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ETCA – NELLI.

LEZIONE 1.
Premesse fondamentali.
La comunicazione crea e diffonde significati simbolici e valore economico, ma può anche distruggere
significati e valori.
Es. Google: Larry Page si scusa per il pasticcio. Bruciata capitalizzazione per 24 miliardi di dollari.
“mi spiace per il pasticcio di oggi”. Non ha usato molte parole l’amministratore delegato di Google, Larry
Page, per spiegare la fuga di notizie che ha portato alla pubblicazione anticipata dei conti del terzo
trimestre. Uno “scramble”, un pasticcio appunto, che ha fatto crollare il titolo dell’11% ed è costato alla
società 24 miliardi di dollari. Page ha liquidato la questione dicendo che i risultati di bilancio “sono stati
diffusi un po’ prima del necessario”, preferendo invece concentrarsi sul “solido trimestre” e su una
“performance per cui essere felici”.
I simboli rappresentano un’identità. Segni e significati devono portare valore economico, altrimenti non ci si
investe. Se si commettono errori, si butta via denaro. I danni si fanno e possono essere gravi.

Cresce il bisogno di comunicazione.


Il crescente bisogno di comunicazione si traduce in domanda di beni e di servizi funzionali alle attività
comunicative.
Il sistema comunicazione prevede almeno 4 grandi mercati:

L’offerta proviene dalle imprese a sinistra, mentre la domanda dai soggetti a destra.

La comunicazione aziendale.
La comunicazione aziendale è l’insieme delle manifestazioni attraverso le quali l’azienda attiva di fatto un
processo di comunicazione con uno o più pubblici, ai quali propone uno o più aspetti della propria identità.
Con “di fatto” si intende che l’azienda ne sia consapevole o meno.
Esistono 4 principi della cultura della comunicazione aziendale.
1. L’azienda, per il solo fatto di esistere, possiede una identità e di conseguenza una reputazione.
2. Qualunque aspetto o attività dell’azienda contribuisce a delinearne l’identità e di conseguenza la
reputazione. (anche senza fare niente; al massimo si può comunicare consapevolmente, ma l’azienda
comunica in ogni istante).
3. Per quanti sforzi l’azienda possa fare, non riuscirà mai a gestire completamente la propria reputazione.
4. Solamente la presentazione veritiera degli aspetti della propria identità consentirà all’azienda di
perseguire i propri obiettivi di medio e lungo periodo.
Il processo di comunicazione.
Processo attraverso il quale una persona, un’azienda o un ente si pone in relazione con una o più persone,
aziende o enti, avvalendosi a tal fine di simboli verbali e non verbali.
È quindi un processo di scambio.
Uno dei problemi è la scelta del simbolo giusto, del linguaggio giusto.

Come funziona?
Abbiamo una fonte (mittente) e un ricevente (destinatario). Questi due soggetti devono essere messi in
relazione tra loro.
La fonte promuove il processo di comunicazione e lo fa perché ha degli obiettivi (es. la Barilla vuole vendere
la sua pasta). Per far questo ha in testa un oggetto della comunicazione, cioè delle cose da raccontare.
Quello che si trasmette non è tanto l’oggetto, ma un messaggio.
Il messaggio è fatto da simboli, che arrivano al destinatario attraverso un canale.
Per formulare questo messaggio, la fonte codifica il contenuto, che viene successivamente decodificato dal
ricevente. La decodifica permette al ricevente di capire il messaggio.
Di conseguenza, il ricevente attua degli effetti, una reazione (es. l’acquisto della pasta).
Feedback: risposta immediata del ricevente; è preziosissimo.

LEZIONE 2
La comunicazione aziendale.
Secondo la forma di comunicazione attivata (modalità), si distinguono manifestazioni:
➢dirette a carattere interpersonale: è tipica dei piccoli gruppi, i quali hanno molte cose in comune, tra
queste una forte comunanza di codici e simboli (es. tra colleghi, amici…);
➢dirette a carattere non personale: comunicazione senza elementi di comunanza così forte da considerare
il gruppo micro-gruppo. Importante è la condivisione naturale dei codici. Si utilizzano codici che si auspica
siano comunque condivisi (ad es. la comunicazione che utilizza a lezione il professore, o quella tra colleghi di
aree diverse…);
➢di massa: è mediata dai mezzi di comunicazione di massa (mass media). Si parla a grandi numeri di
soggetti con tutti i problemi della comunicazione non personale, ma con in più la non-immediatezza del
feedback.
Un’impresa si trova a comunicare in tutte queste modalità.

Secondo la loro valenza (valore, significato) comunicativa, si distinguono manifestazioni:


1. Connesse alla struttura, all’organizzazione e alle attività aziendali, aventi implicitamente potenzialità e
valenze di comunicazione; molto importante per la piccola-media impresa.
2. Sviluppate esplicitamente dall’azienda, al fine di attivare consapevolmente uno specifico processo di
comunicazione.

2. Vediamo ora la comunicazione esplicita.


La comunicazione esplicitamente sviluppata dall’azienda può essere distinta in due vaste aree:
-il sistema di identità visiva (forma): modo in cui l’azienda si rappresenta. Fondamentale soprattutto per la
piccola-media impresa; è ciò che rappresenta l’azienda. Il sistema di identità visiva è composto dal marchio,
il logotipo, colori istituzionali, caratteri da stampa istituzionali, gabbie grafiche, ambienti (architettura e
arredamento), segnaletica interna ed esterna, mezzi di trasporto, stampanti, esposizioni, oggettistica….
-la comunicazione integrata (contenuto): viene chiamata integrata perché troviamo aree di comunicazione
che devono auspicabilmente essere coerenti tra di loro (integrati).
Sono 4 le grandi aree in cui si esprimono i contenuti:

_Comunicazione istituzionale (corporate communication): si pone l’obiettivo di perseguire la legittimazione


dell’azienda nell’ambiente sociale in cui opera. Non solo quindi nell’ambiente economico, ma nel contesto in
cui l’azienda opera.
Con questo tipo di comunicazione non si parla al consumatore, ma agli altri stakeholders, come istituzioni
pubbliche, collettività, mass media, associazioni di categoria…
Sono 4 le principali forme di questo tipo di comunicazione:
➢pubblicità istituzionale; ➢sponsorizzazione istituzionale;
➢relazioni pubbliche istituzionali; ➢bilancio sociale e ambientale.
_Comunicazione organizzativa e di confine: si pone l’obiettivo di ottimizzare l’impiego delle risorse umane
(dipendenti, collaboratori, partner o anche attori di altre imprese integrate nei processi produttivi) che
fanno capo all’azienda.
Questa è l’evoluzione della comunicazione interna. Oggi non si chiama così perché il confine tra interno ed
esterno non è così semplice da individuare. Molte relazioni sono al confine. Questa è ne rapporti con i
partner commerciali, dipendenti, collaboratori…
Sono 3 le principali forme:
➢comunicazione di coordinamento; ➢comunicazione di orientamento strategico;
➢comunicazione di omologazione e di controllo.
_Comunicazione per il reperimento delle risorse: si pone l’obiettivo di far conoscere le condizioni di impiego
delle risorse nell'impresa; per rendere attrattiva l’impresa come investimento.
È la vecchia comunicazione finanziaria.
Sono 3 le principali forme:
➢comunicazione ai portatori di capitale; ➢comunicazione al mercato del credito;
➢comunicazione al mercato del lavoro e ai portatori di know-how.
_Comunicazione di marketing: si pone l’obiettivo di ampliare e consolidare il mercato di sbocco dell’azienda.
Sono 5 le principali forme:
➢ pubblicità di prodotto; ➢ promozione delle vendite;
➢ sponsorizzazione di prodotto; ➢ relazioni pubbliche di prodotto;
➢ comunicazione della forza di vendita.
Se è vero che la comunicazione integrata è auspicabile, bisogna anche dire che è difficile da raggiungere.
Inoltre, spesso esistono anche ragioni per la specializzazione.

I concetti di immagine e di reputazione.


L’immagine aziendale.
Il concetto di immagine, riferito sia all’azienda nel suo complesso che al prodotto, trova la sua origine nella
letteratura statunitense dei primi anni Cinquanta, in un contesto socioeconomico nel quale emerge una
sempre maggiore attenzione agli aspetti relazionali e comunicativi dei rapporti che si instaurano all’interno
dell’azienda e tra questa e il suo ambiente esterno.
All’origine del concetto di immagine aziendale vi è l’analogia tra il carattere dell’azienda e la personalità
dell’individuo, che riprende l’idea propria del sistema giuridico statunitense di considerare l’organizzazione
alla stregua di un individuo, con le sue abitudini, le sue tradizioni e una sua precisa personalità.
Per comprendere il ‘carattere’ dell’azienda occorre esaminare quattro aree decisionali:
➢ la scelta del settore in cui l’azienda intende operare e la posizione che al suo interno essa desidera
assumere;
➢ l’enfasi che viene posta sulla stabilità della gestione rispetto alla predisposizione al cambiamento;
➢ le modalità di rapporto dell’azienda con il contesto sociale nel quale opera (social philosophy of the
company);
➢ la filosofia di gestione dell’azienda nel suo complesso (management philosophy of the company).
Con la fine degli anni Cinquanta si aprono due filoni di studio sulla corporate image che si sviluppano poi nei
decenni Sessanta e Settanta:
-in ambito istituzionale, con i professionisti delle relazioni pubbliche sempre più fortemente interessati al
tema dell’immagine aziendale;
-in ambito commerciale, con una lunga serie di ricerche empiriche volte a valutare il legame tra la corporate
image e le decisioni di acquisto dei consumatori.
La reputazione aziendale.
Con l’inizio del decennio Settanta il vasto dibattito che si era acceso intorno al concetto di immagine
aziendale si affievolisce e si affaccia, affermandosi presto, nell’ambito della letteratura di matrice
microeconomica, il concetto di corporate reputation.
La corporate reputation esprime la sintesi di un vasto insieme di segnali che l’impresa trasmette agli
stakeholder nel corso del tempo con riferimento al suo agire strategico, in modo sia esplicito che implicito.
In condizioni di incompleta o di imperfetta informazione, gli interlocutori dell’impresa recepiscono e
interpretano questi segnali, che per loro costituiscono rilevanti fonti di informazione e di valutazione, e
presumono razionalmente il comportamento futuro dell’impresa; maturano conseguentemente le proprie
aspettative e giungono infine a formulare le proprie decisioni.
La coerenza dei comportamenti dell’impresa con i segnali che ha inviato nel tempo e la conseguente
risposta alle attese formulate dai suoi stakeholder determinano la formazione della reputazione aziendale.
La reputazione è qualcosa che si deve non solo costruire, ma anche custodire, poiché si rischia di rovinarla
in modo molto rapido e con conseguenze incredibili.
Esempio: Ratner e la sua impagabile battuta.
Gerald Ratner che fu l’amministratore delegato della più grande catena di gioiellerie inglese degli Anni 80, la
Ratners Group. Sotto la sua gestione la compagnia crebbe enormemente divenendo una specie di Zara dei
gioielli. Grazie alla diffusione dei negozi e ai prezzi bassi, tutti gli inglesi potevano permettersi di acquistare
un gioiello, un bracciale o degli orecchini d’oro. Ratner divenne così celebre al grande pubblico e mostrò da
subito una grande simpatia grazie alla sua battuta facile. I suoi interventi in tv e sui giornali erano
caratterizzati da un forte senso dell’umorismo che spezzava piacevolmente la serietà solitamente attribuita
ai gioiellieri incravattati.
Ma nel 1991 il misfatto. Invitato all’Institute of Director di Londra, un meeting fra i più grandi imprenditori
inglesi, Gerald Ratner preparò un discorso. In questa occasione estremamente formale Ratner decise di non
inserire battute umoristiche nel testo. Purtroppo, però, quando lo lesse al suo staff prima di pronunciarlo in
pubblico, qualcuno si lamentò dell’eccessiva serietà del discorso e lo convinse ad inserire una o due battute
perché costituivano il marchio di fabbrica dell’imprenditore, ciò che lo rendeva tanto amato dal pubblico.
Gerald Ratner, incontenibile simpaticone, si fece convincere e il risultato fu questo:
“Molti si chiedono come faccia un paio di orecchini d’oro ad essere più economico di un panino di
McDonald. Probabilmente il panino durerà più a lungo”.
Non soddisfatto sferra il colpo di grazia: “Facciamo anche un decanter da Sherry completo di sei bicchieri su
un vassoio argentato col quale il vostro maggiordomo può servire le bevande, tutto per £ 4,95. La gente
dice: “Come si può vendere questo ad un prezzo così basso?”, dico “perché è merda totale”.
Dal giorno dopo la stampa e l’opinione pubblica travolsero il povero Gerald Ratner, il quale pur avendo
chiesto scusa dovette chiudere quasi tutti i suoi punti vendita e licenziare gran parte del personale.
Ciò che restava della compagnia dopo le sue dimissioni dovette cambiare nome in Signet Group.
Ogni cosa prodotta ha un valore intrinseco e un valore percepito.
In questo modo Ratner ha offeso i propri clienti che percepivano valore nei suoi oggetti, nonostante questi
avessero poco valore intrinseco.
LEZIONE 3.
La reputazione aziendale.
I tre elementi essenziali della reputazione:
➢ la dimensione temporale: la formazione della reputazione richiede la consistenza delle azioni
dell’impresa per un lungo periodo di tempo;
➢ l’ampiezza degli interlocutori dell’impresa, sia interni sia esterni, coinvolti nel processo di formazione
della reputazione;
➢ le fonti della reputazione: esperienza e informazione.
-L’esperienza fa riferimento alla storia delle relazioni dirette che un soggetto ha avuto con l’impresa.
-L’informazione può riguardare una molteplicità di aspetti e coinvolgere elementi di natura sia economica
sia non economica, che ciascuna classe di stakeholder ritiene importanti per valutare i comportamenti e le
performance aziendali.
L’informazione può essere resa disponibile:
_mediante la comunicazione che l’impresa pone esplicitamente in essere e rivolge ai suoi interlocutori;
_attraverso la diffusione di notizie operata dai mass media;
_per mezzo dell’azione di altri soggetti (opinion leader, esperti ecc.) e del passaparola che si attiva
spontaneamente tra le persone.
La reputazione svolge un duplice ruolo:
1. Da un lato, costituisce un riduttore di incertezza per gli stakeholder, che ne ricavano un beneficio a fronte
della presenza di asimmetrie informative e di un elevato costo per la ricerca di informazioni dirette;
2. Dall’altro lato, rappresenta per l’impresa uno strategic asset intangibile, in grado di generare rendite e
vantaggi competitivi di notevole importanza, che si traducono in un significativo miglioramento delle
performance aziendali.

I caratteri della reputazione aziendale quale strategic asset.


1. Sedimentabilità: risulta incorporata e accumulata all'esterno dell'azienda, in soggetti che sono legati ad
essa da diversi e molteplici rapporti.
2. Unicità: è peculiare e irripetibile per ogni azienda.
3. Difficile acquisibilità: richiede tempi lunghi di formazione, attraverso lo sviluppo delle capacità relazionali
dell’azienda.
4. Difficile copiabilità: non è facilmente imitabile e riproducibile dalla concorrenza.
5. Molteplicità d’uso: è possibile impiegarla in contesti differenti contemporaneamente, senza che, entro
certi limiti, si impoverisca con l'uso.
6. Deperibilità: è soggetta a rapido deterioramento.
7. Incrementabilità: può essere arricchita grazie sia all’attività corrente dell’azienda, sia alla definizione di
precise strategie di sviluppo.
8. Trasferibilità: risulta estensibile e condivisibile, nella misura in cui le sue componenti siano trasferibili ad
altri soggetti.
La valutazione della corporate reputation: le variabili che definiscono la reputazione.
1. Leadership, che esprime il livello con il quale l’impresa domina il mercato;
2. Vision, che si riferisce al grado con il quale l’impresa manifesta una chiara visione del ruolo che potrà
svolgere nel medio-lungo periodo;
3. Customer focus, che prende in esame le modalità con le quali l’impresa si prende cura dei propri clienti;
4. Quality of product, che concerne le percezioni dei pubblici sulla capacità dell’impresa di mantenere
continuativamente nel tempo elevati standard di qualità, innovazione e affidabilità dei propri beni e servizi.
5. Emotional appeal, che esprime il grado con il quale l’impresa risulta essere gradita, ammirata e rispettata
dai suoi pubblici;
6. Social responsibility, che prende in esame i rapporti dell’impresa con la comunità, i dipendenti e
l’ambiente, al fine di valutare il suo livello complessivo di good citizenship;
7. Quality of management, che si riferisce al livello di efficienza della gestione aziendale attuale e di
chiarezza nella vision sul futuro dell’impresa;
8. Financial performance, che riguarda le percezioni dei pubblici sulla profittabilità dell’impresa, sulle sue
prospettive future di crescita e sul grado di rischio connesso con eventuali investimenti;
9. Employees, che si riferisce alla percezione dello sforzo compiuto dall’impresa per assicurare la qualità del
suo personale e dell’ambiente di lavoro;
10. Industry reputation, che riguarda la reputazione del settore produttivo di appartenenza dell’impresa.

Modello RepTrak.
Il modello RepTrak® di Reputation Institute, un autorevole framework a livello internazionale, misura la
reputazione, ne identifica i fattori che la guidano e permette alle aziende di monitorare e confrontare la loro
performance rispetto ai competitor. RepTrak® è il primo strumento standardizzato e integrato al mondo per
inquadrare e misurare le corporate reputation a livello internazionale su molteplici gruppi di stakeholder.
Il cuore del modello RepTrak® è il Pulse, ovvero il fattore emotivo che consente di creare un legame tra gli
stakeholder e l’Azienda e permette di misurarne la forza in base a quattro attributi: stima (esteem), fiducia
(trust), ammirazione (admire) e atteggiamento positivo (feeling). La solidità o meno di questo legame
determina la reputazione dell’Azienda.
Reputation Institute ha identificato 7 fattori razionali che rappresentano l’aspetto “razionale” della
reputazione sulle quali si lavora per modificare le percezioni e quindi i comportamenti degli stakeholder:
-Prodotti e servizi (Products & Services); -Innovazione (Innovation);
-Ambiente di lavoro (Workplace); -Eticità (Governance);
-Responsabilità sociale (Citizenship); -Leadership; -Performance.

L’indice RepTrak® è la metrica comune adottata per la


gestione sia della costruzione sia della protezione della
Reputazione e rappresenta il trait d’union tra le due anime
del progetto integrato, costituendone il fulcro centrale grazie
anche alle sue forti correlazioni con i comportamenti di
supporto degli stakeholder, quali la propensione degli
stakeholder ad acquistare, raccomandare e investire, e
quindi con le variabili di business, quali l’utile e la
capitalizzazione di borsa.
Modello Great Place to Work.
Il Modello Great Place to Work for All è progettato per permettere alla direzione aziendale di avere una
visione concreta, basata su opinioni oggettive e non condizionate. In questo modo, è possibile comprendere
eccellenze e criticità tema di:
Leadership, Comunicazione, Gestione, Collaborazione, Organizzazione, Compensation, Inclusione,
Sviluppo professionale.

L’Employee Survey misura le opinion dei collaboratori riguardo al clima lavorativo basate sulle 5 dimensioni
del modello GPTW:
1. Credibilità: comunicazione a 2 vie, competenza ed integrità;
2. Rispetto: sviluppo professionale, coinvolgimento, cura;
3. Equità: equità del trattamento, imparzialità, giustizia;
4. Orgoglio: lavoro individuale, gruppo di lavoro, immagine aziendale;
5. Coesione: confidenza, accoglienza, collaborazione.

Osservatorio top 100 manager – analisi della reputazione digitale.

Esempio Hoover.
Marchio di aspirapolvere che negli anni ’90 ha fatto un macello con una promozione.
La società fa una promozione con come slogan: “2 voli gratis”.
Volevano lanciare una promozione che comprendesse anche voli verso gli USA (il marchio era britannico).
Chiedevano al cliente di spendere 100 sterline per un premio fino a 600.
La Hoover pensava che solo pochi clienti avrebbero riscattato la promozione, basandosi sui risultati per i voli
europei. La gente iniziò a comprare aspirapolveri solo per avere voli USA gratis.
La quota di mercato dell’azienda si alzò di molto.
Un giornale scozzese intuì uno scoop: un giornalista controllò tutte le linee aeree, ma non c’erano
prenotazioni.
Ci fu una vera tempesta mediatica.
I voucher erano 10 volte superiori rispetto a quanto previsto. I negozi non volevano più conservare la merce.
La Hoover non aveva né soldi né potere per applicare la promozione.
I 3 principali dirigenti britannici vennero licenziati. La Hoover dovette noleggiare aerei interi.
Le compagnie aeree iniziarono trucchetti per scoraggiare le partenze dei clienti.
La Hoover fu perseguita nei tribunali. Un cliente sequestrò addirittura un furgone della società per 13 giorni.
Solo 1/3 dei clienti ottenne i biglietti.
La reputazione andò in frantumi.
Fu la promozione di vendita più catastrofica del regno unito, forse addirittura del mondo.
L’azienda era così danneggiata che l’intera divisione europea fu venduta al concorrente italiano.
Una volta finita questa vicenda, la clientela perde affidamento anche nei prodotti.

Il ruolo dei mass media.


La copertura sui mass media (media coverage) costituisce un ragionevole indicatore della conoscenza e
delle opinioni che i pubblici si formano con riguardo a un’impresa, specialmente con riferimento a coloro
che non possono fare affidamento su un’esperienza diretta con l’impresa stessa.
I mass media registrano, testimoniano e interpretano le informazioni sull’impresa e godono di norma di
un’elevata credibilità, in virtù anche del compito di ‘vigilanza’ a loro socialmente riconosciuto, grazie al fatto
di disporre dell’accesso alle informazioni in modo molto più efficace dei singoli individui e di essere dotati di
una superiore capacità di analisi e di valutazione dei fenomeni sociali ed economici.
“La reputazione mediatica di un'azienda è definita come la valutazione complessiva di una società
presentata nei media. Questa valutazione deriva dal flusso di storie dei media su una società”.

