’ordine di grandezza di quella che dovrebbe essere la variazione di resistenza che andremo di
solito a misurare (caso di un acciaio) è nell’ordine del millesimo della resistenza iniziale.
𝚫𝐑 𝟐𝟎𝟎 𝟑
= 𝐆𝐟 𝛆 ≅ 𝟐 ≅ 𝟐 𝟏𝟎
𝐑𝟎 𝟐𝟎𝟓𝟎𝟎𝟎
εMax che possiamo avere su un acciaio è il carico di snervamento diviso il modulo elastico. Nel nostro
esempio 200 MPa (per acciaio da costruzione) e 205000 MPa. Le resistenze iniziali sono tipicamente
pari a :
120 Ω Il costo degli estensimetri cresce al crescere del valore della resistenza elettrica.
La scelta del valore di R0 è legato al discorso della dissipazione termica e quindi
R0 350 Ω sarà funzione del materiale su cui lo colloco. Se questo è isolante (quindi smaltisce
poco il calore), vedi materie plastiche, ceramiche e vetri, uso gli estensimetri ad
1000 Ω alta resistenza elettrica. In questo caso il poco calore prodotto dagli estensimetri
non andrà a generare un punto caldo sul supporto.
Anche nel caso di griglie piccole la mia scelta sarà sempre orientata, per gli stessi motivi, sulle alte
R0. La griglia piccola dissipa poco calore e quindi per avere una bassa potenza termica da dissipare
la R deve essere elevata.
Come detto la variazione di resistenza che dobbiamo misurare è nell’ordine di 1 o 2 millesimi di
quella di partenza. Quindi con 120 Ω il valore finale della resistenza, se abbiamo deformato al mas-
simo l’estensimetro, sarà ad esempio di 120,24 Ω. Dobbiamo leggere una variazione molto piccola
rispetto al valore iniziale. Questo non ci consente di utilizzare un multimetro, cioè non possiamo
usare direttamente l’ohmmetro e misurare le resistenze dato che stiamo parlando di variazioni di
qualche per mille rispetto al fondo scala dello strumento. Se devo leggere 120,24 Ω, il Fs deve
essere di almeno 150 Ω. La richiesta di accuratezza di qualche parte per mille rispetto al Fs è una
richiesta abbastanza onerosa, dato che solo gli strumenti di buona qualità hanno accuratezza di
0,5 ÷ 1 per mille del Fs, quindi la misura diretta non è facile.

162
Anziché fare la misura diretta si utilizzano dei circuiti che fanno la differenza di resistenza. Quello
che si utilizza è il
CIRCUITO A PONTE DI WHEATSTONE
Facendo l’analisi di questo circuito possiamo trovare la re-
lazione tra la tensione in uscita (sbilanciamento del ponte)
R1 R2 e la variazione delle resistenze. Nel caso si parta da ponte
E0 Vu a quattro resistenze uguali questa vale:

R4 R3 𝐄𝟎 𝚫𝐑 𝟏 𝚫𝐑 𝟐 𝚫𝐑 𝟑 𝚫𝐑 𝟒
𝐕𝐮 = − + −
𝟒 𝐑𝟏 𝐑𝟐 𝐑𝟑 𝐑𝟒

La modalità di utilizzo del ponte è quella di partire da una situazione di ponte bilanciato, cioè con
tensione in uscita uguale a zero. La più semplice configurazione per ottenere questa condizione è
quella di adottare quattro resistenze uguali. Operando una variazione delle resistenze ottengo una
sbilanciamento del ponte che viene individuato dalla Vu tramite la somma sopra riportata. In questa
somma si è tenuta comunque l’indicazione di quattro resistenze diverse dato che questa relazione
continua a valere anche se le resistenze iniziali sono leggermente diverse tra loro. Infatti la condi-
zione di ponte bilanciato è data da:
CONDIZIONE DI PONTE BILANCIATO (Vu=0): R1.R3 = R2.R4
La covenienza di utilizzare il ponte di Wheatstone è che la tensione in uscita non è più legata alla
resistenza, ma è legata solo alle variazioni di resistenza. Se la nostra variazione di resistenza è l’1
per mille di R0 questo vuol dire che nella nostra relazione avremo un 10-3, ma Vu parte da zero e
arriva ad un valore che è 10-3 che moltiplica E0/4. E0 al massimo è pari a 10 V (discorso sempre
legato alla dissipazione termica), ma più tipicamente viene utilizzato il valore 1 o 5 V. Se comunque
facciamo l’esempio di E0 = 10 V, il fondo scala della tensione in uscita è nell’ordine dei 10 mV. E’
una tensione piccola ma è comunque una situazione meno pesante rispetto a quella di misurare
0,24 Ω su un Fs di 150 Ω. La sola cosa di cui necessito è quella di amplificare il segnale.
La configurazione più ovvia sarebbe quella che utilizza un solo estensimetro sul lato (1) lasciando
delle resistenze fisse sugli altri tre lati. In realtà il circuito viene spesso utilizzato con più “lati attivi”
cioè costituiti da estensimetri perché ci permette di fare differenze e somme tra le uscite di estensi-
metri diversi. Posso infatti fare la differenza tra le uscite di due estensimetri mettendo il secondo
nella posizione (2), cioè sul lato adiacente, oppure la somma mettendoli su lati opposti. Vediamo
qual è l’utilità nel poter sottrarre o sommare i segnali di estensimetri diversi.

F Se volessi avere delle informazioni su questa trave po-


trebbe venir comodo poter sottrarre le deformazioni per
fibre tese (ε>0)
poterne amplificare l’effetto complessivo. Utilizzando due
estensimetri, uno per le fibre tese e uno per quelle com-
presse, potrei andare a sommare i due effetti sottraendo i
segnali con segno opposto e quindi mettendo gli estensi-
metri nelle posizioni 1 e 2.
fibre compresse (ε<0) Il principale vantaggio di utilizzare più estensimetri è tut-
F tavia legato alla compensazione degli effetti dovuti alla
temperatura.

EFFETTI DELLA TEMPERATURA SUGLI EER (Estensimetri Elettrici a Resistenza)


Abbiamo visto che la massima variazione di resistenza su un estensimetro di 120 Ω è, se viene
deformato al massimo, di circa 0,24 Ω per un classico acciaio da costruzione. Con la temperatura
varia la resistività dei materiali metallici e questa aumenta al crescere di “t” secondo la relazione:
𝐋
𝛒 = 𝛒𝟎 𝟏 + 𝛂𝛒 𝚫𝐭 e quindi varia anche R secondo la: 𝐑 = 𝛒
𝐀
Come materiale per la costruzione degli estensimetri viene di solito utilizzata la Costantana (lega
con il 60% di rame e il 40% di nichel), dato che è una lega che cambia poco con la temperatura
163
anche se con essa aumenta leggermente la sua resistenza. Oltre alla resistività, al variare della
temperatura abbiamo anche un effetto di dilatazione del materiale. Se lasciassi la griglia libera di
espandersi, al variare delle temperatura vedrei proprio l’effetto legato alla variazione di ρ ed è questa
la procedura adottata per valutare αρ.
In realtà l’estensimetro non è libero di espandersi essendo incollato sulla superficie dell’oggetto.
Invece di espandersi, l’estensimetro è come se vedesse la sua espansione libera e poi un forza-
mento elastico che lo costringe ad assumere la deformazione del materiale su cui è posizionato.
Vediamo qual è la deformazione che gli viene imposta rispetto alla sua deformazione libera (con
αgriglia = coefficiente di dilatazione termica lineare della costantana).
Se fosse libero di espandersi: εtermica libera = αgriglia Δt
⟹ εelastica = (αmateriale - αgriglia) Δt
Deformazione del supporto: εtermica supporto = αmateriale Δt
La εeslastica è proprio la deformazione elastica che devo imporre meccanicamente affinché la griglia
si deformi come il materiale su cui è incollata.
Quindi un estensimetro incollato vede due cause di variazione di resistenza a causa della tempera-
tura: una è la variazione di resistività, l’altra è dovuta al fatto che il materiale su cui è incollato lo
costringe ad una deformazione diversa da quella spontanea. Vediamo le relative variazioni di R.
Variazione di R per deformazione imposta:
∆R
= Gf ε = Gf ε . −ε . ∆t
R

Variazione di R per variazione di resistività:


ρ L 1 + α ∆t ρ L
∆R R−R A − A
= = = α ∆t
R R ρ L
A

EFFETTO TERMICO COMPLESSIVO


𝚫𝐑
= 𝛂𝛒 𝚫𝐭 + 𝐆𝐟 𝛆𝐦𝐚𝐭. − 𝛆𝐠𝐫𝐢𝐠. 𝚫𝐭 = 𝐊 𝐢 𝚫𝐭
𝐑 𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐜𝐨

Con Ki = SENSIBILITA’ INTERFERENTE (è responsabile della variazione dell’uscita)


Ovviamente questa variazione di R rispetto alla temperatura non è certo un parametro che vogliamo
misurare.
Ki = αρ + Gf (αmat. – αgrig.)
Con αρ funzione del materiale dell’estensimetro, αmat. funzione del materiale su cui incollo l’estensi-
metro e αgrig funzione ancora del materiale con cui è costruito l’estensimetro.
Se potessimo scegliere un valore per Ki, questo sarebbe ovviamente pari a zero, cioè piena insen-
sibilità alla temperatura. Di fatto cambiando il tipo di materiale e quindi variando α ρ e αgrig si riesce a
rendere quasi nullo il Ki almeno in un intervallo di temperatura. In genere attorno ai 24 gradi celsius
si hanno delle uscite termiche trascurabili in intervalli di 10-15 °C (tra 24 e 10 °C e tra 24 e 40°C
circa). Ho quindi degli estensimetri per i quali la sensibilità interferente è tenuta molto prossima allo
zero per un certo tipo di materiale. Questi vengono chiamati:
ESTENSIMETRI AUTOCOMPENSATI Ki ≅ 0 (legati ai coeff. di dilatazione termica dei materiali α mat.)
In pratica sono estensimetri che sono costruiti con materiali scelti in funzione del materiale sul quale
verranno utilizzati e tali per cui la sensibilità interferente è prossima a zero in un certo campo di
temperatura. Esempio: estensimetro autocompensato per materiali con αmat. = 15.10-6 °C-1 quindi
relativo agli acciai, oppure per αmat. = 24.10-6 °C-1 specifici per leghe leggere (alluminio), oppure per

164
vetri con αmat. = 6.10-6 °C-1 e così via. Quindi ogni estensimetro autocompensato è ottimizzato per
uno specifico materiale e questo è specificato solo con il proprio coefficiente di dilatazione termica.
Oltre all’effetto interferente di cui si tiene conto con Ki, abbiamo anche l’effetto modificante per la
temperatura che agirà sulla sensibilità (Gf) dell’estensimetro:
Km = SENSIBILITA’ MODIFICANTE
Gf = Gf0 (1 + Km Δt)

Sappiamo che Gf = S = 1 + 2ν + dove il solo il termine effettivamente sensibile alla tempera-


tura è quello piezoresistivo (lo è anche ν ma in forma decisamente più limitata). Negli estensimetri a
griglia metallica, però, questo termine ha un valore limitato, circa il 20% del valore complessivo di
Gf. Quindi anche variazioni significative del termine piezoresistivo danno di fatto variazioni contenute
del fattore Gf. Km assume valori di circa:
𝟒 𝟓 𝟏
Km ≅ 𝟏𝟎 ÷ 𝟏𝟎 °𝐂 per estensimetri metallici
𝟐 𝟏
Km ≅ 𝟏𝟎 °𝐂 per estensimetri a semiconduttore (tre ordini di grandezza in più rispetto ai metallici)
NOTA: Se consideriamo un intervallo di soli 10 °C, Km Δt diventa un 10 nel caso degli estensimetri
a semiconduttore, il che si traduce in un 10% di variazione di sensibilità. Di fatto non si possono fare
misure con questi estensimetri senza fare una correzione di temperatura e questo è il vero motivo
per cui gli vengono preferiti quelli a griglia metallica, salvo specifiche applicazioni dove abbiamo un
controllo diretto della temperatura durante le misure. E tutto questo malgrado gli estensimetri a se-
miconduttore abbiano, rispetto a quelli metallici, una sensibilità almeno 100 volte più grande e un
costo attualmente più alto solo per il minor volume di produzione. Per gli estensimetri a griglia me-
tallica, invece, raramente ci preoccupiamo dell’effetto modificante dato che anche con un Δt di 100°C
abbiamo variazioni di sensibilità nell’ordine dell’1%.

MISURA DI MOMENTO FLETTENTE

Dobbiamo misurare il momento flettente su questa trave a


estensimetro 1 (R1)
sezione circolare. Vediamo in quali punto è preferibile col-
N
εmax locare gli estensimetri. Il Mf è legato alla deformazione
massima tramite la seguente relazione:
d M
εmin 𝜀 =
estensimetro 2 (R2) WE
L dove il W f è il modulo di resistenza a flessione che è pari
a:
W = con I = momento di inerzia
/
La massima tensione la ottengo da:
M d
σ=
I 2
Se inoltre la trave ha una sezione simmetrica, cioè l’asse neutro è anche asse di simmetria, abbiamo
che:
εmin = - εmax
Vediamo ora come possiamo mettere gli estensimetri per valutare la deformazione della trave. Se
abbiamo un solo estensimetro lo metteremo sul lato delle fibre tese e nel ponte al posto della R1,
con due estensimetri il secondo lo metteremo sul lato delle fibre compresse e nel ponte al posto
della R2 per sommare gli effetti della deformazione e annullare quelli termici. Nel caso di 4 esten-
simetri il terzo lo metto vicino al primo e nel ponte al posto di R3 mentre il quarto a fianco del secondo
e nel ponte al posto di R4. Massima sensibilità (più segnale e maggiore accuratezza di misura –
costo maggiore) e annullamento dell’effetto termico.

165
CASO CON 1 ESTENSIMETRO

Vediamo per primo il caso in cui mettiamo un solo estensi-


R1 R2 metro. Lo sbilanciamento del ponte sarà pari a:
E0 Vu E ∆R
V =
4 R
R4 R3

sapendo che = Gf ε = Gf
essendo la ε1 = εmax, possiamo scrivere, tenendo conto anche dell’effetto termico e trascurando l’ef-
fetto modificante che:

𝐄𝟎 𝚫𝐑 𝟏 𝐄𝟎 𝐌𝐟
𝐕𝐮 = = 𝐆𝐟 + 𝐊 𝐢 𝚫𝐭
𝟒 𝐑𝟏 𝟒 𝐖𝐟 𝐄

Ho messo solo la R1 come lato attivo del ponte dato che le altre resistenze devono essere stabili e
quindi non influenzate dalla temperatura, per cui il relativo ΔR = 0. Con questa soluzione saremo
in grado di misurare Mf ma saremo influenzati dalla temperatura.

CASO CON 2 ESTENSIMETRI


Rispetto al primo caso avremo che lo sbilanciamento del
ponte sarà pari a:
R1 R2
E ∆R ∆R
E0 Vu V = − =
4 R R
R4 R3 E M M
= Gf + K ∆t − − Gf + K ∆t
4 WE WE

dato che la R2 vede la εmin = - εmax.


I due termini legati alla temperatura si compensano, sono uguali essendo gli estensimetri identici
anche nel segno non essendo legato alla loro deformazione, e otterremo alla fine che:
𝐄𝟎 𝐌𝐟
𝐕𝐮 = 𝐆𝐟
𝟐 𝐖𝐟 𝐄
Abbiamo in pratica raddoppiato la sensibilità utilizzando due estensimetri. Se avessimo messo il
secondo estensimetro sul lato 3, avrei annullato le due variazioni ΔR/R e sommato le due compo-
nenti interferenti (Mf=0 e raddoppio dell’effetto termico).
Quando ho estensimetri su lati adiacenti compenso la temperatura, quando li ho su lati opposti gli
effetti della temperatura si sommano.
Per utilizzare il lato 3, avrei dovuto mettere il secondo estensimetro a fianco del primo. Avrei rad-
doppiato la sensibilità ma anche gli effetti della temperatura.

CASO CON 4 ESTENSIMETRI


Rispetto ai casi prima visti avremo:
𝐌𝐟
R1 R2 𝐕𝐮 = 𝐄𝟎 𝐆𝐟
E0 Vu 𝐖𝐟 𝐄

R4 R3 cioè il massimo della sensibilità con effetti termici compen-


sati.

166
Quindi il fatto di considerare un segnale non periodico nella finestra temporale che mi interessa
come se lo fosse, non mi limita dato che non vado a vedere quello che succede al di fuori della
stessa dove, per esempio, si potrebbe poi verificare una situazione analoga a quella sopra. Quindi i
segnali non periodici possono essere resi tali quando nella finestra che stiamo osservando vediamo
tutto quello che ci interessa e poi il fatto che si ripeta o meno al di fuori della stessa diventa poco
importante ai nostri fini. Per il caso in cui il segnale non si esaurisca dopo un certo tempo e non sia
propriamente periodico (es la temperatura ambientale) l’approccio è di prendere il segnale in un
tempo che per noi è rappresentativo e considerarlo periodico al di fuori di questo

Di fatto andremo ad utilizzare un sistema di rappresentazione relativo a segnali periodici, ma


questo lo applicheremo a tutte le situazioni compresi i casi in cui il segnale non è per nulla
periodico valutando però che tipo di errori questo comporta.

Se siamo nella condizione ipotetica di segnale periodico e periodo Ts, grazie allo sviluppo in serie di
Fourier noi possiamo scrivere :

a) SVILUPPO SENO - COSENO



X(t) =  + UVan cos(nωo t) + bn sin(nωo t)^
n=1

D D D
= DE
` X(t) dt
E
b = DE
` X(t)cos(nωc t) dt
E
d = DE
` X(t)sin(nωc t) dt
E

2g
e# =
Ts

IMPORTANTE: Il Ts ci dice anche qual è la frequenza più piccola che possiamo trovare dentro il
segnale, ovvero la pulsazione più piccola. Quindi se il mio segnale ha un Ts = 1 s non ci potranno
essere componenti in frequenza con frequenza più bassa di 1 Hz (1/Ts).
La componente in frequenza più alta invece non è legata al periodo quindi sulla base di questo dato
non posso sapere quale sarà la massima componente in frequenza del segnale.
Usando le relazioni di prostaferesi lo sviluppo precedente può essere riscritto come

b) SVILUPPO COSENO

X(t) =  + U Cn cosjnωo t + φn l
n=1

d
Dove m =nb + d e φo = −bqrst(bu )
u

c) SVILUPPO IN TERMINI COMPLESSI (quella preferita per la forma più compatta)


+∞
X(t) = U Hn ew n ωo t
−∞

x2 y2
Ho = − w

x2 y2
H o = + w

60
Il ponte di Wheatstone è lineare se faccio delle variazioni delle resistenze sui lati che sono di qualche
per mille della resistenza iniziale ma può essere utilizzato anche con variazioni maggiori ad esempio
quelle dei termometri a resistenza ma in situazioni di non linearità si deve usare il legame tra ingresso
e uscita senza linearizzazione.
Con i ponti estensimetri, l’operazione che si fa di sovente prima di fare la misura è quella di inserire
una resistenza di Shunt e di determinare la sensibilità K come:
𝐕𝐮𝐬 𝐕𝐮𝐬
𝐊= =
𝐑𝟏 𝚫𝐑 𝟏
− 𝐑 +𝐑 𝐑𝟏
𝟏 𝐒

Vus = tensione in uscita dopo l’inserimento della resistenza di Shunt. Nota questa si ricava il K.

