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Le divisioni del lavoro sociale

Sociologia generale (Università degli Studi di Firenze)

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SOCIOLOGIA GENERALE – LE DIVISIONI DEL LAVORO SOCIALE

PREMESSA
Il testo inizia con una prima riflessione attorno ad alcuni concetti fondamentali (lavoro,
differenziazione, divisione del lavoro, ecc.). la prima parte del testo è dedicata all'illustrazione
di come alcuni fra i più noti “classici” delle scienze sociali si sono misurati con la questione della
divisione del lavoro, mettendo in evidenza come questa venga considerata centrale fin dalle
origini del pensiero sociologico. A seguire, l'attenzione si focalizza sulla critica marxiana
dell'economia politica che ancora oggi ci offre l'analisi e l'interpretazione più convincente del
lavoro e delle sue divisioni nella “società capitalistica”. Dopo aver considerato gli elementi più
significativi delle riflessioni sviluppate a cavallo tra '800 e '900 da Spencer, Durkheim e Weber,
l'analisi si concentra su come agli inizi del secolo scorso il taylorismo e il fordismo abbia
modificato il modo di produrre e al contempo approfondito le linee di divisione all'interno del
processo lavorativo. Nel vasto dibattito scaturito alcune critiche denunciano le conseguenze in
termini di deumanizzazione e alienazione del lavoro, altre sottolineano la “utopica” pretesa di
annichilire la soggettività del lavoro altre ancora auspicano e propongono una parziale
“ricomposizione” del lavoro.
Sarà però la crisi di sovrapproduzione e la “saturazione” dei mercati che si manifesta nei primi
anni '70 a spingere verso la sperimentazione di “nuovi modi di produrre”, capaci di
contrapporre alle eccessive “rigidità” del taylor-fordismo la “flessibilità” che si andrebbe
imponendo come principio generale (dei mercati, dell'impresa, del lavoro, ecc.) . l'enfasi
retorica sulla flessibilità, la qualità e “la valorizzazione delle risorse umane” degli approcci
manageriali rappresenta lo scenario simbolico entro il quale viene presentato il toyotismo,
come alternativa e ribaltamento del taylor-fordismo.
La seconda parte è dedicata all'analisi delle trasformazioni e delle persistenze che
caratterizzano le diverse linee di divisione del lavoro sociale ed alcuni nuovi processi
fondamentali che caratterizzano la nostra contemporaneità quali la divisione del lavoro su scala
globale, la discriminazione razziale della forza lavoro e l'attacco ai sistemi di Welfare
nell'ambito della ristrutturazione capitalistica in corso.
Si cercherà di spiegare come, in realtà, il lavoro continui ad essere centrale sia nelle condizioni
materiali (sia non materiali) di esistenza della stragrande maggioranza della popolazione
mondiale, sia come categoria sociologica fondamentale per interpretare la realtà sociale e le
sue trasformazioni. Nell'immutata centralità dei rapporti sociali di produzione, emerge infine
quanto e come la molteplicità e variabilità dei processi di divisione continuino ad essere il
principale vuvnus (= offesa, danno) alle possibilità di emancipazione di coloro che vivono del
proprio lavoro.

INTRODUZIONE

In questo libro si è deciso di far riferimento alle “divisioni” per sottolineare come il lavoro sia
attraversato da una molteplicità di linee separatorie delle quali si deve tentare di conoscere
significati e reciproche connessioni. Queste linee non hanno però tutte lo stesso peso e mutano
nel tempo; ciò che invece nella società capitalistica rimane invariato è piuttosto il fatto che le
forme e i contenuti che assumono sono strutturate attorno ad una linea principale di divisione:
quella tra proprietari e non proprietari dei mezzi di produzione. Tematizzare la “divisione” al
plurale ha lo scopo di sottolineare, per contrasto, l'importanza di riferirsi al 2lavoro” come
concetto centrale e unitario. Unitarietà e centralità che si evidenziano sia sul piano ontologico,
sia nelle concrete determinazioni storiche del lavoro e le trasformazioni indotte dalla
polarizzazione di classe e dai processi di omogeneizzazione che investono la forza lavoro
mondiale strutturano nella praxis(= prassi) il lavoro come concetto e viceversa. Quindi ogni
giorno individui e gruppi sono costantemente “in relazione” con qualche organizzazione che, si
basa su una suddivisione delle attività. Per tentare di orientarsi è utile prendere le mosse del
linguaggio comune, dove il termine “lavoro” assumono almeno due significati: un significato
sostanziale, nel senso che è indipendente dal quadro formale in cui è utilizzato il termine: tutti
i compiti che svolgiamo per “sopravvivere”, escluse le attività le attività di cura della propria
persona e di svago; e un significato formale, per cui “lavoro” diventa sinonimo di

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“occupazione”, il che esclude molte attività, tra le quali ad esempio il lavoro di familiare e di
riproduzione che ancora oggi ricade prevalentemente sulle spalle della donna.
Dato che in questo capitolo ci occuperemo del lavoro organizzato e specificamente del lavoro
salariato, si farà riferimento al secondo significato: quindi “lavorare” significa svolgere
un'attività sistematica e specializzata che ha come contropartita un reddito invece che il
soddisfacimento immediato di un bisogno. Ne discende che il soddisfacimento dei bisogni
tramite il lavoro così inteso è mediato dal reddito. Il lavoro come occupazione è quindi
indipendente dal contenuto sostanziale dell'attività ed è definito dal quadro formale in cui si
colloca (orario, contratto, luogo di lavoro, ecc.).
Il lavoro nel suo significato formale è un prodotto della modernità e in particolare della
mercificazione e della specializzazione delle attività lavorative. Per mercificazione dobbiamo
intendere quel processo che distacca il lavoratore dal controllo e dall'uso diretto del prodotto:
la merce diventa il prodotto di un lavoro collettivo, il singolo lavoratore produce ormai soltanto
una parte (lavoratore parziale) della merce finale, non può più consumare direttamente il
prodotto del suo lavoro. Il lavoro diventa lavoro astratto.
Questa separazione, in linea generale, è connessa con la speciavizzazione e l'aumento della
produttività. Più il lavoro è specializzato , meno i singoli individui e le famiglie possono
sopravvivere consumando direttamente i risultati del loro lavoro, dovendo invece acquistare i
prodotti sul mercato. Inoltre con lo sviluppo dell'industria si ha un enorme aumento della
produttività, ma anche la subordinazione dei lavoratori della disciplina della fabbrica.
Le scienze sociali si sono occupate prevalentemente del lavoro astratto e in particolare del
lavoro di fabbrica, anche se il lavoro salariato di fabbrica non è mai stata la forma di lavoro
maggioritaria, è stata invece la forma dominante nelle rappresentazioni collettive e le sue
regole hanno condizionato tutta la vita sociale dell'era industriale.
La diffusione del lavoro astratto e lo sviluppo del capitalismo implicano la “liberazione” del
lavoro (ma solo di quella parte del lavoro che si trasforma in lavoro salariato) dai vincoli delle
società preindustriali (servitù della gleba, schiavitù, ecc.) e lo sviluppo di una struttura sociale
che rende sempre più difficile sopravvivere sulla base delle modalità tradizionali di lavoro
(sussistenza, ecc.).
La collocazione lavorativa diventa nella modernità il più significativo fattore di strutturazione
del sistema di classe e di un sistema di diseguaglianze connesso alle forme della divisione del
lavoro.

Il lavoro diviso
Si può a questo punto analizzare l'altro termine: divisione, alla sua connessione col concetto di
lavoro.
Si può iniziare col sostenere che la divisione (del lavoro) è un fenomeno sociale ed una
modalità particolare del più complesso processo di differenziazione sociale.
Si tratta di un fenomeno sociale in quanto, benché si possa connettere anche a differenze di
ordine biologico (età, sesso, ecc.) è comunque definito dalla dinamica/dialettica sociale: le
strutture sociali, insieme a culture, valori e rappresentazioni, e il loro reciproco
confronto/conflitto, concorrono a determinare storicamente le forme e i significati della
divisione (del lavoro).
Possiamo considerare inoltre il fenomeno come una forma particolare di differenziazione sociale
in quanto l'interesse conoscitivo è mirato dalla divisione di tipo qualitativo, ossia alla
produzione sociale di lavori differenti, rispetto alla precedente omogeneità/identità del lavoro
indiviso. Si tratta perciò di una divisione che produce nuove differenze, nuove alterità, che
quindi si distinguono dalla “omogeneità indistinta” presente nella prima divisione.
Per differenziazione possiamo intendere quel “processo attraverso il quale le parti (comunque
definite) di una popolazione o di una collettività, acquisiscono gradatamente una identità
distinta alla luce di categorie sociali e per cause sociali”.
Diversamente, per disuguaglianza (sociale) si deve intendere disparità, sperequazione, ossia
una non-eguale distribuzione tra gli attori di risorse e opportunità sociali. Bisogna quindi,
illustrare i modi in cui la divisione del lavoro (intesa come una delle modalità di differenziazione
sociale) si associa a fenomeni e processi di disuguaglianza sociale.
Non si analizza qui la divisione del lavoro in generale, bensì la divisione capitalistica del lavoro,
ossia delle modalità con cui il lavoro viene diviso nella storia del modo sociale di produzione

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capitalistico, che è poi il tema intorno a cui si è sviluppato nel tempo l'interesse riferito al
lavoro delle moderne scienze sociali. In particolare, la sociologia, ha e ha sempre avuto tra i
suoi privilegiati oggetti di studio la questione della divisione del lavoro quale fattore
caratterizzante della società industriale.

DIVISIONE SOCIALE E AUTORITARIA DEL LAVORO


Si può affermare che esistono almeno due precondizioni affinché possa sorgere e affermarsi la
divisione capitalistica del lavoro: un determinato sviluppo e diffusione di alcune forme di
divisione dei compiti nella società; una struttura delle diseguaglianze sociali caratterizzata dalla
distinzione tra proprietari e non proprietari dei mezzi di produzione.
Cominciamo dalla prima: la genesi della divisione del lavoro presuppone che la società abbia
già sperimentato e sviluppato ad un certo livello altre forme di divisione del lavoro, tra le quali
le principali sono: la divisione per sesso e per età; la divisione con cui sono attribuite le diverse
funzioni sociali, che si fonda sulla separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
Per divisione sociale del lavoro (DSL) si intende qui quel processo attraverso il quale vengono
suddivise e distribuite le differenti funzioni sociali: nella società capitalista, i diversi modi in cui
il lavoro è socialmente diviso sono determinati in ultima istanza dalla distinzione tra proprietari
e non proprietari dei mezzi di produzione (rapporti sociali di produzione).
La divisione del lavoro tra mansioni può essere definita come divisione autoritaria del lavoro
(DAL), in quanto si sviluppa solo quando uno o più individui hanno il potere sociale di
controllare e dirigere il lavoro di altri individui: nella società capitalistica la DAL si forma e si
generalizza solo a partire dallo sviluppo della manifattura, ossia solo da quando il capitalista-
imprenditore diviene in grado di concentrare in uno stesso luogo e sottoporre al proprio
comando i lavoratori precedentemente “dispersi” nel forme del lavoro domestico e del lavoro
artigiano. Qui è il nesso con la seconda delle pre-condizioni di cui si diceva: questo potere
sociale si afferma storicamente solo quando il mercante si trasforma in capitalista-
imprenditore, ossia solo nel momento in cui si strutturano i rapporti sociali di produzione
capitalistici, fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione.
Quindi la DAL diviene la forma dominante di utilizzo della forza-lavoro solo quando si è
affermata una determinata DSL.
Benché l'attenzione sia rivolta alle diverse forme che la divisione del lavoro va assumendo a
partire dalla rivoluzione industriale, è opportuno vedere innanzitutto, come nella storia il lavoro
si presenti diviso secondo criteri più complessi rispetto alla mera suddivisione in base al sesso
e all'età.

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PARTE PRIMA
INDUSTRIA E DIVISIONE DEL LAVORO

PREMESSA

IL LAVORO NELLA SOCIETÀ ANTICA


Già in Platone troviamo analisi e riflessioni sui fattori che sono alla base della divisione sociale
del lavoro e della nascita di nuovi mestieri, nonché sulla crescente complementarietà e
interdipendenza tra differenti mestieri. Nella Grecia Antica l'attenzione al lavoro e alle sue
divisioni si intreccia costantemente con le valutazioni sul valore sociale dei diversi lavori: il
lavoro manuale è disprezzato, soprattutto quando implica lavorare per altri in cambio di una
paga, e questo disprezzo aumenta con l'introduzione del lavoro schiavistico. Il lavoro manuale
impedisce all'uomo di dedicarsi all'otium, quindi alla filosofia, alla poesia, alla politica, all'arte,
quindi il lavoratore manuale è un non-cittadino. Inoltre la crescente disponibilità di forza-lavoro
schiavistica rappresenta un oggettivo ostacolo allo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie.
Nella civiltà classica, l'invenzione, anche tecnica, può essere solo il prodotto del lavoro
intellettuale, ma non si applica all'industria.
Nel mondo antico la maggior parte della popolazione lavorativa è impegnata in agricoltura. La
struttura della società rurale è caratterizza dal piccolo podere familiare all'interno del quale il
lavoro è suddiviso in base al sesso e trasmetto attraverso l'apprendistato. I grandi latifondi, si
sviluppano maggiormente solo durante l'impero romano, utilizzando manodopera schiavistica.
Durante l'impero romano si hanno progressi importanti e lo sviluppo di una prima
specializzazione delle coltivazioni.
Già dal IV secolo a.C. Senofonte documenta non solo la divisione del lavoro tra le città, ma
anche l'ulteriore specializzazione dei compiti nelle unità familiari, nonché le prime forme di
divisione del lavoro finalizzata alla produzione di un prodotto finito. Nascono così le prime
corporazioni artigiane che hanno carattere religioso e assumono fusioni di mutua assistenza tra
i membri. Durante l'impero romano il movimento corporativo viene progressivamente
riconosciuto e regolato, fino a diventare nella sostanza una istituzione dell'apparato statale. La
costruzione delle piramidi rappresenta una delle prime importanti imprese di utilizzo di
lavoratori su larga scala, e in genere i lavoratori non erano schiavi, bensì contadini “liberi” ai
quali era imposto (lavoro obbligato) di erogare forza-lavoro quando non potevano lavorare nei
campi.

DALLA “ETÀ BUIA” AL BASSO MEDIOEVO


La disintegrazione dell'impero romano d'Occidente innescò caos e frammentazione sul piano
politico, economico e sociale. Nell'Età Buia dal 476 – caduta dell'impero romano all'anno 1000)
la rete dei mercati si restringe gravemente, declina così la domanda di beni e la produzione su
larga scala. Le economie si chiudono e si frammentano innescando processi di de-
specializzazione del lavoro. Nella stessa epoca si innescano però anche processi che
provocheranno importanti trasformazioni: da una parte, a causa del restringimento dei mercati
diminuisce la disponibilità di manodopera schiavistica, dall'altra la dottrina cristiana vieta di
rendere schiavi i cristiani. Ciò stimolò, secondo Marc Bloch la ricerca tecnologica finalizzata a
risparmiare forza-lavoro, quindi accresce la produttività. Inoltre sul piano filosofico la regola
benedettina Ora et vabora rovesciò i criteri di valorizzazione del lavoro dell'epoca antica: l'ozio
diventa “nemico dell'anima” e ai monaci è imposto di praticare il lavoro manuale oltre ala
preghiera e alla lettura dei testi sacri. Molte innovazioni furono importate grazie ai fenomeni
migratori dall'Oriente, altre si svilupparono in Europa e la ripresa economica iniziò a
manifestarsi dall'XI secolo, stimolata dalle Crociate e dalla nuova espansione del commercio.
A partire dal XI secolo in Europa nord-occidentale si assiste alla rinascita del fenomeno
corporativo che assume forme nuove ed è caratterizzato da una straordinaria differenziazione
dei mestieri. Le corporazioni mantenevano il ruolo di mutua assistenza dal passato, ma la
funzione principale diventava la protezione del mestiere, attuata attraverso una dettagliata
regolamentazione della produzione e delle modalità di vendita. Nella maggior parte delle
corporazioni le figure lavorative erano il maestro e l'apprendista, in alcune era prevista anche
una figura intermedia: il valletto.

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Il ruolo del mercante inizia a separarsi da quello del produttore, fino al punto in cui le
corporazioni dei mercanti arrivano a dominare e controllare quelle degli artigiani. Questo
sistema stimolò ulteriormente la divisione del lavoro tra diverse regioni europee e i prodotti
finiti venivano venduti in tutte le aree del Mediterraneo. Tra le molte innovazioni tecniche
introdotte nella produzione, fondamentale è la diffusione della forza motrice dell'acqua e del
vento (oltre alla forza animale) che rende possibile un utilizzo allargato dei mulini sia in
agricoltura che nelle manifatture. Al lavoro degli schiavi si sostituisce quello dei servi, che non
sono più proprietà del signore, e dei contadini liberi.
La specializzazione del lavoro si diffonde ulteriormente anche nella costruzione dei monumenti
e dell'industri mineraria, dove l'introduzione delle macchine, seppur ancora parziale, comincia a
soppiantare i lavori più pesanti e faticosi, e a modificare l'organizzazione del lavoro.