L’estensione dell’ipotesi dell’agenda setting.


L’ipotesi dell’agenda setting viene estesa all’ambito della comunicazione d’impresa allo scopo di finalizzare
gli investimenti in media relations all’agenda building, ovvero a esercitare un’influenza sulla salienza di
determinati attributi dell’impresa sia nella media agenda che nella public agenda.

LEZIONE 4.
Il ruolo della reputazione del produttore nel processo d’acquisto: un sondaggio esplorativo su 105
studenti del corso del 2022.
1. Leggi le etichette dei prodotti per individuare il nome dell’impresa produttrice?
2. Ti infastidirebbe il fatto di non riuscire a identificare dall’etichetta il nome dell’impresa produttrice?

3. Se non riuscissi a comprendere chi realizza un prodotto, decideresti di non acquistare il prodotto?

4. Scegli di non acquistare un prodotto se non apprezzi l’operato dell’impresa produttrice?

5. Se scoprissi che un prodotto, che normalmente acquisti, `e realizzato da un’impresa che non merita la tua
stima, smetteresti di acquistarlo?
MATERIALE 1: I CONCETTI DI CORPORATE IMAGE, CORPORATE REPUTATION E MEDIA REPUTATION.
1. L’origine e lo sviluppo del concetto di corporate image.
Il concetto di immagine, riferito sia all’azienda nel suo complesso che al prodotto, trova la sua origine nella
letteratura statunitense dei primi anni Cinquanta, in un contesto socioeconomico nel quale è presente una
sempre maggiore attenzione agli aspetti relazionali e comunicativi dei rapporti che si instaurano all’interno
dell’azienda e tra questa e il suo ambiente esterno.
La crescente volontà di far comprendere gli obiettivi dell’azienda e le ragioni delle sue scelte, l’istanza di
trasparenza e la promozione di un sempre più ampio consenso da parte della collettività costituiscono, a
livello operativo, gli elementi di stimolo e di propulsione dello sviluppo di una nuova attività professionale
che assume la denominazione di public relations.
Sorte, in origine, come una funzione prevalentemente di contatto tra l’azienda e i rappresentanti del potere
pubblico e della stampa, allo scopo di stimolare tali pubblici a sostenere posizioni favorevoli agli interessi
aziendali, le public relations si arricchiscono con il tempo di strumenti e di contenuti, mentre diventa
sempre più vasto l’insieme di pubblici cui le varie iniziative si rivolgono.
La nascita del concetto di corporate image può dunque essere fatta risalire all’inizio degli anni Cinquanta,
quando alcuni studiosi iniziano a inserire nelle loro opere il tema dell’immagine aziendale quale dimensione
a sé stante, generata attraverso complessi processi cognitivi ed emotivi, che coinvolgono i pubblici che
entrano in qualche modo in contatto con l’azienda stessa.
All’origine del concetto di immagine aziendale vi potrebbe essere una analogia tra il carattere dell’azienda e
la personalità dell’individuo, suggerita da un contributo di William Newman, pubblicato nel 1953 e che
riprende l’idea di considerare l’organizzazione alla stregua di un individuo, con le sue abitudini, con le sue
tradizioni e con una sua precisa personalità.
Secondo Newman, cogliere il carattere di una azienda risulta fondamentale, sia per i pubblici interni che per
quelli esterni, al fine di giungere a una corretta comprensione dell’azienda stessa quale entità dinamica. Tale
carattere appare come il risultato di un insieme, complesso e articolato, di elementi tangibili e intangibili, tra
i quali assumono un ruolo di primo piano gli obiettivi di fondo dell’azienda.
Questi obiettivi si collocano così alla base del carattere intrinseco dell’azienda, che sintetizza a grandi linee
ciò che l’azienda è e ciò che essa desidera diventare nel tempo, così come permea in tutto e per tutto la
stessa gestione quotidiana.
Per comprendere appieno tali obiettivi, che di fatto esprimono l’identità profonda dell’azienda, occorre
esaminare a fondo quattro aree decisionali:
1. la scelta del settore in cui l’azienda intende operare e la posizione che al suo interno essa desidera
assumere;
2. l’enfasi che viene posta sulla stabilità della gestione rispetto alla predisposizione al cambiamento;
3. le modalità di rapporto dell’azienda con il contesto sociale all’interno del quale opera (social philosophy
of the company);
4. la filosofia di gestione dell’azienda nel suo complesso (management philosophy of the company).
Una particolare enfasi sul concetto di immagine e sulle sue relazioni con il comportamento umano viene
altresì posta nel 1956 dall’economista e filosofo Kenneth Boulding, il quale sostiene, nella sua opera "The
Image", che la conoscenza di un individuo o di una organizzazione non si basa su aspetti definibili come
‘fatti’ oggettivi, bensì consiste in un insieme di messaggi e di ‘immagini’ che viene filtrato attraverso un
mutevole sistema di valori e che influenza, in ultima istanza, il comportamento.
È, tuttavia, solo con il 1958 che viene operato da parte di Pierre Martineau, research director del «Chicago
Tribune», un primo sistematico approccio al concetto specifico di corporate image.
Il contributo di Martineau nel sensibilizzare il management aziendale nei confronti delle problematiche
relative alla corporate image risulta di particolare incisività e pregio per almeno tre ordini di motivi:
–In primo luogo, l’Autore pone l’attenzione su una considerazione di base, ossia che la necessità di riferirsi
alla dimensione dell’immagine anche a livello aziendale deriva dal fatto che «tra gli elementi soggettivi che
costituiscono un'immagine di marca, ci sono generalmente alcuni aspetti dell'immagine aziendale che
giocano un ruolo importante»;
–In secondo luogo, specifica con estrema chiarezza la natura delle componenti dell’immagine aziendale,
sostenendo la distinzione tra la componente ‘funzionale’, basata su aspetti ‘tangibili’, quali la qualità, il
prezzo, il servizio, l’affidabilità, ecc., e quella ‘emotiva’, basata su sentimenti soggettivi;
–In terzo luogo, l’Autore opera un fondamentale ampliamento dell’orizzonte di riferimento dell’azienda,
considerando l’influenza della sua immagine su molteplici pubblici. Egli, infatti, sottolinea che insieme ai
consumatori attuali possono essere individuate ben sei altre classi di pubblici, ciascuna delle quali risulta
sensibile a particolari dimensioni dell’immagine aziendale: gli azionisti, i consumatori potenziali, i lavoratori,
gli intermediari commerciali, i fornitori e la collettività.
Con la fine degli anni Cinquanta con riferimento al ruolo della corporate image si aprono due filoni di studio
che si svilupperanno particolarmente nei decenni Sessanta e Settanta:
>l’uno, in ambito istituzionale, trova i professionisti delle relazioni pubbliche sempre più fortemente
coinvolti e interessati;
>l’altro, in ambito commerciale, suscita un vasto dibattito teorico e una lunga serie di ricerche empiriche
volte a verificare e a valutare il legame tra la corporate image e le decisioni di acquisto dei consumatori,
andando così a rilevare, in ultima istanza, gli effetti dell’immagine sui risultati economici dell’azienda.

2. L’origine e lo sviluppo del concetto di corporate reputation.


Con l’inizio del decennio Settanta, si affaccia e si afferma il concetto di corporate reputation, che assume un
ruolo rilevante, in modo specifico con riferimento alle situazioni di incompleta o imperfetta informazione: in
tali situazioni, infatti, la corporate reputation rappresenta un segnale che sopperisce alla mancanza di
informazioni dirette da parte degli interlocutori dell’azienda.
In effetti tutti gli autori concordano nel sottolineare che il contenuto e l’essenza stessa della reputation sia
l’informazione che viene tratta dall’insieme dei segnali, tra loro consistenti, che l’azienda ha trasmesso nel
corso del tempo con riferimento al suo agire strategico. È proprio sulla base di tali segnali che gli
interlocutori dell’azienda definiscono le proprie aspettative circa il comportamento futuro dell’azienda
stessa, in modo particolare nelle situazioni caratterizzate da incertezza che si ripetono e si protraggono nel
tempo, secondo i principi tipici della teoria dei giochi.
Quindi:
-da un lato, la reputazione costituisce un riduttore di incertezza per quanto riguarda gli interlocutori
dell’azienda;
-dall’altro, la reputazione rappresenta per l’azienda una risorsa strategica di grande rilievo, poiché può
generare rendite e vantaggi competitivi di notevole importanza.
Occorre rilevare, per il suo ruolo peculiare, il concetto di reputation viene ad assumere una valenza
maggiormente positiva rispetto a quello di image. Infatti, nonostante la reputazione, al pari dell’immagine,
sia un oggetto di percezione, con il termine reputation viene sottolineata non tanto l’esistenza del
complesso costrutto percettivo che si forma nella mente degli individui, quanto l’importanza dei concetti di
stima e di prestigio che lo sottendono.
Il concetto di immagine, invece, può essere interpretato anche secondo una valenza negativa, quale ‘mera
apparenza’, risultato di iniziative di marketing e di comunicazione pubblicitaria mirate al breve periodo e
finalizzate alla creazione di una ‘personalità’ fittizia dell’azienda basata soprattutto su fattori emotivi.
2.1. La definizione della corporate reputation.
Determinante ai fini della corretta comprensione, risulta il concetto di market signals, cioè i ‘segnali’ che
un’azienda trasmette attraverso il proprio agire competitivo, in modo sia esplicito che implicito, ai propri
interlocutori sul mercato (clienti, fornitori e altri stakeholder).
Tali segnali vengono recepiti e interpretati dai pubblici dell’azienda che, sulla loro base, formulano poi le
proprie previsioni circa il comportamento competitivo futuro dell’azienda che li ha inviati.
Ora, la reputazione di un’azienda si forma a mano a mano che essa compie azioni che risultano coerenti e
consistenti con i segnali che ha inviato nel tempo e che hanno corrisposto alle attese dei suoi interlocutori.
La reputazione, dunque, riflette la storia delle azioni poste in essere dall’azienda nel corso del tempo.
Molteplici sono gli ambiti di studio all’interno della strategic management literature, nei quali la corporate
reputation viene a svolgere un ruolo rilevante: le applicazioni manageriali della game theory, della
transaction cost theory e della resource-based theory.
In tutte e tre le teorie richiamate, la reputazione dell’azienda è considerata come una variabile indipendente
che contribuisce positivamente alle performance aziendali.
Qui sono schematizzati i principali contributi che la corporate reputation apporta, in modo specifico, ai
risultati commerciali dell’azienda.

2.2. La formazione della corporate reputation.


Gli autori considerati concordano su alcuni aspetti definibili come principi fondamentali del reputation
building:
1. Le tematiche di reputation building si delineano tipicamente all’interno di situazioni che si caratterizzano
per taluni aspetti e che esigono da parte delle aziende l’adozione di decisioni di natura strategica;
2. La reputazione si crea progressivamente nel tempo, attraverso l’invio di idonei segnali (reliable signals) da
parte dell’azienda, ma può comunque essere distrutta velocemente qualora i segnali vengano valutati
negativamente o non rispettino le aspettative create nei pubblici;
3. La reputazione riflette la capacità dell’azienda di rispettare le aspettative di una molteplicità di pubblici
circa i diversi elementi che per loro costituiscono rilevanti fonti di informazione e di giudizio e sulla cui base
fondano le proprie decisioni;
4. L’azione del management nonché la sensibilizzazione e il coinvolgimento di tutto il personale aziendale
sono considerati come fattori essenziali per una corretta e idonea formazione della reputazione;
5. Una volta che un’azienda abbia consolidato una reputazione positiva, essa ha tutta la convenienza a
mantenerla nel tempo, comportandosi in modo conforme alle aspettative create presso i suoi molteplici
stakeholder;
6. Le due principali fonti della reputazione sono l’esperienza e l’informazione;
_l’esperienza fa riferimento alla storia delle relazioni dirette che un soggetto ha avuto con l’azienda e/o con i
suoi prodotti, aspetto questo che genera le aspettative circa i risultati dei futuri rapporti che egli avrà con
l’azienda stessa. Per esempio, una risposta soddisfacente alle lamentele del consumatore aumenta la
reputazione dell’azienda e risulta fondamentale per il mantenimento della fedeltà del cliente e per il suo
successivo riacquisto;
_quanto all’informazione, questa può riguardare una molteplicità di aspetti e coinvolgere elementi di natura
sia economica, sia non economica, che ciascuna classe di pubblici ritiene importanti per valutare le
performance aziendali. Ora, l’informazione può essere resa disponibile attraverso tre vie:
~mediante la comunicazione che l’azienda pone esplicitamente in essere e rivolge ai suoi interlocutori (in
modo specifico, la corporate e la brand advertising);
~attraverso la diffusione di notizie operata dai mass media;
~per mezzo dell’azione di altri soggetti (opinion leader, esperti, ecc.) e del passaparola (word-of-mouth) che
si attiva tra i diversi pubblici.

3. L’origine e lo sviluppo del concetto di media reputation.


3.1. Il ruolo dei mass media e l’ipotesi dell’agenda setting.
Per comprendere pienamente i complessi legami che intercorrono tra le attività di comunicazione
dell’impresa rivolte ai mass media, i contenuti informativi trasmessi dai mezzi di comunicazione e la
reputazione aziendale occorre richiamare brevemente il concetto di agenda setting.
L’ipotesi dell’agenda setting è stata originariamente formulata con riferimento alla comunicazione politica
da Maxwell McCombs e Donald Shaw.
Tale ipotesi risulta a sua volta fondata sull’analisi effettuata da Walter Lippmann intorno agli anni Venti circa
l’impatto dei mass media sulle percezioni dell’opinione pubblica, ovvero sul fatto che gli individui agiscano
in risposta agli eventi che accadono non tanto nel ‘mondo reale’, quanto in uno ‘pseudo-environment’
costituito da un quadro di riferimento presente nella loro mente e formatosi grazie anche all’influenza dei
mass media.
La salienza di un oggetto nell’ambito della media agenda determina la salienza dell’oggetto stesso all’interno
della public agenda e ciò poiché il pubblico si avvale del livello di attenzione che un oggetto raggiunge sui
mass media per organizzare la propria ‘agenda’ e quindi per decidere quali argomenti rivestono maggiore
importanza e sono pertanto meritevoli di riflessione e di dibattito.

3.2. L’influenza dei mass media sulla corporate reputation.


L’assunzione che i mass media influenzino, sebbene al verificarsi di certe condizioni, la conoscenza e gli
atteggiamenti del pubblico (a un livello individuale e collettivo) trova applicazione anche nella ricerca
manageriale e, più specificamente, nello studio della corporate reputation, in quanto la copertura sui mass
media, definibile anche come media exposure, costituisce un ragionevole indicatore della conoscenza e
delle opinioni che i pubblici si formano con riguardo all’impresa.
Lo studio degli effetti della copertura sui mass media sui cambiamenti nella corporate reputation ha
ricevuto negli ultimi anni una sempre maggiore attenzione per un duplice ordine di motivi:
−L’interazione tra l’impresa e i mass media è diventata sempre più frequente e rilevante;
−L’influenza dei mass media sui pubblici dell’impresa tende a rimanere elevata ed è anche maturato il
riconoscimento dei mass media stessi come veri e propri stakeholder dell’impresa.
È ormai ampiamente condiviso il fatto che ai mass media venga riconosciuto un triplice ruolo:
> fonte di informazione essenziale per gli stakeholder, in grado di ridurre le asimmetrie informative;
> arena di confronto tra le imprese e gli stakeholder, con riguardo ai caratteri, ai comportamenti e alle
performance delle imprese, che determinano nel loro complesso la corporate reputation;
> attore sociale che intensamente partecipa al processo di ‘costruzione della realtà’, o quanto meno di una
media reality, procedendo quindi ben oltre il semplice ruolo di intermediario informativo.
Questo orientamento della ricerca sul ruolo dei segnali diffusi e/o generati dai mass media nella formazione
della corporate reputation dell’impresa ha condotto a evidenziare un nuovo concetto – quello di ‘media
reputation’ – da considerare come uno specifico ambito di studio.
Il concetto di media reputation costituisce dunque un approfondimento di quello di corporate reputation e
risulta definibile come la valutazione complessiva di un’impresa che viene a formarsi attraverso il flusso di
notizie pubblicate dai mass media.
Occorre ribadire che l’influenza dei mass media risulta tanto più forte quanto più un individuo non dispone
di informazioni di prima mano o non si trova nelle condizioni di provare un’esperienza diretta nei confronti
di un’impresa; in tali circostanze le valutazioni non possono che essere formulate sulla base di un’esperienza
di tipo indiretto, che si genera con il passaparola e, soprattutto, mediante la comunicazione dei mass media.
Ora, nello svolgimento di questo rilevante ruolo di riduzione delle asimmetrie informative, i mass media
godono di norma di un’elevata credibilità, grazie al fatto di disporre istituzionalmente dell’accesso alle
informazioni in modo molto più efficace dei singoli individui e alla loro superiore capacità di analisi, di
interpretazione e di valutazione dei fenomeni sociali ed economici.
L’impostazione teorica da porre alla base delle analisi empiriche volte a verificare la funzione di agenda
setting dei mass media nei confronti della corporate reputation di un’impresa formulata da Carroll e
McCombs si articola nelle seguenti 5 proposizioni.
1. La prima proposizione è fondata sull’impostazione originaria dell’agenda setting e quindi sull’attenzione
che un oggetto ottiene presso il pubblico:
“La quantità di copertura che un’impresa ottiene sui mass media risulta positivamente correlata con il livello
di notorietà che l’impresa stessa presenta presso il pubblico”.
Vi è da rilevare che il concetto di ‘volume di copertura’, ovvero della quantità di messaggi riguardanti
l’impresa presenti sui mass media, risulta fondamentale per definire il livello di esposizione del pubblico
(‘audience exposure’) all’impresa attraverso i media, il che a sua volta si dimostra essenziale nell’attivazione
dei processi cognitivi di attenzione, di comprensione e di gradimento dell’impresa da parte del pubblico.
Infatti, a un incremento dell’esposizione tende a corrispondere:
− l’incremento della familiarità (familiarity) del pubblico nei confronti dell’impresa, alla quale segue il
gradimento (liking) della stessa e ciò anche senza che vi sia consapevolezza della familiarità conseguita;
− l’incremento dell’accettazione dell’informazione frequentemente ripetuta, anche se di contenuto
irrilevante, e ciò, pure in questo caso, senza che vi debba essere necessariamente la consapevolezza delle
precedenti esposizioni;
− la riduzione della percezione di rischiosità connessa con le attività oggetto della copertura media.
Di conseguenza, a parità di altre condizioni, l’effetto congiunto dell’incremento della familiarità e
dell’accettazione e della riduzione della percezione del rischio può generare un vantaggio in termini di
reputazione per l’impresa che ottiene un più ampio volume di media coverage.
Le successive due proposizioni sono basate sulla fase di comprensione da parte del pubblico degli attributi
presentati nella media agenda, ponendo una particolare attenzione alla dimensione valutativa, ovvero alla
favorevolezza o meno della citazione rispetto all’impresa:
2. “La quantità di copertura sui mass media dedicata a particolari attributi di un’impresa risulta
positivamente correlata con l’ampiezza del pubblico in grado di definire l’impresa stessa attraverso tali
attributi”;
3. “Quanto più positiva è la copertura sui mass media di un particolare attributo, tanto più positivamente
tale attributo verrà percepito dal pubblico e, viceversa, quanto più negativa è la copertura sui mass media di
un particolare attributo, tanto più negativamente tale attributo verrà percepito dal pubblico”.
4. La quarta proposizione afferma che ponendo l’attenzione su determinati oggetti e sui relativi attributi,
trascurandone altri, la media agenda giunge a influenzare i criteri di valutazione del pubblico:
“La copertura sui mass media di specifici attributi cognitivi e affettivi associati a un’impresa predispone il
pubblico verso un determinato atteggiamento nei confronti dell’impresa stessa”.
5. La quinta proposizione, infine, introduce il concetto di ‘corporate agenda’, costituita dall’insieme dei
messaggi proposti dall’impresa, in particolare attraverso le attività di relazioni pubbliche finalizzate a
influenzare la media agenda tramite l’impiego di idonei strumenti e supporti di comunicazione, che
rappresentano per i mass media stessi un’efficace modalità di reperimento di informazioni utili per lo
svolgimento della loro funzione. In tal senso, l’ultima proposizione afferma che:
“Gli sforzi organizzati dell’impresa per la comunicazione degli attributi che rientrano nella corporate agenda
si concretizzano in un significativo grado di corrispondenza tra tali attributi e quelli presenti nella copertura
sui mass media”.

MATERIALE 2: CORPORATE REPUTATION: VALORE PER L’IMPRESA, GARANZIE PER IL CONSUMATORE.


In tempi di crisi non solo economica, ma anche di fiducia e di credibilità, il tema della reputazione aziendale
diventa determinante per il successo delle imprese e per la rassicurazione dei consumatori circa la bontà
delle loro scelte.

Premessa.
La corporate reputation è diventata oggetto di attente analisi, ma l’ampia diffusione del dibattito che ne è
scaturito ha talvolta condotto a perdere di vista il rigoroso fondamento economico sottostante al concetto
di reputazione, con il rischio di tradurlo in un luogo comune stereotipato e lontano dal suo reale significato.

Il concetto di corporate reputation.