Il K può avere segno positivo o negativo, ma di questo non ci dobbiamo preoccupare. Questo perché
nella relazione che caratterizza il ponte di Wheatstone abbiamo detto che una volta fissata la posi-
zione 1 sul ponte, le altre resistenze devono essere numerate di conseguenza e le somme dei vari
ΔR/R saranno caratterizzate da segni alterni. La relazione dello sbilanciamento è sempre la stessa
a meno di un segno che dipende dal punto in cui parto con la numerazione e dove si sono collegati
i morsetti positivi di alimentatore e voltmetro. Non ci preoccupiamo del segno dato che la taratura
ora vista ci darà già il K con il corretto segno per le posizioni assunte.

- - - ooo - - -

168
MISURE DI TEMPERATURA SENZA CONTATTO (o PER IRRAGGIAMENTO)
Non sfruttiamo il contatto bensì l’irraggiamento (radiazioni elettromagnetiche) per ottenere l’informa-
zione sulla temperatura di un corpo. Per l’irraggiamento esiste una relazione che è quella di Stefan-
Boltzmann:

W = F A σ ε T4 = potenza irradiata dal corpo (in watt)


dove ε (emissività globale) è una costante per i corpi grigi mentre è una funzione della temperatura
per quelli non grigi. Il corpo grigio è un corpo la cui “emissività spettrale” (definizione più avanti) è
costante su tutto lo spettro elettromagnetico.
T = temperatura assoluta
σ = costante di Stefan-Boltzmann
A = area complessiva
F = coefficiente (fattore di vista geometrico) tale per cui F = frazione di potenza che andrò a racco-
gliere rispetto alla totale potenza irradiata, 0<F<1.
Consideriamo per ora l’emissività come dipendente solo dal corpo. Sfruttando la relazione di Stefan-
Boltzmann, vediamo come possiamo pensare di effettuare la nostra misura. Questa potrebbe essere
realizzata come misura indiretta se riuscissi a misurare la potenza irradiata dal corpo considerando
che:

a) T=

Gli strumenti che funzionano in questo modo vengono chiamati:

PIROMETRI A RADIAZIONE TOTALE


Con questo strumento, rispetto agli altri tipi, usando la relazione di Stefan-Boltzmann ipotizzo di
raccogliere tutta la potenza che viene emessa dalla superficie del corpo. Altri strumenti ne racco-
glieranno invece solo una frazione, quindi anziché essere PIROMETRI TOTALI saranno PIROME-
TRI CROMATICI.

T
A, ε
energia persa

sensore

A*
1 vettore di emissione
energia persa

A* 1.cosφ

113
Lo schema sul quale andremo ad operare è caratterizzato da una superficie con area A ed emissività
ε, alla temperatura T. Il sensore raccoglierà solo una frazione dell’energia emessa dall’area consi-
derata. Per gli scambi radiativi ipotizziamo che, dal punto di vista della distribuzione della radiazione,
l’andamento con il coseno dell’angolo rispetto alla normale della potenza emessa è definito come
andamento Lambertiano o perfettamente diffusivo delle superfici. Questo vuol dire che se io prendo
la superficie A*, la radiazione che viene emessa lungo la direzione individuata dal tratteggio arancio
sarà legata all’angolo φ e più precisamente se in direzione normale emette 1, in una direzione incli-
nata di un angolo φ emetterà un “cos φ” di tale potenza (essendo ogni triangolo inscritto in una
semicirconferenza un triangolo rettangolo). Questo lo posso vedere nella rappresentazione grafica
del vettore di emissione. La lunghezza del segmento rosso rappresenta l’intensità della radiazione
lungo la direzione individuata dall’angolo φ. Sul sensore non raccolgo quindi tutta l’energia emessa
dalla superficie ma una frazione di questa, dato che in parte verrà persa. Per questo F ha un valore
inferiore a 1.
PROBLEMI LEGATI ALLA MISURA
Facendo riferimento allo schema prima rappresentato e alla relazione a), F è una costante ed è un
elemento caratteristico del mio strumento avendo quest’ultimo un certo campo di apertura. La co-
stante di Stefan-Boltzmann (σ) è nota, mentre ε è un elemento critico perché sappiamo che il
massimo è un valore sempre minore di 1 (dato che ε = 1 per la situazione ideale del corpo nero,
corpo che assorbe tutta l’energia e che poi la irradia completamente), ma sappiamo anche che il
suo valore è influenzato da molti fattori.

a) Vediamo come l’errore di emissività si ripercuote sull’errore della temperatura.


Ipotizziamo una ε = 0,5 ± 0,1 e che operiamo alla temperatura ambiente di T = 300 K (27 °C).
Assumendo che lo strumento misuri in maniera perfetta la potenza che gli arriva e che non ci sia
incertezza sulla misura, vediamo l’incertezza sulla T dovuta alla sola incertezza sulla ε. E’ un sem-
plice caso di propagazione:

𝑖 1𝑖 𝑖 1 𝑖 1𝑖 1
= + − ⇒ = = 0,2 = 0,05 (5%)
T 4 w ε 4 T 4 ε 4

ipotesi: strumento perfetto dal punto di vista della misura della potenza trascurabile iw

L’incertezza relativa è del 5% e lo è sulla temperatura assoluta. Su 300 K è pari a 15 K.


Avere una ε = 0,5 ± 0,1 è una situazione abbastanza normale, dato che vedendo i valori tabulati di
ε per i vari materiali, avere un’oscillazione del 10-15 o 20% non è anomalo. Quindi se prendo i valori
tabulati mi trovo con delle incertezze di misura estremamente alte.
Per fare una buona misura devo ridurre l’incertezza e quindi dovrò capire esattamente per la super-
ficie che sto osservando qual è la vera incertezza e non usare i valori tabulati.
Se però sto lavorando su superfici tipo un muro che ha una emissività vicina allo 0,8-0,9 il tutto
diventa più facile perché l’incertezza pur essendo in assoluto, circa la stessa quantità, come incer-
tezza relativa diventa molto più piccola (10/85, cioè 0,1/0,85, al posto del 10/50 di prima, cioè dello
0,1/0,5).
Quindi questo è il primo problema legato alla nostra misura, cioè l’emissività della superficie consi-
derata.

Vediamo ora un secondo problema che riguarda la nostra misura, anche più complicato di quello
ora visto. Oltre all’emissività abbiamo altri due parametri. Questi sono caratterizzati dal fatto che:
α+ t + r = 1 (per il principio di conservazione dell’energia) dove:
α = assorbività (intercambiabile con l’emissività ε)
t = trasmissibilità
r = riflettività

Se abbiamo una superficie opaca, t=0 quindi: r = 1 – ε

114
Se rivediamo lo schema del nostro sistema, quello che arriva sul sensore del pirometro è quanto
emesso dalla superficie, ma anche quello che viene riflesso dalla stessa superficie. Se allora consi-
dero che attorno alla nostra superficie ci sia un ambiente con temperatura TB (temperatura di Back-
ground, cioè di quello che sta attorno alla superficie) che quindi ha un fattore di vista unitario con la
superficie stessa, vediamo quanto vale la potenza che viene riflessa:

TB
TATM, εATM
sensore

W R = A r σ T B4
Questa è tutta la potenza che viene riflessa, ma il sensore ne raccoglierà solo la frazione F, quindi
moltiplicando per il fattore di vista F la W R ho la quantità di potenza riflessa dalla superficie che arriva
al sensore del pirometro.
Tutto quello che arriva sul sensore sarà dato da:

WT = F A σ [ε T4 + (1 – ε) TB4]
Nota la potenza totale possiamo ricavare la temperatura T solo se conosciamo la TB, quindi se fac-
ciamo una misura di temperatura dell’ambiente che sta attorno alla nostra superficie, tramite la:
b) CORREZIONE PER RIFLESSIONE (BACKGROUND)

W 1−ε
T= − T
FAσε ε

La TB la dobbiamo o meno considerare in relazione alla temperatura che sto osservando. Se sono
in una situazione in cui T = 1000K e TB = 300K, abbiamo un fattore di circa 3 tra le temperature
assolute (1000/300 ≈ 3) e dato che abbiamo un 4 come esponente abbiamo che 34 = 81, quindi un
fattore quasi 100 tra quello che mi arriva dal background e quello che viene emesso. L’altro para-
metro che pesa il termine in background è anche (1-ε), quindi se ho un fattore 100 di TB che è più
piccolo di T, ma ho un (1-ε) che è molto più grande di ε, per avere un (1-ε) pari a 100 ε vuol dire
avere un ε pari a circa l’1%, cioè vuol dire che sto cercando di misurare l’emissione di uno specchio
a 1000K, quindi sono in una situazione in cui è quasi impossibile fare la misura. Se invece ho una
emissività abbastanza alta, almeno il 50% quindi ε e (1- ε) sono uguali oppure vado anche al 70-
80%, il secondo termine (1- ε)TB4 diventa trascurabile rispetto al primo εT4.
Con la formula sopra scritta posso calcolarmi l’incertezza sulla misura propagando le incertezze che
sono relative a ε e TB (nel background dobbiamo considerare anche la presenza dell’operatore e
anche del sensore e del calore emesso dalla sua circuiteria, quindi non è banale stimare la T B).

115
… …
… …
HN/2 aN/2 + i bN/2 numero reale essendo bN/2 = 0

In teoria avremmo N/2 + 1 punti. Però i numeri che abbiamo qui sopra rappresentato non sono tutti
complessi. Infatti H0 è reale perché è il valor medio, mentre quello a N/2 (Nyquist) campionava la
funzione seno sempre sull’asse, quindi con valore zero, di conseguenza anche per N/2 non abbiamo
la parte immaginaria e il coefficiente è reale. Quindi alla fine avremo N/2 + 1 coefficienti di cui 2 reali
(che messi insieme mi danno l’equivalente di un complesso, cioè due termini) e il resto complessi,
quindi il numero complessivo di numeri da scrivere rimangono sempre N.

Ottenere il vettore sopra è facile dato che faccio elaborare al calcolatore il vettore X(t) visto prima,
vengono calcolate le varie sommatorie che definiscono le Hn e mi restituisce il vettore qui sopra.

Questo vettore è molto utile. Noi al posto di scrivere X(t) possiamo scrivere una sommatoria, quindi
se ho quel vettore posso scrivere la X(t) come:
N
n= 2

X(t) = U Hn ew n ωo t
N
n=− 2

NOTA: il “-“ davanti alla “i” è quando passo dal tempo agli Hn il “+” quando passo dagli Hn al tempo.

STRUMENTO MOLTO IMPORTANTE: Questa relazione è molto interessante perché dopo il cam-
pionamento conosco il segnale solo al t=0, t=Δt, t=2Δ…, quindi se Δt=1s conoscerò il tempo a 1s,
2s.. ecc.. Se ora vogliamo sapere il segnale a 1,27s non devo far altro che mettere nella funzione
sopra scritta al posto di t il valore 1,27. Abbiamo quindi ottenuto quello che avevamo in precedenza
affermato, cioè se si campiona correttamente non si perde nulla del segnale iniziale (continuo),
quindi si riesce a posteriori a calcolare il segnale ad un tempo qualsiasi.
Malgrado si sia immagazzinato un volume di dati tutto sommato contenuto, cioè il vettore di N punti,
a posteriori posso scegliere di andare a vedere cos’era X(t) ad un tempo qualsiasi.

La funzione che mi permette di calcolare gli Hn viene chiamata DFT (Discrete Fourier Transform),
cioè mi rappresenta la trasformata di Fourier nel campo discreto, avendo discretizzato i tempi grazie
al campionamento. L’operazione di calcolo degli Hn è abbastanza pesante dovendo fare numerosi
conti. In realtà se N è una potenza di 2, ci sono alcune moltiplicazioni che vengono ripetute identiche
nei vari Hn cioè più volte utilizzo la stessa X ž e Ÿ o ¡ ’. Questo consente di velocizzare le operazioni
di calcolo e l’algoritmo prende il nome, anziché di DFT, di FFT (Fast Fourier Transform), cioè un
algoritmo più veloce rispetto a quello standard. Funziona solo se N è una potenza di 2. Se N è un
numero primo si ritorna alla DFT.
Gli Hn ci danno altre importanti informazioni. Mettiamo in diagramma i moduli di Hn:

IHnI Banda del segnale


20 Hz
H0 A

H1 B

C
/ > •
0 D D D D D
f

65
In laboratorio viene svolta un’esperienza che riguarda inizialmente un’applicazione inversa, cioè non
siamo andati a determinare la temperatura del corpo, bensì la sua emissività nota la temperatura.
Gli attuali sistemi di misura forniscono delle immagini termiche, cioè l’equivalente di una fotografia
mappata in termini di temperatura, sfruttando la relazione prima vista. Se non è nota l’emissività, il
nostro sistema assume quella unitaria del corpo nero. Per passare dall’immagine acquisita che si
riferisce a un corpo nero a quella che realmente ci serve per definire la temperatura del corpo os-
servato (che avrà una emissività differente e comunque inferiore di 1), dobbiamo inserire il valore
corretto dell’emissività nella relazione prima vista. Se riusciamo in un punto a determinare la tempe-
ratura corretta e quindi la sua emissività, sarà poi possibile correggere tutta la mappa delle tempe-
rature acquisite. Il modo più semplice di procedere è quello di rendere nota in un punto l’emissività
e questo lo si può fare applicando sul corpo un nastro di materiale con emissività nota (esempio: un
semplice nastro di carta) che localmente non sia in grado di modificare la temperatura. Quindi se ho
un oggetto esteso di cui voglio fare la mappa termica e non ne conosco l’emissività, incollo un pez-
zettino di materiale ad emissività nota sulla superficie, avrò a disposizione l’immagine con le tempe-
rature incognite, ma in un punto conosco l’emissività e quindi in quel punto posso ricavarmi la tem-
peratura vera. Ipotizzando che in un punto a fianco la temperatura sia la stessa, confrontando le due
temperature, quella nota e quella ottenuta con una emissività fittizia relativa al corpo nero, ricavo
l’emissività vera della superficie e poi quella la utilizzo per correggere tutta la mappa di temperature.
Nelle misure con immagini termiche possiamo imbatterci in alcune insidie (o situazioni favorevoli).
Vediamo cosa succede se disponiamo di un elemento come quello qui sotto rappresentato:

T Abbiamo un corpo con superficie sferica a


temperatura T e con una apertura di diame-
A2 tro “d” molto più piccolo del diametro della
sfera. La radiosità (totalità della potenza
termica radiante che lascia la superficie)
ε d che vediamo con il sensore non è influen-
A1 zata dall’emissività del corpo. In pratica si
genera il cosiddetto “effetto cavità” e il no-
stro oggetto rappresenta una sorta di corpo
nero, qualunque sia l’emissività ε della su-
perficie interna quando A2/A1 diventa tra-
scurabile rispetto ad 1.
1
𝑅 = 𝜖σ𝑇
𝐴2
1 − (1 − 𝜀)(1 − 𝐴1)

L’esempio prima riportato anche se potrebbe risul-


tare molto accademico, nella pratica si può presen-
tare molto spesso. Si pensi per esempio ad un com-
ponente meccanico con un foro filettato come
quello rappresentato qui a fianco. Il foro genera un
effetto simile a quello prima visto analizzando con
una termocamera la superficie dell’oggetto.

Al foro si va ad attribuire una emissività equivalente che tenga proprio conto dell’effetto cavità. Il
concetto su cui si basa è che quando il rapporto A2/A1 tende a zero, cioè l’area interna è molto più
grande rispetto all’area dell’apertura, io ottengo di nuovo l’emissività del corpo nero, cioè l’emissività
equivalente tende a 1. Questo è anche il sistema per creare i corpi neri di calibrazione. Si realizza
allo scopo una superficie ampia con una emissività alta ottenuta con apposite vernici, per esempio
un ε=0,9 (già difficile da ottenere con delle vernici). Si realizza poi un foro, per esempio con un fattore
10 nel rapporto A2/A1 che non è difficile da ottenere, grazie al quale con l’effetto cavità si riesce ad
avere un incremento dei ”9” nell’emissività equivalente che può passare da 0,99 a 0,9999. Questo
mi serve se voglio tarare il mio strumento dato che avrò un emettitore ad emissività unitaria di cui
andrò a misurare la temperatura con dei termometri a contatto, quindi ho la condizione in cui ε è
117
unitaria, la T è nota e quindi posso calcolarmi la sensibilità in taratura che dipenderà da F, A e il
sensore.

Vediamo un’altra situazione abbastanza frequente nei componenti meccanici.

Una classica situazione è quella di piastre con scanalature


per l’ancoraggio. Anche questo è un altro caso in cui se
faccio una mappa termica guardando la superficie dall’alto,
l’emissività equivalente nella zona della scanalatura è
molto più alta dell’emissività della restante superficie piana.
Quando realizzo l’immagine termica di questo oggetto,
nella zona scanalata registro delle temperature più basse,
quindi mi si evidenzia una zona più calda rispetto la re-
stante superficie. Questa informazione non è corretta dato
che in corrispondenza della scanalatura devo considerare
l’emissività equivalente che mi tenga conto dell’effetto ca-
vità.
Questo tipo di effetto, che può farci commettere degli errori se non prestiamo la dovuta attenzione,
si riscontra anche quando non ci ritroviamo di fronte ad un vero e proprio effetto cavità.
Supponiamo di fare la mappa termica di una stanza. Analizziamo quello che succede in una zona
angolare come può essere quella tra il pavimento e la parete verticale
La temperatura che vedo nella zona angolare, malgrado il
materiale sia caratterizzato dalla medesima emissività,
sarà differente. Questo perché con l’obiettivo della termo-
camera sto guardando un qualcosa che è la radiosità. Men-
tre nel punto A la radiosità dipende dall’emissione più la
riflessione soprattutto del background, cioè della stanza,
nella zona angolare c’è una buona componente di co-irrag-
A giamento tra le due pareti. Alcune radiazioni che partono,
per esempio, dalla superficie di base colpiscono quella ver-
ticale, vengono riflesse e indirizzate verso l’obiettivo. Que-
sto effetto cresce avvicinandosi allo spigolo e si traduce in
coirraggiamento un aumento dell’emissività apparente.

Questi problemi sono ovviamente legati al fatto di non avere emissività unitaria.
Con questo abbiamo ultimato la parte relativa ai Pirometri a radiazione totale

L’emissione termica può essere vista non solo guardando il complessivo, ma guardando anche
come si distribuisce alle varie lunghezza d’onda. Quello che ci dice come avviene questa distribu-
zione è la:

RELAZIONE DI PLANCK

2𝜋𝐶 ℎ
Φ=
𝜆 𝑒 −1

Questa relazione ci dà l’intensità emessa da un corpo nero, in un intervallo di lunghezza d’onda


unitario, alla lunghezza d’onda λ. Quindi λ è la lunghezza d’onda di emissione e:
T = temperatura del corpo che emette, C = velocità della luce nel vuoto, h = costante di Planck, K =
costante di Boltzmann
Quindi tutte costanti tranne λ e la temperatura T, plottando con parametro T la funzione di λ:
118
Φ

le curve non si intersecano mai

0 λ

Questa curva oltre che dalla lunghezza d’onda λ dipende anche dalla temperatura T. Andando a
considerare i limiti della relazione prima scritta vediamo che per λ ⟶ 0, la radianza Φ ⟶ 0.
Questa curva è importante perché se plottiamo curve a temperature diverse, queste hanno una
proprietà che è quella di stare una sopra l’altra senza mai intersecarsi. Quindi la curva a temperatura
maggiore sta sopra quella a temperatura minore senza mai toccarla, quindi l’emissione di un corpo
più caldo è sempre maggiore rispetto a quello più freddo per qualsiasi λ. Inoltre il picco di emissione
si sposta al variare della temperatura e si sposta verso lunghezze d’onda sempre più piccole. C’è
una semplice relazione che ci dice dove si sposta il massimo che è la relazione di WIEN. Questa
relazione ci indica a quale lunghezza d’onda è massima l’emissione radiativa di un corpo nero, cioè
dove abbiamo il picco di emissione.

