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La crisi che nel 2008 ha colpito prima gli Stati Uniti d’America, e in seguito il resto
del mondo, ha portato notevoli sconvolgimenti nel sistema economico mondiale, e di
conseguenza nelle vite delle persone che in tale sistema sono coinvolte. Prima
dell’avvento di tale crisi l’economia mondiale cresceva del 5% l’anno, e i livelli di
occupazione erano elevati e stabili. Dal 2008 questo trend si è invertito, e la
produzione è andata diminuendo del 2-2,5% l’anno, il Pil mondiale nel 2009 è sceso
dello 0,8% e quello italiano del 4,8%, facendo si che molti economisti descrivessero
questa crisi come la peggiore del dopoguerra, paragonabile solo a quella del 1929,
sebbene i suoi effetti sull’economia reale siano stati attenuati dai diversi interventi
pubblici che i governi hanno messo in atto per fronteggiarla, e dalla prontezza e dalla
coordinazione internazionale che ha caratterizzato tali interventi.
Nonostante gli esperti di settore sentenzino unanimemente che il momento più acuto
di tale crisi sia già alle spalle, identificandolo con il maggio 2009, la tanto agoniata
ripresa stenta ad arrivare. Gli effetti peggiori che questa crisi ha portato sono stati
una contrazione dei mercati, con conseguente vanificazione degli investimenti
finanziari, e soprattutto un drastico aumento dei livelli di disoccupazione, che ha
portato le conseguenze più pesanti nell’economia reale (redditi, consumi,
investimenti).
Molte imprese sono fallite, e quelle che sono riuscite a sopravvivere alla crisi, spesso
lo hanno fatto tramite pesanti tagli nelle spese, e grossi ridimensionamenti. Il
fenomeno del downsizing organizzativo è tornato rapidamente di moda, e ciò ha
portato sia le piccole e medie imprese, che le grandi compagnie, a dover attuare
processi di lay-off molto profondi, spesso anche eccessivi.
Solo in Italia gli esempi di Eutelia, del petrolchimico sardo, degli stabilimenti Fiat
hanno dimostrato come la crisi finanziaria non sia fatta di soli numeri, ma di persone
che, essendo parte delle organizzazioni per le quali lavorano, e spesso identificandosi
con esse, saranno restie ad accettare processi di esubero così totalizzanti e vagamente
motivati come i casi sopra citati. E questi sono solo i casi rimbalzati prepotentemente
tra i tra i media, facendo venire a galla una situazione che altrimenti in molti
avrebbero fatto fatica a conoscere. E’ lecito ritenere che non siano gli unici cosi
problematici.
Si presenta dunque una domanda: di fronte ad eventi di crisi di questa portata, come
si dovrebbero comportare le organizzazioni per raggiungere il doppio obiettivo di
salvaguardare la propria sopravvivenza da una parte e mitigare le resistenze dei
propri membri ad un processo di cambiamento così traumatico come quello del
downsizing?
1.1 Premessa.
Parlare di cambiamento organizzativo significa parlare di un argomento molto vasto,
trattato con molteplici approcci, un argomento che entra prepotentemente nella storia
delle organizzazioni fin dalla loro nascita, ma diventato sempre più attuale per via
delle spinte esterne che l’innovazione tecnologica, la globalizzazione e le
caratteristiche della moderna forza lavoro hanno dato a questo tipo di processo.
Quaglino (1990, p. 323) cercando di darne una definizione, identifica questo
processo: “come quell’insieme di azioni pensate e orientate dichiaratamente e
deliberatamente verso un obiettivo di mutamento dell’organizzazione”.
Si parla quindi di un cambiamento consapevole e deliberativo, finalizzato ad un
passaggio da uno stato A in cui insorge una situazione o un problema che interferisce
con la stabilità o il buon funzionamento dell’organizzazione, a uno stato B che
rappresenta raggiungimento di una nuova stabilità o di un determinato livello di
prestazione. Il raggiungimento di tale rinnovata stabilità avviene appunto tramite un
“percorso che conduce l’organizzazione dallo stato A allo stato B: nel duplice aspetto
di ciò che individua il secondo per differenza rispetto al primo (il contenuto del
cambiamento) e di ciò che viene “agito” per passare dal primo al secondo (il
processo di cambiamento)” (ibidem)
In letteratura molti autori hanno trattato questo processo, e tra i più importanti, il
primo è stato probabilmente Lawrence (1954) che ne parla come un fenomeno che ha
un aspetto tecnico e uno sociale, intendendo con il primo la realizzazione di una
modificazione dei consueti processi meccanici del lavoro, e con il secondo il modo in
cui gli attori del cambiamento pensano che esso modificherà le proprie relazioni
nell’organizzazione. Il concetto di cambiamento organizzativo è andato poi
evolvendosi di pari passo con l’evoluzione delle scienze economiche, organizzative e
sociali, che ha prodotto una varietà di significati del concetto di cambiamento,
differenziati, ma con dei punti di contatto:
“L’evidente relazione esistente tra organizzazione e ambiente esterno nei
processi di cambiamento”
“La relazione reciproca che il cambiamento induce tra organizzazione e
individuo”
“La difficoltà nel distinguere il cambiamento come passaggio di forme
dell’organizzazione e come strategia finalizzata allo sviluppo” (Piccardo
Colombo, 2007)
Inoltre, come già fatto notare da diversi studiosi, come Quaglino (1990, ibidem), Daft
e Noe (2001, p. 620), il cambiamento organizzativo, essendo un processo che
comporta un passaggio di stato, non può essere scollegato dal concetto di
innovazione, che appunto è mezzo, fine e conseguenza di ogni processo di
cambiamento organizzativo. Innovazione tecnica e procedurale, le forme più
immediatamente osservabili, ma anche innovazione “dei ruoli e delle relazioni
proprie dei ruoli, quindi anche delle mansioni e dei rapporti personali di coloro che li
esplicano.” (Rice, 1963 in Piccardo, Colombo, 2007, p.14).