Il concetto di corporate reputation si afferma tra gli anni 70 e 80 nell’ambito della letteratura economica
volta ad analizzare le decisioni assunte in contesti dinamici da una molteplicità di attori, detentori di
interessi economici e sociali nei confronti di un’impresa (stakeholder), in condizioni di incompleta o di
imperfetta informazione.
In tali situazioni, la corporate reputation esprime la sintesi di un vasto insieme di segnali che l’impresa
trasmette agli stakeholder nel corso del tempo con riferimento al suo agire strategico, in modo sia esplicito
che implicito. Gli interlocutori dell’impresa recepiscono e interpretano questi segnali, che per loro
costituiscono rilevanti fonti di informazione e di valutazione, e presumono razionalmente il comportamento
futuro dell’impresa; maturano conseguentemente le proprie aspettative e giungono infine a formulare le
proprie decisioni. La coerenza dei comportamenti dell’impresa con i segnali che ha inviato nel tempo e la
conseguente risposta alle attese formulate dai suoi stakeholder determinano la formazione della
reputazione aziendale.
Nel corso degli anni sono state formulate numerose definizioni del concetto di corporate reputation.
Esse appaiono in ogni caso convergere su tre elementi essenziali del concetto di reputazione aziendale:
1. La dimensione temporale, ovvero il fatto che la formazione della reputazione richiede la consistenza delle
azioni dell’impresa per un lungo periodo di tempo;
2. L’ampiezza degli interlocutori dell’impresa, sia interni sia esterni, coinvolti nel processo di formazione
della reputazione;
3. Le fonti della reputazione, costituite essenzialmente dall’esperienza e dall’informazione. L’esperienza fa
riferimento alla storia delle relazioni dirette che un soggetto ha avuto con l’impresa, aspetto questo che
genera aspettative sui risultati dei futuri rapporti che egli potrà avere con l’impresa stessa.
L’informazione, invece, può riguardare una molteplicità di aspetti e coinvolgere elementi di natura sia
economica sia non economica, che ciascuna classe di stakeholder ritiene importanti per valutare i
comportamenti e le performance aziendali. Tale informazione può essere resa disponibile attraverso tre vie:
mediante la comunicazione che l’impresa pone esplicitamente in essere e rivolge ai suoi interlocutori;
attraverso la diffusione di notizie operata dai mass media; per mezzo, infine, dell’azione di altri soggetti
(opinion leader, esperti ecc.) e del passaparola che si attiva spontaneamente tra le persone.
Dalle pur sintetiche considerazioni formulate risulta chiaramente come la reputazione svolga un duplice
ruolo:
– da un lato, costituisce un riduttore di incertezza per gli stakeholder, che ne ricavano un beneficio a fronte
della presenza di asimmetrie informative e di un elevato costo per la ricerca di informazioni dirette;
– dall’altro lato, rappresenta per l’impresa uno strategic asset intangibile, in grado di generare rendite e
vantaggi competitivi di notevole importanza, che si traducono in un significativo miglioramento delle
performance aziendali, in modo particolare quelle di natura finanziaria e di tipo sociale.
Una reputazione positiva consente all’impresa di migliorare la percezione della qualità dei beni e dei servizi,
di stabilire un premium price, di influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori e, quindi, di accrescere
la quota di mercato o di mantenere la fedeltà dei consumatori acquisiti, di ridurre i costi di vendita, di
attrarre risorse migliori, di godere di una più ampia e frequente presenza sui mass media, di creare un forte
goodwill che la protegga in caso di crisi e la valorizzi in situazioni di cessione o di acquisizione. Appare
evidente come un’impresa che sia riuscita a consolidare una reputazione positiva abbia tutta la convenienza
a mantenerla nel tempo, comportandosi in modo conforme alle aspettative create presso i suoi molteplici
stakeholder, sensibilizzando e coinvolgendo conseguentemente tutto il personale aziendale affinché operi
costantemente secondo tale orientamento.

La valutazione della corporate reputation.


Il processo di valutazione della reputazione aziendale si dimostra alquanto complesso, sia quando riferito a
una singola impresa sia a maggior ragione quando la ricerca prevede l’analisi e il successivo confronto tra
più imprese, facendo ricorso a indicatori di sintesi.
A livello generale, la procedura metodologicamente corretta per la valutazione della corporate reputation
prevede lo svolgimento delle seguenti fasi di ricerca:
1. L’identificazione di un insieme di variabili che definiscano la reputazione aziendale con riferimento alla
realtà concreta oggetto di analisi, raggruppabili in specifiche categorie reciprocamente indipendenti;
2. La costruzione di un campione statisticamente rappresentativo di stakeholder presso i quali raccogliere i
giudizi in merito alle diverse determinanti della reputazione dell’impresa (o di ciascuna impresa) esaminata;
3. Il calcolo per ogni dimensione del giudizio medio espresso dai rispondenti;
4. La determinazione del punteggio complessivo, aggregando in modo opportuno i punteggi medi ottenuti
per ciascuna dimensione;
5. La standardizzazione dei punteggi e il loro utilizzo per confrontare il punteggio di reputazione di
un’impresa con quello dei concorrenti o con quello medio del settore.
Tra le numerose problematiche della ricerca sulla corporate reputation la questione sicuramente più
complessa è quella relativa all’identificazione delle dimensioni da sottoporre a valutazione da parte degli
stakeholder. Queste, infatti, risultano essere molteplici e diverse a seconda della tipologia di impresa e della
categoria di stakeholder.
In linea generale, le dimensioni maggiormente esaminate nelle ricerche condotte a livello internazionale
risultano essere le seguenti:
> leadership, che esprime il livello con il quale l’impresa domina il mercato;
> vision, che si riferisce al grado con il quale l’impresa manifesta una chiara visione del ruolo che potrà
svolgere nel medio-lungo periodo nell’ambiente in cui è inserita;
> customer focus, che prende in esame le modalità con le quali l’impresa si prende cura dei propri clienti e
si impegna per la soddisfazione delle loro esigenze;
> quality of products, che concerne le percezioni dei pubblici sulla capacità dell’impresa di mantenere
continuativamente nel tempo elevati standard di qualità, innovazione e affidabilità dei propri beni e servizi;
> emotional appeal, che esprime il grado con il quale l’impresa risulta essere gradita, ammirata e rispettata
dai suoi pubblici, quale risultato di relazioni emotive di lungo periodo che l’impresa è riuscita a instaurare
con i propri stakeholder.
> social responsibility, che prende in esame i rapporti dell’impresa con la comunità, i dipendenti e
l’ambiente, al fine di valutare il suo livello complessivo di good citizenship;
> quality of management, che si riferisce al livello di efficienza della gestione aziendale attuale e di chiarezza
nella vision sul futuro dell’impresa;
> financial performance, che riguarda le percezioni dei pubblici sulla profittabilità dell’impresa, sulle sue
prospettive future di crescita e sul grado di rischio connesso con eventuali investimenti;
> employees, che si riferisce alla percezione dello sforzo compiuto dall’impresa per assicurare la qualità del
suo personale e dell’ambiente di lavoro;
> industry reputation, che riguarda la reputazione del settore produttivo di appartenenza dell’impresa,
all’interno del quale le azioni aziendali sono osservate e interpretate dagli stakeholder.

Il concetto di reputazione costituisce una grandezza unitaria riferita all’identità dell’impresa nel suo
articolato e complesso operare e non può essere artificialmente scissa senza perdere di significato.
Ciò, tuttavia, non significa che le ricerche sulla corporate reputation debbano necessariamente condursi con
sforzi, in termini di tempi e di risorse, insostenibili: è possibile ricorrere ad approcci di ricerca semplificati
che, anziché raccogliere direttamente le valutazioni presso la molteplicità degli stakeholder, vadano a
indagare all’origine le fonti di informazione alle quali gli stakeholder ricorrono per formulare le loro
valutazioni.
Tali fonti sono essenzialmente le forme della comunicazione dell’impresa stessa, il passaparola e la
copertura sui mass media. Tra queste fonti, quella che è stata tradizionalmente considerata come la più
autorevole in termini di credibilità è costituita dai mass media, seguita dal passaparola, il cui impatto si è
sempre dimostrato molto rilevante nella formulazione delle valutazioni, ma la cui attendibilità viene talvolta
messa in discussione, specialmente con riferimento al recente ruolo assunto dai social media, nei quali la
credibilità delle fonti di informazione non è sempre agevolmente accertabile.
In particolare, sebbene le conversazioni all’interno dei social network esercitino un indubitabile ruolo
nell’influenzare gli atteggiamenti e nell’indirizzare i comportamenti dei consumatori è abbastanza evidente
come non possa essere considerata reputazione dell’impresa la mera conseguenza di un “like” inserito,
magari distrattamente, in un social media e nemmeno l’interpretazione in chiave positiva del tono
(sentiment) di una notizia inserita in un forum, o di un commento riportato all’interno di un blog e ciò nella
misura in cui l’analisi non sia stata impostata in modo tale da rilevare anche i toni ironici o sarcastici. In altre
parole, anche la social media reputation necessita di essere considerata come una declinazione del concetto
di corporate reputation, pertanto la sua analisi deve sottostare alle medesime ipotesi e metodologie di
ricerca validate nel tempo.

L’influenza dei mass media sulla corporate reputation.


L’assunzione che i mass media possano influenzare le conoscenze e gli atteggiamenti del pubblico trova un
fecondo ambito di indagine negli studi in tema di corporate reputation, in quanto la copertura sui mass
media - definita come media coverage, media exposure o media visibility - costituisce un ragionevole
indicatore della conoscenza e delle opinioni che i pubblici si formano con riguardo a un’impresa,
specialmente con riferimento a coloro che non possono fare affidamento su un’esperienza diretta con
l’impresa stessa. Questi, infatti, per raccogliere le informazioni necessarie per i loro processi decisionali non
possono che avvalersi di intermediari, quali appunto i mass media, che registrano, testimoniano e
interpretano le informazioni sull’impresa, attribuendo loro un significato, e che godono di norma di
un’elevata credibilità - in virtù anche del compito di “vigilanza” a loro socialmente riconosciuto - grazie al
fatto di disporre dell’accesso alle informazioni in modo molto più efficace dei singoli individui e di essere
dotati di una superiore capacità di analisi e di valutazione dei fenomeni sociali ed economici.
Pertanto, lo studio degli effetti della copertura media sui cambiamenti nella corporate reputation ha
ricevuto negli ultimi anni una sempre maggiore attenzione e ciò per un duplice ordine di motivi:
1. L’interazione tra l’impresa e i mass media è diventata sempre più frequente e rilevante;
2. L’influenza dei mass media sui pubblici dell’impresa tende a rimanere elevata ed è anche maturato il
riconoscimento dei mass media stessi come veri e propri stakeholder dell’impresa, che partecipano al
processo di “costruzione della realtà”, o quantomeno di una media reality, procedendo quindi ben oltre il
semplice ruolo di intermediario informativo.
Questo orientamento della ricerca sul ruolo dei segnali diffusi e/o generati dai mass media nella formazione
della corporate reputation ha condotto recentemente a evidenziare un nuovo concetto - quello di media
reputation - definibile come la valutazione complessiva di un’impresa che viene a formarsi attraverso il
flusso di notizie pubblicate dai mass media.
L’approfondimento del concetto di media reputation risale ai primi anni del Duemila in concomitanza con
l’estensione dell’ipotesi dell’agenda setting all’ambito della comunicazione d’impresa, allo scopo di fornire
una più incisiva chiave di lettura degli investimenti nelle attività di media relations finalizzate a esercitare
un’influenza sulla salienza di determinati attributi dell’impresa sia nella media che nella public agenda.
Conseguentemente ha assunto un rilievo particolare la problematica della valutazione della media
reputation, quale ragionevole indicatore della reputazione aziendale, da effettuare secondo una
metodologia rigorosa che preveda, in una data unità temporale di riferimento, l’analisi della copertura
media riferita specificamente alle dimensioni che concorrono a determinare la corporate reputation
dell’impresa oggetto della ricerca.
Tale approccio prevede due fasi:
1. Una fase preliminare di ricerca volta all’identificazione delle dimensioni che concorrono a determinare la
corporate reputation sia effettuando apposite rilevazioni attraverso survey sugli stakeholder dell’impresa sia
avvalendosi delle indagini sulla corporate reputation condotte in passato dall’impresa, oppure svolte da altri
soggetti;
2. Una fase approfondita di media coverage analysis volta a misurare le dimensioni quantitative e qualitative
riferite alle determinanti della reputazione precedentemente identificate.

Gli effetti della corporate reputation sul consumatore.


La risposta del consumatore ai segnali reputazionali inviati dall’impresa o comunque a essa riferibili è
diventata in tempi recenti un rilevante oggetto di analisi, in quanto sempre più spesso le ricerche hanno
evidenziato come le scelte d’acquisto di un bene o di un servizio risultino influenzate dalla reputazione
dell’impresa che lo produce.
Una recente ricerca condotta a livello internazionale ha confermato che il 70% dei consumatori intervistati
sceglie di non acquistare determinati prodotti se non apprezza l’operato dell’impresa produttrice. Ciò
significa che l’impresa di per sé svolge un ruolo estremamente importante nel garantire i consumatori circa
la qualità, l’affidabilità e l’eticità dei prodotti e delle marche che acquistano. Il processo di decisione
d’acquisto coinvolge, quindi, anche un’attenta identificazione dell’impresa produttrice: il 67% dei
rispondenti alla ricerca ha dichiarato di leggere le etichette per individuare il nome dell’impresa e il 61% si
dimostra infastidito quando non riesce a identificarla; conseguentemente il 56% cerca informazioni
sull’impresa e il 56% decide di non acquistare il prodotto se non riesce a comprendere chi lo realizza; infine,
il 40% di coloro che scoprono di apprezzare un prodotto realizzato da un’impresa che non merita la loro
stima smettono di acquistarlo.
A conferma del peso rilevante assunto dal passaparola, i consumatori intervistati ammettono di discutere
tra di loro sia della qualità dei prodotti acquistati, sia dell’assistenza ricevuta dal customer service, sia dei
comportamenti delle imprese, attribuendo però più rilevanza agli scandali o alle operazioni non corrette
dell’azienda rispetto alle sue azioni virtuose, alla sua attenzione all’ambiente e ai servizi offerti alla
comunità.
La reputazione aziendale viene interpretata dai consumatori come un aggregato di tre dimensioni: public
responsibility, leadership & success e consumer fairness.
Quest’ultimo in particolare risulta essere il fattore più importante, in quanto l’attenzione al trattamento
riservato ai clienti rappresenta una variabile direttamente valutabile dai consumatori e di maggior impatto
rispetto, per esempio, al comportamento dell’impresa nei confronti dei suoi collaboratori o dell’ambiente.
I consumatori si basano essenzialmente sulla loro esperienza di consumo e di relazione diretta con l’impresa
per giudicarne la credibilità e l’affidabilità, avvalendosi secondariamente della copertura sui mass media per
valutare gli altri aspetti della gestione mentre il passaparola viene collocato all’ultimo posto tra le fonti della
reputazione. Gli altri stakeholder si avvalgono, invece, prioritariamente delle informazioni fornite dai
media, seguite dal passaparola.

Conclusioni.
La corporate reputation ha ormai assunto un ruolo di primo piano nella strategia di ogni tipologia di impresa
e ciò non più con riferimento ai soli interlocutori finanziari o istituzionali, ma anche ai consumatori, che in
modo sempre più attento cercano conferme della bontà delle loro scelte, considerando i comportamenti
delle imprese che producono i beni e i servizi acquistati.
LEZIONE 5.
Il ruolo strategico della comunicazione.

Le piccole e medie imprese italiane: un modello distintivo.


Si chiamano PMI (acronimo di Piccole e Medie Imprese) e sono le realtà imprenditoriali al centro del nostro
Paese. Per numero, fatturato e impiego di forza lavoro, le PMI rappresentano una struttura portante
dell’intero sistema produttivo nazionale.
la Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE ha definito i seguenti parametri:
> micro impresa: meno di 10 addetti e fatturato annuo o totale di bilancio annuo < 2 milioni di euro;
>piccola impresa: tra i 10 ed i 49 addetti e fatturato annuo o totale di bilancio annuo < 10 milioni di euro;
>media impresa, tra i 50 ed i 249 addetti e fatturato annuo inferiore a 50 milioni di euro oppure un totale di
bilancio < 43 milioni di euro.
Le analisi dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI, da cui si partirà per approfondire il tema Piccole
e Medie Imprese, hanno come oggetto l’insieme delle imprese di piccole e medie dimensioni, ossia
quelle realtà tra i 10 ed i 249 addetti. Non si considerano dunque le microimprese con meno di 10 addetti.
L’Osservatorio ha individuato come PMI Large, le imprese che soddisfano uno dei due requisiti sottostanti:
1. fino a 249 addetti e fatturato annuo fra 50 e 200 milioni di euro;
2. oltre 250 addetti e fatturato annuo inferiore a 50 milioni di euro.
Per meglio comprendere il peso delle Piccole e Medie Imprese all’interno del quadro economico e
produttivo italiano, è bene soffermarsi sui numeri.
Su 4,4 milioni di imprese attive in Italia, le microimprese con meno di 10 addetti sono quelle
numericamente più importanti, rappresentando il 95,13% del totale, contro un 0,09% di grandi imprese.
Le PMI italiane sono invece circa 211mila, vale a dire il restante 4,78% del tessuto imprenditoriale italiano, e
sono responsabili, da sole, del 41% dell’intero fatturato generato in Italia, del 33% dell’insieme degli
occupati del settore privato e del 38% del valore aggiunto del Paese.
Caratteristiche base delle PMI:
-centralità dell’imprenditore;
-struttura organizzativa flessibile;
-procedure per lo più informali, soprattutto dal punto di vista della comunicazione;
-lavoro a rete (molto implicito).

Le dimensioni di analisi della comunicazione della PMI.


1. Operativa;
2. Strategica;
3. Culturale.
1. La dimensione operativa.
-Singole attività o insiemi di attività;
-Articolazione e coordinamento;
-Specifiche modalità tecniche.
Sotto il profilo operativo si notano spesso grosse carenze nella realizzazione delle forme e degli strumenti di
comunicazione.
Gli strumenti possono essere articolati in tre vaste classi a seconda del livello di interazione che rendono
possibile:
➢ forme e strumenti che consentono un alto livello di interazione tra singoli e specifici pubblici (la
comunicazione diretta della forza di vendita, il direct mailing, la direct response advertising su media
specializzati…);
➢ forme e strumenti che permettono all’impresa di rivolgersi al mercato potenziale in modo mirato e
selettivo, presentando le proprie produzioni, stimolando il primo contatto e consolidando un’immagine
favorevole (le mostre, le fiere, le sales promotion rivolte a pubblici specifici…);
➢ forme e strumenti che promuovono una relazione di carattere generale con l’ambiente, rivolti ad ampi
pubblici, allo scopo di creare, mantenere e sviluppare la conoscenza, la legittimazione e il consenso nei
confronti del progetto complessivo dell’impresa e delle sue produzioni (la pubblicità classica, le relazioni
pubbliche, le sponsorizzazioni).

Le forme e gli strumenti della comunicazione più importanti:


• Fiere di settore; • Rapporti diretti con i clienti; • Marchio e logotipo;
• Cataloghi; • Brochure di presentazione dell’azienda;
• Promozione delle vendite; • Pubblicità su stampa periodica.

2. La dimensione strategica.
-Corretta definizione di obiettivi;
-Idonea articolazione di piani di comunicazione;
-Specifiche modalità di controllo.
La responsabilità della definizione della politica di comunicazione è affidata all’imprenditore, in via esclusiva
(51%) o congiuntamente con altri (34%).
Sotto il profilo strategico si riscontrano sia la mancanza di una strategia di comunicazione formalizzata, sia le
carenze nella comunicazione della strategia deliberata.

3. La dimensione culturale.
-Consapevolezza dei caratteri dell’identità;
-Attenzione alla reputazione dell’impresa;
-Visione strategica di lungo periodo.
L’attenzione dell’imprenditore agli aspetti dell’identità dell’impresa e alla loro corretta trasmissione verso i
propri stakeholder spiega anche la sua sensibilità al tema della reputazione e può far ipotizzare un’apertura
dell’imprenditore ai valori della cultura della comunicazione aziendale.
Tale sensibilità si concretizza anche in un’elevata attenzione agli aspetti dell’identità visiva dell’impresa
(stampati, mezzi di trasporto, segnaletica, imballaggi, ecc.) e alle strutture fisiche aziendali (sedi,
stabilimenti, punti di vendita, spazi espositivi, ecc.).
LEZIONE 6 + LEZIONE 8.1 + MATERIALI 3
– LA COMUNICAZIONE COME FATTORE DI PRODUZIONE DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE.
Premessa.
La comunicazione costituisce oggi un fattore strategico essenziale per il perseguimento delle finalità
economiche connesse alla particolare funzione che l’impresa svolge nell’ambiente in cui opera e che
consente all’impresa stessa sia di trasmettere gli elementi costitutivi della propria identità, sia di acquisire
tutti gli elementi conoscitivi necessari allo svolgimento della propria attività: la comunicazione deve così
essere di necessità inserita in un modello – al tempo stesso culturale, strategico e operativo – che
costituisca una componente del più generale sistema d’impresa.