1. ORIGINI E SVILUPPO DELL'INDUSTRIA: LO SGUARDO DEI “CLASSICI”


LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
È durante il XVI secolo che si gettano le basi della rivoluzione industriale. La forte espansione
demografica e l'aumento della popolazione urbana comportano un incremento della domanda
dei prodotti agricoli e un perfezionamento ulteriori dei metodi produttivi nelle coltivazioni e
negli allevamenti. La “scoperta” del Nuovo Mondo dà una spinta esplosiva allo sviluppo
economico europeo: il colonialismo rende disponibile una grande quantità di materie prime,
nuovi prodotti, e il ritorno imponente dello sfruttamento della forza-lavoro schiavistica locale,
ma soprattutto di quella deportata dal continente africano.
Il mercato si fa sempre di più globale e l'organizzazione corporativa artigiana diviene sempre di
più inadeguata rispetto allo sviluppo delle forze produttive e all'estensione della domanda. Il
mercante da commerciante si trasforma progressivamente in proprietario di materie prime,
utensili e luoghi di lavoro. Con lo sviluppo dei primi stati nazionali i governi assumono un ruolo
attivo nel commercio e nell'industria, indebolendo ulteriormente il potere delle corporazioni e
dei grandi proprietari terrieri. Seppur in modo non univoco le legislazioni nazionali del '550 e
del '600 sono funzionali alla creazione di un grande proletariato urbano che si renda disponibile
alla crescente domanda di lavoro che caratterizza il primo sviluppo dell'industria. In questa
fase però la fabbrica si limita sostanzialmente a rappresentare il mezzo attraverso cui
concentrare i lavoratori necessari sotto uno stesso tetto, imponendo così una disciplina degli
orari di lavoro e una primitiva suddivisione dei compiti. Ma la divisione del lavoro si basa
ancora sull'abilità artigiana e il controllo sui modi di produrre è ancora nelle mani del
lavoratore; la meccanizzazione è poco sviluppata e la produzione non è ancora finalizzata ad
un mercato di massa.
Il nascente sistema di fabbrica segna una svolta epocale: il processo lavorativo artigiano viene
frantumato, parcellizzato,in una serie di operazioni assegnate a differenti lavoratori. Il prodotto
finale cessa di essere l'esito di un lavoro individuale, il sistema di produzione non si basa più
sulla conoscenza del mestiere dei singoli lavoratori.
Una chiara rappresentazione di queste trasformazioni la si trova nel celebre passo di Smith,
tratto da Indagine suvva natura e va cause devva ricchezza devve nazioni, sulle conseguenze della
divisione del lavoro nella fabbricazione degli spilli.
L'intensificarsi della divisione autoritaria del lavoro comporta quindi la trasformazione del
lavoro da individuale a combinato; il lavoro assume il carattere cooperativo, dove la forza
produttiva sviluppata dagli individui cooperanti è maggiore di quella risultante dalla somma dei
singoli lavori indipendenti. La merce finale è il risultato produttivo della combinazione dei lavori
definita dal sistema di fabbrica. Il tradizionale mestiere artigiano viene diviso e scomposto in
abilità più semplici e standardizzate: il principio-motore della divisione del lavoro permette così
di trasferire progressivamente i compiti e le lavorazioni più semplici del lavoratore alla
macchina. Gli utensili non dipendono più dalla capacità produttiva del singolo lavoratore,
viceversa sono ora i lavoratori a dipendere dal sistema di macchine che impone compiti, ritmi e
intensità del lavoro. La fabbrica non ha più bisogno delle vecchie capacità artigiane, l'industria
richiede ora destrezza, velocità e prontezza di riflessi (ad esempio nell'industria tessile, il
lavoro dei maschi adulti è efficientemente sostituito con quello delle donne e dei bambini, con
un conseguente drastico abbassamento dei salari medi della forza-lavoro).
Alla manifattura si sostituisce la macchino-fattura, si diffondono progressivamente le macchine
utensivi, ossia le macchine dotate di un movimento proprio, azionate da energia non umana,

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che servono a trasformare forme e dimensioni dei materiali e, in alcuni casi, alla produzione di
altre macchine. Lungo il XIX secolo la meccanizzazione, sviluppata inizialmente nel settore
tessile, si estende alle altre produzioni, la forza motrice del vapore moltiplica ulteriormente la
produttività del sistema di fabbrica, i vecchi (feudali) rapporti sociali di produzione sono
sostituiti dal rapporto di lavoro salariato: da una parte sta il capitalista, proprietario dei mezzi
di produzione, dall'altra il proletario che formalmente libero, è in realtà costretto a vendere la
sua forza-lavoro al capitalista in cambio di un salario appena sufficiente alla riproduzione della
propria esistenza.
Lo sviluppo storico delle forme moderne di divisione del lavoro e dell'industria attirano sin dal
principio l'attenzione di gran parte degli scienziati sociali del tempo, i quali, pur nelle differenze
di approcci e punti di vista, sembrano avere una comune attenzione alle ambivalenze che
strutturalmente caratterizzano il fenomeno: da una parte la divisione del lavoro è considerata
un fattore essenziale per il progresso della società; dall'altra se ne rileva caratteri e
conseguenze che rappresenterebbero un pericolo sia per i lavoratori coinvolti, sia per la tenuta
di quei giorni sulla base dei quali si costruisce e si riproduce la società.

LA DIVISIONE DEL LAVORO NELLE MANIFATTURE


Nella seconda metà del '700 in Inghilterra il poderoso sviluppo della manifattura mette in
evidenza con l'aumento della produttività sia associato alla crescente differenziazione e
specializzazione dei compiti nel processo lavorativo. Così da Ferguson nel Saggio suvva storia
devva società civive la divisione del lavoro è innanzitutto giudicata positivamente come principale
fattore di progresso sociale.
In questo brano lo studioso scozzese indica che a ciascun individuo è attribuito un compito
specifico in base alla “casuale” distribuzione di mezzi, inclinazioni e circostanze. Sembra quindi
emergere l'idea di una divisione del lavoro come fenomeno spontaneo che si adatta alle pre-
esistenti differenze tra gli individui. Il fatto che la specializzazione dell'individuo nel mestiere
particolare arrivi al punto di renderlo ignorante “di tutti gli affari umani” non è visto con
preoccupazione, in quanto rappresenta una condizione oggettiva affinché possa aumentare il
grado di benessere della società. Inoltre è importante come non venga fatta nessuna
distinzione tra la differenziazione delle “professioni” nella società e la suddivisione dei “compiti”
nella manifattura, ossia tra la divisione sociale del lavoro e la divisione autoritaria del lavoro:
due fenomeni sociali che, sono interconnessi ma diversi.
Nelle stesse pagine però l'autore mostra consapevolezza di come la divisione del lavoro sia
essa stessa causa di diseguaglianze e di rapporti di subordinazione.
Le occupazioni “meccaniche” (contrapposte a quelle “liberali”) conducono quindi al degrado
dell'individuo, l'operaio della manifattura è costretto all'ignoranza al punto che può essere
paragonato all'ingranaggio di una macchina (-l'ignoranza è la madre dell'industria-).
Ferguson arriva quindi a paragonare la condizione dell'operaio manifatturiero a quella degli
schiavi e afferma come quella condizione faccia sorgere nell'osservatore una sensazione di
pena e di ingiustizia. Ma la consapevolezza delle condizioni di diseguaglianza non ci può indurre
a richiedere un livellamento sociale.
A differenza dei “selvaggi” tra gli individui della società moderna si sono ormai sviluppate delle
diseguaglianze prodotte dalle “arti mercantili” e non si può affidare la guida delle nazioni “a chi
ha ristretto i suoi scopi alla propria sussistenza o conservazione”.
Così Ferguson, benché sia assolutamente consapevole che la divisione del lavoro presuppone e
insieme produce la diseguaglianza sociale, ritiene quest'ultima come inconveniente irreversibile
e necessario per il progresso della società, inconveniente a cui il buon governo di una
“monarchia mista” avrebbe trovato rimedio. L'approfondirsi della separazione tra lavoro
manuale e lavoro intellettuale comporta preoccupanti conseguenze sociali, ma rappresenta
nello stesso tempo la condizione per l'ulteriore crescita della produttività e del benessere della
nazione.
Il padre dell'economia politica classica, Adam Smith, allievo di Ferguson, già quattro anni prima
del suo maestro, aveva esposto nelle linee essenziali la sua teoria della divisione del lavoro
come forza produttiva e aveva anticipato l'analisi sull'ambivalenza delle conseguenze della
specializzazione che affronterà in modo più sistematico in Weavth of Nations.
L'origine della divisione del lavoro è individuata nella naturale inclinazione dell'uomo allo
scambio e Smith ne tratta proprio nel suo famoso brano in cui afferma che il benessere delle

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nazioni non è il frutto della benevolenza degli uomini, ma della loro capacità di perseguire il
proprio interesse individuale (“egoismo”): inizialmente la divisione del lavoro non è “il risultato
di una consapevole intenzione degli uomini”, bensì della “inclinazione della natura umana” a
“trafficare, a barattare e a scambiare una cosa con l'altra”. Infatti, a differenza degli animali,
l'uomo “in una società incivilita” ha costantemente bisogno “della cooperazione e
dell'assistenza di moltissima gente”.
É in questo quadro che fin dalle prime pagine della Indagine Smith illustra i vantaggi della
divisione del lavoro:
La causa principale del progresso delle capacità produttive del lavoro, sembra sia stata la
divisione del lavoro. Questo grande aumento della quantità di lavoro che, in seguito alla
divisione del lavoro, lo stesso numero di persone riesce a svolgere, è dovuto a tre diverse
circostanze: in primo luogo all'aumento di destrezza di ogni singolo operaio; in secondo luogo
al risparmio del tempo che di solito si perde da una specie di lavoro ad un'altra; infine
all'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro e permettono
a un solo uomo di fare il lavoro di molti.

Quindi l'aumento della produttività è ricondotto al fatto che la scomposizione del lavoro in
mansioni semplici permette una maggiore velocità e precisione di esecuzione, un taglio dei
tempi morti connessi al passaggio del lavoratore da una lavorazione ad un'altra, la messa a
punto di macchinari che a loro volta moltiplicano la produttività del lavoro. Benché Smith si
occupi prevalentemente della ri-organizzazione del lavoro più che del rapporto tra lavoro e
macchine, è da sottolineare come egli anticipi uno dei temi fondamentali della sociologia del
lavoro e industriale, il rapporto tra crescita delle conoscenze e trasformazioni dei processi
lavorativi.
E di seguito ci offre un esempio di come la conoscenza che produce perfezionamenti,
innovazioni, invenzioni possa essere il risultato di un obiettivo che in ogni processo di
lavorazione è costantemente perseguito dagli operai: risparmiare tempo e fatica.
Non tutti i perfezionamenti delle macchine, però, sono derivati dalle invenzioni di coloro che le
usavano abitualmente. Molti perfezionamenti sono stati realizzati in virtù dell'ingegnosità dei
costruttori di macchine, quando costruirle diventò il contenuto di una professione specifica, e
altri dall'ingegnosità dei cosiddetti filosofi, la cui professione non consiste nel fare qualche
cosa, ma nell'osservare ogni cosa.
Con il progredire della società la filosofia, diviene, al pari di ogni altra occupazione, l'unica o la
principale attività professionale di una particolare categoria di cittadini e, come ogni altra
occupazione, anch'essa si suddivide in un grande numero di rami diversi.
Da qui il convincimento smithiano secondo il quale l'aumento della forza produttiva del lavoro
combinato (sia manuale che intellettuale) comporti necessariamente un grande beneficio per
l'intera nazione e per tutte le classi sociali tra le quali diminuirebbe anche il differenziale in
termini di benessere:
La grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in conseguenza della divisione del
lavoro, è all'origine, in una società ben governata, di una prosperità generale che estende i
suoi benefici fino alle classi inferiori del popolo. Ogni operaio può disporre di una grande
quantità del suo lavoro che supera le sue necessità e è in grado di scambiare una grande
quantità dei suoi beni con una grande quantità dei beni degli altri, oppure con il prezzo di
questa quantità.
Anche per Smith vi è un'altra faccia, meno nobile, della divisione del lavoro, le cui conseguenze
negative sono trattate nel quinto libro della Indagine. Egli, guardando alla condizione in cui è
costretta la maggior parte dei lavoratori industriali, afferma che:
un uomo che spende tutta la sua vita compiendo pochi e semplici operazioni non ha nessuna
occasione di applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva e di scoprire nuovi
espedienti per superare difficoltà che non incontra mai. Costui perde quindi naturalmente
l'abitudine a questa applicazione ed in genere diviene tanto stupido ed ignorante quanto può
esserlo una creatura umana. La sua destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo
modo acquisita a spese delle sue qualità intellettuali, sociali, militari. Ora in una società
progredita e incivilita, è questo lo stato in cui deve necessariamente cadere il povero lavorante,
ossia la massa del popolo, a meno che il governo non si prenda la cura di impedirlo.
Per quanto possa apparire paradossale, è proprio all'acquisizione di quella “destrezza” che si

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accompagna l'atrofia delle facoltà umane del lavoratore, senza le quali egli non può essere
membro attivo della comunità a cui appartiene, diventando incapace di difenderla da pericoli o
da attacchi esterni. La divisione manifatturiera del lavoro recide il nesso tra i significati
dell'attività lavorativa e l'esistenza sociale complessiva: il lavoratore che, con sempre maggiore
destrezza, ripete per l'intera giornata la medesima semplice operazione di lavorazione non è
più in grado di conoscere e valutare il prodotto del suo lavoro e la relativa utilità sociale.
Benché riconosca esplicitamente l'esistenza di un conflitto tra capitale e lavoro in merito alla
determinazione del salario, Smith non colloca all'interno di questo conflitto il problema delle
conseguenze negative, sulla gran massa degli operai, della divisione del lavoro. Anzi, ritiene
che il problema della crescita dell'ignoranza tra “i molti” possa essere adeguatamente risolto
attraverso “l'istruzione popolare” gestita dallo stato.
Così Ferguson e Smith, mostrano preoccupazione per alcune conseguenze negative della
divisione del lavoro ma confidano nelle capacità dei governi di eliminare le contraddizioni.
Il matematico Charles Babbage, affronta in maniera ancora più esplicita il problema del
conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro. La sua attenzione conoscitiva è
prevalentemente rivolta alla possibilità di razionalizzare ulteriormente la divisione del lavoro di
tipo manifatturiero, sulla scia delle analisi smithiane.
Babbage si chiede quali siano le condizioni organizzative che massimizzano l'efficienza della
divisione del lavoro e concentra le sue ricerche sull'analisi dei metodi di lavoro, e in particolare
sulla fatica, la ripetitività e l'abilità richiesta da ciascuna operazione lavorativa. Questa analisi
razionale permette di stabilire il numero di operazioni in cui può essere suddiviso ciascun
processo.
Prendere atto dei grandi vantaggi di produttività permessi dall'applicazione della
razionalizzazione dei metodi di lavoro rappresenta la condizione per affrontare e risolvere il
problema della conflittualità tra operai e capitalisti. Spesso, nota Babbage, gli operai credono
erroneamente che i loro interessi siano contrari a quelli per cui lavorano, viceversa “la
prosperità e il buon successo del manifatture sono le condizioni essenziali al benessere
dell'operaio”. La soluzione a questo problema starebbe allora nel convincere le associazioni dei
lavoratori e quelle datoriali a collegare in modo automatico l'andamento dei salari
all'andamento della produttività aziendale. In questo modo l'organizzazione del lavoro diviene il
terreno su cui superare il conflitto sociale, in quanto operai e capitalisti sarebbero coinvolti nel
medesimo obiettivo di perfezionare i metodi di lavorazione e aumentare la produttività.
Benché ci si riferisca genericamente alla specializzazione di uomini e popoli, ritroviamo anche
in Comte l'inquietudine sulle conseguenze negative del processo di specializzazione-
differenziazione sulle “facoltà” umane: la divisione del lavoro implica per il lavoratore una
perdita del controllo sul valore e il significato del proprio lavoro, e dei nessi tra la sua “azione
particolare” e l'insieme. Una separazione che si trasforma in estraneazione: il suo lavoro e i
relativi prodotti si presentano di fronte al lavoratore come qualcosa di estraneo.
Comte rimane infatti fermo nella sua convinzione che sia i conflitti sociali interni all'impresa, sia
il conflitto complessivo tra “proletari” e capitalisti, possano essere risolti nella misura in cui
nella società riuscirà ad imporsi l'autorità spirituale della “filosofia positiva”: in una parola,
questa filosofia farà comprendere che le relazioni industriali, in luogo di restare affidate a un
pericoloso empirismo o a un antagonismo oppressivo, devono essere sistematizzate secondo
leggi morali dell'armonia universale.

