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LEZIONE 1.
Premesse fondamentali.
La comunicazione crea e diffonde significati simbolici e valore economico, ma può anche distruggere
significati e valori.
Es. Google: Larry Page si scusa per il pasticcio. Bruciata capitalizzazione per 24 miliardi di dollari.
“mi spiace per il pasticcio di oggi”. Non ha usato molte parole l’amministratore delegato di Google, Larry
Page, per spiegare la fuga di notizie che ha portato alla pubblicazione anticipata dei conti del terzo
trimestre. Uno “scramble”, un pasticcio appunto, che ha fatto crollare il titolo dell’11% ed è costato alla
società 24 miliardi di dollari. Page ha liquidato la questione dicendo che i risultati di bilancio “sono stati
diffusi un po’ prima del necessario”, preferendo invece concentrarsi sul “solido trimestre” e su una
“performance per cui essere felici”.
I simboli rappresentano un’identità. Segni e significati devono portare valore economico, altrimenti non ci si
investe. Se si commettono errori, si butta via denaro. I danni si fanno e possono essere gravi.
L’offerta proviene dalle imprese a sinistra, mentre la domanda dai soggetti a destra.
La comunicazione aziendale.
La comunicazione aziendale è l’insieme delle manifestazioni attraverso le quali l’azienda attiva di fatto un
processo di comunicazione con uno o più pubblici, ai quali propone uno o più aspetti della propria identità.
Con “di fatto” si intende che l’azienda ne sia consapevole o meno.
Esistono 4 principi della cultura della comunicazione aziendale.
1. L’azienda, per il solo fatto di esistere, possiede una identità e di conseguenza una reputazione.
2. Qualunque aspetto o attività dell’azienda contribuisce a delinearne l’identità e di conseguenza la
reputazione. (anche senza fare niente; al massimo si può comunicare consapevolmente, ma l’azienda
comunica in ogni istante).
3. Per quanti sforzi l’azienda possa fare, non riuscirà mai a gestire completamente la propria reputazione.
4. Solamente la presentazione veritiera degli aspetti della propria identità consentirà all’azienda di
perseguire i propri obiettivi di medio e lungo periodo.
Il processo di comunicazione.
Processo attraverso il quale una persona, un’azienda o un ente si pone in relazione con una o più persone,
aziende o enti, avvalendosi a tal fine di simboli verbali e non verbali.
È quindi un processo di scambio.
Uno dei problemi è la scelta del simbolo giusto, del linguaggio giusto.
Come funziona?
Abbiamo una fonte (mittente) e un ricevente (destinatario). Questi due soggetti devono essere messi in
relazione tra loro.
La fonte promuove il processo di comunicazione e lo fa perché ha degli obiettivi (es. la Barilla vuole vendere
la sua pasta). Per far questo ha in testa un oggetto della comunicazione, cioè delle cose da raccontare.
Quello che si trasmette non è tanto l’oggetto, ma un messaggio.
Il messaggio è fatto da simboli, che arrivano al destinatario attraverso un canale.
Per formulare questo messaggio, la fonte codifica il contenuto, che viene successivamente decodificato dal
ricevente. La decodifica permette al ricevente di capire il messaggio.
Di conseguenza, il ricevente attua degli effetti, una reazione (es. l’acquisto della pasta).
Feedback: risposta immediata del ricevente; è preziosissimo.
LEZIONE 2
La comunicazione aziendale.
Secondo la forma di comunicazione attivata (modalità), si distinguono manifestazioni:
➢dirette a carattere interpersonale: è tipica dei piccoli gruppi, i quali hanno molte cose in comune, tra
queste una forte comunanza di codici e simboli (es. tra colleghi, amici…);
➢dirette a carattere non personale: comunicazione senza elementi di comunanza così forte da considerare
il gruppo micro-gruppo. Importante è la condivisione naturale dei codici. Si utilizzano codici che si auspica
siano comunque condivisi (ad es. la comunicazione che utilizza a lezione il professore, o quella tra colleghi di
aree diverse…);
➢di massa: è mediata dai mezzi di comunicazione di massa (mass media). Si parla a grandi numeri di
soggetti con tutti i problemi della comunicazione non personale, ma con in più la non-immediatezza del
feedback.
Un’impresa si trova a comunicare in tutte queste modalità.
Modello RepTrak.
Il modello RepTrak® di Reputation Institute, un autorevole framework a livello internazionale, misura la
reputazione, ne identifica i fattori che la guidano e permette alle aziende di monitorare e confrontare la loro
performance rispetto ai competitor. RepTrak® è il primo strumento standardizzato e integrato al mondo per
inquadrare e misurare le corporate reputation a livello internazionale su molteplici gruppi di stakeholder.
Il cuore del modello RepTrak® è il Pulse, ovvero il fattore emotivo che consente di creare un legame tra gli
stakeholder e l’Azienda e permette di misurarne la forza in base a quattro attributi: stima (esteem), fiducia
(trust), ammirazione (admire) e atteggiamento positivo (feeling). La solidità o meno di questo legame
determina la reputazione dell’Azienda.
Reputation Institute ha identificato 7 fattori razionali che rappresentano l’aspetto “razionale” della
reputazione sulle quali si lavora per modificare le percezioni e quindi i comportamenti degli stakeholder:
-Prodotti e servizi (Products & Services); -Innovazione (Innovation);
-Ambiente di lavoro (Workplace); -Eticità (Governance);
-Responsabilità sociale (Citizenship); -Leadership; -Performance.
L’Employee Survey misura le opinion dei collaboratori riguardo al clima lavorativo basate sulle 5 dimensioni
del modello GPTW:
1. Credibilità: comunicazione a 2 vie, competenza ed integrità;
2. Rispetto: sviluppo professionale, coinvolgimento, cura;
3. Equità: equità del trattamento, imparzialità, giustizia;
4. Orgoglio: lavoro individuale, gruppo di lavoro, immagine aziendale;
5. Coesione: confidenza, accoglienza, collaborazione.
Esempio Hoover.
Marchio di aspirapolvere che negli anni ’90 ha fatto un macello con una promozione.
La società fa una promozione con come slogan: “2 voli gratis”.
Volevano lanciare una promozione che comprendesse anche voli verso gli USA (il marchio era britannico).
Chiedevano al cliente di spendere 100 sterline per un premio fino a 600.
La Hoover pensava che solo pochi clienti avrebbero riscattato la promozione, basandosi sui risultati per i voli
europei. La gente iniziò a comprare aspirapolveri solo per avere voli USA gratis.
La quota di mercato dell’azienda si alzò di molto.
Un giornale scozzese intuì uno scoop: un giornalista controllò tutte le linee aeree, ma non c’erano
prenotazioni.
Ci fu una vera tempesta mediatica.
I voucher erano 10 volte superiori rispetto a quanto previsto. I negozi non volevano più conservare la merce.
La Hoover non aveva né soldi né potere per applicare la promozione.
I 3 principali dirigenti britannici vennero licenziati. La Hoover dovette noleggiare aerei interi.
Le compagnie aeree iniziarono trucchetti per scoraggiare le partenze dei clienti.
La Hoover fu perseguita nei tribunali. Un cliente sequestrò addirittura un furgone della società per 13 giorni.
Solo 1/3 dei clienti ottenne i biglietti.
La reputazione andò in frantumi.
Fu la promozione di vendita più catastrofica del regno unito, forse addirittura del mondo.
L’azienda era così danneggiata che l’intera divisione europea fu venduta al concorrente italiano.
