Sei sulla pagina 1di 45

5-10-21 lezione 1

La comunicazione aziendale è un processo che deriva dalla comunicazione di massa.


La reputazione, il brand dell’impresa sono l’elemento focale con il quale l’impresa si presenta agli
stakeholder, ha un ruolo strategico.
È una disciplina dinamica e in cambiamento.
Questa sta talmente cambiando talmente velocemente da rendere inutile molta parte del
marketing tradizionale, per esempio i consumatori non sono più il target da ‘’colpire’’, in vista delle
nuove dinamiche del mercato.
Il consumatore diventa imprenditore, mindset ribaltato rispetto al passato, dove l’impresa produce
prodotti e valori che il consumatore distrugge.
Approccio delle aziende rispetto al real time, emergenziale dove non devi programmare niente,
molto più veloce.
Dal punto di vista reputazionale, oggi le marche fanno politica, ai livelli stessi della politica in sé,
fanno parlare di sé ed entrano nelle conversazioni brand purpose.
L’impianto teorico della comunicazione aziendale attinge a due grandi aree di ricerca:
- La teoria della comunicazione, da cui trae le basi di riferimento circa i modelli di azione
della comunicazione;
- La teoria dell’impresa, in particolare l’economia e gestione aziendale e il marketing.
A queste si aggiungono ampi riferimenti ad altre scienze sociali.

L’oggetto della comunicazione è costituito dall’insieme dei processi di scambio di messaggi che si
realizzano all’interno
dell’azienda e tra questa e gli
attori dei sistemi competitivo e
sociale, con lo scopo di
contribuire al perseguimento
degli obiettivi aziendali.
Con processo si intende quello
attraverso il quale una persona,
un’azienda o un ente si pone in
relazione con una o più
persone, aziende o enti,
avvalendosi di simboli verbali e
non.

Comunicazione aziendale

Per comunicazione aziendale, si intende l’insieme delle manifestazioni attraverso le quali l’azienda
attiva un processo di comunicazione con uno o più pubblici, ai quali propone uno o più aspetti
della propria identità al fine di sviluppare un’immagine favorevole.
Si intende lo studio dell’insieme degli scambi di messaggi in azienda e con gli stakeholder esterni,
per perseguire obiettivi esterni, di notorietà, quindi far conoscere l’impresa, (primo livello far
conoscere) legato anche all’estensione del target raggiunto, anche per questo la pubblicità ha costi
elevati.
Secondo livello è quello dell’immagine dell’impresa, volte a influenzarla positivamente, la
reputazione che gli stakeholder si formano, sono dei costrutti percettivi di giudizi di opinione
fortemente influenzati da processi comunicativi.
Terzo livello è quello di comportazione, cioè di azione come, per esempio, condividere contenuti
che sono piaciuti, azioni che portino vantaggio all’impresa.

A livello teorico della comunicazione di massa, alla base di tutti gli studi di comunicazione. Molto
datato perché il primo di Shanno e Hoeaver l’hanno fatto nei primi del Novecento. Anche quel
modello segue comunque questo tipo di processo. Decide cosa vuole dire, codifica in un messaggio
per i diversi touchpoint, segnali adatti a quel dato touch point, rappresentano i canali all’interno
dei quali l’azienda codifica il messaggio, che ha intenzione comunicativa dell’impresa, in fine
raggiunge il ricevente, in questo caso per esempio il consumatore ma anche altri stakeholder che
effettuerà un processo di decodifica, cioè interpreta i messaggi che sono stati ricevuti.
Ci sono dei rumors che possono andare a minare l’efficacia della ricezione del messaggio, gli
elementi di rumore, sono di tre tipologie.
Il primo è mnemonico, veicolato dall’azienda ma non ricordato dai riceventi, anche se esposti in
diversi momenti. Se non si ricorda il brand del messaggio, il messaggio è inefficacia.
Rumore tecnologico, cioè ci sono dei problemi nella trasmissione. Tra questi un tipo è l’errore di
stampa, per esempio. anche in questo caso il messaggio non va a buon fine.
Rumore semantico, non viene capito dall’audience, questo è il problema delle economie di scala,
con la pubblicità generalizzata in più paesi. Un esempio a base della pubblicità è l’umorismo e
l’ironia.

Tutt’ora la pubblicità funziona in modo che ci sia una fonte, un messaggio un canale una
rielaborazione dal ricevente, c’è una reazione affettiva, un’elaborazione emotiva, e infine stimolo
all’acquisto, comportamentale.
Ciò che è cambiato è che non siamo più in una situazione. Non c’è una fonte unica con un
ricevente passivo. Nel network di oggi i riceventi e gli emittenti sono tanti, anche l’azienda stessa
diventa ricevente, la rete è molto più grande ed è lei che emette i messaggi. L’azienda è solo uno
degli attori.
I prodotti molto simili gli uni con gli altri, grazie alle tecnologie, le finestre temporali, cioè quando
un prodotto viene immesso sul mercato, adesso la finestra si è rimpicciolita di mondo rispetto al
passato.
Trovandosi in una situazione di realtà competitivi, devono essere più unici e distintivi rispetto agli
altri, entrare in ambienti che non hanno a che fare con il prodotto e portare il consumatore
all’interno del sistema comunicativo, mettendolo al centro.
Le aziende sono costrette a dare voce al consumatore o a qualcuno che è al di sopra dell’azienda a
livello autoritario, perché in grado id avere una relazione migliore con i clienti.
Adesso i consumatori non solo hanno una scelta più ampia, ma sono sottoposti a migliaia di
messaggi, e sono loro a voler parlare, le aziende devono inventare nuove modalità, portarlo on
board e rendere la comunicazione più interattiva.
Le aziende hanno capito che per riguadagnare la forza competitiva devono fare gioco forza, il
consumatore stesso può fare pubblicità avendo una piattaforma base.

6-10-2021 lezione 2
Il processo di comunicazione aziendale. La comunicazione aziendale è studio dell'insieme dei
processi di scambio di messaggi interni ed esterni all'azienda, volti a obiettivi aziendali:
- notorietà: attraverso pubblicità, social media...
- immagine: influenzarla positivamente
- azione comportamentale: chiedere informazioni sul prodotto, andare al punto vendita,
acquistare, parlare del prodotto, partecipare ai contest aziendali, condividere contenuti con pari.
compiere azioni che portino vantaggio, in termini di prodotto e in termini corporate, all'azienda.

Il processo di comunicazione, a livello teorico, è detto 'di massa' (Mass Communication Theory,
elaborato da Shannon e Shivory, a fine degli anni '40). L'azienda è la fonte emittente, che decide
cosa dire, codifica un messaggio per i diversi touch point (canali di condivisione e comunicazione,
come tv, radio, social media) in segnali verbali e non verbali, C'è un'intenzione comunicativa da
parte dell'azienda, resa in un messaggio scritto o parlato secondo le caratteristiche del canale
usato. Il ricevente, il consumatore, decodifica il messaggio, interpretandone i contenuti che
vengono veicolati. Ci sono dei rumori, delle interferenze nel processo comunicativo che possono
inficiare la riuscita del processo di comunicazione e sono di tre tipologie:
1. rumore mnemonico: quando il messaggio viene veicolato dall'azienda ma il ricevente non lo
ricorda (accade nei casi di pubblicità in cui la creatività prende così tano il sopravvento che i
consumatori si ricordano lo spot, il jingle, i personaggi ma non ricordano il brand a cui appartiene
la pubblicità);
2. rumore tecnico-tecnologico: quando ci sono dei problemi nella trasmissione (quando, ad
esempio, cade il canale satellitare, Instagram down, problemi di connessione...) oppure quando, in
pubblicità cartacee, la pubblicità presenta errori di stampa, immagine o testi sfocate;
3. rumore semantico: riguarda la non comprensione del messaggio da parte dell'audience che lo
riceve (ad esempio, quando si fanno pubblicità commercializzate internazionalmente c'è il rischio
che l'ironia, l'umorismo non venga colto in certi paesi; vedi il British humor qui in Italia).

Questo processo ha teorizzato le basi e i fondamenti principali di quello che avviene tra azienda e
stakeholder e all'interno della stessa.

The communication scenario


L'azienda è oggi un network di relazioni, non più un percorso lineare. Non ha una fonte unica che
veicola il messaggio e un ricevente che lo decodifica. Gli emittenti sono tanti e l'azienda a volte
riceve messaggi da altre fonti. L'azienda è solo uno degli attori all'interno del network. In un
sistema network del genere, le aziende si sono trovate in grande difficoltà per l'elevata concorrenza
("me too products", prodotti simili sul mercato derivati da innovazione), il time-to-market è
diminuito, in qualche mese l’azienda immette sul mercato il prodotto innovato e dopo poco tempo
anche il competitor arriva e fa lo stesso (diminuisce così il vantaggio competitivo acquisito
dall'essere il first mover). Per questo attuano una diversificazione ed umanitarie in ambiti politici,
sociali; oppure l'azienda mette al centro il consumatore, sempre di più le aziende sono costrette a
dare voce ai consumatori, o ancora più spesso, agli influencer, che vengono ascoltati dai
consumatori. Le aziende hanno capito che per difendere la profittabilità devono agire così. I
consumatori oggi hanno potere di influenza, riuscendo così a mettere in difficoltà un'azienda con
un semplice commento negativo (vedi caso di coca-cola e influencer americano che demolisce il
nuovo commercial aziendale oppure Volkswagen che rischiava la chiusura dopo lo scandalo del
2016). L'Oreal Italia ha ingaggiato 200 influencer. La Disney ha aderito al movimento LGBTQ+
inserendo in un film una poliziotta lesbica come protagonista, con conseguente insurrezione
repubblicana che ha criticato l'iniziativa e contro-insurrezione di chi supporta il movimento (i
democratici, il New York Times...). Lo scenario di oggi è uno scenario di drammatizzazione.