A questa prima fase di scongelamento segue una seconda fase dove ha luogo il
cambiamento vero e proprio, che andrà a colpire gli attori, in termini di nuovi
modelli comportamentali, i loro compiti, le strutture e le tecnologie interne
all’organizzazione. In questa fase il sistema sarà sbilanciato, e diverse forze interne o
esterne ne regoleranno la direzione che prenderà, fino al completamento del
processo, che avverrà in una terza ed ultima fase di refreezing, o ricongelamento, che
vedrà un rinforzo e una stabilizzazione dei cambiamenti apportati, tramite una “loro
istituzionalizzazione come parte di una normale routine” (Piccardo Colombo, 2007,
p. 31).
Il modello di Lewin, sebbene abbia ricevuto forti critiche per la sua eccessiva
linearità e rigidità nel descrivere il processo di cambiamento, è servito da base per
molti successivi modelli descrittivi. Lussier (1996) propone un modello gestionale
del cambiamento organizzativo, integrando il lavoro di Lewin, mettendo in evidenza
gli aspetti gestionali del cambiamento. Sviluppa il suo modello in cinque fasi
parallele alle tre fasi di Lewin: Definizione del cambiamento; Identificazione delle
resistenze al cambiamento; Pianificazione del cambiamento; Promozione (o
attivazione) del cambiamento; Controllo del cambiamento. Rispetto al modello di
Lewin quindi, Lussier specifica un percorso procedurale, aggiungendo due fasi: una
di attivazione e promozione del cambiamento, una di controllo e valutazione dei
risultati.
Da un punto di vista pratico l’OD si configura come un tipo di ricerca azione basato
sulla prospettiva che “comportamenti individuali e organizzativi sono influenzati
ampiamente dalle norme culturali e sociali del gruppo o della società cui gli individui
appartengono: il cambiamento deve tenere conto di tali norme e agire su di esse”
(Piccardo e Colombo, 2007, p. 89). Tale ricerca azione ha le sue basi nel modello di
Lewin e comprende quindi “una prima analisi dei bisogni di cambiamento, un
intervento di OD in senso stretto e una valutazione finale dei risultati raggiunti”.
(McShane, 2001, citato in Piccardo e Colombo, 2007, p. 83).
Si può capire allora come l’OD non sia soltanto un modello descrittivo di
cambiamento organizzativo, ma un “preciso movimento organizzativo che ha
elaborato e sviluppato nel tempo una riconoscibile filosofia di intervento e
strumentazione pratica” (Boldizzoni; citato in Piccardo, 1991, p. 16). Esso si
configura come “un’azione pianificata, guidata dal vertice, che coinvolge l’intera
organizzazione e si pone lo scopo di accrescere l’efficienza organizzativa mediante
interventi pianificati” (Beckhard, 1969, citato in Piccardo e Colombo, 2007, p. 89).
Gli agenti di questa azione sono “individui che possiedono le giuste conoscenze, le
abilità e il potere di guidare e facilitare il cambiamento” (McShane, 2001, citato in
Piccardo e Colombo, 2007, ibidem), e che abbracciano diversi ruoli e competenze,
dal ricercatore, al formatore, al consulente, al manager. Essi possono essere interni
all’organizzazione o esterni ad essa; nel primo caso solitamente il ruolo di promotore
del cambiamento viene assunto da persone che occupano una posizione di leadership
e che hanno le giuste competenze per realizzarlo, essi saranno avvantaggiati nel loro
compito dal fatto che conoscono approfonditamente l’organizzazione e possono
ispirare maggiore fiducia nel personale. Nel secondo caso, invece, tale ruolo viene
ricoperto da consulenti e ricercatori professionisti che “hanno ricevuto un certo tipo
di istruzione e hanno conseguito titoli accademici nel settore delle scienze
comportamentali” (McShane, 2001, ibidem), che hanno il vantaggio di avere un
punto di vista maggiormente distaccato e oggettivo della realtà organizzativa, e
quindi possono più facilmente realizzare un cambiamento reale e duraturo.
Bisogna inoltre distinguere tali forme di resistenza al cambiamento con il suo rifiuto
vero e proprio. In questo caso infatti, per via delle ripercussioni negative e rischiose
sulla propria crescita professionale e sulla carriera che un atteggiamento tanto
visibile può dare, gli individui tendono a nasconderlo o non manifestarlo apertamente
(Drafke, Kossen, 1998).
