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CAPITOLO 15: GESTIRE LE PERSONE NELLA PROSPETTIVA INTERNAZIONALE

Il processo di crescente apertura e integrazione a livello internazionale delle economie,


comunemente noto con il termine di globalizzazione, ha conosciuto un’accelerazione
straordinaria dopo la Seconda Guerra Mondiale. Oltre alle vendite, l’internazionalizzazione può
coinvolgere tutte le fasi della catena del valore, dagli approvvigionamenti alla produzione, fino ad
arrivare alla ricerca e sviluppo, sia attraverso investimenti diretti esteri sia ricorrendo ad una vasta
gamma di forme intermedie: alleanze internazionali, produzione locale su licenza, distribuzione
in franchising, contratti di subfornitura (outsourcing internazionale) e delocalizzazione produttiva
all’estero (offshoring). L’esistenza di differenziali significativi nel costo del lavoro tra Paesi
costituisce un incentivo molto forte, anche se l’unico, alla nascita delle multinazionali e ai
fenomeni di outsourcing e offshoring internazionali. Oltre al costo del lavoro, esistono differenziali
tra Paesi e regioni del mondo, anche in termini di capitale umano, che influiscono sulle scelte di
internazionalizzazione delle imprese. La globalizzazione ha creato opportunità di sviluppo
straordinarie ma pone molte sfide anche alle imprese che operano solo su scala domestica che
devono riuscire a stare al passo con una maggiore pressione competitiva.

INTEGRAZIONE GLOBALE E DIFFERNZIAZIONE LOCALE


Nel pianificare come competere in ambito internazionale, tutte le organizzazioni si trovano a
dover definire il proprio posizionamento strategico rispetto a due approcci tendenzialmente
opposti:
• La differenziazione locale che spinge ad utilizzare politiche diverse in ogni Paese/area
geografica;
• L’integrazione globale che porta ad uniformare le politiche nei vari Paesi/aree in modo
da sfruttare economie di scala e rinforzare coerenza ed integrazione interna.
Le imprese che scelgono la differenziazione locale come orientamento strategico di fondo
tenderanno a riconoscere ampia autonomia alle filiali estere nei vari ambiti di gestione, compresa
la definizione delle politiche HR. Al contrario, nelle organizzazioni che si ispirano ad un
approccio globale, ci sarà una maggiore pressione interna ad implementare nei vari Paesi processi
uniformi, o comunque, a ricercare coerenza nelle politiche adottate, anche rispetto alla gestione
delle persone.
Rispetto alla gestione delle risorse umane, tali fattori si riconducono a due elementi fondamentali:
- L’assetto istituzionale;
- La cultura nazionale.
Il primo si riferisce alle peculiarità che ogni Paese presenta rispetto alle sue istituzioni
fondamentali che comprendono il Governo, l’ordinamento legislativo, il sistema educativo, il
mercato del lavoro, i sindacati, le istituzioni economiche. Le differenze istituzionali possono
incidere significativamente sulle politiche HR. Il secondo fattore riguarda la cultura che può
essere definita come il sistema di valori, credenze, norme, artefatti, simboli e significati
socialmente acquisiti che influisce sul modo di percepire, pensare e agire dei membri di una
comunità.
Una parte della letteratura accademica ritiene che le differenze istituzionali e culturali tra Paesi
siano destinate ad attenuarsi progressivamente per effetto della globalizzazione e con una
conseguente spinta all’omologazione culturale e istituzionale tra regioni del mondo. È la
cosiddetta tesi della convergenza, secondo la quale le pressioni dell’isomorfismo competitivo
operano sempre di più a livello transnazionale spingendo le imprese ad adottare le stesse pratiche
e modelli di gestione in tutto il mondo. Un’altra parte della letteratura si oppone a questa lettura
sostenendo che le specificità istituzionali e culturali dei diversi Paesi continueranno ancora ad
esistere e ad esercitare un’influenza determinante per il successo dell’ambiente internazionale. Ad
oggi esistono evidenze a supporto dell’una e dell’altra tesi, per cui sembra più ragionevole la
posizione di chi sostiene che entrambe le tendenze alla convergenza e divergenza operino allo
stesso tempo, con effetti contrastanti.