Una volta finita questa vicenda, la clientela perde affidamento anche nei prodotti.
LEZIONE 4.
Il ruolo della reputazione del produttore nel processo d’acquisto: un sondaggio esplorativo su 105
studenti del corso del 2022.
1. Leggi le etichette dei prodotti per individuare il nome dell’impresa produttrice?
2. Ti infastidirebbe il fatto di non riuscire a identificare dall’etichetta il nome dell’impresa produttrice?
3. Se non riuscissi a comprendere chi realizza un prodotto, decideresti di non acquistare il prodotto?
5. Se scoprissi che un prodotto, che normalmente acquisti, `e realizzato da un’impresa che non merita la tua
stima, smetteresti di acquistarlo?
MATERIALE 1: I CONCETTI DI CORPORATE IMAGE, CORPORATE REPUTATION E MEDIA REPUTATION.
1. L’origine e lo sviluppo del concetto di corporate image.
Il concetto di immagine, riferito sia all’azienda nel suo complesso che al prodotto, trova la sua origine nella
letteratura statunitense dei primi anni Cinquanta, in un contesto socioeconomico nel quale è presente una
sempre maggiore attenzione agli aspetti relazionali e comunicativi dei rapporti che si instaurano all’interno
dell’azienda e tra questa e il suo ambiente esterno.
La crescente volontà di far comprendere gli obiettivi dell’azienda e le ragioni delle sue scelte, l’istanza di
trasparenza e la promozione di un sempre più ampio consenso da parte della collettività costituiscono, a
livello operativo, gli elementi di stimolo e di propulsione dello sviluppo di una nuova attività professionale
che assume la denominazione di public relations.
Sorte, in origine, come una funzione prevalentemente di contatto tra l’azienda e i rappresentanti del potere
pubblico e della stampa, allo scopo di stimolare tali pubblici a sostenere posizioni favorevoli agli interessi
aziendali, le public relations si arricchiscono con il tempo di strumenti e di contenuti, mentre diventa
sempre più vasto l’insieme di pubblici cui le varie iniziative si rivolgono.
La nascita del concetto di corporate image può dunque essere fatta risalire all’inizio degli anni Cinquanta,
quando alcuni studiosi iniziano a inserire nelle loro opere il tema dell’immagine aziendale quale dimensione
a sé stante, generata attraverso complessi processi cognitivi ed emotivi, che coinvolgono i pubblici che
entrano in qualche modo in contatto con l’azienda stessa.
All’origine del concetto di immagine aziendale vi potrebbe essere una analogia tra il carattere dell’azienda e
la personalità dell’individuo, suggerita da un contributo di William Newman, pubblicato nel 1953 e che
riprende l’idea di considerare l’organizzazione alla stregua di un individuo, con le sue abitudini, con le sue
tradizioni e con una sua precisa personalità.
Secondo Newman, cogliere il carattere di una azienda risulta fondamentale, sia per i pubblici interni che per
quelli esterni, al fine di giungere a una corretta comprensione dell’azienda stessa quale entità dinamica. Tale
carattere appare come il risultato di un insieme, complesso e articolato, di elementi tangibili e intangibili, tra
i quali assumono un ruolo di primo piano gli obiettivi di fondo dell’azienda.
Questi obiettivi si collocano così alla base del carattere intrinseco dell’azienda, che sintetizza a grandi linee
ciò che l’azienda è e ciò che essa desidera diventare nel tempo, così come permea in tutto e per tutto la
stessa gestione quotidiana.
Per comprendere appieno tali obiettivi, che di fatto esprimono l’identità profonda dell’azienda, occorre
esaminare a fondo quattro aree decisionali:
1. la scelta del settore in cui l’azienda intende operare e la posizione che al suo interno essa desidera
assumere;
2. l’enfasi che viene posta sulla stabilità della gestione rispetto alla predisposizione al cambiamento;
3. le modalità di rapporto dell’azienda con il contesto sociale all’interno del quale opera (social philosophy
of the company);
4. la filosofia di gestione dell’azienda nel suo complesso (management philosophy of the company).
Una particolare enfasi sul concetto di immagine e sulle sue relazioni con il comportamento umano viene
altresì posta nel 1956 dall’economista e filosofo Kenneth Boulding, il quale sostiene, nella sua opera "The
Image", che la conoscenza di un individuo o di una organizzazione non si basa su aspetti definibili come
‘fatti’ oggettivi, bensì consiste in un insieme di messaggi e di ‘immagini’ che viene filtrato attraverso un
mutevole sistema di valori e che influenza, in ultima istanza, il comportamento.
È, tuttavia, solo con il 1958 che viene operato da parte di Pierre Martineau, research director del «Chicago
Tribune», un primo sistematico approccio al concetto specifico di corporate image.
Il contributo di Martineau nel sensibilizzare il management aziendale nei confronti delle problematiche
relative alla corporate image risulta di particolare incisività e pregio per almeno tre ordini di motivi:
–In primo luogo, l’Autore pone l’attenzione su una considerazione di base, ossia che la necessità di riferirsi
alla dimensione dell’immagine anche a livello aziendale deriva dal fatto che «tra gli elementi soggettivi che
costituiscono un'immagine di marca, ci sono generalmente alcuni aspetti dell'immagine aziendale che
giocano un ruolo importante»;
–In secondo luogo, specifica con estrema chiarezza la natura delle componenti dell’immagine aziendale,
sostenendo la distinzione tra la componente ‘funzionale’, basata su aspetti ‘tangibili’, quali la qualità, il
prezzo, il servizio, l’affidabilità, ecc., e quella ‘emotiva’, basata su sentimenti soggettivi;
–In terzo luogo, l’Autore opera un fondamentale ampliamento dell’orizzonte di riferimento dell’azienda,
considerando l’influenza della sua immagine su molteplici pubblici. Egli, infatti, sottolinea che insieme ai
consumatori attuali possono essere individuate ben sei altre classi di pubblici, ciascuna delle quali risulta
sensibile a particolari dimensioni dell’immagine aziendale: gli azionisti, i consumatori potenziali, i lavoratori,
gli intermediari commerciali, i fornitori e la collettività.
Con la fine degli anni Cinquanta con riferimento al ruolo della corporate image si aprono due filoni di studio
che si svilupperanno particolarmente nei decenni Sessanta e Settanta:
>l’uno, in ambito istituzionale, trova i professionisti delle relazioni pubbliche sempre più fortemente
coinvolti e interessati;
>l’altro, in ambito commerciale, suscita un vasto dibattito teorico e una lunga serie di ricerche empiriche
volte a verificare e a valutare il legame tra la corporate image e le decisioni di acquisto dei consumatori,
andando così a rilevare, in ultima istanza, gli effetti dell’immagine sui risultati economici dell’azienda.
Premessa.
La corporate reputation è diventata oggetto di attente analisi, ma l’ampia diffusione del dibattito che ne è
scaturito ha talvolta condotto a perdere di vista il rigoroso fondamento economico sottostante al concetto
di reputazione, con il rischio di tradurlo in un luogo comune stereotipato e lontano dal suo reale significato.
Il concetto di reputazione costituisce una grandezza unitaria riferita all’identità dell’impresa nel suo
articolato e complesso operare e non può essere artificialmente scissa senza perdere di significato.
Ciò, tuttavia, non significa che le ricerche sulla corporate reputation debbano necessariamente condursi con
sforzi, in termini di tempi e di risorse, insostenibili: è possibile ricorrere ad approcci di ricerca semplificati
che, anziché raccogliere direttamente le valutazioni presso la molteplicità degli stakeholder, vadano a
indagare all’origine le fonti di informazione alle quali gli stakeholder ricorrono per formulare le loro
valutazioni.