1. La piccola e media impresa: definizione economica, caratteri peculiari e ruolo della comunicazione.
1.1. Il ruolo della piccola e media impresa all’interno del sistema economico.
La piccola e media impresa costituisce una componente rilevante e fondamentale di ogni sistema
economico e la sua presenza è riscontrabile in tutte le economie industriali avanzate: per quanto concerne,
in modo specifico, l’Italia è possibile rilevare come nel solo comparto manifatturiero sia concentrato il 51%
del totale delle imprese con 10-49 addetti e ben il 60% delle medie imprese italiane.
>Negli anni Cinquanta e Sessanta la piccola e media impresa veniva considerata come una realtà produttiva
arretrata e poco efficiente, che sopravviveva grazie all’abbondanza di mano d’opera e alla tolleranza della
grande impresa e che era destinata a estinguersi con lo sviluppo del sistema economico.
È, tuttavia, nei decenni successivi che la piccola e media impresa viene rivalutata e descritta come
un’organizzazione dotata di maggiore flessibilità e capacità di adattamento, in un contesto ambientale e di
mercato caratterizzato da crescente complessità.
>Durante gli anni Settanta, infatti, a fronte della recessione internazionale e del declino della grande
impresa, la piccola e media impresa vede rimesso in discussione il proprio ruolo, dimostrando
un’insospettabile capacità di tenuta, notevoli ritmi di sviluppo e crescenti opportunità di occupazione.
In particolare, nella seconda metà degli anni Settanta, le PMI industriali svolgono un ruolo fondamentale nel
garantire la capacità di adattamento del sistema economico alle modificazioni strutturali avvenute nei
mercati di approvvigionamento e di sbocco:
-in primo luogo, la specializzazione delle PMI in comparti produttivi scarsamente energy intensive e la
sostanziale assenza di forme esasperate di conflittualità in fabbrica favorisce un più agevole assorbimento
degli shock petrolifero e salariale;
-in secondo luogo, la configurazione produttiva di piccole dimensioni e tendenzialmente flessibile consente
alle stesse imprese di confrontarsi con maggiore efficacia con una domanda divenuta instabile e
differenziata.
>Con gli anni Ottanta lo scenario economico inizia a mutare e la fase espansiva caratterizzata da una
maggiore stabilità tende a ridurre il ruolo della capacità di adattamento propria della PMI, la quale, a fronte
delle aumentate opportunità di crescita che si riscontrano sul versante della domanda, viene a perdere i
propri vantaggi competitivi dal lato dell’offerta.
Gli anni Ottanta segnano d’altronde una rinascita della grande impresa sotto i profili della produttività e
della redditività, favoriti dai processi di deverticalizzazione, di razionalizzazione e di ammodernamento dei
cicli produttivi, avviati con il finire degli anni Settanta, e del miglioramento della composizione delle fonti di
finanziamento.
Dunque, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta, la PMI ha dovuto
confrontarsi con un nuovo prototipo di grande impresa, ritornata a essere attore protagonista della scena
economica mondiale, grazie all’adozione di modelli organizzativi più flessibili e articolati a rete.
In questo contesto, la PMI può continuare a giocare, rispetto alla grande impresa, ruoli di avanguardia a
condizione che dia enfasi alle esigenze di rapido apprendimento tecnologico e di sviluppo transnazionale
delle strategie e delle relazioni informative.
L’esperienza dell’ultimo decennio, e in particolare della prima metà degli anni Novanta, ha, infine,
evidenziato l’affermazione di un numero considerevole di medie imprese – dinamiche, tecnologicamente
avanzate e finanziariamente equilibrate –, che sembrano superare la tradizionale contrapposizione tra
piccole e grandi imprese, dimostrandone l’inadeguatezza.
Infatti, da un lato, le imprese di grandi dimensioni si sono rivelate spesso eccessivamente diversificate per
competere su mercati che si espandevano troppo rapidamente e che richiedevano investimenti molto
elevati per mantenere la competitività in più settori; ciò ha indotto a processi di riorganizzazione e di
rifocalizzazione delle imprese su attività più specializzate. Di conseguenza, i grandi gruppi hanno rivisto la
propria struttura organizzativa in funzione della difesa della propria competitività, trasformandosi da grandi
a medi gruppi.
Dall’altro lato, le imprese di piccole dimensioni hanno manifestato una ridotta capacità di sviluppo a causa
di problemi manageriali, organizzativi e finanziari; ciò ha comportato forme di decentramento, di
consolidamento organizzativo, di crescita esterna e di formazione di gruppi societari di medie dimensioni.
Per quanto concerne un aspetto specifico della realtà economica italiana, vi è infine da rilevare che il nostro
sistema industriale è caratterizzato da un rilevante fenomeno di distrettualizzazione, in quanto hanno
assunto un peso crescente i sistemi produttivi territoriali nei quali opera un elevato numero di imprese
manifatturiere e di servizi, caratterizzate da strette relazioni di affari, da una elevata prossimità delle
localizzazioni e, di conseguenza, da ridotte linee di comunicazione, da veloci e costanti flussi di informazioni
e da un vivace scambio di idee e di innovazioni.
All’interno di un distretto industriale, le relazioni tra le imprese sono regolate dalla comunicazione
interattiva e dalla cooperazione.
-la comunicazione interattiva consiste nel processo di comprensione, di interpretazione e di selezione dei
significati messi in gioco dai soggetti che comunicano.
-la cooperazione, invece, si basa sulla capacità dei partner di costruire una base di intesa e di regolare i
comportamenti reciproci in modo da non intaccare quelle risorse di fiducia che rappresentano il capitale
della relazione cooperativa e ne sostengono il ciclo di vita.

1.2. La definizione economica e i caratteri peculiari della piccola e media impresa.


È emerso dunque il profilo di un’impresa con una configurazione complessa che può svolgere funzioni molto
differenti ed esprimersi in forme altrettanto diversificate.
La teoria tradizionale enfatizzava particolarmente la dimensione, ponendola come parametro chiave della
struttura economica sulla base di due ipotesi forti, ossia che la grande dimensione potesse, in primo luogo,
ridurre il livello medio dei costi di produzione a causa delle economie di scala e, in secondo luogo, influire
sulle condizioni strutturali della concorrenza, attraverso la concentrazione del settore.
In questo rinnovato contesto si modificano i criteri relativi all’individuazione della piccola e media impresa
e, quindi, le modalità di definizione economica della stessa. A questo proposito, vi è da tempo un
sostanziale accordo sul fatto che per la ‘misurazione’ della dimensione aziendale non siano sufficienti i
parametri di tipo:
-quantitativo di natura economica (il fatturato, il valore aggiunto, ecc.),
-patrimoniale (le diverse configurazioni del capitale),
-tecnica (la potenzialità degli impianti, la quantità di prodotti nell’unità di tempo, ecc.)
-organizzativa (il numero degli addetti, il numero dei livelli direttivi ed esecutivi, ecc.),
poiché nessuno di questi si rivela singolarmente significativo.
Sarebbe, invece, opportuna una definizione delle piccole e medie imprese che considerasse –
congiuntamente all’insieme dei parametri quantitativi – anche quelle caratteristiche qualitative (tipo di
proprietà e di direzione, strutture giuridiche e organizzative, motivazioni che determinano le scelte…) che
rendono le problematiche di gestione e i risultati di queste imprese significativamente differenti da quelli
propri delle altre tipologie di impresa.
Per giungere, dunque, a una definizione economica della PMI sarebbe necessario considerare
congiuntamente due classi fondamentali di variabili:
>quelle istituzionali, relative all’assetto proprietario, ai rapporti famiglia-impresa, alla struttura organizzativa
e alle condizioni tecniche, operative e finanziarie;
>quelle ambientali, concernenti le specificità dei rapporti che l’impresa intrattiene con gli attori del sistema
sociale e competitivo.
All’interno di queste variabili, i seguenti fattori assumono una particolare rilevanza:
– il fattore imprenditoriale, cioè le diverse modalità di integrazione tra proprietà e potere decisionale; a
questo proposito, nella PMI si rileva normalmente un’elevata correlazione tra la personalità, le motivazioni e
gli obiettivi dell’imprenditore e quelli della sua azienda, il cui destino ne risulta condizionato;
– il fattore organizzativo, generalmente caratterizzato dall’assenza di una completa ‘tecnostruttura’, che
tuttavia consente alla PMI di realizzare una elevata flessibilità strategica e operativa, di cogliere le
opportunità transitorie che si presentano nelle relazioni con il mercato e di instaurare e mantenere una
comunicazione diretta e informale tra l’imprenditore e i suoi dipendenti;
– il fattore di mercato, che per la PMI significa il presidio di una quota relativamente piccola del mercato,
con la possibilità, però, di giocare un ruolo attivo in essa, grazie anche alla vicinanza ai clienti e ai contatti
personali che questi possono intrattenere direttamente con l’imprenditore.

1.3. Le problematiche strategiche della piccola e media impresa.


Le strategie competitive delle PMI risultano tradizionalmente per lo più centrate su un gruppo specifico di
clienti, su un’area geografica circoscritta, su una gamma ristretta di prodotti e su una fase particolare del
ciclo produttivo: si tratta di strategie che consentono all’impresa di selezionare territori meno vulnerabili
rispetto ai concorrenti e di ritagliarsi un proprio spazio di mercato, in cui perseguire un vantaggio di costo o
di differenziazione (strategie di focalizzazione).
Le PMI hanno così avuto modo di svilupparsi:
– nei settori frammentati, che si caratterizzano per l’assenza di economie di scala, per l’elevata incidenza dei
costi di trasporto o per la forte differenziazione dei bisogni; in questi ambiti, le PMI possono attuare
strategie di differenziazione sostenute da politiche di premium-price giustificate da fattori quali il contenuto
tecnologico del prodotto, l’esclusività del know-how, il livello del servizio offerto…;
– nei settori concentrati, all’interno degli spazi lasciati liberi dalle grandi imprese, attraverso l’attenta
segmentazione del mercato o la focalizzazione su una specifica fase del ciclo produttivo, nella quale risulta
vincente il contenuto di servizio (flessibilità, tempestività, ecc.) o per la quale l’impresa ha maturato
specifiche competenze sul piano dell’efficienza con cui viene svolta la lavorazione.
A quest’ultimo proposito, già negli anni Settanta era possibile riscontrare un ampio fenomeno di
scomposizione e di frammentazione dei cicli produttivi tra diverse imprese: più esattamente, si trattava di
un decentramento di capacità – che vedeva le grandi imprese esternalizzare le parti meno remunerative del
processo produttivo alle piccole imprese cosiddette ‘residuali’ – e di un decentramento di specialità, che
consisteva in una esternalizzazione di parti più complesse, rivolta a piccole imprese definibili
‘complementari’ e dotate di forti livelli di efficienza e di efficacia.
Con il progressivo superamento dei condizionamenti tipici della cultura fordista, la grande impresa ha,
dunque, proceduto nel perseguimento di strategie di modularizzazione (diffusione delle business unit) e di
flessibilizzazione (outsourcing, lean production, creazione di reti esterne…) che hanno comportato:
-da un lato, un avvicinamento della grande impresa alla piccola e media, in quanto a capacità di inseguire le
nicchie di mercato e di servire il cliente;
-dall’altro lato, un aumento degli spazi potenziali di azione nei rapporti di subfornitura della piccola e media
impresa nei confronti della grande.
In questo nuovo contesto produttivo, le opzioni strategiche che si aprono alla PMI vengono a
ricomprendere:
– la produzione diversificata di qualità, tipica delle imprese che puntano a competere più sulla qualità dei
prodotti che sul prezzo, puntando su segmenti di mercato più elevati e sulla capacità di rispondere
tempestivamente alla maggiore sofisticazione e volatilità della domanda;
– la produzione di massa flessibile, basata sulla produzione di un’ampia varietà di beni non standardizzati
per rispondere alla variabilità della domanda senza rinunciare a contenere i prezzi; la capacità di competere
contemporaneamente sul prezzo e sulla diversificazione del prodotto è resa possibile dall’automazione, che
consente di realizzare in massa un’ampia gamma di prodotti;
– la produzione automatizzata diversificata, fondata sull’estrema flessibilità aziendale, che consente la
massima versatilità e rapidità di aggiustamento dell’impresa rispetto ai mutamenti qualitativi e quantitativi
della domanda.
Numerose sono le sfide strategiche che le stesse imprese dovranno affrontare nell’immediato futuro.
1. Tra queste, al primo posto si colloca il potenziamento delle dimensioni qualitative dell’impresa, il che
esprime una generale tendenza al miglioramento interno, incentrato sulla ricerca delle condizioni per
intraprendere un percorso di eccellenza che non necessariamente implichi il passaggio a forme
organizzative di maggiori dimensioni quantitative.
A questo proposito, tre possono essere i principali profili da sviluppare:
> l’adozione di metodi, di strumenti e di assetti di governo di tipo manageriale allo scopo di consentire una
maggiore articolazione strutturale dell’impresa che favorisca la capacità di problem solving e l’autonomia
decisionale, sia l’adozione di idonee modalità di pianificazione strategica incentrate sull’ottica di processo.
> la realizzazione di adeguati processi di successione generazionale che numerose imprese dovranno
affrontare nei prossimi anni per garantire la continuità nel tempo dell’azienda, e fare in modo che il ciclo di
vita dell’impresa non si concluda con la scomparsa del fondatore;
> la creazione di una diffusa e continua tensione verso la qualità, che coinvolga la globalità delle attività
dell’impresa e che possa riflettersi all’esterno in termini di immagine di superiorità qualitativa.
2. In secondo luogo, tra le sfide strategiche richiamate, un ruolo rilevante è occupato dalle modalità di
sviluppo dell’impresa, in modo particolare quelle realizzabili per linee esterne, attraverso l’acquisizione di
altre imprese, l’assunzione di partecipazioni, la realizzazione di joint venture, di accordi, di partnership e, più
in generale, di alleanze strategiche.
3. In terzo luogo, una sfida strategica particolarmente rilevante è rappresentata dal reperimento delle fonti
di finanziamento, finora troppo spesso dipendenti dall’indebitamento bancario con condizioni onerose e
dietro la presentazione di garanzie elevate, connesse alla percezione di maggiore rischiosità dell’impresa.
4. In quarto luogo, infine, la sfida costituita dal processo di globalizzazione dei mercati e delle attività
produttive, che può essere visto come il punto di partenza di molteplici e differenti opzioni strategiche
finalizzate a ricercare una integrazione fra i mercati di aree geografiche diverse, realizzata per effetto del
ruolo unificante della tecnologia e per la facilità delle comunicazioni di tipo interattivo;
In conclusione, dalle considerazioni in precedenza effettuate risulta chiaro come la dimensione
comunicativa e relazionale della gestione della PMI svolga un’evidente funzione essenziale, poiché tale
tipologia di impresa trova proprio nella capacità di comunicazione e di relazione il fondamento del successo
della propria formula imprenditoriale.
La PMI, infatti, grazie alla rete di relazioni che è in grado di costruire e all’impiego delle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione, riesce a sfruttare a proprio favore, in un contesto ambientale e di
mercato caratterizzato da crescente complessità:
– da un lato, le opportunità offerte dalla ridotta dimensione della struttura organizzativa, flessibile,
adattabile e agevolmente riconfigurabile, e i vantaggi derivanti dalla grande dimensione della rete cui
appartiene;
– dall’altro lato, le opportunità offerte dal valore del localismo, dalle specificità del territorio di
appartenenza e dalla possibilità di personalizzazione del rapporto con il cliente.
1.4. Il ruolo della comunicazione nella gestione della piccola e media impresa.
Nella gestione della PMI la comunicazione assume il ruolo di fattore strategico, in quanto:
– da un lato, contribuisce ad affermare e sostenere il progetto imprenditoriale nel territorio in cui l’impresa
opera, trasmettendo e valorizzando i suoi caratteri e le sue peculiarità, traducendole in vantaggi concreti per
tutti gli interlocutori che costituiscono il contesto socioeconomico;
– dall’altro lato, concorre a sviluppare il progetto stesso, cercando di convincere gli interlocutori strategici
dell’impresa a cooperare con essa per sviluppare le potenzialità e creare valore economico.
In linea generale, si possono individuare tre dimensioni della comunicazione:
1. La comunicazione come cultura, consistente nel considerare la comunicazione quale valore centrale della
gestione dell’impresa, all’interno di una visione strategica di lungo periodo, che focalizzi l’attenzione sui
caratteri dell’identità dell’impresa che si traducono di per sé in momenti e in occasioni di comunicazione;
2. La comunicazione come strategia, che si estrinseca nella corretta definizione di obiettivi e nella idonea
articolazione di piani di comunicazione che siano in grado di contribuire al perseguimento delle finalità
generali dell’impresa, in ambito sia competitivo che sociale;
3. La comunicazione come funzione operativa, che si concentra su singole attività o su insiemi di attività di
comunicazione poste in essere a sostegno delle politiche aziendali, tra loro articolate, coordinate e
realizzate secondo ben precisate modalità tecniche.

1.4.1. La cultura della comunicazione e il ruolo della reputazione aziendale.


Emerge l’esigenza di un orientamento alla comunicazione anche da parte delle PMI, poiché viene rilevato
che gli imprenditori che si dichiarano maggiormente sensibili a questo tema attribuiscono alla
comunicazione stessa un indubbio ruolo critico rispetto alla sopravvivenza e allo sviluppo della propria
impresa. D’altro canto, si constata anche che tale orientamento risulta poco diffuso.
Quanto alle ragioni di tale scarsa diffusione, queste vengono fatte risalire, in generale, alle specificità della
PMI e, in particolare, allo stile di gestione accentrato dell’imprenditore e alle peculiarità della sua
formazione professionale e culturale, che risulta elevata per quanto concerne i contenuti di tipo tecnico, ma
appare ridotta sotto il profilo delle competenze comunicative.
Occorre tuttavia rilevare che gli aspetti appena richiamati attengono più alla dimensione strategica e
operativa che non a quella propriamente culturale della comunicazione. Infatti, sotto quest’ultimo profilo
viene fatto riferimento fondamentalmente alla valenza comunicativa propria dell’identità dell’impresa.
Se, dunque, la cultura della comunicazione attiene alla consapevolezza da parte dell’imprenditore della
natura comunicazionale degli elementi dell’identità dell’impresa, allora è sulla base del complesso e della
tipicità di tali elementi che deve essere effettuata la verifica circa l’esistenza o meno di una cultura della
comunicazione nelle PMI.

1.4.2. Le problematiche di pianificazione strategica della comunicazione.


Per quanto concerne la seconda delle dimensioni, si rileva una generalizzata mancanza di pianificazione
strategica in tema di comunicazione, anche se ciò non significa necessariamente assenza di strategia: nella
comunicazione, così come in altre aree aziendali, la formulazione della strategia non richiede di necessità la
formazione di un percorso di pianificazione formale.
La strategia consiste fondamentalmente nell’identificazione e nella concettualizzazione del problema
strategico, nella successiva ricerca di soluzioni a tale problema e, infine, nella mobilitazione delle capacità
aziendali intorno alla soluzione definita.
Nella PMI tale percorso appare peraltro facilitato dal fatto che i soggetti che ne sono coinvolti risultano
numericamente pochi, ben affiatati e hanno spesso condiviso esperienze simili e non solo all’interno
dell’impresa.
Ciò che, invece, risulta spesso lacunosa è la comunicazione della strategia deliberata, poiché essa tende a
focalizzarsi soprattutto sulle conseguenze operative delle scelte e non sulle loro premesse e, di
conseguenza, non agevola la comprensione delle motivazioni dei comportamenti richiesti, in un contesto
complesso e non facilmente prevedibile.
Se è, dunque, vero che le PMI non attivano di norma processi di comunicazione formalmente pianificati e
consapevolmente esplicitati, non vi è tuttavia alcun ostacolo alla diffusione anche in tali imprese di modalità
di gestione razionale della comunicazione, una volta che vengano rispettate alcune condizioni di base:
– la motivazione dell’imprenditore e dei suoi manager ad affrontare le nuove tematiche e le nuove
esperienze professionali, legate all’affermazione e alla diffusione nell’impresa di una cultura della
comunicazione quale fattore strategico;
– la disponibilità di risorse economiche e di informazioni adeguate;
– l’esistenza di una struttura organizzativa in grado di assumersi consapevolmente e con competenza
specifica responsabilità decisionali e operative con riferimento alla politica di comunicazione, delegate
dall’imprenditore;
– la garanzia di continuità e di coerenza nella gestione della comunicazione.