“È difficile avere delle buone idee in modo che l'impresa faccia di più di quello che
ha sempre fatto; se si fa il contrario, quasi sempre, l'operazione funziona, almeno sul
breve periodo. È comunque vero che oggi non ci sono quasi limiti al miglioramento
della produttività: la riprogettazione organizzativa per processi, l'utilizzo esteso
dell'informatica e l'esternalizzazione spinta di tutte le attività aziendali permettono di
ridurre continuamente il personale” (Caruso, 2003, p. 4)
Esso in realtà, è però un’arma a doppio taglio. Se nel breve periodo i suoi risultati in
termini di risparmio non stentano ad arrivare, nel lungo periodo esso non porta
risultati nello sviluppo dell’organizzazione: “il limite del downsizing è che esso non
costruisce niente; quando si sia tolto tutto il "grasso" aziendale, o eliminate le aree di
perdita, il vero problema rimane l'espansione redditizia, perché un'impresa che pensa
solo a dimagrire prima o poi muore di anoressia” (Caruso, 2003, ibidem)
I processi di layoff vanno distinti dai licenziamenti per colpa o per volontà del
lavoratore. Essi hanno delle caratteristiche proprie: si configurano in una separazione
permanente e involontaria degli individui dall’organizzazione, dovuta al bisogno di
tagliare i costi (J. Brockner, 1988).
Solo dalla seconda metà degli anni ’80 si è iniziato a studiare l’impatto che tali
processi hanno su atteggiamenti e comportamenti nei confronti del lavoro, tramite gli
studi sulla job insecurity che tratteremo in seguito.
2.1 Premessa.
Gli studi che verranno analizzati in questo capitolo fanno parte di un filone di molto
più ampio, quello sulla job insecurity, che affonda le sue radici nei primi anni ’30,
quando la crisi finanziaria del ’29 dimostrò come la perdita del lavoro, in Europa e
negli Stati Uniti, potesse durare anni e avere caratteristiche così strutturali e profonde
(Jahoda, 1933; Jahoda, 1971; Ziesel, 1971; Crepet, 1990) da incidere nella
riconfigurazione della quotidianità e nelle rappresentazioni collettive nei decenni
successivi.
Naturalmente il concetto di job insecurity si è andato poi evolvendo nel tempo, anche
se questo lavoro, proprio per via della situazione economica e strutturale in cui è
stato condotto, mai come in questi tempi risulta attuale. Certamente la crisi del 2008
non è paragonabile a quella del ’29. Oggi rispetto ad allora sono cambiati nel numero
e nella complessità i fattori in gioco per reggere in piedi i sistemi finanziari e
competitivi, i quali riconfigurano continuamente le diverse logiche di generazione di
valore (Hammer, Champy, 1993). Ne consegue una cosiddetta “magmaticità”
(Sennet, 1999) che contraddistingue il lavoro e il suo mercato che porta, rispetto a
quegli anni, al superamento della semplicistica polarità occupazione/disoccupazione
(DePolo e Sarchielli, 1987).
Gallino (1998) osserva che la disoccupazione non è più un fatto transitorio legato ad
un rallentamento dell’economia, come lo fu nella lunga crisi conseguente alla caduta
di Wall Street, quanto uno stato profondo di malessere sociale, perché se
il tasso di disoccupazione dovesse coinvolgere come allora i quattro quinti della
popolazione, questo non potrà che comportare conseguenze drammatiche.
Il filone della job insecurity, quindi, è diventato un grande contenitore di studi, non
privo di ambiguità e ambivalenze, che abbraccia sia lavori più inerenti alla
caratterizzazione del lavoro e del suo mercato, sia quelli più inerenti alla soggettività
dell’individuo vittima della job insecurity.
Il primo modello che tenta di delimitare i confini e dare una definizione alla job
insecurity, è certamente quello di L. Greenhalgh e Z. Rosenblatt (1984), che rimanda
alla percezione dell’incertezza relativa alla sicurezza e alla continuità del lavoro
attuale e futuro, in una situazione di potenziale minaccia. Tale modello era stato
preceduto da altri studi di Greenhalgh (1979), nei quali emergeva come l’annuncio
della perdita di lavoro portasse negli individui le stesse reazioni psicologiche della
morte annunciata, e che questo portasse l’individuo a reagire come se l’evento fosse
già accaduto, ritirandosi psicologicamente dall’oggetto perduto, ovvero il proprio
lavoro. Emergeva inoltre come in un momento di minaccia come quello di
downsizing, fosse messa in discussione la funzione di comunicazione da parte del
management, che risultava retorica ed inutile, invece che inerente ai fatti (McKersie,
Greenhalgh, Jick, 1981).
Secondo questo modello sono tre i livelli che influenzano la percezione della
minaccia, il primo è la comunicazione organizzativa ufficiale; il secondo sono gli
indizi organizzativi, impliciti, anche se molto evidenti, come riduzione di budget,
implementazione di nuove tecnologie, costituzione di nuovi plant in paesi esteri con
costi del lavoro più bassi; il terzo livello sono i rumors, che diventano dominanti
quando l’informazione data dal management è insufficiente, ambigua, o
contraddittoria con gli indizi di cui parlavamo nel secondo livello.