12-10-2021 lezione 3

Nello scenario attuale di comunicazione, succedono delle dinamiche che determinano il


comportamento delle marche, lo speak out, persone che parlano, a favore di una causa, anche se
spesso sbagliano, specie quando si parla di manager aziendali o persone che non hanno capacità
pregressa di prendere posizioni diplomatiche. Ogni frase detta può essere considerata
discriminatoria, più una persona ha un ruolo importante, per esempio un direttore generale, più le
parole hanno un peso e vengono spesso travisate.
Le marche sono tradizionalmente costruite con un focus sulla continuità all’esposizione ai mass
media, controllate da marche che sono nella posizione di prendere decisioni, con l’obiettivo di
avere contatti lineari con i target che possono beneficiare della marca stessa.
Questa ‘’linearità’’ può essere interpretata con un approccio di comunicazione di marca
caratterizzato da messaggi a targeting dall’ uno-a-tanti, progettato con una logica unilaterale.
I clienti ora vogliono co-creare e auto-produrre contenuti significativi per relazionarsi con il brand,
vogliono essere ascoltati, coinvolti, avere la fiducia della marca per quanto riguarda la produzione
di prodotti relativi a essa.
Vogliono essere i protagonisti, non vogliono essere percepiti solo come un target ma come partener
e collaboratori nella creazione del valore del brand.
Le società vogliono soddisfare i bisogni per migliorare la loro competenza nel campo della qualità,
dell’innovazione, per avere in risposta dai consumatori di fiducia verso la marca, devono mettersi
nei panni del consumatore, per garantire un protagonismo relazionale.
C’è un cambio dalla classica comunicazione basata sul Sender, che la controlla, scambiandola con
un modello comunicativo non definito. In questo caso la marca e il consumatore sono sullo stesso
livello, hanno lo stesso status.
E i consumatori possono infine creare valore o distruggere una marca.
Il critical incident avviene quando c’è un incidente di persone che fanno dichiarazioni, le quali
vanno a ledere le libertà di qualcun’altro, si va in contro a un grande trend, la cancel culture,
comportamento mediatico espletato di
ostracismo nei confronti di un social di una
persona, spesso sono gli stessi social che
intervengono.
La reputazione è il giudizio che diversi
stakeholder hanno nei confronti della azienda
rispetto a precedenti esperienze che hanno con
essa, quando diventa negativo comporta una
perdita di profittabilità.

Sia da parte delle microcelebrity che delle


grandi marche, avviene il fenomeno di Hyper-
dramatization, polarizzazione discorsiva tra
chi crede una cosa e chi l’altra,
estremizzandole.
Le posizioni espresse con degli avatar sono più
dure rispetto a che se fossero di persona.
Utilizzo i social, mi danno la possibilità di scusarmi, deve risultare vicino, costruiscono una scusa o
di drammatizzare. Narratives / counter narratives, cioè le critiche, mettere in evidenza le
debolezze.
Nell’abito dei social anche gli argomenti più obiettivi vengono infangati dalla polarizzazione intrisa
nel populismo e dall’opinionismo, non si sa più a chi credere. Post truth verità che arriva dopo e
viene qualificata come vera solo perché quotata (non perché dimostrata).

L’iperdrammatizzazione va navigata, è una modalità estremamente funzionale, porta a un


riacquistare potere, il meccanismo delle marche e delle persone marche funziona che alla fin
della fiera si torna ad avere potere, la memoria è corta e si accantona il problema, ci può essere un
ritorno in auge, perché funzioniamo così. Ci sono persone che hanno pagato dei loro errori, ma
sono più i casi ora in cui si perde tutto.

Nel lungo termine c’è una riacquisizione di potere se si sa introdurre le strategie, le marche ora
sempre di più si rifanno alla persona, è molto pericoloso il modo dei social.
Con i consumatori che sempre più dicono la loro con una risonanza abbastanza forte, e soprattutto
normalmente, parlano male, lamentarsi fa audience. Questo viene esasperato con l’uso dei media.

Scenario diverso dal passato. Oggi la comunicazione è basata sul saper avere credibilità, al
contrario all’epoca che era quella della autorità economica, la credibilità che conta è quella
costruita, fake che funzionano, le aziende che un tempo non comunicavano vengono smascherate.

Ciò che ha reso più difficile la comunicazione è stato il push vs pull, push è una forma di
comunicazione che rappresenta le vendite, spinge il prodotto verso il mercato, incentivi occasionali
sia economiche che di prodotto. La comunicazione pull rende il prodotte desiderabile, va a
costruire la desiderabilità del prodotto, attraendo il consumatore a sé. Tutto ciò che non è push è
pull, va a costruire, sollecitare bisogni latenti, in modo che il consumatore emozionato,
interessato, chieda autonomamente il prodotto; quindi, intraprenda delle azioni che costituiscono
il brand. Oggi si è aggiunta una terza forma, il do-it-yourself, io azienda mi porto il consumatore
in casa, lo rendo Ambassador perché lui parli di me, si ispirano al modo in cui i consumatori
comunicano tra loro, alla base della comunicazione social, si fonda sulla non necessità del
consumatore di oggi di avere un’azienda, vengono portati onboard, usati nella loro creatività per
comunicare il brand. Tutto il mondo del crowdsourcing e founding. Mi porto a casa le idee e metto
a disposizione merchandising, vado a capitalizzare sul lavoro intellettuale delle persone.
Top down vs bottom up:
Letteralmente questi due termini significano “dall’alto verso il basso” e “dal basso verso l’alto”. Essi
rappresentano due strategie comunicative: la strategia top down si caratterizza per un modo
formale e organizzato di gestire l’informazione partendo dall’azienda e arrivando a una parte
gerarchicamente inferiore (es: newsletter, il volantino o allegato alla busta paga) mentre la
strategia bottom up rappresenta un movimento contrario, ovvero si parte da un’idea di
comunicazione più concreta e vicina ai problemi quotidiani. Questi vengono fatti risalire verso la
Direzione dell’azienda che in modo specifico cerca di agire (ES: conversazioni su whatsapp,
commenti e feedbacK).

Self-referential vs. hetero-referential:


Le aziende stanno abbandonando la logica referenziale per addentrarsi in tematiche che
riguardano il consumatore (self-referential vs Hetero-referential). ES: Levis’s lancia il messaggio di
“utilizzare i prodotti per più tempo” utilizzando tematiche etero referenziali per tenersi il cliente
(“better wear longer”, “waste less”)

Oggi il consumatore vuole partecipare, sempre di più per le aziende il successo diviene
dall’intervento del consumatore nella comunicazione di marca.
Sending messages vs. co-generating contents.
La legge è sempre più improntata su un atteggiamento restrittivo.
Sponsorizzazione è un sostegno finanziario affinché un evento possa esserci, un personaggio possa
effettuare le sue mansioni, contributo generazionale forte.
Quando sono diventate negative anche le sponsorizzazioni, fino a quando il simbolo della
sponsorizzazione non dovevano essere evidenziato (intorno al 2018).
Investire in forme di comunicazione dove i temi principali sono quelli dibattuti nella popolazione,
come quello della responsabilità ambientale, dello zero waste, con l’intento di ridurre gli sprechi.
Tocca il tasto del second hand, utilizzare i prodotti per più tempo e l’abbandono della
comunicazione autoreferenziale.
Si parla della circolarità dell’economia, basata sulla forza del prodotto. La strategia della
obsolescenza programmata non è etica, ma non venderebbero più (Apple).

Il Covid non ha aiutato le cose, anzi le ha peggiorate, nei trend più importanti, l’elemento Covid si
fa sentire, la tecnologia la fa da padrone; infatti, la socialità e le interazioni tra i consumatori e le
marche sono diventate ancora più digitali e mediate tecnologicamente. L’enfasi sull’ambiente
famigliare fa parte dello scenario di comunicazione di questo periodo, come anche l’aumento della
dipendenza e l’attaccamento agli apparecchi tecnologici.
Sono nati alcuni elementi come l’ossessione per l’igiene e il pressante bisogno di stress di consumo.
Nel loro modo di comunicare i brand hanno dovuto condividere con i consumatori una logica
deprimente per l’azienda.
Esempio di Uber che ringraziava i consumatori per stare a casa e non usare Uber, ringraziando
anche da parte di coloro che per necessità e lavoro dovevano usarlo.
I fenomeni di sharing, liking, disliking.
Ci sono dei brand che anche per una non capacità di comunicazione, andavano male, facendo un
rebrand e quindi iniziando un culto vero e proprio dei propri prodotti, hanno rilanciato la marca.