Una platea sempre più ampia di organizzazioni si trova oggi a doversi confrontare con le
differenze culturali nella gestione delle risorse umane. Oltre a dover gestire la multiculturalità al
proprio interno, molte imprese si trovano nella necessità di preparare i propri collaboratori a
relazionarsi efficacemente con fornitori, clienti e partner di altre culture poiché con la
globalizzazione è aumentato il ricorso ad alleanze e collaborazioni internazionali, a fusioni ed
acquisizioni cross-border e a supply-chain transnazionali. La prima ricerca ad aver messo in luce
questo fattore di complessità si deve a Hofstede, psicologo olandese che studiò l’IBM tra il 1967
e il 1973, oggi considerato il fondatore del filone di studi sul cross-cultural management. La
sua ricerca ha permesso di individuare delle dimensioni culturali che sono particolarmente
rilevanti nei contesti lavorativi e, rispetto alle quali, si registrano variazioni significative tra Paesi.
Le dimensioni sono le seguenti:
• Distanza di potere: si riferisce alla differenza di potere ammessa e ritenuta socialmente
accettabile in una cultura;
• Avversione all’incertezza: si riferisce alla propensione ad evitare il rischio e l’ambiguità;
• Individualismo-collettivismo: indica in che misura si ricorre all’azione individuale o a quella
collettiva per la soluzione dei problemi, la soddisfazione dei bisogni, la definizione degli
assetti sociali;
• Mascolinità-femminilità: si riferisce al grado con cui vengono enfatizzati i valori associati agli
stereotipi di mascolinità e di femminilità;
• Ordinamento al lungo-breve termine: riflette il rapporto di una cultura verso il futuro.
Attraverso queste dimensioni, la ricerca di Hofstede identifica le posizioni relative dei diversi
Paesi su una scala da 1 a 100, fornendo una sorta di mappa per orientarsi sulle differenze culturali
nel mondo.

Tra le ricerche più recenti e significative, è sicuramente da menzionare il progetto GLOBE


(Globe Leadership and Organizational Behavior Effectiveness), avviato nel 1992 e tuttora in corso, che
studia i valori culturali, gli stili di management e la leadership in 62 paesi. Seguendo l’approccio
di Hofstede, il progetto GLOBE misura le differenze tra Paesi in termini di punteggio calcolato
su 9 dimensioni culturali. In aggiunta a tre dimensioni già incluse nel modello di Hofstede
(distanza di potere, avversione all’incertezza, orientamento verso il futuro), le altre sei dimensioni
considerate sono:
• Assertività: si riferisce a quanto ci si aspetta che le persone siano dure e competitive
piuttosto che tenere e modeste;
• Orientamento al risultato: misura quanto è importante il livello della prestazione e il
conseguimento degli obiettivi;
• Orientamento alla relazione: si riferisce alla misura in cui una società incoraggia e premia la
lealtà, la generosità, l’altruismo;
• Uguaglianza di genere: fa riferimento alle differenze e alla discriminazione di genere
nell’organizzazione della società;
• Collettivismo istituzionale: misura quanto una cultura promuove la partecipazione attiva nelle
istituzioni;
• Collettivismo di gruppo: misura quanto una società pone enfasi e importanza all’appartenenza
a gruppi distintivi come la famiglia o il network di amicizie.
Le ricerche prese in esame individuano delle differenze culturali tra Paesi che si riflettono sui
modi di comunicare delle persone, e sui loro orientamenti valoriali e attitudini comportamentali.
Il rischio di ignorarle quando si interagisce con persone di culture diverse è quello di provocare
fraintendimenti e situazioni di disagio che potrebbero pregiudicare i rapporti professionali e le
relazioni di lavoro. La distanza di potere e l’avversione all’incertezza influenzano due
fondamentali parametri di progettazione organizzativa: il grado di accentramento e il grado di
formalizzazione. Generalmente, nelle società caratterizzate da alta distanza di potere è più
frequente riscontrare assetti organizzativi caratterizzati da un elevato grado di accentramento
decisionale. Nelle società caratterizzate da elevata avversione all’incertezza le organizzazioni
tendono ad essere più burocratiche.
Il valore degli studi sulle differenze culturali è quello di mettere in guardia le organizzazioni e i
manager circa i pericoli dell’etnocentrismo, ovvero la convinzione che la propria cultura, la lingua
e i comportamenti del proprio Paese di origine siano superiori a tutti gli altri e che, per tale
motivo, siano solo gli altri a doversi adeguare. La chiave per operare con successo in un contesto
internazionale sta, invece, nell’essere consapevoli delle differenze culturali e nel capire come si
possono trarre vantaggi e sinergie proprio dalle differenze, vedendo in esse un’opportunità più
che una barriera. Alcune imprese hanno cercato di valorizzare la diversità e pluralità culturale
vedendo in essa una potenziale fonte di vantaggio competitivo. Lo sforzo in questa direzione
diventa quello di costruire una cultura organizzativa metanazionale in cui anche stakeholder
provenienti da background culturali diversi possano riconoscersi e che riesca a combinare gli
aspetti migliori delle diverse culture. Alcune delle pratiche adottate per realizzare questo
ambizioso obiettivo sono le seguenti:
• Mappare le nazionalità e i gruppi etnici presenti dentro l’impresa;
• Assicurare che tutti i processi HR, a partire dal reclutamento, favoriscano l’inclusività e la
diversità culturale;
• Devolvere parte della responsabilità e della discrezionalità nella gestione del Diversity
management dalla casa madre alle sedi estere in modo che possano identificare gli aspetti
più critici rispetto al contesto locale;
• Intensificare le relazioni tra collaboratori e sedi che operano nei diversi Paesi ed utilizzare
la mobilità internazionale come leva di sviluppo manageriale e organizzativo;
• Assicurare che la diversità geografica dell’impresa sia adeguatamente rispecchiata nella
composizione culturale del top management team e a tutti i livelli dell’impresa in cui si
prendono decisioni di rilevanza strategica.

LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE INTERNAZIONALI

POLITICHE DI GLOBAL STAFFING


I principali compiti che la direzione risorse umane deve affrontare per accompagnare il processo
di internazionalizzazione sono i seguenti:
- Implementare politiche e pratiche HR;
- Integrare e coordinare attività, politiche e pratiche su scala globale;
- Assicurare lo sviluppo e/o il reclutamento di persone in grado di operare in un ambiente
internazionale e di confrontarsi con persone di culture differenti.
Quest’ultimo punto è particolarmente rilevante perché crescere sui mercati internazionali richiede
di poter disporre di manager con un mindset globale. Ciò spiega perché il global staffing, vale a
dire la selezione delle risorse per la copertura dei ruoli nei diversi paesi, sia ritenuto un processo
chiave per il successo delle imprese internazionalizzate. Una scelta importante riguarda
l’alternativa tra reclutare direttamente all’estero le risorse per coprire ruoli internazionali o
scegliere percorsi di mobilità interna. Naturalmente il contesto di una grande impresa
multinazionale, si ricorre abitualmente ad entrambi, ma l’approccio prevalente riflette
l’orientamento strategico dell’impresa verso l’ambiente internazionale. Le principali alternative
per ricoprire posizioni manageriali nelle diverse sussidiarie estere sono le seguenti:
▪ Identificare dirigenti di nazionalità della casa madre, i cosiddetti Parent-Country National
(PCN), da inserire nei programmi di espatrio. La scelta dei PCN consente di esercitare
un controllo più stretto sulle attività internazionali, di favorire l’adesione ai valori e agli
obiettivi della casa madre e facilitare il trasferimento di politiche, prassi e conoscenze dalla
corporate alle sussidiarie estere.
▪ Scegliere dirigenti e collaboratori di nazionalità del Paese di destinazione, i cosiddetti Host-
Country National (HCN). Oltre ad offrire un vantaggio economico, la scelta di assumere
manager locali facilita la comprensione delle specificità e delle esigenze del mercato estero
e la gestione efficace di relazioni con clienti, fornitori e istituzioni locali. La scelta degli
HCN costituisce un segnale di apprezzamento delle capacità e delle professionalità
presenti nelle diverse sussidiarie.
▪ Selezionare manager provenienti da Paesi terzi, i cosiddetti Third-Country National (TCN).
La selezione di TCN presenta tre principali vantaggi: permette di affidamento su
collaboratori che hanno già maturato un’esperienza internazionale in altri contesti;
favorisce una cultura organizzativa cosmopolita realmente credibile agli occhi degli
stakeholder interni ed esterni; consente di formare team manageriali internazionali in
grado di sostenere un orientamento strategico di tipo globale.
In passato, l’orientamento di molte multinazionali era quello di ricorrere prevalentemente ai PCN
per ricoprire incarichi di rilievo nelle sussidiarie estere e di utilizzare il personale locale
prevalentemente in ruoli operativi. Tale approccio, tuttavia, ha mostrato nel tempo molti limiti.

