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Sociologia

Parte I: le norme sociali

Le norme sociali sono tutte quelle regole, scritte e orali, che prescrivono come devono comportarsi gli individui e i gruppi di
persone in determinate situazioni sociali e che definiscono le aspettative degli altri nei loro confronti.
Secondo una classificazione proposta dal sociologo Sumner, le norme sociali possono classificarsi in tre gruppi:
1) Stateways (= norme giuridiche), ovvero quelle norme emanate dallo stato il cui rispetto è obbligatorio per tutta la società;
2) Mores (= i costumi, dal latino), ovvero quelle norme tramandate oralmente che hanno un forte rilievo in termini di valore
morale (esempio = tradimento);
3) Folkways, ovvero tutte quelle usanze e consuetudini praticate all’interno della società che sono prive di riferimenti al valore
dell’etica che caratterizza i mores (esempio = indossare il pigiama per andare a letto e non per uscire di casa).
Possono essere esplicite (= le norme giuridiche sono sempre scritte affinché possano essere conosciute a tutti quanti, come gli
stateways) o implicite (= le consuetudini considerate scontate ma non formulate espressamente, come i mores e i folkways).

Parte II: le istituzioni

L’istituzione è l’insieme delle norme sociali tra loro coordinate, radicate nell’esperienza quotidiana degli individui, capace di
regolare un certo ambito di vita e di azione, istituendo ruoli e modelli di comportamento.
Sono istituzioni: il matrimonio, la famiglia, la religione, il sistema scolastico e giudiziario, ma anche il linguaggio e la scienza.
È un’entità simbolica: non si indentifica necessariamente con risorse materiali; la scuola non è solo gli insegnanti, gli studenti e
l’edificio dove si svolgono le lezioni.
All’interno di un’istituzione le persone occupano posizioni diverse e svolgono compiti differenti, inerenti alla posizione che
ricoprono, e creano determinate aspettative sociali: da un professore ci si aspetta che spieghi correttamente e che conosca la
materia che insegna, dall’alunno ci si aspetta un comportamento consono all’ambiente scolastico e che si impegni nello studio.
I sociologi chiamano status ciascuna di queste posizioni ricoperte da un individuo nell’istituzione, e ruolo il complesso di azioni
che ci si aspettano dal soggetto in virtù del proprio status.
Poiché nella società esistono diverse istituzioni e l’individuo è in rapporto con ciascuna di esse, ne consegue che ogni soggetto
assume su di sé una pluralità di status; alcuni vengono detti ascritti, ovvero quelli legati a condizioni che non dipendono dalla
volontà e dall’impegno del singolo (esempio = malato mentale), altri vengono detti acquisiti, poiché invece sono il frutto
dell’azione volontaria del soggetto interessato che matura un certo grado di professionalità in ciò che svolge (esempio =
medico, dirigente, ecc.)
Spesso lo status è correlativo perché si definisce in rapporto ad un’altra posizione sociale ad esso complementare (esempio =
medico/paziente, padre/figlia, ecc.); anche i ruoli che ne derivano sono complementari (esempio = il paziente si aspetta un
comportamento dal medico, il quale fa lo stesso nei confronti della persona che sta curando).
Essendo la nostra una società in cui coesistono differenti istituzioni, ricopriamo tanti status quanti ruoli e spesso questa pluralità
di ruoli ci porta a vivere vere e proprie situazioni conflittuali, che possono essere:
1) inter-ruolo (tra due o più ruoli ricoperti da un solo soggetto) = ruolo familiare e ruolo professionale;
2) intra-personale (interno al ruolo stesso) quando l’ambiguità e il contrasto tra la personalità e gli obblighi istituzionali rendono
difficile l’interpretazione del proprio ruolo = un sacerdote può trovarsi diviso tra l’obbedienza impartita dalla Chiesa e quella
imposta dalla propria morale.