Il concetto di trand

Il trend deriva dall’inglese, to turn. E in sociologia disciplina da cui la parola deriva, il trend fa
riferimento ad una premonizione, che comporterà un cambiamento dello status quo, che verrà
accettato dalla maggior parte delle persone. Segnale premonitore di un cambiamento che verrà
utilizzato e accettato dalla maggior parte delle persone a livello di società.
Nei consumi un trend si riferisce, ad un cambiamento che va ad impattare i regimi di gusto, il taste
e il life style, concetti alla base dei comportamenti di consumo. È latente, alla base del concetto di
trend, un fenomeno latente vuol dire che esiste ma è momentaneamente appena manifestato, non
si è completamente affermato ma lo farà. Verrà popolarizzato nel giro di poco, anche se ora è un
segnale debole verrà massimizzato.
È tutto capire i trend, possibilmente rima di altri.
Grande differenza tra trend e fad, trend cambiamento di lungo termine, un fad è effimero e
momentaneo, cambiamento con breve ciclo di vita, che verrà sostituito con molta rapidità.
Gli spazi con trend di consumo che hanno impattato la società, il modo per esempio di vivere gli
spazi e il co-living e co-working. I trendsetter sono coloro che prendono un qualcosa che è stato
inventato, capendone il valore di quella creazione e lo fanno diventare un trend. Questi soggetti
hanno un grosso potere diffusivo (= un networking personale che ha la capacità di
influenzare gli altri) anche se a differenza dei creators non sono molto conosciuti come eori. I
principali trendsetters sono: influencers e gli opinion leader. I trendsetters hanno l’abilità di
diffondere un’innovazione e farla diventare un trend (abilità di influenza) grazie alla loro vicinanza
e connessione mentale con i propri followers. I trendsetters, inoltre, si mescolano anche tra di loro
avendo cosi la possibilità di osservare nuove persone e trovare l’ispirazione o imitare qualcosa. I
differenti trendsetters possono essere inseriti all’interno di un modello che prende il nome di
Diamond-Shaped Trend Model che illustra i sei diversi comportamenti che i trendsetters
hanno nei confronti del trend:
1. Trendsetters: sono gli individui più aperti e curiosi che danno una certa importanza al
gusto e allo stile. Essi accettano l’idea che gli stili cambiano e considerano questo positivo
quando avviene in intervalli regolari. Si presentano entusiasti di fronte alle innovazioni
negli stili e sono i primi ad adottarle.
2. Trend followers: sono molto simili ai trendsetters, ma hanno il bisogno di vedere altre
persone usare le innovazioni negli stili prima di metterli in pratica loro stessi. Sono aperti ai
cambiamenti ma vogliono essere sicuri di scegliere qualcosa che sarà poi accettata. Essi
prendono ispirazione dai trendsetters e diventano modelli di ispirazione per i
mainstreamers.
3. Early mainstreamers: sono individui che accettano i nuovi stili prima della maggior
parte delle persone, prima che lo stile diventi completamente mainstream. Il membro di
questo gruppo si caratterizza per essere aperto ai nuovi stili ma è più esitante rispetto ai
trend followers (devono vedere sia i trendsetters che i trend followers adottare
l’innovazione).
4. Mainstreamers: sono individui che tendono ad acquistare o usare cose perché tutte le
persone lo fanno. Le persone di questo gruppo non vogliono essere trendy come i
trendsetters ma non vogliono nemmeno essere conservativi.
5. Late mainstreamers: gli individui di questo trend group sono molto esitanti e in alcuni
casi ignorano i cambiamenti nello stile e nel gusto. Essi accettano l’idea che lo stile e il gusto
debba cambiare. In generale, essi tendono a comprare qualcosa di nuovo perché non
possono andare avanti con lo stile vecchio.
6. Conservatives: sono individui che preferiscono che sono esistenti da anni. Sono i più
scettici nei confronti dei nuovi stili.
Questi profili prendono il nome anche di trend groups. Nel modello appaiono anche i trend
creators sono un gruppo piccolo ed eterogeneo mentre i trendsetters sono un gruppo molto più
ampio e misto. I content creator che si focalizzano sulla creazione di contenuti da diffondere
mediante il web, a volte possono anche non avere un profilo con tanti followers. Questo perché non
sono molto interessati alla diffusione del contenuto ma alla creazione di questo; quindi si può dire
che sono più vicini agli innovators. I principali content creators sono: tiktokers. Essi si
distinguono dagli influencers perché hanno una capacità di bonding e networking superiore
rispetto a chiunque con i followers.
Esistono, però, dei gruppi che non accettano il cambiamento. Questi prendono il nome di anti-
innovators. Le persone, infatti, hanno diversi atteggiamenti verso i cambiamenti nello stile e nel
gusto. Gli psicologi hanno cercato di descrivere i trendsetters partendo da le Big Five Personality
Factors: Emotional stability, Extraversion, Openness, Agreebleness and Conscientiuosness. Ogni
personalità è data da una combinazione diversa di questi 5 fattori. Tuttavia, la trendsetters psiche è
molto più complessa perché oltre alle big five vanno aggiunte un forte senso di individualismo e
un bisogno di essere sempre diversi.
Il trend process inizia quando i diversi trend group sono ispirati dal top del modello: essendo un
processo che parte dai trendsetters fino ad arrivare ai mainstreamers e passare poi ai
conservatives. Nel modello preso in riferimento è lo stile che cambia posizione, non gli individui.

Trend spotting clues:


Quando si vuole osservare un trend è possibile individuare alcune caratteristiche:
- Trends sono sempre creati dalle persone: per questo il trend spotting deve partire
dall’osservazione delle persone che sono coinvolte nella creazione di stili innovativi.
- Osservazione in real time o in media: il trend spotting è possibile mediante
l’osservazione.
- Un nuovo trend è ribolle per un certo periodo di tempo in questo modo inizia a
diffondersi.
- Se un nuovo stile si vede in due o più settori allora è probabile che diventi un
trend.
- Un nuovo trend è una reazione al mainstream
- Raccogliere le informazioni e metterle in un analytical framework.
Dal punto di vista dei principali personaggi che operano attorno al trend possiamo dire che
quando si vuole osservare un trend ci sono diverse caratteristiche:
- Trend creators e trendsetters sono spesso, ma non esclusivamente, visibili in
uno stesso gruppo.
- Esiste una sovra rappresentazione dei trendsetters.
- Se un gruppo di trendsetters accetta un nuovo stile, allora è possibile che
diventi un trend.
- Più trendsetters adottano uno stile nuovo più questo avrà la possibilità di
diventare trend.

Fad piacciono ai trend setter, durano meno di un anno e c’è dietro una grande makettabilità,
perché essendo di veloce sviluppo e veloce per una massima efficienza, non influenzano spesso la
grande massa, ma una nicchia più piccola, muoiono velocemente.

Megatrend, sono trend grossi, culturali, economici, politici, tecnologici, che avranno durata
pluriennale e impatteranno diversi settori in modo sovrastante.

I consumatori tendono a essere più interessati allo stile di vite e al gusto quando sono ricchi,
perché hanno occasione di capire cosa li aggrada di più, gerarchia dei bisogni di Maslow. Si è
superato i bisogni basilari, dirigendomi verso la cima della piramide, più abbiamo e più vorremmo.
Nelle società contemporanea i bisogni più
sofisticati permettono di emergere ai trend
che vanno a a proporre stili di vita basati sul
well-being.
I bisogni partono da:
- Bisogni fisiologici di base
- Bisogni di sicurezza
- Appartenenza
- Stima
- Bisogni di autorealizzazione

I trend vanno a lavorare sulla stima e l’autorealizzazione che portano alla autoaffermazione e
benessere.

13-10-21 lezione 4
Trendsetters e innovatori
L’innovatore, chi introduce l’innovazione, spesso non sono quelli che la popolarizzano, gli
inventori sono tipicamente imprenditori, artisti, scienziati, designer, a volte sono persone di
sottoculture sociali, nicchie di persone specifiche più difficilmente accontentabili e quindi in
necessità di innovazioni.
Sono per esempio young people (fase in cui si esplorano le proprie identità e personalità),
scientists, designers (nella loro professione devono creare qualcosa di nuovo, essi sono molto
immaginativi), artists (sono creativi e immaginativi e possono cambiare i propri stili nel corso
della loro carriera), wealthy people (possono sopportare economicamente i più costosi nuovi stil
Gruppi sono per esempio la LGBTQ+ community e le celebrity, che hanno capacità di innovazione
in alcuni tipi di ambienti, se sei in ambienti di bassa ispirazione e non hai caratteristiche di
accessibilità non sei soddisfatto, altre volte proprio perché sei in un ambiente innovativo hai più
opportunità di innovare.

I trend setter prendono qualcosa di già inventato, capiscono il valore dell’innovazione e utilizzando
il loro networking, che ha la possibilità di influenzare gli altri, sono dei diffusori dei trend, se non
c’è nessuno che la usa non diventa trend, sono altrettanto importanti rispetto agli innovatori.
Trend vuol dire cambiamento latente, con pieno sviluppo possibile nei prossimi anni, le marche
cavalcano questa innovazione che diventerà trend, gli early adapters la popolarizzano e la fanno
arrivare alla massa.
Gli opinion leader e gli influencer sono i maggiori trend setter. I content creator sono interessati
alla creazione di contenuti di creatività, sono inventori che però non si preoccupano molto della
follower base, con la quale non hanno una follower base basate su fiducia e rappresentazione.
I content creator sono più vicini agli innovatori, artisti.
Gli influencer hanno capacità di bonding
e networking con i follower rispetto ai
content creator, hanno capacità di
spreading e influenza sul pubblico e
sulla propria follower base,
hanno una credibilità che diffonde
l’innovazione. Anche le celebrity
possono essere trendsetter.
Nella teoria della diffusione
dell’innovazione, di Everett Rogers, si trova la
curva che sancisce cosa succede ad
un’innovazione quando viene introdotta nella
società. Quando viene introdotta c’è una
piccola percentuale di persone che sono gli
inventori, poi si trovano gli early adopters,
cioè i primi che adottano l’innovazione, che
prendono lo spunto e hanno i canali per
diffonderlo (adesso trendsetter), ci sono
persone con grande capacità diffusiva, in
successione ci sono la early majority, la late
majority e i laggards, coloro che l’adottano per ultimi.
I lead users sono consumatori che sono molto interessati e avvertono un certo desiderio che altri
ancora non percepiscono, di fatto arrivano prima quindi sono quelli che alle aziende interessano
tantissimo. Sono coloro che porteranno alla diffusione del prodotto o servizio, possono essere
consumatori o influencers che hanno la capacità di guidare gli altri, (lead to followers).
Basi antiche di teorizzazione molto forte che non c’erano nei social media. Già decenni fa era
teorizzato come importante nelle teorie di innovazione.
Esempio
- Phygital Reality, in cui l’azienda ha unito un’esigenza fisica e digitale del prodotto. Vale
molto nel fashion e make-up.
- Safety Obsessed, i consumatori come trend sono sia giovani che non, emergenza
dell’ossessione per l’igiene che il Covid ha portato, adesso la gente che è riuscita ha
comunque un’ossessione per l’igiene.
- Thoughtful thrifters, riuso di capi per la salvaguardi dell’ambiente, cura del packaging e non
con la logica dell’usa e getta.
- Workplaces in new places, commistione degli spazi durante la pandemia.
- Outdoor Oasis, aziende prendono iniziative da fare all’esterno, le persone non vogliono più
stare all’interno, sempre come reazione c’è un allargamento dello spazio outdoor.

19-10-21 lezione 5
Brand functions, identity and positioning.