Nel suo modello, Greenhalgh ipotizza che la percezione della minaccia è mediata
anche da fattori disposizionali, oltre che dal sistema di comunicazione e da fattori
esterni come la mobilità occupazionale e l’insicurezza economica: locus of control,
conservatorismo, orientamento lavorativo, attribuzione di tendenze e bisogno di
sicurezza sono tutte differenze individuali che vanno a mediare la percezione di
insicurezza e le reazioni personali ad essa. In ultimo, da non dimenticare è il ruolo
del supporto sociale che l’individuo ha a disposizione per mediare e moderare
l’esperienza di insicurezza.
Joel Brockner, ha dato un contributo molto interessante agli studi sulla job insecurity.
Fino alla prima metà degli anni ’80, infatti, gli studi sui processi di layoff, si erano
concentrati soprattutto sul processo manageriale in sé, e sulle conseguenze
psicologiche che i licenziamenti provocavano sulle “vittime” di tale processo.
Brockner intuisce invece, che sarebbe stato utile, per le organizzazioni, investigare
anche sulle conseguenze che un processo di cambiamento caratterizzato da una
crescente insicurezza lavorativa come quello del layoff, produce in coloro che
“sopravvivono” al taglio del personale: entra quindi sulla scena il Survivor
(Brockner, Davy, Carter, 1985), termine che poi diventerà di uso comune per tutti
coloro che andranno a toccare nei propri studi l’argomento della job insecurity (D.
Noer, 1993; D. Ambrose, 1993).
Ma Brockner si spinge oltre:
“Il modello di Brockner prevede una centralità degli effetti non solo sui survivors, ma indica una più
precisa centralità della dinamica organizzativa intesa come focalizzazione del rapporto tra gli
individui, il gruppo e l’organizzazione esaminati nella loro interrelazione ed interdipendenza nei
diversi momenti che precedono, sono contestuali e seguono i licenziamenti. Questo evento trascende
la volontà del lavoratore e prevede di assumere un contesto lavorativo tradizionale. Il licenziamento,
quindi, è l’atto paradigmatico e centrale delle nuove dinamiche organizzative tendenzialmente
finalizzate alla riduzione della forza lavoro e fattore fondamentale nelle ristrutturazioni per arrivare a
nuovi equilibri sociali ed economici nei diversi sottosistemi organizzativi, nuove aggregazioni
gruppali sui processi, nuove riconfigurazioni macro organizzative. In questo scenario il licenziamento
indurrà differenti stati psicologici dei survivors presenti nell’organizzazione. Potrà essere peraltro
effettuato in vari modi da parte del management e gli impatti sui gruppi ed i soggetti rimasti saranno
intuitivamente complessi ed articolati. L’insieme di questi fattori condizionati da una serie di variabili
moderatrici determineranno un insieme di comportamenti organizzativi o di conseguenze che a loro
volta con un processo di retroazione indurranno o meno altre decisioni e potenzialmente altri
licenziamenti.” (Zuffo, Kaneklin, in Ferrari e Veglio, 2005, p. 22)
Brockner nella sua analisi parte dal ricercare evidenze a sostegno della sua tesi nella
letteratura manageriale. Essa suggerisce infatti che i processi di layoff portano con sé
una grossa varietà di conseguenze negli stati psicologici, negli atteggiamenti e nei
comportamenti dei survivors. Produttività, commitment organizzativo, rapporti con i
propri colleghi o con il lavoro in sé, sono solo alcune delle variabili che verranno
toccate da un’esperienza come quella del survivor. Da ciò si capisce quanto sia vasto
il campo di reazione ai processi di layoff, e quanto esso possa variare a seconda
dell’individuo e della situazione che esso andrà ad affrontare. Per esempio la
letteratura manageriale suggerisce che a seguito di un processo di licenziamento la
forza lavoro possa essere demotivata, mentre altri studi suggeriscono che questo
possa comportare un aumento della performance, o semplicemente non avere effetto.
E’ quindi chiaro che tra la causa, ovvero il processo di layoff, e le conseguenze,
ovvero gli atteggiamenti e i comportamenti dei membri dell’organizzazione, esistono
una quantità di variabili moderatrici che modulano le reazioni individuali. Brockner
tenta appunto di analizzare tali variabili e trovarne il posto in un modello
dimostrabile empiricamente.
Per fare ciò egli inizialmente analizza gli stati psicologici che un processo di layoff
può causare ai survivors. Tra questi troviamo sicuramente la job insecurity, infatti,
anche se sopravvissuti al taglio di personale, i survivors potrebbero avere la
sensazione che altri tagli siano in vista; l’iniquità positiva, se i survivors
percepiscono di non aver meritato di rimanere nell’organizzazione rispetto a coloro
che invece sono stati vittime del taglio; rabbia, nel caso essi abbiano percepito il
processo di layoff, o il metodo con cui è stato attuato, inappropriato o illegittimo;
infine bisogno di soccorso, nel caso, durante il processo di layoff, si preoccupino di
poter essere licenziati. Naturalmente, questa lista non è assolutamente esaustiva, in
quanto concerne solo gli stati psicologici più comuni, in un processo che ha
comunque un’alta variabilità di reazioni psicologiche.
Brockner inoltre teorizza che tali stati psicologici possano avere conseguenze sia su
comportamenti quali la motivazione o la performance lavorativa, sia su attitudini
quali soddisfazione lavorativa e commitment organizzativo. Come del resto
dimostrano gli studi di Yerkes e Dodson (1908), livelli troppo bassi o troppo alti di
ansia sono correlati con bassi livelli di performance, e questo naturalmente vale
anche per la job insecurity, che si configura infatti come una forma d’ansia.
