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INTRODUZIONE

La crisi che nel 2008 ha colpito prima gli Stati Uniti d’America, e in seguito il resto
del mondo, ha portato notevoli sconvolgimenti nel sistema economico mondiale, e di
conseguenza nelle vite delle persone che in tale sistema sono coinvolte. Prima
dell’avvento di tale crisi l’economia mondiale cresceva del 5% l’anno, e i livelli di
occupazione erano elevati e stabili. Dal 2008 questo trend si è invertito, e la
produzione è andata diminuendo del 2-2,5% l’anno, il Pil mondiale nel 2009 è sceso
dello 0,8% e quello italiano del 4,8%, facendo si che molti economisti descrivessero
questa crisi come la peggiore del dopoguerra, paragonabile solo a quella del 1929,
sebbene i suoi effetti sull’economia reale siano stati attenuati dai diversi interventi
pubblici che i governi hanno messo in atto per fronteggiarla, e dalla prontezza e dalla
coordinazione internazionale che ha caratterizzato tali interventi.

Tale situazione è naturalmente fonte di grande incertezza, che è la sigla ricorrente in


ogni momento di caduta economica, ed è in maniera ambivalente causa ed effetto di
tale crisi. Non va dimenticato che, nonostante le previsioni ottimistiche, se tale
depressione continuerà ad aver luogo, gli impatti sull’economia reale e sulla
distribuzione del reddito saranno difficilmente calcolabili.

Nonostante gli esperti di settore sentenzino unanimemente che il momento più acuto
di tale crisi sia già alle spalle, identificandolo con il maggio 2009, la tanto agoniata
ripresa stenta ad arrivare. Gli effetti peggiori che questa crisi ha portato sono stati
una contrazione dei mercati, con conseguente vanificazione degli investimenti
finanziari, e soprattutto un drastico aumento dei livelli di disoccupazione, che ha
portato le conseguenze più pesanti nell’economia reale (redditi, consumi,
investimenti).

Molte imprese sono fallite, e quelle che sono riuscite a sopravvivere alla crisi, spesso
lo hanno fatto tramite pesanti tagli nelle spese, e grossi ridimensionamenti. Il
fenomeno del downsizing organizzativo è tornato rapidamente di moda, e ciò ha
portato sia le piccole e medie imprese, che le grandi compagnie, a dover attuare
processi di lay-off molto profondi, spesso anche eccessivi.
Solo in Italia gli esempi di Eutelia, del petrolchimico sardo, degli stabilimenti Fiat
hanno dimostrato come la crisi finanziaria non sia fatta di soli numeri, ma di persone
che, essendo parte delle organizzazioni per le quali lavorano, e spesso identificandosi
con esse, saranno restie ad accettare processi di esubero così totalizzanti e vagamente
motivati come i casi sopra citati. E questi sono solo i casi rimbalzati prepotentemente
tra i tra i media, facendo venire a galla una situazione che altrimenti in molti
avrebbero fatto fatica a conoscere. E’ lecito ritenere che non siano gli unici cosi
problematici.

Si presenta dunque una domanda: di fronte ad eventi di crisi di questa portata, come
si dovrebbero comportare le organizzazioni per raggiungere il doppio obiettivo di
salvaguardare la propria sopravvivenza da una parte e mitigare le resistenze dei
propri membri ad un processo di cambiamento così traumatico come quello del
downsizing?

La psicologia delle organizzazioni sembra in grado di rispondere a tale domanda, e la


seguente trattazione cercherà di farlo nella maniera più opportuna. Nel primo
capitolo verrà trattato l’argomento del cambiamento organizzativo, che da molti anni
ormai è oggetto di studio della psicologia delle organizzazioni, focalizzandosi
appunto su processi quali il downsizing e le resistenze al cambiamento. Nel secondo
capitolo si parlerà dei survivors, ovvero di coloro i quali “sopravvivono” ad un
processo di downsizing, rimanendo in azienda, con un occhio di riguardo alle
conseguenze psicologiche dovute ai processi di licenziamento e alle variabili
moderatrici di tali conseguenze. Nel terzo ed ultimo capitolo, si andrà ad analizzare
uno strumento utile a moderare reazioni e conseguenze traumatiche nei survivors e
ad aiutare coloro i quali saranno costretti a lasciare l’organizzazione per la quale
hanno lavorato: si parla del counseling di outplacement.
CAP. 1 IL CAMBIAMENTO ORGANIZZATIVO

1.1 Premessa.
Parlare di cambiamento organizzativo significa parlare di un argomento molto vasto,
trattato con molteplici approcci, un argomento che entra prepotentemente nella storia
delle organizzazioni fin dalla loro nascita, ma diventato sempre più attuale per via
delle spinte esterne che l’innovazione tecnologica, la globalizzazione e le
caratteristiche della moderna forza lavoro hanno dato a questo tipo di processo.
Quaglino (1990, p. 323) cercando di darne una definizione, identifica questo
processo: “come quell’insieme di azioni pensate e orientate dichiaratamente e
deliberatamente verso un obiettivo di mutamento dell’organizzazione”.
Si parla quindi di un cambiamento consapevole e deliberativo, finalizzato ad un
passaggio da uno stato A in cui insorge una situazione o un problema che interferisce
con la stabilità o il buon funzionamento dell’organizzazione, a uno stato B che
rappresenta raggiungimento di una nuova stabilità o di un determinato livello di
prestazione. Il raggiungimento di tale rinnovata stabilità avviene appunto tramite un
“percorso che conduce l’organizzazione dallo stato A allo stato B: nel duplice aspetto
di ciò che individua il secondo per differenza rispetto al primo (il contenuto del
cambiamento) e di ciò che viene “agito” per passare dal primo al secondo (il
processo di cambiamento)” (ibidem)
In letteratura molti autori hanno trattato questo processo, e tra i più importanti, il
primo è stato probabilmente Lawrence (1954) che ne parla come un fenomeno che ha
un aspetto tecnico e uno sociale, intendendo con il primo la realizzazione di una
modificazione dei consueti processi meccanici del lavoro, e con il secondo il modo in
cui gli attori del cambiamento pensano che esso modificherà le proprie relazioni
nell’organizzazione. Il concetto di cambiamento organizzativo è andato poi
evolvendosi di pari passo con l’evoluzione delle scienze economiche, organizzative e
sociali, che ha prodotto una varietà di significati del concetto di cambiamento,
differenziati, ma con dei punti di contatto:
 “L’evidente relazione esistente tra organizzazione e ambiente esterno nei
processi di cambiamento”
 “La relazione reciproca che il cambiamento induce tra organizzazione e
individuo”
 “La difficoltà nel distinguere il cambiamento come passaggio di forme
dell’organizzazione e come strategia finalizzata allo sviluppo” (Piccardo
Colombo, 2007)

Inoltre, come già fatto notare da diversi studiosi, come Quaglino (1990, ibidem), Daft
e Noe (2001, p. 620), il cambiamento organizzativo, essendo un processo che
comporta un passaggio di stato, non può essere scollegato dal concetto di
innovazione, che appunto è mezzo, fine e conseguenza di ogni processo di
cambiamento organizzativo. Innovazione tecnica e procedurale, le forme più
immediatamente osservabili, ma anche innovazione “dei ruoli e delle relazioni
proprie dei ruoli, quindi anche delle mansioni e dei rapporti personali di coloro che li
esplicano.” (Rice, 1963 in Piccardo, Colombo, 2007, p.14).

1.2 Modelli di cambiamento organizzativo.

La proliferazione di studi sul cambiamento organizzativo e le focalizzazioni sui


diversi aspetti analitici hanno fatto si che i modelli teorici che hanno descritto il
cambiamento organizzativo in letteratura siano molteplici. Già dai primi anni ’50
Lewin “propone un modello dinamico del comportamento dei gruppi che punta
l’attenzione sulla tendenza a mantenere uno stato di equilibrio costante nel tempo
(omeostasi), anche in presenza di spinte al cambiamento” (Piccardo, Colombo, 2007,
p.29), modello che parte da una ipotetica situazione di status quo, all’interno della
quale spinte al cambiamento iniziano a scontrarsi con le resistenze del gruppo. Se tali
spinte riescono a superare le resistenze si verificherà una prima fase di unfreezing, o
scongelamento, facilitato da eventi quali pressioni ambientali, abbassamento delle
prestazioni o della produttività, o il riconoscimento di un problema organizzativo. Il
management in questo caso ha due vie da seguire per attivare la fase di unfreezing: o
lavorando sulle spinte al cambiamento, oppure cercando di ridurre le resistenze allo
stesso. Lewin mette in guardia dall’attuare il processo di cambiamento senza questa
prima fase di scongelamento: ciò renderebbe il processo difficilmente controllabile e
direzionabile, a causa delle molteplici resistenze che ancora non sono state abbattute.

A questa prima fase di scongelamento segue una seconda fase dove ha luogo il
cambiamento vero e proprio, che andrà a colpire gli attori, in termini di nuovi
modelli comportamentali, i loro compiti, le strutture e le tecnologie interne
all’organizzazione. In questa fase il sistema sarà sbilanciato, e diverse forze interne o
esterne ne regoleranno la direzione che prenderà, fino al completamento del
processo, che avverrà in una terza ed ultima fase di refreezing, o ricongelamento, che
vedrà un rinforzo e una stabilizzazione dei cambiamenti apportati, tramite una “loro
istituzionalizzazione come parte di una normale routine” (Piccardo Colombo, 2007,
p. 31).

Il modello di Lewin, sebbene abbia ricevuto forti critiche per la sua eccessiva
linearità e rigidità nel descrivere il processo di cambiamento, è servito da base per
molti successivi modelli descrittivi. Lussier (1996) propone un modello gestionale
del cambiamento organizzativo, integrando il lavoro di Lewin, mettendo in evidenza
gli aspetti gestionali del cambiamento. Sviluppa il suo modello in cinque fasi
parallele alle tre fasi di Lewin: Definizione del cambiamento; Identificazione delle
resistenze al cambiamento; Pianificazione del cambiamento; Promozione (o
attivazione) del cambiamento; Controllo del cambiamento. Rispetto al modello di
Lewin quindi, Lussier specifica un percorso procedurale, aggiungendo due fasi: una
di attivazione e promozione del cambiamento, una di controllo e valutazione dei
risultati.