La marca come concetto ha iniziato ad essere rilevante, e quindi comunicato estensivamente, con
televisione, ancora in bianco e nero, cinema, usato come punto di contatto, affissioni,
(cartellonistica pubblicitaria, utilizzo dello spazio urbano) radio e stampa, oggi arricchito da tutto
ciò che è stampa online.
La società degli anni 60 è una società di boom economico e rinascita, prima di allora inginocchiata
dalle guerre e lontane dal concetto di marca. Negli anni 60, grande impresa. Anni 60 dopo piano
Marshall e ripresa dalla Seconda guerra mondiale, cominciano a esserci diverse imprese in stessi
settori e con prodotti analoghi, sorge bisogno di comunicare, farsi preferire e differenziarsi,
comincia a esserci scelta, le imprese cominciano ad aver bisogno di investire in un Brand, in modo
da farsi percepire come unica e decisiva.
Questa funzione è molto basica, le variazioni non si sono eliminate ma aggiunte l’una all’altra.

 funzione segnica, anni 60/80 la marca rappresentata da un logo e un marchio d’azienda,


simbolo visivo, che la rappresenta. Appartenenza immediata di un prodotto ad un’azienda e
contestualmente distingue il prodotto sullo scaffale quando è vicino ad altri prodotti. Dove vede un
certo brand al consumatore rimane in mente, nome e marchio del prodotto anche associandolo al
jingle, motivetto cantato che rimane più impresso del parlato. Identifica e differenzia, rassicura nel
senso che la conosco già, funzione che fa riferimento ad un consumatore automa, passivo che ha
dato vita al concetto di ‘’target’’ da colpire, esposto ad uno stimolo, come la comunicazione
pubblicitaria, teoria di stimolo risposta, teoria pavloviana, si associa a livello cognitivo. Questo tipo
di funzione va avanti fino agli inizi degli anni 80, durante gli anni 70 crisi del kippur(1973), del
petrolio tra Egitto e Siria.

 funzione semantica anni 80, inizio del sogno americano, produzione di serie tv show che
rappresentano le famiglie ricche, moda, lusso, e ricchezze con sfoggio di status fatto da
imprenditori self-made. (paninari) beni che hanno valore simbolico, che ti facevano parte di uno
status, di un gruppo, brand classici come Timberland, premium price esagerato. Anni di Regan,
tutti i grandi brand si sono.
La marca v a ad attribuire significato all’acquisto, non per bisogno di base nella gerarchia di
Maslow, ma il significato simbolico molto forte che i brand vanno ad attribuire vanno a
caratterizzare la persona nella sua personalità, vanno a rappresentare ciò che io sono come
persona presso i miei gruppi sociali di riferimento, completano il mio modo di essere, fanno status,
si acquista per il segnale che i beni danno alla rappresentazione di sé. Russel Bel, concetto di sé
esteso, i miei prodotti sono un altro me, un altro io, recipient of meaning, recipienti di significato
di una persona che le porta.

 funzione pragmatica, anni 90’ nuova crisi, verso metà degli anni 90’ nasce il concetto di hard
discount, soddisfando quei prodotti convenient, in tutte le categorie grocery e non. Necessità di
prodotti di primo Prezzo, molto basso, banali, non ad alto investimento o emotività e neanche
tanta spesa, il brand fa fatica, formule ti retail che vendono formule di primo Prezzo con prodotti
unbrended, che rispetto a quelli del supermercato, non hanno notorietà, non esistono nella mente
dei consumatori, ma vengono prodotti da un’azienda che non comunica e non crea un valore
simbolico, che il consumatore assume quando vede un metro prodotto. Se tu non comunichi non
sei un brand ma un prodotto, molta parte dei consumatori gli va bene acquistare un prodotto che
costa di meno ma che non conosce, data la grave crisi.
Sempre in concomitanza dei discount, è la comparsa delle private Label, marche del distributore,
brand forti oggi che investono nel loro brand, fanno produrre ai piccoli produttori che non
sarebbero in grado di affrontare la domanda e la richiesta del prodotto, rinunciano al proprio
nome, fanno un contratto con il produttore che poi vende con il proprio marchio, unico reseller,
tutti prodotti di qualità con costo competitivo, es. Esselunga, che agli altri impone un costo di
entrata.
Scossone per le marche le private Label, che diventano anche leader di prodotto e top di gamma.
Subentra un’altra funzione, quella pragmatica, che a tutte le altre dimensioni, simbolica e positiva,
deve parlare delle prestazioni, oggettive, che il prodotto mi da. Comunicazione molto segnaletica
basata sulle prestazioni, performativa, dimostro a cosa mi serve e quale è il vantaggio. A svantaggio
dello storytelling. Keyword: triste

 funzione esperienziale, mondo del brand dove il consumatore viene preso parte, portato dentro,
nella rappresentazione simbolica ed emozionale della marca, in modalità varie e creative,
onboarding del consumatore. Obiettivo è quello di rappresentare un mondo conciliabile ed
allineato alla sensibilità e alla vita del consumatore, in questo universo simbolico della marca.

Brand identity

Identità, definizione dell’identità di marca, definizione del concept di marca e del posizionamento
e dell’engagement.
Il concetto di marca si è evoluto notevolmente nel corso del tempo. Con il termine brand si
intende un nome, una parola, un simbolo, un design o una combinazioni di questi che
ha la funzione di identificare i prodotti/servizi di un’azienda o di un gruppo di
aziende e di differenziali dai quelli dei competitori.
Il concetto di marca ha una doppia definizione:
1. Dal lato dell’azienda: l’azienda è proprietaria di una marca che rappresenta una risorsa
intangibile in mano ad essa. Il brand viene presidiato dalla funzione marketing interna
all’azienda.
2. Dal lato del consumatore: la marca sempre di più è di fatto co-costruita. Il concetto non
è tale se è creato dalla sola azienda. Il consumatore ricorda esperienze, fatti, prestazioni. Il
brand dal punto di vista del consumatore viene identificato come un set di associazioni
mentali – cognitive e affettive – che vengono associate al prodotto e che vanno ad
aggungersi al valore percepito del prodotto/servizio. Queste associazioni devono essere
esclusive, forti e positive.

Il brand è la risorsa intangibile dell’azienda che ha in sé sia la prospettiva di dimensioni


dell’azienda che quella del consumatore, il concetto di brand non esiste se i consumatori con
identificano il prodotto come brand, asset non solo dell’impresa ma anche dei consumatori.
Visione di marca funzione segnaletica molto evidente, elemento di design che ha la caratteristica di
identificare un prodotto e differenziarlo dagli altri. Dal punto di vista del consumatore, il brand è
un insieme di elementi cognitivi, tangibili del prodotto, messaggi veicolati nel prodotto che la
persona ha in comune col prodotto e affettivi, associazioni mentali di tipo emozionale,
rielaborazioni personali che derivano da sensazioni ed emozioni legati da esperienze scaturite nella
mente del consumatore ogni qualvolta vede il marchio.
Sensazioni che vengono da condotte e comportamenti dell’impresa, per esempio essersi distinta a
scopo socio ambientale. Tutto quello che va a sostituire l’insieme di associazioni a un certo brand,
marchio in un punto vendita. Tra le caratteristiche con maggiore importanza c’è la brand
awarness, la forza del brand positioning e del
concept, della personalità, il potere di essere
riconosciuti dal consumatore e della sua
autorità.

Modello utilizzato in tutto il mondo noto


come prisma di Kapferer, esagono con punte
dimensione della brand identity, elementi
che costituiscono gli elementi di identità di
marca, opposti sulle ordinate elementi del
mondo dell’impresa (picture of the sender)
mentre sull’ascissa elementi del mondo del
consumatore (picture of recipient). Marca
partecipata, entrambi i soggetti vanno a
formarla. L’identità di marca diventa elemento fondamentale per la formazione del brand.
1. Sulle ascisse abbiamo aspetti più interiori, interni, e aspetti più esteriori, esterni. Ascisse –
picture of sender: le rappresentazioni di valori dell’azienda emittente del messaggio –
picture of recipient che riguarda i valori rappresentati dai consumatori.
2. Ordinate – externalization ovvero i valori che riguardano l’esterno – internalization i
valori più propri dell’azienda.

Prima dimensione costituita dal fisico, il fisico è rappresentato dalle caratteristiche estetiche
grafiche, che compongono la marca, il sistema di identità visiva sono fondamentali elementi del
brand. Ma anche elementi come la gamma di prodotti. Dal casual allo sportivo all’elegante è un
aspetto fisico a livello di mostrare prodotti, performa esteticità, rappresentatività del prodotto,
elementi tangibili poi immessi nel mercato.
- Personalità, umanizzazione del brand, brand personality una delle dimensioni più
importanti e caratteristiche, aggettivi del brand come se fosse una persona, utilizzati nella
pratica manageriale dei descrittori sulla personalità di marca che assimilano il brand ad un
essere umano, fondamentale quando si parla con il direttore creativo durante la campagna,
prima cosa da sapere è quale caratteristica ha il brand.
- Cultura, dimensione profondamente interne, scendendo sempre più sul consumatore, a
metà via tra i due, insieme dei valori portanti di ispirazione della marca. Cultura si intende
anche quella di consumo oltre che di paese, molti brand hanno la capacità di avere per
valori portanti, quelle sottoculture che vanno a servire, vanno a parlare a una community di
consumatori che si accerchiano in bisogni di cui la marca va a soddisfare i bisogni.
Importante è anche la relazione che si va a creare, il brand diventa croce delle transazioni,
degli scambi e delle conversazioni tra le persone.
- Customer reflection, quando si chiede ad un cliente, del loro punto di vista su una certa
marca, solitamente risponde per il tipo di cliente che è percepito come del brand.
L’azienda va a targetizzare i consumatori che amano aggregarsi con persone simili, hanno dei tipi
di prodotti innovativi e amano essere innovatori e dimostrare che non hanno barriere mentali,
targetizzando le community che, se più coese, formate da persone omogenee, rendono la
targetizzazione per tribù omogenee più facile, il cuore del branding è lo scout spot, cioè identificare
aggregazioni di consumatori simili, facilmente aggredibili perché tra loro omogenei.
- Self image, l’auto immagine del consumatore, come si auto vede e si auto descrive in
quanto buyer di quel dato prodotto, parla in prima persona, della sua auto percezione,
dall’altro lato abbiamo la reflection, speculare, come il consumatore viene visto dagli altri
non da sé stesso.
- Relationship, tipo di relazione che la marca instaura con il consumatore, quali canali e
touchpoint, che stile, fredda calda, multi divisionale o uni canale, più leva su PR o su paid
media, comunicazione esclusiva o di massa.