LAVORO E TECNOLOGIA
L'economista inglese David Ricardo afferma di dover rivedere alcune sue posizioni
precedentemente assunte intorno alla “influenza delle macchine sugli interessi propri delle
diverse classi della società”, arrivando a concludere che: se i mezzi di produzione, perfezionati
mercé l'impiego di macchine, fanno aumentare il prodotto netto di una nazione in misura tanto
considerevole da non far diminuire il prodotto lordo risultano migliorate le condizioni di tutte le
classi.
Il ragionamento si basa sul presupposto che l'incremento di “prodotto netto” (netto=da togliere
le tasse), ossia il surplus generato dal cambiamento tecnico non necessariamente risulta
accompagnato da un incremento del “prodotto lordo”. Ricardo dimostra che l'introduzione delle
macchine porta ad un cambiamento della composizione del capitale, trasformandone una parte
da “circolante” (= l'insieme dei fattori di produzione che sono interamente consumati in ogni

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ciclo di produzione, essenzialmente salari e materie prime) a “fisso” (= viceversa è costituito


da tutti gli elementi che partecipano a più cicli produttivi: macchine, impianti, edifici, ecc.). Se
il capitale totale è dato, l'aumento di quello fisso (specialmente le macchine) riduce la quota
del capitale circolante destinata al mantenimento dei lavoratori (fondo salari), quindi porta ad
una riduzione dell'occupazione o ad una riduzione dei salari medi. Se l'impiego delle nuove
tecnologie (e quindi di una nuova tecnica di produzione) assicura gli stessi profitti della tecnica
precedente, anche se con una produzione minore, allora il capitalista può ritenersi soddisfatto,
mentre i lavoratori risultano danneggiati da quella che Ricardo chiama “disoccupazione da
meccanizzazione”.
Benché il chimico-medico Andrew Ure sia contemporaneo di Babbage e Ricardo, le sue tesi
appaiono decisamente più avanzate ossia più capaci di interpretare le grandi trasformazioni
dell'industria dell'epoca. Ure afferma infatti come si debba superare la pur importante analisi
smithiana della manifattura per concentrare l'attenzione sulle caratteristiche e le conseguenze
del nuovo “sistema di fabbrica”.
L'espressione sistema di fabbrica sta a indicare, in termini tecnologici, l'azione coordinata di
diversi tipi di lavoratori applicata a una serie di macchine mosse in modo continuo da una forza
centrale. Un vasto complesso automatico composto di vari organi intellettuali e meccanici che
cooperano in modo continuo alla produzione alla produzione di un oggetto comune, tutti
subordinati a una forza motrice autoregolantesi.
In questo modo Ure anticipa alcune tesi marxiane sulla “grande industria” sostenendo che il
lavoro vivo (ossia l'attività di trasformazione erogata dalla forza-lavoro impiegata nel processo
lavorativo) è destinato a diventare un'appendice del lavoro morto (ossia, dell'attività di
trasformazione erogata dal sistema di macchine “automatico”).
Il principio del sistema di fabbrica consiste quindi nel sostituire all'abilità manuale la scienza
meccanica e nel sostituire alla divisione del lavoro tra artigiani l'analisi del processo nei suoi
elementi costruttivi. Il grande risultato della manifattura moderna è quello di ridurre, mediante
l'unione del capitale con la scienza, il compito della manodopera alla vigilanza e all'attenzione.
Ciò permette all'imprenditore di abbattere notevolmente i costi del lavoro umano.
A differenza di Smith che mostra di preoccuparsi del fatto che l'aumento della “destrezza” si
associ alla perdita delle “qualità sociali, intellettuali e militari” del lavoratore, Ure ritiene invece
che le trasformazioni del lavoro imposte dal factory system comportino un deciso
miglioramento della condizione operaia. Poiché il suo compito consiste nel sorvegliare il
funzionamento di un meccanismo ben regolato egli può apprenderlo molto rapidamente e, se
viene trasferito da una macchina all'altra, i suoi compiti variano e le sue vedute si allargano, in
quanto egli può cogliere il senso della generale combinazione che risulta dal proprio lavoro e da
quello dei suoi compagni.
Si tratta di una questione fondamentale in quanto affronta la possibilità che la variazione dei
lavori permetta un superamento dell'alienazione e, almeno in termini di consapevolezza
soggettiva del lavoratore, una ricomposizione delle antiche divisioni del lavoro.
Altrettanto importante è sottolineare come Ure consideri il factory system associato alla
disciplina di fabbrica come la via maestra per superare il conflitto sociale.
Il sistema di fabbrica, rendendo il risultato produttivo indipendente dalle conoscenze, dalla
discrezionalità, dall'autonomia del lavoratore, è perciò un formidabile strumento per riportare
all'obbedienza la “mano ribelle” (la conflittualità operaia), alla quale non rimane che adattarsi
al sistema automatico e alla disciplina di fabbrica. Coerentemente in sogno di Ure è quello che
si possa arrivare alla “unmanned factory”, a una fabbrica completamente automatica che si
possa fare a meno del lavoro umano e delle sue “irregolarità” e pretese.
L'analisi delle trasformazioni tecnico-organizzative del processo lavorativo, in quell'ambito che
qui abbiamo chiamato divisione autoritaria del lavoro, permette quindi a Ure di affrontare la
questione del conflitto offrendo una nuova legittimazione alla struttura delle diseguaglianze
sociali.

2. SFRUTTAMENTO E DISEGUAGLIANZE
LA DIVISIONE CAPITALISTICA DEL LAVORO

Il tema della divisione del lavoro è uno degli assi centrali del materialismo storico, ossia
dell'interpretazione marxiana della società e della storia fondata sull'analisi del modo sociale di

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produzione dominante. Quindi per Marx, in coerenza con il suo metodo per il quale lo studio di
un fenomeno determinato non può essere scisso dalla totalità (= la relazione tra pari che
costituiscono un'unità, è l'unità stessa considerata nelle sue interne articolazioni) in cui è
inserito, non si può comprendere la divisione (capitalistica) del lavoro se non teniamo presenti
le relazioni che essa intrattiene con la totalità di cui è parte: il capitale inteso come “rapporto
di produzione sociale” determinato.
La produzione capitalistica comincia realmente solo quando il medesimo capitale individuale
impiega allo stesso tempo un numero piuttosto considerevole di operai, e quindi il processo
lavorativo s'estende e si ingrandisce e fornisce prodotti su scala quantitativa piuttosto
considerevole.
Ma il lavoro, per il fatto di aver assunto un carattere cooperativo, accresce progressivamente la
sua forza produttiva, il risultato in termini produttivi della combinazione del lavoro di molti
operai supera la somma dei risultati del lavoro dei singoli operai se lavorassero separatamente:
è l'inizio del passaggio da lavoro individuale a lavoro combinato, ossia, la combinazione
pianificata di lavori parziali.
Ogni lavoro in comune, scrive Marx, necessita di una direzione che garantisca l'armonia delle
parti e sovraintenda alle funzioni generali della cooperazione. Ma per il capitalista l'assumere
questa funzione di direzione diventa essenziale al fine di poter sfruttare la forza-lavoro
impiegata, quindi la funzione di direzione diventa “funzione del capitale”.
Motivo propulsore e scopo determinante del processo capitalistico di produzione è in primo
luogo la maggior possibile auto-valorizzazione del capitale, cioè la produzione di plusvalore più
grande possibile, e quindi il maggior sfruttamento possibile della forza-lavoro da parte del
capitalista. La direzione del capitalista non è soltanto una funzione particolare derivante dalla
natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente; ma è insieme funzione di
sfruttamento di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell'inevitabile
antagonismo fra lo sfruttatore e la materia prima da lui sfruttata.
Allora la direzione capitalistica ha una duplice natura: da una parte si presenta come normale
funzione di direzione, dall'altra dirige un processo di produzione che deve permettere una
valorizzazione del capitale impiegato, ossia deve garantire il massimo sfruttamento possibile
della forza-lavoro impiegata. Da ciò deriva che la funzione di direzione è assunta dal capitalista
proprio in virtù del suo potere sociale, ossia in quanto proprietario dei mezzi di produzione: il
capitalista non è capitalista perché dirigente industriale ma diventa comandante industriale
perché è capitalista.
Così il processo lavorativo viene “sussunto” sotto il capitale la cooperazione diventa forma
specifica del processo produttivo capitalistico e la divisione (capitalistica) del lavoro su cui si
fonda la cooperazione assume modalità funzionali agli interessi del capitalista.
Semplificando la trattazione marxiana, si può dire che la divisione del lavoro nella società si
sviluppa inizialmente in modo spontaneo nella famiglia e nella tribù su basi fisiologiche
(differenze di sesso e di età), e nello scambio di merci tra comunità differenti che così sono
spinte a specializzarsi in rami di produzione reciprocamente dipendenti.
Quindi una certa divisione del lavoro nella società è precondizione dello sviluppo delle prime
forme di divisione manifatturiera del lavoro. Ma quest'ultima a sua volta contribuisce
all'ulteriore crescita e differenziazione della divisione sociale attraverso due processi. Da una
parte, l'invenzione di nuovi strumenti di lavoro richiede nuovi mestieri finalizzati alla loro
produzione; dall'altra, i differenti processi lavorativi che concorrono alla produzione della merce
finale si differenziano e specializzano sempre di più fino ad autonomizzarsi in qualità di mestieri
indipendenti.
Fin qui si sono viste le connessioni e le analogie tra due tipi di divisione del lavoro, ma tra
queste, sottolinea Marx, esiste una differenza sostanziale. I differenti mestieri della divisione
sociale del lavoro si incontrano attraverso lo scambio dei loro prodotti in quanto merci. Invece
la divisione manifatturiera del lavoro è caratterizzata dal fatto che “l'operaio parziale non
produce nessuna merce. È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in
merce”. Quindi la connessione fra i diversi lavoratori parziali nella manifattura è mediata non
da merci, ma “dalla vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega
come forza-lavoro combinata”.
Un'altra differenza fondamentale tra le due forme di divisione del lavoro è data dal fatto che
quella manifatturiera è organizzata secondo un piano deciso e diretto autoritariamente dal

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capitalista, mentre nella divisone sociale l'unica regola vigente è la concorrenza.


A differenza di tutti i modi di produzione precedenti, nel modo di produzione capitalistico
“l'anarchia della divisione sociale del lavoro e il dispotismo della divisione del lavoro a tipo
manifatturiero sono portato l'uno dall'altro” e quest'ultima è una creazione del tutto specifica
del modo di produzione capitalistico stesso.

MACCHINE E GRANDE INDUSTRIA


Semplificando ulteriormente l'analisi marxiana, si può affermare che questo stato di cose cessa
di essere vero nel momento in cui – con lo sviluppo della rivoluzione industriale – nella
produzione si diffonde e si generalizza l'uso delle macchine, o meglio dei sistemi di macchine
azionati da una forza motrice centrale, e al posto della manifattura subentra la fabbrica, la
grande industria. Con questa transizione la vecchia divisone del lavoro è soppressa e l'operaio
parziale diviene mera appendice del sistema di macchine. La capacità d'azione dell'utensile è
emancipata dai limiti personali della forza-lavoro umana. Con ciò è soppressa la base tecnica
su cui si fonda la divisione del lavoro nella manifattura. Alla gerarchia di operai specializzati che
caratterizza quest'ultima, subentra quindi nella fabbrica automatica la tendenza
dell'uguagliamento ossia del livellamento dei lavoratori.
Se Marx non si era risparmiato nel denunciare le conseguenze negative della divisione
manifatturiera del lavoro, qui, nella “fabbrica automatica”, il lavoro umano è rappresentato
come totalmente asservito al sistema di macchine. La scissione fra le potenze mentali del
processo di produzione e il lavoro manuale, la trasformazione di quelle in potere del capitale
sul lavoro, si compie nella grande industria edificata sulla base delle macchine. L'abilità parziale
dell'operaio meccanico individuale svuotato, scompare come un infimo accessorio dinanzi alla
scienza, alle immani forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema
delle macchine e che con esso costituiscono il potere del “padrone”.
La nuova forma di divisione autoritaria del lavoro della grande industria porta alle sue estreme
conseguenze quel processo di divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale – e quindi di
estraneazione e di subordinazione – che era iniziato nella fase manifatturiera, fino al punto
che, paradossalmente, i criteri di selezione della forza-lavoro richiamano quei fattori ascrittivi
che avevamo visto essere alle origini delle prime forme di divisione del lavoro, l'età e il sesso.
Ma se Marx denuncia le atrocità delle condizioni di lavoro e dello sfruttamento del suo tempo,
non mostra certo nostalgia per le condizioni di esistenza delle società tradizionali, anzi esalta il
carattere “rivoluzionario” del modo sociale di produzione capitalistico, il cui destino è quello di
produrre contraddizioni insanabili che decreteranno la transizione verso un nuovo modo sociale
di produzione.
La natura della grande industria porta con sé variazioni del lavoro fluidità delle funzioni,
mobilità dell'operaio in tutti i sensi. Dall'altra parte essa riproduce l'antica divisione del lavoro
nella sua forma capitalistica. Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come
prepotente legge naturale e con l'effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che
incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il
riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggiore versatilità possibile
dell'operaio come legge sociale generale della produzione diventino questione di vita o di
morte. Per essa diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una
miserabile popolazione operaia disponibile tenuta in riserva per il variare delle esigenze del
lavoro; sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio,
l'individuo totalmente sviluppato, per il quale differenti funzioni sociali sono modi di attività si
danno il cambio l'uno con l'altro.

Marx riprende il tema della variabilità del lavoro che avevamo già visto in Ure, ma in termini
assai diversi. Mentre per Ure la variabilità del lavoro, prodotta dalla generalizzazione della
fabbrica automatica, avrebbe prodotto un netto miglioramento delle condizioni di lavoro degli
operai nell'ambito del capitalismo, Marx ne evidenzia il carattere drasticamente contraddittorio:
la grande industria, rivoluzionando continuamente le sue basi tecniche, avrà sempre più
bisogno di un lavoro vivo capace di variare per rispondere alle sempre più complesse
“esigenze” della produzione, ossia di lavoratori capaci di conoscere, controllare e intervenire
nelle diverse fasi della produzione, ma questa esigenza, che può essere definita di nuova
ricomposizione del lavoro, viene negata e impedita dalla necessità del capitale di auto-

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valorizzarsi (estorcere plusvalore) e di legittimare il proprio potere sulla società. Una


contraddizione che per Marx potrà risolversi solo attraverso la rivoluzione del proletariato. Se si
richiama alla mente ciò che Marx sostiene a proposito della cooperazione e della conseguente
necessità della funzione di direzione, dobbiamo concludere che egli non sia un sostenitore della
abolizione della divisione del lavoro tout court, ma che ritenga piuttosto che la divisione
capitalistica (sociale e autoritaria) del lavoro che impone alla maggior parte degli individui (i
proletari) una condizione di subalternità sociale sarà storicamente superata in una società,
fondata sull'uguaglianza tra le persone, in cui il lavoro verrà distribuito in modo da permettere
a ciascuno di esprimere i propri bisogni, desideri, capacità (e dove “la libertà di tutti è
condizione della libertà di ciascuno”). In questo senso il nesso tra diseguaglianza e divisione
del lavoro è per Marx un nesso storicamente determinato, ma non universalmente valido.

3. A CAVALLO DI DUE SECOLI: SPENCER, DURKHEIM, WEBER


CONTRATTUALISMO E PROGRESSO SOCIALE

Nei Principi di sociovogia di Spencer il tema della divisione del lavoro è affrontato soprattutto
nella parte V del vol. II pubblicato nel 1882. Nelle pagine in cui affronta il tema delle forme di
cooperazione sociale l'autore sostiene che la divisione del lavoro, nelle “società industriali”
(contrapposte a quelle “militari”), è una forma di cooperazione spontanea e inconsapevole, nel
senso che non è pianificata da un “potere coercitivo” esterno. Essa si sviluppa grazie al fatto
che gli individui, perseguendo i loro fini privati, producono un'organizzazione che “presenta
un'azione coordinata” tesa a ricercare e servire “direttamente il benessere degli individui” e
solo indirettamente quello della società. Attraverso il “regime del contratto” gli individui
provvederanno a regolare e gestire al meglio i divergenti interessi di cui sono portatori.
Spencer sottolinea come ormai l'industria funzioni sulla base della “cooperazione tra macchine”
e come ogni merce sia il risultato della “integrazione” delle produzioni di differenti fabbriche.
La divisione sociale del lavoro rappresenta quindi un fenomeno spontaneo e di pregresso in
quanto contribuisce a rafforzare l'interdipendenza e la coerenza interna alla società, un
fenomeno che per Spencer non chiama in causa i problemi della diseguaglianza e del conflitto
sociale.
Successivamente l'autore affronta la questione della divisione autoritaria del lavoro che viene
quindi trattata come fenomeno separato e indipendente dalla divisione sociale. La
“integrazione, differenziazione e combinazione dei lavoratori” e la “integrazione di molte
macchine in un opificio” sono considerati in un primo momento come un “progresso meccanico
e come un progresso nell'organizzazione industriale”. Ma subito dopo Spencer scrive che
questa “evoluzione” va considerata “in relazione alla vita dei lavoratori” e così, a differenza di
Ure, sostiene che l'introduzione delle macchine e dei relativi automatismi danneggiano
gravemente la condizione del lavoro.
Infatti la crescente capacità delle macchine di auto-regolarsi diminuendo continuamente la
sfera dell'attività umana, rende gli atti dei lavoratori relativamente automatici.
Anche nelle relazioni sociali degli operai vi è stato un conseguente regresso piuttosto che un
pregresso. Il lavoratore salariato è esempio tipico del lavoro libero, in quanto, facendo contratti
a volontà e avendo la facoltà di romperli dopo un breve avviso, è libero di occuparsi presso
chiunque gli piaccia e dove gli piaccia. Ma questa libertà si riduce in pratica quasi alla sola
facoltà di cambiare una schiavitù con un'altra.
Infatti Spencer sottolinea come la perdita di conoscenze e capacità che colpisce l'operaio
parziale (il suo essere adatto esclusivamente a una “occupazione particolare”), lo renda
schiavo della necessità di vedere la propria forza-lavoro. Così facendo l'autore riconnette le
conseguenze negative della divisione autoritaria del lavoro con il tema della divisione sociale,
anche se la condanna alla schiavitù del lavoro salariato non viene messa in relazione con i
rapporti sociali di produzione (ossia, con la distinzione marxiana tra capitalisti e proletariati).
Ma, conclude Spencer, la storia del progresso umano ha sempre richiesto il sacrificio di una
parte della società: gli uomini sono usati per il beneficio della posterità, e finché essi
continuano a moltiplicarsi eccessivamente rispetto ai mezzi di sussistenza, non vi è alcun
rimedio.