Più complesso è invece un modello strutturato di sviluppo organizzativo, noto come


OD, ovvero Organizational Development, nato nella seconda metà degli anni
sessanta negli Stati Uniti, con l’intento di “sviluppare una tecnica di intervento per
generare e promuovere un cambiamento pianificato” (Bowditch, Buono, 1997;
Champoux, 2000; in Piccardo, Colombo, 2007, p.47). Bennis (1966) descrive l’OD
come “una risposta al mutamento che si prefigge la trasformazione di convinzioni,
atteggiamenti, valori e strutture organizzative in modo che possano meglio adattarsi
alle tecnologie, ai mercati, alle sfide e alla velocità dei cambiamenti in generale.”
(Piccardo, Colombo, 2007, ibidem). Tale modello parte dal concetto che per
sviluppare un cambiamento efficace è necessaria una partecipazione attiva da parte
di coloro che vi prendono parte, ripudiando ogni tipo di decisione top-down e
coercitiva. Tale partecipazione attiva è sinonimo di un cambiamento di tipo
incrementale, di un cammino lento ma costante verso l’obiettivo: “piccoli passi
coerenti tra loro, il possesso e l’utilizzo delle giuste informazioni, […] la loro
diffusione, l’assimilazione e l’interiorizzazione da parte del personale” (Dunphy,
Stace, 1988, citati in Piccardo, 2007, p.48) sono le parole chiave in grado di agire da
un lato sulla sicurezza percepita da parte del personale e dall’altro sull’ansia
dell’organizzazione a reagire alle spinte esterne al cambiamento. A questo modello
di tipo incrementale si è poi affiancato un modello di tipo trasformazionale,
necessario in uno scenario socio-economico mutevole e instabile come quello
dell’economia globalizzata moderna, all’interno del quale le spinte al cambiamento
sono sempre più forti e necessitano di trasformazioni più rapide e rispondenti ai
bisogni del mercato. In questi casi di urgenza è contemplato un cambiamento sia di
tipo parzialmente partecipativo (che porterà ad una trasformazione carismatica, ma
solo se gli attori principali manifesteranno disponibilità al cambiamento) sia un
cambiamento di tipo coercitivo (che porterà ad una trasformazione di tipo
dittatoriale, caratterizzata da forti resistenze nelle persone coinvolte). Compito di un
buon management in questo caso sarà lo scegliere la strategia di cambiamento più
consona al tipo di organizzazione e alla congiuntura economica in quel dato
momento.

1.3 Gestione del cambiamento organizzativo.

Da un punto di vista pratico l’OD si configura come un tipo di ricerca azione basato
sulla prospettiva che “comportamenti individuali e organizzativi sono influenzati
ampiamente dalle norme culturali e sociali del gruppo o della società cui gli individui
appartengono: il cambiamento deve tenere conto di tali norme e agire su di esse”
(Piccardo e Colombo, 2007, p. 89). Tale ricerca azione ha le sue basi nel modello di
Lewin e comprende quindi “una prima analisi dei bisogni di cambiamento, un
intervento di OD in senso stretto e una valutazione finale dei risultati raggiunti”.
(McShane, 2001, citato in Piccardo e Colombo, 2007, p. 83).

Si può capire allora come l’OD non sia soltanto un modello descrittivo di
cambiamento organizzativo, ma un “preciso movimento organizzativo che ha
elaborato e sviluppato nel tempo una riconoscibile filosofia di intervento e
strumentazione pratica” (Boldizzoni; citato in Piccardo, 1991, p. 16). Esso si
configura come “un’azione pianificata, guidata dal vertice, che coinvolge l’intera
organizzazione e si pone lo scopo di accrescere l’efficienza organizzativa mediante
interventi pianificati” (Beckhard, 1969, citato in Piccardo e Colombo, 2007, p. 89).
Gli agenti di questa azione sono “individui che possiedono le giuste conoscenze, le
abilità e il potere di guidare e facilitare il cambiamento” (McShane, 2001, citato in
Piccardo e Colombo, 2007, ibidem), e che abbracciano diversi ruoli e competenze,
dal ricercatore, al formatore, al consulente, al manager. Essi possono essere interni
all’organizzazione o esterni ad essa; nel primo caso solitamente il ruolo di promotore
del cambiamento viene assunto da persone che occupano una posizione di leadership
e che hanno le giuste competenze per realizzarlo, essi saranno avvantaggiati nel loro
compito dal fatto che conoscono approfonditamente l’organizzazione e possono
ispirare maggiore fiducia nel personale. Nel secondo caso, invece, tale ruolo viene
ricoperto da consulenti e ricercatori professionisti che “hanno ricevuto un certo tipo
di istruzione e hanno conseguito titoli accademici nel settore delle scienze
comportamentali” (McShane, 2001, ibidem), che hanno il vantaggio di avere un
punto di vista maggiormente distaccato e oggettivo della realtà organizzativa, e
quindi possono più facilmente realizzare un cambiamento reale e duraturo.

Il processo di gestione del cambiamento secondo l’OD è un processo altamente


partecipativo, che coinvolge attivamente gli attori organizzativi (McShane, ibidem)
tramite strumenti comunicativi fondamentali per dare informazioni e ricevere
feedback da tutti gli attori coinvolti. Essi si configurano innanzitutto in momenti di
restituzione dei dati d’indagine della ricerca azione, che possono essere diretti sia al
management che agli attori del cambiamento. Tramite questi incontri di feedback gli
interessati entrano nel vivo della ricerca, commentando i dati e contribuendo a darne
un significato condiviso. “Sulla base dei risultati della ricerca, […] viene stimolato
l’interesse e la partecipazione alla programmazione, raccolta, analisi, interpretazione
di un ulteriore numero di dati. L’informazione obiettiva, la conoscenza dei risultati
costituiscono il primo passo del cambiamento programmato” (Bennis,1969,p.110).

La ricerca azione si configura, nell’approccio OD, come un processo costituito da


quattro fasi, precedute da un momento di avvio in cui si negozia e stabilisce il
rapporto tra organizzazione ed agente del cambiamento. Beckhard e Harris (1977)
definiscono queste fasi in:

 Diagnosi: individuazione del bisogno di cambiamento.


 Definizione degli obiettivi: individuazione dei risultati attesi dal
cambiamento e formalizzazione della transazione verso lo stato auspicato.
 Piano d’azione: ipotesi della sequenza d’azione e previsione di possibili
alternative.
 Valutazione dei risultati: verificazione degli effetti ottenuti.

Al termine di tale processo, se il cambiamento è effettivamente avvenuto e le attività


di OD hanno prodotto gli effetti sperati, si avrà una stabilizzazione, consolidazione,
ed infine una istituzionalizzazione della nuova situazione: questo andrà a coinvolgere
vari sistemi, come quello retributivo, comunicativo,e normativo dell’organizzazione
e dei gruppi ivi contenuti. Questo processo di istituzionalizzazione corrisponde alla
fase di unfreezing Lewiniana citata in precedenza.

Fondamentale nel modello di cambiamento dell’OD è la funzione comunicativa che


il management e gli agenti del cambiamento devono espletare nei confronti degli altri
attori e dei membri dell’organizzazione. Infatti variegati studi hanno dimostrato
come i meccanismi comunicativi interni all’organizzazione sono forti moderatori
delle resistenze al cambiamento e giocano un ruolo fondamentale in relazione a
variabili psicologiche quali il commitment e l’involvement organizzativo. Mentre
con l’involvement si sottolineano i legami tra persona e lavoro che hanno un rilievo
con il self (Davis, 1996), con il concetto di commitment organizzativo si vuole
intendere una forza psicologica stabilizzante che porta l’individuo a compiere una
serie di azioni rilevanti ai fini dell’obiettivo dell’organizzazione (Bentein,
Vandenberg, Vandenberghe, Florence, 2005; Meyer, Herscovitch, 2001). Tale
costrutto riguarda i legami che caratterizzano i rapporti persona-organizzazione,
legami di tipo affettivo, che si configurano in una sorta di attaccamento
all’organizzazione: soddisfazione rispetto alle relazioni, al proprio futuro
nell’organizzazione, al livello di considerazione, al clima psicologico; legami di
permanenza, che riguardano la necessità di dare continuità all’attuale esperienza
anche in relazione ai possibili costi che deriverebbero dall’abbandonarla; legami
normativi, ovvero obblighi di lealtà, di rispetto della fiducia ricevuta. (Sarchielli,
2005, pp.296-300). Un alto valore di committment è stato dimostrato avere forte
correlazione con comportamenti virtuosi nei confronti dell’organizzazione, come la
cittadinanza organizzativa (aiuto volontario, ampliamento dei compiti di ruolo), il
benessere percepito e la riduzione dei tassi di turn-over. (Sarchielli, ibidem). In uno
studio di Thomas W.H. e coll. (2006) condotto su 1770 impiegati full-time e 273
impiegati part-time in 21 grandi negozi al dettaglio americani, è stato dimostrato
come le pratiche del management influenzino i valori di commitment organizzativo,
e in particolar modo come pratiche comunicative volte ad aumentare la condivisione
delle informazioni all’interno delle organizzazione tramite “supervisori, meeting di
gruppo, prospetti informativi, newsletters e siti internet, definizione delle missions”
(Argenti, 1998; Soupata, 2005) correlino positivamente con alti valori di
commitment.

Chi lega il concetto di cambiamento organizzativo al costrutto di commitment è


DuBrin (1997), che, riprendendo le quattro fasi di OD, specifica un percorso di guida
ottimale verso il cambiamento. Il suo modello di cambiamento ideale passa
attraverso la condivisione delle informazioni, la promozione del commitment e la
comprensione delle potenzialità di sviluppo organizzativo, per poi giungere
all’istituzionalizzazione e alla valutazione del cambiamento realizzato (Piccardo e
Colombo, 2007). Egli parla appunto del commitment come di una condizione
necessaria al successo dell’iniziativa di cambiamento, potendo tale costrutto fornire
una previsione sicura e positiva del sostegno comportamentale che i dipendenti
daranno all’iniziativa di cambiamento. (Kreitner e Kinicki, 2004).

1.4 Reazioni al cambiamento.

Come abbiamo visto, i processi di cambiamento, prevedono il passaggio da uno


status quo ad un nuovo stadio, portando con sé molteplici modificazioni, procedurali,
di ruolo, di gruppo. E’ naturale che tali modificazioni entrano nelle vite dei membri
dell’organizzazione provocando una vasta gamma di reazioni e di emozioni
nell’individuo. Secondo Piccardo e Colombo (2007, p.62), tali reazioni spaziano dal
supporto al cambiamento alla messa in atto di resistenze e meccanismi di difesa a
seconda del tipo di risposte che gli individui danno a queste domande:

 Conosco e comprendo la natura del cambiamento?


 Il cambiamento, in termini di valore, rappresenta per me un guadagno o una
perdita?
 Ho fiducia in coloro che lo promuovono?
 Sono d’accordo con le opportunità che sembra offrire?
 Rispetto alla mia situazione professionale, ai miei valori, ai miei
atteggiamenti, come lo percepisco e lo valuto?

E’ ovvio che la risposta a tali domande dipenda da molteplici fattori situazionali,


dipendenti dal processo di cambiamento in sé, e disposizionali dell’individuo che
sarà partecipe, o vittima, del cambiamento. Molteplici fattori corrispondono
naturalmente a molteplici tipi di reazione, che vanno da un totale sostegno all’azione
dell’organizzazione, il supporto attivo, a un totale rifiuto, che porta all’abbandono
dell’organizzazione o a forme di resistenza (Furnham, 1997). Tali resistenze possono
essere fortemente penalizzanti per il processo di cambiamento in sé e più in generale
per l’organizzazione. Esse possono manifestarsi in diversi modi: calo di rendimento,
assenteismo, richieste di trasferimento o di dimissioni, conflitti, malumore,
insoddisfazione lavorativa, ecc. A questi si aggiungono comportamenti di tipo
regressivo, ovvero quando gli individui tendono a regredire il proprio
comportamento e le proprie conoscenze d un livello inferiore alla realtà,
comportandosi da neoassunti, e il sabotaggio, forma estrema di resistenza, che può
sfociare anche nell’illegalità (Piccardo, Colombo, 2007).