L’evoluzione delle istituzioni


Generalmente, con il crescere della complessità sociale, si verifica un aumento delle istituzioni esistenti ed una crescente
specializzazione di esse: ad esempio, prima la famiglia assommava in sé una pluralità di funzioni (economica = unità produttiva
fondamentale, formativa = trasmissione conoscenze tecniche, e giuridica = la tutela delle donne era compito degli uomini), ora
invece esistono istituzioni specializzate ed apposite che tutelano e si occupano di ciascuno di questi aspetti.
Può accadere anche il fenomeno opposto, per cui un’istituzione esistente debba svolgere compiti che non aveva in precedenza,
moltiplicandone le funzioni: la scuola, che prima istruiva e preparava al mondo del lavoro, ora aggiunge a questi due compiti
anche l’opportunità di trovare supporto psicologico e sociale e di conoscere e socializzare con gli studenti.
Per capire a fondo i meccanismi delle trasformazioni delle istituzioni bisogna tenere in mente la distinzione introdotta da Merton
tra funzioni manifeste e funzioni latenti di un’istituzione: è possibile, infatti, che le finalità sociali di un’istituzione non si
sovrappongano agli scopi dichiarati dalla sua esistenza (esempio = la danza della pioggia ha la funzione manifesta di suscitare
precipitazioni, ma la finalità latente è quella di consolidare i legami all’interno del gruppo sociale).

La storicità delle istituzioni


Le norme imposte dalle istituzioni, seppur rigide, sono soggette a mutamento storico, che può avvenire in due modi diversi:
1) L’istituzione assume una crescente specializzazione, svolgendo meno compiti in modo più preciso (esempio = famiglia);
2) Il mutamento comporta l’assunzione di nuovi compiti da parte dell’istituzione, moltiplicandone le funzioni (esempio = scuola).
È bene ricordare la distinzione introdotta da Merton tra le funzioni manifeste e latenti dell’istituzione: le funzioni manifeste sono
quelle esplicitate e dichiarate apertamente, quelle latenti sono nascoste ed implicite (danza della pioggia: funzione manifesta =
evocare le precipitazioni; funzione latente = consolidare l’unità sociale del gruppo) e sono quelle più colpite dalle trasformazioni.
L’oggettivazione delle istituzioni
Il caso più semplice di oggettivazione è l’istituzione formata da un singolo individuo, che le norme sociali designano come
figura obbligata di riferimento in date situazioni (esempio = sciamano, a cui i membri della comunità attribuiscono particolari
funzioni divinatorie e taumaturgiche).
All’opposto, troviamo invece il contenuto normativo dell’istituzione plurisoggettiva, formato da un complesso di status e ruoli che
si concretizzano in strutture di ampie dimensioni: le organizzazioni.
Esse non costituiscono altro che il riempimento dei ruoli vuoti dell’istituzione, che assumono la loro identità; per meglio
comprendere questo concetto, la scuola è un’istituzione con dei ruoli ben definiti (preside, vicepreside, professore…):
l’organizzazione non è altro che il nome delle persone che ricoprono tali ruoli (preside Rossi, vicepreside Bianchi, professor
Verdi…); sono caratterizzate dall’aiuto reciproco ma anche dall’iniziativa individuale, che tuttavia va a confrontarsi con quella
degli altri, e sono tipiche della civiltà industriale.

La burocrazia
È la struttura tipica delle organizzazioni caratterizzata da una presenza di un personale stipendiato, una struttura gerarchica,
una divisione delle competenze e una regolamentazione dei comportamenti individuali.
La parola deriva dal francese “bureau”, ufficio, e dal greco “kratòs”, potere.
Fu Weber il primo a mettere in luce i tratti distintivi della burocrazia.
1) Personale stipendiato: lo stipendio dipende dall’organizzazione stessa e non da chi usufruisce dei suoi servizi; la
remunerazione è proporzionale all’incarico ricoperto dal soggetto;
2) Divisione delle competenze: la competenza della burocrazia di una certa organizzazione è limitata ad un unico ambito; i
compiti sono divisi in maniera rigida tra i soggetti che operano al suo interno in virtù di regole scritte che regolano il corretto
funzionamento della macchina organizzativa e burocratica;
3) Struttura gerarchica: ogni soggetto occupa una precisa posizione all’interno dell’organigramma dell’organizzazione, più o
meno superiore (in termini di ruolo ricoperto dal soggetto) rispetto a quello di un collega; vige il principio dell’impersonalità, per
chiamato anche ethos burocratico, e dipende dal rigoroso rispetto delle procedure necessario al corretto funzionamento
dell’organizzazione: ogni esigenza, motivazione o valutazione personale viene a meno, per rendere le procedure più efficienti.