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TRA SOLIDARIETÀ E ANOMIA


In polemica col contrattualismo spenceriano, Durkheim vuole dimostrare che la coesione
sociale non può essere assicurata semplicemente dagli accordi contrattuali tra li individui. Vi è
qualcosa di più, ossia la regolamentazione, la istituzionalizzazione di questi accordi. I contratti
sono possibili perché vi è una socialità che li precede, un sistema sociale con le sue norme e i
suoi valori che servono a valutare la differenziazione e ad assegnare ruoli e funzioni agli
individui. Analogamente la coesione nelle società differenziate (la solidarietà organica) non si
spiega solo sulla base della interdipendenza degli interessi: c'è bisogno di una “coscienza
collettiva” e questa è data dalla fede e dall'accettazione del valore assoluto dell'individuo, della
persona umana. In questo quadro Durkheim, pone la “divisione del lavoro sociale” a
fondamento della solidarietà organica: l'effetto della divisione del lavoro non è il fatto che essa
aumenta il rendimento delle funzioni divise, ma che le rende solidali. Il suo compito è rendere
possibili società che, senza di essa, non esisterebbero. Consiste nello stabilimento di un ordine
morale e sociale sui generis.
Ma per di sé la divisione del lavoro non produce né cooperazione né solidarietà se non vi è
corrispondenza nell'individuo tra le sue attitudini e i compiti che gli sono assegnati. La
solidarietà è quindi un fenomeno moralmente normativo e l'ordine morale ha un fondamento
collettivo e non individuale:
ecco ciò che costituisce il valore morale della divisione del lavoro: in virtù di essa l'individuo
ridiventa consapevole del suo stato di dipendenza nei confronti della società, e del fatto che da
essa provengono le forze che lo trattengono e lo frenano. In una parola, diventando la forma
eminente della solidarietà sociale, la divisione del lavoro diventa anche la base dell'ordine
morale.
La divisione del lavoro è il modo con cui la società affronta la crescita della sua “densità” e
della competizione tra gli individui, il modo con cui la società affronta i possibili esiti negativi
dei processi di differenziazione in atto. Durkheim affrontando il tema delle patologie sociali
esplicita chiaramente che differenziazione sociale e divisione del lavoro non sono sinonimi, e
che la differenziazione può anche essere negativa.
La solidarietà non si realizza quando siamo in presenza dell'anomia (forma patologica,
“anormale”, della divisione del lavoro), ossia quando vi e “carenza di una regolamentazione
sociale che assicuri la cooperazione tra funzioni separate”. Nella prima edizione de La divisione
dev vavoro sociave l'autore si mostra convinto che essa sia solo il prodotto temporaneo di
trasformazioni tanto veloci che la società non è ancora riuscita ad assorbire.
A misura che il mercato si estende, appare la grande industria, il cui effetto è la trasformazione
delle relazioni dei padroni e degli operai. Il lavoro della macchina sostituisce quello dell'uomo;
la manifattura sostituisce la piccola officina.
Viceversa nella Prefazione alla seconda edizione del 1902 l'anomia diventa una malattia che
colpisce in modo generalizzato tutta la società. Da qui la proposta durkheimiana di istituire
nuove forme di corporazione al fine di garantire un'adeguata solidarietà.
La corporazione intesa come “istituzione pubblica” in cui si elaborano la morale e il diritto
professionale che devono imporsi ai suoi membri. Anche se la istituzionalizzazione delle
corporazioni, precisa Durkheim, non può essere considerata una “panacea universale”, in
quanto ogni regolamentazione dovrebbe essere anche “giusta”, ma finché vi saranno poveri e
ricchi per “nascita” non potranno esservi “contratti giusti”, né una “giusta ripartizione delle
condizioni sociali”. Ciononostante, La divisione dev vavoro sociave si chiude con una prospettiva
ottimistica, nella convinzione che la società provvederà progressivamente in questa “opera di
giustizia”.
In breve, il nostro primo dovere è attualmente quello di costruire una morale. Un'opera di
questo genere non può che elevarsi da sola, grazie alla pressione delle cause interne che la
rendono necessaria. Ma ad una cosa la riflessione deve e può servire – a indicare il fine che
bisogna raggiungere.
L'analisi durkheimiana, seppur non esente da aporie e contraddizioni, offre quindi una lettura
stimolante delle problematicità fondamentali individuate fin dall'inizio di questo percorso: la
divisione del lavoro è una forma positiva di differenziazione sociale che produce la versione
moderna della coesione sociale: la solidarietà organica. Contemporaneamente essa produce
diseguaglianza, ma si tratta di una diseguaglianza non patologica perché fondata sui differenti
meriti che gli individui conquistano dedicandosi a specifiche attività che corrispondono alle loro

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vocazioni.

RAZIONALIZZAZIONE E LAVORO NELLA “INDUSTRIA CHIUSA”


Benché l'analisi del capitalismo sia al centro di molte delle opere principali di Weber, egli non
affronta esplicitamente lo specifico tema della divisione del lavoro industriale se non in un
saggio del 1908. Scopo della sua ricerca è definire quale influenza abbia la “grande industria
chiusa all'indole personale, il destino professionale e lo stile di vita extra professionale” degli
operai.
Weber, in coerenza con il principio metodologico della “avalutatività”, precisa che non si tratta
“di vedere il modo in cui vanno “giudicati” i rapporti sociali i rapporti sociali nella grande
industria”, bensì “esclusivamente dell'accertamento concreto e oggettivo dei fatti”.
Ogni introduzione di una nuova macchina, tecnicamente più perfezionata, significa da un lato
l'eliminazione di una serie di processi lavorativi necessari al servizio degli strumenti di lavoro
fino allora impiegati, e ciò implica il divenire superfluo di determinate qualità fino allora
richieste alla manodopera, d'altra parte l'impiego di operai che debbano accudire alle nuove
macchine e, per essere idonei a ciò, debbono sviluppare dal canto loro certe altre qualità.
Weber propone delle conseguenze ambivalenti sui lavoratori dell'introduzione delle macchine.
Dato che un obiettivo costante dell'impresa “è il massimo risparmio di costi possibile”, le
macchine tendono a sostituire la manodopera “altamente qualificata” quando il suo impiego
diventa troppo oneroso. Si tratta allora di capire in che misura quella manodopera sarà
sostituita da un numero inferiore di operai, ma a più alta qualifica, o invece da operai meno
qualificati “rimpiazzabili in ogni momento”. Ma le macchine vengono introdotte anche “per
ottenere il massimo risparmio di tempo” e sotto la spina della crescente “standardizzazione del
prodotto”.
Weber sottolinea con forza come le trasformazioni siano sempre più condizionate dalla
tecnicizzazione del processo lavorativo, affermando che sono proprio le caratteristiche
“tecniche” del processo di produzione, in particolare delle macchine, a determinare in modo
immediato tutte quelle qualità degli operai di cui la singola industria ha bisogno.
Precisa inoltre che se consideriamo ad esempio “gli operai addetti alle macchine”, il riferimento
a “lavoro intellettuale” appare inappropriato: piuttosto si deve distinguere tra sollecitazioni di
carattere prevalentemente “fisico” e sollecitazioni che riguardano il sistema nervoso centrale di
carattere “psico-fisico”.
Un'altra questione assai importante che Weber anticipa è la costatazione che il gruppo di lavoro
– in questo caso del lavoro a cottimo (= il cottimo è un sistema di retribuzione del lavoro
collegato alla quantità di prodotto effettivamente realizzato) – è in grado di condizionare
informalmente la quantità di prodotto (il rendimento) nonostante i precetti e i controlli della
direzione e gli obiettivi dei capisquadra.
La preoccupazione di Weber è rivolta in ordine alle condizioni in cui sono costretti i lavoratori
dell'industria “chiusa”, la quale con la sua “disciplina”, il “suo incatenare gli operai alla
macchina”, l'isolamento sociale a cui costringe il lavoratore, la centralizzazione del controllo su
ogni più elementare “operazione compiuta dall'operaio”, assume le sembianze di una “immane
gabbia”.

4. DA TAYLOR A OHNO
SCIENTIFIC MANAGEMENT
“Produzione di massa” significa che una grande varietà di beni durevoli “di lusso” (come
l'automobile) diventano – grazie all'abbattimento dei costi di produzione, alle economie di scala
e all'allargamento dei mercati – beni “di consumo di massa”, ossia merci che ora possono
essere acquistate da strati più larghi della popolazione. La produzione di beni di consumo di
massa in senso proprio sarà permessa però solo attraverso la diffusione della linea di
assemblaggio semovente (“catena di montaggio”) introdotta da Henry Ford.
Frederick Taylor, nato a Filadelfia, nel 1874. a partire dal 1883 si concentra sempre di più sulle
innovazioni di tipo organizzativo, nella convinzione che sia possibile incrementare la
produttività offrendo paghe più alte ai lavoratori più meritevoli, ma diminuendo il costo
complessivo del lavoro. Taylor arriva così a sistematizzare i suoi studi in un nuovo modello
organizzativo: lo Scientific Management, espressione in genere tradotta come “Organizzazione
scientifica del lavoro” (OSL). Il riferimento centrale alla “scienza” ci dice non solo che Taylor

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ancora in un orizzonte culturale caratterizzato dal positivismo scientista dei secoli precedenti,
ma che essa assume la funzione fondamentale di legittimare il primato assoluto dell'impresa e
il suo potere sulle altre componenti della società, sulla base della “neutrale” superiorità della
razionalità scientifica.
La proposta di Taylor matura in una fase nella quale si stanno sviluppando alcune condizioni di
base per la produzione su larga scala:gli straordinari progressi tecnico-scientifici, connessi alla
migliore capacità di standardizzare prodotti e mezzi di produzione; l'aumento delle dimensioni
dei complessi industriali che rappresentavano anche il prodotto della crescente
verticalizzazione e integrazione aziendale; la grande disponibilità di forza lavoro non
qualificata; un'espansione dei mercati di sbocco che apparivi limitata.
La gestione del processo produttivo era affidato di fatto alle gerarchie intermedie di origine
operaia, con le quali in management contrattava le quote globali di produzione. I metodi di
conduzione dell'officina erano quindi caratterizzati da empirìa, approssimazione, arbitrio e
spesso corruzione. I capi reparto per ottenere le quote prestabilite di produzione, ricorrevano
al metodo del drive system (sistema dello spintone) che consisteva nel tenere costantemente
gli operai sotto la pressione di sanzioni e della minaccia del licenziamento.
Secondo la “filosofia” di Taylor, contese e conflitti sociali sono sempre stati provocati dalla
limitatezza delle risorse disponibili. Questo stato di cose può essere superato attraverso la OSL.
È quindi necessaria una “completa rivoluzione mentale” che porti tutti gli attori dell'impresa a
concentrarsi sull'aumento del surplus così che la “torta” prodotta risulti tanto grande da
eliminare le ragioni del conflitto. Per avere abbondanza è necessario aumentare la produttività,
quindi il rendimento della manodopera, la quale però spesso sviluppa comportamenti di
rallentamento intenzionale e sistematico del lavoro. Questi comportamenti sarebbero dovuti a:
“errata convinzione” che aumentare la produttività significhi perdere posti di lavoro. Queste
cause fanno quindi riferimento sia a presunte caratteristiche della “natura umana”, sia
all'inadeguatezza dei metodi organizzativi.
L'unico incentivo che può spingere l'operaio a lavorare di più è il denaro.
Per certi versi Taylor riconosce che il rallentamento della produzione è una forma di legittima
difesa di fronte all'arbitrio della direzione; per altri Taylor sottolinea che la natura umana porta
il lavoratore a prendersela comoda. L'organizzazione scientifica è la via per superare questo
ostacolo.
I quattro principi fondamentali dell'OSL sono:
1) la rigida definizione dei tempi e dei metodi di lavoro (task management)
2) la definizione di criteri e procedure rigorosamente scientifici per il reclutamento e la
sezione della manodopera
3) l'instaurazione di relazioni di lavoro importanti non più sulla minaccia ma sulla “cordiale
collaborazione”
4) la ristrutturazione dell'organizzazione e della gerarchia aziendale sulla base di una netta
separazione tra le fasi di ideazione e quelle di esecuzione.
Inoltre alla base dell'OSL vi è il principio della one best way: esiste sempre un metodo unico e
migliore per risolvere problemi e compiere azioni.
Lo studio dei tempi e dei metodi si articola in una sequenza di step definiti:
– selezione di un gruppo sperimentale di 10-15 lavoratori abili nel lavoro da analizzare;
– scomposizione e analisi dei movimenti in rapporto ai tempi di esecuzione, postura fisica,
caratteristiche degli attrezzi;
– correzione/eliminazione dei movimenti “inutili e pigri”, ossia irrazionali rispetto allo
scopo;
– ricostruzione del comportamento lavorativo su basi razionali;
– standardizzazione di utensili e attrezzature in base alle loro caratteristiche.
Taylor sa che il task management incontrerà l'opposizione dei lavoratori, specialmente degli
operai di mestiere e propone quindi di offrire paghe personalizzate più alte (fino al 60% in più)
come premi di rendimento a chi raggiunge la produzione eseguendo i metodi previsti.
Ristrutturare completamente la distribuzione del lavoro e delle responsabilità all'interno
dell'azienda significa innanzitutto che la direzione deve assumere su di sé tutti i compiti di
conduzione della fabbrica, mentre agli operai è richiesto semplicemente di attenersi in modo
scrupoloso al task management, ossia al rispetto delle procedure scientificamente individuate.
La netta separazione tra ideazione ed esecuzione permette, almeno in linea teorica, di togliere

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ai lavoratori qualsiasi elemento di discrezionalità e autonomia del loro operare, di spogliarli di


ogni conoscenza che vada al di là del task, e quindi di privarli del potere di controllo sul loro
lavoro. Ma questa separazione è rappresentata da Taylor come una necessità imposta dalla
scienza e dalla divisione sociale del lavoro.
Inoltre Taylor, in alternativa alla linea gerarchica organizzata intorno a un'unica catena di
comando, propone il modello della “direzione funzionale”, secondo il quale alle principali aree di
gestione aziendale devono corrispondere differenti linee di comando la cui responsabilità è
affidata a specifiche figure di quadri intermedi (capi funzionali). Si introduce così per la prima
volta la funzione di staff con il compito di affiancare e supportare l'azione del management.
L'OSL segna quindi anche la fine dello “impero dei caporeparto”, i quali saranno trasformati in
capi intermedi che devono garantire la realizzazione delle dettagliate richieste che provengono
dalla direzione . Questo modello gerarchico permette anche di far funzionare il “principio
d'eccezione” per il quale al responsabile apicale dell'organizzazione devono arrivare soltanto le
“eccezioni”, cioè quelle pratiche quei problemi, quegli scostamenti dagli standard che i capi
funzionali non riescono a gestire nell'ambito delle proprie competenze. In questo modo la
direzione aziendale può dedicarsi pienamente al suo compito specifico, ossia quello di
programmare e pianificare la produzione. Il risultato di questa radicale riorganizzazione è la
creazione di una vera e propria burocrazia aziendale.
In definitiva il taylorismo è un modello che porta alle estreme conseguenze la divisione
autoritaria del lavoro: l'obiettivo dell'aumento della produttività è ottenuto attraverso una
drastica intensificazione nell'uso della forza-lavoro, resa possibile da una ridefinizione generale
dei compiti lavorativi che conduce al tramonto della centralità dell'operaio di mestiere a favore
della nuova figura dell'operaio di massa.