Bisogna inoltre distinguere tali forme di resistenza al cambiamento con il suo rifiuto
vero e proprio. In questo caso infatti, per via delle ripercussioni negative e rischiose
sulla propria crescita professionale e sulla carriera che un atteggiamento tanto
visibile può dare, gli individui tendono a nasconderlo o non manifestarlo apertamente
(Drafke, Kossen, 1998).

Le resistenze possono attivarsi a livello sia di gruppo sua individuale. Quelle di


gruppo sono solitamente riconducibili a dinamiche legate a potere e conflitti, quando
si ha il sospetto che il cambiamento avvantaggi certi individui a spese di altri; alla
cultura organizzativa che tende a tutelare norme e valori informali. Quelle individuali
si focalizzano su sentimenti di incertezza e insicurezza, in quanto il cambiamento
può minacciare la propria attività lavorativa, le proprie competenze e la sicurezza
economica. Queste ultime, inoltre, possono essere anche ricondotte alla teoria della
razionalità limitata, secondo cui “gli individui hanno la tendenza a selezionare le
informazioni coerenti con le proprie opinioni e gli schemi consolidati e utilizzati
abitualmente. Si attivano le resistenze quando il cambiamento minaccia queste
credenze” (Piccardo, Colombo, 2007, p.68)

Fondamentale, ancora una volta, ai fini di moderare tali reazioni è l’aspetto


comunicativo. Infatti secondo Lawrence (1954) per superare le resistenze al
cambiamento gli agenti devono saperlo motivare e negoziare in modo adeguato. Nel
caso le informazioni non risultino chiare, si incorre nel rischio che vengano distorte,
facendo risultare ambiguo il significato del cambiamento proposto. Informazioni
dubbie portano a distorcere la percezione di vantaggi e svantaggi derivanti dal
processo di cambiamento. Tale ambiguità può essere fonte di ulteriori resistenze, che
si ripercuotono, in un circolo vizioso, sul processo in sé. Invece la comunicazione e
l’informazione esatta sul programma di cambiamento e sulle sue conseguenze
permettono di costruire un clima di fiducia e a prevenire distorsioni ed eventuali
resistenze. “La comunicazione, utilizzata quando gli individui non possiedono
informazioni o possiedono informazioni inadeguate, può avvenire attraverso
discussioni faccia a faccia, presentazioni di gruppo, report, o utilizzando un
programma pilota. L’obiettivo è sensibilizzare gli individui circa il cambiamento
prima che questo sia attuato e aiutarli a comprenderne la logica” (Shermerhorn,
Hunt, Osborn, 1997, in Piccardo e Colombo p.73)

1.5 Downsizing, produzione snella, layoff: quando cambiare è sinonimo di


ridimensionare.

Come abbiamo visto in precedenza, sono innumerevoli le spinte esterne al


cambiamento che portano un’organizzazione a scegliere di “fare qualcosa”, per
rimanere al passo con il mercato globale e continuare a funzionare e produrre. Molto
spesso, però, proprio per reagire a tali spinte esterne, la via più semplice e rapida che
viene attuata dal management è quella di ridimensionare l’organizzazione. Il mito
della produzione snella ha portato nel panorama economico mondiale ad un uso
smodato, e spesso ad un abuso, dello strumento del downsizing nell’organizzazione.
Meno vendite a clienti che non rendono, meno investimenti a redditività dubbia,
meno costi di struttura, meno livelli di responsabilità, meno prodotti marginali, e,
soprattutto, meno personale.

“È difficile avere delle buone idee in modo che l'impresa faccia di più di quello che
ha sempre fatto; se si fa il contrario, quasi sempre, l'operazione funziona, almeno sul
breve periodo. È comunque vero che oggi non ci sono quasi limiti al miglioramento
della produttività: la riprogettazione organizzativa per processi, l'utilizzo esteso
dell'informatica e l'esternalizzazione spinta di tutte le attività aziendali permettono di
ridurre continuamente il personale” (Caruso, 2003, p. 4)

Esso in realtà, è però un’arma a doppio taglio. Se nel breve periodo i suoi risultati in
termini di risparmio non stentano ad arrivare, nel lungo periodo esso non porta
risultati nello sviluppo dell’organizzazione: “il limite del downsizing è che esso non
costruisce niente; quando si sia tolto tutto il "grasso" aziendale, o eliminate le aree di
perdita, il vero problema rimane l'espansione redditizia, perché un'impresa che pensa
solo a dimagrire prima o poi muore di anoressia” (Caruso, 2003, ibidem)

Processi di downsizing e layoff sono, naturalmente, strettamente correlati. Questi


ultimi sono un fenomeno persistente nel sistema globalizzato attuale, soprattutto in
America e in Europa, dove i costi del lavoro sono tra i più alti al mondo. Essi sono il
risultato di un generale stato di sfavorevolezza dei mercati, che porta il management
a tagliare le spese dell’organizzazione, partendo molto spesso proprio dai lavoratori,
facilmente sostituibili tramite l’innesto di nuove tecnologie. Downsizing, fusioni,
acquisizioni, sono le cause più frequenti che portano al licenziamento di grosse
porzioni di personale.

I processi di layoff vanno distinti dai licenziamenti per colpa o per volontà del
lavoratore. Essi hanno delle caratteristiche proprie: si configurano in una separazione
permanente e involontaria degli individui dall’organizzazione, dovuta al bisogno di
tagliare i costi (J. Brockner, 1988).

Solo dalla seconda metà degli anni ’80 si è iniziato a studiare l’impatto che tali
processi hanno su atteggiamenti e comportamenti nei confronti del lavoro, tramite gli
studi sulla job insecurity che tratteremo in seguito.

L’impatto di un’azione di downsizing produce la percezione di una violazione del


contratto psicologico da parte dell’organizzazione che non adempie, o non può più
adempiere, ai suoi doveri e che, quindi, non incontra più le aspettative che erano state
alimentate (Pugh et al., 2003). Le violazioni innescano reazioni affettive negative,
che possono includere amarezza, rabbia, risentimento e oltraggio (Morrison,
Robinson, 1997) ed implicano da una parte una diminuzione della fiducia nei
confronti dell’organizzazione, dall’altra una riluttanza ad investire in altre relazioni
che saranno così caratterizzate da un aumento del cinismo: “non ci credo più”
(Andersson, 1997).
Le caratteristiche del nuovo contratto psicologico che si andranno a delineare
saranno continuamente rimodellate verso la formazione di un nuovo schema che
tenderà ad essere più transazionale. Un’interessante ricerca di Pugh e collaboratori
(2003) sulla formazione iniziale della fiducia in un nuovo ambiente lavorativo, da
parte di coloro che sono stati oggetto di downsizing o di layoff, ha dimostrato che le
esperienze passate di violazione sono importanti per determinare le intenzioni degli
individui a fidarsi nelle nuove organizzazioni dove andranno a lavorare.
Cap. 2: LAYOFF, LE REAZIONI DI CHI RIMANE: I SURVIVORS

2.1 Premessa.

Gli studi che verranno analizzati in questo capitolo fanno parte di un filone di molto
più ampio, quello sulla job insecurity, che affonda le sue radici nei primi anni ’30,
quando la crisi finanziaria del ’29 dimostrò come la perdita del lavoro, in Europa e
negli Stati Uniti, potesse durare anni e avere caratteristiche così strutturali e profonde
(Jahoda, 1933; Jahoda, 1971; Ziesel, 1971; Crepet, 1990) da incidere nella
riconfigurazione della quotidianità e nelle rappresentazioni collettive nei decenni
successivi.

Pur con i dovuti limiti metodologici, il primo lavoro valido a ricostruire la


complessità di tale problema è stato uno studio di Jahoda, Lazarsfeld, Zeisel (1933)
condotto sui lavoratori della comunità di Marienthal, una cittadina austriaca che
aveva avuto esperienza del licenziamento di quasi tutti i suoi abitanti occupati in una
fiandra in seguito alla crisi.

Naturalmente il concetto di job insecurity si è andato poi evolvendo nel tempo, anche
se questo lavoro, proprio per via della situazione economica e strutturale in cui è
stato condotto, mai come in questi tempi risulta attuale. Certamente la crisi del 2008
non è paragonabile a quella del ’29. Oggi rispetto ad allora sono cambiati nel numero
e nella complessità i fattori in gioco per reggere in piedi i sistemi finanziari e
competitivi, i quali riconfigurano continuamente le diverse logiche di generazione di
valore (Hammer, Champy, 1993). Ne consegue una cosiddetta “magmaticità”
(Sennet, 1999) che contraddistingue il lavoro e il suo mercato che porta, rispetto a
quegli anni, al superamento della semplicistica polarità occupazione/disoccupazione
(DePolo e Sarchielli, 1987).

Gallino (1998) osserva che la disoccupazione non è più un fatto transitorio legato ad
un rallentamento dell’economia, come lo fu nella lunga crisi conseguente alla caduta
di Wall Street, quanto uno stato profondo di malessere sociale, perché se
il tasso di disoccupazione dovesse coinvolgere come allora i quattro quinti della
popolazione, questo non potrà che comportare conseguenze drammatiche.

Il filone della job insecurity, quindi, è diventato un grande contenitore di studi, non
privo di ambiguità e ambivalenze, che abbraccia sia lavori più inerenti alla
caratterizzazione del lavoro e del suo mercato, sia quelli più inerenti alla soggettività
dell’individuo vittima della job insecurity.

Il primo modello che tenta di delimitare i confini e dare una definizione alla job
insecurity, è certamente quello di L. Greenhalgh e Z. Rosenblatt (1984), che rimanda
alla percezione dell’incertezza relativa alla sicurezza e alla continuità del lavoro
attuale e futuro, in una situazione di potenziale minaccia. Tale modello era stato
preceduto da altri studi di Greenhalgh (1979), nei quali emergeva come l’annuncio
della perdita di lavoro portasse negli individui le stesse reazioni psicologiche della
morte annunciata, e che questo portasse l’individuo a reagire come se l’evento fosse
già accaduto, ritirandosi psicologicamente dall’oggetto perduto, ovvero il proprio
lavoro. Emergeva inoltre come in un momento di minaccia come quello di
downsizing, fosse messa in discussione la funzione di comunicazione da parte del
management, che risultava retorica ed inutile, invece che inerente ai fatti (McKersie,
Greenhalgh, Jick, 1981).

Secondo questo modello sono tre i livelli che influenzano la percezione della
minaccia, il primo è la comunicazione organizzativa ufficiale; il secondo sono gli
indizi organizzativi, impliciti, anche se molto evidenti, come riduzione di budget,
implementazione di nuove tecnologie, costituzione di nuovi plant in paesi esteri con
costi del lavoro più bassi; il terzo livello sono i rumors, che diventano dominanti
quando l’informazione data dal management è insufficiente, ambigua, o
contraddittoria con gli indizi di cui parlavamo nel secondo livello.

Nel suo modello, Greenhalgh ipotizza che la percezione della minaccia è mediata
anche da fattori disposizionali, oltre che dal sistema di comunicazione e da fattori
esterni come la mobilità occupazionale e l’insicurezza economica: locus of control,
conservatorismo, orientamento lavorativo, attribuzione di tendenze e bisogno di
sicurezza sono tutte differenze individuali che vanno a mediare la percezione di
insicurezza e le reazioni personali ad essa. In ultimo, da non dimenticare è il ruolo
del supporto sociale che l’individuo ha a disposizione per mediare e moderare
l’esperienza di insicurezza.