LEGGE DI WIEN
𝟐𝟖𝟗𝟕. 𝟕𝟕 𝟑𝟎𝟎𝟎
𝛌𝐌𝐚𝐱 = ≅ [𝛍𝐦]
𝐓 𝐓
λMax per i corpi a temperatura ambiente ≅ 10 μm (riferita ad un corpo nero)
Lo spettro della radiazione elettromagnetica percepibile dal nostro campo visivo è tra 0,3 e 0,7 μm,
quindi il 10 μm è molto lontano da questa zona dove i nostri occhi sono in grado di percepire. Questo
è il motivo per cui se non c’è luce solare o artificiale noi non siamo in grado di vedere l’irraggiamento
dei corpi e quindi siamo completamente al buio.
Vediamo bene la radiazione solare perché la temperatura di corpo nero del sole è di circa 5770 K,
quindi 3000/5770 ≅ 0,5 μm quindi proprio nel mezzo del campo del visibile.
Questo però ci dice qual è la difficoltà di fare MISURE DI INFRAROSSO, cioè da 0,7 a 50 μm
(passando dal vicino al lontano infrarosso), perché tutta questa zona è fuori dalla capacità di perce-
zione dell’occhio umano.
Già effettuando misure di temperatura a
Φ 1000 K T=1000 K (circa 700 °C) abbiamo una
λMax ≅ 3 μm. Oltre i 700 gradi siamo co-
munque in grado di vedere i corpi incan-
descenti (colore rosso 0,7 μm) perché nel
campo del visibile la curva della radianza
spettrale ha ancora una coda abbastanza
campo del visibile
marcata.

0 0,3 0,7 λ
Con le informazioni ora disponibili possiamo anche definire il modo attraverso il quale poter misurare
la temperatura. La relazione in cui questa è espressa in modo esplicito è la relazione di Wien. Quindi
una modalità per valutare T sarebbe quella di andare a cercare il picco di emissione e già quello è
in grado di indicarmi la temperatura.
119
Un vantaggio rispetto all’uso di un pirometro a radiazione totale è quello che per quest’ultimo stru-
mento devo conoscere l’emissività globale del corpo. Nel nostro caso l’emissività spettrale, 𝜀 entra
in gioco, tenendone conto per un corpo reale anziché su un corpo nero, in questo modo:

2𝜋𝐶 ℎ 𝜀
Φ=
𝜆 𝑒 −1

cioè si introduce il parametro ελ, detto emissività spettrale, che è una funzione della lunghezza
d’onda. E’ una costante per il corpo, ma cambia in funzione della lunghezza d’onda. Anche questa
emissività può variare tra 0 e 1 (corpo nero). Questo vuol dire che, se considero la curva di un corpo
nero a una certa temperatura T e poi quella, alla stessa temperatura, di un corpo non nero (traccia
rossa) avrò:
La curva reale potrà avere al massimo dei
Φ corpo reale corpo nero punti di tangenza con quella del corpo nero
(nei punti in cui l’emissività diventa 1), ma
sarà sempre posizionata sotto quest’ul-
tima.

0 λ

Il vantaggio di poter utilizzare la relazione di Wien al posto di quella di Stefan-Boltzmann è che se io


non conosco la ελ posso comunque individuare la massima temperatura che caratterizzerà il corpo
reale. Questa sarà in corrispondenza della prima curva di Plank con al più un punto di tangenza
della curva reale con quella del corpo nero alla temperatura T così individuata. Il modo di procedere
sarà allora il seguente:
- parto da una temperatura T per cui non ho alcun punto di intersezione tra la curva del corpo nero
e quella del corpo reale
- diminuisco poco alla volta T fino a quando in un certo punto, uno qualsiasi, ho una tangenza,
un’intersezione, con la curva di emissione del corpo reale.
Il punto limite, cioè se alzo un poco la temperatura non ho intersezione e se la abbasso un poco ho
intersezione anziché tangenza, è quello che mi dà la condizione in cui in un solo punto l’emettitore
reale coincide con quello del corpo nero. L’informazione che ottengo è che so che al massimo il
corpo reale potrà avere la temperatura così individuata.
Questo metodo pone il problema che per essere adottato impone la conoscenza di tutta la curva di
emissione del corpo reale e quindi di andare a misurare l’emissione del nostro corpo per ogni valore
di lunghezza d’onda. Per fare questo si usa uno strumento che si chiama SPETTROMETRO, uno
strumento piuttosto complesso che mi dà lo spettro di emissione e che in genere non si usa per fare
solo misure di temperatura.

Vediamo come è legata la Φ alla relazione di Stefan-Boltzmann. Di fatto la relazione di Planck ci


dice dentro a un intervallino di lunghezza d’onda quant’è l’intensità emessa, invece la relazione di
Stefan-Boltzmann mi dice per l’intero spettro quant’è l’intensità emessa. Di fatto, per ottenere la
relazione di Stefan-Boltzmann devo solo integrare la relazione di Planck:
∞ ∞

σεT = Φλ ελ dλ considerando che σT = Φλ dλ

posso definire anche la ε cioè l’emissività globale e vedere come questa può variare con T:

120
L’equazione scritta, come vediamo, assomiglia a quella degli strumenti del primo ordine. Facendo
alcuni semplici passaggi otteniamo che:
dy m c dy
mc + αAy= αAx ⟹ + y=x
dt α A dt
quindi abbiamo che:
𝐦𝐜
𝛕= ; 𝐒=𝟏
𝛂𝐀
Qui abbiamo scritto come uscita direttamente la temperatura del giunto che sarà identica alla tem-
peratura del bagno. A regime, con temperatura statica devo avere una sensibilità unitaria: T giunto
uguale a T bagno (quindi y = x e la variazione di y nel tempo = 0).
Quindi la mia equazione rappresenta proprio la risposta dinamica di un termometro in condizioni non
troppo complicate (abbiamo trascurato infatti che lo scambio termico può essere anche per irraggia-
mento).
Se abbiamo uno strumento del primo ordine riusciamo a ricavarne facilmente il parametro dinamico
del sistema che è la costante di tempo vedendo come si comporta con un ingresso particolare che
è quello a gradino.

RISPOSTA AL GRADINO
X1 t<0
Se X(t) =
X2 t≥0

allora y(t) = y2 + (y1 – y2) e


Data questa relazione abbiamo visto tre metodi per ricavare la costante di tempo τ.
1) y(t) = y2 + 0,37 (y1 –y2) mettendo t= τ

tg all’origine
y2
y(τ)

0,63 (y2 – y1)


y1 0,37 (y2 – y1)

τ t
2) Tangente per t = 0 (tg al’origine)
()
3) z = ln = −
z

t
tgφ= - 1/ τ (pendenza)

retta dei minimi quadrati

83
𝝫λ per T=300 K

1 ελ (emissività)

0 0,5 1,7 10 λ

In questo disegno abbiamo cambiato scala (per maggior chiarezza grafica), dato che la planchiana
ora disegnata dovrebbe stare sotto a quella vista prima per T = 5000 K.
In rosso abbiamo sempre il prodotto delle due funzioni 𝝫(λ, T) e ελ. Ora però le aree sottese alla curva
rossa e alla planchiana sono tra loro in rapporti differenti. Infatti le due aree differiscono solo per il
tratto di coda di sinistra che è piccolo e quindi il loro rapporto è quasi unitario 𝜀 ≅ 1.
Quindi per lo stesso corpo, cioè il vetro, abbiamo emissività quasi zero ad alte temperature ed emis-
sività quasi unitaria a basse.
Usare i pirometri a radiazione totale oltre ad avere l’inconveniente che l’emissività è scono-
sciuta in generale, c’è anche il fatto che l’emissività è funzione della temperatura, ε(T).
Quindi se ho il valore di ε tabulato a temperatura ambiente e poi uso quel valore per un bagno di
acciaio fuso, sto usando due parametri che sono completamente distinti: uno è calcolato facendo
riferimento alla planchiana a 300 K con picco a 10 μm, mentre l’altro calcolato con la planchiana a
1500 K e con picco a circa 2 μm. Stiamo ovviamente parlando delle temperature relative alla emis-
sione IR.
Sfruttando la legge di Planck parliamo ora dei:
PIROMETRI A DUE COLORI
Abbiamo scritto:
2𝜋𝐶 ℎ
Φ = 𝜀
𝜆 𝑒 −1

e abbiamo detto che il problema è dato da 𝜀 che ci costringerebbe a caratterizzare il nostro corpo
non solo con un valore globale perché funzione della temperatura, ma dovremmo avere tutto lo
spettro di emissività per le lunghezze d’onda che vanno da 0 a + ∞.
L’idea su cui si basano questi pirometri è che la ελ ha in generale dei valori che sono variabili, però
se io mi metto su due lunghezza d’onda molto vicine è ragionevole pensare che 𝜀 tra queste due
lunghezze d’onda non vari di molto.

ελ

0 λ1 λ2 λ

Ovviamente più avvicino le due bande, più il valore di ελ dovrebbe rimanere quasi uguale anche se
mi trovo in situazioni critiche dove l’emissività sta cambiando significativamente rispetto alla lun-
ghezza d’onda λ.
Per riuscire a raccogliere solo la potenza dentro una banda stretta, utilizzo un FILTRO DI COLORE,
cioè un oggetto che è trasparente solo dentro una lunghezza d’onda molto stretta (si riesce a fare
con la deposizione di strati successivi su un’ottica trasparente in modo tale che ci sia un’interferenza
ad una certa lunghezza d’onda e che non ci sia ad altre):

122
Trasmissibilità
t1 FILTRO DI COLORE (filtro di BANDA)
Ho una trasmissibilità pari a circa 1 in cor-
rispondenza di λ1 che tende poi a diventare
zero al di fuori di λ1. Per raccogliere le po-
tenze per λ1 e λ2 avrò ovviamente due filtri
come quelli qui rappresentati.

λ1 λ2 λ

Se mi trovo in questa situazione, andiamo a vedere qual è la potenza che raccogliamo in corrispon-
denza delle due bande.
Scriviamo:
2πC h ε 2πC h ε
W = dλ 𝑒 W = dλ
λ e −1 λ e −1

Scegliendo λ2 coincidente con λ1 + Δλ e considerando anche un Δλ per λ2, in virtù del fatto che
l’intervallo considerato è molto piccolo possiamo calcolare l’integrale come il prodotto di:

2𝜋𝐶 ℎ 𝜀 2𝜋𝐶 ℎ 𝜀
W = Δλ 𝑒 W = Δλ
𝜆 𝑒 −1 𝜆 𝑒 −1

Queste due espressioni hanno in comune molti fattori, quindi la cosa più naturale è farne il rapporto
in modo tale da poter semplificare tutte le costanti:

= ≅ e

Dato che in condizioni normali gli esponenziali e sono in generale molto più grandi di 1, possiamo
semplificare l’1 tra le parentesi e ottenere la forma finale sopra riportata. Le “condizioni normali”
possono essere da T ambiente a T dei bagni di fusione, cioè fino a quando T rende l’esponenziale
molto più grande di 1.
Dato che ci siamo messi nella condizione che passando da λ1 a λ2 la ε cambia di poco, possiamo
considerare ελ quasi uguale a ελ , quindi mando via il loro rapporto dalla relazione prima scritta. In
realtà i Pirometri a due colori danno la possibilità di inserire questo rapporto, quindi se sono note le
due ε possiamo considerarlo. Per ottenere il rapporto 1/T basta considerare il logaritmo:
W 1
ln = A +A
W T
Scritto raccogliendole tutte le costanti nelle due nuove costanti A1 e A2.
La cosa interessante è che abbiamo ottenuto una relazione abbastanza semplice che lega la T al
logaritmo delle due potenze W 1 e W2. Lo strumento sarà costruito per misurare separatamente le
due potenze, farne il rapporto e poi estrarne la temperatura con i vari passaggi matematici. A 1 e A2
sono di fatto ottenute con una taratura come si fa sempre per tutti gli strumenti.

Tutto quanto scritto per questo strumento funziona fino a quando guardo corpi con T molto alta e
quindi fino a quando posso ritenere trascurabile l’apporto del background. Quindi i pirometri a due
colori sono in genere utilizzati per misure di sorgenti a T alta quali, per esempio, i bagni di fusione.
123
Nel passato queste misure esistevano solo con strumenti che venivano chiamati pirometri perchè
riguardavano sorgenti a temperature molto elevate e percepibili anche nel campo del visibile. Un
pirometro utilizzato nel passato era quello a filo scomparente. Il sensore era l’occhio umano e il
concetto era: scaldo una sorgente e la porto alla stessa temperatura di quello che sto guardando.
La sorgente era solitamente un filamento in tungsteno e quando questo scaldandolo a temperature
note “scompariva”, all’interno di un oculare, rispetto all’immagine ad esempio del bagno di fusione
voleva dire che la sua emissione era uguale a quella del bagno e quindi anche la sua temperatura.
Ovviamente questi pirometri non funzionerebbero a temperatura ambiente dato che i nostri occhi
non vedono le emissioni a 10 μm.
Gli strumenti di oggi, però, sono in grado di fare mappe termiche anche delle pareti di una casa.
L’uso è così diffuso che vengono usati comunemente dagli idraulici che fanno la mappa termica delle
pareti di un locale per individuare dove passano tubazioni di acqua calda o fredda quando devono
intervenire sulle stesse. Cosa ha fatto quindi la differenza tra gli strumenti più recenti e quelli del
passato? La disponibilità di sensori che sono in grado di fare meglio di quanto non riescano a fare i
nostri occhi e quindi che riescano a “vedere bene” l’emissione anche alle lunghezze d’onda di 10
μm, quindi di sensori con una buona sensibilità nell’infrarosso.

SENSORI INFRAROSSI (IR)


I pirometri sono di fatto dei misuratori di potenza, più correttamente di radianza. Il sensore è quindi
un qualcosa che deve accorgersi se davanti c’è una sorgente che gli manda tanta o poca potenza.
Quello che cambia se ci troviamo davanti ad un oggetto caldo o freddo, cioè con radianza elevata o
bassa, anche da un punto fisico se fossimo noi i sensori, è che ci scaldiamo oppure ci raffreddiamo.
Quindi il concetto più semplice per effettuare una misura di radianza è quello di utilizzare un termo-
metro investito dal flusso radiante. Questi sono detti sensori di tipo termico.

SENSORI TERMICI
Questi sono concettualmente realizzati in questo modo:

Sorgente di cui vogliamo misurare la T (potenza che arriva dal corpo osservato)

Membrana sottile (diaframma)

TERMOMETRO (m, c)

Tc temperatura del contenitore

Abbiamo una membrana sottile la cui parte centrale è un termometro. La membrana serve per iso-
lare il termometro dal contenitore anche se un minino di influenza di quest’ultimo ci sarà sempre. Il
termometro ha una superficie che deve avere una emissività la più elevata possibile (in genere si
opta per una superficie nera), dato che frontalmente si pone la sorgente di cui deve misurare la
temperatura. Il sistema reale disporrà ovviamente di un’ottica che non avrà un campo di osserva-
zione di 180 gradi, ma inferiore.
Sul termometro arriva una potenza per effetto dell’irraggiamento del corpo che sto osservando. Non
è limitativo scrivere che la potenza è

W = F A σ T s 4 εs
124
X1comp = H e𝒾

Y1comp = T(ω0) H e𝒾 e così via per tutti gli altri con ωn = n ω0

Y 2comp = T(2ω0) H e𝒾

Y 3comp = T(3ω0) H e𝒾
…….
Quindi otteniamo che:

y(t) = H T(nω )e𝒾

Uso la stessa sommatoria dell’X(t) ma al posto degli Hn avrò gli Hn moltiplicati per i T(nω0).
In pratica ho ridotto il tutto al prodotto puntuale dei componenti di due vettori, cosa che un calcolatore
può fare senza particolari problemi. Malgrado questo, questa operazione non la facciamo quasi mai
perché ci costringerebbe, ogni volta che acquisiamo un segnale, al passare per lo spettro, poi cal-
colarci i T(ω) per lo spettro e ricostruire il segnale nel tempo. Questo procedimento è fattibile ma
lungo e non consente, con lo strumento, di visualizzare con continuità il segnale acquisito.

Quello che in genere si cerca è dove lo strumento continua a comportarsi come uno stru-
mento di ordine zero, cioè dove lo strumento lo posso usare semplicemente dividendo
l’uscita per la sensibilità statica.
Abbiamo visto che dato un segnale del tipo X = X 0 𝑒 possiamo sempre trovarci l’uscita con la
relazione y(t) = T(ω) X0 𝑒 .

SE LO STRUMENTO SI COMPORTA COME SE FOSSE DI ORDINE ZERO avremo:

y(t) = S X0 𝑒
La T(ω) per trattare lo strumento come se fosse di ordine zero deve assumere la forma:

T(ω) = S
Scomponiamola ora nell’informazione modulo e fase:
IT(ω)I = S Modulo
T(ω) = S
Iφ(T(ω))I = 0 Fase accettata anche per K𝝿 dato che non si altera il segnale, ma al
massimo cambia il segno

Nel campo ingegneristico entrano sempre in gioco le tolleranze, quindi il modo corretto di rappre-
sentare quanto sopra scritto sarà:

IT(ω)I = S ± Tolleranza
T(ω) = S
Iφ(T(ω))I = 0, K𝝿 (± Tolleranza)

Abbiamo un’altra condizione che può essere accettata.


Se X = X0 cos(ωt) (la scrivo direttamente nella sua parte reale), la y la ottengo da:
y = IT(ω)I X0 cos(ωt + φ) (modulo = prodotto dei moduli, fase = somma delle fasi)

86
La funzione di trasferimento di questo sistema è quella dei sistemi del I ORDINE:

T(ω) La banda passante dipende da τ e quindi dal pro-


dotto m c RT. Volendo avere una banda passante
la più ampia possibile, dobbiamo rendere τ la più
piccola possibile. L’inconveniente è che RT è anche
la sensibilità statica, quindi più che minimizzarla
per minimizzare τ, dobbiamo cercare di massimiz-
1/τ ω zarla per massimizzare l’uscita del nostro sistema
di misura. Il solo modo per aumentare la banda
passante è avere elementi a piccola capacità ter-
mica (C=mc), quindi minimizzare la massa del sen-
sore.