FORDISMO E PRODUZIONE DI MASSA


La possibilità di applicare concretamente su vasta scala molti dei principali tayoloristi è
storicamente resa possibile dalla trasformazione delle operazioni di montaggio, realizzata
attraverso l'introduzione della catena di montaggio, la quale permette di adattare al lavoro
operaio una forza-lavoro prevalentemente non qualificata. I pezzi da montare ora sono
posizionati su nastri trasportatori che scorrono davanti alle postazioni fisse di lavoro dove gli
operai svolgono operazioni parcellizzate e ripetitive. I tempi e i ritmi di lavoro non dipendono
più dalla destrezza o dalla volontà del lavoratore ma sono incorporati nel sistema automatico.
Con Ford inizia l'era dell'operaio di massa a cui non è richiesta alcuna particolare qualificazione.
La vera rivoluzione di Ford fu quindi quella di adattare l'idea alla produzione di un bene molto
più complesso quale l'automobile.
L'enorme successo del modello T si deve certamente all'abbattimento dei costi reso possibile
dall'adozione dei principi tayloristi adattati alla linea di assemblaggio. In questo modo Ford
poteva offrire il suo prodotto a prezzi sempre più bassi e quindi ad una platea sempre più vasta
di consumatori. Fin dalla sua fondazione la Ford non tollera la presenza dei suoi sindacati;
l'offerta dei famosi 5$ al giorno di salario offerti unilateralmente dall'azienda nel 1914 riguarda
solo quegli operai accuratamente selezionati dal “Dipartimento sociologico” dell'azienda e non,
come spesso si sostiene, tutti i dipendenti; inoltre l'azienda è costretta a offrire un parziale
aumento dei salari per fronteggiare l'altissimo tasso di turn over dovuto alle durissime
condizioni di lavoro che inducono gli operai a cercare un altro lavoro dopo solo pochi mesi.
Durante la recessione successiva alla Prima guerra mondiale i salari delle aziende concorrenti
eguagliano quelli della Ford, che nel 1921 licenzia più del 30% della sua forza-lavoro. Qualche
anno più tardi General Motors strappa alla Ford il primato nella produzione automobilistica.
Dalla fine degli anni '20 fino al 1941, quando lo UAW riesce a imporre la contrattazione
collettiva, la Ford pagherà salari tra i più bassi dell'intero settore industriale. Il successo del
modello fordista si deve quindi alla specializzazione (tayloristica) dei compiti e alla
standardizzazione dei componenti che permise la riduzione dei costi unitari di produzione,
sfruttando le economie di scala.
Con la crescita della sindacalizzazione e l'ampliamento delle garanzie a difesa dei diritti dei
lavoratori, con l'egemonia delle teorie keynesiane che promuovono un protagonismo dell'azione
dello Stato in economia (sostegno della domanda), con lo sviluppo dei moderni sistemi di
welfare del secondo dopoguerra, il termine fordismo non indica più soltanto uno specifico modo

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di gestire la produzione industriale ma anche un “regime di accumulazione” su cui si struttura


la complessiva regolazione della società.

LE CRITICHE AL TAYLOR-FORDISMO
Le differenti letture critiche del taylorismo presenti in letteratura possono essere ricondotte a
tre filoni principali: il taylorismo come metodo finalizzato ad intensificare lo sfruttamento; il
taylorismo come “utopia tecnocratica”, in quanto fondata sull'irrealizzabile progetto di
determinare totalmente la condotta dei lavoratori; il taylorismo come “modello organizzativo
contingente” al contesto storico in cui si è sviluppato.
Nel primo filone la critica “umanistica”, trova Georges Friedmann il suo esponente principale.
Egli sostiene che l'eccessivo tecnicismo impedisce a Taylor di riconoscere la grande rilevanza
dei fattori fisiologici, psicologici, sociali e morali nel processo lavorativo. Per quanto riguarda i
primi due fattori una nuova organizzazione del lavoro dovrebbe tenere adeguatamente conto
dei problemi, della fatica e della monotonia del lavoro, nonché quelli connessi alle nocive
condizioni ambientali di fabbrica che provocano infortuni, malattie, ma anche alti tassi di
assenteismo e di turn over. Gli altri fattori permettono invece di portare l'attenzione su
questioni quali l'autostima, il ruolo dei gruppi informali nella lavorazione, l'alienazione, la
modalità di controllo della direzione sul lavoro, tutti temi che si connettono al problema del
rendimento lavorativo. Quindi per Friedmann seguendo questo nuovo approccio
all'organizzazione è possibile “umanizzare” il lavoro senza mettere in discussione i rapporti
capitalistici di produzione. Sulla scia dell'approccio umanistico a partire dagli anni '60 furono
fatti alcuni tentativi di “correzione” del taylorismo nell'ambito della divisione autoritaria del
lavoro; tra i più noti possiamo ricordare le strategie di job rotation (rotazione delle mansioni),
di job envargement (allargamento dei compiti) e di job enrichement (arricchimento dei posti), i
cui risultati però hanno raccolto giudizi eterogenei e spesso contrastanti.
Nella critica marxista invece la “disumanizzazione” è un prodotto necessario del modo di
produzione capitalistico. Il più noto rappresentante della critica marxista è Harry Braverman, il
quale sostiene che il taylorismo, in quanto fondato sulla separazione tra ideazione ed
esecuzione, rappresenta il modello organizzativo più funzionale alle esigenze di sfruttamento
del capitale del lavoro, e comporta una progressiva “degradazione” del lavoro.
In questo modo il capitale si assicura il monopolio della conoscenza che è essenziale per
controllare “ogni fase del processo lavorativo e del suo modo di esecuzione”: il risultato della
diffusione del taylorismo è quello di una dequalificazione-degradazione complessiva della forza-
lavoro.
Lo sviluppo delle possibilità tecniche di incorporare il controllo della forza-lavoro nelle macchine
rende possibile realizzare ciò che fino a quel momento si era “tentato di ottenere con mezzi
organizzativi e disciplinari”.
Così nel sistema capitalistico la macchina, oltre alla sua funzione tecnica di aumentare la
produttività del lavoro ha anche quella di spogliare la massa dei lavoratori del controllo sul
proprio lavoro.
La “quasi completa automazione” che si è già imposta nell'industria chimica e nelle lavorazione
a ciclo continuo rappresenta la concretizzazione della metafora marxiana relativa al dominio del
“lavoro morto” sul “lavoro vivo”. In questo quadro ogni nuovo “progresso” tecnico non fa che
accrescere “il solco tra l'operaio e la macchina”, in quanto il lavoratore è sempre meno capace
di controllare gli impianti su cui lavora. La dequalificazione prodotta dal taylorismo e dall'”uso
capitalistico delle macchine” non riguarda solo il lavoro operaio, ma tutte le mansioni,
compresa quella degli ingegneri e degli impiegati, nell'industria come nei servizi.
Con il passaggio dall'automazione rigida alla “automazione flessibile” quel solco in termini di
controllo delle conoscenze aumenterebbe ulteriormente.
Nel secondo filone (il taylorismo come “utopia tecnocratica”) il primo approccio, in senso
cronologico, che troviamo è quello della Scuola delle Relazioni Umane. Una delle principali
preoccupazioni degli imprenditori statunitensi sin dagli anni '20 è quella di capire quali fattori
condizionassero il rendimento del lavoro. Nel 1924 la Western Electric Company di Hawthorne
decide di promuovere un programma di ricerche sperimentali sulla connessione esistente tra
illuminazione degli ambienti di lavoro e rendimento.
Se ne dedusse che l'aumento del rendimento non dovesse dipendere dall'illuminazione, bensì
da un qualche “fattore umano” che agiva come variabile interveniente. Questo “fattore umano”

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poteva consistere nel fatto che le operaie tendessero a produrre di più in quanto si sentivano
sfidate dalla sperimentazione, o in quanto si sentivano sfidate gratificate per essere state
scelte per l'esperimento, oppure, ancora, perché durante le prove si erano instaurate relazioni
meno conflittuali con il management.
Si trattava allora di indagare più a fondo il possibile ruolo di questi fattori psicologici e l'azienda
decise di commissionare una serie di ricerche all'equipe di studiosi guidati da Elton Mayo. Così
tra il 1927 e il 1932 furono sviluppati tre filoni di ricerca: sui fattori che favorivano il
rendimento operaio; sui motivi di lamentela e di insoddisfazione tra i lavoratori dello
stabilimento; sui fattori di solidarietà o di antagonismo che si producevano informalmente tra
di essi. Senza poter entrare nel merito delle specifiche ricerche, si può affermare che, salvo in
parte l'ultimo filone, esse furono caratterizzate da gravi scorrettezze metodologiche e
l'interpretazione pseudo-psicologica dei risultati venne piegata all'esigenza ideologica di non far
emergere le cause reali e strutturali della disaffezione al lavoro delle quali l'impresa sarebbe
stata chiamata a rispondere. Secondo l'equipe di Mayo invece le ricerche dimostrarono che per
l'impresa era fondamentale riconoscere la presenza sul lavoro di una soggettività che esercita,
seppur con modalità non razionali, affettive, emozionali, un ruolo fondamentale nell'orientare il
comportamento dei lavoratori: l'obiettivo era quello di trattare “clinicamente” le “patologie” per
riportarle alla “norma”. Da qui la necessità per l'impresa di modificare gli stili della leadership al
fine di poter comprendere e tener conto di queste esigenze psicologiche, in funzione della
ricerca di un maggior rendimento. Per questa via Mayo arriva a sostenere che la grave
“anomia” che caratterizza la società industriale può essere superata se l'impresa assume la
funzione di integrazione sociale (e di annullamento dei conflitti) sviluppando iniziative e attività
di ricreazione e di assistenza a favore dei lavoratori, nell'azienda e nella comunità.
Un risultato invece molto significativo di queste ricerche fu quello di scoprire la presenza nel
processo lavorativo di “gruppi informali” nei quali si definiscono regole di comportamento che
riguardano anche i livelli di rendimento che il gruppo deve mantenere (per cui se un membro
del gruppo tende a produrre di più o di meno subisce sanzioni da parte del gruppo stesso). Da
qui la raccomandazione di Mayo a favorire la creazione tra i lavoratori di gruppi informali i cui
comportamenti possono essere orientati dalla leadership in funzione delle esigenze aziendali.
La proposta di legittimare la presenza di una regolazione informale si discosta drasticamente
dal principio taylorista secondo il quale i lavoratori devono limitarsi a rispettare fedelmente le
procedure del task. Il problema da affrontare era quello della “restriction of output”
(diminuzione del risultato produttivo), quale effetto intenzionale di “anomali” comportamenti
operai. Si trattava quindi di intervenire sulle condizioni in cui opera il “fattore umano” per
innalzare disponibilità e impegno nell'espletamento delle mansioni definite dalla Direzione.
I comportamenti informali sono in qualche modo al centro dell'attenzione anche del sociologo
francese Michel Crozier, che li considera soprattutto in funzione dell'analisi delle relazioni di
potere all'interno delle organizzazioni. In sintesi l'autore sostiene che nell'ambito
dell'organizzazione (e della relativa gerarchia) formale si sviluppano delle nicchie all'interno
delle quali si manifesta una lotta informale per il potere tra i membri dell'organizzazione. La
irriducibile soggettività del lavoratore si manifesta allora in azioni e strategie tese a sfuggire
alle maglie sempre più strette del controllo manageriale: in questo senso si tratta di azioni
“razionali” (anche se possono essere disfunzionali per l'organizzazione) proprio perché
finalizzate all'obiettivo di cercare o mantenere determinati ambiti li libertà di comportamento. A
differenza del taylorismo che riconosceva ai soggetti solo la capacità di obbedire agli ordini, a
differenza della Scuola delle Relazioni Umane che riconosceva l'importanza della soggettività
solo come manifestazione irrazionale di affetti ed emozioni, Crozier afferma che ciascun
membro dell'organizzazione è portatore di un progetto razionale. Per questa via egli interpreta
anche molti dei comportamenti giudicati in genere come irrazionali.
Il terzo filone (il taylorismo come modello organizzativo contingente) può essere fatto risalire
innanzitutto alle ricerche di Touraine presso gli stabilimenti Renault tra il 1948 e il 1949. Nella
sua analisi gli assetti organizzativi che caratterizzano le differenti fasi dello sviluppo industriale
sono considerati come corrispondenti alla specifica tecnologia disponibile. L'autore ricostruisce
per questa via l'evoluzione dell'organizzazione del lavoro e della produzione alla Renault
distinguendo tra distinte fasi tecnologiche: la “fase A” è caratterizzata dalla presenza di
macchine universali e polivalenti in grado di compiere più operazioni, alle quali corrisponde
un'organizzazione del lavoro fondata sulla figura dell'operaio specializzato, portatore di

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un'elevata professionalità e abilità nell'uso delle macchine; la “fase B” è segnata invece dalla
specializzazione delle macchine universali, ma alle quali corrisponde un lavoro più
dequalificato: l'operaio massa della catena di montaggio; la “fase C” è quella in cui fanno la
loro comparsa le prime tecnologie di automazione: l'operaio massa si trasforma in controllore-
manutentore del sistema di macchine. Le tre fasi caratterizzate dal predominio di differenti
tecnologie possono comunque coesistere (in forma stratificata) anche nell'ambito del
medesimo stabilimento. La concezione di Touraine non è però rigidamente deterministica: le
condizioni generali dell'industria sono condizionate, oltre che dalle caratteristiche tecnologiche,
anche dai fattori culturali e ideologici. Le conseguenze dell'evoluzione storica sui contenuti del
lavoro sono quindi ambivalenti e contraddittorie.
La Woodward agli inizi degli anni '60 sviluppa una ricerca comparativa su 100 imprese inglesi
che operano in settori differenti dalla quale emerge come le diverse strutture organizzative
aziendali siano fortemente condizionate dalla varietà delle tecnologie e delle forme di mercato.
Al crescere delle dimensioni del mercato e della complessità tecnologica, la struttura interna
delle organizzazioni diventa più formalizzata e rigida.
Le ricerche di Lawrence e Lorsch sono invece tese a dimostrare l'inconsistenza dell'assunto
taylorista della one best way: ambienti differenti pongono alle organizzazioni sfide differenti
per cui il “modo migliore” per affrontare i problemi organizzativi varia in base alle capacità
dell'impresa di affrontare e gestire il rapporto con il suo ambiente.
In sintesi, le differenti teorie “della contingenza” affermano che il taylorismo è un modello
organizzativo che risponde alle specifiche caratteristiche di un ambiente caratterizzato da
mercati stabili e prevedibili, sulla base dei quali si è potuta sviluppare la produzione di massa.
Le differenti interpretazioni del taylorismo possono essere così sintetizzate:
– gli approcci marxisti, accomunati dalla denuncia della finalità sfruttatoria
dell'organizzazione scientifica del lavoro.
– Gli approcci “umanisti” secondo i quali è possibile, attraverso interventi riformatori,
superare nel taylorismo gli aspetti più degradanti e ricostruire adeguati livelli di
soddisfazione e motivazione al lavoro.
– Gli approcci fondati sulla critica all'assunto tayloristico della irrilevanza della soggettività
operaia, per i quali essa rappresenta invece un fattore irriducibile di cui non si può non
tener conto se si vuole comprendere i funzionamenti concreti delle organizzazioni.
– Gli approcci “della contingenza” che sostengono il carattere storicamente transitorio e
non universalistico del modello tayloristico.

TAYLORISMO E PRODUZIONE SNELLA


Dibattito relativo al cosiddetto passaggio dal fordismo al post-fordismo. Va segnalato che
secondo la visione oggi dominante saremmo ormai transitati in un'epoca post-fordista
caratterizzata dall'imprevedibilità dei mercati, dalla crescita della competizione globale,
dall'imperativo delle della flessibilità produttiva, dalla centralità nella produzione sia materiale
che immateriale della qualità, della conoscenza delle “risorse umane”. Il post-fordismo
rappresenterebbe insieme il contesto e il risultato di una nuova rivoluzione del modo di
produrre: la produzione snella. La genesi di questo modello viene fatta risalire alle
straordinarie performance del “modello Toyota”, cioè di quel nuovo modo di pensare e praticare
la produzione che è stato sviluppato dalla casa automobilistica giapponese Toyota.
Verso la fine del XX secolo il mercato dell'auto è considerato saturo: il problema diventa quello
di incentivare il ricambio attraverso la diversificazione e il miglioramento delle qualità dei
prodotti, da integrare anche con servizi di assistenza personalizzata ai clienti.
La fabbrica snella secondo Taichi Ohno deve essere la fabbrica dei 6 zeri:
– zero stock
– zero difetti
– zero tempi morti di produzione
– zero conflitto
– zero tempo di attesa per il cliente
– zero burocrazia.
I due pilastri su cui si regge il sistema Toyota sono il just in time e l'autovalutazione delle
macchine e de lavoratori.
Il just in time è il principio che regola universalmente gli approvvigionamenti di materiali e