Brand Positioning

Sia un concetto che un progetto.


Un concetto perché l’obiettivo è di identificare e prendere possesso di una percentuale di ‘’reason
to buy’’ del consumatore, quindi la motivazione di acquisto, fornita dall’azienda. è il brand
management che li fornisce la motivazione di acquisto, che deve convincere il consumatore, che sia
gradita, distintiva per i suoi bisogni e che lo spinga a voler acquistare il prodotto.
Il concetto di posizionamento è più fluido e dinamico, sempre comparativo, è un elemento che
attraverso il brand va ad avere più vantaggio competitivo sul mercato con altri player che hanno
uguali prodotti. Molto aggressivo e sempre comparativo rispetto agli altri. I bisogni di beni e i
consumi dei consumatori cambiano, quindi continuamente le aziende mette in discussione il suo
positioning, viene rivisitato, bisogna sempre capire che un posizionamento è un concetto scritto
che poi viene messo in pratica, arriva da una analisi competitiva, non posso dare una motivazione
di acquista senza sapere se altri hanno la stessa motivazione. Bisogna sempre avere in mente
sempre i competitor diretti, cosa fanno cosa dicono le loro reason to buy, che tipo di
comunicazione fanno, io non posso permettermi di fare un overlap, normalmente ci perde chi
arriva dopo.
A livello di formulazione, essendo un concetto scritto con degli elementi tecnici sempre presenti, in
qualsiasi tipo di prodotto: Per… (definizione del target) brand x (menzione del prodotto o ambito
di riferimento) è… (promessa di marca al consumatore, reason to buy, spesso intangibile quindi
complementata dalla reason to believe spiegazione di contorno che contestualizza la promessa, che
la supporta come evidenza) evidenza a sostegno.
Si può parlare di storytelling, un posizionamento più ricco, con un elemento di racconto costruito
comunque con li stessi tecnicismi al suo interno.
Devo capire il costumer insight, dopo aver visto cosa fanno i competitor, posso fare la mia
promessa e creare un posizionamento dai suoi bisogni.

I valori, le personalità attribuite, le esperienze associate con il brand, il processo di stabilire e


amministrare le immagini, le percezioni e le associazioni dei consumatori a un prodotto.
Si parte dall’identificazione del target, cioè le caratteristiche comportamentali del gruppo, bisogna
decidere a chi parlare, come pensano e cosa guardano, elementi di stile di vita; più sei capace di
identificare un target specifico, meglio è. Devo trovare delle leve di aggregazione. Bisogna stare
attenti a non andare a ristringere troppo il gruppo per non diventare troppo di nicchia.
Bisogna prendere in considerazione l’identificabilità, se è facile ritrovarsi, la tagli, grandezza del
gruppo, l’accessibilità, la risposta; quindi, come risponderà il pubblico ai programmi di marketing.

Un aspetto fondamentale nell’identificazione dei competitor, cioè non tutti i player del mio settore,
ma i 5 o 6 che devo identificare con il criterio di quota di mercato, cioè la quota di vendita di
un’azienda rispetto un’altra, sancisce quando un competitor è simile, con cui posso giocarmela, chi
è il leader di mercato, anche se è lontano da me, perché è lo standard di mercato, per me è sempre
un benchmark. In senso dinamico anche chi ha una quota più bassa ma a livello dinamico stanno
crescendo in maniera più veloce della media del settore, l’overperforming.

Andare a identificare il consumer insight, un insieme di bisogni e desideri latenti che esistono nei
consumi della società, e sono in fase di affermazioni ma non esplosi tanto da avere tanti brand da
saturare la proposta di questi, devo identificare prima degli altri i bisogni e i desideri che non
hanno ancora avuto risposta, dove io posso essere più performante, se ci sono pochi o nessuno che
mi da concorrenza.
Concept che deriva dall’esplorazione del lifestyle, statement che va a dire cosa il costumer cerca, di
cosa ha bisogno. Cioè perché il consumer dovrebbe fidarsi dell’azienda ed essere guidato
dall’azienda all’interno di questa risposta.
Ci sono dopo l’insight, i point of different, cioè i motivi per acquistare, un motivo per scegliere
quella marca, prodotto, che permette all’azienda di differenziarsi dagli altri, possono essere di
attributi performanti, funzionali legati al prodotto e quelli legati all’immagine, che vanno a toccare
aspetti emotive e i point of parity, cioè gli elementi che non possiamo non avere per competere in
un certo mercato perché le hanno tutti.

3.11.21

BRAND POSITIONING
Il posizionamento della marca è il cuore del brand management. Il brand positioning ha come
obiettivo quello di identificare e prendere possesso di una forte ragione d’acquisto
(reason to buy) che dà al brand un vantaggio reale o percepito all’azienda. Il brand
management fornisce la motivazione d’acquisto al consumatore. Il positioning è orientato alla
competizione: specifica il miglior modo di attaccare le quote di mercato dei
comptitor. Può cambiare nel corso del tempo, può essere aggiornato in base ai trend di consumo,
in base alla società e ai consumatori, mentre la brand identity è più solida e duratura. Il
positioning risulta un concetto dinamico rispetto a quello di identità di marca. Molto spesso,
infatti, si parla di processi di riposizionamento dovuti a fattori esogeni quali cambiamenti socio-
culturali, nelle abitudini di consumo, nel macroambiente e nei comportamenti dei competitors. È
bene che l’azienda riveda il proprio posizionamento ogni 1/2 anni per verificarne l’efficacia.
Non esiste una formila specifica per definire il posizionamento ma alcuni elementi devono essere
presenti in tutti i concept, questi sono: definizione del mercato target di riferimento; nome del
prodotto/marca; categoria merceologica d’appartenenza; reason to buy del consumatore (in
termini di “beneficio di marca” o “promessa di marca”); reason to believe (la ragione per cui il
consumatore dovrebbe “credere” alla promessa dell’azienda). Una formula per definire il proprio
positioning può essere: “For … (definition of target market) Brand X is … (definition of
frame of reference and category) which provides the most … (promise or consumer
benefit) because of … (reason to believe)”.
Con il posizionamento l’azienda fa una proposta e aggiunge una promessa. Quest’ultima può essere
rafforzata da alcuni elementi collegati alla brand identity che sono: attributi di
differenziazione; un beneficio oggettivo;un beneficio soggettivo; aspetti della
personalità del brand; il regno dell’immaginario collettivo; riflettere un tipo di
consumatore e valori radicati nella marca.
Il brand positioning è un processo volto a costruire e monitorare le immagini, percezioni e
associazioni che il consumatore collega ad un prodotto. Esso si articola in 5 fasi:
1. Defining the target
2. Outlining competitors (individuare i competitori)
3. Consumer insight (individuare il bisogno latente da colmare)
4. Point of parity (POP): punti di parità concorrenziale
5. Point of difference (POD): elementi distintivi su cui si gioca la promessa di
marca.
Nella deifnizione del target bisgona rispondere principalmente alle seguenti domande: chi sono,
cosa pensano di se stessi, qual è il loro lifestyle, come si comportano
individualmente, in società e nei confronti del brand. Questo si può fare mediante una
serie di paramentri che identificano e caratterizzano il target. Oggi i parametri più importanti sono
quelli comportamentali in quanto per capire bene il consumatore, questo deve essere osservato nel
suo habitat naturale. Altri parametri da osservare riguardano le variabili etnografiche e
netnografiche, psico-grafiche e molte altre. È necessario, inoltre, seguire una targeting checklist
composta da:
- Identifiability: is it easy to identify?
Bisogna sempre chiedersi cosa renda il target distintivo, a chi ci si voglia rivolgere nello specifico. È
importante che il brand sappia con chi sta andando a comunicare. Essere troppo generali nella
produzione di messaggi è spesso un aspetto negativo perché questi non verranno particolarmente
ricordati.
- Size: is it big enough?
Bisogna comprendere se il target sia abbastanza grande per sostenere l’investimento economico.
- Accesibility: can we easy reach it?
La marca deve chiedersi come o tramite quali strumenti può accedere e comunicare con il proprio
target. È importante prima di tutto considerare quale sia il target di indirizzo e se il prodotto sia
effettivamente ad esso accessibile.
- Responsiveness: how will it respond to marketing programs (both general and
tailor-made)?
Bisogna immaginare come il target reagirà agli stimoli e alla comunicazione di marketing messa in
atto dall’azienda/brand. Molto spesso si tratta di azioni che non comportano una risposta
immediara dall’audience: molte campagne sono messe in atto per costruire il valore relazionale del
brand e quindi comportano continui investimenti sui valori profondi ed etici del brand. Il brand
manager deve avere un portafoglio di strumenti a disposizione, alcuni dei quali comportano
un’immediata risposta d’acquisto, altri invece aumentano la brand equity.
Per identificare i competitors in un settore si usano diversi parametri tra cui:
 Quota di mercato: la percentuale delle vendite toali di un dato settore, riferita
alla singola azienda. Si tratta di un parametro che va preso in considerazione seguendo
tre possibili ragionamenti: 1. Saranno competitor le aziende nel settore che hanno una
quota mercato molto vicina alla mia; 2. Il leader di mercato rappresenta in qualsiasi caso un
competitor e una fonte di spunto; 3. in una logia dinamica, sono competitor quelle aziende
con una quota di mercato che cresce molto più rapidamente di quella delle altre aziende
operanti nel settore.
 Posizionamento del brand: bisogna conoscere il concept, i touch point di riferimento
dei competitor, i testimonial che utilizzano.
 Targetizzazione: a quale target indirizzano l’offerta i competitors.
 Strategia di marketing: prendendo in considerazione le politiche di prezzo, prodotto,
distribuzione, comunicazione.
È necessario conoscere nel dettaglio tutte le caratteristiche dei propri competitors, al fine di non
commettere l’errore di proporre un servizio/prodotto simile o del tutto uguale.
L’azienda non può dare al consumatore il positioning senza prima informarsi sulle azioni attuate
dai player chiave identificati come competitor aziendali. Non possono essere ammessi overlap
perché ciò comporterebbe una perdita per chi arriva dopo. L’analisi competitiva del branding si
basa sull’individuazione dei key players: attori che operano nello stesso mercato
dell’azienda. Accanto a quest’analisi è necessario identificare i comparables, ovvero aziende
e brands che tipicamente non operano nel settore dell’azienda ma che hanno in
comune qualcosa che può essere fonte di ispirazione per l’azienda stessa. (es: per le
campagne di advertisement). Ciò è importante perché introducono il concetto di pensiero
laterale dove l’idea strategica non viene dal proprio settore, a meno che questo non sia
particolarmente innovativo. I comparables vanno ad incrementare un’analisi dei competitors.
Il consumer insight è un concetto “scritto dal consumatore” che esprime un suo bisogno ma
fatto dal brand che individua tale bisogno e scrive come se fosse il consumatore. La consumer
insight può essere definita come l’espressione di un desiderio/bisogno latente che non è
ancora stato soddisfatto da un’ampia offerta di mercato. In questo modo è possibile
raggiungere il consumatore in maniera efficace e portarlo alla fidelizzazione o acquisto del
prodotto. Individuare il consumer insight richiede capacità analitica e creatività. Si tratta del
punto di incontro tra gli interessi dei consumatori e le particolarità del brand. Il suo
scopo primario è quello di comprendere perché i consumatori abbiano interesse nel brand e quali
siano i mindset, il mood, le motivazioni, i desideri e le aspirazioni nascoste da cui scaturiscono le
loro azioni e la loro attitudine nei confronti del della marca. Questo è diventato molto importante
che è diventato anche un lavoro “Consumer Insight Manager”.
Il positioning si conclude con l’individuazione del point of difference (POD) e i point of
parity. Questi illustrano come il brand sia egualmente unico e simile ai competitor e come mai i
consumatori dovrebbero preferirlo, acquistarlo ed utilizzarlo.
I point of difference sono i punti di differenziazione competitiva detti anche reason to choose,
ovvero riguardano gli elementi del brand che si distinguono e su cui si punta a livello
comunicativo. Essi sono di due grandi categorie:
- Attribute-based (funzionali performative e attributive): ingredienti o materie
prime impiegate e performance.
- Image-based (affettive, esperienziali, intangibile): questi sono i preferiti dai
creativi pubblicitari e stanno in linea con il concetto di creatività. In questo mondo
rientrano, ad esempio, l’ironia, il sarcasmo, il mondo da sogno, il desiderio,
l’intrattenimento, il fun e la sensualità. Gli attributi giocati da questo tipo di point of
difference sono difficilmente imitabili, sono unici in quanto l’idea è talmente creativa che è
difficile da riproporre.
I point of parity rappresentano i punti di parità concorrenziale, ovvero rappresentano i must
have di una determinata categoria merceologica che tutte le aziende devono possedere per
competere in un determinato mercato. I minimi requirements sono importanti perché vengono
utilizzati per neutralizzare i point of difference dei competitors rendendoli point of
parity. Sono importante a livello di positioning perché possono essere utilizzati per neutralizzati
l’unicità dei competitors dal momento che vengono prodotti anche dall’azienda presa in
considerazione.
Il processo di posizionamento può essere rappresentato anche da una matrice, detta perceptual
mapping (mappa percettiva).