Lo strumento oltre che sensibile all’ingresso “x”, il nostro ingresso voluto cioè quello principale, lo è
anche per la temperatura TC del nostro contenitore. Per poter avere una misura senza essere in-
fluenzati da questo ingresso non desiderato, dobbiamo o stabilizzare la temperatura TC o farne in
maniera indipendente la misura.
Il fatto che questi strumenti abbiano una risposta che dipende sostanzialmente da un parametro
termico, cioè la capacità termica, fa si che siano degli STRUMENTI LENTI. Le costanti di tempo che
si riescono ad ottenere adesso sono almeno di qualche decina di millisecondi (10-30 ms rappresen-
tano il limite tecnicamente raggiungibile in questo momento). Questo vuol dire che:
se τ=30 ms, ω=1/(30.10-3)=33,333 rad/s=2𝝿f, cioè f=33,333/(2𝜋) = 5,3 Hz
f=5,3 Hz è la massima frequenza che ci da la banda passante, quindi se facciamo misure a
frequenze più alte di 5 Hz lo strumento inizia ad attenuare in maniera significativa.
Quelli termici rappresentano la classe di sensori più economica sul mercato. Parliamo sempre di
sistemi che fanno immagini termiche, quindi di una distribuzione bidimensionale della temperatura.
Uno dei parametri che ne influenzano il costo è la risoluzione spaziale, cioè quanti elementi costi-
tuiscono l’immagine del sistema (vengono misurati in pixel). Nei sistemi termici la risoluzione, cioè
la capacità di vedere piccoli dettagli all’interno dell’immagine (assume questo nome perché mi da
un effetto simile all’errore di risoluzione di cui abbiamo già parlato. Se ho un punto luminoso posso
dire se questo è all’interno di una determinata cella della mia matrice, ma non se questo si trova a
cavallo di due celle attigue) è pari, per la fascia bassa, a 128x128 pixel per arrivare fino ai 640x480
per il top di gamma.
Vediamo come si fa a fare un’immagine con dei sensori di tipo termico.
Devo realizzare sostanzialmente una mattonella in cui ottengo una serie di sensori affiancati. Per
fare questo si parte da una lastra di silicio e con delle tecniche di microlavorazione, quelle proprie
dell’elettronica, si ottiene una configurazione di questo tipo:
elemento sensibile (semiconduttore in silicio che rappresenta un TERMISTORE)
W W W W W W W

supporto (in silicio)

L’area che cattura la radiazione sarà la superficie rossa. Ogni piccolo elemento rappresenta un punto
della matrice. La forma ad L di questi elementi, oltre che ad essere condizionata dai processi di
lavorazione, è dovuta alla necessità di avere una piccola capacità termica dell’elemento sensibile,
quello che raccoglie le radiazioni, quindi piccole dimensioni, mentre il ponticello di congiunzione,
lungo e snello, è finalizzato ad avere un’alta resistenza termica, e quindi una maggiore sensibilità,
che come visto è proporzionale alla resistenza termica tra l’elemento sensibile e il supporto. La tem-
peratura di ogni singolo elemento sensibile si misura sfruttando il fatto che l’elemento semicondut-
tore in silicio di cui è composto ha una resistenza elettrica che dipende dalla temperatura e quindi si

126
va a sfruttare questa correlazione (T-R). Questi sono dei veri e propri termometri che prendono il
nome di TERMISTORI.
La dimensione di ogni singola celletta che caratterizza l’elemento sensibile è nell’ordine di qualche
decina di micrometri (un quadratino di soli 15-20 μm nel quale si realizza un termometro e dei contatti
elettrici). Ogni cella copre una posizione della matrice del sensore (cioè un pixel).

Il sensore è rappresentato da una matrice di es 640 x 480 pixel. Ogni


elemento sensibile del tipo prima descritto occupa una singola casella
della matrice. Considerando che ognuna di queste ha lato di circa 15-
20 μm, ne segue che il sensore è una quadratino di circa 10 mm di lato
sui cui ci stanno 640 x 480 = 311040 elementi. Da qui si capisce la
difficoltà tecnologica nel costruire un sensore di questo tipo.

Questi sensori sono chiamati MICROBOLOMETRICI. Sono sostanzialmente dei sensori termici il
cui ingresso è una potenza. Questa che sia fatta da fotoni con lunghezze d’onda tra loro differenti
(campo del visibile o meno) poco importa, quindi la sensibilità non cambia in funzione di λ e quindi
della lunghezza d’onda della luce in ingresso (campo visibile o infrarosso).
Questi sensori idealmente potrebbero operare in un range spettrale che va da 0 a +∞. Di fatto c’è
un effetto per cui se la lunghezza d’onda che incide è comparabile con le dimensioni dell’ele-
mento che assorbe, l’assorbimento non diventa più efficace, cioè non riesco ad assorbire una
lunghezza d’onda all’interno di un elemento troppo piccolo. Se siamo quindi con elementi nell’ordine
dei 20 μm abbiamo sostanzialmente una limitazione ai 20 μm anche per le lunghezze d’onda. Questi
sensori che raccolgono idealmente tutta la radiazione, in pratica sono limitati superiormente attorno
ai 18-20 μm. Verso il basso, quindi con lunghezze d’onda corta verso il visibile, non ci sono limita-
zioni. Per questi strumenti, costruiti per operare nell’intorno della temperatura ambiente, non è però
utile che si accorgano di variazione nel campo del visibile e quindi con λ = 0,5 μm (cioè è inutile che
si accorgano di variazioni del tipo “luce accesa o luce spenta”), dato che questa parte di lunghezze
d’onda è una grandezza di disturbo. La parte che devo andare a raccogliere è quella nell’intorno dei
10 μm, quindi il sensore viene filtrato attorno ai 9 μm. Questo lo ottengo utilizzando un’ottica davanti
al sensore che non è trasparente al disotto degli 8-9 μm. Questi strumenti quindi sono caratterizzati
dall’avere una
BANDA di LUNGHEZZE D’ONDA ≅ 8÷14 μm
Per costruire uno strumento completo ho il mio sensore, ma devo anche riuscire a mettere a fuoco
l’immagine a una certa distanza, quindi gli devo mettere davanti un’ottica. Questa non potrà essere
realizzata in vetro perché per λ oltre 1,7 μm inizia a dare problemi diventando opaco completamente,
quindi ai 10 μm se ci mettessi davanti un’ottica di vetro è come se mettessi davanti al sensore una
lastra di acciaio. Il materiale comunemente utilizzato per l’ottica di questi strumenti è il germanio che
filtra le lunghezze d’onda del visibile (quindi non risulta trasparente a queste λ), ma è trasparente
nell’infrarosso fino all’incirca i 18 μm. L’ottica quindi è un altro elemento di limitazione.

I dati di targa di questi strumenti sono quindi:


Risoluzione (numero di elementi sensibili per immagine, ogni elemento 1 pixel): tipicamente infe-
riore ai 640 x 480 pixel
Campo di λ: 8 ÷ 14 μm
NEΔT (NOISE EQUIVALENT ΔT) ≈ 10-2 °C (caratterizza la possibilità di leggere una temperatura)
Vediamo il significato di quest’ultimo parametro. Se vado a vedere la temperatura misurata in fun-
zione del tempo, osservando una sorgente a temperatura perfettamente costante, quello che mi da
in uscita un sensore del tipo ora visto, così come molti altri sensori, è un qualcosa del tipo:

127
Tmisurata

NΔT

t
Quindi non è un valore costante ma variabile per effetto di quello che viene detto il “rumore. Questo
vuol dire che se voglio misurare una certa temperatura ho un’incertezza di misura che dipende pro-
prio da questa variabilità. Il NEΔT mi dice che il rumore produce una variazione di temperatura equi-
valente pari a, come nell’esempio, a 10-2 °C (questo valore è funzione di quanto tempo rimango ad
osservare la mia sorgente, quindi su cui effettuo una media della temperatura. Più è lungo il tempo,
più posso ridurre il NEΔT). In genere l’effetto di questo rumore è trascurabile considerando l’ordine
di grandezza delle incertezze sulle misure di temperatura con termocamera. Riveste invece una
certa importanza quando si devono calcolare differenze di temperatura.

Vediamo ora un altro tipo di sensore.

SENSORI IR FOTONICI
Così chiamati perché sfruttano l’effetto dei fotoni, cioè la luce dal punto di vista corpuscolare è fatta
di elementi singoli con una certa massa ed energia e possiamo vedere la luce, quando viene assor-
bita da un elemento, come l’impatto di questi fotoni sull’elemento stesso. Se l’elemento su cui im-
pattano è un semiconduttore, questi possono riuscire a produrre la ionizzazione dell’atomo del se-
miconduttore, cioè a staccare un elettrone e portarlo nella banda di conduzione. Se succede questo
effetto cambia la conducibilità elettrica del semiconduttore. La prima modalità che viene utilizzata
per i sensori fotonici è la:
Modalità FOTOCONDUTTIVA

W R

PbSe

E I

N° fotoni

Abbiamo un elemento semiconduttore (PbSe: Seleniuro di Piombo, uno dei materiali più utilizzati
per i sensori a infrarossi) di cui andiamo a misurare la resistenza elettrica con un circuito di tipo volt-
amperometrico. Sfruttiamo il fatto che la resistenza elettrica del semiconduttore dipende dal numero
di fotoni che vanno a colpire l’elemento stesso. Sfruttando la relazione sopra diagrammata è possi-
bile risalire alla potenza termica incidente.
Vediamo qual è la curva di Sensibilità rispetto alla lunghezza d’onda incidente. Per i sensori termici
quello che conta, come abbiamo detto prima, è solo la potenza, quindi non si accorgono della lun-
ghezza d’onda della radiazione incidente Il tipo di sensore che stiamo ora analizzando si accorge
della lunghezza d’onda incidente e ha tipicamente una curva di sensibilità variabile con la lunghezza
d’onda, denominata “risposta spettrale”, del tipo di figura.

128
Si nota un massimo ad una certa lunghezza d’onda, detta di cut-
S posizione definita a meno di 3 dB off, alla quale segue una ripida caduta. Questo comportamento
dipende dal fatto che i fotoni hanno una energia che è propor-
zionale alla frequenza e quest’ultima è inversamente proporzio-
nale alla lunghezza d’onda. L’energia del fotone è pari a:
E= h 𝝂 con h = costante di Planck e 𝜈 = frequenza della radia-
zione. Dato che ν λ = C, velocità della luce nel vuoto (costante),
vuol dire che la frequenza è inversamente proporzionale a λ,
λcut-off λ E=hc/λ

Man mano che aumenta la lunghezza d’onda la frequenza ν diventa più piccola e l’energia del fotone
diminuisce. Il punto limite oltre al quale la sensibilità si annulla dipende dal fatto che il fotone non ha
più l’energia sufficiente a produrre la ionizzazione. La rampa di quasi proporzionalità di S con la
lunghezza d’onda è giustificata dal fatto che man mano che λ aumenta, l’energia del singolo fotone
diminuisce, quindi a parità di potenza, aumenta il numero di fotoni da cui dipende l’effetto elettrico,
essendo S la sensibilità alla potenza incidente con un numero di fotoni più alto a pari potenza si ha
un segnale in uscita più elevato.
Il punto critico di questi sensori è il punto in cui si trova la lunghezza d’onda di cut-off. Questo effetto
vale purtroppo anche sul silicio per il quale la λcut-off  1,3 μm.
SILICIO: λcut-off  1,3 μm
Questo ci spiega per quale motivo non possiamo utilizzare un sensore in silicio (quelli delle camere
per il visibile) per fare misure per radiazione se voglio misurare temperature di 300 K (T ambiente).
Infatti abbiamo che:
λ ≅ ⇒ λ = ≅ 10 ≫ 1,3 siamo quindi con l’emissione termica ben oltre il cut-off
Un sensore di questo tipo può essere invece utilizzato per:
3000
T= ≅ 2300 K
1,3
Anche a temperature significativamente inferiori, fino a sotto i 700K vista l’elevata sensibilità questi
sensori funzionano discretamente sfruttando la “coda di sinistra” della curva di Planck

I valori di λcut-off per i alcuni materiali utilizzati per sensori:

1,3 μm Si (Silicio)

4 µm PbSe (Seleniuro di Piombo)


(5 μm a 200K) ANCHE NON RAFFREDDATI

3,5 μm PbS (Solfuro di Piombo)

5 μm InSb (Antimoniuro di Indio)


RAFFREDDATO
14 μm HgCdTe (Mercurio Cadmio Tellurio)

I primi quattro sensori non arrivano fino a 10 μm, ma offrono il vantaggio che funzionano a T am-
biente. Un materiale che offre un elevato valore di λcut-off, (realizzati anche oltre 20 μm di cut-off), è
l’HgCdTe ma richiede di essere raffreddato. In genere opera a T ≈ 77K (temperatura di ebollizione
dell’Azoto). Il suo costo, proprio per i dispositivi di supporto di cui necessita, è superiore a quello
delle altre soluzioni, un ordine di grandezza in più e siamo a circa 70000-80000 euro. Sul fronte del
rumore, però, abbiamo il vantaggio di un ordine di grandezza in meno rispetto ai sistemi a sensori
termici e scendiamo con il NEΔT a 10-3 °C. L’altro parametro è la prontezza, in pratica la loro banda

129
passante. Questi sostanzialmente non hanno banda passante limitata perché per l’effetto foto-elet-
trico che in questo caso viene sfruttato è praticamente immediato, quindi non ho una “dinamica di
riscaldamento” dei cristalli. Quando arriva il fotone, questo determina la ionizzazione e la risposta
immediata in termini di caratteristica elettrica.

Con gli stessi materiali visti prima, si realizzano anche delle giunzioni P-N cioè dei diodi come per le
celle fotovoltaiche utilizzate per produzione elettrica che sono degli:

ELEMENTI A FOTO-DIODO (IN MODALITÀ FOTOVOILTAICA O FOTOCONDUTTIVA)

W
DIODO

P N

giunzione fatta con i materiali visti prima


I E

Vediamo come funzionano gli elementi fotovoltaici. Abbiamo ancora dei semiconduttori che appar-
tengono alla lista di quelli prima elencati. Un diodo ha una resistenza diversa a seconda del verso
della corrente. E’ un oggetto che ha un’alta conducibilità della corrente in una direzione e una bassa
conducibilità in direzione opposta. Se diagrammiamo l’andamento della corrente in funzione della
tensione, se avessimo un resistore normale avremmo una bella retta con una pendenza pari all’in-
verso della resistenza (I=E/R). Nel nostro caso, invece, abbiamo una zona con una pendenza molto
alta, quindi una conduttanza (1/R) molto alta che corrisponde ad una resistenza bassa, e una zona
con una pendenza molto bassa, quasi nulla, e quindi una conduttanza bassa, cioè ho una R elevata
quando cerco di invertire il senso della corrente (da I > 0 a I < 0).

I
pendenza alta
curva DIODO
non irradiato
curve DIODO irradiato con diverse potenze

all’aumentare della W incidente

pendenza bassa, quasi nulla. Ho una elevata resistenza quando cerco di invertire il senso della corrente

Questo è quello che avviene quando il DIODO non è soggetto a nessuna fonte di radiazione. Se
faccio arrivare sulla giunzione, fatta però con uno dei materiali prima elencati, una radiazione, quello
che succede è ancora un effetto di ionizzazione. Il materiale che riesce a farsi ionizzare per effetto
di un fotone, genera delle cariche e fa cambiare la curva rossa facendola grossomodo traslare.
Come funzionano, per esempio, le celle che si usano per la produzione di energia elettrica? Ho
bisogno che ci sia una corrente e una tensione, quindi mi metto in una delle zone del grafico in cui
ho corrente e tensione tale per cui E x I <0, cioè ho una potenza generata anziché assorbita. Quindi

130
le celle fotovoltaiche sfruttano il quarto quadrante e man mano che aumento la potenza incidente la
curva si sposta sempre di più nel quadrante stesso aumentando la potenza generata.
Noi che cerchiamo un sensore a infrarosso siamo interessati a tirare fuori potenza, e ci sono due
modalità che utilizziamo:
- una è ancora la modalità FOTOCONDUTTIVA. Andiamo a vedere qual è la corrente mantenendo
la tensione prossima a zero (o E<0, cioè in “polarizzazione inversa” del DIODO su un misuratore di
corrente)
- oppure uso la modalità FOTOVOLTAICA. Misuro la tensione mantenendo la corrente prossima a
zero, cioè metto anziché un amperometro un voltmetro.
Non c’è grande differenza tra queste due modalità di utilizzo. In entrambi i casi vedremo un segnale
che aumenta in modo proporzionale con l’aumento della potenza incidente, una corrente oppure una
tensione.
Dal punto di vista risposta in funzione della lunghezze d’onda siamo in una situazione del tutto ana-
loga a quella dei sensori fotoresistivi nel grafico (S;λ). Abbiamo una sensibilità che aumenta all’au-
mentare di λ fino ad una certa lunghezza d’onda dopo la quale non c’è più l’effetto fotoelettrico.

Il VANTAGGIO di questi sensori rispetto agli altri è quello di non avere una vera limitazione in
frequenza, quindi posso operare con frequenze di acquisizione alte “a piacere” (ovviamente avrò
sempre l’effetto che più la frequenza è alta più aumenta il rumore equivalente, perché “medio su un
tempo più piccolo”. Però utilizzando i sensori raffreddati parto già con un livello di rumore che è un
ordine, o anche due ordini di grandezza più basso rispetto ai sensori termici).

I non raffreddati possono avere anche costi relativamente bassi, ma sempre più elevati dei micro-
bolometri. Sono abbastanza diffuse le camere all’indio-antimonio (InSb) o indio-arsenico (InAs).
L’unico vantaggio che hanno rispetto alle termiche è la velocità, quindi si usano in quelle applicazioni
in cui serve una frequenza di acquisizione superiore a quella consentita dalle microbolometriche.
Se devo fare misure di temperatura, il fatto che mi fermo a 3,2 μm fa sì che la sensibilità alla fine è
comparabile, e anche il rumore diventa comparabile, con quello delle camere termiche. Quindi per
misure di temperatura se non ho bisogno di velocità sicuramente mi conviene utilizzare le camere
con sensori termici, se invece ho bisogno di velocità una di quelle viste è l’altra opzione.

131
I punti essenziali della lezione precedente:

SENSORI PER INFRAROSSO


Abbiamo visto:
a) SENSORI TERMICI (BOLOMETRICI)
Vediamone le caratteristiche più importanti.
RANGE SPETTRALE:
λ = 0 ÷ +∞ μm TEORICO
λ = 5 ÷ 40 μm SENSORI PUNTUALI (applicazioni speciali)
λ = 8 ÷ 14 μm SENSORI A MATRICE (Immagini termiche). Molto frequente!