Per la sua completezza, il modello di Greenhalgh è stato riconosciuto come modello


di riferimento per tutti i successivi studi sulla job insecurity, che hanno trovato nuova
linfa nella seconda metà degli anni ’90, quando si è spostata l’ottica della ricerca
sulla job insecurity soprattutto sulla sua salienza psicologica. Recentemente, Sverke
e colleghi (M. Sverke e J. Hellgreen, 2002; M. Sverke, J. Hellgreen, K. Näswall,
2002) hanno condotto un interessante lavoro di classificazione e di meta-analisi di
quanto la letteratura scientifica ha fino ad oggi espresso. Essi hanno sintetizzato in un
modello le varie articolazioni della job insecurity. Una specifica attenzione viene
posta alle sue conseguenze, cogliendone gli effetti sia immediati sia di lungo periodo
sul benessere lavorativo, sulle attitudini al lavoro e sulle conseguenze organizzative.
Sverke sottolinea chiaramente due prospettive di studio: la prima rimanda agli
individui, ai relativi effetti e al loro benessere lavorativo, la seconda assume la
prospettiva manageriale e gli impatti sull’organizzazione.

2.2 La rivoluzione di Brockner: dalla “vittima” al “survivor”

Joel Brockner, ha dato un contributo molto interessante agli studi sulla job insecurity.
Fino alla prima metà degli anni ’80, infatti, gli studi sui processi di layoff, si erano
concentrati soprattutto sul processo manageriale in sé, e sulle conseguenze
psicologiche che i licenziamenti provocavano sulle “vittime” di tale processo.
Brockner intuisce invece, che sarebbe stato utile, per le organizzazioni, investigare
anche sulle conseguenze che un processo di cambiamento caratterizzato da una
crescente insicurezza lavorativa come quello del layoff, produce in coloro che
“sopravvivono” al taglio del personale: entra quindi sulla scena il Survivor
(Brockner, Davy, Carter, 1985), termine che poi diventerà di uso comune per tutti
coloro che andranno a toccare nei propri studi l’argomento della job insecurity (D.
Noer, 1993; D. Ambrose, 1993).
Ma Brockner si spinge oltre:

“Il modello di Brockner prevede una centralità degli effetti non solo sui survivors, ma indica una più
precisa centralità della dinamica organizzativa intesa come focalizzazione del rapporto tra gli
individui, il gruppo e l’organizzazione esaminati nella loro interrelazione ed interdipendenza nei
diversi momenti che precedono, sono contestuali e seguono i licenziamenti. Questo evento trascende
la volontà del lavoratore e prevede di assumere un contesto lavorativo tradizionale. Il licenziamento,
quindi, è l’atto paradigmatico e centrale delle nuove dinamiche organizzative tendenzialmente
finalizzate alla riduzione della forza lavoro e fattore fondamentale nelle ristrutturazioni per arrivare a
nuovi equilibri sociali ed economici nei diversi sottosistemi organizzativi, nuove aggregazioni
gruppali sui processi, nuove riconfigurazioni macro organizzative. In questo scenario il licenziamento
indurrà differenti stati psicologici dei survivors presenti nell’organizzazione. Potrà essere peraltro
effettuato in vari modi da parte del management e gli impatti sui gruppi ed i soggetti rimasti saranno
intuitivamente complessi ed articolati. L’insieme di questi fattori condizionati da una serie di variabili
moderatrici determineranno un insieme di comportamenti organizzativi o di conseguenze che a loro
volta con un processo di retroazione indurranno o meno altre decisioni e potenzialmente altri
licenziamenti.” (Zuffo, Kaneklin, in Ferrari e Veglio, 2005, p. 22)

Il modello di Brockner, dunque, sviluppato dalla base teorica del modello di


Greenhalgh, propone un salto di complessità. Riesce a collegare i comportamenti
individuali dei soggetti coinvolti nei processi di layoff con i processi infragruppo e
intergruppo, oltre che con le scelte filosofiche e procedurali del management.

2.3 Conseguenze dei layoff sui survivors.

Brockner nella sua analisi parte dal ricercare evidenze a sostegno della sua tesi nella
letteratura manageriale. Essa suggerisce infatti che i processi di layoff portano con sé
una grossa varietà di conseguenze negli stati psicologici, negli atteggiamenti e nei
comportamenti dei survivors. Produttività, commitment organizzativo, rapporti con i
propri colleghi o con il lavoro in sé, sono solo alcune delle variabili che verranno
toccate da un’esperienza come quella del survivor. Da ciò si capisce quanto sia vasto
il campo di reazione ai processi di layoff, e quanto esso possa variare a seconda
dell’individuo e della situazione che esso andrà ad affrontare. Per esempio la
letteratura manageriale suggerisce che a seguito di un processo di licenziamento la
forza lavoro possa essere demotivata, mentre altri studi suggeriscono che questo
possa comportare un aumento della performance, o semplicemente non avere effetto.
E’ quindi chiaro che tra la causa, ovvero il processo di layoff, e le conseguenze,
ovvero gli atteggiamenti e i comportamenti dei membri dell’organizzazione, esistono
una quantità di variabili moderatrici che modulano le reazioni individuali. Brockner
tenta appunto di analizzare tali variabili e trovarne il posto in un modello
dimostrabile empiricamente.

Per fare ciò egli inizialmente analizza gli stati psicologici che un processo di layoff
può causare ai survivors. Tra questi troviamo sicuramente la job insecurity, infatti,
anche se sopravvissuti al taglio di personale, i survivors potrebbero avere la
sensazione che altri tagli siano in vista; l’iniquità positiva, se i survivors
percepiscono di non aver meritato di rimanere nell’organizzazione rispetto a coloro
che invece sono stati vittime del taglio; rabbia, nel caso essi abbiano percepito il
processo di layoff, o il metodo con cui è stato attuato, inappropriato o illegittimo;
infine bisogno di soccorso, nel caso, durante il processo di layoff, si preoccupino di
poter essere licenziati. Naturalmente, questa lista non è assolutamente esaustiva, in
quanto concerne solo gli stati psicologici più comuni, in un processo che ha
comunque un’alta variabilità di reazioni psicologiche.

Brockner inoltre teorizza che tali stati psicologici possano avere conseguenze sia su
comportamenti quali la motivazione o la performance lavorativa, sia su attitudini
quali soddisfazione lavorativa e commitment organizzativo. Come del resto
dimostrano gli studi di Yerkes e Dodson (1908), livelli troppo bassi o troppo alti di
ansia sono correlati con bassi livelli di performance, e questo naturalmente vale
anche per la job insecurity, che si configura infatti come una forma d’ansia.

La job insecurity, inoltre, potrebbe essere causa di un declassamento dell’appeal del


lavoro. Infatti il survivor potrebbe iniziare a pensare che la sua performance sia
legata solamente al poter mantenere il proprio lavoro, legando quindi ad essa
motivazioni estrinseche che andranno a sopperire a quelle intrinseche, che lo rendono
invece più piacevole (Deci, 1975). Continuando, come dimostrato nella teoria
dell’equità di Adams (1965), e come specificheremo meglio in seguito, la percezione
di iniquità positiva porta con sé un aumento della produttività, ma solo nel breve
periodo (Mowday, 1969). La rabbia e il risentimento prodotti dal processo di layoff ,
inoltre, potrebbero avere un effetto demotivante sul survivor, che potrebbe ridurre il
disagio cognitivo creato dall’ostilità nei confronti dell’organizzazione abbassando il
proprio livello di performance, o, peggio, arrivando al sabotaggio, come citato in
precedenza tra i meccanismi di resistenza al cambiamento.

Successivi studi hanno poi confermato come questo tipo di reazioni siano centrali
nell’ambito organizzativo e soprattutto sull’esito del processo di cambiamento. Già
nel 1979 Greenhalgh aveva sottolineato nelle proprie ricerche come una conseguenza
tra le più drammatiche per l’organizzazione sia quella della propensione a lasciare
l’organizzazione volontariamente. “Sembra che i primi ad andarsene da contesti pieni
di minacce siano proprio i lavoratori più validi, anche se sono quelli con una minore
probabilità di essere espulsi” (Greenhalgh e Jick, 1979, in Ferrari e Veglio, 2005, p.
25 ).

Lo stesso Brockner (1988, 1992, citato in Ferrari e Veglio, 2005, ibidem), in uno
studio effettuato su committenza dalla Kodak, scrive che “le dimissioni di coloro che
sono ritenuti dotati di alto potenziale o in ogni caso collaboratori importanti per
l’azienda proseguono per un lungo periodo di tempo dopo la fine delle operazioni di
downsizing, nonostante le rassicurazioni del management e le oggettive possibilità di
carriera.”

Anche ricerche più recenti, come quelle di osservatori diretti in processi di fusione e
acquisizione (I. T. Kay e M. Shelton, 2000), confermano l’aumento di turnover ed
“evidenziano come uno degli elementi critici delle fusioni sia riconducibile alla fuga
dei talenti e dei manager chiave” (A. A. Cannella e D. C. Hambric,1993; A. H.
Krishnan, A. Miller, W.Q. Judge, 1997, in Ferrari e Veglio, 2005, p. 26). I livelli di
abbandono misurati in questa ricerca sono notevoli: dopo cinque anni, solo il 30%
del management che aveva iniziato il processo di downsizing era ancora presente
nelle aziende target.
2.4 Variabili moderatrici dei comportamenti di risposta al layoff.

Per spiegare l’alta variabilità dei comportamenti di risposta al layoff da parte dei
survivors, Brockner, come già citato prima, ricorre a delle variabili moderatrici. Esse
si configurano come il terzo livello del modello concettuale di Brockner, e sono
rilevanti per entrambi gli altri livelli: gli stati psicologici e gli atteggiamenti e i
comportamenti di risposta. Egli, infatti, ipotizza come tali variabili possano
influenzare sia il processo che, a partire dal licenziamento, influenza gli stati
psicologici, sia quello che a partire dagli stati psicologici, cambia gli atteggiamenti e
i comportamenti nei confronti dell’organizzazione.

Brockner organizza tali variabili in cinque macroaree che andremo a descrivere più
dettagliatamente: natura del lavoro, differenze individuali tra i survivors,
organizzazione formale, organizzazione informale, situazione ambientale.

a) Natura del lavoro.

Una importante dimensione moderatrice è il grado di interdipendenza nel lavoro.


Appare scontato che il licenziamento di lavoratori con i quali il survivor aveva un
alto grado di interdipendenza lavorativa provochino in quest’ultimo reazioni più
accentuate. Tale ipotesi verrà poi confermata in una ricerca empirica dello stesso
Brockner che andremo a trattare in seguito. (J.Brockner, 1990, pp. 95-106)

b) Differenze individuali.