Brand Engagement del cliente

Point of parity, i punti che non puoi non avere per competere in un mercato, solo che, innanzi tutto
bisogna conoscerli, in quanto il minimo richiesto, ma interessano dal punto di vista competitivo,
vengono utilizzati per neutralizzare i point of difference dei competitori. I first mover vengono
subito raggiunti, neutralizzando il point of difference e rendendolo point of parity.
Il brand engagement è un recente concetto introdotto nella letteratura del marketing per
espandere l’ambito della relazione di marketing. Tale concetto è nato nel 2006 ed è diventato
l’obiettivo principale di tutte le marche.
Una volta terminato il processo di positioning, il brand deve entrare nell’ambito della
comunicazione. Il consumer brand engament è quella strategia comunicativa
propriamente volta a coinvolgere sotto tutti gli aspetti il consumatore della marca. I
touch point con cui si può comunicare sono molti. L’engagement è uno sforzo di comunicazione
che permette di distinguersi a livello comunicativo, attirando l’attenzione in un ambiente che è
saturo di messaggi (“clutter mediatico”). Per attirare l’attenzione bisogna avere una grande
capacità immaginativa e creatività. L’engament è quella capacità di creare un legame con
il consumatore che sia in grado di attirare la sua attenzione (aspetto cognitivo), di
suscitare una reazione emotiva
(ridere, piangere, commuovere =
aspetto emotivo) e di farlo attivare
(“brand activation”= aspetto
comportamentale) a fare a qualcosa
verso la marca.
L’engagement fa parte dell’ambito delle
CBR, ovvero del consumer-brand
relationship. Al giorno d’oggi costruire e
stimolare l’engagement risulta essere
l’obiettivo principale di tutti i brand che si
superano constantemente per riuscire a
comunicare con il consumatore.
L’engagment è un concetto
poliedrico e polivalente e
rappresenta una dimensione chiave
dei concetti di brand equity e di
consumer behaviuor.
Le leve dell’engagement (drivers) sono diverse, una molto importante è la prossimità fisica e
valoriale. Ciò significa che la marca sarà capace di suscitare l’engagement del consumatore
quanto più è in grado di andare vicino al consumatore sia da un punto di vista emotivo che fisico. Il
tema dell’esperienza nel punto vendita rientra in questa leva, si ha un’esplosione del concetto di
store e punto vendita dove il consumatore viene immerso nell’esperienza che non sempre significa
ascquisto. I flash mob sono uno strumento classico che sfrutta questo tipo di leva. La prossimità
valoriale si riferisce al trattare temi vicini al consumatore. Rientrano in questa leva il cultural
branding e l’attivismo di marca. Sul piano
fisico, la prossimità si raggiunge con il fatto che grazie alle nuove tecnologie, le
marche possono essere con noi dappertutto. È possibile, infatti, interagire con
queste attraverso i dispositivi digitali oltre che nel punto vendita. Oggi è sempre
più diffuso il concetto di blend tra esperienza fisica e virtuale. Sul piano
etico o valoriale, vengono sfruttati l’impegno e la fiducia nella marca da parte dei
consumatori. Consiste nel toccare temi che fanno sentire il brand esattamente in
sintonia con il mondo valoriale di riferimento del consumer.
Un’altra leva fondamentale è il protagonismo dato al
consumatore. Il consumatore diventa parte del messaggio. Il consumatore
diventa molto più pragmatico (è attento
all’ambito economico, è esperto e critica),
volubile/imprevedibile/incostante e cerca
principalmente il soddisfacimento edonistico
(l’estetica diventa perfomità, esclusività e limited
edition). Il consumatore, oggi, vuole sempre la
novità. L’azienda deve considerare il
consumatore come suo pari.

L’ultima leva dell’engagement è la capacità di


integrare i diveri metodi di
comunicazione: social e advertisement
classica. È importante non utilizzare un solo
mezzo di comunicazione ma deve avvenire un
blend tra le leve tradizionali.

10.11.21
Consumer brand engagement

Il consumer brand engagement è uno stato cognitivo, emozionale e comportamentale, che crea un
legame importante per il consumatore da parte della marca. La logica principale sottesa oggi ad un
brand per quanto riguarda il consumer engagement. È un concetto olistico, non si traduce, e si
intende lo stato di attivazione che riguarda tre ambiti, un’attivazione mentale, emotiva e
comportamentale, vuol dire che una persona è ingaggiata quando cognitivamente si ricorda un
messaggio quanto attira l’attenzione.
La capacità di attirare l’attenzione è il primo elemento necessario, il farsi notare. È un tipo di
attivazione di tipo cognitivo. Non si esaurisce solo nella capacità di attirare l’attenzione, ma è
anche emotiva, suscitare una reazione di carattere affettivo, attraverso l’ironia, il romanticismo,
attraverso stilemi che parlano alla’’ pancia’’ del consumatore. L’engagement deve inoltre suscitare
un comportamento di attivazione del consumatore.
Nel codice promo di un influencer, per esempio, che è una call to action.
Consumer brand engagement, crea visibilità spontanea, con il passaparola, tu stai avendo un
comportamento che crea vantaggio al brand.
Non è altro che un legame, che acquisisce significato in un certo momento storico della marca, non
per sempre, ma può essere di lunga durata come effimero, anche se non vuol dire meno intenso.
Il brand deve continuare a promettere, continuare a fare engagement.
Porta equity, valore di marca, fedeltà, che le aziende vogliono.
Flashmob, tipo di engagement di touch point su tre leve, attira l’attenzione, effetto straniamento,
associato a delle performance, colgono di sorpresa, al di la di raggiungere le persone
nell’immediato, fa leva sulle persone che fanno da medium, protagonisti perché dato che si
emozionano condividono foto video e messaggi.
Quando scatta questo innesco tu sei già nella viralità, utilizzando i consumatori come mezzi.
Earned media, usi i consumatori che hai ingaggiando come Ambassador.
Parte da un touch point fisico ed ha una ricaduta digitale.
Ci sono poi altre leve dell’engagement, i driver, uno è quella della prossimità fisica, capace di
incontrare il consumatore dove più comodo. Vari modi di usare l’ambiente. Trattare temi vicino al
consumatore, per esempio l’0attivismo di marca sociopolitico.
Altro elemento fondamentale è quella di dare protagonismo al consumatore, renderlo parte del
messaggio, supercritici, cultura del referaggio. I brand sono più attenti su questo, consumatore più
responsabili, value for money. Sono sfuggenti difficili da raggiungere. Siamo nell’esclusività
ricercata, il consumatore vuole essere stupito.
Aspetto dell’innovation, sempre novità. Lanci e nuove release, di prodotto che hanno delle piccole
varianti che però si vendono come fondamentali, che ti fa sentire al passo con i tempi.
Guerriglia di marketing, operazioni mordi e fuggi, inaspettate, che hanno l’obiettivo di creare uno
stato di attivazione emotiva collettiva molto forte attraverso la viralità che viene suscitata, non c’è
una performance ma un critical instrument che crea straniamento.
Ultima leva è quella della capacità di integrare i touch point, anche quelli non convenzionali, ma
anche della comunicazione classica. Capacità di integrare la strategia social, con capacità di
sfruttare la viralità.