DINAMICA “LENTA”
I sensori termici a matrice sono sensori del I ORDINE con una costante di tempo τ pari a:
τ ≈ 10 ÷ 50 ms (tipicamente più vicina a 50, il 10 è il limite tecnologico attuale)
Quindi sono sensori non indicati per misure veloci.

a) SENSORI FOTONICI
FOTODIODI
Questi sensori si dividono in due categorie:
FOTOCONDUTTORI

I diodi sono costituiti da giunzione di due semiconduttori, mentre i fotoconduttori da uno solo. I
materiali che costituiscono i fotoconduttori sono anche gli elementi che costituiscono la giunzione
del fotodiodo. Abbiamo parlato di PbSe, piuttosto che di PbS e così via e anche di Silicio per le
lunghezze d’onda più corte.
Hanno poi caratteristiche abbastanza comuni come il λ < λcut-off con quest’ultima caratteristica per
ciascuno dei materiali utilizzati. La λcut-off è influenzata dalla temperatura:
PbSe λcut-off ≈ 5 μm (≈ 4.5 μm a T ambiente, oltre 5µm se raffreddato a 200 K)
PbS λcut-off ≈ 3,5 μm
InSb λcut-off ≈ 5 μm
Si λcut-off ≈ 1,1 ÷ 1,3 μm
Il silicio lo utilizziamo come sensore a infrarosso dato che l’infrarosso è compreso tra 0,7 e 5 μm,
però abbiamo anche detto che è poco adatto a fare misure a temperatura ambiente (300 K) dove
sappiamo che il picco di emissione sarebbe a 10 μm Tutti i materiali indicati, se li guardiamo
bene, non sono ben centrati sulle lunghezze d’onda che ci interessano operando a temperatura
ambiente, dato che non c’è nessuno che arriva a 10 μm. Quindi, a temperatura ambiente, pren-
dono solo un pezzo del campo spettrale dove c’è emissione forte.
Il solo materiale che arriva a coprire il campo di lunghezze d’onda voluto è:
HgCdTe λcut-off ≈ 14 μm (raffreddato a 70 ÷ 80 K)
Ha quale controindicazione quella di dover essere raffreddato e quindi di dover disporre di un
sistema attivo di raffreddamento.
Tutti questi sensori sono caratterizzati da un rumore che viene indicato con NEΔT. Per questi
sensori siamo nell’ordine di 10-3 K (o anche °C, indifferente essendo un intervallo), mentre per i
sensori termici siamo in un ordine di grandezza sopra e quindi 10-2 K. Non c’è un valore ben
definito anche perché la temperatura equivalente del rumore dipende dalla frequenza con cui
stiamo facendo l’osservazione. Se osserviamo per un tempo lungo il rumore può essere ridotto.
Da questo punto di vista i sensori termici sono avvantaggiati dato che ci costringono a fare un’os-
servazione, affinché sia significativa, dell’ordine più o meno della costante di tempo. Dobbiamo
quindi mediare per un tempo che è dell’ordine della costante di tempo. Non ci consentono elevate
frequenze di campionamento quindi non si può nemmeno a fare una comparazione a pari fre-
quenza con gli altri sensori.
132
Graficamente quest’ultima situazione, somma di una retta (a + b) con una quantità costante, si tra-
duce nel traslare la retta fino al punto A. La rappresentazione asintotica, con gli asintoti a destra e
sinistra del punto ω=1/τ è indicata dalle due rette rosse.
Il punto ω=1/τ è chiamato il PUNTO DI ROTTURA
Nel punto ω=1/τ il diagramma corretto della nostra curva passa, fino ad ora abbiamo solo disegnato
i suoi asintoti, nel punto che si trova a 3 dB più in basso di 20LogS, cioè nel punto “B”. La funzione
corretta sarà sempre decrescente (diminuisce all’aumentare di ω) e tenderà ai due asintoti in prece-
denza definiti, quindi avrà un andamento qualitativo tipo quello tracciato in verde.
Abbiamo anche un’indicazione su quant’è la massima distanza tra il diagramma asintotico (rette
rosse) e il diagramma corretto (curva verde), infatti la massima deviazione l’abbiamo proprio nel
punto 1/τ, quindi se approssimo la funzione di trasferimento armonica con la spezzata al massimo
faccio un errore pari a 3 dB e lo faccio nel Punto di Rottura.
La comodità del diagramma di Bode è quella di vedere a colpo d’occhio la banda passante. Infatti
ricordando che la banda passante è definita come il campo di frequenze in cui valgono le seguenti
condizioni :
IT(ω)I = S ± Tolleranza
T(ω) = S
Iφ(T(ω))I = 0, K𝝿, αω (± Tolleranza)

una volta fissata una tolleranza per IT(ω)I, che viene espressa nel diagramma in decibel, poniamola
per esempio pari a 3 dB, considerando che la tolleranza è ± prenderò un + 3 dB e un – 3 dB rispetto
alla 20 LogS e andrò a trovare le intersezioni con la mia T(ω). Il riferimento 20 LogS + 3 dB non
interseca mai, mentre la 20 LogS – 3 dB interseca la T(ω) nel punto ω=1/τ. La banda passante a –
3 dB è ω < 1/τ. Stessa procedura se dovessi fissare una tolleranza di ± 1 dB o ± 2 dB.
Il diagramma di Bode viene spesso dato insieme agli strumenti perché consente di identifi-
care velocemente la banda passante e quindi di verificare se lo strumento è idoneo ad effet-
tuare le nostre misure dinamiche ipotizzando di conoscere la banda del segnale.
Dal diagramma di Bode del modulo di T(ω) dello strumento del 1 ordine si vede che che questo
strumento può funzionare come filtro anti-Aliasing, dato che da 1/τ in poi inizia ad attenuare gli in-
gressi in maniera sempre più importante all’aumentare di ω. Se volessimo un’attenuazione di un
fattore 1000 utilizzando il diagramma asintotico, dato che l’abbassamento è di 20 dB per ogni de-
cade, quindi una decade ha un fattore 10, un fattore 1000 corrisponde a tre decadi, di conseguenza
per avere un fattore di attenuazione pari a 1000 devo andare avanti di tre decadi dal punto 1/τ, cioè
dal Punto di Rottura, quindi vado a 1000 volte 1/τ che mi da il punto ad attenuazione a 60 dB.
Ovviamente per avere un’informazione completa non mi basta il solo modulo, ma devo conoscere
anche la fase. La fase nel diagramma di Bode conserva la scala logaritmica delle ascisse, mentre
quella delle ordinate resta lineare.

φ(ω)

per convenzione
0,1/τ 10/τ

A 1/τ Logω
- 𝝿/4

- 𝝿/2
B

( )
Ricordiamo che φ(ω) = fase di T(ω) = - arctg ( )
con T(ω) =

93
Questi valori non ci aiutano molto dato che sappiamo esattamente la temperatura in quei punti spe-
cifici, ma se ci troviamo ad una temperatura un poco più alta di quella, per esempio, del punto triplo
dell’H2 non riusciremo a misurarla. Dobbiamo disporre di uno strumento che ci consenta di definire
le temperature tra i punti di appoggio sopra riportati. Quello che si fa è usare un termometro a resi-
stenza di platino.

TERMOMETRO A RESISTENZA DI PLATINO


La relazione ideale per i termometri al platino (resistenza in funzione della temperatura) è di tipo
lineare:
R = R0 [1 + α(t – t0)] CASO IDEALE
Essendo questa una retta, dei punti di appoggio sopra indicati ne basterebbero solo due per definirla.
Purtroppo questa è solo una idealizzazione della relazione dato che nel caso reale abbiamo una
relazione di riferimento che è molto più complessa e del tipo:
R = R0 f(T, Ai) cioè dipendente da T e da 14 coefficienti Ai
Questa relazione passa sopra tutti i punti di appoggio. Ogni termometro è leggermente differente
dall’altro, quindi la scala di temperatura è definita con la relazione di riferimento più altre equazioni
che ci danno le correzioni a seconda di quanto è distante la resistenza misurata sul termometro da
quella prevista dalla relazione sopra riportata.
La relazione inversa è del tipo:
T = H(R, R0, Bi) con 15 differenti coefficienti Bi
Utilizzando questa relazione, misurando la resistenza R e conoscendo la R0 che è la resistenza alla
temperatura di riferimento, possiamo determinarci la temperatura in un punto qualsiasi tra 13,8 e
1235 K. Questa procedura pratica per trovare tutte le temperature si chiama:
ITS’90 International Temperature Scale (il 90 fa riferimento all’anno di emissione della norma)
Di tutta questa procedura quello che a noi interessa è che se dobbiamo tarare un termometro il
riferimento per noi sarà uno di quei termometri al platino che è stato a sua volta tarato sopra ai punti
di riferimento della scala e che quindi è lo strumento di riferimento per costruire la scala pratica di
temperatura. Sono dei termometri che si chiamano SPRT (Standard Platinum Resistance Ther-
mometer). Questi sono i termometri di riferimento utilizzati dai centri di taratura come i SIT (Servizio
Italiano di Taratura). Con i termometri SPRT abbiamo deviazioni inferiori ai mK tra l’indicazione del
termometro e quelli che erano i punti di riferimento su cui sono stati tarati. Questi possono essere
anche acquistati se vogliamo fare misure con la massima accuratezza possibile.

Perché un termometro SPRT costa fino a 6000 euro? Vediamo cosa hanno di speciale. Di fatto non
ha nulla di particolare in termini di giustificazione di costo per quanto riguarda i materiali utilizzati
(pochi milligrammi di platino, materiale ceramico e dell’ossido di magnesio) e il processo produttivo.
In pratica è un filamento di platino avvolto a spirale affinché non sia soggetto a vincoli quando si
deforma a causa della temperatura (quindi delle azioni meccaniche operate dal supporto quando il
filo si deforma che operano delle variazioni di resistenza allontanando il platino dal suo comporta-
mento ideale per cui è stata ottenuta la relazione per l’SPRT).
Il filamento è posizionato all’interno di una protezione tipicamente
in materiale ceramico, una sorta di cartuccia del diametro di 4-5
mm da cui escono i due terminali grazie ai quali possiamo andare
a misurare la resistenza elettrica del filamento. All’interno della car-
tuccia è presente dell’ossido di magnesio che svolge una funzione
di sostegno per il filamento. Questo materiale deve risultare elettri-
camente isolante e termicamente abbastanza conduttivo (proprietà
legate tra loro, quindi non si può avere un ottimo conduttore termico
che non sia anche un conduttore elettrico - l’ossido di magnesio è
un buon compromesso).
Il costo elevato di un termometro SPRT non è quindi legato ai
materiali utilizzati ma al laborioso processo di taratura.

135
Nella pratica industriale i termometri SPRT non vengono mai utilizzati, ma lo sono in generale quelli
al platino tarati rispetto a termometri SPRT. Sono termometri concettualmente identici a quello ora
descritto ma non realizzati con la stessa cura.
TERMOMETRI AL PLATINO DI USO INDUSTRIALE (PRT Platinum Resistance Thermometer)
Sono oggetto di una norma che è la EN 60751. Il vantaggio di avere uno strumento codificato da
una norma è che tutti i costruttori che realizzano un termometro in accordo con una norma stessa,
forniscono la medesima scheda tecnica che corrisponde alla norma.
La scheda tecnica ci da una relazione di taratura (funzione ingresso-uscita):
R = R0 (1 + At + Bt2) se t: 0 ÷ 850 °C con R0 resistenza per t = 0°C (273,15 K)
Ci siamo ridotti, rispetto al caso degli SPRT, a un trinomio di secondo grado con due soli coefficienti
A e B. Questa relazione è molto più semplificata rispetto a quella degli SPRT perché per questi si
richiedeva uno scostamento massimo dai punti di taratura (14 punti di appoggio) di pochi mK, qui
consentiamo uno scostamento molto più ampio (deviazione minima di 150 mK, cioè 0,15°C). Ci
viene altresì fornita l’espressione dell’errore massimo che è in due formulazioni:
CLASSE A ε = 0,15 + 0,002 |t|
εMax
CLASSE B ε = 0,3 + 0,005 |t| (errore circa doppio rispetto alla CLASSE A)

NOTA: Questa norma ipotizza che le temperature siano espresse in gradi Celsius. Si parla di grado
Celsius e non di grado Centigrado dato che la IST’90 ma anche il SI lo vietano, essendo la scala
che rappresenta l’intervallo tra e il punto di liquefazione e di ebollizione dell’acqua non divisa in 100
parti (scala centigrada), ma costruita dalla scala termodinamica togliendo 273,15.
R = R0 [1 + At + Bt2 + C(t-100)t3] se t: - 200 ÷ 0 °C (quindi per t < 0)
La differenza tra i termometri di CLASSE A e B è ovviamente il prezzo, oltre all’accuratezza. In
genere si tratta dei medesimi termometri ma suddivisi in CLASSE A e B a seconda della selezione
qualitativa che subiscono dopo il processo produttivo (suddivisione tra quelli che si comportano me-
glio rispetto a quelli che si comportano peggio). A livello costruttivo sono come gli SPRT (piccole
dimensioni, diametro 1 mm e lunghezza 2 mm, contenitore in ceramica e filamento all’interno).

Se vogliamo usare il termometro tra t = - 50 ÷ 850 °C, questo si realizza di solito


con un'altra modalità. Il supporto ceramico diventa una piastrina sulla quale si depo-
H
sita, o meglio si spruzza, un percorso in platino. Il costo produttivo è di circa 2 euro
rispetto ai 10 di quelli prima descritti. Il limite di questi è che non si trovano per t < -
50°C perché a basse t il supporto si contrae in modo molto diverso rispetto al platino
e questo determina un forzamento di tipo meccanico sul platino stesso facendo ve-
L nire meno la validità della relazione prima scritta anche in CLASSE B.
Come dimensioni possiamo avere un L = 1,5 mm e un H = 2 mm.
Questi termometri di per sé permettono una accuratezza migliore dei 2/10 di grado. Gli 0,2 °C sono
quelli garantiti usando la relazione con i riferimenti dettati dalla norma e quindi con i coefficienti da
essa forniti. Se tarassi il mio termometro per trovare dei nuovi coefficienti A, B e C riuscire ad avere
un comportamento migliore scendendo sicuramente a 1/100 di grado.
Tutti i sistemi di lettura dei termometri al platino hanno implementate le due relazioni prima scritte al
loro interno. Quando colleghiamo il termometro, queste misurano la resistenza e ci danno diretta-
mente una lettura tenendo conto delle due relazioni. Tarando il termometro, si dovranno fare le mi-
sure della resistenza e via software convertire questi dati in temperatura.
C’è un coefficiente che ci dice grossomodo qual è la sensibilità del termometro. Questo può essere
espresso in percentuale (moltiplicato per 100) o meno:
R − R 0,385
α = = = 0.385%
R (x100) (100)
con R100 = resistenza a 100 °C, ed è chiamato COEFFICIENTE α. Può essere quindi espresso come
0,385 oppure α=0,00385 e in questo caso è il COEFFICIENTE DI RESISTIVITÀ, quello da inserire
nella formula R=R0(1 + αt).
136
Questo coefficiente serve a distinguere due standard diversi. Noi abbiamo visto lo standard ISO
(IEC; EN), ma vi è anche lo standard ANSI relativo al mondo americano, che utilizza un platino di
purezza maggiore che influenza il coefficiente α. Quindi la norma europea ha α=0,385, la norma
ANSI da un α=0,392. Si deve fare attenzione perché può capitare di collegare una sonda ANSI su
un lettore che è impostato secondo la norma EN o IEC e quindi i coefficienti A, B e C sono diversi e
quindi possiamo incappare in errori di lettura abbastanza rilevanti.
IMPORTANTE: controllare sempre che lo standard del lettore sia lo stesso di quello della sonda
collegata
Dalla relazione prima scritta abbiamo che la R100 per t = 100 °C è pari a :
0,385
R = R 1+ 100 = 1,385 R
100
Passando da 0 a 100 °C la resistenza varia del 38,5%, quindi la R100 aumenta di circa il 40% rispetto
alla R a 0°C, cioè alla R0. Se fosse un termometro americano la variazione sarebbe del 39,2%
Se misuravo 100 Ω a 0 °C, quello che devo misurare come variazione a 100 °C sono circa 40 Ω,
cioè circa il 40%. Ci sono strumenti che danno variazioni di resistenza che sono nell’ordine di qual-
che punto per 1000 della resistenza iniziale, quindi non facili da evidenziare.
DESIGNAZIONE SECONDO LA NORMA EN 60751
E’ fatta da una serie di simboli:
Pt, R0, 0,385, 3W, CLASSE A
Pt indica la presenza di platino (termometro al platino)
R0 la resistenza corrispondente alla temperatura di t = 0°C
0,385 o 385 che corrisponde al fattore α
3W indica 3 fili di collegamento (possiamo avere sistemi anche a 2 e 4 fili: 2W e 4W)
CLASSE indica la classe di precisione
Esempio di sigla completa: Pt, 100, 385, 2W, CLASSE B

L’incertezza tipo sarà, avendo εMax, = "#


!

Nella designazione la presenza del numero di fili indica con quanti fili si connette il circuito di lettura,
quello che consente di leggere il valore della resistenza, al termometro
Vediamo tutti i casi che si possono incontrare.
CIRCUITO DI LETTURA
Soluzione a 2 FILI
circuito di lettura

I
RTD è l’acronimo, oltre al PRT, con cui
vengono a volte indicati i termometri al pla-
tino e sta per Resistance Themperature
I V Device.
Il circuito che ci consente di leggere la re-
RTD sistenza del termometro è costituito da un
generatore di corrente e da un voltmetro:
%
$ =
&
Questo circuito è detto a 2 fili perché è pro-
prio tramite due fili che connettiamo il cir-
cuito di lettura al nostro termometro.
2 fili

137
Il problema legato a questo circuito è rappresentato dal fatto che se il circuito di lettura è molto
distante dal termometro, dobbiamo tener conto anche della resistenza elettrica dei due fili. Quello
che andremo allora a misurare non sarà più R, ma R + 2 Rf.
%
Rf '$ ( + $ =
&
Dato che noi abbiamo la temperatura che è
solo funzione di R dovremmo togliere Rf. La
I V cosa più semplice che potremmo fare è quella
di misurare Rf la prima volta che faccio l’im-
RTD pianto e fare poi le dovute correzioni in ma-
niera sistematica.
Il problema è che anche il rame, come il pla-
tino, cambia la sua resistività in funzione della
temperatura. Il rame è anche caratterizzato da
Rf un coefficiente α maggiore di quello del pla-
tino. Devo allora trovare un circuito che non
sia influenzato dalla presenza dei fili.
CURIOSITA’: il rame non viene utilizzato per costruire questi termometri, dato che il platino ha una
risposta più lineare rispetto al rame.

Soluzione a 4 FILI Il problema è che nello schema precedente mi-


suro la caduta di tensione ai capi del generatore
Rf di corrente e quindi la Rf influenza la caduta di
tensione. Se misurassi la caduta di tensione di-
Rf rettamente ai capi del termometro, la caduta di
tensione sui fili non sarebbe più letta dal voltme-
I V tro. La soluzione più semplice è quella di aggiun-
gere altri due fili (frecce rosse) e andare a leg-
RTD gere la caduta di tensione direttamente ai capi
dell’RTD. Anche i due nuovi fili hanno una Rf che
risulta in serie con il voltmetro, ma questa non
Rf genera una caduta di tensione dato il voltmetro è
in pratica un circuito aperto avendo una impe-
Rf Im denza che può variare da 1 MΩ fino a 1 GΩ. In
pratica su questi due fili non circola quasi cor-
4 fili Im ≈ 0 A (corrente di misura) rente.
Per il circuito a 4 fili avremo allora:
%
$ =
&
Cioè eliminiamo in modo perfetto l’influenza della resistenza dei fili di collegamento a prescindere
dalla loro lunghezza. Se mettessi fili con resistenza abbastanza alta, sul voltmetro non mi impatta in
alcun modo, ma avrei la necessità di aumentare la tensione che deve generare il generatore di
corrente. Di fatto non si va mai oltre i 4 o 5 Ω per la Rf anche con cavi molto lunghi. La corrente del
generatore assumerà valori, se abbiamo una Pt100 (indica la termoresistenza al platino) e quindi R0
circa 100 Ω, di circa 1 mA (2 mA in casi particolari). Se facessimo passare una corrente di 1 A la
potenza dissipata dal termometro sarà pari a P = RI2 = 100 W, quindi decisamente alta considerando
le piccole dimensioni del termometro che diventerebbe lui stesso una sorgente di calore. Avendo
una temperatura molto più alta dell’ambiente, il termometro andrebbe a misurare la sua stessa tem-
peratura. Con 1 mA il termometro deve dissipare una potenza di circa 10-4 W, quindi frazioni di mW.