Naturalmente innumerevoli differenze individuali hanno il potenziale di influenzare


le reazioni psicologiche dei survivors. Come suggerito da Shrauger (1972), individui
con livelli di autostima cronicamente bassi, sono molto suscettibili all’influenza di
situazioni preoccupanti, come appunto quella che si può creare durante un processo
di downsizing. Come citato in precedenza già Greenhalgh aveva ipotizzato cinque
tratti di personalità moderatori della job insecurity, perfettamente calzanti nel
modello di Brockner. Innanzitutto il locus of control: è stato dimostrato che chi ha un
locus of control interno reagisce globalmente meglio alle condizioni di avversità
ambientale, realizza un apprendimento migliore rispetto alla situazione ed alla sua
interpretazione ed infine in un tempo più rapido riesce a ricollocarsi all’interno
dell’impresa o in altri contesti organizzativi (Starmi e Spector, 1987); il
conservatorismo: è più probabile che individui tendenzialmente conservatori
reagiscano in maniera più forte ad un elemento di discontinuità come quello di un
processo di downsizing; l’orientamento lavorativo: fa capo alla centralità del lavoro
nella vita dell’individuo, naturalmente per coloro che pongono i valori lavorativi
come interessi centrali della propria vita saranno portati a reagire in maniera più
ansiosa a condizioni di job insecurity; l’attribuzione di tendenze: alcuni individui
incolpano maggiormente se stessi, mentre altri tendono a collocare all’esterno la
fonte del proprio biasimo; bisogno di sicurezza: individui con bisogno di sicurezza
più alto reagiranno in maniera più ansiosa ad uno stato di insicurezza.

c) Organizzazione formale.

L’organizzazione formale si riferisce all’insieme di regole, politiche, procedure,


gruppi formali, modalità di collegamento che l’organizzazione ha messo in piedi per
poter funzionare e raggiungere i propri scopi durante il layoff. Si tratta in pratica
dell’aspetto procedurale del layoff vero e proprio. Differenti pratiche possono
influenzare le reazioni al layoff dei membri dell’organizzazione, come il tipo di
sostegno che l’organizzazione ha messo a disposizione a coloro che dovranno
lasciare l’organizzazione, come una buonuscita monetaria, o un servizio di
outplacement. Sembra infatti che le organizzazioni che abbiano previsto un
programma per “prendersi cura” delle vittime dei layoff, vengano ripagate con dei
survivors meno insicuri o in collera (Brockner, ibidem).

d) Organizzazione informale.

L’organizzazione informale include variabili come le norme, i valori, le relazioni


interpersonali che emergono spontaneamente durante la vita lavorativa. Una variabile
moderatrice può essere ad esempio il ricordo di situazioni simili già vissute in quel
determinato ambito organizzativo. Inoltre lo stile manageriale ha un suo peso.
Brockner (1992), nella sua indagine sulla Kodak, ha notato come nelle aziende con
stile manageriale paternalistico, il management garantiva che si sarebbe occupato per
tutta la vita dei propri lavoratori. Appare scontato che in questo tipo di
organizzazioni i processi di layoff siano del tutto inaspettati, e che quindi provochino
più facilmente ansia e rabbia nei propri membri. Uno dei fattori fondamentali per il
successo organizzativo è, infatti, la coerenza tra la cultura organizzativa e le politiche
dell’organizzazione.

e) Condizioni ambientali.

Tra le variabili moderatrici, naturalmente, ci sono le condizioni ambientali esterne


all’organizzazione. Tra queste le condizioni del mercato del lavoro potrebbero
rendere meno agibile la ricerca di un lavoro equivalente a quello attuale, creando una
situazione certamente ansiogena. Inoltre la percezione che organizzazioni
paragonabili alla propria stiano agendo contro i fattori esterni in maniera migliore o
più equa, potrebbe portare i lavoratori ad interrogarsi sulla legittimità del processo di
layoff.

2.5 Giustizia organizzativa. La teoria dell’equità di Adams.

Brockner (1988) stesso specifica che il suo modello non è autoreferenziale, ma si


riaggancia a teorie e modelli già esistenti nella letteratura organizzativa, quali quello
della job insecurity di Greenhalgh (1984), quello dello stress organizzativo di Jick
(1985), e quello della teoria dell’equità di Adams (1963).

Proprio tramite quest’ultimo Brockner cerca di dare un’ulteriore spiegazione alle


reazioni ai layoff tramite il concetto della percezione di iniquità positiva.

La teoria dell’equità di Adams (1963) fa parte del filone più ampio delle cosiddette
“teorie dello scambio” che “postulano come nelle interazioni sociali le persone
desiderino massimizzare i propri benefici e minimizzare i costi e come fondino le
loro scelte sulla base di confronti circa i ricavi possibili dei diversi corsi di azione”
(Sarchielli, 2005, p. 180). In questo caso l’attenzione è quindi posta sui processi
cognitivi che permettono di impegnarsi o meno in un corso d’azione, connessi non
solo a forze interne all’individuo, ma anche alla percezione del proprio rapporto con
il contesto lavorativo. Infatti il lavoratore andrà a considerare la relazione tra i
contributi che egli porta all’organizzazione (input) come esperienza, tempo,
impegno, coinvolgimento, competenze, e i risultati attesi (output) ovvero, stipendio,
status, opportunità di carriera, sicurezza.

La spinta motivazionale, secondo tale teoria, avviene tramite il confronto sociale,


ovvero quando il lavoratore percepisce il proprio rapporto input\output equilibrato
rispetto a modelli di riferimento che possono essere altri colleghi nella stessa
condizione, lavoratori in altri contesti, credenze e rappresentazioni ideali.

Nel momento in cui tale percezione di equilibrio o equità dovesse venire meno, ecco
che, secondo Adams, si andranno a scatenare una serie di reazioni motivazionali e
comportamentali che l’individuo userà per ridurre la dissonanza tra input e output e
per cercare di ristabilire un equilibrio. Questo potrà avvenire tramite: la modifica
degli input o dei risultati, infatti se il lavoratore percepisce che i suoi sforzi non siano
adeguatamente ripagati, potrebbe abbassare la qualità o la quantità dell’impegno
profuso, oppure negoziare un aumento degli output; la modifica dei propri referenti,
adeguando il proprio confronto sociale con modelli più simili alla propria situazione;
la modifica delle percezioni relative al rapporto input\output, riconsiderando il valore
degli input e degli output che potrebbero essere percepiti in maniera distorta;
cambiando lavoro, nel tentativo di trovare una collocazione occupazionale percepita
come più equa.

Secondo la teoria di Adams (1963), quindi, la percezione di iniquità è fonte di


distress per il lavoratore, che tenterà di ridurre tale stress riducendo la dissonanza tra
input e output nel confronto sociale. Tale iniquità, inoltre, può essere negativa
(quando il rapporto tra input e output è sbilanciato sugli input) o positiva (quando
invece è sbilanciato sugli output, e quindi il lavoratore percepisce di ottenere più di
quanto merita). Nel primo caso la reazione più tipica è quella della collera, nel
secondo caso, invece, è quella del senso di colpa. Come già citato in precedenza,
diversi studi hanno dimostrato che, nel momento in cui si svilupperà tale senso di
colpa nel lavoratore, egli tenderà ad aumentare la propria produttività per sopperire
alla percezione di non meritare un livello di output così elevato.

Nel caso dei survivors, essi tenderanno a giudicare l’equità nel processo di layoff
ponendosi domande tipo, sulla falsa riga di quelle citate da Piccardo e Colombo
(2007) nel capitolo precedente riguardo le reazioni al cambiamento:

 La necessità del processo di layoff è giustificabile?


 Coloro i quali verranno licenziati hanno avuto un periodo di preavviso
abbastanza ampio?
 La procedura di layoff, riguardo coloro che verranno licenziati, è basata su
input rilevanti –come la performance lavorativa-?
 I lavoratori licenziati sono stati trattati in maniera equa e giusta?

La percezione di iniquità basata sulla risposta che i lavoratori danno a queste e altre
domande avrà implicazioni nei loro atteggiamenti e comportamenti conseguenti. Nel
momento in cui essi dovessero percepire iniquità positiva nelle scelte del
management riguardo i licenziamenti, ovvero di non meritare di rimanere
nell’organizzazione rispetto a coloro che sono stati licenziati, andranno a sviluppare
quella che Brockner (1990) chiama “survivor guilt”, ovvero senso di colpa del
survivor, che porterà ad un maggiore impegno lavorativo per sopperire alla carenza
di input percepiti. Ma se invece i survivors dovessero percepire che il processo di
layoff sia iniquo o ingiusto, o come vedremo in seguito essi si dovessero identificare
in maniera molto forte con coloro che sono stati licenziati, l’iniquità percepita sarà di
tipo negativo, in quanto scenderanno i valori di output percepiti. Questo porterà a
sentimenti di collera e quindi a forti resistenze da parte del lavoratore, e ad una
diminuzione della motivazione al lavoro e quindi delle proprie prestazioni, infatti il
lavoratore andrà a riequilibrare il rapporto input\output riducendo il livello di input
concessi all’organizzazione.
2.6 Effetti di iniquità, autostima, giustizia percepita dai survivors.

Abbiamo parlato di come la percezione di un trattamento iniquo o ingiusto abbia


fondamentali ripercussioni su comportamenti e atteggiamenti verso il lavoro e
l’organizzazione sui survivors. La domanda ora è: quando e in che modo un processo
di layoff viene percepito come ingiusto?

In una delle sue ricerche più interessanti, Brockner si interroga sugli effetti che il
licenziamento dei colleghi provoca nei survivors, introducendo una nuova variabile
moderatrice: lo “Scope of Justice” (Brockner, 1990, pp. 95-106). L’ipotesi è che le
reazioni negative che il survivors proverebbe in risposta ad un processo di layoff
iniquo potrebbero essere moderate dalla misura in cui le “vittime” del layoff siano
incluse nel campo di giustizia del survivor. Infatti è noto come le persone siano in
grado talvolta di tollerare le ingiustizie verso altre persone innocenti, soprattutto se
esse non rientrano nella definizione comune di "comunità", in cui le gente si
rispecchia e vede rispettati i propri standard etici (Deutsch, 1985). Si fa qui
riferimento alla definizione di moral inclusion di Opotow (1988) e alla teoria
dell’equilibrio di Heider (1958), infatti Brockner ipotizza che se le vittime del layoff
si trovano all’interno della comunità morale dei survivors, i comportamenti lavorativi
e gli atteggiamenti di questi ultimi siano più influenzati dalla misura in cui le vittime
siano state trattate equamente durante il processo di layoff.

Considerando i survivors, le vittime e l’organizzazione come i tre angoli del


triangolo dell’equilibrio Heideriano, un trattamento scorretto dell’organizzazione nei
confronti delle vittime, sarebbe da considerare come un’unità negativa nel rapporto
tra organizzazione e vittime. Inoltre, nel caso in cui tra survivors e vittime ci sia
un’unita di rapporto positiva (ovvero nel caso in cui la vittima si trovi all’interno
dello scope of justice del survivor), i survivors potrebbero tentare di riequilibrare la
situazione stabilendo una relazione negativa con l’organizzazione, agendo in maniera
sfavorevole ad essa.

Opotow (1988) fa notare come ci siano numerosi fattori che possono influenzare
l’inclusione di altre persone nella propria comunità morale: più vicini sono i legami
psicologici tra gli individui, più facile sarà che essi siano compresi nella comunità
morale altrui. Brockner quindi deduce che sono tre i casi in cui i survivors potrebbero
includere le vittime nel proprio scope of justice:

 Se i survivors condividono con le vittime uno stretto rapporto lavorativo,


tirando in ballo quindi il concetto di interdipendenza e di cooperazione al
lavoro;
 Se i survivors hanno un forte rapporto personale con le vittime, ovvero se si
considerano simili l’uno con l’altro (Byrne, 1971);
 Se fattori situazionali (come le esperienze di licenziamenti passati vissuti
sulla propria pelle) e disposizionali fanno si che i survivors provino empatia
per la persona o il ruolo della vittima.