1.4.3. I caratteri della comunicazione come funzione operativa.


Sotto il profilo operativo, esistono senza dubbio molteplici circostanze, legate all’evoluzione della PMI, che
agiscono nella direzione di indurre l’imprenditore a prendere sempre più consapevolezza del ruolo della
comunicazione e a comportarsi di conseguenza anche dal punto di vista della realizzazione concreta delle
forme di comunicazione.
D’altro canto, si presentano anche situazioni nelle quali le relazioni delle PMI con i clienti e i fornitori
risultano estremamente semplificate e gestibili attraverso forme di comunicazione di carattere puramente
fisiologico ed elementare, tali da non richiedere la realizzazione di specifici strumenti.
In generale, si può comunque rilevare che le forme e gli strumenti di comunicazione effettivamente
impiegati dalla PMI industriale sono volti a realizzare e mantenere pragmaticamente i legami dell’impresa
con i diversi interlocutori. Tali strumenti possono essere articolati, di conseguenza, in tre vaste classi a
seconda del livello di interazione che rendono possibile:
– forme e strumenti che consentono un alto livello di interazione tra singoli e specifici pubblici (la
comunicazione diretta della forza di vendita, il direct mailing, la direct response advertising su media
specializzati…);
– forme e strumenti che permettono all’impresa di rivolgersi al mercato potenziale in modo mirato e
selettivo, presentando le proprie produzioni, stimolando il primo contatto e consolidando un’immagine
favorevole (le mostre, le fiere, le sales promotion rivolte a pubblici specifici…);
– forme e strumenti che promuovono una relazione di carattere generale con l’ambiente, rivolti ad ampi
pubblici, allo scopo di creare, mantenere e sviluppare la conoscenza, la legittimazione e il consenso nei
confronti del progetto complessivo dell’impresa e delle sue produzioni (la pubblicità classica, le relazioni
pubbliche, le sponsorizzazioni, ecc.).
2. La comunicazione nell’economia della piccola e media impresa: profili di analisi ed evidenze empiriche.
2.1. Gli obiettivi e la metodologia della ricerca.
Al fine di comprendere quale ruolo abbia assunto la comunicazione nell’economia della PMI industriale
italiana è stata svolta presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano una approfondita
ricerca, che ha coinvolto durante il 1999 un universo di circa 2000 imprese operanti in Italia nei diversi
comparti del settore manifatturiero.
La ricerca si è proposta di indagare se, e in quale misura, nella PMI industriale si sia affermata un’ottica di
gestione all’interno della quale viene posta una particolare attenzione alla comunicazione aziendale e ciò
non solo, o non tanto, nelle sue forme più prettamente commerciali, ma in quanto fonte di risorse
immateriali di rilevanza strategica.
La ricerca ha così inteso perseguire due precisi obiettivi:
1. Comprendere il ruolo che la comunicazione d’azienda ha assunto in quanto fonte di risorse strategiche e
di vantaggi competitivi nella PMI industriale;
2. Spiegare tale ruolo in relazione ai caratteri peculiari e all’evoluzione dell’impresa stessa.
Più concretamente, il primo obiettivo della ricerca è stato quello di rilevare il livello di importanza attribuito
dalle PMI alle seguenti quattro dimensioni, concernenti sia la strategia aziendale nel suo complesso, sia più
specificamente la strategia di comunicazione:
– le risorse immateriali e le capacità aziendali determinanti per lo sviluppo dell’impresa nel tempo;
– i fattori critici di successo competitivo nei mercati all’interno dei quali l’impresa opera;
– gli interlocutori strategici dell’impresa;
– gli obiettivi assegnati alla comunicazione d’impresa, gli strumenti necessari per perseguirli e la natura
delle informazioni più frequentemente trasmesse dall’impresa.
L’ipotesi è che sia il percorso evolutivo dell’impresa a collocarsi alla base della consapevolezza del ruolo
strategico assunto dalla comunicazione aziendale, ovvero che l’evoluzione dell’impresa nel tempo possa
ritenersi causa adeguata del prodursi di una significativa e crescente consapevolezza del ruolo strategico
svolto dalla comunicazione e, di conseguenza, della necessità di una sua più razionale e articolata gestione.
Allo scopo di delineare il percorso evolutivo compiuto dalle imprese negli ultimi anni, sono state considerate
per ciascuna impresa sia le diverse modalità di sviluppo per linee esterne, di tipo equity e non-equity, poste
in essere negli ultimi tre anni – l’acquisizione di altre imprese, l’assunzione di partecipazioni, la realizzazione
di joint venture e di accordi di collaborazione –, sia alcuni indicatori di miglioramento qualitativo
dell’impresa lungo le dimensioni del suo articolato finalismo (cambiamenti organizzativi, progetti strategici,
innovazioni commerciali, ristrutturazioni produttive, ecc.).
Sotto il profilo metodologico, la ricerca ha preso in considerazione un ampio insieme di PMI manifatturiere
italiane selezionate avvalendosi di diverse fonti informative, che hanno consentito di identificare un
universo di imprese che rispondessero a precisi criteri settoriali, geografici e dimensionali, allo scopo di
conseguire una visione rappresentativa del fenomeno studiato nelle diverse realtà considerate.
A ciascuna impresa così individuata è stato inviato per posta un questionario articolato in 11 domande a
risposta chiusa sulla base di scale di importanza o di frequenza, oltre a quelle identificative del rispondente.
Alla ricerca hanno aderito, restituendo il questionario correttamente compilato, 407 imprese, pari a poco
più del 20% dell’universo considerato.
2.2. I principali risultati della ricerca a livello aggregato.
Tra le risorse e le capacità alla base dello sviluppo dell’impresa si collocano ai primi posti per livello di
importanza la reputazione dell’impresa, l’immagine del prodotto e il know-how aziendale (graf. 1), così
come tra i fattori critici di successo nel mercato risultano determinanti i caratteri del prodotto, la
reputazione dell’impresa e il servizio offerto, mentre la comunicazione di marketing si colloca all’ultimo
posto (graf. 2).

Considerando superficialmente i due aspetti appena riscontrati si potrebbe rilevare un’apparente


contraddizione tra l’elevato ruolo riconosciuto alle due dimensioni aggregate di reputazione e di immagine e
la modestissima importanza assegnata alla comunicazione di marketing e ciò al di là della riscontrata
diffusione, anche non marginale, di forme e di strumenti di comunicazione commerciale.
In realtà non è possibile sostenere, almeno a priori, di trovarsi in presenza di una contraddizione: la
comunicazione di marketing rappresenta, infatti, una delle molteplici aree della comunicazione aziendale ed
è evidente che negli ambiti business-to-business essa rivesta un’importanza minore rispetto a quella
assunta nei contesti business-to-consumer.
Analizzando con maggiore consapevolezza le problematiche concrete della PMI si comprende che occorre
distinguere nettamente due concetti o due contesti di comunicazione:
– uno, quello della comunicazione commerciale, considerato esplicitamente, ma avente di fatto un peso
relativamente ridotto;
– l’altro, quello della comunicazione implicitamente, e spesso inconsapevolmente, posta in essere attraverso
l’ordinario agire dell’impresa.
Le forme e le modalità della comunicazione implicita sono evidentemente molteplici:
-i comportamenti quotidiani; -le relazioni intrattenute con i fornitori oltre che con i clienti;
-la qualità dei processi e dei prodotti; -la valorizzazione dell’offerta con un articolato insieme di servizi;
-la capacità di innovazione; -la coesione e la motivazione del personale;
Nei confronti di tali aspetti funge da collante il sistema di identità visiva dell’impresa: il marchio/logotipo, gli
stampati, la segnaletica, gli imballaggi, i mezzi di trasporto…
Sono questi, in realtà, gli aspetti che determinano l’identità dell’impresa e che hanno in sé una forte valenza
comunicativa, che si esprime in quel concetto di sintesi che è, appunto, la reputazione di cui l’impresa gode
nei contesti competitivo e sociale in cui opera e nei confronti della quale l’imprenditore si dimostra,
correttamente e consapevolmente, molto sensibile e attento.
È, dunque, proprio tale atteggiamento che può far ipotizzare una apertura di questi imprenditori ai valori
della cultura della comunicazione aziendale.
Proseguendo nell’analisi delle risposte fornite a livello aggregato, per quanto concerne gli obiettivi assegnati
alla comunicazione dell’impresa, ai primi posti in ordine di importanza si posizionano il sostegno delle
vendite e delle quote di mercato e l’affermazione della notorietà e dell’immagine dell’impresa nel suo
complesso e del prodotto in particolare; seguono l’ampliamento della capacità di apprendimento e di
innovazione dell’impresa, l’informazione e il coinvolgimento del personale, il contributo
all’internazionalizzazione dell’impresa e la promozione delle relazioni di cooperazione con fornitori, clienti e
distributori.
Venendo a considerare le forme e gli strumenti di comunicazione, due sono state le dimensioni analizzate
(grafico 3):
– da un lato, la % di impiego effettivo delle forme e degli strumenti considerati, che evidenzia il diffuso
utilizzo della comunicazione diretta e informale, nonché delle principali forme della comunicazione
commerciale (fiere, cataloghi e listini, marchio e logotipo, rete di vendita, pubblicità…);
– dall’altro lato, il livello di importanza attribuito agli strumenti impiegati per il perseguimento degli obiettivi
assegnati alla politica di comunicazione, che evidenzia il coerente e rilevante ruolo svolto dalle fiere, dalla
comunicazione della forza di vendita, dalla comunicazione diretta e informale in genere, dal marchio e dal
logotipo, dai cataloghi e dai listini, rispecchiando così la configurazione di strumenti tipica delle imprese che
operano in ambiti business-to-business .
2.3. L’analisi del ruolo attribuito alla reputazione aziendale quale risorsa immateriale.
La reputazione aziendale costituisce la risorsa strategica immateriale alla quale è stata attribuita la maggiore
importanza nello sviluppo dell’impresa. Più precisamente, quasi il 65% delle PMI rispondenti ha
riconosciuto a tale risorsa il massimo livello di importanza. Allo scopo di verificare l’esistenza di una
maggiore consapevolezza circa il ruolo strategico assunto dalla comunicazione nell’economia dell’azienda
presso le imprese che attribuiscono alla reputazione aziendale la massima importanza, le valutazioni
formulate da queste imprese sono state confrontate con quelle fornite dalle imprese che, invece, assegnano
alla reputazione un ruolo meno rilevante.
Sono state così ricercate le differenze maggiormente significative con riguardo ai tre più importanti aspetti
della politica di comunicazione:
– in primo luogo, agli obiettivi assegnati alla comunicazione, che le imprese maggiormente sensibili al ruolo
della reputazione valutano tutti come significativamente più importanti, in particolare quelli riferiti alla
gestione dei rapporti di partnership e all’affermazione di una identità sociale nel territorio di appartenenza.
Vi è da rilevare che, le altre imprese, invece, focalizzano la loro attenzione nella gestione della
comunicazione fondamentalmente sugli obiettivi più direttamente e propriamente commerciali;
– in secondo luogo, agli interlocutori della comunicazione dell’impresa, tra i quali le imprese più attente al
ruolo della reputazione assegnano un’importanza significativamente maggiore alle istituzioni finanziarie,
alle associazioni di categoria, alle Camere di commercio e al mondo dei mass media;
– in terzo luogo, agli strumenti di comunicazione, tra i quali emergono il bilancio e le relazioni pubbliche che
assumono una maggiore importanza presso le imprese che giudicano essenziale il ruolo della reputazione.
Vi è da rilevare che la reputazione aziendale si colloca al primo posto per importanza mediamente in tutti i
distretti industriali e i comparti produttivi analizzati, anche se poi taluni aspetti della comunicazione
presentano alcune differenze.
In particolare, all’interno dei distretti industriali del marmo, della calzatura e dell’oro risultano
statisticamente più importanti le risorse di natura relazionale e i rapporti con il territorio. Inoltre, nel
distretto calzaturiero e in quello orafo appaiono maggiormente importanti il prodotto e la sua immagine, la
distribuzione e la comunicazione di marketing con molti dei relativi strumenti.
Nei comparti caratterizzati da un più intenso impiego di tecnologie avanzate assumono, invece, una maggior
importanza il know-how quale risorsa strategica, nonché tutti gli aspetti legati all’innovazione, alla
cooperazione e alla partnership tra imprese.

2.4. I caratteri dell’impresa e la loro influenza sul ruolo della comunicazione.


1. La dimensione aziendale.
La diversa dimensione aziendale non incide sull’importanza attribuita agli aspetti analizzati, a esclusione
della comunicazione di marketing, ritenuta più importante dalle imprese più grandi.
2. L’articolazione organizzativa.
L’articolazione della struttura organizzativa incide sull’importanza attribuita a molteplici aspetti della
comunicazione, in particolare quella rivolta all’interno dell’azienda.
3. Il grado di managerializzazione.
Il diverso grado di managerializzazione dell’impresa incide sull’importanza attribuita alla reputazione e alla
comunicazione di marketing, oltre che a molti aspetti della comunicazione interna.
4. Il settore produttivo dell’impresa.
La tipologia di settore non incide sull’importanza attribuita ai diversi aspetti della politica di comunicazione.
5. L’ampiezza del mercato.
Le imprese che concentrano più del 70% del loro fatturato sui primi dieci clienti attribuiscono minore
importanza alle relazioni commerciali e alla comunicazione di marketing.
6. La percentuale di esportazioni.
Le imprese che presentano una quota di fatturato estero superiore al 30% attribuiscono una maggiore
importanza all’immagine di prodotto e alla comunicazione di marketing.
2.5. Il percorso evolutivo dell’impresa e il ruolo attribuito alla comunicazione aziendale.
La ricerca è stata impostata in maniera tale da rilevare sia i più significativi cambiamenti affrontati, sia le
modalità di sviluppo adottate, sia, infine, i progetti strategici realizzati dalle imprese negli ultimi tre anni.
Prendendo in considerazione le risposte fornite a livello aggregato, dalla ricerca emerge un profilo di
imprese particolarmente attive e dinamiche. Infatti, per quanto riguarda le modalità di sviluppo per linee
esterne, le imprese hanno dimostrato una significativa predisposizione:
1. In primo luogo, verso le forme di tipo equity (acquisizioni, partecipazioni, joint-venture), poiché solo il
54,1% delle imprese rispondenti non ne è stato in nessun modo coinvolto negli ultimi tre anni;
2. In secondo luogo, appare decisamente frequente la realizzazione di forme di sviluppo non-equity, ovvero
di accordi di cooperazione con altre imprese (accordi con altre imprese per R&S, licenze e brevetti, acquisti,
appalti…): infatti, solo il 23,4% delle imprese non ha attuato alcun accordo negli ultimi tre anni.
3. In terzo luogo, anche per quanto concerne i cambiamenti realizzati e i progetti strategici posti in essere
dalle imprese negli ultimi tre anni si rileva un notevole dinamismo: solamente il 3,6% dei rispondenti ha
dichiarato, infatti, di non aver introdotto alcun cambiamento o effettuato alcun progetto, mentre le altre
imprese si sono dimostrate alquanto attive, soprattutto sotto il profilo dell’ampliamento degli spazi
produttivi e/o commerciali, dello sviluppo di reti informatiche e dell’introduzione di progetti di qualità totale
o di certificazione aziendale.
L’avere considerato anche i cambiamenti operati recentemente dalle PMI risulta giustificato dall’ipotesi che
il fatto di godere di una reputazione aziendale positiva svolga un ruolo fondamentale nella formazione della
capacità dell’impresa di operare cambiamenti e rinnovamenti.
Al fine di verificare l’ipotesi che possano esistere differenze significative nel ruolo assegnato alla
comunicazione nell’economia dell’impresa sulla base del percorso evolutivo compiuto, le imprese
rispondenti sono state suddivise in due classi a seconda del fatto che avessero o meno attivato forme di
sviluppo esterno di tipo equity negli ultimi tre anni.
Ora, confrontando le risposte delle imprese non emergono differenze significative nei giudizi relativi al
livello di importanza assegnato alle risorse immateriali e alle capacità dell’impresa, se non per la cultura
aziendale, ritenuta significativamente più importante dalla prima classe di imprese.
Diversa è, invece, la valutazione operata dalle due classi di imprese con riferimento al grado di importanza
di alcuni obiettivi che vengono assegnati alla comunicazione. In particolare, le imprese che hanno attivato
almeno una forma di sviluppo esterno riconoscono alla comunicazione una rilevanza notevolmente e
significativamente superiore con riferimento alla gestione dei rapporti di partnership e alle conseguenti
finalità che la comunicazione può perseguire.
La stessa tendenza si ritrova suddividendo le imprese sulla base del fatto che abbiano o meno stretto
relazioni di cooperazione con altre imprese.
Come conseguenza degli ambiti di analisi considerati, si può concludere che le imprese, che negli anni si
sono dimostrate maggiormente dinamiche sotto il profilo delle diverse modalità di sviluppo per linee
esterne, hanno maturato una più profonda consapevolezza circa il ruolo che la comunicazione può svolgere
nell’agevolare e nel potenziare le capacità di relazione che sono alla base dell’attuazione e del
consolidamento delle alleanze e degli accordi tra le imprese, specialmente quelli di carattere strategico che
si svolgono nel medio/lungo periodo.

2.6. L’identificazione delle aree della comunicazione della PMI.


L’avere identificato un insieme di imprese che riconosce alla comunicazione un particolare ruolo strategico
con riferimento agli specifici aspetti organizzativi e gestionali dei rapporti di partnership ha condotto a
ipotizzare che le imprese potessero valutare il ruolo della comunicazione più o meno importante a seconda
non solo del tipo di percorso evolutivo compiuto nel tempo, ma anche delle specifiche e diverse
problematiche che caratterizzano l’ordinaria gestione dell’impresa.
Più precisamente, si tratta dell’articolazione della comunicazione d’azienda in 4 ampie aree che si
caratterizzano per obiettivi, strumenti e contenuti specifici, di norma gestiti da funzioni aziendali differenti:
1. La comunicazione istituzionale, che si pone l’obiettivo di perseguire la legittimazione dell’impresa
nell’ambiente in cui opera ed è rivolta a soggetti non direttamente interessati ai prodotti o all’investimento
nell’azienda e, quindi, esclude sia le relazioni con i portatori di interessi economici, sia le relazioni di
affermazione dell’identità dell’impresa e/o della marca sul mercato;
2. La comunicazione organizzativa, evoluzione del concetto di comunicazione interna, che ha per obiettivo
l’ottimizzazione dell’impiego delle risorse umane che fanno capo all’impresa e che si concretizza
nell’insieme dei messaggi scambiati all’interno delle reti di relazioni che costituiscono l’essenza
dell’organizzazione;
3. La comunicazione finalizzata al reperimento delle risorse strategiche, che si pone l’obiettivo di far
conoscere le condizioni di impiego delle risorse nell’impresa, specialmente quando tali risorse sono oggetto
di rinegoziazione continua; essa include la comunicazione ai portatori di capitale azionario, ai fornitori di
capitale di credito (di finanziamento e di funzionamento) e ai portatori di know-how e di altre risorse
strategiche per l’impresa;
4. La comunicazione commerciale, che è volta ad ampliare e consolidare il mercato di sbocco e che si avvale
dei classici strumenti operativi della promotion.
I risultati evidenziano inequivocabilmente che l’area maggiormente rilevante secondo le imprese
considerate è rappresentata dalla comunicazione organizzativa e gestionale attuata, prevalentemente
attraverso gli strumenti elettronici, sia per attivare e coordinare le relazioni all’interno dell’impresa, sia per
consolidare e sviluppare le relazioni dell’impresa stessa nell’ambito delle reti – ed, eventualmente, dei
distretti industriali – nelle quali si articolano le filiere produttive.

La seconda area della comunicazione appare essere quella di tipo istituzionale, che tuttavia risulta ampliata
nei propri obiettivi e strumenti rispetto alla visione tradizionale limitata ai rapporti con il territorio e con gli
stakeholder non commerciali. In questo caso, infatti, nell’ambito della comunicazione istituzionale viene
inclusa anche una componente più specificamente riferita al prodotto, per il quale l’aspetto istituzionale si
riferisce alla garanzia che l’impresa in sé offre al sistema di offerta una volta che entra nel mercato.
Le ultime due aree della comunicazione si presentano coerenti, riguardando l’una fondamentalmente gli
obiettivi e gli strumenti di natura commerciale e, l’altra, quelli di carattere economico-finanziario.
3. Il percorso evolutivo delle imprese che giudicano la reputazione come la risorsa strategica più importante.
(65% delle imprese campione).
➢Sono nate prevalentemente prima del 1980;
➢Presentano dimensioni tendenzialmente stabili nel tempo;
➢Hanno tutte la forma di società di capitale;
➢Operano in un mercato ampio e in espansione.
1. Negli anni ’60 e ’70:
-Le imprese hanno un assetto organizzativo e una forma giuridica semplici e non presentano collegamenti
con altre aziende;
-Le competenze sono la risorsa fondamentale;
-Il prodotto è il primo fattore di successo;
-Le imprese iniziano a studiare e a modificare il marchio e il logotipo.
2. Durante gli anni ’80:
-Si modifica la forma giuridica e si presentano divisioni tra eredi o soci;
-inoltre, si intensificano i processi di riconversione ed iniziano le prime forme di collegamento;
-procede la managerializzazione;
-l’immagine di prodotto diventa la risorsa più importante;
-al prodotto si affianca il prezzo come fattore di successo rilevante.
3. Durante gli anni ’90:
-si sviluppano i collegamenti con le altre imprese (di tipo equity e non-equity) e si attuano progetti di qualità
totale e si sviluppano nuovi business;
-si completa la managerializzazione;
-la reputazione dell’impresa diventa la risorsa più importante sotto il profilo strategico;
-al prodotto e al prezzo si aggiunge l’innovazione come fattore di successo.

4. Il percorso evolutivo delle imprese che giudicano la reputazione come la risorsa strategica meno
importante. (9% delle imprese campione).
➢Hanno una forma giuridica semplice, che non è mai cambiata nel tempo;
➢Non hanno mai realizzato acquisizioni, né progetti di qualità totale;
➢Presentano una ridotta managerializzazione;
➢Ritengono da sempre la competenza aziendale come la risorsa più importante;
➢Considerano da sempre il prezzo come il principale fattore di successo competitivo.