ES: Promotioning X-Factor  touch point con tecnica “flash mob”: tipo di comunicazione che
agisce su tutte e tre le leve (cognitiva, emotiva e comportamentale). Si associa a performance
canore o di danza che colgono di sorpresa i passanti. Questo tipo di comunicazione fa leva sul fatto
che le persone spettatrici diventano protagonisti facendo fotografie e condividendole con gli amici
o sui social. Da questo momento il messaggio si espande per mezzo del consumatore (earned
media = mezzo di guadagno).

ES: Ferrari promotioning  costruzione di un parco indoor a tema ed esperienziale ad Abu Dhabi.

ES: Coca Cola  nell’epoca della presidenza Obama, Michelle Obama ha combattuto l’obesità sulla
popolazione umile e black community. Quindi, Coca Cola ha previsto possibili crisi e ha agito in
anticipo: Coca Cola ha lanciato un messaggio di “J’Accuse” iperbolico che portasse i consumatori a
non overbere il prodotto (campagna educational).

ES: Guerrilla Marketing  operazioni veloci ed inaspettate che estraneano il nemico che creano
un’attivazione emotiva. Genertel Life Park: due brand di compagnie assicurative (Generali e Europ
Assistance) volevano aprire uno store che suscitasse visite per sottoscrivere polizze. L’insight
principale è che siccome vendono polizze assicurative hanno ragionato sul fatto che tutto può
accadere (“anything can happen”). La soluzione delle due compagnie fu quello di far emergere dal
nulla un sommergibile in Piazza Mercanti a Milano.

Grounded theory: the practitioner’s standpoint


Non esiste una teoria stabilita del concetto di consumer brand engagement (CBE). Uno studio si
proposto di arrivare a capire tale concetto secondo l’approccio Grounded theory che si focalizza
su come i praticanti intendono il CBE e su come lo portano avanti attraverso le loro
branding strategies e tactics. Alcuni studi hanno rivelato che il CBE è visto dai praticanti come
un processo dinamico che si evolve in intensità sulla base delle capacità del brand e
aumentando anche grazie all’intercettamento dei desideri e aspettative del consumatore. Il
consumer brand engagement è considerato anche un overarching marketing concept che
include diverse dimensioni relative alle decisioni del consumatore, dalla preferenza di un brand
all’acquisto di un determinato prodotto di un determinato brand. Ma, il concetto di CBE è intesto
anche come un multi-dimensional construct che considera tre dimensioni: cognitiva,
emotiva e conativa.
Si può considerare il consumer brand engagement come un bond tra brand e consumer che si
basa principalemente sullo sforzo del brand di attivare i consumatori attraverso interiazioni, valori
condivisi, contenuti esperienziali e ricompense.
Esistono diversi approcci legati al CBE:
- The academic approach: di questo approccio si possono individuare tre categorie ovvero
una dimensione cognitiva che considera il CBE come un processo di attivazione
mentale verso il brand; una dimensione affettiva/emotiva che definisce come fattore
chiave del CBE le emozioni che vengono attivate nell’inidividuo durante la visione di una
pubblicità; infine, si ha una dimensione conativa che definisce il CBE come la
manifestazione comportamentale del consumatore verso il brand, andando oltre a quello
che è il mero acquisto.
Altri studi (Bowden) hanno definito il consumer brand engagement come un processo
psicologico durante il quale il consumatore diventa sempre più fedele al brand. Più di recente, il
CBE è stato interpretato secondo la prospettiva del co-creation value. Il consumatore è
diventato interattivo e partecipa alla creazione di valore per il brand.
Gli approcci accademici si possono riassumere in tre punti:
1. A strong orientation towards individualism dimension of the consumer behaviour
2. It does not take into consideration the social context in which the consumer-brand
encounter takes place.
3. It is a fragmented view of CBE
- The practitioner approach: l’approccio dei practitioners enfatizza l’importanza della
relazione tra i consumatori, tra di loro e con il loro contesto sociale. Questa relazione
rappresenta un punto chiave nella definizione del costrutto CBE. Questo approccio, inoltre,
enfatizza un uso di strumenti di comunicazione online che pososno portare alla
socializzazione e alla co-creazione del valore dei brand. Inoltre, grazie al loro pragmatico
approccio, i praticanti si focalizzano anche sulle management issues of engagement (ROI
evaluation, effective-efficient, budget allocation) orientate alla presa delle decisioni, al
problem solving e alla misurazione della performance.
La differenza principale tra i due approcci è che il primo non tiene conto dell’aspetto pragmatico e
del contesto mentre il secondo non ha ancora rivolto la sua attenzione a la possibilità di un
engagement di lungo periodo. È necessaria un’integrazione dei due approcci.

Il processo di CBE è conosciuto con il termine di “brand enacting”. Secondo i praticanti, il


brand enacting rappresenta il primo elemento di attivazione del consumer brand engagement. Con
questo termine ci si riferisce al fatto che i consumatori “put the brand into action”
partecipando nel mondo del brand. La Consumer engagment è la partecipazione al brand che
significa che il consumatore in qualche modo manipola, possiede e attua come se fosse il brand. Il
brand non è più passivo ma è messo in atto dai consumatori. Il consumatore si
considera engaged quando valuta il brand come una parte integrante della sua vita.
Il brand enacting è attivato da alcuni drivers: la prossimità fisica e valoriale, consumer
protagonism e la comunicazione integrata. Questi drivers si inseriscono in un processo che
secondo i praticanti si caratterizza per tre fasi:
1. Brand appearance: il brand mantiene le
distanze dal consumatore, il quale può solo
ammirare il brand ma non toccarlo. Siamo
ancora nella fase di “staying firm
behind the desk” che si caratterizza per
un uso tradizionale della pubblicità
supportato da una comunicazione
unidirezionale. Il brand vede il
consumatore come un target passivo. Le
aziende sono più proponse al monologo
piuttosto che al dialogo
2. Brand Body: in questa fase il brand mostra
il suo “body and muscles”. Ciò significa che
cerca un incontro fisico con il proprio
target cercando di suscitare in loro un’emozione. Secondo i praticanti, questa è la
dimensione del presente, “leaving the desk and getting into the streets” cerando un
incontro diretto con i consumatori e cercando di stupire loro attraverso multi-sensory
experiences e creando temporary communities. Il consumatore è visto dal brand come un
individuo da sedurre pertanto in questa fase il CBE è visto soprattutto da un punto di vista
estetico: la relazione tra brand e consumatore si basa su contingent clues e entertainment
tactical actions.
3. Brand soul: in questa terza fase il brand “gets into consumers’ homes”. Questo
significa che il brand porta i consumatori “on board” aprendosi completamente a loro e
interagendo mutualmente. I consumatori entrano a contatto con il brand e entrano anche in
possesso (possono modellarlo a loro piacimento anche da casa con l’uso di strumenti
digitali) di questo sviluppando una relazione intima con il brand stesso basata sul mutual
commitment, ovvero sul dialogo, dedication, affinità valoriale e complicità. Ma allo stesso
tempo, questa relazione si basa su alti livelli di reciproca fiducia. Questa, secondo i
praticanti, rappresenta la pià alta manifestazione del CBE.
Il passaggio da una fase all’altra sembra essere dovuta a due turning points: the level of the
brand disclosure towards the brand’s consumers and the level of consumer
interactions. Il primo si riferisce al modo in cui il brand si apre ai consumatori cercando un
incontro diretto con questi per condividere valori e significati. Con il secondo livello si fa
riferimento al fatto che il consumatore direttamente prende parte nel processo di scambio con il
brand.
In conclusione è possibile affermare che il CBE (consumer brand engagement) è un concetto
multi dimensionale che, oltre alle tradizionali dimensione cognitive, affettive e conative, è
anche improntato sulle dimensioni esperienziali e sociali. La dimensione esperienziale
raggruppa elementi fisici, corporali e multisensoriali che vengono inseriti nell’incontro tra il brand
e il consumatore. Questa dimensione sembra predominare oggigiorno su quelle cognitive, affettive
e conative che vengono percepite come “taken for granted”. La dimensione esperienziale sembra
enfatizzare una touch-feely relational approach del brand verso i consumatori basata
principalmente su hedonic elements, astonishment and amusement. La dimensione sociale
riguarda le interazioni, partecipazioni, dialoghi e co-creazioni. Questa enfatizza l’apertura del
brand verso i propri consumatori con l’obiettivo di “taking them on board”.
Il consumer brand engagement ha delle conseguenze dal punto di vista manageriale. Per
attirare a sé i consumatori, i brand devono entrare nella loro vita attivandoli emotivamente e
fisicamente cercando di creare una forte relazione. Per fare questo i praticanti dovrebbero mettere
in atto una strategia che si basa su: value-based affinity (il brand è per i consumatori un
contenitore di pensieri, percezioni e significati); brand embeddedness in consumers’ daily
lives ( il brand dovrebbe avere caratteristiche funzionali, estetiche e simboliche che gli
permettono di diventare un punto di riferimento per il consumatore); leverage of consumers’
protagonism (il brand dovrebbe sempre mantenere sia il protagonismo che il self-achivement
dei suoi consumatori dando loro la possibilità di modellare e manipolare il brand come
vogliono).