Successivi studi hanno poi confermato come questo tipo di reazioni siano centrali
nell’ambito organizzativo e soprattutto sull’esito del processo di cambiamento. Già
nel 1979 Greenhalgh aveva sottolineato nelle proprie ricerche come una conseguenza
tra le più drammatiche per l’organizzazione sia quella della propensione a lasciare
l’organizzazione volontariamente. “Sembra che i primi ad andarsene da contesti pieni
di minacce siano proprio i lavoratori più validi, anche se sono quelli con una minore
probabilità di essere espulsi” (Greenhalgh e Jick, 1979, in Ferrari e Veglio, 2005, p.
25 ).
Lo stesso Brockner (1988, 1992, citato in Ferrari e Veglio, 2005, ibidem), in uno
studio effettuato su committenza dalla Kodak, scrive che “le dimissioni di coloro che
sono ritenuti dotati di alto potenziale o in ogni caso collaboratori importanti per
l’azienda proseguono per un lungo periodo di tempo dopo la fine delle operazioni di
downsizing, nonostante le rassicurazioni del management e le oggettive possibilità di
carriera.”
Anche ricerche più recenti, come quelle di osservatori diretti in processi di fusione e
acquisizione (I. T. Kay e M. Shelton, 2000), confermano l’aumento di turnover ed
“evidenziano come uno degli elementi critici delle fusioni sia riconducibile alla fuga
dei talenti e dei manager chiave” (A. A. Cannella e D. C. Hambric,1993; A. H.
Krishnan, A. Miller, W.Q. Judge, 1997, in Ferrari e Veglio, 2005, p. 26). I livelli di
abbandono misurati in questa ricerca sono notevoli: dopo cinque anni, solo il 30%
del management che aveva iniziato il processo di downsizing era ancora presente
nelle aziende target.
2.4 Variabili moderatrici dei comportamenti di risposta al layoff.
Per spiegare l’alta variabilità dei comportamenti di risposta al layoff da parte dei
survivors, Brockner, come già citato prima, ricorre a delle variabili moderatrici. Esse
si configurano come il terzo livello del modello concettuale di Brockner, e sono
rilevanti per entrambi gli altri livelli: gli stati psicologici e gli atteggiamenti e i
comportamenti di risposta. Egli, infatti, ipotizza come tali variabili possano
influenzare sia il processo che, a partire dal licenziamento, influenza gli stati
psicologici, sia quello che a partire dagli stati psicologici, cambia gli atteggiamenti e
i comportamenti nei confronti dell’organizzazione.
Brockner organizza tali variabili in cinque macroaree che andremo a descrivere più
dettagliatamente: natura del lavoro, differenze individuali tra i survivors,
organizzazione formale, organizzazione informale, situazione ambientale.
b) Differenze individuali.
c) Organizzazione formale.
d) Organizzazione informale.
e) Condizioni ambientali.
La teoria dell’equità di Adams (1963) fa parte del filone più ampio delle cosiddette
“teorie dello scambio” che “postulano come nelle interazioni sociali le persone
desiderino massimizzare i propri benefici e minimizzare i costi e come fondino le
loro scelte sulla base di confronti circa i ricavi possibili dei diversi corsi di azione”
(Sarchielli, 2005, p. 180). In questo caso l’attenzione è quindi posta sui processi
cognitivi che permettono di impegnarsi o meno in un corso d’azione, connessi non
solo a forze interne all’individuo, ma anche alla percezione del proprio rapporto con
il contesto lavorativo. Infatti il lavoratore andrà a considerare la relazione tra i
contributi che egli porta all’organizzazione (input) come esperienza, tempo,
impegno, coinvolgimento, competenze, e i risultati attesi (output) ovvero, stipendio,
status, opportunità di carriera, sicurezza.
Nel momento in cui tale percezione di equilibrio o equità dovesse venire meno, ecco
che, secondo Adams, si andranno a scatenare una serie di reazioni motivazionali e
comportamentali che l’individuo userà per ridurre la dissonanza tra input e output e
per cercare di ristabilire un equilibrio. Questo potrà avvenire tramite: la modifica
degli input o dei risultati, infatti se il lavoratore percepisce che i suoi sforzi non siano
adeguatamente ripagati, potrebbe abbassare la qualità o la quantità dell’impegno
profuso, oppure negoziare un aumento degli output; la modifica dei propri referenti,
adeguando il proprio confronto sociale con modelli più simili alla propria situazione;
la modifica delle percezioni relative al rapporto input\output, riconsiderando il valore
degli input e degli output che potrebbero essere percepiti in maniera distorta;
cambiando lavoro, nel tentativo di trovare una collocazione occupazionale percepita
come più equa.