Tali fonti sono essenzialmente le forme della comunicazione dell’impresa stessa, il passaparola e la
copertura sui mass media. Tra queste fonti, quella che è stata tradizionalmente considerata come la più
autorevole in termini di credibilità è costituita dai mass media, seguita dal passaparola, il cui impatto si è
sempre dimostrato molto rilevante nella formulazione delle valutazioni, ma la cui attendibilità viene talvolta
messa in discussione, specialmente con riferimento al recente ruolo assunto dai social media, nei quali la
credibilità delle fonti di informazione non è sempre agevolmente accertabile.
In particolare, sebbene le conversazioni all’interno dei social network esercitino un indubitabile ruolo
nell’influenzare gli atteggiamenti e nell’indirizzare i comportamenti dei consumatori è abbastanza evidente
come non possa essere considerata reputazione dell’impresa la mera conseguenza di un “like” inserito,
magari distrattamente, in un social media e nemmeno l’interpretazione in chiave positiva del tono
(sentiment) di una notizia inserita in un forum, o di un commento riportato all’interno di un blog e ciò nella
misura in cui l’analisi non sia stata impostata in modo tale da rilevare anche i toni ironici o sarcastici. In altre
parole, anche la social media reputation necessita di essere considerata come una declinazione del concetto
di corporate reputation, pertanto la sua analisi deve sottostare alle medesime ipotesi e metodologie di
ricerca validate nel tempo.
Conclusioni.
La corporate reputation ha ormai assunto un ruolo di primo piano nella strategia di ogni tipologia di impresa
e ciò non più con riferimento ai soli interlocutori finanziari o istituzionali, ma anche ai consumatori, che in
modo sempre più attento cercano conferme della bontà delle loro scelte, considerando i comportamenti
delle imprese che producono i beni e i servizi acquistati.
LEZIONE 5.
Il ruolo strategico della comunicazione.
2. La dimensione strategica.
-Corretta definizione di obiettivi;
-Idonea articolazione di piani di comunicazione;
-Specifiche modalità di controllo.
La responsabilità della definizione della politica di comunicazione è affidata all’imprenditore, in via esclusiva
(51%) o congiuntamente con altri (34%).
Sotto il profilo strategico si riscontrano sia la mancanza di una strategia di comunicazione formalizzata, sia le
carenze nella comunicazione della strategia deliberata.
3. La dimensione culturale.
-Consapevolezza dei caratteri dell’identità;
-Attenzione alla reputazione dell’impresa;
-Visione strategica di lungo periodo.
L’attenzione dell’imprenditore agli aspetti dell’identità dell’impresa e alla loro corretta trasmissione verso i
propri stakeholder spiega anche la sua sensibilità al tema della reputazione e può far ipotizzare un’apertura
dell’imprenditore ai valori della cultura della comunicazione aziendale.
Tale sensibilità si concretizza anche in un’elevata attenzione agli aspetti dell’identità visiva dell’impresa
(stampati, mezzi di trasporto, segnaletica, imballaggi, ecc.) e alle strutture fisiche aziendali (sedi,
stabilimenti, punti di vendita, spazi espositivi, ecc.).
LEZIONE 6 + LEZIONE 8.1 + MATERIALI 3
– LA COMUNICAZIONE COME FATTORE DI PRODUZIONE DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE.
Premessa.
La comunicazione costituisce oggi un fattore strategico essenziale per il perseguimento delle finalità
economiche connesse alla particolare funzione che l’impresa svolge nell’ambiente in cui opera e che
consente all’impresa stessa sia di trasmettere gli elementi costitutivi della propria identità, sia di acquisire
tutti gli elementi conoscitivi necessari allo svolgimento della propria attività: la comunicazione deve così
essere di necessità inserita in un modello – al tempo stesso culturale, strategico e operativo – che
costituisca una componente del più generale sistema d’impresa.
1. La piccola e media impresa: definizione economica, caratteri peculiari e ruolo della comunicazione.
1.1. Il ruolo della piccola e media impresa all’interno del sistema economico.
La piccola e media impresa costituisce una componente rilevante e fondamentale di ogni sistema
economico e la sua presenza è riscontrabile in tutte le economie industriali avanzate: per quanto concerne,
in modo specifico, l’Italia è possibile rilevare come nel solo comparto manifatturiero sia concentrato il 51%
del totale delle imprese con 10-49 addetti e ben il 60% delle medie imprese italiane.
>Negli anni Cinquanta e Sessanta la piccola e media impresa veniva considerata come una realtà produttiva
arretrata e poco efficiente, che sopravviveva grazie all’abbondanza di mano d’opera e alla tolleranza della
grande impresa e che era destinata a estinguersi con lo sviluppo del sistema economico.
È, tuttavia, nei decenni successivi che la piccola e media impresa viene rivalutata e descritta come
un’organizzazione dotata di maggiore flessibilità e capacità di adattamento, in un contesto ambientale e di
mercato caratterizzato da crescente complessità.
>Durante gli anni Settanta, infatti, a fronte della recessione internazionale e del declino della grande
impresa, la piccola e media impresa vede rimesso in discussione il proprio ruolo, dimostrando
un’insospettabile capacità di tenuta, notevoli ritmi di sviluppo e crescenti opportunità di occupazione.
In particolare, nella seconda metà degli anni Settanta, le PMI industriali svolgono un ruolo fondamentale nel
garantire la capacità di adattamento del sistema economico alle modificazioni strutturali avvenute nei
mercati di approvvigionamento e di sbocco:
-in primo luogo, la specializzazione delle PMI in comparti produttivi scarsamente energy intensive e la
sostanziale assenza di forme esasperate di conflittualità in fabbrica favorisce un più agevole assorbimento
degli shock petrolifero e salariale;
-in secondo luogo, la configurazione produttiva di piccole dimensioni e tendenzialmente flessibile consente
alle stesse imprese di confrontarsi con maggiore efficacia con una domanda divenuta instabile e
differenziata.
>Con gli anni Ottanta lo scenario economico inizia a mutare e la fase espansiva caratterizzata da una
maggiore stabilità tende a ridurre il ruolo della capacità di adattamento propria della PMI, la quale, a fronte
delle aumentate opportunità di crescita che si riscontrano sul versante della domanda, viene a perdere i
propri vantaggi competitivi dal lato dell’offerta.
Gli anni Ottanta segnano d’altronde una rinascita della grande impresa sotto i profili della produttività e
della redditività, favoriti dai processi di deverticalizzazione, di razionalizzazione e di ammodernamento dei
cicli produttivi, avviati con il finire degli anni Settanta, e del miglioramento della composizione delle fonti di
finanziamento.
Dunque, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta, la PMI ha dovuto
confrontarsi con un nuovo prototipo di grande impresa, ritornata a essere attore protagonista della scena
economica mondiale, grazie all’adozione di modelli organizzativi più flessibili e articolati a rete.
In questo contesto, la PMI può continuare a giocare, rispetto alla grande impresa, ruoli di avanguardia a
condizione che dia enfasi alle esigenze di rapido apprendimento tecnologico e di sviluppo transnazionale
delle strategie e delle relazioni informative.