138
Ci mancano ancora i parametri 𝜏 e 𝜏 . Con il sistema del Ι ORDINE la cosa era stata abbastanza
facile, ma qui la situazione è sicuramente più complessa. Anche riscrivendo l’equazione sotto questa
forma:
𝑡 𝑡
y−y1 𝜏1 −𝜏 𝜏2 −𝜏
Z=
y0 −y1
= 𝜏1−𝜏2
𝑒 1 − 𝜏1−𝜏2
𝑒 2

Facendone il logaritmo non riusciamo a risolvere granché perché resta il logaritmo di una somma
che contiene le costanti di tempo, però possiamo pensare di vedere cosa succede se consideriamo
l’asintoto per t ⟶ ∞. Se 𝜏 > 𝜏 , quindi 𝜏 supponiamo che sia la costante di tempo più grande,
coerente con come l’abbiamo in precedenza definita, quando t ⟶ ∞ si può vedere che andrà più
velocemente a zero il secondo termine della somma dell’equazione sopra scritta, quindi.

lim Z ⇒ e = ⇒ ln = − + ln

y y

tg = 0, situazione differente rispetto al caso del Ι ORDINE

IMPORTANTE: La pendenza nulla all’inizio del gradino ci fa subito capire che siamo di fronte ad
uno strumento del ΙI ORDINE. Lo strumento del Ι ORDINE ha una discontinuità della derivata per
t=0 cosa che non si verifica per lo strumento del ΙI ORDINE
Vediamo i diagrammi logaritmici. Quello relativo allo strumento del Ι ORDINE era una retta che
partiva dall’origine e andava verso il basso. Per il ΙI ORDINE anche nel diagramma logaritmico ab-
biamo la derivata che parte orizzontale ed inoltre per t ⟶ ∞ la retta che ci resta è quella corrispon-
dente alla quantità − . Ne segue che:
ln
ln > 0 dato che 𝜏 > 𝜏 e quindi >1

𝜑 = 𝑎𝑟𝑐𝑡𝑔 − τ
1

97
effetto non di un cambio di temperatura ma perché ho aggiunto 1 Ω come resistenza dei fili. Vuol
dire che da una resistenza iniziale, per esempio di 100 Ω, sono passato a 101 Ω, quindi il ∆R:
R - R0 = 1 Ω lo faccio corrispondere alla * e quindi: R - R0 = R0 αt = 1 Ω quindi:

1 1Ω R9 R9
αt = = ⇒ in generale ⇒ t = =
R 100Ω R α R 0,00385

t è la temperatura equivalente all’aver introdotto un filo con resistenza Rf= 1 Ω. Questa è pari a:

se R0 = 100 Ω ⇒ ,:;<
≈ 2,5 °C
t=
se R0 = 1000 Ω ⇒ ≈ 0,25 °C
:,;<

Con una Pt100 se sbaglio la misura di resistenza perché i fili hanno una resistenza di 1 Ω (la ottengo
anche con pochi metri di cavo di sezione pari a 1 mm2), sbaglio la temperatura di 2,5 °C. Con una
Pt1000, a parità di fili utilizzati, questo errore scende a soli 0,25 °C che è grossomodo l’incertezza
della CLASSE A. Quindi su una Pt1000 anche con un errore sulla resistenza di 1 Ω che è abbastanza
significativo difficilmente commetto un errore, equivalente in temperatura, che sia significativo. Con
le Pt100 uso spesso le soluzioni a 3 o 4 fili, mentre con le Pt1000 basta anche la soluzione a 2 fili.
Solo in condizioni particolari, quindi per esempio fili molto lunghi, inizio a prendere in considerazione
la resistenza dei fili anche con le Pt1000.
Considerando che le classi di accuratezza sono identiche, il costo anche, se devo scegliere tra una
Pt100 e una Pt1000 prendo sicuramente quest’ultima che mi consente di effettuare la misura della
resistenza anche con la soluzione a 2 fili.
L’uso della Pt1000 al posto della Pt100 comporta il solo adeguamento della corrente nel circuito.
Dato che la resistenza cambia di un fattore 10, la corrente deve cambiare almeno di un fattore 3
dato che la potenza dissipata varrà un P=1000 I2. Questo per non incorrere, essendo le dimensioni
del termometro a resistenza sostanzialmente identiche, in problemi di surriscaldamento.

I punti essenziali della lezione precedente:


La cosa importante da ricordare è com’è definita la ITS’90. Nella sua sostanza la temperatura ter-
modinamica viene realizzata tramite un termometro a pressione di gas che risulta quindi il termome-
tro di riferimento. Questo ci serve per determinare i punti della tabella di taratura (i 14 punti di ap-
poggio) per i termometri che andremo ad utilizzare per realizzare la ITS’90.

ITS’90 TERMOMETRO A PRESSIONE DI GAS “PERFETTO” ⇒

⇒ DETERMINAZIONE DELLE TEMPERATURE DI TRANSIZIONE (punti di appoggio)

Da 13,8 a 1235 K ⇒ scala costruita con termometri a resistenza di platino

⇒ TARATURA SUI PUNTI DI TRANSIZIONE DI SPRT (termometri a resistenza di platino)

Nella sigla SPRT la S ci indica che è un termometro particolare cioè un termometro Standard di
riferimento le cui caratteristiche particolari si riducono alla sola costruzione particolarmente accurata
anche se concettualmente è sempre un termometro a resistenza di platino.
Per avere un’accuratezza rispetto ai punti appoggio nell’ordine dei mK (milli Kelvin)si usa una
CURVA DI TARATURA “COMPLESSA” perché funzione di 14 costanti (Ai)
R = R0 f(T, Ai)
Le 14 costanti sono date dalla norma che definisce l’ITS 90 e vanno anche leggermente adattate
perché dobbiamo tarare ogni singolo termometro sui punti di appoggio. Abbiamo quindi una fun-

140
zione, complessa quanto si vuole, che ci permette di determinare la temperatura per un valore qual-
siasi e non solo su quella griglia di punti che abbiamo determinato tramite il termometro a gas per-
fetto. Questo termometro ha l’unico inconveniente che il suo utilizzo è troppo complesso per usarlo
anche solo per tarare gli altri termometri. Si usa quello al platino, l’SPRT, perché nei normali labora-
tori di taratura non ci possiamo permettere l’uso di un termometro a pressione di gas perfetto. Nell’in-
tervello tra 13,8 e 1235 K abbiamo detto che operiamo con un termometro a resistenza di platino,
vediamo ora come si opera prima dei 13,8 e dopo i 1235 K. Al di sotto dei 13,8 K lasciamo ancora il
termometro a gas perfetto, termometro a pressione che utilizza l’Elio come gas. Se vogliamo farci
tarare un termometro per utilizzarlo al di sotto dei 13,8 K (misure criogeniche accurate) il laboratorio
di taratura deve usare un termometro a pressione di gas ed è per questo che i costi inevitabilmente
salgono. Al di sopra dei 1235 K il platino non può essere più utilizzato dato che a quelle temperature
tende ad ossidarsi molto velocemente cambiando di conseguenza la resistività, quindi si utilizza un
pirometro.
Tutto questo è solo per la costruzione della scala di temperature. A noi ovviamente interessa la:

MISURA DELLA TEMPERATURA IN AMBITO INDUSTRIALE (EN 60751)


Abbiamo visto i TERMOMETRI AL Pt per uso industriale che sono codificati dalla norma EN 60751
e sono caratterizzati da:
- R0 = resistenza elettrica a 0°C
A (quella più accurata)
- CLASSE DI PRECISIONE
B (incertezza circa doppia rispetto alla classe A)

- α = 0,385 (per avere la conformità alla norma EN 60751. Va in contrapposizione allo 0,392 della
norma americana ANSI che utilizza termometri con un platino più puro)

ESEMPIO DI DESIGNAZIONE
Pt, 100, 0,385, 3W, CLASSE A
(lo 0,385 identifica la conformità allo standard EN 60751, dato che anche l’ANSI usa lo stesso sim-
bolismo per la designazione e prevede le due CLASSI A e B)

CIRCUITO DI MISURA
Per misurare bene la resistenza non dobbiamo essere influenzati dalla resistenza dei fili. Abbiamo
visto il circuito a 4 fili che ci permette di essere totalmente immuni rispetto alla resistenza dei fili. Il
circuito a 3 fili è quasi equivalente con l’ipotesi che i tre fili abbiano tutti la stessa resistenza, ma
facendo una doppia misurazione l’incertezza è più alta rispetto al caso a 4 fili. Quella a 2 fili è la
soluzione più semplice.
@A
ATTENZIONE: l’effetto della resistenza dei fili è proporzionale a
@B
Con la variazione della resistenza iniziale R0 di 1 Ω (Rf) per la presenza dei fili, abbiamo visto che
l’errore che commettiamo sulla temperatura è pari a :
- per una Pt100: errore ≈ 2,5 °C
- per una Pt1000: errore ≈ 0,25 °C

CONCLUSIONE: Mi devo preoccupare molto e quindi utilizzare un circuito a 4 fili se ho delle Pt100,
posso utilizzare un circuito a 2 fili quando ho le Pt1000 anche se le resistenze dei fili sono significa-
tive.

141
TERMISTORI

Se usiamo dei metalli la resistenza rispetto alla temperatura ha un comportamento abbastanza li-
neare. Per il platino avevamo utilizzato la relazione semplificata:
R = R0 (1 + αt)
Il platino è il materiale più utilizzato proprio perché ha un comportamento più vicino a quello lineare,
cioè è il più lineare tra i metalli normalmente utilizzabili. La caratteristica negativa per il platino è che
ha un α abbastanza piccolo (quindi sensibilità bassa). Cambiando completamente classe di mate-
riale, cioè passando dai materiali metallici ai semiconduttori si riesce ad avere un equivalente del
coefficiente α che è di un ordine di grandezza, ma a volte anche più di un ordine di grandezza, più
elevato.
TERMOMETRI A RESISTENZA A SEMICONDUTTORE, TERMISTORI
Di buono hanno una sensibilità più alta, mentre l’aspetto negativo è che sono tutt’altro che lineari.
Infatti la relazione che lega la resistenza alla temperatura, in questo caso espressa in Kelvin, è:
E’CD
una+relazione di tipo esponenziale e questo è ri-
F
R = R e E alEBreciproco della Temperatura espressa in
spetto
Kelvin altrimenti avrei problemi a definire il punto a
R t = 0°C.
R0 è la resistenza a una temperatura di riferimento
che potrebbe essere 273,15, ma anche altre. Non
c’è uno standard che la impone non essendo questi
oggetti normati e quindi il tutto è lasciato alla discre-
R0 zione del suo costruttore.
Questi sistemi offrono alta sensibilità per avere
tanto segnale con piccole variazioni in in-
gresso. Questa è massima alle basse temperature
e per inciso è anche negativa (aumenta T, R dimi-
T0 T nuisce) quindi vengono classificati con l’acronimo
NTC cioè negative temperature coefficient.
Esistono anche i PTC, positive temperature coefficient ma sono meno comuni nell’impiego da ter-
mometri.
Noi sappiamo che la sensibilità è uguale alla derivata dell’uscita fatta rispetto all’ingresso, quindi:
, ,
H@ CDI+I F
S= = R e B β D− * F
HE E

Se la temperatura assoluta tende a zero, la S tende all’infinito: T ⟶ 0, S ⟶ ∞


Per le alte T invece, la sensibilità va diminuendo. In genere per questi strumenti si tende a definire
costante l’incertezza relativa.
Questi termometri non sono lineari e in qualche applicazione ci può anche andar bene però nella
maggior parte dei casi questi vengono utilizzati in un campo di temperatura abbastanza stretto tale
da renderne lineare il comportamento.
In questo campo ristretto posso ancora utilizzare
R delle comode relazioni lineari che legano tra loro R
e T. Queste relazioni mi permettono anche di va-
lutare molto velocemente l’incertezza di misura
nonché le eventuali propagazioni.
campo di utilizzo ristretto Come già anticipato parlando di sensori IR termici,
R0 ⇒ linearizzo i Termistori trovano impiego nell’elemento sensi-
bile dei sensori a infrarossi di tipo termico (micro-
bolometrici) dove l’uscita è rappresentata dalla va-
riazione di temperatura dell’elemento sensibile.
In questo caso, infatti, si vogliono valutare delle
T0 T piccolissime variazioni di temperatura con una
buona accuratezza e quindi con una sensibilità più
142
alta di quella che ci permette il platino.
Nei sensori IR termici la misura di temperatura è fatta tramite un’altra misura di temperatura su un
elemento sensibile.
Quindi si impiegano in campi stretti e questo vuol dire anche ottima accuratezza di misura (anche
milli-Kelvin, mK, restringendo adeguatamente il campo di misura).
La cosa positiva è che la sensibilità, anche nelle zone a più bassa sensibilità, è molto più alta rispetto
a quella delle Pt100. Per questo motivo CON I TERMISTORI NON VERRÀ’ MAI UTILIZZATO UN
CIRCUITO A 4 FILI. Ottengo un’accuratezza elevata già con i 2 fili.
I termistori ci danno una variazione di resistenza per 1°C che è tra le 10 e le 100 volte quella di una
Pt100. Una piccola variazione di resistenza dovuta ai cavi viene convertita dividendo per un termine
che è da 10 a 100 volte più grande di quello che è per il termometro al platino. Quindi se per il
termometro al platino Pt100 l’errore equivalente sulla temperatura per la presenza di un cavo di
resistenza pari a 1 Ω era di 2,5 °C, qui scendiamo a, come minimo, 0,2 °C ma molto facilmente
anche a 0,02 °C. E’ come avere un coefficiente α equivalente da 10 a 100 volte più grande nella:
R9
t =
R α
Il costo dei termistori è molto basso, andiamo sulla frazione di euro: 2 ÷ 5 centesimi di euro, motivo
per cui se ne fa un ampio utilizzo all’interno di molti dispositivi, dallo smartphone, notebook al settore
automobilistico (intervalli di temperature di 40 ÷ 100 K) ecc..
Non essendo normati non abbiamo un’unica curva di taratura, ma questa verrà data dai singoli co-
struttori. Questi in genere danno una curva di taratura con una incertezza piuttosto ampia. Quindi
danno un coefficiente β e una temperatura T0 con, per esempio, un errore di qualche °C. Questo
perché il costo del sensore è tenuto basso, dato che il costruttore non li tara singolarmente per
evidenziarne le caratteristiche ma produce un lotto di sensori, ne estrae un campione e vede come
sono dispersi i vari parametri di taratura. Se vogliamo una minore incertezza dobbiamo farci tarare
il sensore in un centro di taratura e i questo caso possiamo scendere anche a decimi di °C.
RANGE UTILIZZO: (-200 ÷ 1200 °C)
Sebbene il campo d’impiego più comune sia quello nell’intorno della temperatura ambiente, tipica-
mente da -50 a 150°C non c’è alcuna limitazione intrinseca alla estensione del campo di tempera-
tura. I costruttori (alcuni almeno) usano secondo la necessità materiali (sia per l’elemento sensibile
che per i collegamenti elettrici e l’isolamento) che consentono, di andare ad alte o basse temperature
e si trovano quindi sensori realizzati specificamente per campi criogenici o le alte temperature.
TERMOMETRI A CIRCUITO INTEGRATO (esempio: AD590)
assomigliano, come comportamento, a quelli prima visti e si basano sul fatto che ci sono molti com-
ponenti elettronici (i transistor in particolare) sensibili alla temperatura. Sono costruiti dagli stessi
produttori di componenti elettronici e sono in pratica dei generatori di corrente, dei circuiti integrati
che producono una corrente proporzionale alla di temperatura. Il loro comportamento è di questo
tipo:

I
AD590

E0

T (°C)

L’AD590 è uno dei tanti componenti che si possono reperire in commercio ha ad esempio una sen-
sibilità di 1µA/K. Uno dei principali vantaggi offerti da questi termometri è che la corrente erogata è
solo funzione della temperatura e non di E0, la quale potrà variare senza effetti entro certi limiti,

143
y(t) = e C cos ω √1 − h t + ∅
Questa relazione è importante perché ci serve per ottenere le caratteristiche dinamiche.
C e ∅ sono le due costanti per avere l’esatto andamento della risposta.
ω0 e h sono invece le caratteristiche dinamiche dello strumento, quelle equivalenti a 𝜏 e 𝜏 .

La soluzione completa è data dalla somma dell’integrale generale e di quello particolare (che corri-
sponde all’ingresso particolare che è x = x1), quindi:

y(t) = C e cos ω 1−h t+ ∅ + 𝑦

integrale generale integrale particolare

y(0) = y ( = S x ) ⇒ Ce∅

y′(0) = 0 (dato che arriviamo con ingresso costante, y’=0)

potremmo risolvere il sistema e trovare di conseguenza C e ∅. In realtà non ci interessa farlo perché
possiamo ottenere i due parametri che interessano, ω0 e h, anche lasciando C e ∅ non determinate.
Non valuteremo questi due parametri ma andremo a vedere la forma che assume la risposta, cioè
la y(t):

y A1 A2

Sx1 = y1 asintoto t⟶ ∞

Sx0 = y0 T

t1 t1+T

zona a derivate nulla

NOTA: Periodo costante ma con attenuazione dell’ampiezza nel tempo.

La “y” per t < 0, dato che arriviamo da un ingresso costante pari a x0, varrà “S x0”, cioè y0.
Asintoticamente, cioè quando è applicato per un tempo infinito il valore x1, siamo ancora in condizioni
statiche e quindi l’asintoto varrà Sx1 = y1.
Se il nostro fosse uno strumento di ORDINE ZERO, arrivati nel punto t=0 si passerebbe istantanea-
mente dal valore y0 a y1 per poi proseguire costante, creando quindi in t=0 una discontinuità.
Nel nostro caso invece, dalle condizioni iniziali sappiamo che la derivata prima per t=0 è nulla, quindi
ci troviamo in una condizione di tangenza orizzontale, cioè in assenza di discontinuità.
Per t > 0 ci troviamo in una condizione caratterizzata dalla somma di una costante (y1), che rappre-
senta un valore medio perché attorno abbiamo la presenza di un termine oscillante, cioè la funzione
“cos” che ha un valor medio nullo. La funzione nel suo complesso è quindi rappresentata da un
100
A noi non interessa l’effetto Seebek dato che lega una temperatura ad una tensione. Una tensione
elettrica la si misura molto facilmente e da questa lettura siamo in grado di risalire alla valore della
temperatura. Per fare questo, dato che nella relazione di Seebek c’è una differenza di temperatura,
dobbiamo bloccarne una, cioè avere una delle giunzioni a T nota. Tutti i termometri a termocoppia
hanno quella che viene chiamata la GIUNZIONE DI RIFERIMENTO, quindi una giunzione che viene
mantenuta a temperatura costante oppure che viene misurata da un altro termometro.
Ci sono alcune proprietà che consentono di costruire dei circuiti di misura senza avere effetti di
disturbo.

PROPRIETA’ DELLE TERMOCOPPIE


PROPRIETA’ 1)
T3 Il campo di temperatura al di fuori dei giunti non influenza
B l’effetto Seebek. Quindi:
T1 T2 LA TENSIONE V NON DIPENDE DA T3
A V
Questa proprietà è utile in presenza di cavi lunghi che pos-
sono, per esempio, essere esposti alla luce diretta del sole
ecc. e il cui riscaldamento può far modificare il valore della
resistenza. Qui l’effetto è nullo.

PROPRIETA’ 2)
Inserisco un terzo materiale (C) nel circuito della termocop-
C pia e ipotizzo che nelle due nuove giunzioni vi sia la stessa
T3 T3 temperatura T3. Quello che ottengo è che:
B B
T1 T2 LA TENSIONE V NON DIPENDE NE’ DA T3 NE’ DA C
A V Questa proprietà è utile dato che in tutti i circuiti devo avere
un voltmetro e questo non posso realizzarlo con gli stessi
materiali della termocoppia.