Nel caso dei survivors, essi tenderanno a giudicare l’equità nel processo di layoff
ponendosi domande tipo, sulla falsa riga di quelle citate da Piccardo e Colombo
(2007) nel capitolo precedente riguardo le reazioni al cambiamento:
La percezione di iniquità basata sulla risposta che i lavoratori danno a queste e altre
domande avrà implicazioni nei loro atteggiamenti e comportamenti conseguenti. Nel
momento in cui essi dovessero percepire iniquità positiva nelle scelte del
management riguardo i licenziamenti, ovvero di non meritare di rimanere
nell’organizzazione rispetto a coloro che sono stati licenziati, andranno a sviluppare
quella che Brockner (1990) chiama “survivor guilt”, ovvero senso di colpa del
survivor, che porterà ad un maggiore impegno lavorativo per sopperire alla carenza
di input percepiti. Ma se invece i survivors dovessero percepire che il processo di
layoff sia iniquo o ingiusto, o come vedremo in seguito essi si dovessero identificare
in maniera molto forte con coloro che sono stati licenziati, l’iniquità percepita sarà di
tipo negativo, in quanto scenderanno i valori di output percepiti. Questo porterà a
sentimenti di collera e quindi a forti resistenze da parte del lavoratore, e ad una
diminuzione della motivazione al lavoro e quindi delle proprie prestazioni, infatti il
lavoratore andrà a riequilibrare il rapporto input\output riducendo il livello di input
concessi all’organizzazione.
2.6 Effetti di iniquità, autostima, giustizia percepita dai survivors.
In una delle sue ricerche più interessanti, Brockner si interroga sugli effetti che il
licenziamento dei colleghi provoca nei survivors, introducendo una nuova variabile
moderatrice: lo “Scope of Justice” (Brockner, 1990, pp. 95-106). L’ipotesi è che le
reazioni negative che il survivors proverebbe in risposta ad un processo di layoff
iniquo potrebbero essere moderate dalla misura in cui le “vittime” del layoff siano
incluse nel campo di giustizia del survivor. Infatti è noto come le persone siano in
grado talvolta di tollerare le ingiustizie verso altre persone innocenti, soprattutto se
esse non rientrano nella definizione comune di "comunità", in cui le gente si
rispecchia e vede rispettati i propri standard etici (Deutsch, 1985). Si fa qui
riferimento alla definizione di moral inclusion di Opotow (1988) e alla teoria
dell’equilibrio di Heider (1958), infatti Brockner ipotizza che se le vittime del layoff
si trovano all’interno della comunità morale dei survivors, i comportamenti lavorativi
e gli atteggiamenti di questi ultimi siano più influenzati dalla misura in cui le vittime
siano state trattate equamente durante il processo di layoff.
Opotow (1988) fa notare come ci siano numerosi fattori che possono influenzare
l’inclusione di altre persone nella propria comunità morale: più vicini sono i legami
psicologici tra gli individui, più facile sarà che essi siano compresi nella comunità
morale altrui. Brockner quindi deduce che sono tre i casi in cui i survivors potrebbero
includere le vittime nel proprio scope of justice:
Brockner, inoltre, nel suo esperimento, non si limita ad osservare in che misura
l’inclusione delle vittime nella propria comunità morale influenzi le reazioni dei
survivors nei confronti dell’organizzazione, ma introduce anche due variabili
riguardanti la giustizia procedurale: l’explanation e il caretaking.
In uno studio più recente, Brockner è tornato ad indagare sugli effetti della giustizia
procedurale in relazione all’autostima dei survivors (Brockner, Wiesenfeld, Martin,
1995). L’ipotesi questa volta è che rendere i survivors consapevoli dei motivi per i
quali sono stati scelti per rimanere in seno all’organizzazione sia un meccanismo che
permetta ad essi di evitare di porsi dubbi sulla effettiva giustizia procedurale che ha
caratterizzato il processo di downsizing. In tale studio Brockner, infatti, ha
dimostrato che quando l’individuo si focalizza sugli esiti ottenuti dai licenziati, la
fiducia che esso nutre nei confronti dell’organizzazione tende a decrescere. Quando
invece esso è supportato nell’analisi dei propri punti di forza, tende a far crescere la
propria autostima, e con essa anche la fiducia nei confronti dell’organizzazione.
Questi studi dimostrano che molte delle reazioni negative dei survivors sarebbero
perciò causate dalle mancanze del management che sarebbe portato a sottovalutare
per le ragioni più diverse i rischi dell’iniquità esercitata. Questa leggerezza va ad
intaccare profondamente il rapporto fiduciario tra organizzazione e dipendente. Tale
legame fiduciario infatti, è visto come moderatore dell’insoddisfazione del survivor,
ed è un compito del management riuscire a stabilirlo e mantenerlo. “La ripetuta
esperienza della giustizia procedurale, anche quando non tutti i risultati sono
favorevoli, rende più probabile la creazione di una base di fiducia nei confronti
dell’autorità” (J. Brockner, P. A. Siegel, J. P. Daly, T. Tyler, C. Martin, 1997, in
Ferrari e Veglio, 2005, p.32).
E’ proprio sui comportamenti manageriali che Brockner si sofferma nelle sue analisi
più recenti, in particolar modo sugli esiti dei processi di downsizing in
corrispondenza alla giustizia procedurale percepita e sull’autostima dei manager
come variabile moderatrice della favorevolezza degli esiti del processo stesso.
In una ricerca transculturale Brockner e coll. (2000) hanno dimostrato come l’esito
favorevole di un processo di downsizing dipenda anche dal livello di interdipendenza
che caratterizza una data cultura manageriale. E’ stato dimostrato infatti che culture
manageriali caratterizzate da una forte interdipendenza, come quella cinese nel caso
studiato, riescono a condurre processi di downsizing in maniera più favorevole
rispetto a culture più propriamente individualistiche, e che manager con livelli più
alti di autostima sono in grado di mettere in atto meccanismi e politiche più congrue
ed efficaci rispetto ai loro colleghi con bassi livelli di autostima.