L’esperienza dell’ultimo decennio, e in particolare della prima metà degli anni Novanta, ha, infine,
evidenziato l’affermazione di un numero considerevole di medie imprese – dinamiche, tecnologicamente
avanzate e finanziariamente equilibrate –, che sembrano superare la tradizionale contrapposizione tra
piccole e grandi imprese, dimostrandone l’inadeguatezza.
Infatti, da un lato, le imprese di grandi dimensioni si sono rivelate spesso eccessivamente diversificate per
competere su mercati che si espandevano troppo rapidamente e che richiedevano investimenti molto
elevati per mantenere la competitività in più settori; ciò ha indotto a processi di riorganizzazione e di
rifocalizzazione delle imprese su attività più specializzate. Di conseguenza, i grandi gruppi hanno rivisto la
propria struttura organizzativa in funzione della difesa della propria competitività, trasformandosi da grandi
a medi gruppi.
Dall’altro lato, le imprese di piccole dimensioni hanno manifestato una ridotta capacità di sviluppo a causa
di problemi manageriali, organizzativi e finanziari; ciò ha comportato forme di decentramento, di
consolidamento organizzativo, di crescita esterna e di formazione di gruppi societari di medie dimensioni.
Per quanto concerne un aspetto specifico della realtà economica italiana, vi è infine da rilevare che il nostro
sistema industriale è caratterizzato da un rilevante fenomeno di distrettualizzazione, in quanto hanno
assunto un peso crescente i sistemi produttivi territoriali nei quali opera un elevato numero di imprese
manifatturiere e di servizi, caratterizzate da strette relazioni di affari, da una elevata prossimità delle
localizzazioni e, di conseguenza, da ridotte linee di comunicazione, da veloci e costanti flussi di informazioni
e da un vivace scambio di idee e di innovazioni.
All’interno di un distretto industriale, le relazioni tra le imprese sono regolate dalla comunicazione
interattiva e dalla cooperazione.
-la comunicazione interattiva consiste nel processo di comprensione, di interpretazione e di selezione dei
significati messi in gioco dai soggetti che comunicano.
-la cooperazione, invece, si basa sulla capacità dei partner di costruire una base di intesa e di regolare i
comportamenti reciproci in modo da non intaccare quelle risorse di fiducia che rappresentano il capitale
della relazione cooperativa e ne sostengono il ciclo di vita.
La seconda area della comunicazione appare essere quella di tipo istituzionale, che tuttavia risulta ampliata
nei propri obiettivi e strumenti rispetto alla visione tradizionale limitata ai rapporti con il territorio e con gli
stakeholder non commerciali. In questo caso, infatti, nell’ambito della comunicazione istituzionale viene
inclusa anche una componente più specificamente riferita al prodotto, per il quale l’aspetto istituzionale si
riferisce alla garanzia che l’impresa in sé offre al sistema di offerta una volta che entra nel mercato.
Le ultime due aree della comunicazione si presentano coerenti, riguardando l’una fondamentalmente gli
obiettivi e gli strumenti di natura commerciale e, l’altra, quelli di carattere economico-finanziario.
3. Il percorso evolutivo delle imprese che giudicano la reputazione come la risorsa strategica più importante.
(65% delle imprese campione).
➢Sono nate prevalentemente prima del 1980;
➢Presentano dimensioni tendenzialmente stabili nel tempo;
➢Hanno tutte la forma di società di capitale;
➢Operano in un mercato ampio e in espansione.
1. Negli anni ’60 e ’70:
-Le imprese hanno un assetto organizzativo e una forma giuridica semplici e non presentano collegamenti
con altre aziende;
-Le competenze sono la risorsa fondamentale;
-Il prodotto è il primo fattore di successo;
-Le imprese iniziano a studiare e a modificare il marchio e il logotipo.
2. Durante gli anni ’80:
-Si modifica la forma giuridica e si presentano divisioni tra eredi o soci;
-inoltre, si intensificano i processi di riconversione ed iniziano le prime forme di collegamento;
-procede la managerializzazione;
-l’immagine di prodotto diventa la risorsa più importante;
-al prodotto si affianca il prezzo come fattore di successo rilevante.
3. Durante gli anni ’90:
-si sviluppano i collegamenti con le altre imprese (di tipo equity e non-equity) e si attuano progetti di qualità
totale e si sviluppano nuovi business;
-si completa la managerializzazione;
-la reputazione dell’impresa diventa la risorsa più importante sotto il profilo strategico;
-al prodotto e al prezzo si aggiunge l’innovazione come fattore di successo.
4. Il percorso evolutivo delle imprese che giudicano la reputazione come la risorsa strategica meno
importante. (9% delle imprese campione).
➢Hanno una forma giuridica semplice, che non è mai cambiata nel tempo;
➢Non hanno mai realizzato acquisizioni, né progetti di qualità totale;
➢Presentano una ridotta managerializzazione;
➢Ritengono da sempre la competenza aziendale come la risorsa più importante;
➢Considerano da sempre il prezzo come il principale fattore di successo competitivo.
Conclusioni.
L’attenzione è stata posta sugli aspetti strategici della comunicazione, allo scopo di rilevare quale sia il
contributo che le PMI richiedono o riconoscono alla comunicazione nel sostenere il proprio percorso
evolutivo.
Complessivamente si può ritenere che le PMI esaminate abbiano maturato un elevato livello di sensibilità
nei confronti della comunicazione e ciò in quanto variabile che rappresenta il fulcro di tutti i processi
aziendali. La comunicazione, infatti, costituisce sia un collante organizzativo, sia un veicolo di relazioni e di
scambi di informazioni con gli interlocutori.
La ricerca ha evidenziato il significato che le PMI attribuiscono alla reputazione aziendale quale risorsa
strategica per lo sviluppo dell’impresa e quale fattore critico di successo in tutti i mercati in cui l’impresa
stessa opera.
Nelle valutazioni degli imprenditori, tuttavia, tale dimensione simbolica e valoriale non precede, né tanto
meno sostituisce, la realtà dell’impresa. In particolare, la qualità del prodotto resta sempre al primo posto
tra i fattori di successo competitivo.
Il ruolo della reputazione ha, comunque, assunto un particolare rilievo soprattutto negli anni Novanta a
seguito delle sfide strategiche che la PMI si è trovata ad affrontare.
A tale proposito sono tre gli aspetti che possono essere sottolineati.
1. In primo luogo, le mutate condizioni competitive hanno comportato la necessità per l’impresa di
comunicare il proprio cambiamento agli interlocutori strategici.
2. In secondo luogo, l’affermazione dell’economia globale ha implicato l’esigenza per l’impresa di investire
sempre più nelle risorse che aumentano la velocità di reazione e nella costruzione di reti.
Con riferimento a questi due primi aspetti, la ricerca ha evidenziato chiaramente come siano state le
imprese che si sono dimostrate più dinamiche sotto i profili ora richiamati ad avere maturato una maggiore
consapevolezza del ruolo assunto dalla comunicazione, in modo particolare in ambito organizzativo e
gestionale. Tali imprese hanno compreso che occorre affiancare all’ottica della comunicazione per il
controllo del mercato di sbocco quella della comunicazione per il controllo della filiera produttiva: in questo
modo sono giunte a integrare le tematiche comunicazionali nei propri processi decisionali, in vista
dell’adozione di nuove soluzioni concrete alle problematiche produttive e gestionali che tradizionalmente
risultano più vicine alla cultura industriale.
Le due ottiche di comunicazione:
➢ La comunicazione per il controllo del mercato di sbocco;
➢ La comunicazione per il controllo della filiera produttiva.