Le disfunzioni della burocrazia


Per Weber, la burocratizzazione della vita sociale costituisce un processo inevitabile e irreversibile; autori a lui successivi hanno
sottolineato invece quanto la burocrazia finisca per produrre disfunzioni che rallentano le funzioni dell’organizzazione.
A questo proposito, Merton parla di trasposizione delle mete, principio per cui i mezzi predisposti per realizzare certi scopi
(come il rispetto delle procedure) finiscono per sovrapporsi a questi e per sostituirli, diventando nient’altro che una pura
costrizione formale che impegna i dipendenti in operazioni noiose e ripetitive a scapito di altre attività, rallentando il tutto.
Ulteriore disfunzione è data dal comportamento del burocrate che, vincolato al ligio rispetto delle norme e delle procedure,
manca di flessibilità e, quindi, fatica ad adattarsi al mutamento sociale e a fronteggiare le situazioni inattese o non previste dai
regolamenti, creando numerosi disguidi che si riversano nei confronti dell’utenza.

Parte III: la devianza

In genere, si definisce “deviante” ogni comportamento non conforme ai canoni di normalità e liceità di una società.
Nessun comportamento di per sé è deviante e ciò che appare tale in un certo contesto sociale può non essere giudicato nella
stessa maniera in un altro; però, il fatto che un certo atto possa apparire “normale” a chi lo compie non ne abolisce il carattere
deviante, se così lo definiscono i canoni socialmente costituiti.
Quando parliamo di “norme sociali” ci riferiamo ad una serie di regole di condotta, differenti per legittimazione e obbligatorietà.
La loro violazione genera forme diverse di devianza, che posso andare dal rifiuto più o meno cosciente delle convinzioni sociali
(la persona nuda in spiaggia) alle forme più efferate di criminalità.
Infine, l’esistenza di norme, diverse per contenuto e tipologia, pone problemi di “giurisdizione” tra le une e le altre norme.
Le usanze e i costumi morali non sono ugualmente praticati all’interno della società da tutti i membri, mentre le norme
giuridiche valgono in modo indifferenziato per tutti gli individui.
Può capitare anche che norme morali accettate e condivise dall’intera comunità divengano il sostegno di comportamenti che, di
fatto, sono devianti (esempio = la lealtà e il mantenimento della parola data sono generalmente reputati principi importanti a cui
improntare la condotta; l’importanza che essi hanno nel codice etico di gruppi devianti, come le cosche mafiose).