2.7 Conclusioni.
Bisogna però che le aziende imparino ad usare questo strumento senza eccessi. Gli
effetti di downsizing ripetuti si è dimostrato riducano le strategie di coping degli
individui, indebolendo gli individui di fronte ad eventi stressogeni (Zapf, Dormann,
Frese, 1996). Il rischio è quello di sviluppare sentimenti di cinismo organizzativo
(Andersson, 1996; Andersson, Bateman, 1997; Johnson, O’Leary-Kelly, 2003; Pugh,
Skarlicki, Passell, 2003), caratterizzato da un atteggiamento negativo generalizzato
dei lavoratori nei confronti dell’organizzazione per la quale lavorano. Tale costrutto
è composto da tre dimensioni: la convinzione che l’organizzazione abbia perso la
propria integrità; la presenza di affettività negativa nei confronti di essa; la messa in
atto di comportamenti critici derivanti dalle prime due dimensioni. Derivanti dal
cinismo organizzativo sono fenomeni di opportunismo o di mercenarismo o
comportamenti eticamente discutibili, che certamente il manager, nel momento in cui
programma un intervento di downsizing, non può ignorare, in quanto gravemente
lesivi sia dell’immagine che della funzionalità della propria organizzazione.
CAP. 3: UNO STRUMENTO UTILE, IL COUNSELING DI
OUTPLACEMENT.
3.1 Premessa.
In realtà, proprio in riferimento al cambiamento del mercato del lavoro, alla sua
“magmaticità” e alla sua natura fortemente dinamica, questo problema dovrebbe
entrare nella normalità delle pratiche organizzative, contribuendo a determinarne lo
sviluppo.
L’outplacement è uno strumento utile per ristabilire l’equilibrio o per lo meno per
ridurre lo squilibrio nel triangolo Heideriano citato in precedenza: salvaguarda infatti
il rapporto organizzazione – vittima in quanto permette all’organizzazione di
accompagnare e gestire il processo di licenziamento coinvolgendo il dipendente
nell’assunzione di responsabilità riguardo l’interruzione del rapporto di lavoro e
offrendogli la possibilità di individuare nuove opportunità di carriera; salvaguarda
inoltre il rapporto organizzazione – survivor, in quanto esso viene inteso come una
maniera per “prendersi cura” del proprio personale in esubero, facendo apparire
quindi il processo di layoff come più equo e giusto, e andando ad evitare o a
moderare reazioni negative o resistenze da parte dei survivors dovute alla percezione
di ingiustizia.
“una qualificata consulenza e assistenza che viene offerta, esclusivamente su mandato dell'azienda e
senza alcun onere per il dipendente, che potrà avvantaggiarsi dell'intervento specialistico di
professionisti esperti in tutte le problematiche connesse alla riqualificazione professionale, alla
gestione di carriera e al riorientamento del lavoratore nel contesto produttivo.” (Perotti, 2007, p.29)
Healy (1982, p.74) inoltre sostiene che gli interventi di outplacement consentono di
“ridurre l’ansia e la tensione prodotta da un’interruzione del percorso di carriera;
incrementare l’attrattività della ricerca del lavoro; assicurare strategie costruttive di
placement; diminuire il periodo di disoccupazione; influenzare il cambiamento di
carriera per migliorare l’inserimento occupazionale del lavoratore”.
Successivamente a questa “rinascita”, negli anni ‘80 si avrà una reale affermazione
del counseling di outplacement, che sorpasserà finalmente i confini degli Stati Uniti,
diffondendosi prima in Canada, poi in Europa e in Asia, e professionalizzandosi
tramite istituti come l’International Board of Career Management Certification in un
approccio che “enfatizzi le problematiche professionali e di business, non solo
psicologiche, che caratterizzano i modelli di approccio al problem solving e alla
gestione delle situazioni che i candidati hanno sviluppato nello loro esperienze
lavorative prima del licenziamento” (Gallagher, 1997, p.138).
In Italia tale professionalizzazione è avvenuta solo nel 1996, con la costituzione
dell’Associazione dei professionisti di outplacement e di management
dell’evoluzione professionale che ha dato vita, insieme all’Associazione italiana
società outplacement, alla Commissione per la certificazione dei consulenti di
carriera, ovvero i conselour di outplacement (Tanucci, 2010, p.334).
E’ negli anni ’70 che i servizi di counseling si sono aperti anche a consulenze di
gruppo (Troisi, 1993), dovendo fronteggiare accresciute richieste di consulenza e
lavori più corposi come i licenziamenti di massa nelle imprese multinazionali. Si
sono inoltre sviluppati programmi “su richiesta”, ovvero pensati in maniera calzante
per la committenza, supportati dal fatto che non tutti i lavoratori licenziati hanno
bisogno di tale intervento, e che in questa maniera l’organizzazione è in grado di
personalizzare gli interventi secondo le esigenze degli utenti e al contempo
razionalizzare i costi dell’intervento.