Il controllo della filiera produttiva è realizzabile efficacemente e stabilmente attraverso un coordinamento di
natura strategica e paritaria.
Tale coordinamento richiede capacità di relazione e di cooperazione, nonché credibilità e fiducia
nell’impresa.
3. In terzo luogo, infine, l’arricchimento del prodotto con servizi e caratteri immateriali, ormai ritenuti
essenziali (personalizzazione, garanzia, assistenza, consulenza, formazione, aggiornamento…), ha fatto sì che
l’impresa si trovasse a dover comunicare innanzitutto i propri valori fondamentali e il proprio potenziale di
sviluppo – in altre parole, l’essenza istituzionale – per giustificare e garantire con la propria reputazione il
valore del prodotto e il rapporto qualità/prezzo.
Considerando il percorso già compiuto da molte imprese di successo, pare possibile prevedere che
all’intensificarsi delle condizioni competitive e delle modificazioni dell’ambiente analizzate nella ricerca, la
comunicazione possa rivestire sempre più un ruolo strategico.
Affinché ciò possa realizzarsi compiutamente è però necessario che il mondo imprenditoriale e quello della
comunicazione d’impresa riflettano insieme attentamente su almeno tre temi particolarmente rilevanti:
> in primo luogo, sull’esigenza di aiutare la PMI a esplicitare le dimensioni comunicative della propria
identità e a prenderne piena consapevolezza.
> in secondo luogo, sulla necessità di identificare e di proporre modalità semplici di pianificazione strategica
della comunicazione della PMI, al fine di ottimizzare l’impiego delle risorse e coordinare efficacemente gli
strumenti di comunicazione.
> in terzo luogo, sull’opportunità di formare figure professionali con competenze specifiche nella
comunicazione della PMI, che siano in grado di affiancare l’imprenditore aiutandolo a esplicitare
efficacemente la propria strategia e a tradurla operativamente mediante l’impiego di adeguate forme di
comunicazione.
SLIDE BRUNSWICK.
> Che cos'è una crisi?
Un evento o una serie di eventi che creano alti livelli di instabilità, minacciando la capacità di
un'organizzazione di condurre l'attività e/ o compromettere seriamente la reputazione e la fiducia.
> Cos'è una crisi della comunicazione?
Un problema o una crisi si trasforma in una crisi di comunicazione quando diventa pubblica o c'è la
possibilità che "vada in pubblico".
“Ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione e cinque minuti per rovinarla. Se ci pensi, farai le cose in
modo diverso”. Warren Buffet.
>Che cosa è la reputazione?
La reputazione è la credenza che è tenuta generalmente circa un'organizzazione o una persona, alzante le
aspettative circa i comportamenti futuri.
Una reputazione consolidata crea una base di "buona volontà" che sarà vitale per affrontare una crisi.
Reputazione e crisi.
1. Minacce reputazionali.
Maggiore vulnerabilità: le minacce reputazionali emergono più velocemente, si diffondono molto più
ampiamente e sono più difficili da sradicare.
• Diffuso scetticismo nei confronti di aziende e manager;
• Diversificazione degli stakeholder e forte connessione tra loro;
• Ognuno è diventato un "media";
• Le informazioni vengono rilasciate in tempo reale;
• I social media diffondono e amplificano le opinioni critiche in tempo reale;
• Il regolamento si insinua e si sovrappone;
• L'influenza delle minoranze sta crescendo.
2. Gli effetti.
Un'organizzazione che mira a influenzare e coinvolgere efficacemente i propri stakeholder deve considerare:
• Maggiori aspettative sul ruolo e sui comportamenti aziendali;
• Maggiore consapevolezza del potere e dell'influenza delle imprese;
• Giudizio rilevante da parte del pubblico su ciò che l'azienda può e non può fare;
• Crescente aspettativa che le aziende affrontino le questioni sociali.
3. Categorie di crisi:
Quando una crisi diventa pubblica:
-La fiducia e la credibilità sono indebolite prima di poter dire una parola;
-Ogni comunicazione sarà radiografata e tutto ciò che verrà detto sarà scolpito nella pietra;
-Il nuovo pubblico ti sta identificando durante i momenti difficili e penserà immediatamente al peggio;
-Le condivisioni dei media sono rapide e il loro interesse non coincide con i tuoi piani;
-devi essere pronto a rispondere a domande del tipo: “cosa è successo?” – “come è successo?” – “di chi è la
colpa?” – “cosa stai facendo per risolvere il problema?”.
Per mitigare l'impatto di ogni crisi sulla reputazione della società, la migliore, e forse l'unica, forma di
prevenzione è la preparazione.
Crisis Management Team.
Il Crisis Management Team è l'unità operativa responsabile della supervisione urgente di una crisi aziendale
nei confronti dell'opinione pubblica e di tutti i suoi stakeholder esterni.
Il Crisis Management Team è composto da membri aziendali di base (come CEO, Direttore Generale,
Direttore Operativo, CFO, Direttore Legale, Direttore Risorse Umane, Capo delle Comunicazioni...) e altri
(come Public Affairs Manager, Security Manager, Commercial Director, Head of Marketing, Head of R&D, ICT
Director, Risk Manager...), che vengono chiamati in base al tipo di crisi.
Esso affida al capo delle comunicazioni il compito di implementare, con uno staff multifunzionale, le
strategie decise dalla CMT.
Inoltre, discute e approva strategie e piani operativi per prevenire e preparare la crisi.
Infine, stabilisce procedure e processi per i dipendenti, nonché formazione e simulazioni a tutti i livelli.
Stakeholders.
La campagna di reputazione.
1. Attenuare gli effetti della crisi:
•Gestione delle crisi in corso;
•Mantenere il lavoro del team in risposta alla crisi;
2. Identificare una nuova agenda:
• Comprendere e approvare le nuove priorità;
• Definire il contesto in relazione ai pari, ambienti più ampi;
• Mappare il pubblico per sapere cosa sa e cosa pensa;
3. Sviluppo di obiettivi:
• Decidere gli obiettivi di comunicazione, in linea con gli scopi aziendali;
• Identificare i "grandi argomenti" che possono conquistare;
• Definire i criteri di successo e gli obiettivi finali;
4. Creare e pianificare i contenuti
• Sviluppare un piano di comunicazione;
• Creare contenuti per supportare il piano;
5. Introduzione e risposta
• Lancio del piano;
• Rispondere alle opportunità tattiche e reattive;
6. Analizzare e ribadire
• Analizza i progressi in relazione agli obiettivi;
• Aggiorna strategia e contenuti in base ai feedback e ai risultati.
LEZIONE 7 – EMMEGI.
Di cosa si occupa Emmegi Sistemi di Comunicazione?
Noleggio vendita e installazione di sistemi di comunicazione multimediale e di materiale audiovisivo volti
alla trasformazione degli ambienti espositivi e d’incontro in spazi interattivi.
Eventi, manifestazioni, congressi, road show, fiere, installazioni temporanee e permanenti come punti
vendita, show room e sale controllo sono i luoghi che abbiamo saputo valorizzare.
1. Utilizzare le referenze per la tua crescita.
2. Cose apparentemente impossibili ti danno visibilità.
Il cliente che ti dà fiducia perché gli dai risposte certe.
3. Comunicare attraverso i Grandi. A supporto di aziende leader a livello mondiale.
4. Interazione a portata di mano.
L’interazione con una realtà virtuale rende più interessante e stimolante l’esperienza del pubblico.
LEZIONE 8.
Il concetto di product placement e la sua evoluzione.