Brockner, inoltre, nel suo esperimento, non si limita ad osservare in che misura
l’inclusione delle vittime nella propria comunità morale influenzi le reazioni dei
survivors nei confronti dell’organizzazione, ma introduce anche due variabili
riguardanti la giustizia procedurale: l’explanation e il caretaking.

Tyler e Bies (1990) puntualizzano che i fattori che influenzano la percezione di


giustizia procedurale non sono solo di tipo formale, ma riguardano anche la maniera
in cui il management si comporta durante la messa in atto del processo di layoff. Per
questo motivo è molto importante che il management sia in grado di spiegare perché
le proprie decisioni siano andate in una determinata direzione, che in questo caso, è il
processo di layoff. L’importanza dell’explanation è proprio quella di dar prova che la
decisione di ricorrere a tale processo sia stata presa in maniera giusta e ragionevole.
Inoltre, un altro motivo per cui l’explanation riveste un ruolo fondamentale nella
comunicazione organizzativa, è far si che tutti i membri possano fidarsi della
sincerità del management nello spiegare il perché certe scelte siano state prese. Ciò è
fondamentale soprattutto in situazioni di grande incertezza come quelle che i processi
di layoff si portano alle spalle. Come è stato dimostrato in diversi studi (Bies,
Shapiro, 1987; Rousseau, Anton, 1988), più informazioni il management sarà in
grado di dare rispetto alla scelta fatta e al procedimento usato, meno scorretta sarà
giudicata la propria azione da parte del resto dei membri dell’organizzazione.

Un’altra variabile caratterizzante la percezione di giustizia procedurale è inoltre,


come varie volte spiegato in precedenza, la misura in cui l’organizzazione si “prende
cura” dei suoi membri in esubero: il caretaking. Sempre nella ricerca di Rousseau e
Anton (1988) è stato dimostrato che se l’organizzazione attua politiche assistenziali
come fornire ai propri dipendenti in esubero indennità di licenziamento, counseling
di outplacement, ricollocazione presso altre aziende, la situazione delle vittime sarà
percepita come meno sfavorevole.

I risultati dello studio di Brockner, supportati da ulteriori prove empiriche (Brockner,


1988), confermano tutte le sue ipotesi: per i survivors la percezione di giustizia
procedurale appare psicologicamente saliente solo quando il processo di layoff è
andato a colpire persone che rientrano nel proprio scope of justice. Negli casi in cui
invece, a essere vittime del licenziamento erano persone che il survivor percepiva
come estranee alla propria comunità morale, la percezione di giustizia procedurale
non influenzava in maniera determinante gli atteggiamenti del survivor.

In uno studio più recente, Brockner è tornato ad indagare sugli effetti della giustizia
procedurale in relazione all’autostima dei survivors (Brockner, Wiesenfeld, Martin,
1995). L’ipotesi questa volta è che rendere i survivors consapevoli dei motivi per i
quali sono stati scelti per rimanere in seno all’organizzazione sia un meccanismo che
permetta ad essi di evitare di porsi dubbi sulla effettiva giustizia procedurale che ha
caratterizzato il processo di downsizing. In tale studio Brockner, infatti, ha
dimostrato che quando l’individuo si focalizza sugli esiti ottenuti dai licenziati, la
fiducia che esso nutre nei confronti dell’organizzazione tende a decrescere. Quando
invece esso è supportato nell’analisi dei propri punti di forza, tende a far crescere la
propria autostima, e con essa anche la fiducia nei confronti dell’organizzazione.

Questi studi dimostrano che molte delle reazioni negative dei survivors sarebbero
perciò causate dalle mancanze del management che sarebbe portato a sottovalutare
per le ragioni più diverse i rischi dell’iniquità esercitata. Questa leggerezza va ad
intaccare profondamente il rapporto fiduciario tra organizzazione e dipendente. Tale
legame fiduciario infatti, è visto come moderatore dell’insoddisfazione del survivor,
ed è un compito del management riuscire a stabilirlo e mantenerlo. “La ripetuta
esperienza della giustizia procedurale, anche quando non tutti i risultati sono
favorevoli, rende più probabile la creazione di una base di fiducia nei confronti
dell’autorità” (J. Brockner, P. A. Siegel, J. P. Daly, T. Tyler, C. Martin, 1997, in
Ferrari e Veglio, 2005, p.32).

E’ proprio sui comportamenti manageriali che Brockner si sofferma nelle sue analisi
più recenti, in particolar modo sugli esiti dei processi di downsizing in
corrispondenza alla giustizia procedurale percepita e sull’autostima dei manager
come variabile moderatrice della favorevolezza degli esiti del processo stesso.

In una ricerca transculturale Brockner e coll. (2000) hanno dimostrato come l’esito
favorevole di un processo di downsizing dipenda anche dal livello di interdipendenza
che caratterizza una data cultura manageriale. E’ stato dimostrato infatti che culture
manageriali caratterizzate da una forte interdipendenza, come quella cinese nel caso
studiato, riescono a condurre processi di downsizing in maniera più favorevole
rispetto a culture più propriamente individualistiche, e che manager con livelli più
alti di autostima sono in grado di mettere in atto meccanismi e politiche più congrue
ed efficaci rispetto ai loro colleghi con bassi livelli di autostima.

2.7 Conclusioni.

I lavori di Brockner sulla job insecurity e la sua particolare focalizzazione sulle


dinamiche che i processi di downsizing portano nell’ambiente-azienda hanno
permesso di cogliere le nuove specificità del rapporto tra individuo, gruppi e
organizzazioni. Il merito di Brockner nel suo lungo lavoro di ricerca è proprio quello
di utilizzare un campo di analisi abbastanza ampio da abbracciare tutti i soggetti
coinvolti nel processo di downsizing, colpendo le dinamiche soggettive,
intersoggettive, e organizzative centrali in tale processo.
E’ ormai chiaro che i processi di downsizing non sono più un’eccezione nella pratica
organizzativa, ma un evento possibile e statisticamente probabile in un qualunque
sistema competitivo non caratterizzato da protezioni di logica politica o di altro
genere. Sembra quasi diventato un rischio strutturale, catalogabile come rischio
professionale connesso all’usuale attività lavorativa, ma, come si è visto, non esente
da fattori stressogeni, con impatto su tutti i livelli della scala gerarchica, da chi è
vittima del downsizing, finanche a chi lo deve gestire, evitando ripercussioni
negative sulla salute dell’organizzazione.

Bisogna però che le aziende imparino ad usare questo strumento senza eccessi. Gli
effetti di downsizing ripetuti si è dimostrato riducano le strategie di coping degli
individui, indebolendo gli individui di fronte ad eventi stressogeni (Zapf, Dormann,
Frese, 1996). Il rischio è quello di sviluppare sentimenti di cinismo organizzativo
(Andersson, 1996; Andersson, Bateman, 1997; Johnson, O’Leary-Kelly, 2003; Pugh,
Skarlicki, Passell, 2003), caratterizzato da un atteggiamento negativo generalizzato
dei lavoratori nei confronti dell’organizzazione per la quale lavorano. Tale costrutto
è composto da tre dimensioni: la convinzione che l’organizzazione abbia perso la
propria integrità; la presenza di affettività negativa nei confronti di essa; la messa in
atto di comportamenti critici derivanti dalle prime due dimensioni. Derivanti dal
cinismo organizzativo sono fenomeni di opportunismo o di mercenarismo o
comportamenti eticamente discutibili, che certamente il manager, nel momento in cui
programma un intervento di downsizing, non può ignorare, in quanto gravemente
lesivi sia dell’immagine che della funzionalità della propria organizzazione.
CAP. 3: UNO STRUMENTO UTILE, IL COUNSELING DI
OUTPLACEMENT.

3.1 Premessa.

Come si è detto nei capitoli precedenti, il cambiamento organizzativo, soprattutto


nella sua forma più “crudele” come quella del downsizing, porta con sé numerose
ripercussioni sulla vita lavorativa e sociale degli individui che fanno parte, e
lavorano, per l’organizzazione. Difatti cambiamenti nelle strutture organizzative si
ripercuotono pesantemente sulla natura delle carriere che gli individui pensavano di
intraprendere una volta entrati a far parte dell’organizzazione (Brousseau, Driver,
Eneroth, Larrson, 1996; Kelly, Brannick, Hulpke, Levine, To, 2003).

La “magmaticità” caratterizzante il nuovo mercato del lavoro ha portato ad uno


spostamento della responsabilità sulle carriere, dall’organizzazione all’individuo
(Arthur, 1999), che andrà a misurare il suo successo lavorativo non tramite il
progresso gerarchico all’interno di una particolare organizzazione, ma tramite la
propria appetibilità nel mercato del lavoro e la propria occupabilità (Viney,
Adamson, Doherty, 1995). Le innovazioni nei modelli di organizzazione del lavoro e
le nuove competenze di alto profilo richieste dal nuovo assetto “fanno tramontare
definitivamente la prospettiva di un’occupazione stabile, continua ed esclusiva,
ancorata ad un solo settore professionale e ad un solo brand produttivo. Il
cambiamento degli assetti organizzativi –downsizing, merge, restructuring, ecc.-
impone accelerazioni o interruzioni significative alla carriera lavorativa” (Tanucci in
Argentero, 2010, p.335).

Il rischio di questo processo è però quello di caricare di troppe responsabilità


l’individuo, eccesso che potrebbe ripercuotersi negativamente su di esso con
conseguenze quali la job insecurity e il declino dell’occupabilità dovuto alla perdita
di possibilità di formazione e benefit che caratterizzano invece i rapporti lavorativi a
lungo termine (Humphries, Dyer, 2001; Meyer, 1996; Perrow, 1996; Van Buren,
2001).
Come fa notare Tanucci (2010) il tema della riqualificazione lavorativa in seguito al
cambiamento organizzativo si fa più presente soprattutto in momenti come quelli
attuali, in cui la crisi economico-finanziaria genera “alti livelli di disoccupazione,
massicce fuoriuscite dal mondo del lavoro, difficoltà d’ingresso, radicali
riposizionamenti professionali e occupazionali” (Tanucci, ivi, p.321).

In realtà, proprio in riferimento al cambiamento del mercato del lavoro, alla sua
“magmaticità” e alla sua natura fortemente dinamica, questo problema dovrebbe
entrare nella normalità delle pratiche organizzative, contribuendo a determinarne lo
sviluppo.

3.2 Il Counseling di Outplacement.

Uno strumento molto utile in questa prospettiva è il Counseling di Outplacement, che


si configura come “uno strumento capace di aiutare gli individui a transitare da
un’organizzazione all’altra” (Lee, 1997, in Tanucci, ivi, p.326). Esso consiste in una
serie di interventi messi a disposizione dall’organizzazione che sta attuando processi
di layoff, per “ripagare” il lavoratore in esubero della rottura del contratto
psicologico che lo legava all’organizzazione. Tale rottura, come abbiamo visto nel
capitolo precedente, porta con sé numerose ripercussioni, per la vittima del layoff,
per i survivors, e per l’organizzazione.