Conclusioni.
L’attenzione è stata posta sugli aspetti strategici della comunicazione, allo scopo di rilevare quale sia il
contributo che le PMI richiedono o riconoscono alla comunicazione nel sostenere il proprio percorso
evolutivo.
Complessivamente si può ritenere che le PMI esaminate abbiano maturato un elevato livello di sensibilità
nei confronti della comunicazione e ciò in quanto variabile che rappresenta il fulcro di tutti i processi
aziendali. La comunicazione, infatti, costituisce sia un collante organizzativo, sia un veicolo di relazioni e di
scambi di informazioni con gli interlocutori.
La ricerca ha evidenziato il significato che le PMI attribuiscono alla reputazione aziendale quale risorsa
strategica per lo sviluppo dell’impresa e quale fattore critico di successo in tutti i mercati in cui l’impresa
stessa opera.
Nelle valutazioni degli imprenditori, tuttavia, tale dimensione simbolica e valoriale non precede, né tanto
meno sostituisce, la realtà dell’impresa. In particolare, la qualità del prodotto resta sempre al primo posto
tra i fattori di successo competitivo.
Il ruolo della reputazione ha, comunque, assunto un particolare rilievo soprattutto negli anni Novanta a
seguito delle sfide strategiche che la PMI si è trovata ad affrontare.
A tale proposito sono tre gli aspetti che possono essere sottolineati.
1. In primo luogo, le mutate condizioni competitive hanno comportato la necessità per l’impresa di
comunicare il proprio cambiamento agli interlocutori strategici.
2. In secondo luogo, l’affermazione dell’economia globale ha implicato l’esigenza per l’impresa di investire
sempre più nelle risorse che aumentano la velocità di reazione e nella costruzione di reti.
Con riferimento a questi due primi aspetti, la ricerca ha evidenziato chiaramente come siano state le
imprese che si sono dimostrate più dinamiche sotto i profili ora richiamati ad avere maturato una maggiore
consapevolezza del ruolo assunto dalla comunicazione, in modo particolare in ambito organizzativo e
gestionale. Tali imprese hanno compreso che occorre affiancare all’ottica della comunicazione per il
controllo del mercato di sbocco quella della comunicazione per il controllo della filiera produttiva: in questo
modo sono giunte a integrare le tematiche comunicazionali nei propri processi decisionali, in vista
dell’adozione di nuove soluzioni concrete alle problematiche produttive e gestionali che tradizionalmente
risultano più vicine alla cultura industriale.
Le due ottiche di comunicazione:
➢ La comunicazione per il controllo del mercato di sbocco;
➢ La comunicazione per il controllo della filiera produttiva.
Il controllo della filiera produttiva è realizzabile efficacemente e stabilmente attraverso un coordinamento di
natura strategica e paritaria.
Tale coordinamento richiede capacità di relazione e di cooperazione, nonché credibilità e fiducia
nell’impresa.
3. In terzo luogo, infine, l’arricchimento del prodotto con servizi e caratteri immateriali, ormai ritenuti
essenziali (personalizzazione, garanzia, assistenza, consulenza, formazione, aggiornamento…), ha fatto sì che
l’impresa si trovasse a dover comunicare innanzitutto i propri valori fondamentali e il proprio potenziale di
sviluppo – in altre parole, l’essenza istituzionale – per giustificare e garantire con la propria reputazione il
valore del prodotto e il rapporto qualità/prezzo.
Considerando il percorso già compiuto da molte imprese di successo, pare possibile prevedere che
all’intensificarsi delle condizioni competitive e delle modificazioni dell’ambiente analizzate nella ricerca, la
comunicazione possa rivestire sempre più un ruolo strategico.
Affinché ciò possa realizzarsi compiutamente è però necessario che il mondo imprenditoriale e quello della
comunicazione d’impresa riflettano insieme attentamente su almeno tre temi particolarmente rilevanti:
> in primo luogo, sull’esigenza di aiutare la PMI a esplicitare le dimensioni comunicative della propria
identità e a prenderne piena consapevolezza.
> in secondo luogo, sulla necessità di identificare e di proporre modalità semplici di pianificazione strategica
della comunicazione della PMI, al fine di ottimizzare l’impiego delle risorse e coordinare efficacemente gli
strumenti di comunicazione.
> in terzo luogo, sull’opportunità di formare figure professionali con competenze specifiche nella
comunicazione della PMI, che siano in grado di affiancare l’imprenditore aiutandolo a esplicitare
efficacemente la propria strategia e a tradurla operativamente mediante l’impiego di adeguate forme di
comunicazione.
SLIDE BRUNSWICK.
> Che cos'è una crisi?
Un evento o una serie di eventi che creano alti livelli di instabilità, minacciando la capacità di
un'organizzazione di condurre l'attività e/ o compromettere seriamente la reputazione e la fiducia.
> Cos'è una crisi della comunicazione?
Un problema o una crisi si trasforma in una crisi di comunicazione quando diventa pubblica o c'è la
possibilità che "vada in pubblico".
“Ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione e cinque minuti per rovinarla. Se ci pensi, farai le cose in
modo diverso”. Warren Buffet.
>Che cosa è la reputazione?
La reputazione è la credenza che è tenuta generalmente circa un'organizzazione o una persona, alzante le
aspettative circa i comportamenti futuri.
Una reputazione consolidata crea una base di "buona volontà" che sarà vitale per affrontare una crisi.

Reputazione e crisi.
1. Minacce reputazionali.
Maggiore vulnerabilità: le minacce reputazionali emergono più velocemente, si diffondono molto più
ampiamente e sono più difficili da sradicare.
• Diffuso scetticismo nei confronti di aziende e manager;
• Diversificazione degli stakeholder e forte connessione tra loro;
• Ognuno è diventato un "media";
• Le informazioni vengono rilasciate in tempo reale;
• I social media diffondono e amplificano le opinioni critiche in tempo reale;
• Il regolamento si insinua e si sovrappone;
• L'influenza delle minoranze sta crescendo.

2. Gli effetti.
Un'organizzazione che mira a influenzare e coinvolgere efficacemente i propri stakeholder deve considerare:
• Maggiori aspettative sul ruolo e sui comportamenti aziendali;
• Maggiore consapevolezza del potere e dell'influenza delle imprese;
• Giudizio rilevante da parte del pubblico su ciò che l'azienda può e non può fare;
• Crescente aspettativa che le aziende affrontino le questioni sociali.

3. Categorie di crisi:
Quando una crisi diventa pubblica:
-La fiducia e la credibilità sono indebolite prima di poter dire una parola;
-Ogni comunicazione sarà radiografata e tutto ciò che verrà detto sarà scolpito nella pietra;
-Il nuovo pubblico ti sta identificando durante i momenti difficili e penserà immediatamente al peggio;
-Le condivisioni dei media sono rapide e il loro interesse non coincide con i tuoi piani;
-devi essere pronto a rispondere a domande del tipo: “cosa è successo?” – “come è successo?” – “di chi è la
colpa?” – “cosa stai facendo per risolvere il problema?”.

Gli attacchi informatici stanno diventando la norma.


Perché una crisi informatica è diversa? Per diversi fattori chiave:
_Linee temporali sconosciute;
_Più ampia gamma di parti interessate;
_Esposizione al pubblico;
_Portata e impatto.

Che cosa potresti affrontare? Le conseguenze dell'incidente informatico:

Gestione delle crisi.


Vediamo alcuni principi:
1. Niente batte la preparazione. Disporre di sistemi, processi e relazioni che consentano di agire in caso di
crisi.
2. Non tutte le questioni sono una crisi. Una crisi lo è solo quando rivela una verità più profonda, una che la
maggior parte delle persone sospettava comunque.
3. Una risposta di successo alla crisi non è solo sopravvivere, ma emergere in una posizione più forte.
4. Non esiste la gestione delle crisi. Si tratta di leadership di una crisi.
5. In una crisi, la risposta deve essere separata tra tattica e strategia.
6. Le mosse tattiche da sole non saranno mai abbastanza. I leader devono anche avere la giusta mentalità e
poi comunicare quella mentalità.
7. Trasparenza e autenticità sono fondamentali in tutte le comunicazioni.
8. I principali interventi strategici cambiano la dinamica.
9. Il vero test è come dimostri di avere un più ampio valore sociale.

Per mitigare l'impatto di ogni crisi sulla reputazione della società, la migliore, e forse l'unica, forma di
prevenzione è la preparazione.
Crisis Management Team.
Il Crisis Management Team è l'unità operativa responsabile della supervisione urgente di una crisi aziendale
nei confronti dell'opinione pubblica e di tutti i suoi stakeholder esterni.
Il Crisis Management Team è composto da membri aziendali di base (come CEO, Direttore Generale,
Direttore Operativo, CFO, Direttore Legale, Direttore Risorse Umane, Capo delle Comunicazioni...) e altri
(come Public Affairs Manager, Security Manager, Commercial Director, Head of Marketing, Head of R&D, ICT
Director, Risk Manager...), che vengono chiamati in base al tipo di crisi.
Esso affida al capo delle comunicazioni il compito di implementare, con uno staff multifunzionale, le
strategie decise dalla CMT.
Inoltre, discute e approva strategie e piani operativi per prevenire e preparare la crisi.
Infine, stabilisce procedure e processi per i dipendenti, nonché formazione e simulazioni a tutti i livelli.

Il ruolo del Head of Comms (capo delle comunicazioni).


Il capo delle comunicazioni gioca un ruolo chiave nella CMT.
Lui/ lei lavora con il team di comunicazione per:
• gestire obblighi normativi e saldi interni;
• identificare ciò che richiede divulgazione e ciò che può/deve essere detto;
• reagire rapidamente ed efficacemente quando una crisi diventa pubblica, rivolgendosi a stakeholder
esterni e dipendenti;
• mappare e coinvolgere sia gli stakeholder esterni che interni;
• monitorare tutti i media in tempo reale, identificando potenziali problemi;
• pianificare la strategia di comunicazione: messaggistica e tempi rivolti a diversi stakeholder, identificazione
dei portavoce;
• proteggere la reputazione aziendale in tutte le sedi e modi.

Stakeholders.

Esempio di procedura di crisi.


Nella gestione di un evento di crisi, la capacità di rispondere rapidamente a qualsiasi segnale che indica una
potenziale crisi di comunicazione è di primaria importanza.

Risposte alla crisi.


Le fasi cruciali della risposta alle crisi.

Più grande è la crisi, più la gestione della comunicazione conta.


>Fase 1.
• Allarme immediato e convocazione della CMT. Raccolta tempestiva delle informazioni pertinenti.
• Chiarire ruoli e responsabilità in base al tipo di crisi;
• Iniziare/Rafforzare il monitoraggio di tutti i canali informativi;
• Preparare/aggiornare domande e risposte, messaggi chiave, punti di discussione e strategia di fuga;
• Organizzare contatti e agende con consulenti esterni;
• Preparazione delle prime dichiarazioni con consulenti legali e di comunicazione;
• Analizzare le prime reazioni da parte dei media, dipendenti, istituzioni, pubblico.
>Fase 2.
• Creare un sito web/pagina di destinazione dedicata per fornire informazioni dirette;
• Analizzare le reazioni degli stakeholder e definire una strategia coinvolgente;
• Analizzare i commenti dei media e identificare disinformazione o informazioni dannose;
• Dialogo con i media con briefing in background cercando di minimizzare l'impatto della copertura negativa
• Rivolgendosi a tutti gli spettatori, anche quelli non direttamente toccati;
• Utilizzare i propri canali di social media per trasmettere la propria posizione e analizzare le reazioni e il
sentimento.
>Fase 3.
• Identificare i "punti pivot" che possono cambiare il dibattito a tuo favore;
• Comunicare l'esito di eventuali procedimenti legali o regolamentari al pubblico chiave;
• Effettuare una valutazione dell'impatto della crisi sulla reputazione aziendale;
• Pensare a una campagna a lungo termine per ricostruire la tua reputazione;
• Riconquistare la fiducia dei principali stakeholder;
• Effettuare un audit approfondito della percezione e dell'opinione pubblica.
Recupero della reputazione.
“Tempi di crisi, di sconvolgimento o di cambiamento costruttivo, non solo sono prevedibili, ma auspicabili.
Significano crescita. Fare un nuovo passo, pronunciare una nuova parola, è ciò che la gente teme di più”.
Fyodor Dostoevskij.
Crisi come un’opportunità:
1. Stimolo a guidare il cambiamento;
2. Valutazione delle debolezze e dei punti di forza.
3. Miglioramento dei piani.
4. Coesione aziendale, rinnovata fiducia nell'azienda.
5. Leadership dimostrata, relazioni migliori.
6. Consolidato e riconosciuto esternamente il posizionamento aziendale, la visione e la narrazione.
7. Migliore comprensione dello scenario e delle parti interessate, facilitando la pianificazione delle azioni
future.
8. Migliore preparazione e coordinamento per gli eventi futuri.

La campagna di reputazione.
1. Attenuare gli effetti della crisi:
•Gestione delle crisi in corso;
•Mantenere il lavoro del team in risposta alla crisi;
2. Identificare una nuova agenda:
• Comprendere e approvare le nuove priorità;
• Definire il contesto in relazione ai pari, ambienti più ampi;
• Mappare il pubblico per sapere cosa sa e cosa pensa;
3. Sviluppo di obiettivi:
• Decidere gli obiettivi di comunicazione, in linea con gli scopi aziendali;
• Identificare i "grandi argomenti" che possono conquistare;
• Definire i criteri di successo e gli obiettivi finali;
4. Creare e pianificare i contenuti
• Sviluppare un piano di comunicazione;
• Creare contenuti per supportare il piano;
5. Introduzione e risposta
• Lancio del piano;
• Rispondere alle opportunità tattiche e reattive;
6. Analizzare e ribadire
• Analizza i progressi in relazione agli obiettivi;
• Aggiorna strategia e contenuti in base ai feedback e ai risultati.

Il modo giusto per affrontare una crisi.


-Prendi i fatti giusti e definire cosa rivelare su di loro;
-Non rinviare;
-Definisci la tua narrazione;
-Capire quali canali multimediali contano di più;
-Coinvolgi i tuoi dipendenti;
-Coinvolgere e stimolare terzi;
-Mantenere la gestione aziendale focalizzata;
-Sii disciplinato e coerente su cosa dire e chi dice cosa;
-Vedere le opportunità per un rapido cambiamento di ritmo o di direzione.

LEZIONE 7 – EMMEGI.
Di cosa si occupa Emmegi Sistemi di Comunicazione?
Noleggio vendita e installazione di sistemi di comunicazione multimediale e di materiale audiovisivo volti
alla trasformazione degli ambienti espositivi e d’incontro in spazi interattivi.
Eventi, manifestazioni, congressi, road show, fiere, installazioni temporanee e permanenti come punti
vendita, show room e sale controllo sono i luoghi che abbiamo saputo valorizzare.
1. Utilizzare le referenze per la tua crescita.
2. Cose apparentemente impossibili ti danno visibilità.
Il cliente che ti dà fiducia perché gli dai risposte certe.
3. Comunicare attraverso i Grandi. A supporto di aziende leader a livello mondiale.
4. Interazione a portata di mano.
L’interazione con una realtà virtuale rende più interessante e stimolante l’esperienza del pubblico.

→ Dal «passaparola» a una nuova strategia di comunicazione:


- Valori e mission;
- Rinnovo degli strumenti (sito, brochure, CRM, e-mail marketing);
- Pagine social (LinkedIn, Instagram, Facebook).

LEZIONE 8.
Il concetto di product placement e la sua evoluzione.
Per product placement si intende l’inserimento oneroso, pianificato e non invadente di un prodotto di
marca all’interno di una vasta tipologia di contenuti di intrattenimento.

>Product placement negli USA. (milioni di dollari USA).

> Global product placement revenues.


>Global product placement growth.

>Esempio.

L’operazione Gucci – Achille Lauro è molto differente da una normale operazione di Product placement.
Iabichino: “quella di Achille Lauro e Gucci è una diabolica operazione di marketing culturale”.
È stato il Festival della performance dell'artista romano che ha portato all'Ariston, non solo una serie di
outfit ad effetto, ma un vero e proprio storytelling costruito insieme alla maison.

Quella performance, quello spettacolo, non erano solo una narrazione artistica ma una vera e propria
operazione di marketing costruita insieme a Gucci.
Paolo Iabichino – ex CCO di Ogilvy Italia, miglior comunicatore dell’anno 2018 e maestro del college di Story
Design alla Scuola Holden di Baricco – ha commentato la vicenda spiegando a Giulia Vittoria Francomacaro
di Agi Factory che «il brand ha portato avanti una missione strepitosa: Gucci ha hackerato il Festival di
Sanremo. Nel senso che è riuscito a essere il terzo sponsor senza passare dai listini Rai e ha costruito
intorno ad Achille Lauro una strategia editoriale molto precisa a cui lui si è prestato. Il testo di Lauro era
sotto di un’ottava rispetto a quelli a cui siamo abituati. È come se avessero caricato in chiave marketing un
personaggio per riempirlo di un contenuto che quest’anno aveva in misura minore. Gucci ha fatto scuola
sotto questo punto di vista e ha dato una lezione intelligente di comunicazione e pubblicità. Non parliamo
di una classica operazione di product placement, che potrebbe essere ad esempio quella di Elodie che
ringrazia Versace per i vestiti, questa è una vera e propria case history.
Qui si parla di novità, di uno show costruito ogni sera e incentrato su tematiche come arte, cultura, moda e
musica che si intrecciano in quattro minuti di esibizione». Un'operazione però che lascia qualche
dubbio. Ne abbiamo parlato proprio con Iabichino.

1. Innanzitutto è importante spiegare perché l'operazione Gucci- Lauro è molto differente da una
normale operazione di product placement…
Perché è un'operazione editoriale. Qui non si tratta di aver portato in scena degli outfit.
Dietro queste quattro serate c'è uno storytelling molto preciso, studiato a tavolino, portato avanti da Gucci,
e dal direttore creativo Alessandro Michele, che ha scelto Achille Lauro non come modello ma come vero e
proprio testimonial di una serie di messaggi. Ci sono link con l'arte e con la cultura. Il post di ieri di Achille
Lauro su Instagram poi, con sotto tutti i credit della rete di professionisti che hanno lavorato allo show
disegnato da Gucci, lo certificano apertamente.

2. Non è noto e quindi non si può dire con certezza. Ma si può immaginare di fare una cosa del genere
senza che ci siano accordi commerciali o contratti?
Se Achille Lauro non ha stipulato degli accordi con Gucci è un ingenuo.

3. E se c'è qualcosa che non si può dire di Lauro è che sia ingenuo…
Sono d'accordo. C'è una cosa in particolare che mi fa pensare che ci sia questo accordo: non è ancora uscito
il videoclip ufficiale della canzone che dal punto di vista discografico e di marketing è un errore abbastanza
marchiano.
Se tanto mi dà tanto quel video sarà un importante look book di Gucci che dovrebbe consacrare quella che
secondo me resta un'operazione intelligentissima dal punto di vista pubblicitario. Hanno preso d'assalto il
Festival e Gucci è riuscito ad essere il terzo sponsor di Sanremo dribblando i listini.

4. E da questo punto di vista non esiste un problema nei confronti del main sponsor Tim, o della Nutella
che aveva brandizzato la parte esterna o della stessa Rai?
Io credo di no. Intanto ci muoviamo su categorie merceologiche completamente diverse e non in
concorrenza. Se Tim non ha avuto nulla da dire, da main sponsor, ad avere il principale testimonial di un
concorrente diretto tutte le sere sul palco (Fiorello è da anni il volto di Wind), non credo che su Gucci
possano esserci problemi. La Rai poi deve solo ringraziare Lauro e Gucci per la grande attenzione che si è
creata su questa edizione della kermesse. È una cosa che su quel palco non si era mai vista. Non si può
paragonare con gli outfit di Renato Zero o Donatella Rettore: c'era molto altro anche dal punto di vista
narrativo. Basta pensare ai messaggi che Lauro ha portato sul palco in termini di diversity, gender neutrality
e fluidità di genere. Questo è quello che bisogna sottolineare come un risultato del tutto positivo.
5. Il cuore della questione però è un altro. E cioè la sovrapposizione tra espressione artistica e culturale e
una campagna pubblicitaria. Il fatto di non renderla nota non è un problema, soprattutto nei confronti
del telespettatore?
Per dove siamo oggi la moda è un prodotto culturale. Non possiamo più ridurre la moda o un certo tipo di
moda a un fattore puramente di marketing e pubblicitario. Oggi se si pensa a cosa fa Prada con la sua
Fondazione o quello che sta facendo Fendi a Roma è evidente che la moda sta sempre più entrando e
contaminando il linguaggio della cultura.
Non è che se una maison fa un museo di arte contemporanea ci va bene se invece presidia un palco di un
festival non va più bene perché la musica va preservata. Secondo me c'è un momento di grande
contaminazione di linguaggi. Moda come pop music sono proprio principalmente contaminazione di
linguaggio. Queste secondo me sono le lenti con cui guardare a quello che è successo.

6. D'accordo. Però se Andy Warhol, che è stato il massimo esponente della contaminazione di linguaggi,
avesse percepito una retribuzione da parte della zuppa Campbell's per la sua opera, quel quadro
assumerebbe totalmente un altro significato…
Non c'è dubbio. Ma quella di Warhol era un'operazione controculturale. Lauro e Gucci sono invece
pienamente mainstream. Non è un'operazione rock, non c'è nulla di trasgressivo se non la violazione di un
tempio. Ma dal punto di vista della costruzione del messaggio non c'è trasgressione.
E poi attenzione: ai tempi di Warhol non c'era Instagram. Questo è stato un Festival dominato dai social.
E Gucci e Lauro hanno vinto sul terreno più competitivo in questo momento che è quello dell'attenzione.

7. C'è anche una questione contenutistica. Il brano di Lauro è, si può dire apertamente, molto
trascurabile. Il senso se c'è è davvero flebile. Soprattutto rispetto ai testi precedenti. L'unica parte
dirimente è il titolo, “Me ne frego”, che è una sorta di claim pubblicitario…
Io non credo sia stata costruita a tavolino per questo. Penso che in effetti sia un brano più debole del solito
che però è stato magnificamente sostenuto e supportato da un intervento narrativo che ha caricato di
significanti che il testo non aveva, nobilitandolo. Ma c'è un altro passaggio del testo che potrebbe essere un
meta-messaggio, quel “dimmi una bugia e me la bevo”. Chissà…

8. La cosa che lascia un po' interdetti più che altro è l'idea di associare a personaggi come San Francesco e
David Bowie il concetto di menefreghismo, seppur ammorbidito dall’aggettivo “positivo” coniato da
Lauro. Quello che viene in mente è che “me ne frego” è di certo più accattivante di un “mi interesso”.
E qui torna il dubbio di prima: arte o marketing?
Su questo in realtà l'unico che può rispondere è Achille Lauro. Si tratta di capire se, al netto di tutti gli
introiti pubblicitari e della performance spettacolare, l'artista aderisce a posteriori a quel messaggio oppure
no. Più semplicemente se è autenticamente parte di questo percorso artistico o è stato solo un uomo
sandwich di una maison che ha portato a termine un'operazione di marketing culturale.

LEZIONE 9.
Il concetto di product placement e la sua evoluzione.
Il “gratis” Product placement.
L’inserimento di marche all’interno di un contenuto di intrattenimento può derivare da un’autonoma scelta
artistica dell’autore, allo scopo di conferire realismo alla storia, di connotare i personaggi o di collocare la
narrazione in un preciso ambito temporale, sociale e culturale.

Il significato sociale della marca.


Le marche risultano inserite in un circuito di elaborazione valoriale nel quale talvolta vengono ad assumere
un significato simbolico dissociato dall’originario intento commerciale.

La presenza di marche per scelta artistica di un autore.


La presenza di marche svolge anche il ruolo di conferire ai prodotti artistici e culturali – senza interrompere
il naturale svolgimento della narrazione, ma integrandosi con la trama e valorizzandola ulteriormente –
quella aderenza all’una realtà che altrimenti gli autori non potrebbero rappresentare, testimoniare,
sostenere o contestare.
Gli autori possono decidere di richiedere la fornitura dei beni o dei servizi o l’autorizzazione a usufruirne a
titolo gratuito oppure di sostenere interamente il costo relativo all’acquisizione degli stessi.