LA GESTIONE DEI PROGRAMMI DI MOBILITA’ INTERNAZIONALE


Il grado di articolazione e strutturazione dei programmi di mobilità internazionale può variare
significativamente in funzione dello stadio di internazionalizzazione dell’impresa, della sua
dimensione, dell’orientamento strategico adottato e anche della finalità che si intende raggiungere
attraverso la mobilità internazionale. Nelle aziende che hanno raggiunto uno stadio significativo
di sviluppo internazionale e che puntano su un approccio strategico globale, la gestione della
mobilità internazionale costituisce una delle leve più importanti per assicurare lo sviluppo delle
risorse manageriali di cui ha bisogno l’impresa e per favorire l’integrazione e il coordinamento di
un’organizzazione geograficamente dispersa e culturalmente eterogenea. In tali casi la “gestione
degli espatriati” costituisce un ambito specifico di competenza del sistema di gestione delle risorse
umane cui dedicare un’attenta progettazione e adeguati investimenti. Un’attenta pianificazione e
gestione dei programmi di mobilità internazionale deve tener conto di tutte le fasi in cui si articola
l’esperienza internazionale, da quella iniziale di preparazione che precede la partenza a quella
conclusiva del rientro in patria o dell’eventuale riassegnazione ad un nuovo incarico
internazionale. La prima fase consiste nella preparazione dei candidati da assegnare a incarichi
internazionali. Sia la selezione che la formazione sono cruciali per aumentare le probabilità di
successo dell’espatrio, che andrebbe valutato rispetto a tre indicatori di efficacia:
▪ Il grado di adattamento personale;
▪ Il livello di performance professionale;
▪ Il grado di adattamento interpersonale.
Sia il processo di selezione sia il percorso formativo degli espatriati devono essere progettati con
l’obiettivo di scegliere e formare candidati che abbiano il profilo idoneo a raggiungere tutte e tre
le misure di efficacia suddette. La selezione dovrebbe tener conto delle competenze interculturali,
nonché delle motivazioni profonde che spingono la persona ad intraprendere un’esperienza
internazionale per valutare sin dall’inizio se vi possa essere convergenza con i piani
dell’organizzazione e le opportunità che potrà realisticamente offrire all’espatriato a conclusione
del suo incarico estero.
Fasi e criticità degli incarichi esteri:

Preparazione
all'incarico

Rientro e Arrivo e
adattamento adattamento

Preparazione
al rientro

Nella fase di preparazione è importante fornire ai potenziali candidati tutte le informazioni e


conoscenze necessarie a valutare in modo realistico l’incarico internazionale al fine di permettere
una valutazione accurata delle opportunità e difficoltà professionali, sociali e familiari cui andrà
presumibilmente incontro. La seconda fase ha inizio con il trasferimento all’estero e l’inserimento
nel nuovo incarico. L’aspetto più critico da affrontare è quello che viene comunemente definito
shock culturale, che consiste nel senso di disorientamento e/o inadeguatezza che l’individuo
sperimenta quando vengono a mancare i punti di riferimento culturali ai quali è ancorato. Lo
shock culturale è un’esperienza pressoché inevitabile e costituisce un momento essenziale nel
processo di apprendimento e adattamento al nuovo contesto. Nel periodo di inserimento,
l’espatriato può anche andare incontro a uno shock da ruolo che si manifesta quando percepisce
uno scostamento tra le proprie aspettative riguardo al ruolo professionale e quelli che sono in
realtà i compiti assegnati. Ciò può derivare anche da una concreta presa di coscienza della
diversità con cui un ruolo professionale viene svolto in patria e all’estero. Già prima della
scadenza dell’incarico internazionale, sarebbe opportuno che l’individuo e l’organizzazione si
preparino a gestire il rientro. In questa fase, l’aspetto più critico sta sicuramente nell’avviare un
confronto sulle opportunità di carriera e sviluppo più adeguate rispetto alle aspettative e alle
ambizioni che nel frattempo la persona ha maturato e le opportunità e i piani che l’organizzazione
è in grado di offrire. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la fase del rientro è
particolarmente delicata e può generare serie difficoltà di reinserimento nell’organizzazione e nel
Paese di origine tanto da configurare, in taluni casi, un vero e proprio shock da rientro. Tale
shock si manifesta con una sensazione di disorientamento e stress rispetto alla diversità realtà
professionale, sociale e individuale che l’espatriato ritrova al suo rientro rispetto al passato e/o
alle aspettative che nel contempo ha maturato. L’organizzazione può adottare diverse misure per
facilitare il reinserimento. La più importante è dotarsi, seppure con la necessaria flessibilità, di
sistemi di gestione delle carriere internazionali sufficientemente articolati da prevedere sin
dall’inizio dell’incarico le posizioni che gli espatriati potranno ricoprire al rientro dall’estero.

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