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componenti: ogni attività lavorativa deve essere alimentata con i componenti richiesti, nel
tempo richiesto e nella quantità esattamente richiesta dal sistema di comunicazione interna,
detto kanban, cioè il cartellino di istruzione e richieste apposto sui cartelli che scorrono lungo le
linee secondo la logica puvv (tirare): diversamente dal fordismo, dove la produzione veniva
programmata “a monte” e poi spinta (push) lungo le linee di lavorazione, qui la produzione si
attiva nel momento in cui arriva la domanda dal mercato, e la comunicazione procede
all'inverso: da valle a monte attraverso i kanban. In questo modo la logica cliente-fornitore
viene internalizzata nel processo lavorativo: la stazione di lavoro a valle è “cliente” dalla
stazione immediatamente precedente “a monte”. Il vayout è organizzato in modo che le entrate
e le uscite di ciascuna stazione di lavoro si trovino l'una di fronte all'altra, così da favorire la
comunicazione e il lavoro di gruppo tra operai, le cui mansioni possono costantemente essere
ridefinite a seconda delle necessità. Quindi è necessario che il lavoratore sia “polivalente”, cioè
capace di operare su lavorazioni differenti ma contigue.
L'auto-attivazione è un principio fondato sull'importanza attributiva alla qualità e alle risorse
umane: le macchine sono dotate di dispositivo di arresto automatico e di prevenzione delle
difettosità interagiscono con il lavoratore a cui è richiesta una costante attivazione (basata
sulla logica del probvem sovving) finalizzata alla prevenzione/soluzione dei problemi, al controllo
della qualità e alla ricerca del “miglioramento continuo dei problemi e dei processi di
lavorazione. Al lavoratore, che opera quasi sempre all'interno di un team, è richiesta quindi una
cooperazione attiva, una maggiore responsabilizzazione e un forte orientamento al risultato.
Il principio del just in time regola non solo la produzione interna e i rapporti con i clienti, ma
anche le relazioni con la filiera dei fornitori. Si sviluppa così una struttura integrata (alimentata
dai processi di outsourcing) a cerchi concentrici il cui nucleo centrale è costituito dall'azienda
produttrice del bene finale, mentre sugli altri cerchi sono posizionate gerarchicamente le
aziende fornitrici. In caso di necessità l'azienda centrale può chiedere in prestito forza-lavoro
alle imprese fornitrici.
La produzione snella per funzionare, per poter affrontare in modo “flessibile” la crescente
“turbolenza ambientale” e perseguire l'obiettivo dei sei zeri ha un vitale bisogno della
collaborazione attiva delle risorse umane.
Risulta più convincente la tesi secondo la quale Toyota, per quanto esso presenti differenze
anche significative col modello taylor-fordista, non si ha l'effettivo superamento della principale
forma di divisione del lavoro, e che richiedono che il lavoratore disponga di una certa dose di
discrezionalità quale fattore importante per il suo “coinvolgimento attivo”. Ma queste
attenuazioni del taylorismo, accompagnate peraltro da una maggiore saturazione e
intensificazione del tempo di lavoro, non sono il prodotto di un'inversione di tendenza, bensì
del tentativo di utilizzare la forza-lavoro nelle forme imposte dalla crisi di sovrapproduzione di
merci e di capitali e permesse dall'attuale sviluppo delle forze produttive.
Ma la divisione autoritaria del lavoro salariato, insieme alla divisione sociale, non sono le
uniche due linee che dividono il lavoro sociale nella nostra contemporaneità. Parafrasando
Durkheim queste divisioni rappresentano, nel modo sociale di produzione capitalistico, la causa
principale delle difficoltà dei lavoratori di tutto il mondo di riconoscersi in un a “coscienza
comune” o, detto altrimenti, l'ostacolo alla formazione di una “coscienza di classe” che
permetta quell'unificazione del proletariato esortata in chiusura de Iv Manifesto di Marx ed
Engels.

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PARTE SECONDA
TRASFORMAZIONI E PERSISTENZE

PREMESSA
ANTICHE E NUOVE DIVISIONI
Il modo di produzione capitalistico nella sua espansione tende a cancellare o a sussumere i
diversi modi di produrre e i corrispondenti rapporti sociali, ma contemporaneamente mostra sia
la capacità di funzionalizzare alla legge dell'accumulazione le pre-esistenti divisioni del lavoro
sociale sviluppate nei secoli, sia di produrne di nuove.
Le stesse forme di divisione autoritaria del lavoro sembrano moltiplicarsi sotto le spinte di
processi di rimodellazione continua. L'esternalizzazione di segmenti di produzione o di servizio
alla produzione può concretizzarsi:
– nella scelta del decentramento produttivo;
– nell'affidamento in gestione di lavorazioni interne a ditte esterne ;
– nella costruzione di reti di fornitori che hanno come unico committente l'impresa
esternalizzatrice;
– nella vendita di segmenti di produzione considerati non-core ad imprese esterne che
svolgono il loro lavoro all'interno degli stabilimenti dell'impresa venditrice.
Le conseguenze dei processi di esternazlizzazione sul lavoro salariato si misurano in termini di
moltiplicazione dei sistema di disciplinamento e utilizzo della forza-lavoro, decostruzione delle
garanzie sindacali, mimetizzazione della controparte padronale nei conflitti industriali, ecc.
una delle più antiche forme di divisione, assume nuovi significati e sviluppa nuove forme di
diseguaglianza e di esclusione: da una parte il vigoroso ritorno allo sfruttamento del lavoro
minorile nei paesi centrali dello sviluppo capitalistico e la crescita della disoccupazione, nonché
della precarizzazione del lavoro, dei giovani; dall'altra la progressiva esclusione sociale che
colpisce la “terza età”.

LA FLESSIBILITÀ CHE DIVIDE


Il tema della flessibilità rappresenta un “nuovo” terreno per l'introduzione di ulteriori fattori di
divisione del lavoro sociale. È intorno alla metà degli anni '70 che si inizia a parlare di una
“economia della flessibilità” fondata sull'automazione flessibile, a sua volta resa possibile dallo
sviluppo delle tecnologie su base microelettronica. Dal punto di vista del capitale essa si pone
come “strumento, strategia e risposta”.
Strumento → per far fronte all'aumentata complessità e turbolenza dell'ambiente esterno ed
anche per accelerare la circolazione del capitale.
Strategia → per recuperare flessibilità nel processo produttivo contro la rigidità della classe
operaia e dell'organizzazione del lavoro.
Risposta → per affrontare alcune esigenze avanzate elle lotte operaie.
Il dibattito sulla flessibilità è da subito caratterizzato da una forte impronta ideologica: la
flessibilità è rappresentata come “esigenza” del mercato: assieme alle tecnologie devono farsi
“flessibili” anche i lavoratori, per cui le garanzie conquistate dal movimento operaio nell'arco di
due secoli sono ora considerate come delle “rigidità” inaccettabili che soffocano l'economia e
l'iniziativa imprenditoriale. La “flessibilità post-industriale” si traduce quindi velocemente in
un'emorragia di posti di lavoro nella grande industria e nell'adozione di più sofisticati strumenti
per l'intensificazione dei ritmi di lavoro.
La flessibilità dopo aver investito l'ambito della divisione autoritaria del lavoro è presentata di
nuovo come imperativo oggettivo sul terreno del mercato del lavoro, alla cui eccessiva
“rigidità” è imputata la bassa capacità competitiva delle imprese. Si pongono così le basi
ideologiche della legittimazione per una drastica ri-regolamentazione del mercato del lavoro
che in Italia inizia nei primi anni '80 con le politiche di concentrazione tese a controllare il costo
del lavoro.
Al di là della propaganda sulla “valorizzazione della risorsa lavoro” che accompagnerebbe la
flessibilizzazione della divisione autoritaria del lavoro e sulle opportunità positive che la
flessibilizzazione dei mercati del lavoro offrirebbe ai lavoratori, il bilancio di questi ultimi
decenni all'insegna della flessibilità sono certamente positivi per l'impresa che ha potuto
licenziare più facilmente, pagare meno e sfruttare più intensamente la forza-lavoro, per
collocare questi “risparmi” nella finanza speculativa, invece che negli investimenti produttivi o

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nella Ricerca & Sviluppo. Per il lavoratori, invece, e specialmente per quelli meno qualificati, la
flessibilità nelle sue molteplici manifestazioni si è tradotta in precarietà, insicurezza sociale
disoccupazione forzata.
La flessibilità dentro il processo di lavoro e quella dentro il mercato di lavoro ha prodotto
ulteriori barriere di divisione e spazi di competizione tra i lavoratori attraverso le
esternalizzazioni, gli appalti, l'individualizzazione e la mltiplicazione dei rapporti di lavoro (tesa
ad escludere i sindacati) nell'ambito della stessa azienda e il ricatto imprenditoriale sul lavoro
precario.

MUTAMENTI NELLA DIVISIONE “INTERNAZIONALE” DEL LAVORO


Fin dalle origini del processo di differenziazione sociale e con l'inizio dello scambio di merci tra
differenti popolazioni, si è sviluppata una divisione del lavoro tra le comunità che ha assunto
sin dall'inizio una caratterizzazione gerarchica tra popoli sottomessi e popoli dominanti. Questa
gerarchizzazione della divisione del lavoro si è rafforzata con la formazione degli stati moderni
che attraverso il colonialismo prima e l'imperialismo poi ha instaurato una vera e propria
divisione “internazionale” (tra gli stati) del lavoro, dove il ruolo degli stati dominanti è
storicamente consistito nell'assecondare le esigenze di accumulazione del capitale su scala
mondiale, a spese delle popolazioni dominate, imponendo la sostituzione delle autonomie
autoctone di sussistenza non solo con il lavoro salariato, ma anche con le forme più brutali del
lavoro schiavistico e coatto.
Questa linea di divisione diventa sempre più importante man mano che il capitale si avvicina
alla sua dimensione mondiale, e assume nuovi caratteri e potenzialità: nella cosiddetta epoca
della “globalizzazione” economica e soprattutto finanziaria , dovremmo piuttosto parlare di
divisione del lavoro su scala mondiale, in quanto il lavoro oggi non è più diviso esclusivamente
con criteri geopolitici (il sistema interstatale): il potere crescente delle imprese transnazionali
riorganizza e rimodula continuamente, attraverso strumenti quali gli investimenti diretti
all'estero, le filiere (=l'insieme delle transazioni e delle operazioni tecniche necessarie per
ottenere il prodotto finito a partire da una materia prima) di produzione che attraversano il
pianeta. L'organizzazione per filiere dell'economia capitalistica transnazionale tende quindi ad
articolare il controllo sulla forza-lavoro in modi che superano la mera divisione tra centri e
periferie, istituendo antiche e nuove modalità di divisione autoritaria del lavoro nei processi
lavorativi sulla base delle mutevoli condizioni di profittabilità.

IMMIGRAZIONE, LAVORO, CITTADINANZA


Infine, un aspetto decisivo e contraddittorio connesso con questa nuova divisione del lavoro su
scala mondiale è dato dalle nuove caratteristiche del fenomeno migratorio.
Per il capitale le migrazioni sono rilevanti solo in quanto spostamenti di forza-lavoro che
devono essere controllati e “messi a valore”, ossia messi nella condizione di produrre ricchezza
di cui altri si approprieranno. Così il compito di regolare “i flussi”, di controllare comportamenti,
e di garantire l'uso efficiente della forza-lavoro migrante è affidato agli stati che sono meta dei
fenomeni migratori. Questi stati che si rappresentano come i paladini della libertà e della
democrazia, dopo la “caduta del muro di Berlino”, sono impegnati a costruire altri muri
materiali e immateriali per contenere e selezionare questa forza-lavoro che “pretende di
spostarsi a suo piacimento varcando i “nostri confini”.
I muri materiali sono ad esempio quelli in costruzione sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico.
I muri immateriali sono invece costruiti con i mattoni della stigmatizzazione dello “straniero”
come criminale, un nemico che può assumere così la tradizionale funzione del capro espiatorio,
su cui le classi dirigenti possono far riversare le frustrazioni e le paure delle nostre società
“ricche”.
Le nostre società organizzano quindi una divisione del lavoro particolarmente odiosa: una
selezione della forza-lavoro immigrata. Più in generale questi diversi mezzi di “regolazione”,
formale e sostanziale, sono coerentemente funzionali al principale obiettivo di svalorizzare la
forza-lavoro immigrata così da renderne più profittevole lo sfruttamento, e questo processo di
svalorizzazione si ripercuote anche sul valore della forza-lavoro autoctona. Le debolezze e le
ipocrisie del concetto liberale di cittadinanza – dove la formale uguaglianza dei “cittadini” serve
a nascondere le diseguaglianze sostanziali che caratterizzano la struttura sociale – sono
ulteriormente messe a nudo dalla presenza dell'immigrato: il criterio di cittadinanza, in Italia

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come in Europa, non serve solo per escludere/selezionare “l'altro”, ma anche per disciplinare
l'esistenza attraverso il lavoro. Allora diventa essenziale guardare alla cittadinanza nel suo
significato sostanziale, intesa come processo di emancipazione che può svilupparsi solo se
fondato sul potere sociale e politico attraverso cui individui, gruppi e classi riescono a far valere
i diritti formalmente sanciti e ad incidere sula loro definizione/espansione: la forma giuridica
dei diritti positivi non è inessenziale, ma i diritti sono carta straccia se non sono sostenuti da
un potere effettivo.

1. LA NUOVA DIVISIONE DEL LAVORO A SCLA GLOBALE NELLA FASE


DELL'IMPERIALISMO MONOPOLISTICO

LA MONDIALIZZAZIONE DEL CAPITALE


Il termine “globalizzazione” è divenuto un termine passepartout che serve in sostanza per
nascondere ideologicamente un fenomeno che si è invece sviluppato nella dinamica
contraddittoria di modi di produzione e rapporti di proprietà basata sul conflitto di classe. E
serve per legittimare meccanismi e conseguenze della valorizzazione capitalistica (in primis, lo
sfruttamento) e imporre come oggettive e non criticabili le scelte politiche finalizzate a
promuoverla e assecondarla.
Il ruolo del capitale finanziario è fondamentale per comprendere la dinamica
dell'organizzazione internazionale della produzione e del lavoro. La centralizzazione dei capitali
e i nessi sempre più forti tra banche e imprese rappresentano il vero elemento unificante dei
diversi processi produttivi che dalle materie prime arrivano ai prodotto/merce finale.
I concetti fondamentali sono hovding finanziaria e filiera di produzione: è su queste basi che le
grandi imprese industriali-finanziarie multinazionali organizzano la produzione e dividono il
lavoro su scala globale. In questa prospettiva sembra quindi progressivamente concretizzarsi
quella dimensione mondiale, universale, del capitale, già individuata a suo tempo da Marx:”la
tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale.
Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare”.
L'analisi delle determinazioni storiche concrete dell'attuale fase imperialistica deve
necessariamente tener conto dei nessi tra gli aspetti economico-finanziari e quelli politico-
militari e socio-culturali. Infatti il “processo di capitalizzazione della vita associata” può essere
definito “mondializzazione”, ossia il divenire totalità integrata delle attività in cui si producono
le merci e quindi il rapporto di capitale e il suo processo. Questa totalità - “Riproduzione
Sociale Complessiva” - è caratterizzata dall'estensione del proletariato, dello scambio di merci
e dei mercati del denaro e del lavoro, processi dai quali però non si può dedurre il movimento
della formazione economico-sociale e i suoi conflitti come pretende un certo”economicismo”
per il quale l'economia determinerebbe tutti gli altri aspetti della società.

IL CAPITALE FINANZIARIO
Originariamente l'internalizzazione delle economie nazionali avviene principalmente attraverso
lo scambio commerciale, successivamente con la saturazione dei mercati interni, si sviluppa
una nuova interdipendenza attraverso la crescita degli Investimenti diretti all'estero (Ide) da
parte delle imprese transnazionali.
Attraverso gli Ide si produce una concatenazione di filiere di produzione transnazionali dove gli
investimenti possono essere di tipo produttivo e monetari. Gli stessi paesi OCSE già nei primi
anni '90 registrano investimenti lordi interni di segno negativo, da qui la necessità di cercare
investimenti produttivi all'estero.
Tutto questo provoca necessariamente una enorme crisi occupazionale che però non è
rappresentabile come una patologia del sistema: il capitale, in quanto contraddizione in
processo, nel creare plus-lavoro deve necessariamente produrre una forza-lavoro in eccesso.
L'espulsione dei lavoratori dalla produzione non è prodotta dalle innovazioni tecniche ma dalla
valorizzazione insufficiente del capitale: la valorizzazione del capitale è il limite oltre il quale si
ha una sovrapproduzione e quindi ristagno dell'accumulazione. Così i capitali in cerca in cerca
di nuove possibilità di valorizzazione prendono la strada degli Ide e nella crisi, gli investimenti
di portafoglio tendono a superare quelli produttivi. Gli investimenti di portafoglio sono gestiti
dai grandi investitori istituzionali sulla base di strategie coadiuvate da appositi organismi
internazionali, quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Questa enorme

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crescita della mobilità del capitale su scala mondiale è stata resa possibile da due principali
condizioni: una “tecnica”, ossia il grande sviluppo della telematica e più in generale delle ICT,
l'altra, politica, ossia la progressiva rimozione dei controlli statuali sui movimenti di capitale
iniziata negli anni '80.
la forma finanziaria dell'economia va invece intesa come fusione di industria e banca,
produzione e circolazione del capitale, merce e denaro. La trasformazione di una parte del
capitale industriale in capitale finanziario necessita di un medium: il capitale monopolistico.
La holding capofila dirige il processo transnazionale di autonomizzazione, diverticalizzazione e
interdipendenza dei processi produttivi.
Il capitale monetario si può trasformare in capitale produttivo operante o in capitale produttivo
d'interesse: si presta denaro invece di spenderlo.
L'emissione di “mezzi di circolazione” crea il capitale fittizio, i cui titoli sono quotati non quanto
provento reale di attività, ma come valutazione speculativa sui proventi attesi. È un gioco
d'azzardo (la cosiddetta “speculazione finanziaria”) nei mercati finanziari nei quali si producono
le “crisi finanziarie”. Ma “la crisi” è sempre il prodotto di un'insufficiente valorizzazione che
implica l'arresto dell'accumulazione e il ristagno del processo di produzione. Entrano in crisi le
diverse forme con cui il capitale opera e il ciclo si inceppa: il mercato si satura, il capitale resta
in larga parte inattivo le merci risultano invendibili.
L'ultima crisi da eccesso di sovrapproduzione nella quale siamo tutt'ora immersi scoppia alla
fine degli anni '60 e si manifesta esplicitamente nei primi anni '70 nelle sue diverse fasi:
inflazione, recessione e ricostruzione dell'esercito industriale di riserva, crisi di lavoro,
stagnazione, ristrutturazione dei cicli produttivi su scala globale, flessibilizzazione dell'utilizzo
della forza lavoro e del salario, nuova rivoluzione industriale centrata sulla microelettronica e la
telematica che permette una nuova automazione del controllo del capitale sul lavoro,
centralizzazione finanziaria e fase speculativa monetaria. Sul piano sociale si produce così una
maggiore polarizzazione di classe, sul piano istituzionale un ulteriore accentramento del potere
politico (maggiore autoritarismo). In questo scenario si ha la caduta non della massa dei
profitti, ma del tasso medio dei profitti.
Così ciascuna catena transnazionale segmenta territorialmente il proprio ciclo produttivo in
diverse regioni del mondo.
Cresce la scala della produzione e la produttività del lavoro cosicché i capitali più grossi
sconfiggono i capitali minori, capitali che in parte passano nelle mani dei capitalisti più forti e in
parte vengono distrutti.
Marx per distruzione di capitale intende due diversi fenomeni:
– il ristagno del processo di produzione, ossia il mancato utilizzo delle macchine, materie
prime, lavoro, infrastrutture;
– rastrellamento di capitali a capitalisti che così fanno bancarotta: tendenza alla
centralizzazione, che è necessaria ai capitalisti industriali per allargare la scala e il
raggio delle loro operazioni.
In questo caso non si ha distruzione di valore d'uso, ma solo di capitale nominale in termini di
valore di scambio: ciò che un capitalista perde, l'altro guadagna. Quindi, l'accumulazione
accelera la caduta del saggio di profitto che a sua volta accelera il processo di centralizzazione.
La centralizzazione produce un ulteriore aumento della composizione del capitale, dell'intensità
di capitale, e quindi una diminuzione relativa di lavoro.