Per product placement si intende l’inserimento oneroso, pianificato e non invadente di un prodotto di
marca all’interno di una vasta tipologia di contenuti di intrattenimento.
>Esempio.
L’operazione Gucci – Achille Lauro è molto differente da una normale operazione di Product placement.
Iabichino: “quella di Achille Lauro e Gucci è una diabolica operazione di marketing culturale”.
È stato il Festival della performance dell'artista romano che ha portato all'Ariston, non solo una serie di
outfit ad effetto, ma un vero e proprio storytelling costruito insieme alla maison.
Quella performance, quello spettacolo, non erano solo una narrazione artistica ma una vera e propria
operazione di marketing costruita insieme a Gucci.
Paolo Iabichino – ex CCO di Ogilvy Italia, miglior comunicatore dell’anno 2018 e maestro del college di Story
Design alla Scuola Holden di Baricco – ha commentato la vicenda spiegando a Giulia Vittoria Francomacaro
di Agi Factory che «il brand ha portato avanti una missione strepitosa: Gucci ha hackerato il Festival di
Sanremo. Nel senso che è riuscito a essere il terzo sponsor senza passare dai listini Rai e ha costruito
intorno ad Achille Lauro una strategia editoriale molto precisa a cui lui si è prestato. Il testo di Lauro era
sotto di un’ottava rispetto a quelli a cui siamo abituati. È come se avessero caricato in chiave marketing un
personaggio per riempirlo di un contenuto che quest’anno aveva in misura minore. Gucci ha fatto scuola
sotto questo punto di vista e ha dato una lezione intelligente di comunicazione e pubblicità. Non parliamo
di una classica operazione di product placement, che potrebbe essere ad esempio quella di Elodie che
ringrazia Versace per i vestiti, questa è una vera e propria case history.
Qui si parla di novità, di uno show costruito ogni sera e incentrato su tematiche come arte, cultura, moda e
musica che si intrecciano in quattro minuti di esibizione». Un'operazione però che lascia qualche
dubbio. Ne abbiamo parlato proprio con Iabichino.
1. Innanzitutto è importante spiegare perché l'operazione Gucci- Lauro è molto differente da una
normale operazione di product placement…
Perché è un'operazione editoriale. Qui non si tratta di aver portato in scena degli outfit.
Dietro queste quattro serate c'è uno storytelling molto preciso, studiato a tavolino, portato avanti da Gucci,
e dal direttore creativo Alessandro Michele, che ha scelto Achille Lauro non come modello ma come vero e
proprio testimonial di una serie di messaggi. Ci sono link con l'arte e con la cultura. Il post di ieri di Achille
Lauro su Instagram poi, con sotto tutti i credit della rete di professionisti che hanno lavorato allo show
disegnato da Gucci, lo certificano apertamente.
2. Non è noto e quindi non si può dire con certezza. Ma si può immaginare di fare una cosa del genere
senza che ci siano accordi commerciali o contratti?
Se Achille Lauro non ha stipulato degli accordi con Gucci è un ingenuo.
3. E se c'è qualcosa che non si può dire di Lauro è che sia ingenuo…
Sono d'accordo. C'è una cosa in particolare che mi fa pensare che ci sia questo accordo: non è ancora uscito
il videoclip ufficiale della canzone che dal punto di vista discografico e di marketing è un errore abbastanza
marchiano.
Se tanto mi dà tanto quel video sarà un importante look book di Gucci che dovrebbe consacrare quella che
secondo me resta un'operazione intelligentissima dal punto di vista pubblicitario. Hanno preso d'assalto il
Festival e Gucci è riuscito ad essere il terzo sponsor di Sanremo dribblando i listini.
4. E da questo punto di vista non esiste un problema nei confronti del main sponsor Tim, o della Nutella
che aveva brandizzato la parte esterna o della stessa Rai?
Io credo di no. Intanto ci muoviamo su categorie merceologiche completamente diverse e non in
concorrenza. Se Tim non ha avuto nulla da dire, da main sponsor, ad avere il principale testimonial di un
concorrente diretto tutte le sere sul palco (Fiorello è da anni il volto di Wind), non credo che su Gucci
possano esserci problemi. La Rai poi deve solo ringraziare Lauro e Gucci per la grande attenzione che si è
creata su questa edizione della kermesse. È una cosa che su quel palco non si era mai vista. Non si può
paragonare con gli outfit di Renato Zero o Donatella Rettore: c'era molto altro anche dal punto di vista
narrativo. Basta pensare ai messaggi che Lauro ha portato sul palco in termini di diversity, gender neutrality
e fluidità di genere. Questo è quello che bisogna sottolineare come un risultato del tutto positivo.
5. Il cuore della questione però è un altro. E cioè la sovrapposizione tra espressione artistica e culturale e
una campagna pubblicitaria. Il fatto di non renderla nota non è un problema, soprattutto nei confronti
del telespettatore?
Per dove siamo oggi la moda è un prodotto culturale. Non possiamo più ridurre la moda o un certo tipo di
moda a un fattore puramente di marketing e pubblicitario. Oggi se si pensa a cosa fa Prada con la sua
Fondazione o quello che sta facendo Fendi a Roma è evidente che la moda sta sempre più entrando e
contaminando il linguaggio della cultura.
Non è che se una maison fa un museo di arte contemporanea ci va bene se invece presidia un palco di un
festival non va più bene perché la musica va preservata. Secondo me c'è un momento di grande
contaminazione di linguaggi. Moda come pop music sono proprio principalmente contaminazione di
linguaggio. Queste secondo me sono le lenti con cui guardare a quello che è successo.
6. D'accordo. Però se Andy Warhol, che è stato il massimo esponente della contaminazione di linguaggi,
avesse percepito una retribuzione da parte della zuppa Campbell's per la sua opera, quel quadro
assumerebbe totalmente un altro significato…
Non c'è dubbio. Ma quella di Warhol era un'operazione controculturale. Lauro e Gucci sono invece
pienamente mainstream. Non è un'operazione rock, non c'è nulla di trasgressivo se non la violazione di un
tempio. Ma dal punto di vista della costruzione del messaggio non c'è trasgressione.
E poi attenzione: ai tempi di Warhol non c'era Instagram. Questo è stato un Festival dominato dai social.
E Gucci e Lauro hanno vinto sul terreno più competitivo in questo momento che è quello dell'attenzione.
7. C'è anche una questione contenutistica. Il brano di Lauro è, si può dire apertamente, molto
trascurabile. Il senso se c'è è davvero flebile. Soprattutto rispetto ai testi precedenti. L'unica parte
dirimente è il titolo, “Me ne frego”, che è una sorta di claim pubblicitario…
Io non credo sia stata costruita a tavolino per questo. Penso che in effetti sia un brano più debole del solito
che però è stato magnificamente sostenuto e supportato da un intervento narrativo che ha caricato di
significanti che il testo non aveva, nobilitandolo. Ma c'è un altro passaggio del testo che potrebbe essere un
meta-messaggio, quel “dimmi una bugia e me la bevo”. Chissà…
8. La cosa che lascia un po' interdetti più che altro è l'idea di associare a personaggi come San Francesco e
David Bowie il concetto di menefreghismo, seppur ammorbidito dall’aggettivo “positivo” coniato da
Lauro. Quello che viene in mente è che “me ne frego” è di certo più accattivante di un “mi interesso”.
E qui torna il dubbio di prima: arte o marketing?