Il Location placement.
Consiste nella creazione di espedienti narrativi che collochino alcuni luoghi in contesti centrali di un’opera
cinematografica o televisiva, in modo da realizzare le condizioni per la riconoscibilità dell’identità culturale,
paesaggistica e produttiva dell’area geografica e per la comunicazione di uno stile di vita che possa attrarre
turismo qualificato (cineturismo o movie-induced tourism).
Es. “Benvenuti al Sud”.

I riferimenti normativi del product placement.


La tutela degli interessi in gioco.
Occorre bilanciare la tutela degli interessi:
➢ degli autori dei contenuti: libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.);
➢ delle imprese: libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.);
➢ dei consumatori: principio di riconoscibilità della comunicazione commerciale.

I riferimenti normativi.
Sotto il profilo giuridico il solo fatto che all’interno di un contenuto di intrattenimento avvenga un
inserimento con finalità pubblicitaria non costituisce di per sé e a priori un illecito.
Ciò che rende illecito il product placement è l’occultamento agli occhi del consumatore della natura
pubblicitaria dell’inserimento stesso, che può invece essere ammesso – entro determinati limiti – nella
misura in cui tale natura sia efficacemente resa riconoscibile.
I principi di carattere generale applicabili al product placement risultano essere gli stessi esplicitamente
previsti per la pubblicità, ovvero, da un lato, quello dello trasparenza e, dall’altro lato, quello ancor più
generale della non ingannevolezza, posti dal Decreto legislativo n. 74/1992 e ripresi dal Decreto legislativo
n. 145/2007 («La pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta»).

D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 28.


«[…] per i film che contengono inquadrature di marchi e prodotti, comunque coerenti con il contesto
narrativo, è previsto un idoneo avviso che rende nota la partecipazione delle ditte produttrici di detti marchi
e prodotti ai costi di produzione del film. Con decreto ministeriale, sentito il Ministero per le attività
produttive, sono stabilite le relative modalità tecniche di attuazione» (art. 9).
Esempio: “Non pensarci” (2008).
Audiovisual Media Services Directive (27/11/2007).
1. L'inserimento di prodotti è vietato.
2. In deroga al paragrafo 1, l'inserimento di prodotti è ammissibile, salvo decisione contraria di uno Stato
membro, :
- opere cinematografiche, film e serie realizzati per servizi di media audiovisivi, programmi sportivi e
programmi di intrattenimento leggero;
- i casi in cui non vi è pagamento, ma solo fornitura gratuita di determinati beni o servizi, quali puntelli e
premi di produzione, ai fini della loro inclusione in un programma.
La deroga di cui al primo trattino non si applica ai programmi per bambini (art. 3).

D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 44.


Art. 15 (Inserimento di prodotti).
1. L’inserimento di prodotti è consentito nelle opere cinematografiche, in film e serie prodotti per i servizi di
media audiovisivi, in programmi sportivi e in programmi di intrattenimento leggero, con esclusione dei
programmi per bambini. L’inserimento può avvenire sia dietro corrispettivo monetario o dietro fornitura
gratuita di determinati beni e servizi, quali aiuti alla produzione e premi, in vista della loro inclusione
all’interno di un programma.
2. I programmi nei quali sono inseriti prodotti devono essere conformi ai seguenti requisiti:
- il loro contenuto e, nel caso di trasmissioni televisive, la loro programmazione non devono essere in alcun
caso influenzati in modo da compromettere la responsabilità e l’indipendenza editoriale del fornitore di
servizi di media audiovisivi;
- non incoraggiano direttamente l’acquisto o la locazione di beni o servizi, in particolare facendo specifici
riferimenti promozionali a tali beni o servizi;
- non danno indebito rilievo ai prodotti in questione.
3. I telespettatori devono essere chiaramente informati dell’esistenza dell’inserimento di prodotti medianti
avvisi all’inizio e alla fine della trasmissione, nonché alla ripresa dopo un’interruzione pubblicitaria.

La liceità del product placement.


Il product placement configura una modalità di pubblicità occulta solamente nella misura in cui viene
nascosta la finalità pubblicitaria del messaggio e di conseguenza viene generato un errore nel pubblico circa
la vera natura del messaggio.
Per la valutazione della liceità o meno del product placement in una situazione concreta occorre procedere,
in primo luogo, dimostrando la natura pubblicitaria dell’inserimento – mancando la quale il collocamento
del prodotto all’interno del contenuto di intrattenimento dovrà essere considerato come il frutto della
libertà di espressione e di creazione artistica dell’autore del contenuto stesso – e, in secondo luogo,
valutando se tale natura sia stata manifestata chiaramente o meno al pubblico.
L’accertamento dello scopo promozionale presuppone l’individuazione di un rapporto di committenza tra
l’impresa che beneficia della citazione e il mezzo nel quale la comunicazione è diffusa. Qualora tale rapporto
non sia riscontrabile, o venga negato, assumerà rilevanza l’esistenza di elementi gravi, precisi e concordanti
dai quali possa desumersi la natura pubblicitaria del messaggio.
Con riguardo alle trasmissioni televisive, l’Autorità ritiene di essere in presenza di ‘pubblicità’ quando
riscontra nei messaggi uno dei seguenti ‘indizi’:
➢ inquadrature artificiose, legate alla prolungata, insistita e reiterata permanenza in video di un
determinato prodotto;
➢ riprese non giustificate dal contesto in cui sono inserite o da esigenze narrative o artistiche;
➢ citazione di un marchio e/o descrizione di un prodotto da parte dei protagonisti con toni enfatici ed
elogiativi;
➢ messaggi pubblicitari prima o dopo la comunicazione contestata.

LEZIONE 10 + MATERIALI 4: “IL PRODUCT PLACEMENT CINEMATOGRAFICO: CONCETTO, EVOLUZIONE E


CONDIZIONI DI EFFICACIA”.
La comunicazione d’impresa sta attraversando un periodo di grandi trasformazioni.
Tra le molteplici problematiche vi sono almeno due aspetti sui quali occorre concentrare particolarmente
l’attenzione: si tratta:
-da un lato, della costante perdita di efficacia delle forme classiche di comunicazione d’impresa;
-dall’altro, della necessità di una riaffermazione della centralità del consumatore, spesso definito ‘nuovo
consumatore’. Infatti, esso risulta sempre più esigente e selettivo, maggiormente orientato a interpretare il
consumo in senso olistico, coinvolgendo contemporaneamente nei propri processi decisionali le dimensioni
tangibili (qualità merceologiche e attributi funzionali) e quelle intangibili (valori simbolici e significati sociali)
dei prodotti; di conseguenza, il comportamento del consumatore appare sempre meno prevedibile, perché
guidato da motivazioni non più esclusivamente utilitaristiche, ma anche emozionali ed edonistiche.
Una delle principali conseguenze di questo scenario è costituita dal crescente orientamento manifestato da
parte delle imprese appartenenti all’Advertising Industry (agenzie di pubblicità e imprese utenti di
comunicazione) alla produzione di veri e propri contenuti di intrattenimento, che si spingono di gran lunga
oltre i tradizionali spot pubblicitari. Tale fenomeno ha posto le basi per lo sviluppo di un crescente legame di
interdipendenza tra le imprese industriali e commerciali che investono in pubblicità e le imprese che
appartengono alla Media & Entertainment Industry e, in particolare, quelle operanti nel settore dei media
sostenuti dalla pubblicità (advertising-supported media industry), che propongono simultaneamente due
tipologie di offerta completamente differenti, ma fortemente collegate, a due classi di acquirenti distinti:
– da un lato, offrono prodotti editoriali, informativi e di intrattenimento, ai consumatori finali (viewers);
– dall’altro, forniscono la possibilità di accedere ai propri consumatori (lettori e spettatori) alle imprese che
investono in comunicazione commerciale (advertisers).
L’inserimento di marche all’interno di un contenuto di intrattenimento può non essere affatto influenzato
dagli interessi promozionali di un’impresa, ma essere del tutto frutto di un’autonoma scelta artistica
dell’autore, allo scopo di conferire realismo alla storia, di connotare i personaggi o di collocare la narrazione
in un preciso ambito temporale, sociale o culturale. A tale scopo l’autore può decidere di richiedere la
fornitura dei beni o dei servizi o l’autorizzazione a usufruirne a titolo gratuito (barter product placement)
oppure di sostenere interamente il costo relativo all’acquisizione degli stessi.
In quest’ultimo caso, l’inserimento della marca, gestito in tutti i suoi aspetti dall’autore, può risultare
conveniente per l’impresa – in tal caso si parla di gratis product placement –, ma può anche concretizzarsi in
un posizionamento sfavorevole all’impresa per le connotazioni che la marca stessa viene ad assumere o a
esprimere nel contesto narrativo.

1. L’origine e l’affermazione del product placement.


1. L’origine del product placement può essere fatta risalite alle prime esperienze cinematografiche della fine
dell’Ottocento, quando era emersa la necessità per i produttori sia di allestire le scene con realismo senza
sostenere i costi per acquisire i diritti di utilizzare marchi e prodotti di altre imprese, sia di ridurre in qualche
modo le ingenti spese per la distribuzione e la promozione dei film.
Il product placement inizia pertanto a manifestarsi attraverso gli accordi di collaborazione proposti dai
produttori cinematografici a imprese industriali con l’obiettivo non solo di ridurre i costi di produzione dei
film, ma anche per ottenere come contropartita del placement e/o dell’endorsement da parte degli attori
principali un contributo alla promozione dei film. Tale pratica denominata inizialmente tie-up diventa presto
ampiamente diffusa.
Questa modalità di promozione risulta utilizzata con sempre maggiore frequenza da imprese del settore
automobilistico, cosmetico, alimentare, delle bevande alcoliche e del tabacco.
2. Successivamente, con gli anni Cinquanta il product placement ha iniziato a rappresentare anche una fonte
di ricavo diretto per i produttori cinematografici, attraverso le contropartite monetarie richieste a fronte
della visibilità offerta alle marche all’interno dei film,
3. ma è con gli anni Sessanta che viene a diffondersi ampiamente la pratica del barter product placement
attraverso la fornitura gratuita di prodotti per conferire realismo alle scenografie dei film in cambio della
visibilità dei marchi, il che conduce anche a placement eccessivi.
4. È comunque con la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta che il product placement registra
uno sviluppo particolarmente rilevante, fino ad arrivare al film che ne ha decretato anche mediaticamente
l’affermazione, E.T. the Extra-Terrestrial (1982), con l’inserimento della marca di caramelle Reese’s Pieces
della Hershey, che realizza grazie a questo product placement un aumento del volume delle vendite
dell’65% in soli tre mesi.
5. Negli anni Novanta il product placement cinematografico diventa una pratica comune e una rilevante
fonte di introiti per le produzioni cinematografiche. In particolare, sono passati alla storia per l’elevato
numero di product placement e per il successo che hanno conferito alle marche i film della serie di James
Bond, personaggio che rappresenta nell’immaginario collettivo la classe, l’eleganza e il buon gusto.
6. In anni recenti numerosi film hanno fatto scalpore in relazione alla quantità di product placement
contenuti: Minority Report (2002), il film thriller-futuristico ambientato a Washington nel 2054, che include
diciassette marche.
Occorre comunque sottolineare che il cinema non rappresenta l’unico ambito nel quale le marche hanno
dimostrato un particolare interesse: infatti, anche per quanto concerne la radio si è venuta a creare negli
Stati Uniti sin dall’inizio degli anni Trenta una stretta collaborazione delle imprese industriali e commerciali
nel finanziamento e nella produzione di molteplici programmi radiofonici, spesso realizzati direttamente da
agenzie di pubblicità.
Quando poi tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta emerge la televisione come nuovo
mezzo di comunicazione di massa, le agenzie pubblicitarie cominciano a esercitare una grande influenza
anche su molti programmi televisivi, cosicché nel 1957 più di un terzo di questi risulta creato e controllato
dalle imprese e dalle loro agenzie di pubblicità.
È tuttavia con la fine degli anni Cinquanta – in concomitanza con gli scandali che travolgono il mondo dei
quiz show, in seguito alla rivelazione del controllo esercitato dagli sponsor sugli esiti dei quiz – che il
modello prevalente di advertiser-funded programming trova progressivamente la sua sostanziale
conclusione e ciò a causa sia della regolamentazione del product placement televisivo a pagamento da
parte della Federal Communications Commission, sia dell’elevato incremento dei costi di produzione dovuto
alla crescita della lunghezza dei programmi, passati dai 15 minuti dello standard radiofonico ai 30 o 60.

2. La disciplina giuridica del product placement in Italia. (cenni introduttivi).


Il product placement cinematografico e televisivo appare regolamentato a livello internazionale in modo
alquanto differenziato: risulta infatti possibile rilevare in certi contesti, per esempio negli Stati Uniti, il
riconoscimento di una tendenziale libertà di azione e in altri ambiti, in particolare all’interno dell’Unione
Europea, una maggiore propensione verso una regolamentazione più rigida.
Vi è da rilevare che i maggiori vincoli vengono riscontrati con riferimento al product placement televisivo a
causa della regolamentazione pubblica che il settore necessita, allo scopo di assicurare una corretta
assegnazione delle licenze per la diffusione che permetta di garantire la pluralità e la libertà di espressione.
Tale problema, invece, non si presenta in relazione all’industria cinematografica, che pertanto
tradizionalmente risulta priva di una specifica regolamentazione.
In tema di disciplina del product placement occorre sottolineare che un aspetto centrale che deve essere
correttamente preso in considerazione è rappresentato dalla necessità di bilanciare:
-la libertà di espressione artistica degli autori dei programmi;
-i legittimi interessi commerciali delle imprese;
-la tutela dei consumatori;
e ciò attraverso l’affermazione del principio di separazione tra la comunicazione commerciale e i contenuti
editoriali e di intrattenimento, in modo tale che il pubblico sia sempre in grado di distinguere la reale fonte,
natura e finalità dei messaggi ai quali viene sottoposto.
Allo scopo di individuare il regime giuridico applicabile al product placement appare necessario sottolineare
che il collocamento in un contenuto di intrattenimento di marche o di altri segni distintivi idonei a
distinguere i beni o i servizi ai quali fanno riferimento configura il product placement a condizione che venga
dimostrata la natura pubblicitaria dell’inserimento, ovvero il fatto che questo persegua l’obiettivo di
promuovere, in senso ampio, la vendita del bene o del servizio stesso.
Di conseguenza, risulta applicabile al product placement la normativa di carattere generale prevista per la
pubblicità, definita in senso sufficientemente ampio come qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in
qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di
promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di
essi oppure la prestazione di opere o di servizi (Decreto legislativo n. 145/2007).
Ora, sotto il profilo giuridico il solo fatto che all’interno di un contenuto di intrattenimento avvenga un
inserimento con finalità pubblicitaria non costituisce di per sé e a priori un illecito: infatti, ciò che rende
illecito il product placement è l’occultamento agli occhi del consumatore della natura pubblicitaria
dell’inserimento stesso, che può invece essere ammesso – entro determinati limiti – nella misura in cui tale
natura sia efficacemente resa riconoscibile.
Infatti, i principi di carattere generale applicabili al product placement risultano essere gli stessi
esplicitamente previsti per la pubblicità, ovvero, da un lato, quello della trasparenza e, dall’altro lato, quello
ancor più generale della non ingannevolezza, posti dal Decreto legislativo n. 74/1992.
Di conseguenza il product placement configura una modalità di pubblicità occulta solamente nella misura in
cui viene nascosta la finalità pubblicitaria del messaggio e di conseguenza viene generato un errore nel
pubblico circa la vera natura del messaggio stesso.
A questo proposito occorre sottolineare che il collocamento di un prodotto all’interno di un contesto di per
sé non pubblicitario rende plausibile il fatto che lo spettatore non faccia risalire automaticamente la sua
apparizione all’esistenza di un accordo pubblicitario. Infatti, se il prodotto si integra nella trama narrativa lo
spettatore può concludere che la sua presenza sia dovuta a necessità artistiche.
Con riferimento alla produzione cinematografica viene registrata in Italia una vera innovazione normativa in
tema di product placement introdotta dal Decreto legislativo n. 28/2004 (Riforma della disciplina in materia
di attività cinematografiche) che al terzo comma dell’art. 9 afferma che «fatte salve le disposizioni contenute
nella Legge 165/1962 – che vieta la pubblicità dei prodotti da fumo –, per i film che contengono
inquadrature di marchi e prodotti, comunque coerenti con il contesto narrativo, è previsto un idoneo avviso
che rende nota la partecipazione delle ditte produttrici di detti marchi e prodotti ai costi di produzione del
film», rinviando la definizione delle relative modalità tecniche di attuazione al successivo Decreto del
Ministero per i beni e le attività culturali del 30 luglio 2004.
l’art. 2 dello stesso decreto precisa che:
1. La presenza di marchi e prodotti è palese, veritiera e corretta, secondo i criteri individuati dal D. Lgs.
74/1992. Essa deve integrarsi nello sviluppo dell’azione, senza costituirne interruzione, e, comunque, deve
essere coerente con il contesto narrativo del film.
2. Ai fini della riconoscibilità delle forme di collocamento pianificato di cui all’art. 1, l’opera cinematografica
deve contenere un avviso nei titoli di coda che informi il pubblico della presenza di marchi e prodotti
all’interno del film.
3. Alle forme di collocamento di marchi e prodotti di cui all’art. 1 si applicano i divieti e le limitazioni di cui la
Legge 165/1962.
Per quanto riguarda il cosiddetto “idoneo avviso” finalizzato a rendere riconoscibile la finalità pubblicitaria
dell’inserimento, la dottrina manifesta serie perplessità circa la soluzione concretamene adottata dal
Decreto ministeriale, in quanto il solo avviso posto nei titoli di coda del film appare strutturalmente
incapace di soddisfare l’esigenza legale di riconoscibilità della pubblicità. Ciò per due ordini di motivazioni:
>in primo luogo, per la mancanza di contestualità tra l’apparizione del prodotto e/o del marchio durante il
film e l’avviso della sua funzione pubblicitaria;
>in secondo luogo, per il fatto che in pratica lo spettatore non ha normalmente né interesse, né curiosità a
seguire i titoli di coda e a porre attenzione alle molteplici citazioni che scorrono al termine della proiezione;
in tal senso, la soluzione prevista risulterebbe scarsamente idonea a svolgere la propria funzione.

Con riferimento, infine, al product placement televisivo, nel 2009 l’Italia ha recepito la Audiovisual Media
Services Directive con l’art. 26 della Legge n. 88/09 e con il conseguente D. lgs. 44/10 che ha introdotto l’art.
40 bis nel Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, che stabilisce che:
1. l’inserimento di prodotti è consentito nelle opere cinematografiche, in film e serie prodotti per i servizi di
media audiovisivi, in programmi sportivi e in programmi di intrattenimento leggero, con esclusione dei
programmi per bambini. L’inserimento può avvenire sia dietro corrispettivo monetario o dietro fornitura
gratuita di determinati beni e servizi, quali aiuti alla produzione e premi, in vista della loro inclusione
all’interno di un programma;
2. i programmi nei quali sono inseriti prodotti devono essere conformi ai seguenti requisiti:
– il loro contenuto e, nel caso di trasmissioni televisive, la loro programmazione non devono essere in alcun
caso influenzati in modo da compromettere la responsabilità e l’indipendenza editoriale del fornitore di
servizi di media audiovisivi;
– non incoraggiano direttamente l’acquisto o la locazione di beni o servizi, in particolare facendo specifici
riferimenti promozionali a tali beni o servizi;
– non danno indebito rilievo ai prodotti in questione;
3. qualora il programma nel quale sono inseriti prodotti sia realizzato o commissionato dal fornitore di
servizi di media audiovisivi o da società da esso controllata i telespettatori devono essere chiaramente
informati dell’esistenza dell’inserimento di prodotti mediante avvisi all’inizio e alla fine della trasmissione,
nonché alla ripresa dopo un’interruzione pubblicitaria;
4. è vietato l’inserimento di prodotti a base di tabacco, o di prodotti di imprese la cui principale attività è
costituita dalla produzione o vendita di prodotti a base di tabacco; è altresì vietato l’inserimento di prodotti
medicinali o di cure mediche che si possono ottenere esclusivamente su prescrizione;
5. i produttori, le emittenti, le concessionarie di pubblicità e gli altri soggetti interessati, adottano, con
procedure di autoregolamentazione, la disciplina applicativa dei principi enunciati nei commi precedenti.