Un’ulteriore evoluzione del servizio di counseling negli anni ’90, è quella della
moltiplicazione dei servizi che le organizzazioni che si occupano di outplacement
offrono, oltre che ai fruitori del servizio, anche alle aziende che li ingaggiano (Meyer
e Shadle, 1994). Si è passati infatti dal classico servizio di consulenza e job-training
al cliente, dove la società di outplacement non partecipa né alla fase di estromissione
del dipendente, ne al suo collocamento in altra azienda, ad un servizio tout-court che
prevede anche un supporto amministrativo e decisionale che segue l’azienda durante
tutto il processo di downsizing, e che oltrepassa i confini del counseling di
outplacement classico, aiutando quindi da un lato l’organizzazione a pianificare un
processo di cambiamento adeguato e quanto più possibile meno traumatico, e
dall’altro il singolo che sarà vittima di tale processo.
Egli stesso si propone quindi di indagare sulla soddisfazione dei clienti del
counseling di outplacement ed esaminarne le implicazioni. Per il suo studio egli
analizzò 11 componenti dell’intervento di outplacement suggeritegli da
un’organizzazione che operava nel campo, e le mise in relazione con la soddisfazione
dei clienti che ne avevano fatto uso. Divise le 11 componenti in tre dimensioni:
componenti di contenuto, ovvero la preparazione dell’intervento e il training alla
ricerca di lavoro; componenti di processo, come la relazione con il counselor, la
chiarezza delle aspettative, l’assistenza nel mantenere il focus; componenti di
contesto, che racchiudono strumenti quali librerie, software, supporto
amministrativo.
Tramite una serie di interviste analizzate con il metodo qualitativo del critical
incident, capace di esplorare a fondo specifici eventi, e molto utile come strumento
fondazionale\esplorativo nei primi stadi di ricerca (Flanagan, 1954; Woolsey, 1986),
gli autori sono riusciti a stilare una lista di outcomes positivi, negativi, e di desideri,
che i soggetti di ricerca hanno provato nei confronti del counseling.
I risultati di questa ricerca non sono incoraggianti: sembra infatti che la maggior
parte dei clienti dei servizi di counseling di outplacement ricevano programmi
troppo strutturati e centrati sul compito, che non vanno incontro ai loro bisogni
emozionali durante questa importante fase di transizione. Nella categoria dei desideri
infatti, troviamo il bisogno dei partecipanti di poter raccontare più approfonditamente
le proprie storie, di avere qualcuno che empatizzi con loro più che focalizzarsi
unicamente sul completamento del compito.
Queste evidenze sono in pieno accordo con tutte le teorie e le pratiche emergenti in
letteratura sul career counseling e il counseling di outplacement, ma evidentemente
hanno ricevuto una applicazione limitata, almeno per quanto riguarda le sei agenzie
di outplacement dei cui servizi hanno fatto uso i partecipanti a questa ricerca.
Questo suggerisce che ci possa essere un gap, tutt’oggi, tra i servizi di outplacement
erogati e, da una parte i bisogni reali dei clienti, e dall’altra i dettami della letteratura
manageriale e psicologica dell’argomento.
Nelle descrizioni sui servizi erogati dalle organizzazioni di counseling gli autori
hanno trovato molti riferimenti alla business community e ai servizi che per essa
sono indispensabili, come abilità nel job search, nel preparare un résumé, ecc. Manca
invece ogni riferimento all’orientamento guidato, al counseling, alla formazione, e
sono proprio questi i fattori che invece i clienti studiati desiderano di più,
includendoli sempre nelle loro wish list.
Il problema in questo caso potrebbe appunto risiedere nei counselor stessi: in tutti i
casi di studio essi si configuravano come persone molto esperte di business, ma
erano prive di abilità di counseling.
Un’altra evidenza che questo studio è riuscito a cogliere è quella che le sessioni di
outplacement di gruppo come seminari, meeting, workshop, sembrano non incontrare
i bisogni dei clienti. Essi infatti tendono a desiderare maggiormente un’attenzione
individuale e connessione con il counselor, e provano il bisogno di condividere i
propri vissuti, cosa che in questi incontri è molto difficile.
3.5 Conclusioni
Come detto in precedenza, momenti di crisi sono un fenomeno endemico del sistema
economico internazionale così come attualmente strutturato, con tutte le conseguenze
che essi portano all’economia, ma soprattutto al benessere di individui, famiglie e
società.
Fatto salvo l’assunto che in momenti come questi i processi di layoff e di downsizing
organizzativo possono essere necessari per la salvezza di un’intera organizzazione e
quindi del benessere di coloro che ne fanno parte, si è visto come diversi modi di
agire da parte del management possono portare risultati e conseguenze totalmente
differenziati, sia per quel che riguarda il benessere delle organizzazioni, sia per
quanto riguarda i risvolti psicologici nei suoi membri.
Per evitare ciò, o per lo meno per attenuare tali reazioni e conseguenze, è
fondamentale il ruolo del management in un processo tanto delicato. Informazione
completa, stile di comunicazione chiaro e sincero, metodi di cambiamento quanto più
equi possibile, l’uso di strumenti adeguati per prendersi cura dei propri membri, sia
coloro che dovranno lasciare l’organizzazione, sia coloro che invece
“sopravviveranno” all’esubero, sono fattori fondamentali per ottenere risultati
accettabili da un processo di downsizing, del quale inoltre non si dovrebbe mai fare
un uso smodato.
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