PROPRIETA’ 3)

B B B
T1 T2 T2 T3 T1 T3
A V1 A V2 A V3

V3 = V1 + V2
Questa non è una relazione rigorosamente vera, infatti se lo fosse la potremmo dimostrare analiti-
camente con la proprietà associativa della somma, ma rappresenta una approssimazione, quella
lineare. Ogni termocoppia, infatti, è caratterizzata da una propria curva di taratura che in prima ap-
prossimazione consideriamo lineare.
Questa relazione è molto importante perché noi abbiamo le tabelle di taratura sempre con il giunto
di riferimento a 0°C, punto comodo (bagno acqua-ghiaccio) per operare la taratura delle termocop-
pie. Ho quindi le curve (V-T) riferite al giunto di riferimento a 0°C, ma quando uso lo strumento questo
potrebbe tenere il giunto di riferimento a, per esempio, 20 °C. Grazie alla relazione sopra scritta,

145
posso utilizzare le curve riferite a 0°C anche se il mio giunto di riferimento è a 20 °C. Con lo schema
qui sotto riportato:

A A A
0 20 20 T3 0 T3
B V1 B V2 B V3

dove la T3 è la nostra temperatura incognita, posso scrivere che la V3 = V1 + V2 (V3=la tensione che
avrei osservato se il giunto di riferimento fosse stato a zero e non a 20°C), quindi somma della lettura
fatta sulla nostra termocoppia tra 20 e T3 (V2), più quella tabulata con giunto di riferimento a 0°C (V1,
che diventa nella nostra relazione una costante). Quello che osservo io è la V2, la V1 la trovo dalla
curva V-T, o relativi valori tabulati, della termocoppia, grazie alla V3 = V1 + V2, sempre con la stessa
curva di taratura o valori tabulati, ricavo la T3.

V
A-B
Curve di taratura riferite a 0°C
V3

con V3 = V1 + V2
V1

0 20 T3 T (°C)

PROPRIETA’ 4)
E’ una proprietà sfruttata molto poco, dato che difficilmente le termocoppie vengono costruite “a
caso”. A volte però, vengano assegnate molte curve di termocoppie riferite al platino. Se uno volesse
vedere quello che potrebbe succedere utilizzando una termocoppia con particolari materiali, con
questa proprietà è possibile farlo. Se abbiamo:

B C C
T1 T2 T1 T2 T1 T2
A V1 A V2 B V3

allora: V3 = V2 – V1
Se volessimo, per esempio, vedere il comportamento di una termocoppia ferro-rame, posso consi-
derare la termocoppia di ferro (C) – platino (A) (quindi ferro riferito al platino) e quella rame (B) –
platino (A) e scrivere poi quella ferro (C) – rame (B) come V3 = V2 – V1.

Questo tipo di proprietà è comunque poco significativa dato che le termocoppie sono elementi sot-
toposti a normativa, cioè ci sono le termocoppie normate secondo lo standard IEC-60584. .

TERMOCOPPIE PER USO INDUSTRIALE (IEC-60584)


Lo standard definisce alcune coppie che si trovano per uso comune e le codifica con una lettera.
La tipo “K” è la termocoppia che è ancora una valida concorrente dei termometri al platino nelle
applicazioni industriali e lo è in riferimento al campo di temperatura. I termometri al platino vanno dai
“- 200 a gli 850 °C”, quindi tutta la parta dagli 850 a 1200 °C è di impiego esclusivo della termocoppia
di tipo “K” o, in alternativa, di alcuni termistori.

Tipo “K”, Cromel-Alumel, - 200 ÷ 1200 °C (Cromel: lega Cromo Nichel; Alumel: lega Alluminio e Nichel)

146
La norma mi da una tabella che lega la tensione alla temperatura del giunto caldo tenendo il giunto
freddo a 0°C.
Qui abbiamo indicato il diagramma che lega la ten-
V tipo K sione alla temperatura anche se la norma fornisce
non il grafico bensì i valori tabulati che lo caratteriz-
zano. Di questo diagramma il solo punto che conosco
con certezza è quello dell’origine degli assi, cioè il
passaggio dallo zero. Infatti, quando il giunto di riferi-
mento e quello di misura sono alla stessa tempera-
tura, so che l’uscita è nulla, cioè la forza elettromotrice
t [°C] è nulla.
Se fosse vera la legge di Seebek, dovremmo avere
una retta, quindi una relazione di tipo lineare. In realtà
questo lo è quasi per un certo tratto ma poi il tutto ini-
zia a decadere.
Quindi da un certo punto in poi l’incremento di forza elettromotrice è meno che proporzionale all’au-
mento di temperatura.
Sono normate cinque termocoppie ma nella pratica ne sono utilizzate solo altre due:

Tipo “J”, Ferro-Costantana, - 40 ÷ 750 °C


Offre quale vantaggio rispetto alla Tipo “K” l’uso di materiali più economici: ha senso risparmiare sui
materiali della termocoppia quando ne stendo qualche centinaio di metri (un grosso impianto dove
il punto di misura è molto distante dal punto di lettura del segnale).

Tipo “T”, Rame-Costantana, - 200 ÷ 350 °C


Rispetto alla Tipo “J” offre il vantaggio, oltre al fatto di costare sempre meno rispetto alla tipo “K”, di
operare fino a – 200 °C, quindi la si utilizza in applicazioni quali i frigoriferi, quindi temperature ab-
bastanza basse, e anche criogeniche (t < 150 °C).

GIUNTO DI RIFERIMENTO
In laboratorio lo tengo a 0 °C questo perché è facile realizzare con una buona accuratezza il punto
stabilizzato con il ghiaccio fondente. Per uno strumento che utilizzo in ambiente industriale non avrò
ovviamente il ghiaccio fondente. Le due soluzioni alternative sono:

- STABILIZZO A T > T ambiente


La scelta di stabilizzare a una temperatura maggiore di quella ambiente vuol dire ovviamente fornire
calore se la temperatura è più bassa di quella voluta oppure toglierne se è più alta. Tra le due, il
fornire calore è sicuramente la strada più agevole dato che lo posso fare con una semplice resistenza
e regolando il passaggio di corrente in modo proporzionale alla differenza di temperatura voluta,
cioè tra quella che voglio ottenere e quella che ho. Se voglio quindi stabilizzare, lo faccio ad una
temperatura maggiore di quella ambiente, per esempio 40 o 50 °C, con un circuito elettrico che
misura la temperatura e mi regola la corrente. Quindi mi serve comunque sul giunto di riferimento
un altro termometro e in genere si usa un termistore (deve misurare bene solo la temperatura nell’in-
torno di quella di stabilizzazione, quindi un range ristretto).

- MISURA
Se non voglio spendere potenza per mantenere il giunto stabile, misuro la temperatura del giunto di
riferimento e la lascio variare. Vediamo il vantaggio di questo metodo rispetto al primo. Se io stabi-
lizzo a 50 gradi, utilizzando la PROPRIETA’ 3) devo aggiungere la tensione tabulata 0-50 °C a quella
che leggo tra il mio giunto di riferimento (a 50 °C) e la temperatura incognita. Ho una quantità fissa
che devo aggiungere alla misura letta per ottenere il valore che avrei con giunto di riferimento a 0°C.
Se faccio invece la misura della temperatura del giunto di riferimento dovrò aggiungere ogni volta
una quantità che è variabile, quindi un processo più articolato. Gli attuali strumenti di misura, però,
147
Andiamo ancora a calcolarci il rapporto = T(ω) Funzione di trasferimento armonica

T(ω) =

al denominatore abbiamo un trinomio di secondo grado in . Questo è scomponibile nel prodotto


di tue termini che sono costituiti dalle radici del trinomio di secondo grado quando il determinante è
> 0 (4h2 – 4 > 0) che nel nostro caso equivale ad h > 1.

NOTA:

Ne segue che:

1
𝜏 =
ω (h − h2 − 1)
T(ω) = ( )( )
con
1
𝜏 =
ω (h + h2 − 1)

Andiamo a tracciare il diagramma di BODE di T(ω) ricordando che il Log di un prodotto è la somma
dei logaritmi;

CASO h > 1

Z=20 Log IT(ω)I

20LogS (numeratore)

3dB

(τ1 > τ2)

1/τ1 1/τ2 20dB/decade Logω

-40dB/decade

(a) (b)

I denominatori da soli (pag. 91-92) erano fatti da una spezzata con asintoto di sinistra che era coin-
cidente con l’asse delle ascisse (z=0), mentre quello di destra inclinato di – 20dB/decade con il punto

103
MANOMETRI
I manometri corrispondono tutti ad uno schema fatto da due blocchi che svolgono due funzioni di-
verse. C’è un convertitore della pressione in uno spostamento (questo di fatto è un elemento ela-
stico) e a seguire un trasduttore di spostamento che lo misura.

P (pressione) spostamento uscita

ELEMENTO ELASTICO TRASDUTTORE DI SPOSTAMENTO

Nell’ELEMENTO ELASTICO abbiamo in ingresso una pressione e in uscita uno spostamento. Uno
schema dinamico che ricorda questo elemento l’abbiamo già visto, ed era quello che ci legava una
forza ad uno spostamento, schema assunto quale riferimento per gli strumenti del II ORDINE sotto-
smorzati.
La funzione di trasferimento relativa era:

T(ω) =
F


m (massa)
y con S = 1/K (K= rigidezza); h rapporto di smorzamento

K C e con ω = K/m (pulsazione propria)


(molla) (smorzatore)
La forza, come nel nostro caso, può derivare dall’integrale di
una pressione fatta sopra un disco, quindi questo schema cor-
risponde perfettamente a quello che avviene nell’elemento ela-
F stico del manometro.
E’ sempre interessante vedere i manometri come la somma di
P
due termini che lavorano in serie perché le caratteristiche com-
plessive dello strumento sono influenzate proprio dal comporta-
mento di ogni singolo termine.
Se voglio, per esempio, una sensibilità molto elevata, devo cercare di rendere K piccolo, quindi devo
avere un sistema con una rigidezza molto bassa, ma questo comporterà che anche la frequenza di
risonanza sarà bassa ( ω0). Vi è sempre questa dualità, se voglio strumenti con S elevata, questi
avranno frequenza di risonanza bassa. Il problema che mi dà la frequenza di risonanza è che la
banda passante degli strumenti del secondo ordine è limitata proprio da ω0.
La banda passante l’abbiamo infatti per ω < ω0. Per
|T(ω)| banda avere una banda passante ampia, quindi uno strumento
passante
che mi risponda alle alte frequenze, dovrei avere un’alta
rigidezza e quindi una frequenza di risonanza elevata,
ma questo mi porta ad avere delle sensibilità più basse.
Quando sceglierò un manometro avrò sempre la neces-
sità di scegliere uno con una dinamica molto spinta per
le misure in alta frequenza, ma con sensibilità più basse,
ω0 logω
oppure uno con elevata sensibilità ma che mi misura fe-
nomeni che variano lentamente. Non sempre necessito
di entrambe le cose e quindi baserò la scelta a seconda
delle specifiche esigenze.

L’altro elemento su cui si basano i manometri e il TRASDUTTORE DI SPOSTAMENTO. Ne abbiamo


già visto qualcuno (tra questi possiamo mettere anche gli estensimetri) come i potenziometri e gli
169
LVDT. Ve ne sono altri come il trasduttore capacitivo che vedremo tra poco, oppure costruiti ad hoc
direttamente sul manometro (caso dei manometri piezoelettrici).

REQUISITI PER L’ELEMENTO ELASTICO


- ALTA SENSIBILTA’ (equivale a dire CEDEVOLEZZA (1/K) ELEVATA, cioè bassa rigidezza)
- LINEARITA’ (lo spostamento deve essere direttamente proporzionale alla P applicata)
- RESISTENZA MECCANICA (+ QUELLA ALLA CORROSIONE)
- CAPACITA’ DI SOPPORTARE SOVRAPRESSIONI IMPULSIVE
Negli impianti capita abbastanza spesso che si debbano fare misure di piccole variazioni di pres-
sione, ma di avere picchi di pressione molto grandi per effetto delle manovre tipiche di impianto
come la chiusura di una valvola, avvio ecc.. Il manometro a fronte di una scala di misura limitata
deve quidi sopportare eventi che hanno un picco di pressione molto più alto rispetto a quella che
deve misurare. Una delle qualità del manometro è data dal rapporto tra la sovra pressione, cioè il
picco di pressione che può sopportare senza perdita della taratura (chiamata la sovra pressione
ammissibile, mentre si definisce di sicurezza quella oltre cui si può arrivare a rottura) e il suo fs di
misura. Normalmente ci sono tre pressioni di riferimento: la scala normale, quella di misura senza
danneggiamento e la scala di sicurezza. Sono valori normali il 50% di sovra pressione rispetto al
fs senza aver problemi sul sensore, cioè non altera la taratura e un fs di sicurezza, quindi senza
rottura del sensore, che in genere è almeno 2 o 3 volte fino a oltre 10 volte il fs di misura. Se ho
100 bar di fs, fino a 150 bar il manometro può lavorare senza danni al sensore (non necessita di
taratura), ma non deve comunque rompersi fino a 300, 400 bar e a volte anche fino a 1000 bar
(cioè 10 volte il fs di misura). In questi casi l’integrità del sensore è ovviamente strutturale, ma non
funzionale e quindi necessita di una nuova taratura per avere garanzie sulla correttezza della mi-
sura.
- LEGGEREZZA (dell’elemento elastico, cioè della massa da cui dipende la frequenza propria del
del sistema. Più è leggero e più, dal punto di vista dinamico, il suo comportamento è migliore).
Vediamo un classico esempio di elemento elastico di manometro. Il MANOMETRO DI BOURDON

MANOMETRO A TUBO DI BOURDON


Questo manometro è costituito da un tubicino disposto lungo
scala graduata una circonferenza e con una sezione trasversale rettangolare
(o spesso ellittica perché più facile da realizzare), cioè più
P larga in direzione perpendicolare al foglio e più stretta nel
piano del foglio stesso. Vediamo come funziona un elemento
P Ri Re elastico di questo tipo. La pressione entra dall’apertura sotto-
stante e una sua variazione comporta una deformazione del
tubo. Se andiamo a vedere la distribuzione della pressione
Fe all’interno del tubo, questa ha componenti identiche sia sulla
superficie esterna che interna, ma la forza netta complessiva
sez. h (Fe-Fi) non è nulla bensì diretta verso l’esterno del tubo. A
stato Fi causa del differente raggio di curvatura, infatti, le superfici su
deformato cui agisce P differiscono, anche se di poco, tra l’esterno e
l’interno e questo fa sì che un aumento di pressione P si tra-
duce in una nuova curvatura del tubo, quella tratteggiata. Da
un punto di vista strutturale, anche se il tubo è incurvato, è
come se avessimo una tradizionale trave incastrata ad una
estremità su cui agisce un carico uniformemente distribuito
P verso l’alto. La trave soggetta a questo carico si incurva, così
come il tubicino si inflette nella direzione della risultante netta
del carico applicato. Molti dei manometri domestici (vedi
quello della caldaia o che indica la pressione dell’acquedotto
ecc.) sono di questo tipo. Malgrado siano manometri molto
diffusi ed economici, costo di pochi euro, se ne realizzano
anche versioni
170 da laboratorio che possono essere comunque
molto accurati. Quelli di maggiore qualità, infatti, possono
avere una incertezza strumentale dell’ordine dell’1 per mille
del fs (manometri campione):
INCERTEZZA STRUMENTALE: ≅ 0,1 0,5 % fs
Per trasformare il piccolo spostamento del tubo in una rotazione apprezzabile di un indice su una
scala graduata, si adotta un’amplificazione meccanica ad esempio con un sistema pignone/crema-
gliera collegata tramite un’asta incernierata all’estremità del tubo. Questo particolare accoppiamento
meccanico (due ingranaggi con differenti diametri, pignone piccolo e cremagliera grande) amplifica
la rotazione dell’indice anche per piccole deformazioni del tubo.
SENSIBILITA’ TUBO di BOURDON: L’uscita è fatta dall’inflessione del tubo e il parametro che entra
in gioco per definirla è la forza netta. Questa è proporzionale alla larghezza della sezione del tubo.
Più è larga, infatti, più a parità di raggio ho un’area maggiore su cui agisce la P. Questo vuol dire
forza risultante maggiore e di conseguenza maggiore sensibilità. Questo lo potrei ottenere anche
con un aumento di R (si traduce in un aumento di area), però se aumento R, dato che il momento di
inerzia di una sezione rettangolare varia con l’altezza alla terza (h3), aumenta la forza ma anche la
rigidezza del tubo. Meglio avere tubi molto sottili per una maggiore sensibilità. Quindi i parametri che
entrano in gioco sono la larghezza, lo spessore del tubo (momento di inerzia) e il modulo elastico
del materiale. Giocando su questi parametri riesco a creare manometri con sensibilità più o meno
alta. Lavorando sulla geometria posso regolare la rigidezza dell’elemento elastico e quindi ottenere
manometri che hanno fondo scala di 1 atmosfera, tipicamente i VACUOMETRI (manometri assoluti
che vanno da 0 a 1 atm), o manometri che arrivano a 1000 bar (qui gli spessori entrano in gioco
anche per un discorso di resistenza meccanica alle elevate pressioni). Non sono di per sé straordi-
nari sul fattore linearità, essendo lo spostamento dell’estremità lineare solo in prima approssima-
zione, però giocando un po’ sui vari leverismi si riesce a sopperire a questo aspetto rendendoli
lineari. Dal punto di vista della resistenza meccanica, un colpo di pressione sul tubo è come applicare
un carico impulsivo sulla trave. Il rischio è di portare a snervamento il materiale in qualche punto
dato che il tubicino deve essere necessariamente sottile per essere cedevole quindi normalmente si
arriva a un fattore 2 per il fondoscala di sicurezza, ed è garantito il 20, massimo 50% di sovrapres-
sione rispetto al del fs per non avere danneggiamento del sensore.
La massa è distribuita su un oggetto esteso e questo porta a frequenza di risonanza tipicamente
basse. Sono strumenti in genere utilizzati per misure statiche o quasi statiche.
Passiamo ora ai manometri con elementi elastici, attualmente i più utilizzati.

MANOMETRI A MEMBRANA PIANA


Questi manometri sono concettualmente molto sem-
P plici. Sono realizzati da una membrana, quindi da un
disco (il cui materiale è scelto in funzione dei fluidi con
cui entra in contato. Si va dall’acciaio inossidabile ai
materiali plastici con deposizione di materiale metallico
sopra ecc.), di cui si può variare lo spessore. La rigi-
dezza verrà data dal rapporto tra lo spessore e il dia-
metro della membrana. Per avere elevata sensibilità
dobbiamo usare manometri con dimensioni elevate e
piccoli spessori per la membrana, al contrario, per
D
bassa sensibilità dobbiamo utilizzare manometri con
membrana di piccolo diametro e spessore elevato.
La membrana è l’elemento comune al 90% di tutti questi manometri e quello che fa la reale differenza
è il trasduttore, cioè la modalità con cui si misura lo spostamento della membrana stessa.
Sul fronte della linearità, la membrana di per sé non è lineare, per mantenere deviazioni dalla inearità
accettabili si lavora con deformazione al centro membrana inferiori a circa un decimo del diametro
della membrana.
Al fine di aumentare la resistenza meccanica anziché avere la membrana completamente libera di
muoversi nella parte inferiore del manometro si realizza una superficie che ricalca fedelmente la
geometria della membrana quando viene deformata dall’effetto della pressione. Una volta applicata
la pressione che mi corrispondente al fs di misura, la membrana va in appoggio a questa superficie
e applicando delle sovra pressioni in teoria non dovrei più stressare la membrana. Di fatto è difficile
avere esattamente una superficie con la stessa geometria della membrana, ma comunque si arriva
a sovraccarichi di sicurezza anche di 10 volte il fs dello strumento. Arrivando a queste pressioni vi è
normalmente un decadimento delle prestazioni dello strumento che dovrà essere ritarato.