LE CATENE TRANSNAZIONALI
Il “gruppo” è una forma giuridico-organizzativa finalizzata a mobilitare e impiegare capitale, un
“insieme di imprese tra di loro formalmente indipendenti in quanto ognuna di esse costituisce
un soggetto giuridico autonomo, ma controllate da un unico soggetto economico il quale ne
determina gli indirizzi di gestione”. La “holding finanziaria” è il soggetto economico che detiene
il controllo totale delle operazioni del gruppo condizionando tutto il capitale da esso “tenuto”.
Le “filiere produttive” configurano la “struttura di produzione e circolazione del plusvalore, fasi,
entrambe, controllate dal grande capitale monopolistico finanziario transnazionale”.
La hovdings finanziarie, espressione del monopolio industriale che ne sta alla base, sono le
protagoniste della nuova divisione internazionale del lavoro. Queste hovding operano in simbiosi
con il sistema bancario, anch'esso caratterizzato da un forte processo di centralizzazione.
Quando l'accumulazione ristagna le hovdings finanziarie dei grandi gruppi privilegiano i rapporti

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con gli investitori istituzionali, ossia la creazione/circolazione del capitale fittizio.


La “filiera” è l'insieme delle transazioni e delle operazioni tecniche necessarie per ottenere un
prodotto finito a partire da una materia prima. Essa “attraversa diversi rami di produzione e di
circolazione, e non coincide né con un settore merceologico definito, né necessariamente con
un singolo prodotto finale”.
Una delle fasi importanti del processo di produzione che costituiscono gli anelli della catena è
quella delle decisioni finanziarie che riguardano sia il finanziamento degli investimenti, si i
regimi fiscali in cui collocarli. E la crescente interdipendenza tra imprese, paesi e settori implica
che le scelte strategiche non dipendano necessariamente soltanto da razionali valutazioni di
efficienza economica, ma anche da variabili geopolitiche e da complesse valutazioni
comparative dei rischi di localizzazione. La localizzazione quindi non è valutata soltanto in
termini di massimizzazione dei profitti, in quanto possono entrare in gioco molte altre variabili,
quali la necessità di difendere la posizione acquisita in un determinato mercato, la possibilità di
inserirsi in altre filiere o di costruirne di nuove, controllare fonti energetiche o materie prime,
ecc.
La tipologia di organizzazione di impresa prevalente nei paesi a capitalismo avanzato è andata
evolvendosi da un modello di impresa integrata verticalmente e diversificata (“conglomerata”),
a una flessibile (“core”), modulare e concentrata attorno alle attività prevalenti con “una
tendenza a coordinare, e non necessariamente ad integrare in termini proprietari, la catena
delle lavorazioni svolte a monte con quelle a valle”.
Le caratteristiche generali che la forma del sistema industriale ha assunto sono riassumibili in
due tendenze interdipendenti:
– snellimento dell'impresa: riduzione degli occupati a tempo pieno con conseguente
riduzione della scala delle unità produttive dell'impresa.
– esternalizzazione di funzioni precedentemente svolte all'interno dell'impresa, con
l'aumento di numero e di importanza dei sub-fornitori nel gruppo.
Queste due tendenze possono coesistere.
Le forme di subfornitura sono mutate: dal contoterzismo, dove è massima la dipendenza
formale, verso la subfornitura di capacità (il sub-fornitore offre capacità di lavoro
supplementare per raggiungere un determinato livello produttivo) e poi di specialità (il
committente appalta intere fasi della produzione a sub-fornitori specializzati). Mentre l'impresa
si specializza nel core business, segmentando anche il mercato del lavoro interno in lavoratori
“strategici” (per i quali il management parla di “valorizzazione delle risorse umane”,
commitment, fidelizzazione, coinvolgimento, anche in termini di azionariato diffuso, ecc.) e non
strategici (per i quali in ultima istanza il legame con l'azienda è rappresentato dalla costante
minaccia di licenziamento).
L'intensificarsi della nuova divisione internazionale del lavoro produce un ruolo crescente della
sfera della circolazione dei prodotti e dei capitali e quindi diventa sempre più forte l'esigenza di
abbreviare i tempi di rotazione dell'intero commercio mondiale. La velocizzazione delle
comunicazioni riduce il tempo di rotazione del capitale circolante e quindi aumenta il tasso di
profitto.
Le hovdings si caratterizzano per una centralizzazione del potere strategico e una
decentralizzazione sul piano operativo. A ciò corrisponde significativamente la nuova forma del
potere statale: accentramento del potere negli esecutivi e decentramento operativo.
L'importanza del potere finanziario per l'impresa è evidente in relazione al reperimento del
capitale-denaro necessario per gli investimenti. Così quando il ciclo di accumulazione è
declinante le banche tendono a concedere credito soprattutto alla ricchezza patrimoniale delle
imprese, sfavorendo così le imprese minori e non appartenenti a grandi gruppi. Imprese minori
che sono quindi destinate a perire o ad essere acquistate a prezzi da “liquidazione” dai grandi
gruppi (svalutazione del capitale eccedente). Le ondate di fusioni e acquisizioni che
attraversano il mercato mondiale trasformano in profondità gli assetti proprietari e quindi
anche la composizione della classe lavoratrice.
La concatenazione di attività e relazioni all'interno dei gruppi è quanto possibile oscurata al fine
di nascondere la reale struttura gerarchica (e i relativi diritti di proprietà) con una apparente
generica interdipendenza: la proprietà del capitale è quella che detiene in ultima analisi il
potere decisionale e strategico, anche se sempre più spesso può sembrare che non appaia
direttamente al vertice delle strutture dirigenti dell'impresa.

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Oltre alla subfornitura si diffonde lo scambio intra-gruppo che si sottrae ai funzionamenti del
mercato capitalistico. Su queste basi si struttura l'articolazione in filiera concatenata dal ciclo di
investimento, produzione e commercializzazione. L'impresa-madre determina l'intero processo.
L'interconnessione tra le diverse fasi dei cicli produttivi diventa possibile per la corrispondenza
delle tecniche e delle procedure di lavorazione applicate, per le caratteristiche e la velocità
dell'informazione e per la standardizzazione dei componenti. La standardizzazione è fattore
centrale della competizione tra i gruppi, in quanto imporre agli altri il proprio standard
produttivo significa conquistare fette più ampie del mercato mondiale, grazie alla
complementarità tecnologiche imposte dal vincitore a tutto il sistema di imprese.
La ristrutturazione della produzione mondiale si incentra sul “pieno e incondizionato recupero di
comando sul lavoro da parte del capitale” e quindi sulla necessaria doppia flessibilità di lavoro e
macchine e sulla flessibilità del salario: ritorna la precarietà e l'incertezza del cottimo in vecchie
e nuove forme.

2. PROLETARIZZAZIONE E SVALORIZZAZIONE DELLA FORZA LAVORO

LA RICOLONIZZAZIONE DEL MONDO


Per contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto la strategia della classe
capitalistica si struttura intorno:
– alla “ricolonizzazione” delle economie dei paesi periferici dove il costo della forza lavoro
viene ulteriormente ribassato;
– ad un ulteriore accrescimento dell'esercizio industriale di riserva;
– all'aumento del saggio sfruttamento della popolazione occupata.
Su questo si basa la cosiddetta “globalizzazione neoliberista” che quindi necessita
dell'abolizione di ogni vincolo statale alla libertà del capitale e della cancellazione delle garanzie
e dei diritti dei lavoratori conquistate nel tempo nei paesi centrali e periferici. La
ricolonizzazione implica una parziale industrializzazione subordinata delle periferie guidata dal
capitale finanziario. La vecchia divisione internazionale del lavoro, dove alle periferie era
assegnata la funzione di fornitura di materie prime e forza lavoro di riserva, viene superata: la
“mondializzazione della produzione industriale” e l'integrazione del mercato mondiale mettono
tutti i settori, i paesi e i lavoratori, in una concorrenza globale all'insegna della minimizzazione
dei salari e della massimizzazione della produttività.
L'espansione del dominio del capitale transnazionale ha investito in pieno anche il settore
agricolo, sia in forma diretta, attraverso gli investimenti, sia attraverso lo sfruttamento
indiretto dei produttori indipendenti. Il sistema dei prestiti ai piccoli contadini predisposto dalla
Banca Mondiale è uno dei modi con cui (sfruttamento indiretto) il capitale usuraio estorce
plusvalore senza assumere i rischi della produzione.
L'apertura al mercato mondiale da parte della Cina alla fine degli anni '70 è stata
accompagnata da un forte controllo politico dello sviluppo capitalistico nazionale. La Cina ha
messo a disposizione dei capitali stranieri, innanzitutto nelle “zone economiche speciali”,
condizioni molto favorevoli (ipersfruttamento, divieto di sciopero, ecc.); ha privatizzato
moltissime imprese statali dove sono stati licenziati milioni di lavoratori; ha favorito la
proletarizzazione nelle campagne e la connessa migrazione verso la città, dove questa ampia
disponibilità di mano d'opera a basso costo ha permesso tassi di crescita economica tra il 6 e il
10% del PIL. Tutto questo ha comportato un forte aumento delle diseguaglianze, ma anche
una riduzione dei livelli di povertà assoluta e successivamente un incremento dei salari reali
della popolazione occupata, in particolare nelle aree urbane.

OMOGENEIZZAZIONE E DIFFERENZIAZIONE
Sino ai primi decenni del secondo dopoguerra, l'articolazione della divisione internazionale del
lavoro poteva essenzialmente essere rappresentata come un movimento centrifugo che a
partire dai centri capitalistici tendeva via via a spostare verso le periferie produzioni, settori,
tecnologie organizzative ormai considerate “mature”, periferie dove il capitale investito poteva
inoltre contare su tassi di redditività più alti, grazie alle condizioni estremamente più favorevoli
di sfruttamento della forza lavoro. Oggi questo meccanismo non è scomparso ma è divenuto
parte di una più complessa articolazione della divisione dev vavoro a scava gvobave. Infatti oggi il
processo di continua ristrutturazione e posizionamento delle catene del valore e delle connesse

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filiere produttive sembra in grado di ricercare la massima valorizzazione del capitale in ogni
luogo che ne offra almeno potenzialmente le condizioni. Così, se è vero che il posizionamento
nei “centri capitalistici” della casa-madre e del core business delle imprese transnazionali
continua ad essere un fattore cruciale, è anche vero che sempre più frequentemente nel “Sud
del mondo” e nelle “periferie” vengono (de)localizzate anche:
– attività di Ricerca&Sviluppo o di direzione finanziaria, informativa o amministrativa di
imprese operanti in ambiti “ad alto valore aggiunto”;
– produzioni strategiche;
– complesse e sofisticate strategie tecnologiche organizzative (modi di produrre), dalla
automazione robotica alla vean production. Analogamente, il “Nord” del mondo non è
più solo la “faccia luccicante”, “progressiva” del sistema.
Si può quindi affermare che rispetto alla “vecchia divisione “internazionale” del lavoro, un
cruciale elemento di novità è dato dalla tendenziale capacità delle catene del valore di
riposizionarsi alle diverse “scalarità”, variando costantemente i modi e le forme con cui il lavoro
vene globalmente suddiviso, e nello stesso tempo omogeneizzandolo nella sua precarizzazione
strutturale.

AUMENTO DELLA POLARIZZAZIONE DI CLASSE


La “globalizzazione neoliberista” ha provocato un abbassamento generalizzato del tenore di
vita dei lavoratori del “Sud del mondo”. Un impoverimento crescente che è stato prodotto
anche dal saccheggio delle risorse e dalla distruzione ambientale. La diseguaglianza sociale è
enormemente cresciuta, sia tra paesi forti che tra paesi deboli, sia all'interno dei singoli paesi.
In Europa la svolta è simbolicamente segnata dall'elezione della Thetcher, negli Stati Uniti da
quella di Reagan ed è caratterizzata da politiche monetarie, fondate sull'austerità di bilancio,
attacco frontale ai sindacati riforme fiscali a favore delle classi abbienti, smantellamento della
protezione sociale, privatizzazioni, abolizione del controllo pubblico sui movimenti di capitale.
La crescente competizione tra i lavoratori, ottenute attraverso queste divisioni, provoca un
crollo generalizzato dei salari reali e la società nel suo complesso si fa sempre più diseguale,
con un impoverimento significativo anche dei ceti medi. Torna a diffondersi il fenomeno dei
working poors, ossia persone che pur lavorando molto non riescono a soddisfare i bisogni più
elementari.
In Europa la feroce ricolonizzazione dei paesi dell'Est ha provocato un'esplosione dei movimenti
migratori verso i “paesi ricchi” che hanno moltiplicato nel tempo politiche e strumenti legislativi
volte a discriminare e criminalizzare i lavoratori immigrati, così da poterli mettere in
contrapposizione con gli autoctoni e ottenere una generalizzata svalorizzazione della forza
lavoro del continente.
Come dimostra il caso Wal-Mart, il sub-appalto permette all'impresa di estremizzare la logica
del just in time (produrre/acquistare solo in base alla domanda effettiva) scaricandone tutti gli
oneri e i rischi sulle imprese satelliti, dove il costo del lavoro è bassissimo e la
sindacalizzazione inesistente.
Globalmente il tasso di sfruttamento continua a crescere, moltiplicando così la forza produttiva
del lavoro sociale che ha prodotto, ad oggi, circa un miliardo di lavoratori “eccedenti”, un
esercito industriale di riserva di dimensioni mai viste che contribuisce a peggiorare le condizioni
della forza lavoro e a diminuire il valore.
I costi dell'ultima crisi, manifestatasi con l'esplosione della bolla immobiliare dei mutui sub-
prime, sono stati scaricati ancora una volta -direttamente e indirettamente – sui lavoratori di
tutto il mondo. Le principali banche d'affari che si erano arricchite con la speculazione
immobiliare sono stata “salvate” dal fallimento dai rispettivi governi tramite le banche centrali.
Il fallimento delle imprese, la delocalizzazione o la riduzione degli impianti, connessi con il
crollo degli investimenti e del commercio mondiale, sono stati pagati a caro prezzo con
l'espulsione di milioni di lavoratori e l'ulteriore caduta dei salari.