Su questo in realtà l'unico che può rispondere è Achille Lauro. Si tratta di capire se, al netto di tutti gli
introiti pubblicitari e della performance spettacolare, l'artista aderisce a posteriori a quel messaggio oppure
no. Più semplicemente se è autenticamente parte di questo percorso artistico o è stato solo un uomo
sandwich di una maison che ha portato a termine un'operazione di marketing culturale.
LEZIONE 9.
Il concetto di product placement e la sua evoluzione.
Il “gratis” Product placement.
L’inserimento di marche all’interno di un contenuto di intrattenimento può derivare da un’autonoma scelta
artistica dell’autore, allo scopo di conferire realismo alla storia, di connotare i personaggi o di collocare la
narrazione in un preciso ambito temporale, sociale e culturale.
Il Location placement.
Consiste nella creazione di espedienti narrativi che collochino alcuni luoghi in contesti centrali di un’opera
cinematografica o televisiva, in modo da realizzare le condizioni per la riconoscibilità dell’identità culturale,
paesaggistica e produttiva dell’area geografica e per la comunicazione di uno stile di vita che possa attrarre
turismo qualificato (cineturismo o movie-induced tourism).
Es. “Benvenuti al Sud”.
I riferimenti normativi.
Sotto il profilo giuridico il solo fatto che all’interno di un contenuto di intrattenimento avvenga un
inserimento con finalità pubblicitaria non costituisce di per sé e a priori un illecito.
Ciò che rende illecito il product placement è l’occultamento agli occhi del consumatore della natura
pubblicitaria dell’inserimento stesso, che può invece essere ammesso – entro determinati limiti – nella
misura in cui tale natura sia efficacemente resa riconoscibile.
I principi di carattere generale applicabili al product placement risultano essere gli stessi esplicitamente
previsti per la pubblicità, ovvero, da un lato, quello dello trasparenza e, dall’altro lato, quello ancor più
generale della non ingannevolezza, posti dal Decreto legislativo n. 74/1992 e ripresi dal Decreto legislativo
n. 145/2007 («La pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta»).
Con riferimento, infine, al product placement televisivo, nel 2009 l’Italia ha recepito la Audiovisual Media
Services Directive con l’art. 26 della Legge n. 88/09 e con il conseguente D. lgs. 44/10 che ha introdotto l’art.
40 bis nel Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, che stabilisce che:
1. l’inserimento di prodotti è consentito nelle opere cinematografiche, in film e serie prodotti per i servizi di
media audiovisivi, in programmi sportivi e in programmi di intrattenimento leggero, con esclusione dei
programmi per bambini. L’inserimento può avvenire sia dietro corrispettivo monetario o dietro fornitura
gratuita di determinati beni e servizi, quali aiuti alla produzione e premi, in vista della loro inclusione
all’interno di un programma;
2. i programmi nei quali sono inseriti prodotti devono essere conformi ai seguenti requisiti:
– il loro contenuto e, nel caso di trasmissioni televisive, la loro programmazione non devono essere in alcun
caso influenzati in modo da compromettere la responsabilità e l’indipendenza editoriale del fornitore di
servizi di media audiovisivi;
– non incoraggiano direttamente l’acquisto o la locazione di beni o servizi, in particolare facendo specifici
riferimenti promozionali a tali beni o servizi;
– non danno indebito rilievo ai prodotti in questione;
3. qualora il programma nel quale sono inseriti prodotti sia realizzato o commissionato dal fornitore di
servizi di media audiovisivi o da società da esso controllata i telespettatori devono essere chiaramente
informati dell’esistenza dell’inserimento di prodotti mediante avvisi all’inizio e alla fine della trasmissione,
nonché alla ripresa dopo un’interruzione pubblicitaria;
4. è vietato l’inserimento di prodotti a base di tabacco, o di prodotti di imprese la cui principale attività è
costituita dalla produzione o vendita di prodotti a base di tabacco; è altresì vietato l’inserimento di prodotti
medicinali o di cure mediche che si possono ottenere esclusivamente su prescrizione;
5. i produttori, le emittenti, le concessionarie di pubblicità e gli altri soggetti interessati, adottano, con
procedure di autoregolamentazione, la disciplina applicativa dei principi enunciati nei commi precedenti.
3.1. Le modalità di realizzazione del product placement (o pianificazione del product placement).
Le modalità di realizzazione del product placement possono essere analizzate facendo riferimento a
molteplici aspetti.
1. In primo luogo, è necessario considerare le modalità di presentazione della marca in base ai canali
sensoriali dello spettatore attivati dallo stimolo del product placement, il che conduce a identificare le
seguenti tre modalità:
> solo visiva, denominata screen placement, che mostra un prodotto, un marchio, un logotipo o qualche
altro elemento di identificazione visiva della marca, senza alcun messaggio verbale rilevante o suono
riguardante il prodotto;
> solo uditiva, denominata script placement, che comporta la citazione verbale da parte di un personaggio o
di una voce fuori campo del nome della marca ed eventualmente delle sue caratteristiche, senza mostrare il
prodotto sullo schermo;
> una combinazione audiovisiva, che mostra una marca e allo stesso tempo ne cita il nome o prevede un
messaggio uditivo che la riguarda.
Le diverse modalità di presentazione della marca (visiva e/o uditiva) risultano importanti nel determinare
l’efficacia del product placement, in quanto possono rendere lo stimolo ricco di significato per l’individuo e,
poiché solo gli stimoli più significativi vengono integrati nella struttura cognitiva presente in memoria,
possono consentire al messaggio implicito nel product placement di essere elaborato in modo più
approfondito, generando maggiore ricordo e persuasione.
Nella prassi la modalità solo visiva risulta essere quella utilizzata più frequentemente, nonostante esista il
rischio che gli spettatori non prestino attenzione o non ricordino la presenza della marca sulla scena in
assenza di un rinforzo uditivo; la modalità di presentazione sia visiva che uditiva supera questo problema,
ma si rivela evidentemente più costosa per l’impresa e più difficilmente adattabile alle esigenze della
specifica marca.
2. In secondo luogo, occorre valutare la chiarezza dell’inserimento della marca nel contesto di
intrattenimento, che riveste un ruolo rilevante nel determinare l’impatto del product placement sul ricordo.
Più esattamente, gli aspetti che definiscono la chiarezza sono i seguenti:
> la presentazione della marca con il proprio nome e con il proprio marchio, il che appare essenziale quando
la marca è recente, poco conosciuta o viene lanciata per la prima volta sul mercato e meno importante
quando i segni distintivi della marca sono già fortemente identificabili dal consumatore;
> la nitidezza percettiva della marca, ossia il fatto che il nome della marca risulti leggibile nel modo più
naturale possibile, nel caso di un inserimento visivo, o perfettamente udibile, nel caso uditivo;
> la percezione totale della marca da un punto di vista visivo o uditivo;
> l’inserimento della marca all’interno di una scena in modo dinamico invece che statico;
> la presenza della marca nella scena in modo esclusivo, senza cioè che debba condividere l’attenzione dello
spettatore con altre marche.
3. In terzo luogo, è fondamentale prendere in esame il livello di connessione della marca all’interno del
contesto di intrattenimento, ovvero il grado con il quale l’inserimento della marca risulta integrato
nell’intreccio narrativo all’interno del contenuto di intrattenimento proposto dal mezzo di comunicazione.