171
anima
P ferromagnetica SISTEMA CON LVDT
Si salda in posizione centrale sulla parte inferiore
della membrana un’anima ferromagnetica, men-
tre nella parte fissa dello strumento vengono rea-
lizzati gli avvolgimenti (il primario e i due secon-
dari).

SISTEMA CON TRASDUTTORE INDUTTIVO


E’ una variante dell’LVDT. Anziché avere un av-
LVDT volgimento primario si può realizzare una strut-
avvolgimenti tura come quella riportata a lato. Ho due bobine
affiancate che sono i due secondari e non si uti-
lizza il primario dato che si va a misurare diretta-
Trasduttore induttivo mente la variazione di induttanza.
Di fatto la caratteristica induttanza (L) è legata
all’impedenza dalla relazione Z=iωL. Per valu-
tare la differenza di impedenza, legata allo spo-
stamento dell’anima ferromagnetica tra gli avvol-
gimenti (in pratica aumenta l’impedenza verso il
lato in cui ho spostato l’anima ferromagnetica e
diminuisce quella dell’altro) si utilizza un ponte di
Wheatstone. Inoltre, facendo una differenza si
vede già il lato in cui mi sposto.

solo avvolgimenti del secondario


Il ponte di Wheatstone che viene utilizzato per valutare la
differenza di impedenze è alimentato con tensione alter-
L2 R3
nata. I due avvolgimenti dell’induttivo sono rappresentati
E0
dalle due induttanze L1 e L2 e vanno a costituire due lati del
~ Vu ponte. La tensione in uscita ovviamente avrà gli stessi pro-
blemi riscontrati con LVDT e quindi anche questi sistemi de-
L1 R4 vono avere la parte di demodulazione e filtraggio per la let-
tura dei risultati (corretto valore del segno).
Rispetto al primo caso in cui la membrana era perfettamente liscia, qui mi ritrovo con un’anima di
materiale ferromagnetico saldata su di essa e questo va ad alterare un disco che prima era perfet-
tamente uniforme. Anche da un punto di vista dinamico ci ritroviamo con una massa aggiunta, quindi
con una membrana più pesante. Malgrado questo i manometri qui analizzati sono molto utilizzati
anche se introduco questo elemento peggiorativo rispetto allo schema iniziale. Per lasciare la mem-
brana liscia quello che si può fare è usare un trasduttore senza contatto di tipo capacitivo.
P SISTEMA CON TRASDUTTORE CAPACITIVO
La capacità di un condensatore piano vale:
A
C2 C = ε
C1 D
Per trasformare quello disegnato in un trasduttore
di spostamento, potrei legare lo spostamento a va-
riazioni di ε0, di area A, ma la soluzione più sponta-
nea è legarlo alla variazione di distanza (D).

172
I punti essenziali della lezione precedente:

RISPOSTA AD INGRESSI ARMONICI PER GLI STRUMENTI DEL 𝚰𝚰 ORDINE


Avevamo visto che la funzione di trasferimento armonica per i sistemi del ΙΙ ORDINE può essere
scritta nella forma:

T(ω) = e se h > 1 come: T(ω) = ( )( )

dove τ1 e τ2 sono i due valori ricavati anche per la risposta al gradino e sono in sostanza i reciproci
delle due radici dell’omogenea associata (1/λ e 1/λ ).
Per questo caso, cioè h > 1, avevamo poi visto il diagramma asintotico di BODE che è rappresentato
da una spezzata con punti di rottura nei reciproci di τ1 e τ2, cioè delle due costanti di tempo:

Z=20 Log IT(ω)I In questo caso la banda passante è identificata


dalla costante di tempo più grande. La banda
a 3 dB è per ω < 1/ τ1.
Quello che viene dopo questo punto non ha in-
20LogS fluenza sulla banda passante quanto piuttosto
3dB su quella che abbiamo chiamato per i filtri la
banda di REIEZIONE, cioè quanto veloce-
mente il modulo passa da 20 Log S a qualcosa
che possiamo ritenere zero.

1/τ1 1/τ2 Logω

-40dB/decade

La presenza della seconda costante di tempo influenza la banda di transizione perché aumenta la
pendenza da -20 dB/decade a -40 dB/decade.
Per quanto concerne la fase, il diagramma di BODE assume la seguente forma:

0,1/τ1 10/τ1 0,1/τ2 10/τ2

1/τ1 1/τ2 Logω

-𝜋/4

-𝜋/2

-3𝜋/4

-𝜋

I veri punti noti sono quelli corrispondenti alle fasi di 1/τ1 (-𝜋/4) e 1/τ2 (-3𝜋/4) e sappiamo che l’asin-
toto finale è a –𝜋. E’ al solito un diagramma semplificato dove convenzionalmente mettiamo i punti
108
MANOMETRO A ESTENSIMETRI
Si basano su un concetto completamente diverso anche se conservano la schematizzazione vista
prima.
La membrana per effetto della pressione si deforma se-
P
condo lo schema a lato. Vediamo come possiamo legare
questo fatto al segnale di un estensimetro. Nella zona
più esterna della membrana, la deformata che assume a
causa della variazione di pressione vede le fibre supe-
riori tese e quelle inferiori compresse. Quello che pos-
siamo fare allora, è mettere gli estensimetri nella zona
delle fibre compresse per valutare la deformazione della
membrana per effetto della pressione. La disposizione
degli estensimetri più comune per misura di flessione sa-
rebbe quella di averne uno per le fibre tese e uno per
quelle compresse tipicamente su facce opposte della la-
stra per ottenere anche un collegamento in grado di
fibre tese
compensare l’effetto termico. Ma nella parte sopra pos-
siamo avere del liquido, fluidi corrosivi o che richiedono
di essere a contatto solo con alcuni materiali (es. indu-
stria alimentare) quindi non sempre avremo modo di po-
sizionare gli estensimetri su entrambe le facce. Per gli
estensimetri
estensimetri di due lati del ponte si deve cercare una so-
luzione che possa trovare fibre tese sulla faccia inferiore
della membrana. Nello schema a lato gli estensimetri R1
e R3 sono radiali, mentre R2 e R4 circonferenziali (tan-
genziali). La deformazione ε1 è radiale e positiva, e ε2
tangenziale tangenziale e negativa. La presenza della R2 e R4 è in-
dispensabile soprattutto per la compensazione termica.
R1 ε2 R4 Anche se il segnale che arriva da questi due estensimetri
è inferiore rispetto a quello radiale, è un segnale opposto
ε1 in segno e permette la compensazione degli effetti ter-
mici, cosa molto importante perché un manometro viene
usato tipicamente a caldo, a freddo, con liquidi che pos-
sono subire variazioni di temperatura ecc.. Gli estensi-
metri utilizzati sono del genere a griglia metallica ma rea-
lizzati con geometrie specifiche per avere una media
R2 radiale R3 della deformazione su una porzione ampia della mem-
brana (tratto verde – sempre in direzione radiale).
Il vantaggio di questa soluzione non è in termini di sensibilità (i ∆R/R sono sempre proporzionali al
Gf che non “vede” la geometria della griglia), ma il fatto di fare una misura più distribuita mi permette
di mediare eventuali singolarità, vedi un punto con uno spessore leggermente più alto, la presenza
di un punto corroso, così come la garanzia di avere un segnale più rappresentativo di quello che
avviene sulla membrana avendo distribuito la deformazione su una zona più ampia.

MANOMETRI PIEZORESISTIVI (SEMICONDUTTORE PIEZORESISTIVO)


Se necessito di sensibilità alta ma voglio avere una piccola deformabilità della membrana, cioè
un’alta frequenza di risonanza (manometri con elevata dinamica), utilizzo estensimetri a semicon-
duttore al posto di quelli a griglia metallica.
ALTA DINAMICA ma con segnale rilevante = ESTENSIMETRI A SEMICONDUTTORE
In questo caso si dovrà avere una particolare attenzione nella compensazione termica o nello stabi-
lizzare le condizioni termiche.
Sono chiamati manometri piezoresistivi, dato che il termine piezoresistivo nella relazione del Gf è
quello prevalente per gli estensimetri a semiconduttore.

174
Dal punto di vista della dinamico degli estensimetri, questi sono strumenti di ORDINE 0, cioè non
entra in gioco nella relazione legata al ponte di Wheatstone la ω, ma abbiamo in pratica solo resi-
stenze. Ricordando il manometro come un insieme di due blocchi, abbiamo quello del trasduttore
che è il nostro estensimetro e quindi di ordine 0, mentre la parte dinamica è legata alla sola funzione
di trasferimento dell’elemento elastico. La dinamica per questo tipo di trasduttori è dovuta solo alla
parte di sistema meccanico e quindi la risonanza della membrana.
Per i capacitivi e gli induttivi è sostanzialmente la stessa cosa con l’aggiunta, per fare demodulazione
e filtraggio, della funzione di risposta del filtro passa-basso. Se alimento il mio sistema con una
tensione a 10 kHz, il filtro passa-basso che devo mettere è grossomodo a 5 kHz. La dinamica viene
tagliata dal filtro del sistema di demodulazione e filtraggio.
La parte di trasduzione dello spostamento è sovrabbondante rispetto a quella che può fare la parte
elemento elastico, per esempio per un manometro a membrana possiamo operare fino a un centi-
naio di Hz, ma i trasduttori LVDT possono lavorare fino a 4 o 5 kHz.

MANOMETRI PIEZOELETTRICI

membrana E’ una classe un po’ diversa di manometri.


P Hanno una struttura molto semplice e la mem-
brana anziché essere libera di muoversi è diret-
tamente appoggiata sopra a un cristallo di
Quarzo. La membrana in questo caso svolge
solo una funzione protettiva per il Quarzo e
quindi può essere estremamente sottile e cede-
vole.
Principio di funzionamento
Il cristallo piezoelettrico ha una caratteristica per
cui se applico una deformazione ε, cioè accorcio
Cristallo PIEZOELETTRICO (Quarzo) la dimensione del cristallo sotto l’effetto di una
forza, c’è uno spostamento di cariche “Q” che è
F proporzionale alla deformazione stessa del cri-
stallo. Più grande è ε più grande è lo sposta-
mento di cariche Q = αε.
Q +++++++++++++++ Per spostamento di cariche si intende che il cri-
ε V stallo assume cariche positive su una faccia e
---------------
negative sull’altra (vedi schema a lato).

F
Sfruttando questa proprietà possiamo costruire il manometro andando a leggere la carica Q o, me-
glio ancora, la corrente legata al movimento di queste cariche nel tempo. Vediamo in che modo
possiamo creare il legame tra la forza (pressione), e la lettura di una corrente o di una tensione
legata alla proprietà piezoelettrica del cristallo.

Qui a lato riportiamo lo schema elettrico


equivalente del nostro sistema. Il cristallo
Cc Rc Ccavo Rcavo di fatto ha la forma di un condensatore
I ~ V piano (Cc) che viene caricato per l’effetto
piezoelettrico. Avremo poi un qualcosa
che ci carica il sistema che lo possiamo
vedere come un generatore di corrente
= "#$%
(I=d(αε)/dt).
!

175
Dobbiamo poi tener conto del fatto che il cristallo ha una resi-
3 stenza elettrica che è molto alta ma non infinita (Rc) e che poi
per effetto del collegamento con cavo coassiale (costituito da
2 un’anima centrale metallica “1” avvolta in un materiale isolante
“2”, un secondo conduttore che sostanzialmente è una sorta di
calza in rame “3” e a completare un isolante esterno “4” ) che
1 ricorda nell’aspetto una sorta di condensatore cilindrico, dob-
4 biamo anche aggiungere una capacità (Ccavo) e una resistenza
cavo COASSIALE in sezione del cavo (Rcavo) che dipende dal materiale isolante (resistenza
molto alta ma non infinita).
Quello che leggeremo all’uscita è la tensione ai due cavi del conduttore. A noi serve vedere il colle-
gamento tra questa tensione e la corrente generata dall’effetto piezoelettrico. Questo metterà in luce
una caratteristica particolare per questi trasduttori che li differenzia da tutti gli altri, e cioè la caratte-
ristica di non leggere le pressioni variabili lentamente nel tempo, caratteristica legata proprio alla
presenza del cristallo piezoelettrico, mentre la parte dinamica, meccanica, è sempre la stessa, cioè
sistema massa, molla e smorzatore (la massa è quella della membrana più metà di quella del cri-
stallo, la rigidezza è quella del cristallo mentre lo smorzamento è quello fornito dall’isteresi elastica
del cristallo). Qui mi aspetto un ω0 molto alto per via della massa molto piccola e per il fatto che la
rigidezza del cristallo è quella di un sistema che lavora a compressione (il modulo elastico del cri-
stallo (Quarzo) è circa uguale a quello di un alluminio quindi circa 70 GPa), quindi decisamente
elevata.
Vediamo la relazione ingresso-uscita del circuito sopra schematizzato.
Definiamo una capacità e una resistenza equivalente:
Cc + Ccavo = Ceq (somma capacità in parallelo)
Rc \\ Rcavo = Req (somma resistenze in parallelo)
L’impedenza del parallelo, per capacità e resistenza, essendo:
1
Z&'( = Z+'( = R )*
i ω C)*
vale:
4 5 6'( +'( +'(
= - + - = 2 + + = i ω C)* + + = ⇒ Z8 = 4 5 6
-. /'( 1'( '( '( +'( '( +'(
3'(

Dalla V = ZP.I ne segue che:

9 R )* : ;<
= =
i ω C)* R )* + 1 = > ? + @

Ponendo C)* R )* = τ ritroviamo la funzione di trasferimento degli strumenti del I ORDINE.

Poniamo ora l’attenzione sulla relazione:


σ P d"αε% α dP
Q = αε = Dα L = α ⇒ derivando entrambi i lati ⇒ I = =
E*GHIJK E*GHIJK dt E dt

"σ è in pratica pari alla pressione, cioè una forza su unità di superficie)

Quella ottenuta la possiamo sempre vedere come una relazione ingresso/uscita, l’uscita la corrente
e l’ingresso la pressione. Se vogliamo trovare la funzione di trasferimento corrispondente, al posto
delle derivate devo mettere un “iω”.
α
I = iωP
E

176
proprio il tempo di risposta al 90% che indico come TR90%. Per l’esempio prima fatto, questo è sicu-
ramente il parametro essenziale.
Il tempo di risposta al 63% di uno strumento del Ι ORDINE è direttamente la τ.

2) TEMPO DI ASSESTAMENTO AL 5%
Ma potrebbe essere anche al 10% ecc.. Rappresenta il tempo dopo il quale l’errore rispetto al valore
a regime è inferiore alla tolleranza data. Per definirlo prendo 0,05 Δ (dato che le % sono sempre
riferite al gradino, quindi al Δ) e traccio una banda ± 0,05 Δ rispetto al valore a regime y2. Vado a
cercare l’ultima intersezione della curva di risposta con la banda tracciata (punto A). Il tempo corri-
spondente è proprio il tempo di assestamento al 5% che indico come TA5%.
Il tempo di assestamento al 37% di uno strumento del Ι ORDINE è sempre la τ, dato che la curva
non è caratterizzata dalla presenza delle oscillazioni.

3) TEMPO DI SALITA DAL 5% AL 95%


Anche in questo caso le % sono puramente indicative. Questo va ad eliminare il tempo iniziale, per
esempio quando nel tratto iniziale vi è un segnale di disturbo che non voglio prendere in considera-
zione. Prendo il tempo corrispondente al 5% (T1), prendo poi il tempo corrispondente al 95% (T2). Il
tempo di salita al gradino dal 5% al 95% è valutato come: TS5-95% = T2 – T1

Per certi strumenti possiamo quindi trovarci i tempi qui sopra definiti al posto dei vari ω0, rapporti di
smorzamento e costanti di tempo. Potendo scegliere è sicuramente preferibile avere i parametri
dinamici dato che con questi riesco a trovarmi tutte le informazioni sullo strumento e non solo quelle
particolari qui sopra riportate.

Ora abbiamo a diposizione tutti i mezzi per poter scegliere e mettere in serie degli strumenti per
poter fare qualsiasi misura. Poco importa se non abbiamo una conoscenza perfetta del segnale in
ingresso per la scelta del fondo scala o della banda passante, cioè non dobbiamo pensare che per
fare la misura di un certo segnale lo si debba conoscere come se fosse già stato misurato in prece-
denza. Nella pratica, infatti, la situazione che troviamo è quella di dover misurare un qualcosa che
grossomodo già si conosce e quindi ben difficilmente si parte da una situazione del tipo “non so nulla
del segnale”. Molto spesso si dispone di dati numerici sui quali si prendono i dovuti margini, per
esempio mi aspetto una temperatura di 200 gradi e allora scelgo uno strumento con un fondo scala
di almeno 300 gradi, se mi aspetto che la banda del segnale sia di 50 Hz costruirò una catena,
sempre che disponga degli strumenti giusti, con una banda passante fino a 100 Hz. Per la banda
passante a volte non è tanto il conoscere la banda del segnale ma la componente che mi interessa
misurare. Per fare un esempio consideriamo il campo dell’acustica. Il suono può avere, includendo
anche gli ultrasuoni, una banda qualsiasi ma se io lo registro per poi fare una riproduzione tutto
quello che sta oltre i 20 KHz è assolutamente non interessante perché non è nel campo dell’udibile
per l’orecchio umano.

112
La banda passante è definita a partire da 1/τ ed è quella tipica di un filtro PASSA-ALTO che fa
passare le frequenze alte e blocca le basse. Se avessi in ingresso un segnale costante, cioè statico,
ovrei andare a cercare l’asintoto per ω che tende a zero, cioè Logω che tende a -∞, quindi il modulo
va a zero, cioè ingresso statico = USCITA NULLA.
Se metto insieme questo comportamento con quello tipico degli strumenti del II Ordine che è rap-
presentata dalla parte meccanica, abbiamo il grafico risultante sopra riportato, quindi con una:

BANDA PASSANTE COMPRESA TRA 1/τ E ω0

τ = costante di tempo della parte elettrica del cristallo


ω0 = risonanza

I due parametri individuano la banda passante nel diagramma asintotico, le bande passanti effettive
con tolleranze usate comunemente sono anche notevolmente più ridotte, ad esempio con 0.5 dB
assumendo h=0.01 la banda passante sarà circa da 2.9/τ a 0.24 ω0.
La cosa importante da ricordare è che con questi manometri non leggo misure statiche, cioè non
leggo grandezze con frequenze più basse di 1/(2πτ%. Non sono quindi in grado di misurare fenomeni
che variano lentamente nel tempo. Negli impianti in cui vi sono variazioni lente di pressione, questi
manometri potrebbero vedere solo i picchi di pressione legati all’apertura o chiusura delle valvole o
pulsazioni indotte da pompe alternative. Da un punto di vista dinamico tuttavia, questi manometri
possono avere bande passanti che raggiungono i 100 kHz, quindi vari ordini di grandezza più ampie
rispetto ai manometri a membrana.

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