IL “NUOVO” RAZZISMO ISTITUZIONALE: DIVIDE ET IMPERA


Per “razzismo istituzionale” si può intendere l'insieme delle politiche, delle azioni e dei
provvedimenti normativi attraverso i quali le istituzioni producono nella popolazione condizioni
di discriminazioni su basi “razziali”. Dato che il concetto di “razza” è notoriamente privo di basi
scientifiche, il razzismo, per il potere costituito, ha sempre avuto storicamente il duplice

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obiettivo:
– di discriminare – attraverso processi di deumanizzazione, criminalizzazione,
inferiorizzazione – determinati gruppi di base sulla base di differenze somatiche,
linguistiche, culturali, ecc., con l'obiettivo di ricavarne vantaggi per il gruppo dominante
(“razza superiore”);
– di individuare nei gruppi così “stigmatizzati” il bersaglio (capro espiatorio) sul quale
rovesciare le paure, le frustrazioni, le insoddisfazioni, le sofferenze “del popolo”.
In senso lato, quindi, il razzismo delle classi e dei gruppi dominanti ha origini antiche, ma il
razzismo inteso come costrutto ideologico e pratica istituzionale organizzata è un prodotto
specifico della “civiltà” liberale capitalista e delle sue “liberal-democrazie” impegnate ad
organizzare e legittimare il colonialismo e la guerra, nella competizione per la spartizione del
mondo. In senso stretto quindi il razzismo moderno è un'ideologia e una pratica che si
struttura su una base di classe, in quanto finalizzato innanzitutto a favorire l'estorsione di
plusvalore.
Per la liberal-democrazia l'immigrato non è più persona, ma solo corpo, nuda vita, forza lavoro
utilizzabile a condizione che si venda per poco e sia obbediente.
Si completa così la strategia del razzismo istituzionale e della propaganda xenofoba:
l'immigrato non totalmente assoggettato diventa il “nemico interno” e il “migrante” che si
affaccia alle “nostre frontiere” è il “nemico esterno”. Come accade di frequente nella storia, la
lotta contro il nemico interno si salda con quella contro il nemico esterno, in questo caso
coagulandosi intorno ad un'unica figura: il migrante. L'Europa però ha un bisogno costante di
immigrati, da selezionare in base alle esigenze mutevoli del ciclo economico, ossia di
manodopera a basso costo, ricattabile, precaria, iperflessibile. Infatti, in Europa continuano ad
entrare più di 2 milioni di immigrati l'anno dalle periferie del mondo. Così si impoveriscono
ulteriormente anche le chances di sviluppo dei paesi di emigrazione i quali sono oggetto di
delocalizzazioni produttive dell'ecosistema e degli equilibri sociali, alla ricerca di “migliori
condizioni di investimento”.
Il capolavoro del razzismo di Stato in Italia consiste nell'aver costruito magistralmente attorno
alla figura del “clandestino” i suoi obiettivi e le sue funzioni: già con la legge 39/1990 nessun
migrante può attraversare le frontiere legalmente. Quindi è la legge che impone la
clandestinità come condizione iniziale dell'immigrato, il quale deve sperare di trovare al più
presto un lavoro con contratto “regolare”, senza il quale non potrà mai uscire dalla sua
condizione di clandestino. È a partire da qui che si strutturano le diverse modalità di divisione
razziale del lavoro, secondo la classica legge del divide et impera tesa a separare gli immigrati
e porli in competizione reciproca.
Nel complesso quindi gli immigrati vengono inseriti differenzialmente in un mercato del lavoro
segmentato e discriminante, caratterizzato dall'intreccio e il sovrapporsi tra il legale, il
sommerso e il criminale, che approfondisce ulteriormente le diseguaglianze in termini di
salario, condizioni di lavoro, inquadramento, previdenza, ecc.

3. CONSEGUENZE SOCIALI DELLA REAZIONE CAPITALISTICA ALLA CRISI


STRUTTURALE DELL'ACCUMULAZIONE

UNA REAZIONE ORGANICA


Si è visto come il capitale, nel tentativo di fronteggiare la strutturale crisi dell'accumulazione e
il crescente conflitto sociale, sia riuscito, a partire dalla metà degli anni '70, a modificare a suo
favore i rapporti di forza puntando alla precarizzazione generalizzata della forza-lavoro, senza
però riuscire a ristabilire i tassi di redditività pre-crisi.
Il rilancio della capacità conflittuale espressa dal capitale si è manifestato innanzitutto nella
grande impresa a partire dalla sfera della produzione, attraverso le profonde ristrutturazioni
tecnologico-organizzative; il connesso tentativo di riprendere il pieno comando sul lavoro
salariato, sia intervenendo su alcune delle cause della conflittualità operaia, sia e soprattutto
rivoluzionando i metodi di controllo nella lavorazione e dispiegando una nuova strategia
antisindacale.
Su queste basi si è sviluppato un attacco sempre più violento e organico, in nome della
“flessibilità”:

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– al savariato sociave gvobave, nelle sue tre componenti: salario in senso stretto (salario
diretto), protezione previdenziale (salario differito) e alla protezione sociale (salario
indiretto);
– alla regolazione del mercato del lavoro.
Questo carattere organico si evidenzia in modo duplice:
– la grande impresa riesce ad arruolare in questa sua offensiva gli altri poteri forti e a
mobilitare i suoi think tank nella produzione di saperi, tecniche, rappresentazioni,
funzionali all'obiettivo;
– l'offensiva progressivamente investe tutto il mondo del lavoro e tutte le sfere della
riproduzione e della regolazione in quanto necessita di una complessiva redistribuzione
del potere sociale a favore delle classi dominanti.
Per illustrare più concretamente questi sviluppi può essere utile analizzare la cosiddetta “crisi
del Welfare” le cui origini vengono individuate nella metà degli anni '70.

LA “CRISI DEL WELFARE”


Fin dalle origini le politiche sociali sono state il prodotto complesso di due spinte differenti e
dialetticamente contrastanti:
– l'esigenza delle classi dominanti di conservare e riprodurre il proprio potere sociale sia
attraverso il dominio (repressione) sia attraverso l'egemonia (il consenso), una esigenza
a volte accompagnata da una qualche consapevolezza dell'inadeguatezza del mercato
quale strumento di regolazione e allocazione delle risorse;
– le lotte delle classi sociali subalterne indirizzate innanzitutto al raggiungimento di
migliori condizioni materiali dell'esistenza e al rovesciamento radicale dei rapporti sociali
di produzione.
Questo mix è ancora più evidente a partire dalla nascita degli stati nazionali, ossia quando le
politiche sociali diventano formalmente e sostanzialmente parte delle politiche pubbliche.
Anche in questo ambito dobbiamo sforzarci di liberare la nostra analisi dalla doxa e dai luoghi
comuni sul significamìto del termine “Stato” per comprendere le sue effettive determinazioni e
funzioni nell'ambito dei sussistenti rapporti sociali: nel modo di produzione capitalistico lo Stato
e i suoi apparati, in prima e in ultima istanza, sono espressione e al servizio della classe
dominante e dei suoi interessi, ma questa funzione si è sempre storicamente dovuta
dialettizzare con la minaccia e con la sussistenza delle capacità conflittuali delle classi
subalterne e con le spinte talora divergenti delle differenti frazioni della borghesia. Lo Stato va
quindi inteso anche come una delle principali “arene” nelle quali si sviluppa la politica, con i
suoi conflitti e i suoi compromessi.
La “crisi” del nostro Stato sociale deve ovviamente essere collocata nell'ambito della più
generale “crisi dei regimi di Welfare” che si manifesta intorno alla metà degli anni '70, ma che
ha le sue radici nel decennio precedente. Le cause strutturali, infatti, andrebbero ricondotte
alla nuova crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali che colpisce il modo di produzione
capitalistico nella sua totalità intorno alla metà degli anni '60: quella crisi è alla base della
rottura del cosiddetto “compromesso fordista” tra capitale e lavoro che si dice avrebbe
caratterizzato i cosiddetti “trent'anni gloriosi” dello sviluppo dei regimi di Welfare nel secondo
dopoguerra. “Trent'anni gloriosi” come una fase specifica e per certi versi eccezionale dei
rapporti tra Stato e capitale, tra classe politica e interessi di classe confliggenti, rapporti
comunque funzionali alle condizioni della produzione capitalistica che si erano andati
determinando. Una fase nella quale la frazione dominante della borghesia è stata costretta da
una parte, e ha trovato convenienze dall'altra, a che si sviluppasse un determinato sistema di
sicurezza sociale dove il termine “sicurezza” non venisse declinato esclusivamente in termini
securitari e repressivi. Peraltro la spesa pubblica è vista con favore dal capitale solo nella
misura in cui contribuisce a ridurre i costi della produzione e del salario sociale complessivo
(diretto e indiretto).
In altri termini: alcuni dei caratteri storicamente determinati dal forismo-keynesismo sono stati
in quella fase funzionali dalle esigenze della produzione e della circolazione capitalistica. Una
fase nella quale il movimento operaio è riuscito non solo a conquistare progressivamente un
innalzamento dei salari diretti e indiretti, ma anche a limitare significativamente il potere
dell'impresa privata, sia nella produzione, sia nella sfera sovrastrutturale della regolazione
sociale.

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È proprio in risposta alla crescente capacità del movimento operaio di limitare le prerogative
dell'impresa e delle sue capacità di disporre della forza-lavoro che il capitale inizia, su scala
mondiale, una radicale fase di ristrutturazione tesa ad invertire i rapporti di forza.
Una ristrutturazione che riguarda innanzitutto l'ambito della produzione, ma che nel giro di
pochi anni contribuisce alla svolta delle politiche economiche e sociali promossa dall'ideologia
“neo-liberista” della fine degli anni '70. infatti dall'inizio degli anni '80 si inizia a manifestare in
forme eclatanti l'inversione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e l'attacco sempre più
esplicito ai caratteri più progressivi del Welfare, accompagnato dalla crescente manomissione
delle regole del mercato del lavoro, tese a proteggere diritti faticosamente conquistati dal
movimento dei lavoratori.
Questa “svolta epocale”, a lungo e attentamente preparata, viene legittimata in nome della
“deregulation”, del “meno Stato, più mercato”, della asserita “insostenibilità” economico-
finanziaria delle protezioni del Welfare, dell'attacco alle rigidità sulla base dell'assioma
dell'efficienza del mercato come miglior strumento di allocazione delle risorse, della retorica
sulla “libertà di scelta” del cittadino, ormai degradato al ruolo di “cliente”, tra una pluralità di
servizi che dovrebbero essere tra loro in competizione sul mercato delle organizzazioni for
profit e sul “quasi-mercato” del privato sociale finanziato dai fondi pubblici.
In questo quadro va ribadito che la “finanziarizzazione dell'economia” non indica affatto il
dominio degli speculatori contro i capitalisti produttivi, bensì che di fronte al decrescente
rendimento del capitale investito produttivamente si siano aperte nuove possibilità di
rastrellare le risorse già esistenti, non solo attraverso operazioni speculative, ma anche con un
enorme processo di mercificazione e rimercificazione che investe con forza anche il sistema
della protezione sociale pubblica: previdenza, sanità, assistenza sociale.
Una mercificazione che passa non solo per mezzo delle privatizzazioni formali ma anche
attraverso la crescente inadeguatezza delle risposte del welfare pubblico che aggrava
ulteriormente l'onere per le famiglie, quindi anche una rifamilizzazione del welfare che colpisce
innanzitutto le donne e i residui risparmi delle famiglie. Un ulteriore allarme proviene dai
recenti dati del Censis seconod il quale la spesa privata delle famiglie per sanità e assistenza
sociale è in diminuzione, sego di una crescente difficoltà di trovare una qualsiasi risposta a
molti bisogni essenziali.
Si tratta quindi si una “rivoluzione passiva” dove la ristrutturazione nella sfera della produzione
e della finanza si salda non casualmente con una torsione autoritaria delle politiche istituzionali
e dello Stato.
Nel pluridecennale dibattito che si è sviluppato sui modi per uscire dalla “crisi del Welfare”
l'approccio dominante ha individuato nel “Welfare Mix” la risposta “vincente”, grazie soprattutto
alla maggiore libertà e pluralismo che lo caratterizzerebbero rispetto alla tradizione “statalista”
del Welfare state.
Si sviluppa così, soprattutto a partire dagli anni '90, una pluralità di retoriche che si saldano
reciprocamente: sulle presunte virtù della “società civile” e delle organizzazioni del privato
sociale che la animano; sulla riscoperta della “reciprocità” e della “comunità” sulla
“sussidiarietà” come un meccanismo per valorizzare le risorse informali, nascoste nel fitto e
ricco reticolo delle relazioni sociali; sulla “solidarietà” che, anche nel dibattito scientifico e
politico, torna ad essere sinonimo di relazioni sociali dirette e immediate, rappresentate in
termini di beneficenza, altruismo, etica del volontariato, così da mettere in ombra il ruolo
fondamentale della mediazione sociale delle istituzioni.
Sul piano delle povicies, queste “nuove culture del Welfare” si traduco anche nel ritorno della
“prova dei mezzi” e della distinzione tra poveri meritevoli e non meritevoli; nella degradazione
dei diritti sociali in diritti condizionati dalle “compatibilità finanziarie”, in uno scenario in cui
centrali non sono più i bisogni e il benessere individuale e collettivo, ma i budget disponibili e i
pareggi di bilancio, secondo la compatibilità dettate dai nuovi manager del Welfare in campo
sociale e sanitario.
Il tutto all'insegna del nuovo ossimoro dell'”universalismo selettivo”, e di una razionalizzazione
del sistema che promette di eliminare gli sprechi in nome dell'efficienza e dell'efficacia, ma che
si traduce prevalentemente in un'ottusa politica di tagli indiscriminati alle risorse umane ed
economiche necessarie per delle politiche sociali adeguate a fronteggiare le vecchie e nuove
sfide del terzo millennio.

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IL WELFARE DELLA CRISI E I SUOI COSTI SOCIALI


le trasformazioni strutturali che si sono sviluppate sembrano allora preludere, più che a
un'uscita dalla “crisi del Welfare”, a un impantanamento nel Wevfare devva crisi che in molti casi
assume le caratteristiche del nuovo Workfare e finisce così col produrre sempre più working
poors, allargando ulteriormente la forbice delle diseguaglianze sociali; in cui la “libertà di
scelta” si traduce in maggiori difficoltà nell'accesso a servizi e quindi nel Welfare “per chi se lo
può permettere”; in cui la sicurezza sociale viene sempre più interpretata in termini securitari e
di controllo sociale autoritario, col fine di assicurare quel minimo di ordine sociale necessario
alla “libera impresa” e all'insostenibile leggerezza dei mercati finanziari.
Nonostante questo scenario, si deve aver ben presente che le classi dominanti non sono
interessate alla completa cancellazione del Welfare, per diverse ragioni, tra le quali:
– un minimo di sicurezza sociale deve essere garantita per evitare che le conseguenze
sociali della ristrutturazione capitalistica mettano in pericolo l'ordine sociale e per
scaricarne i costi sulla collettività;
– il sostegno rappresentato dal Welfare al salario indiretto e differito permette alle
imprese di minimizzare il costo del lavoro;
– la classe politica al potere ha, nella distribuzione degli interventi di protezione sociale,
un formidabile strumento di produzione del consenso e di legittimazione da utilizzare in
modo differenziale e disuguale così da poter mettere in contrapposizione gruppi sociali
portatori di istanze e bisogni diversi.
La presenza di alcuni elementi comuni alle diverse esperienze di Welfare rispetto alle modalità
di affrontare “la crisi” è allora interpretabile innanzitutto sulla base di due macro-fattori causali
che operano su scala mondiale:
– la capacità del Capitale di invertire i rapporti di forza rispetto al Lavoro;
– la nuova egemonia culturale e politica del “pensiero neo-liberista” che accompagna
questa inversione condizionando, in modi e intensità differenti, le diverse esperienze di
Welfare della società a “capitalismo avanzato”.
La centralità del riferimento al conflitto e alla dialettica sociale emerge con nettezza quando si
riconosca come in qualsiasi intervento di politica sociale e quindi in ogni assetto di Welfare
sono sempre presenti due funzioni fondamentali:
– il controllo sociale;
– la promozione del benessere individuale e collettivo.
È cruciale quindi analizzare anche la qualità, le caratteristiche, i modi del loro dispiegarsi: si
può affermare che il controllo sociale può essere esercitato in modo più autoritario o più
democratico e partecipato; così come la produzione di benessere può svilupparsi attraverso
strumenti e percorsi più o meno condivisi e obiettivi differenti e anche contrapposti:
emancipare tutti dal bisogno o, diversamente, sviluppare un sistema di protezione sociale che
segmenta e divide tra gruppi più o meno privilegiati.
In termini generali si può affermare che in tutta Europa la ristrutturazione del Welfare sembra
qualificarsi per alcuni elementi comuni: riduzione quantitativa e qualitativa dei livelli di
protezione sociale, rimercificazione dei bisogni, privatizzazione e disimpegno delle istituzioni
pubbliche dalla gestioni dei servizi. D'altra parte, le traiettorie di questo processo sono
significativamente differenziate in base alle diverse tradizioni nazionali di Welfare e sono
caratterizzate da una pluralità di fattori che condizionano diversamente i vari paesi.
La ristrutturazione del Welfare nell'aggravarsi della crisi capitalistica mondiale produce un
fortissimo aumento della miseria, della diseguaglianza, della sofferenza fisica e psichica di
milioni di persone, una macelleria sociale che si distingue per la ferocia e l'accanimento verso i
più deboli e gli “improduttivi”, una barbarie insomma, che rischia di superare per intensità e
qualità, quella sviluppatasi con la “Grande crisi” del '29 di cui non possiamo dimenticare gli
sviluppi in termini di totalitarismo, guerra e genocidio.
In conclusione si può affermare che, anche sul terreno della regolazione della protezione
sociale, siamo oggi di fronte ad un enorme processo di omogeneizzazione sociale differenziata
all'interno del quale si producono e si riproducono nuove e antiche linee di divisione che hanno
anche la funzione di ostacolare – sul piano materiale e delle coscienze – i processi di
ricomposizione di classe.

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