L’outplacement è uno strumento utile per ristabilire l’equilibrio o per lo meno per
ridurre lo squilibrio nel triangolo Heideriano citato in precedenza: salvaguarda infatti
il rapporto organizzazione – vittima in quanto permette all’organizzazione di
accompagnare e gestire il processo di licenziamento coinvolgendo il dipendente
nell’assunzione di responsabilità riguardo l’interruzione del rapporto di lavoro e
offrendogli la possibilità di individuare nuove opportunità di carriera; salvaguarda
inoltre il rapporto organizzazione – survivor, in quanto esso viene inteso come una
maniera per “prendersi cura” del proprio personale in esubero, facendo apparire
quindi il processo di layoff come più equo e giusto, e andando ad evitare o a
moderare reazioni negative o resistenze da parte dei survivors dovute alla percezione
di ingiustizia.

Perotti, parlando di counseling di outplacement, lo definisce come:

“una qualificata consulenza e assistenza che viene offerta, esclusivamente su mandato dell'azienda e
senza alcun onere per il dipendente, che potrà avvantaggiarsi dell'intervento specialistico di
professionisti esperti in tutte le problematiche connesse alla riqualificazione professionale, alla
gestione di carriera e al riorientamento del lavoratore nel contesto produttivo.” (Perotti, 2007, p.29)

Come dimostrato da Vinouk e Caplan (1987) e da Simon (1988) gli interventi di


outplacement portano molti benefici sia a chi ne usufruisce (le vittime), sia
all’organizzazione che ne fa uso: maggiore ottimismo, minori sentimenti di
depressione, e soprattutto un più facile reinserimento nel mercato del lavoro per
quanto riguarda i primi, miglioramento del morale, del commitment e
dell’attaccamento dei suoi membri per quanto riguarda la seconda.

Healy (1982, p.74) inoltre sostiene che gli interventi di outplacement consentono di
“ridurre l’ansia e la tensione prodotta da un’interruzione del percorso di carriera;
incrementare l’attrattività della ricerca del lavoro; assicurare strategie costruttive di
placement; diminuire il periodo di disoccupazione; influenzare il cambiamento di
carriera per migliorare l’inserimento occupazionale del lavoratore”.

Storicamente il counseling di outplacement nasce e si sviluppa negli Stati Uniti nel


1944, con l’emanazione del Servicemen’s Readjustment Act, con lo scopo di
reinserire i veterani della Seconda guerra mondiale in un normale contesto
lavorativo, e ha un padre fondatore riconosciuto in Bernard Haldane, che ne realizza
il primo intervento (Tanucci, 2010).

Tale decreto si configurava in interventi di formazione, qualificazione, sostegno


economico per la transizione dall’occupazione militare a quella civile. La
problematica che voleva andare ad aggredire era quella dei veterani, che, dopo aver
sviluppato esperienze e competenze superiori durante il servizio militare, trovavano
frustrante dover tornare alla propria occupazione prebellica: “sento di aver fatto bene
una determinata cosa, mi è piaciuto farla e sono orgoglioso di averla fatta” (Haldane,
1961 in Tanucci, ivi, p. 331).
In questo contesto Haldane si impegna ad “insegnare ai primi veterani come
identificare le proprie competenze migliori, i punti di forza, gli interessi e, inoltre,
come utilizzare queste conoscenze nella ricerca di opportunità occupazionali
produttive e soddisfacenti” (Redstrom-Plourd, 1998, p.33). Egli elabora un processo
(System to Identify Motivated Skills) che consente ai veterani di “individuare delle
potenzialità motivate attraverso la valorizzazione delle passate esperienze” (G.
Tanucci, 2010, p.331).

Questo intervento, seppur pioneristico, ha funto da base per i successivi sviluppi


dell’outplacement, che negli anni ’60, sempre per mano di Haldane, e sempre
limitatamente agli Stati Uniti, ha trovato nuova linfa per via della crisi economica
che accompagnò gli U.S.A. in quegli anni. Conseguenza di tale crisi fu un
generalizzato processo di downsizing nelle aziende americane che portò ad una
massiccia riduzione del personale. Questo portò le aziende ad interessarsi
all’outplacement e a richiederne il supporto per mettere in pratica politiche di layoff
meno impattanti sul benessere di vittime, survivors, e dell’organizzazione stessa. La
prima azienda in questi anni a richiedere un intervento di outplacement per i propri
dipendenti in esubero fu la NASA, l’ente spaziale americano, che, in seguito alla
crisi, aveva necessità di tagliare le spese per i dipendenti specializzati assunti in gran
numero durante la preparazione del progetto Apollo. Si decise in questo caso di
offrire a tutti i dipendenti in esubero una possibilità di riqualificazione e
ricollocazione in altri contesti aziendali, e lo strumento scelto fu proprio il counseling
di outplacement.

Successivamente a questa “rinascita”, negli anni ‘80 si avrà una reale affermazione
del counseling di outplacement, che sorpasserà finalmente i confini degli Stati Uniti,
diffondendosi prima in Canada, poi in Europa e in Asia, e professionalizzandosi
tramite istituti come l’International Board of Career Management Certification in un
approccio che “enfatizzi le problematiche professionali e di business, non solo
psicologiche, che caratterizzano i modelli di approccio al problem solving e alla
gestione delle situazioni che i candidati hanno sviluppato nello loro esperienze
lavorative prima del licenziamento” (Gallagher, 1997, p.138).
In Italia tale professionalizzazione è avvenuta solo nel 1996, con la costituzione
dell’Associazione dei professionisti di outplacement e di management
dell’evoluzione professionale che ha dato vita, insieme all’Associazione italiana
società outplacement, alla Commissione per la certificazione dei consulenti di
carriera, ovvero i conselour di outplacement (Tanucci, 2010, p.334).

3.3 Outplacement: modalità di intervento.

Il counseling di outplacement nasce come un intervento che propone un


cambiamento culturale, ponendo il problema del lavoratore in esubero in un’ottica
positiva e costruttiva, attraverso la quale il lavoratore può arrivare a valutare il
proprio reale valore, prendendo in esame non il suo stato attuale, ma la sua
impiegabilità (employability) sul mercato del lavoro, trasformando quindi il
licenziamento da un evento traumatico a un fatto strutturato (Perotti, 2007), quindi
rimuovendo, o per lo meno limitando, paure e ansie circa il proprio futuro e conflitti
con il proprio sé.

Lo sviluppo e la professionalizzazione del counseling di outplacement hanno


prodotto una diversificazione negli interventi e nei presupposti teorici alla loro base.
Esso ha trovato terreno fertile per il suo sviluppo soprattutto in periodi di recessione
economica e ristrutturazione e delocalizzazione organizzativa, seguendo i vari stati
dell’economia del mercato del lavoro e dell’occupazione, differenziandosi tra diversi
modelli di lettura e di intervento, adattandosi ai bisogni della clientela e delle sue
specificità, allargando quindi il proprio campo di intervento nel tempo, spaziando dai
“colletti bianchi” agli impiegati di medio e basso livello.

Redstrum-Plourd (1998) descrive adeguatamente come il counseling di outplacement


si sia evoluto nel tempo, dagli anni ’60 a fine millennio, quando da pioneristico
intervento a tutela del lavoratore si è trasformato in un business in rapida espansione,
soprattutto nei paesi anglosassoni. Nella sua analisi, ella ha trovato come le
metodologie e il tipo di supporto che il counseling di outplacement offre, si stiano
sempre più differenziando in base al livello occupazionale e allo strato sociale
occupato dal cliente. Redstrum-Plourd pone come esempio il fenomeno del
licenziamento di dirigenti di alto livello, che è un problema emerso solo negli ultimi
anni, e fa notare come le organizzazioni che si occupano di outplacement abbiano
differenziato le proprie modalità di intervento, realizzando programmi ad hoc per
dirigenti, che si distaccano dai più tradizionali programmi di job-training. Un’altra
evoluzione che Redstrum-Plourd nota, è come nel tempo il servizio di counseling di
outplacement si sia evoluto da un servizio di consultazione individuale, al quale poi
sono stati aggiunti servizi di group training prima opzionali, poi integrati, fino a
trasformarsi in un lavoro di group training con la possibilità di consulti individuali.

E’ negli anni ’70 che i servizi di counseling si sono aperti anche a consulenze di
gruppo (Troisi, 1993), dovendo fronteggiare accresciute richieste di consulenza e
lavori più corposi come i licenziamenti di massa nelle imprese multinazionali. Si
sono inoltre sviluppati programmi “su richiesta”, ovvero pensati in maniera calzante
per la committenza, supportati dal fatto che non tutti i lavoratori licenziati hanno
bisogno di tale intervento, e che in questa maniera l’organizzazione è in grado di
personalizzare gli interventi secondo le esigenze degli utenti e al contempo
razionalizzare i costi dell’intervento.

Naturalmente questo ha portato il servizio di counseling a essere meno orientato ai


bisogni degli individui. A tal proposito Pickman (1994) dimostra come sia
fondamentale la figura del counselor, e come sia necessario che essa si distacchi
dalla figura tradizionale del manager o del job-trainer. Nel suo studio egli ha notato
come i soggetti che usufruiscono di tale servizio sviluppino una relazione personale e
intima con il proprio consulente, nel quale ripongono fiducia sia nelle sue
competenze che nelle sue qualità più propriamente umane e di relazione.
Naturalmente in un counseling pensato per il gruppo, questa relazione è molto meno
accentuata, e questo porta a conseguenze sull’effettiva utilità del servizio percepita
dal cliente, come si vedrà nel prossimo paragrafo.

Un’ulteriore evoluzione del servizio di counseling negli anni ’90, è quella della
moltiplicazione dei servizi che le organizzazioni che si occupano di outplacement
offrono, oltre che ai fruitori del servizio, anche alle aziende che li ingaggiano (Meyer
e Shadle, 1994). Si è passati infatti dal classico servizio di consulenza e job-training
al cliente, dove la società di outplacement non partecipa né alla fase di estromissione
del dipendente, ne al suo collocamento in altra azienda, ad un servizio tout-court che
prevede anche un supporto amministrativo e decisionale che segue l’azienda durante
tutto il processo di downsizing, e che oltrepassa i confini del counseling di
outplacement classico, aiutando quindi da un lato l’organizzazione a pianificare un
processo di cambiamento adeguato e quanto più possibile meno traumatico, e
dall’altro il singolo che sarà vittima di tale processo.

Si capisce dunque come il counseling di outplacement non sia un intervento


standardizzato, ma comprenda una certa varietà di pratiche che abbracciano molti
ambiti, quali aspetti socioculturali, psicologia, temi organizzativi e socio-economici,
counseling vocazionale e psicologico. La figura professionale del counselor, quindi,
deve essere in grado di pensare sia in maniera aziendale e organizzativa che
personale e interpersonale.