A questo proposito, si individuano tre ampie categorie di product placement cinematografico o televisivo
caratterizzate da un crescente livello di connessione con la struttura narrativa:
> La prima è costituita dal traditional product placement, detto anche product plug, che consiste
nell’inserimento di un prodotto di marca in un contesto di intrattenimento in qualità prevalentemente di
arredo scenico e che può essere realizzato con tre modalità differenti:
− l’inserimento del marchio, del logotipo o di altro segno distintivo della marca nel contesto con il solo
compito di arredare la scena, così da conferirle realismo e veridicità da un punto di vista storico-culturale;
− il collocamento nel contesto di intrattenimento di un pannello pubblicitario o di un’insegna con la
rappresentazione visiva del nome della marca o del logotipo; questo tipo di product placement è detto
anche advertisement placement;
− l’esibizione del prodotto o dei segni distintivi in stretta associazione con un attore, un conduttore o un
ospite televisivo durante uno spettacolo o un evento (celebrity product placement), in modo tale da far
apparire la scelta del prodotto da parte del personaggio come il frutto di una preferenza personale.
Il traditional product placement nel suo complesso si caratterizza per i seguenti aspetti:
_un basso livello di integrazione nella trama;
_un elevato grado di secondarietà del messaggio rispetto alla struttura narrativa principale del contenuto di
intrattenimento;
_un basso grado di controllo da parte dell’impresa, a causa della scarsa valenza che può assumere il
messaggio veicolato attraverso il product placement;
_una modalità di realizzazione prevalentemente visiva;
_un’alta percezione da parte del pubblico della natura a pagamento dell’inserimento.
>La seconda categoria è rappresentata dall’enhanced product placement, che mantiene bassi livelli di
integrazione della marca all’interno del contesto, ma consente all’impresa un controllo superiore sulle
caratteristiche esecutive dello stimolo, che diventa maggiormente rilevante.
L’enhanced product placement si realizza quando il prodotto non funge solo da arredo scenico, ma presenta
una maggiore connessione con la trama di un film o con lo spettacolo televisivo, anche se non ne diventa
parte integrante e necessaria, in quanto altri prodotti o marche potrebbero essere impiegati
alternativamente. In molti casi la marca gode di un inserimento di tipo sia visivo che uditivo, convogliando
su di sé una maggiore attenzione da parte degli spettatori; rispetto al product placement tradizionale,
l’impresa esercita un maggiore controllo sulle modalità di inserimento della marca e spesso sostiene un
investimento più rilevante.
>La terza categoria è costituita dal product integration, che si contraddistingue per gli elevati livelli di
integrazione della marca nella trama e di controllo da parte dell’impresa sulle modalità di presentazione.
Il product integration si verifica infatti quando il prodotto diventa veramente parte integrante – e talvolta
persino determinante – della trama del film o del programma e viene utilizzato estensivamente nell’ambito
dello stesso, consentendo un’esposizione ripetuta e, quindi, un più probabile trasferimento di significati
dalla marca inserita nel contesto di intrattenimento alla marca presente nella vita reale del consumatore.
Lo sviluppo del product integration è stato stimolato soprattutto dalla possibilità in ambito televisivo di
realizzare programmi seriali nei quali la marca possa instaurare una connessione di lungo periodo con i
contenuti.
4. In quarto luogo, tra le modalità di realizzazione del product placement è necessario valutare la
prominenza del placement, ossia il grado con il quale l’inserimento visivo e/o uditivo della marca possiede
caratteristiche tali da attrarre l’attenzione del pubblico.
La definizione originaria di prominenza risulta basata su un insieme di fattori oggettivi, che fanno
riferimento alle caratteristiche della marca (grandezza, colori, vivacità, ecc.) e al tipo di messa in scena (tipo
di piano, marca in movimento o statica, grado di novità/congruenza degli elementi, livello di
attendibilità/completezza dell’informazione ecc.).
> Secondo questa definizione, gli inserimenti fortemente prominenti (denominati anche on set) sono quelli
nei quali la marca è resa altamente identificabile grazie a:
− una superficie occupata ampia (in % rispetto all’area totale dello schermo) e una durata dell’inserimento
elevata (per es., un’inquadratura della marca per un tempo tra i 2 e i 10 secondi, limite oltre al quale non
vengono registrati incrementi nella memorizzazione);
− una posizione centrale sullo schermo;
− una citazione verbale ripetuta e/o una forte enfasi sul nome del prodotto (determinata dal tono di voce,
dalla collocazione all’interno del dialogo, dal ruolo del personaggio che la cita e dal particolare momento nel
quale ciò avviene…);
− un elevato numero di apparizioni sullo schermo e di scene nelle quali viene inserita la marca.
> Al contrario, gli inserimenti poco prominenti (denominati anche subtle) sono quelli nei quali la marca
viene citata in modo fugace e poco enfatizzato e/o viene mostrata in modo poco visibile, cioè l’immagine è
piccola, la collocazione è sullo sfondo della scena fuori dal campo visivo principale, la scena viene condivisa
con una moltitudine di oggetti o di prodotti e l’esposizione allo stimolo avviene per un breve periodo di
tempo.
Più recentemente il concetto di prominenza è stato riformulato unendo ai fattori appena ricordati anche il
grado di integrazione della marca nel contesto, giungendo così a proporre il più ampio concetto di centralità
del placement. Secondo questa definizione più articolata, la centralità del placement viene a dipendere,
oltre che dalla prominenza dell’inserimento del prodotto, dal ruolo assunto dalla marca nell’intreccio
narrativo, nella specifica situazione nella quale viene inserita o in rapporto al personaggio che entra in
contatto diretto con essa.
Di conseguenza, la centralità del placement può assumere diversi gradi di intensità all’interno di 2 estremi:
− da un lato, quello di bassa intensità (placement periferico), nel quale la marca contribuisce solo
marginalmente allo svolgimento della storia, come per es. nel caso di una semplice citazione del nome,
unita eventualmente a una breve apparizione del prodotto sullo schermo;
− dall’altro lato, quello di alta intensità (placement centrale), nel quale la marca occupa una posizione di
rilievo sulla scena e costituisce un elemento tematico fondamentale, detenendo un ruolo importante
nell’intreccio della storia o contribuendo a delineare il carattere di un personaggio significativo.
Infine, occorre richiamare una modalità innovativa di realizzazione del product placement costituita
dall’inserimento virtuale reso possibile dalle tecnologie digitali: in questo caso la marca non viene collocata
realmente nel contesto di intrattenimento in fase di produzione, ma viene aggiunta in seguito grazie a un
artificio digitale che riproduce l’immagine aggiunta in modo che risulti indistinguibile dagli altri oggetti
presenti originariamente sulla scena.
Il product placement virtuale ha il vantaggio di poter modificare la marca inserita a seconda dei diversi
mercati, per assecondare le differenze culturali degli spettatori e ampliare le opportunità di placement per
produttori che hanno una distribuzione solo locale.
Il product placement virtuale consente, inoltre, di inserire prodotti moderni in vecchi film o programmi
televisivi quando vengono ripresentati in televisione o riproposti in collezioni su DVD; ciò permette anche di
superare la naturale riduzione del ciclo di vita degli spettacoli causata dal superamento di alcuni prodotti.
Per il futuro lo sviluppo maggiore del product placement virtuale sembra possa essere garantito, da un lato,
dalla televisione digitale interattiva che consente inoltre al consumatore di ‘cliccare’ sul placement virtuale
per ricevere informazioni sulla marca e/o acquistare il prodotto in tempo reale e, dall’altro lato, da Internet,
che offre contenuti già in forma digitale e permette di integrare le marche nei programmi senza le restrizioni
previste invece per la programmazione televisiva e radiofonica.