L’origine della devianza


Nella seconda metà dell’Ottocento, il criminologo Cesare Lombroso ipotizzò una natura biologica della devianza, arrivando a
concludere che ci fossero delle vere e proprie caratteristiche fisiche che permettevano l’identificazione dei criminali (come la
forma del cranio).
La specificità di un approccio sociologico alla devianza è data dal tentativo di correlare l’insorgenza delle condotte devianti non
con fattori prettamente individuali (di natura biologica, psicologica o biografica), ma con determinate variabili di natura sociale.
A tal proposito, fu la Scuola di Chicago a scrivere le prime opere in cui questi concetti venivano esposti: la condotta deviante
viene vista, quindi, come il prodotto di una particolare subcultura (un complesso di idee, usanze e valori che un certo gruppo
all’interno della società elabora, con il quale il soggetto socializza); inoltre, conclusero anche che un altro fattore che influisce
fortemente sulla predisposizione alla devianza è l’ambiente geografico in cui ci si trova, dove la disorganizzazione sociale
influenza le norme della società convenzionale.
Merton: il divario tra mezzi e fini sociali
Merton parte dalla constatazione che, all’interno della società, esiste un divario tra gli scopi proposti ai membri della stessa e i
mezzi disponibili per conseguirli, e afferma che il comportamento deviante rappresenterebbe un tentativo di appropriarsi dei
fini socialmente desiderabili per vie diverse dalla legalità, sollecitato dallo scarto tra aspirazioni e possibilità effettive.
Merton è consapevole che non tutti avvertono questo disavanzo; esistono, infatti, altre possibilità di reazione:
1) conformismo = l’individuo accetta gli scopi sociali senza conseguirli;
2) ritualismo = l’individuo si conforma alle condotte accettate dalla società, senza però credere nei valori proposti;
3) rinuncia = l’individuo rifiuta valori e mezzi proposti dalla società per raggiungere gli scopi;
4) ribellione = l’individuo, dopo il rifiuto degli scopi e dei mezzi, combatte per proporne di nuovi.
La teoria di Merton spiega molto bene la condotta deviante di individui e gruppi socialmente marginali, per i quali il
miglioramento dello status sociale appare irrealizzabile per vie legittime; tuttavia, i devianti non appartengono solamente a
queste categorie sociali: i reati e le attività socialmente deprecabili sono trasversali a tutte le fasce di popolazione.

La labelling theory
Nel libro «Outsiders» (1963), Becker traccia il primo profilo della teoria della devianza nota come «labeling theory» o «teoria
dell’etichettamento».
Si concentra sul processo di costruzione sociale del criminale, inteso come conseguenza di giudizi esterni, o etichette, che
modificano il concetto di sé dell'individuo e cambiano il modo in cui gli altri rispondono alla persona etichettata.
La definizione sociale del criminale dipende fondamentalmente da due aspetti:
1) la definizione sociale precisa ciò che deve essere ritenuto lecito e normale;
2) la definizione sociale circoscrive la situazione che si crea quando la norma socialmente stabilita viene infranta;
La stigmatizzazione dell’individuo etichettato come deviante implica conseguenze sociali che lo possono portano ad accettare
e interiorizzare questa definizione di sé, in una profezia che si auto-adempie, portando il soggetto a ristrutturare la propria
identità sociale, assimilando il giudizio ricevuto e facendolo suo; in altre parole, le considerazioni esterne riescono a plasmare la
personalità del soggetto a tal punto da farlo allontanare dalla normalità e facendogli intraprende la cosiddetta carriera deviante.
Opposta alla teoria di Becker, troviamo quella di Lemert, il quale distingue la semplice trasgressione della norma sociale
(= devianza primaria) dalla condizione di separazione dal corpo sociale in cui si ritrova il trasgressore in seguito
all’etichettamento (= devianza secondaria).

Parte IV: il controllo sociale

Con l’espressione controllo sociale si intende il complesso di strumenti che ogni società mette in atto per indurre le persone a
rispettare le regole costituite e per scoraggiare ogni forma di trasgressione; questi strumenti possono essere esteriori o interiori.
Sono strumenti esteriori le sanzioni inflitte alle condotte non conformi, che possono essere formali (quando si prevede il caso
di trasgressione e la sanzione è stabilita in partenza) oppure informali (quando la sanzione non è prestabilita = punizioni,
emarginazione, pettegolezzo…).
Sono strumenti interiori, invece, i meccanismi con cui si cerca di promuovere nelle persone il riconoscimento della loro
bontà ed efficacia e la scelta di farle proprie (esempio: scuola).

La modalità del controllo totale


L’intensità del controllo sociale può risultare estremamente variabile: il suo culmine lo si raggiunge con le istituzioni totali,
così chiamate da Goffman, dove egli comprende tutti quei sistemi di norme che fanno capo a strutture sociali (come carceri,
ospedali psichiatrici, ospizi…) in cui le persone tagliate fuori dalla società si ritrovano assieme per un periodo di tempo.
Sono dette totali perché si impadroniscono interamente del tempo e delle dimensioni esistenziali delle persone che vi risiedono,
spersonalizzandole e rendendole tutte uguali fra loro.