3. Il product placement cinematografico.


L’espressione product placement viene utilizzata ormai comunemente per indicare l’inserimento di un
prodotto o di una marca − nel qual caso viene impiegata anche l’espressione brand placement − in una vasta
tipologia di contenuti di intrattenimento e viene riferita a molteplici situazioni, quali:
− l’inserimento di un prodotto di marca, che risulta perfettamente e facilmente identificabile dal fruitore del
mezzo di intrattenimento nelle sue componenti fisiche e simboliche e che presenta un livello più o meno
elevato di integrazione nel contesto;
− la semplice citazione del nome della marca da parte di un personaggio o di una voce fuori campo;
− il collocamento visivo della marca tra l’arredo scenico; in questo caso viene fatto spesso ricorso anche
all’inquadratura di un pannello pubblicitario o di un’insegna con la rappresentazione visiva del marchio o
del logotipo della marca.
− l’inserimento di un prodotto, senza l’indicazione uditiva o visiva del nome della marca, le cui
caratteristiche risultano tuttavia talmente distintive e familiari al consumatore da consentire un veloce
riconoscimento della marca;
− l’inserimento di un prodotto la cui identificazione non è sostenuta né dal nome della marca, né da
specifiche caratteristiche, in modo tale che rimanga anonimo nell’ambito di una categoria merceologica;
questo tipo di inserimento può andare indirettamente a favore delle marche che risultano collocate al top of
mind nell’insieme evocato dei consumatori e che possono essere associate al contesto in seguito a processi
di elaborazione delle informazioni di tipo inferenziale.
Più in dettaglio, con riferimento alle caratteristiche del product placement in ambito cinematografico o
televisivo viene spesso citata nella letteratura accademica la definizione proposta da Siva Balasubramanian,
secondo la quale il product placement veicola un messaggio finalizzato a influenzare il pubblico attraverso
l’inserimento oneroso, pianificato e non invadente di un prodotto di marca in un film o in un programma
televisivo .
Secondo Balasubramanian il product placement fa parte dei messaggi aziendali “ibridi”, che includono tutti i
tentativi onerosi da parte di un’impresa di influenzare il pubblico a scopi commerciali usando i mezzi di
comunicazione con modalità che di per sé non perseguono palesemente un obiettivo commerciale; in
queste circostanze è probabile che il pubblico non sia consapevole dell’intento persuasivo dell’impresa e/o
elabori l’informazione aziendale veicolata tramite il product placement in modo differente da quella
contenuta nei messaggi riconosciuti come promozionali.
Questa definizione è stata ampliata negli studi più recenti.
A tal proposito, James Karrh definisce il product placement come l’inserimento oneroso, attraverso modalità
visive e/o uditive, di prodotti di marca o dei relativi segni distintivi all’interno della programmazione dei
mass media con finalità commerciali.
In questa definizione è possibile ritrovare tutti gli elementi essenziali del concetto di product placement:
− l’oggetto, costituito da beni o servizi, identificati attraverso marchi o altri segni distintivi comunque idonei
a rappresentare tali prodotti in modo differenziato sul mercato; occorre rilevare che in alcuni casi l’oggetto
può essere costituito anche dal corporate brand di un’impresa, da una causa sociale o da un territorio
(location placement);
− il contesto di inserimento, inteso come lo specifico ambito (scena, ambientazione, personaggi ecc.) del
contenuto offerto dai mezzi di intrattenimento;
− l’obiettivo, rappresentato dalla valorizzazione economica e/o commerciale dell’oggetto, il che attribuisce al
product placement una finalità tipicamente persuasiva;
− il carattere oneroso, che viene a concretizzarsi in modo diverso a seconda del fatto che la prestazione
dovuta dall’impresa sia costituita da una fornitura di prodotti (barter product placement) oppure da una
somma di denaro pagata in cambio di uno specifico inserimento (paid product placement).

3.1. Le modalità di realizzazione del product placement (o pianificazione del product placement).
Le modalità di realizzazione del product placement possono essere analizzate facendo riferimento a
molteplici aspetti.
1. In primo luogo, è necessario considerare le modalità di presentazione della marca in base ai canali
sensoriali dello spettatore attivati dallo stimolo del product placement, il che conduce a identificare le
seguenti tre modalità:
> solo visiva, denominata screen placement, che mostra un prodotto, un marchio, un logotipo o qualche
altro elemento di identificazione visiva della marca, senza alcun messaggio verbale rilevante o suono
riguardante il prodotto;
> solo uditiva, denominata script placement, che comporta la citazione verbale da parte di un personaggio o
di una voce fuori campo del nome della marca ed eventualmente delle sue caratteristiche, senza mostrare il
prodotto sullo schermo;
> una combinazione audiovisiva, che mostra una marca e allo stesso tempo ne cita il nome o prevede un
messaggio uditivo che la riguarda.
Le diverse modalità di presentazione della marca (visiva e/o uditiva) risultano importanti nel determinare
l’efficacia del product placement, in quanto possono rendere lo stimolo ricco di significato per l’individuo e,
poiché solo gli stimoli più significativi vengono integrati nella struttura cognitiva presente in memoria,
possono consentire al messaggio implicito nel product placement di essere elaborato in modo più
approfondito, generando maggiore ricordo e persuasione.
Nella prassi la modalità solo visiva risulta essere quella utilizzata più frequentemente, nonostante esista il
rischio che gli spettatori non prestino attenzione o non ricordino la presenza della marca sulla scena in
assenza di un rinforzo uditivo; la modalità di presentazione sia visiva che uditiva supera questo problema,
ma si rivela evidentemente più costosa per l’impresa e più difficilmente adattabile alle esigenze della
specifica marca.
2. In secondo luogo, occorre valutare la chiarezza dell’inserimento della marca nel contesto di
intrattenimento, che riveste un ruolo rilevante nel determinare l’impatto del product placement sul ricordo.
Più esattamente, gli aspetti che definiscono la chiarezza sono i seguenti:
> la presentazione della marca con il proprio nome e con il proprio marchio, il che appare essenziale quando
la marca è recente, poco conosciuta o viene lanciata per la prima volta sul mercato e meno importante
quando i segni distintivi della marca sono già fortemente identificabili dal consumatore;
> la nitidezza percettiva della marca, ossia il fatto che il nome della marca risulti leggibile nel modo più
naturale possibile, nel caso di un inserimento visivo, o perfettamente udibile, nel caso uditivo;
> la percezione totale della marca da un punto di vista visivo o uditivo;
> l’inserimento della marca all’interno di una scena in modo dinamico invece che statico;
> la presenza della marca nella scena in modo esclusivo, senza cioè che debba condividere l’attenzione dello
spettatore con altre marche.
3. In terzo luogo, è fondamentale prendere in esame il livello di connessione della marca all’interno del
contesto di intrattenimento, ovvero il grado con il quale l’inserimento della marca risulta integrato
nell’intreccio narrativo all’interno del contenuto di intrattenimento proposto dal mezzo di comunicazione.
A questo proposito, si individuano tre ampie categorie di product placement cinematografico o televisivo
caratterizzate da un crescente livello di connessione con la struttura narrativa:
> La prima è costituita dal traditional product placement, detto anche product plug, che consiste
nell’inserimento di un prodotto di marca in un contesto di intrattenimento in qualità prevalentemente di
arredo scenico e che può essere realizzato con tre modalità differenti:
− l’inserimento del marchio, del logotipo o di altro segno distintivo della marca nel contesto con il solo
compito di arredare la scena, così da conferirle realismo e veridicità da un punto di vista storico-culturale;
− il collocamento nel contesto di intrattenimento di un pannello pubblicitario o di un’insegna con la
rappresentazione visiva del nome della marca o del logotipo; questo tipo di product placement è detto
anche advertisement placement;
− l’esibizione del prodotto o dei segni distintivi in stretta associazione con un attore, un conduttore o un
ospite televisivo durante uno spettacolo o un evento (celebrity product placement), in modo tale da far
apparire la scelta del prodotto da parte del personaggio come il frutto di una preferenza personale.
Il traditional product placement nel suo complesso si caratterizza per i seguenti aspetti:
_un basso livello di integrazione nella trama;
_un elevato grado di secondarietà del messaggio rispetto alla struttura narrativa principale del contenuto di
intrattenimento;
_un basso grado di controllo da parte dell’impresa, a causa della scarsa valenza che può assumere il
messaggio veicolato attraverso il product placement;
_una modalità di realizzazione prevalentemente visiva;
_un’alta percezione da parte del pubblico della natura a pagamento dell’inserimento.
>La seconda categoria è rappresentata dall’enhanced product placement, che mantiene bassi livelli di
integrazione della marca all’interno del contesto, ma consente all’impresa un controllo superiore sulle
caratteristiche esecutive dello stimolo, che diventa maggiormente rilevante.
L’enhanced product placement si realizza quando il prodotto non funge solo da arredo scenico, ma presenta
una maggiore connessione con la trama di un film o con lo spettacolo televisivo, anche se non ne diventa
parte integrante e necessaria, in quanto altri prodotti o marche potrebbero essere impiegati
alternativamente. In molti casi la marca gode di un inserimento di tipo sia visivo che uditivo, convogliando
su di sé una maggiore attenzione da parte degli spettatori; rispetto al product placement tradizionale,
l’impresa esercita un maggiore controllo sulle modalità di inserimento della marca e spesso sostiene un
investimento più rilevante.
>La terza categoria è costituita dal product integration, che si contraddistingue per gli elevati livelli di
integrazione della marca nella trama e di controllo da parte dell’impresa sulle modalità di presentazione.
Il product integration si verifica infatti quando il prodotto diventa veramente parte integrante – e talvolta
persino determinante – della trama del film o del programma e viene utilizzato estensivamente nell’ambito
dello stesso, consentendo un’esposizione ripetuta e, quindi, un più probabile trasferimento di significati
dalla marca inserita nel contesto di intrattenimento alla marca presente nella vita reale del consumatore.
Lo sviluppo del product integration è stato stimolato soprattutto dalla possibilità in ambito televisivo di
realizzare programmi seriali nei quali la marca possa instaurare una connessione di lungo periodo con i
contenuti.
4. In quarto luogo, tra le modalità di realizzazione del product placement è necessario valutare la
prominenza del placement, ossia il grado con il quale l’inserimento visivo e/o uditivo della marca possiede
caratteristiche tali da attrarre l’attenzione del pubblico.
La definizione originaria di prominenza risulta basata su un insieme di fattori oggettivi, che fanno
riferimento alle caratteristiche della marca (grandezza, colori, vivacità, ecc.) e al tipo di messa in scena (tipo
di piano, marca in movimento o statica, grado di novità/congruenza degli elementi, livello di
attendibilità/completezza dell’informazione ecc.).
> Secondo questa definizione, gli inserimenti fortemente prominenti (denominati anche on set) sono quelli
nei quali la marca è resa altamente identificabile grazie a:
− una superficie occupata ampia (in % rispetto all’area totale dello schermo) e una durata dell’inserimento
elevata (per es., un’inquadratura della marca per un tempo tra i 2 e i 10 secondi, limite oltre al quale non
vengono registrati incrementi nella memorizzazione);
− una posizione centrale sullo schermo;
− una citazione verbale ripetuta e/o una forte enfasi sul nome del prodotto (determinata dal tono di voce,
dalla collocazione all’interno del dialogo, dal ruolo del personaggio che la cita e dal particolare momento nel
quale ciò avviene…);
− un elevato numero di apparizioni sullo schermo e di scene nelle quali viene inserita la marca.
> Al contrario, gli inserimenti poco prominenti (denominati anche subtle) sono quelli nei quali la marca
viene citata in modo fugace e poco enfatizzato e/o viene mostrata in modo poco visibile, cioè l’immagine è
piccola, la collocazione è sullo sfondo della scena fuori dal campo visivo principale, la scena viene condivisa
con una moltitudine di oggetti o di prodotti e l’esposizione allo stimolo avviene per un breve periodo di
tempo.
Più recentemente il concetto di prominenza è stato riformulato unendo ai fattori appena ricordati anche il
grado di integrazione della marca nel contesto, giungendo così a proporre il più ampio concetto di centralità
del placement. Secondo questa definizione più articolata, la centralità del placement viene a dipendere,
oltre che dalla prominenza dell’inserimento del prodotto, dal ruolo assunto dalla marca nell’intreccio
narrativo, nella specifica situazione nella quale viene inserita o in rapporto al personaggio che entra in
contatto diretto con essa.
Di conseguenza, la centralità del placement può assumere diversi gradi di intensità all’interno di 2 estremi:
− da un lato, quello di bassa intensità (placement periferico), nel quale la marca contribuisce solo
marginalmente allo svolgimento della storia, come per es. nel caso di una semplice citazione del nome,
unita eventualmente a una breve apparizione del prodotto sullo schermo;
− dall’altro lato, quello di alta intensità (placement centrale), nel quale la marca occupa una posizione di
rilievo sulla scena e costituisce un elemento tematico fondamentale, detenendo un ruolo importante
nell’intreccio della storia o contribuendo a delineare il carattere di un personaggio significativo.
Infine, occorre richiamare una modalità innovativa di realizzazione del product placement costituita
dall’inserimento virtuale reso possibile dalle tecnologie digitali: in questo caso la marca non viene collocata
realmente nel contesto di intrattenimento in fase di produzione, ma viene aggiunta in seguito grazie a un
artificio digitale che riproduce l’immagine aggiunta in modo che risulti indistinguibile dagli altri oggetti
presenti originariamente sulla scena.
Il product placement virtuale ha il vantaggio di poter modificare la marca inserita a seconda dei diversi
mercati, per assecondare le differenze culturali degli spettatori e ampliare le opportunità di placement per
produttori che hanno una distribuzione solo locale.
Il product placement virtuale consente, inoltre, di inserire prodotti moderni in vecchi film o programmi
televisivi quando vengono ripresentati in televisione o riproposti in collezioni su DVD; ciò permette anche di
superare la naturale riduzione del ciclo di vita degli spettacoli causata dal superamento di alcuni prodotti.
Per il futuro lo sviluppo maggiore del product placement virtuale sembra possa essere garantito, da un lato,
dalla televisione digitale interattiva che consente inoltre al consumatore di ‘cliccare’ sul placement virtuale
per ricevere informazioni sulla marca e/o acquistare il prodotto in tempo reale e, dall’altro lato, da Internet,
che offre contenuti già in forma digitale e permette di integrare le marche nei programmi senza le restrizioni
previste invece per la programmazione televisiva e radiofonica.

3.2. I caratteri del product placement cinematografico.


Il particolare interesse che il product placement cinematografico riveste per le imprese è essenzialmente
dovuto ai seguenti vantaggi che questo è in grado di offrire alle imprese:
1. la possibilità di selezionare un target-group difficilmente raggiungibile con la pubblicità tradizionale,
costituito da un pubblico giovane (in una classe centrale di età dai 16 ai 39 anni), che generalmente
usufruisce poco della televisione e degli altri mezzi classici;
2. l’elevata segmentazione dell’audience, in quanto ciascuna pellicola cinematografica, a seconda del
genere, del tipo di storia, del cast…, si caratterizza per una propria identità, finalizzata ad attrarre segmenti
di pubblico ben specifici e delineati nel loro profilo distintivo;
3. l’audience globale alla quale si rivolgono alcuni film, che risulta essere molto attrattiva per le marche
operanti sui mercati internazionali;
4. il lungo ciclo di vita di cui possono godere alcuni film, che, una volta esaurita la vita nelle sale
cinematografiche, vengono realizzati in formato DVD per il noleggio e sono resi disponibili in pay per view;
inoltre, il film può essere trasmesso attraverso i canali televisivi free in prima visione e in prima serata e nei
mesi o anni successivi può continuare a essere riproposto in televisione;
5. l’elevato grado di coinvolgimento degli spettatori verso le storie e i personaggi riportati sullo schermo, il
che può far sì che la risposta affettiva espressa nei confronti del film sia trasferita alle marche in esso
inserite;
6. il livello ridotto e predeterminato di affollamento, che trova un vincolo naturale nella capacità del
pubblico di accettare la presenza di marche in un’opera cinematografica e che rende rara la presenza
all’interno dello stesso film di imprese concorrenti;
7. la possibilità di ottenere un endorsement implicito da parte di personaggi famosi, compresi quelli che non
accettano ingaggi per le forme più tradizionali di endorsement, consentendo di associare la marca con stili
di vita e con situazioni d’uso congruenti alla sua immagine;
8. la possibilità di far compiere al prodotto prestazioni eccezionali;
9. la possibilità di promuovere categorie merceologiche che presentano restrizioni con riferimento alla
comunicazione pubblicitaria tradizionale;
10. la gradualità dell’investimento, che rende il product placement più flessibile rispetto alla pubblicità la
quale impone soglie minime di investimento, comunque rilevanti e dipendenti dalla pressione competitiva
nel settore di appartenenza;
11. la possibilità di integrazione con altre forme di comunicazione a supporto della marca, in particolare le
iniziative di merchandising e le promozioni tie-in.
Tuttavia, il product placement possiede anche alcuni svantaggi:
1. Minore possibilità di controllo e di flessibilità rispetto ad altre forme di comunicazione aziendale.
2. Impatto sul pubblico meno diretto e meno immediato rispetto a quello delle forme di comunicazione
tradizionali.
3. Difficoltà di individuazione in anticipo delle opportunità di product placement disponibili in futuro, il che
impedisce di includerlo all’interno della pianificazione di marketing di breve o di medio periodo.
4. Impossibilità di veicolare attributi di marca che richiedono elaborati messaggi verbali o l’esplicitazione di
caratteristiche tecniche, risultando così più adatto per trasferire connotazioni di tipo estetico.
5. Rischio di ottenere risultati negativi in seguito a un insuccesso del contenuto di intrattenimento.
6. Impossibilità di gestire completamente gli effetti del product placement sul processo di persuasione del
consumatore, in quanto dipendenti da un ampio numero di fattori, in prevalenza non controllabili
dall’impresa.

3.3. Il product placement cinematografico nel ciclo di vita del prodotto.


Il ricorso al product placement cinematografico può essere effettuato da parte di un’impresa nelle diverse
fasi del ciclo di vita del proprio prodotto, come dimostrano molti casi nei quali l’inserimento in film di
successo ha consentito di accrescere la notorietà necessaria a sostenere il lancio di nuovi prodotti, di
rafforzare la posizione competitiva di marche nei mercati in fase di crescita o di maturità – siano esse già
ampiamente note oppure conosciute solo in ambiti ristretti – e persino di promuovere il rilancio di alcuni
prodotti. Tra i film che maggiormente hanno contribuito al lancio di nuovi prodotti, possono essere citati:
− Golden Eye (1995), nel quale BMW ha inserito il prototipo del modello Z3, che poi ha portato al successo;
− Sex and the City (2008), film che ha anticipato di circa 6 mesi il lancio della MercedesBenz Classe GLK;
Per quanto riguarda il rafforzamento della posizione competitiva di marche già presenti sul mercato, il
product placement viene oggi utilizzato da un vasto numero di imprese operanti soprattutto nel settore
automobilistico, in quello delle bevande e degli alcolici, nel settore informatico, della telefonia e
dell’elettronica di consumo e in quello dell’abbigliamento sportivo e dei beni di lusso.
Queste marche attraverso l’uso del product placement perseguono l’obiettivo non tanto di incrementare
ulteriormente la propria notorietà, che spesso è già elevatissima in tutto il mondo, quanto di richiamare
costantemente il proprio nome nella mente del consumatore o di associare alla marca uno stile di vita di
successo (come nel caso dei beni di lusso), sfruttando il desiderio degli individui di imitare modelli di
riferimento appartenenti al mondo dello spettacolo.
Tra gli esempi particolarmente significativi di successo dell’impiego del product placement a sostegno della
marca nelle sue fasi di sviluppo e di maturità può essere ricordata:
− la birra scura Jamaicana Red Stripe che ha aumentato di più del 50% le vendite nel mercato statunitense
dopo l’inserimento nel film The Firm (1993);

3.4. Il Made in Italy e il product placement cinematografico.


La presenza di marche italiane all’interno dei film statunitensi di maggior successo commerciale riguarda
alcune categorie merceologiche – che tradizionalmente incarnano i valori internazionalmente riconosciuti
nel Made in Italy – quali la moda, le auto di lusso e il buon cibo.
Questo fenomeno vanta in realtà origini antiche: esempio storico è quello della Vespa Piaggio in Roman
Holiday (1953).
Nel 1980 la moda italiana approda al cinema americano con Giorgio Armani che veste Richard Gere in
American Gigolo (1980).
Per quanto riguarda le auto e le moto di lusso, Tom Cruise in Rain Man (1988) guida una Lamborghini e Will
Smith in Bad Boys 2 (2003) è al volante di una Ferrari.
Per quanto riguarda il settore alimentare, l’acqua San Pellegrino è stata oggetto di product placement in
diversi film di carattere internazionale, come Les Invasions Barbares (2003).
3.5. Il location placement.
Un cenno a parte merita il cosiddetto location placement, che consiste nella creazione di espedienti
narrativi che collochino alcuni luoghi in contesti centrali di un’opera cinematografica o televisiva, in modo
da realizzare le condizioni per la riconoscibilità dell’identità culturale, paesaggistica e produttiva dell’area
geografica e per la comunicazione di uno stile di vita che possa attrarre turismo qualificato (cineturismo o
movie-induced tourism).
Poiché l’oggetto del product placement è costituito di norma da un prodotto e/o da un marchio, e un
paesaggio di per sé non può essere considerato tale, per un ente locale la strada più facilmente percorribile
è quella della ideazione, tutela e promozione di un marchio territoriale, sia esso individuale o collettivo, che
possa essere speso sul mercato locale e internazionale.
Naturalmente anche in assenza di uno specifico segno distintivo risulta possibile configurare un placement
del territorio attraverso l’integrazione nell’opera cinematografica o televisiva in cambio di servizi a favore
della produzione e di ospitalità sul territorio, promossi dalle locali Film Commission.
Numerose ricerche a livello internazionale a partire dai primi anni Novanta hanno constatato come il
location placement si sia spesso rivelato determinante per il successo del posizionamento di una location
cinematografica o televisiva come destinazione turistica, evidentemente sostenuto da specifiche e ulteriori
iniziative di promozione territoriale.
Uno dei casi più eclatanti è sicuramente la crescita turistica della Nuova Zelanda, in seguito al successo della
trilogia dei film The Lord of the Rings (2001-2003).
Vi è da rilevare che in Italia il tema del location placement è stato affrontato sistematicamente solo in tempi
relativamente recenti grazie all’ideazione nel 2003 dell’Ischia Film Festival, che costituisce il primo
appuntamento italiano dedicato a lungometraggi, cortometraggi e documentari che hanno il merito di
valorizzare il territorio sotto il profilo culturale, artistico e turistico.

4. La valorizzazione del product placement.


L’impresa può valutare l’opportunità di valorizzare l’inserimento attraverso:
➢ la presenza del prodotto all’interno delle scene selezionate per il trailer del film;
➢ l’inserimento di spot durante l’interruzione pubblicitaria del programma televisivo;
➢ l’acquisto di uno spazio pubblicitario prima dell’inizio del film o del programma televisivo.

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