Le modalità di intervento del counseling di outplacement, come abbiamo detto,


possono essere di diversi tipi, e avvenire in diversi momenti, a partire dalla presa di
decisione da parte del management di effettuare un processo di downsizing, fino a
terminare con l’assunzione del laid-off in una nuova organizzazione

In un primo momento esse si configurano in un processo di consulenza


prelicenziamento, tramite strumenti quali il corporate pre-lim, ovvero la presa di
contatto con l’organizzazione committente per discutere il motivo del licenziamento,
e raccogliere informazioni relative ai soggetti e alle condizioni che potrebbero
interferire con le capacità dello stesso di realizzare una ricerca attiva del lavoro; la
ricognizioni di eventuali alternative al licenziamento; interventi di formazione per
manager e responsabili che andranno ad attuare il processo di layoff. In tale fase il
counseling di outplacement aiuta l’organizzazione a gestire le diverse dinamiche per
una comunicazione corretta e non ansiogena.
In un secondo momento l’intervento del counseling di outplacement si configura
come programmazione di interventi prelicenziamento: il consulente prende in carico
la situazione e presenta le opportunità che il servizio di outplacement può offrire,
tramite incontri di gruppo utili ad aumentare lo scambio comunicativo e il confronto
organizzazione-dipendenti, per attenuare le reazioni ostili e facilitare la separazione
dall’organizzazione.

Inizia qui la fase di counseling di outplacement vera e propria: tramite un primo


contatto con il consulente il soggetto è portato a mitigare le reazioni al
licenziamento, a focalizzarsi sulle future prospettive occupazionali e ad esplorare le
modalità con le quali comunicherà il licenziamento alla sua famiglia e alla propria
comunità. Attraverso esercizi, simulazioni, interviste e test di personalità il
consulente aiuta il licenziato ad individuare i punti di forza che gli permettono di
delineare i propri futuri obiettivi ed essere consapevole circa il percorso
occupazionale realizzato fino a quel momento. Egli è aiutato nella ricerca proattiva
con la costruzione di un curriculum e di una strategia di marketing per “vendersi” ad
un nuovo datore di lavoro, la strutturazione di un networking e l’accesso e
l’esplorazione dei database relative al mercato del lavoro. (Kirk, 1994; Zunker, 2002;
Tanucci, 2010). Si nota dunque come il counseling di outplacement si configuri,
nelle sue funzioni più specifiche, come un vero intervento di consulenza personale,
svolgendo al fianco del soggetto un importante lavoro di autoanalisi, individuando le
aree di riqualificazione da riconoscere e potenziare, e fornendogli tutte le
informazioni utili a consentirgli un pronto reinserimento nel mondo del lavoro
(Perotti, 2007).
3.4 Counseling di outplacement: evidenze empiriche.

Dato il crescente uso del counseling di outplacement, soprattutto nell’ultimo


decennio, è sorprendente come ci siano come pochissime evidenze empiriche
sull’efficacia di tale strumento (Wooten, 1996). Wooten scrive infatti che
“virtualmente non sono state pubblicate ricerche relative alla valutazione e agli
outcomes dell’outplacement” (Wooten, Timmerman, Folger, 1999, p.85).

Egli stesso si propone quindi di indagare sulla soddisfazione dei clienti del
counseling di outplacement ed esaminarne le implicazioni. Per il suo studio egli
analizzò 11 componenti dell’intervento di outplacement suggeritegli da
un’organizzazione che operava nel campo, e le mise in relazione con la soddisfazione
dei clienti che ne avevano fatto uso. Divise le 11 componenti in tre dimensioni:
componenti di contenuto, ovvero la preparazione dell’intervento e il training alla
ricerca di lavoro; componenti di processo, come la relazione con il counselor, la
chiarezza delle aspettative, l’assistenza nel mantenere il focus; componenti di
contesto, che racchiudono strumenti quali librerie, software, supporto
amministrativo.

Egli trovò che componenti di contenuto e componenti di processo fossero migliori


predittori della client satisfaction rispetto alle componenti di contesto.

Ma da sola questa ricerca non basta a conoscere se e in che modo i programmi di


counseling di outplacement incontrano i bisogni dei propri clienti. A tal proposito
Butterfield e Borgen, prendendo spunto dalla ricerca di Wooten, nel 2005 hanno
condotto una ricerca qualitativa per esplorare punti di forza e disfunzioni del
counseling di outplacement.

Tramite una serie di interviste analizzate con il metodo qualitativo del critical
incident, capace di esplorare a fondo specifici eventi, e molto utile come strumento
fondazionale\esplorativo nei primi stadi di ricerca (Flanagan, 1954; Woolsey, 1986),
gli autori sono riusciti a stilare una lista di outcomes positivi, negativi, e di desideri,
che i soggetti di ricerca hanno provato nei confronti del counseling.
I risultati di questa ricerca non sono incoraggianti: sembra infatti che la maggior
parte dei clienti dei servizi di counseling di outplacement ricevano programmi
troppo strutturati e centrati sul compito, che non vanno incontro ai loro bisogni
emozionali durante questa importante fase di transizione. Nella categoria dei desideri
infatti, troviamo il bisogno dei partecipanti di poter raccontare più approfonditamente
le proprie storie, di avere qualcuno che empatizzi con loro più che focalizzarsi
unicamente sul completamento del compito.

Queste evidenze sono in pieno accordo con tutte le teorie e le pratiche emergenti in
letteratura sul career counseling e il counseling di outplacement, ma evidentemente
hanno ricevuto una applicazione limitata, almeno per quanto riguarda le sei agenzie
di outplacement dei cui servizi hanno fatto uso i partecipanti a questa ricerca.

Questo suggerisce che ci possa essere un gap, tutt’oggi, tra i servizi di outplacement
erogati e, da una parte i bisogni reali dei clienti, e dall’altra i dettami della letteratura
manageriale e psicologica dell’argomento.

In relazione a questi risultati, Butterfield e Borgen (2005) provano a dare una


spiegazione. Sottolineano come sia fondamentale il contesto in cui il counseling di
outplacement è offerto. Tale servizio, infatti, esplica la sua funzione nel trovare un
punto di incontro tra i bisogni dell’individuo da una parte e dell’organizzazione
dall’altra; è nato per proteggere gli interessi dei lavoratori, ma è “imbevuto nel
linguaggio e nelle aspettative della business community” (Butterfield e Borgen,
2005, p. 314).

Nelle descrizioni sui servizi erogati dalle organizzazioni di counseling gli autori
hanno trovato molti riferimenti alla business community e ai servizi che per essa
sono indispensabili, come abilità nel job search, nel preparare un résumé, ecc. Manca
invece ogni riferimento all’orientamento guidato, al counseling, alla formazione, e
sono proprio questi i fattori che invece i clienti studiati desiderano di più,
includendoli sempre nelle loro wish list.
Il problema in questo caso potrebbe appunto risiedere nei counselor stessi: in tutti i
casi di studio essi si configuravano come persone molto esperte di business, ma
erano prive di abilità di counseling.

Un’altra evidenza che questo studio è riuscito a cogliere è quella che le sessioni di
outplacement di gruppo come seminari, meeting, workshop, sembrano non incontrare
i bisogni dei clienti. Essi infatti tendono a desiderare maggiormente un’attenzione
individuale e connessione con il counselor, e provano il bisogno di condividere i
propri vissuti, cosa che in questi incontri è molto difficile.

Si evidenzia quindi come per un servizio di counseling di outplacement che vada


davvero a toccare i bisogni del cliente, sia necessario avere una formazione adeguata
che tenga conto non solo della preparazione riguardo i mercati lavorativi e i bisogni
delle organizzazioni, ma anche di quella legata agli aspetti più legati all’individuo e
alle sue necessità. La Psicologia del Lavoro ha ancora molto da dare in questo senso.
Numerosi sono gli ambiti su cui bisognerebbe indagare riguardo al counseling di
outplacement, a partire dal rapporto counselor – cliente, che potrebbe continuare a
migliorare un servizio potenzialmente molto benefico nei rapporti tra individuo,
lavoro e organizzazioni.

3.5 Conclusioni

Si è visto come il counseling di outplacement, nato come strumento per aiutare


determinati soggetti durante le proprie transizioni di carriera, sia diventato, a cavallo
degli ultimi due decenni, un business, che tende ad andare incontro
all’organizzazione per la quale lavora, spesso addirittura diventando un servizio
permanente e interno all’organizzazione stessa. Le cause di questo cambiamento
sono dovute certamente alla professionalizzazione del servizio, oltre che alla
necessità di poter lavorare anche in tempi di floridità economica e al di fuori
dell’ottica del downsizing. E’ chiaro però, che tale spostamento di target vada a
ledere almeno in parte l’utilità del servizio per il singolo. A questo proposito Cabrera
(1997) suggerisce che molti sono i soggetti che sarebbero disposti a dividere i costi
di servizi aggiuntivi come quello del counseling individuale con l’azienda, possibilità
però non ancora presa in considerazione dalla maggioranza delle organizzazioni che
si occupano di counseling di outplacement. Ormai la grande maggioranza di tali
organizzazioni ha come target la grande azienda e ottimizza i propri metodi su questo
target.

La conseguenza, secondo Redstrum-Plourd (1998) è quella di un distacco del


servizio dalle problematiche dell’individuo, e dell’esclusione all’accesso a tale
servizio di tutti coloro che, avendo lavorato in piccole o medie aziende che non
possono permettersi un tipo di consulenza di gruppo strutturata in questo modo,
devono cercare altri mezzi per curare le proprie transizioni di carriera o farne a meno.
Ciò rischia di causare un vuoto tra domanda e offerta, vuoto che sarebbe facile da
colmare ripensando alle radici dell’outplacement e al problema reale che tale
strumento vuole andare ad aggredire.
CONCLUSIONE

Come detto in precedenza, momenti di crisi sono un fenomeno endemico del sistema
economico internazionale così come attualmente strutturato, con tutte le conseguenze
che essi portano all’economia, ma soprattutto al benessere di individui, famiglie e
società.

Fatto salvo l’assunto che in momenti come questi i processi di layoff e di downsizing
organizzativo possono essere necessari per la salvezza di un’intera organizzazione e
quindi del benessere di coloro che ne fanno parte, si è visto come diversi modi di
agire da parte del management possono portare risultati e conseguenze totalmente
differenziati, sia per quel che riguarda il benessere delle organizzazioni, sia per
quanto riguarda i risvolti psicologici nei suoi membri.

Processi di cambiamento organizzativo volti a tagliare spese e quindi personale


saranno sempre fonte di resistenze da parte dei lavoratori, non solo per via di danni
materiali che essi subiranno, ma anche per la rottura di quel contratto psicologico che
essi avevano stabilito con l’organizzazione al momento del loro ingresso. Tale
cambiamento è un cambiamento traumatico, che, come evidenzia Brockner, lascerà
tracce a volte indelebili nella memoria e nella coscienza di chi rimane all’interno
dell’organizzazione.

Per evitare ciò, o per lo meno per attenuare tali reazioni e conseguenze, è
fondamentale il ruolo del management in un processo tanto delicato. Informazione
completa, stile di comunicazione chiaro e sincero, metodi di cambiamento quanto più
equi possibile, l’uso di strumenti adeguati per prendersi cura dei propri membri, sia
coloro che dovranno lasciare l’organizzazione, sia coloro che invece
“sopravviveranno” all’esubero, sono fattori fondamentali per ottenere risultati
accettabili da un processo di downsizing, del quale inoltre non si dovrebbe mai fare
un uso smodato.

Dimostrando la bontà delle intenzioni, la necessità del cambiamento e la propensione


a prendersi cura di tutti i propri membri, il management potrà salvaguardare i livelli
di commitment organizzativo e di motivazione e attaccamento al lavoro dei membri,
rendendo quindi il processo di downsizing utile allo scopo e non invece, come spesso
accade, dannoso per tutto l’ambiente lavorativo e quindi per la produttività
dell’organizzazione.
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