Significato e storia delle istituzioni penitenziarie


Le istituzioni penitenziarie rappresentano una delle principali forme di controllo esteriore della devianza.
In primo luogo, è un caso emblematico di pluralità di funzioni, aspetti e significati di cui l’istituzione è investita; in virtù della
connotazione che hanno assunto nell’età moderna, poi, possono tranquillamente definirsi come organizzazioni; infine, parlare
dei penitenziari significa interrogarsi sulla definizione sociale della devianza e sui comportamenti socialmente non conformi.
→ Fino alla seconda metà del Settecento, nelle società occidentali la prigione era il luogo in cui gli imputati aspettavano il
proprio giudizio: la forma tipica era il supplizio con torture, fustigazioni ed esecuzioni pubbliche.
Come affermato da Foucault, la punizione era una dimostrazione di forza del potere politico nei confronti del trasgressore
effettivo e potenziale, e ne giustificava sia la ferocia sia il carattere spettacolare che assumeva.
Perché nascesse il concetto moderno di prigione erano necessari un ripensamento della pena e la diffusione sociale di una
nuova sensibilità, contraria ai supplizi violenti e crudeli: questo avviene in Europa nel XVIII secolo, quando gli illuministi
invocarono la necessità di un diritto penale più razionale, che non andasse a deumanizzare la persona.
Parallelamente, si affermò anche quel processo di affinamento dei costumi e dei comportamenti che il sociologo Elias definì
zivilisation e che dai ceti più alti si diffuse gradualmente (Elias studiò a lungo la corte di Versailles e si rese conto di quanto
tutto ciò che accadeva all’interno di quella corte riusciva a plasmare ed ispirare il popolo francese del tempo).
Fu negli Stati Uniti, per iniziativa dei quaccheri (movimento religioso nato in Inghilterra) che nella seconda metà del Settecento
sorsero le prime carceri come le intendiamo noi oggi: il loro nome, penitentiary houses, permetteva al recluso l’espiazione
delle proprie colpe, attraverso isolamento e pratica quotidiana del lavoro.
A detta di Foucault, con la nascita delle prigioni moderne si assiste ad una nuova forma di punizione: la tecnologia disciplinare,
il cui scopo è monitorare e sorvegliare il corpo del detenuto, attraverso la definizione rigorosa di spazi, tempi e attività.
La funzione sociale del carcere
La definizione sociale del carcere rimanda alla questione circa lo scopo e il significato della pena inflitta al detenuto, non tanto
all’organizzazione, alle condizioni dei carcerati o all’efficacia effettiva della pena (seppur, quest’ultimo, un elemento importante).
A tal proposito, si possono individuare due tipologie di teorie:
1) Teorie retributive = nella pena si ritrova la giusta retribuzione del danno causato, proporzionale per entità alla gravità del
misfatto; è di questo avviso Hegel, che vede nella “legge del taglione” l’equilibrio necessario al ripristino del diritto violato;
2) Teorie utilitaristiche = la pena è giustificabile dal punto di vista della sua finalità sociale, a sua volta divisibile in:
A) forma di neutralizzazione del reo;
B) forma di prevenzione dei reati;
C) forma di rieducazione e recupero sociale
è di questo avviso lo studioso Beccaria che, in “Dei delitti, delle pene”, contesta la legittimità della pena di morte, affermando
che solo l’infallibilità sostituita alla crudeltà può servire a rieducare le condotte trasgressive.

Funzioni manifeste e latenti della detenzione


Rispetto alla teoria proposta da Merton, Durkheim aveva identificato nella rottura del legame sociale l’elemento costitutivo di
ogni comportamento criminale, affermando che la sanzione prevista per il reato commesso aveva sì una funzione manifesta, ma
anche un aspetto latente assimilabile ad una sorta di “rituale collettivo” in grado di ripristinare simbolicamente questo legame; lo
scopo più profondo della sanzione non sarebbe, quindi, quello di punire la condotta deviante, ma di rafforzare i vincoli sociali
che si vengono a rompere mettendo in atto tali condotte.

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