23.11.21

Consumer empowerment agenzia del consumatore nei confronti della marca

Oggi il consumatore è potente perché si aggrega, in massa, parliamo degli eventi, manifestazioni
nelle piazze, i grandi momenti di rivolta popolare. Oggi i tipi di aggregazioni online sono effimere,
mordi e fuggi, ma in costante creazione.
Non sono movimenti ideologici ma sono comunque movimenti di attivismo popolare. Il digitale ha
creato la capacità di creare e dissolvere community che si aggregano intorno a interessi
momentanei. Possono cavalcare l’onda. Il consumatore riesce ad avere la meglio, rispetto ai brand,
che vanno a elaborare dei tipi di messaggi immediate, real time marketing che entrano in modo
naturale nelle conversazioni che oggi aggregano, per creare più interesse mediatico.
Tutto il concetto di instant marketing va a capitalizzare sulle interazioni veloci.
Oggi la società è orientata a tipi di legami, di aspettative di reazione, vive molto nel momento, devi
essere rilevante e giusto ora, nel presente. Sono effimere per loro stessa natura, tendenzialmente
vanno negoziati giorno per giorno, ma molto intense.
Concetto di fedeltà, fondamentale nella dinamica delle persone, che ora è messo in difficoltà,
fedele perché la marca se lo conquisto ogni giorno.
Il consumatore è sovrano, e bisogna andare a influenzarlo ogni giorno, con idee innovative,
altrimenti perde valore.
Il ruolo attivo che i consumatori hanno preso prende il nome di ‘’prosumption’’, che include ogni
aspetto delle attività che riguardano almeno un grado di partecipazione e consumazione, c’è una
serie di termini che si usano quando ci si riferisce ai consumatori impegnati nelle attività di
produzione:
- Prosumer: producer + consumer
- Craft consumer: da “to craft” significa “creare”. Il consumatore oggi crea.
- Productive/working consumer: il consumatore che produce. Normalemente si fa
riferimento alla produzione di contenuti digitali. Oggi, gran parte della monetizzazione
legata alle aziende che operano nel settore dei consumi è legata alla creazione di contenuti
digitali che vengono fatti anche dai consumatori.
- Post consumer:
- Empowered consumer
- Proam: variante che significa Professional Amateur (food blogger o fashion blogger che
diventano poi imprenditori.

Oggigiorno si parla anche di prosumer capitalism in termini producer e comsumer


capitalism. L’economia è sempre stata dominata dal capitalismo prima focalizzato sulla
produzione e in seguito sulla consumption. Oggi, però, si parla di prosumption che include sia
la produzione che il consumo. Questo concetto si è sviluppato notevolmente con
l’introduzione di Internet e del Web 2.0. Il prosumer capitalism si caratterizza per il fatto che il
controllo e lo sfruttamento assumono un carattere diverso rispetto alle altre forme
di capitalismo. È importante la distinzione tra:
- Production: la produzione si considerava alla base dell’economia all’inizio della
Rivoluzione Industriale e ha dominato per altri due secoli. Ma un cambiamento iniziò a
vedersi, specialmente negli USA in prossimità della Seconda Guerra Modiale. L’economia del
post guerra si basava sulla mass-production di beni di consumo che ha portato a un aumento
dell’interesse e della domanda dei consumatori.
- Consumption: all’inizio degli anni ’60, la produzione veniva considera il pre-eminent ma
l’economia si stava spostando verso il consumo. In questo periodo si vede un’espansione dei
consumi grazie ad alcuni cambiamenti e all’introduzione di shopping malls, fast food
restaurants… inoltre, si vede anche la crescita del marketing (advertising, branding and the
like). Una “consumer society” sembrava essere emersa.
- Prosumption: agli inizi del 2007, i termini consumption e production subiscono un
declino a causa della “grande recessione”. Si inizia a parlare di prosumer society. Secondo
Toffler (1980), prosumption ha conosciuto due onde: una prima nelle società pre industriali
e una seconda a seguire caratterizzata da una maggiore marchetizzazione. Il concetto di
prosumption si è sviluppato recentemente, in particolare rientra nel concetto di co-creazione
del valore dove il prosumer è visto come la parte di un nuovo modello di business definito
“wikinomic” che si basa sul fatto che i brand mettono al lavoro il consumatore. Le aziende
stanno dando maggior libertà ai consumatori. Questo trend di mettere il consumatore al
lavoro (diventando prosumers) si è sviluppato con l’introduzione dei fast-food restaurants.
Altri esempi sono: fare da soli benzina, andare alle casse veloci oppure chiamare durante
un call-radio show. Altri esempi materiali possono anche trasparire online, in particolare
quando si parla di Web 2.0 considerato cruciale nello sviluppo dei “mezzi di prosumption”.
Esempi di questo sono: wikipedia dove si possono generare articles, Facebook dove si
creano propri profili e Amazon dove i consumatori fanno ordini e scrivono recensioni.
Quando si parla di prosumer capitalism è importante distinguere: traditional prosumers e
newer forms of prosumption. Nel primo caso è difficile parlare di capitalismo. Mentre nel secondo
caso, soprattutto quando si parla di Web 2.0, si può notare come il capitalismo sia entrato in
una fase nuova: i capitalisti hanno un nuovo modi di relazionarsi con i prosumers rispetto a
quello che avevano con i producers e consumers. Questo è stato sopportato da alcune ragioni tra
cui:
1. L’inabilità dei capitalisti di controllare i prosumers nel modo in cui facevano con i
producers e i consumers.
2. È difficile pensare allo sfruttamento dei prosumers. In quanto, questi amano quello che
fanno anche se non vengono pagati.
3. Il capitalismo implica uno scambio di soldi per beni e servizi e i profitti sono il risultato di
questi scambi. Tuttavia, pochi o niente scambi di soldi sono fatti con i prosumers, in
particolare con i proprietari dei websites o gli users. Ma con il Web 2.0, lo scambio può
essere di altro tipo, in particolare, si vendono informazioni, si generano spin-offs e i brand
grazie a questi mezzi sono diventati più importanti non tanto per quello che guadagnano
quanto più per quello che guadagneranno. Per questo si parla di una nuova forma di
capitalismo.
Prosumer capitalism si basa su un sistema dove i contenuti sono abbondanti. Questa
abbondanza, però, porta a una minore efficienza e razionalità rispetto ai tradizionali sistemi
capitalistici. Quindi, questa nuova forma di capitalismo, al posto che concentrarsi sull’efficienza, si
basa su la creazione di prodotti e servizi effettivi.
Il consumatore partecipa sia alla produzione culturale-simbolica che alla produzione fisica dei
propri oggetti di consumo: include le marche nelle proprie storie di vita, dove queste vengono
utilizzate come oggetti per definire il sé e la proprià identità individuale.
Oggi si parla di attivismo digitale che da un lato attrae le aziende in quanto crea consumatori
excited dal brand ma dall’altro le aziende possono essere boicottate qualora i commenti siano
negativi. Fino a qualche anno fa, questo non esisteva Il mondo digitale ha portato alla formazione
di community che si aggregano attorno a interessi momentanei. Le marche possono avere due
atteggiamenti di fronte a questa situazione: subire o cavalcare l’onda. Nel primo caso, il
consumatore riesce ad avere la meglio mettendo in difficoltà le marche mentre nel secondo caso le
aziende elaborano campagne immediate (real time o instant marketing) che entrano in maniera
naturale nelle conversazioni delle persone. Chiaramente sono necessari contenuti adeguati che
vanno a capitalizzare sulle aggregazioni veloci. In questo contesto si inserisce il concetto di
modernità liquida del sociologo Bauman. Non esistono più le solidità del passato, i confini
sono molto più labili e anche la fedeltà tra aziende e consumatori è sempre più labile. (società
liquida = le istituzioni si stanno liquefando  la società è estremamente orientata a
tipologie di legami o di aspettativa di interazioni che è nel qui e ora, quindi rilevante
e giusto in questo momento, ed effimere che però possono essere estremamente
ingaggianti). Nella società liquida i rapporti che si vanno a creare risultano effimeri restando
comunque forti ma hanno bisogno di essere rinnovati constantemente. Oggi non c’è un legame
durevole e stabile. Le nuove generazioni sono orientate alla varietà e al cambiamento. Nelle
pratiche di consumo questo è molto importante. Il concetto di loyalty, ad esempio, è messo in crisi.
Per le marche, quindi, è richiesto uno sforzo ulteriore per essere sempre innovative.
Cosi anche gli influencer oggi devono essere su tutti i trend per essere al top di quello che piace
perché nel suo ruolo il consumatore è sovrano.
Un altro fenomeno apportato dalla società liquida riguarda le aggregazioni effimere dei
consumatori. L’epoca contemporanea è l’epoca del crollo delle ideologie, dell’aggregazione su
passioni effimere che permettono di condividere con gli altri un interesse più o meno intenso, ma
pur sempre temporaneo. I social network hanno creato aggregazioni di consumatori e collettività
(consumer publics) che si configurano come formazioni sociali le quali esprimono un affetto
collettivo privo di un’identità comune o di uno scopo condiviso che possa formarsi attorno a un
brand. Sentendosi empowered il consumatore si aggrega in ambito digitale. Le caratteristiche di
aggregazione possono essere diverse, i consumatori si aggregano per ragioni diverse:
 Gathering around something out of blue
 Getting engaged for a while: per cose fluide, frivole o fatiche. “Aggregare per aggregare”
 Mindless sharing: finalità temporanee. Non esiste più il concetto forte di community come
esisteva un tempo attorno a una tematica.
 Making something meaningful but just in the instant
 Immediate call to action
 Transient purposes
 Forming and dissolving with no regrets or concerns
Questo sembra riassumere il cultural vibe della società contemporanea. Oggi tutto è estremamente
veloce ma più volubile e labile. Si parla di “click activism” perché il consumatore clicca il mouse
per entrare in un’aggregazione. Oppure si parla anche di happenings o call to action
collettiva.
In questo nuovo contesto, il consumatore è empowered nel senso che vuole e può dire la sua e
vive le marche come una proprietà culturale condivisa. Le marche diventano “di proprietà dei
consumatori” che le fanno vivere utilizzandole. Il concetto di appartenenza della marca al
consumatore ha cambiato la geometria della relazione brand-consumer. Sono i consumatori a
poter incidere sulla sorte della marca, la quale a sua volta perde progressivamente il controllo. Allo
stesso tempo, però, i consumatori moderni sono sempre più esperti ed informati e si sentono
individui in grado di asserire la loro indipendenza dai brand.
Le marche vanno a capitalizzare sulla velocità di aggregazione delle persone per
targetizzarle e segmentarle. La capacità del brand è quello di entrare in punta di piedi ma con
grade credibilità dentro a questi flussi di community. Molti brand hanno riconosciuto
l’empowerment che il consumatore ha avuto negli ultimi anni. Ad esempio: Nike ha celebrato
l’empowerment del consumatore attraverso la campagna “Unlimited You” per youtube. Nike è un
brand educational che ha sempre favorito l’empowerment del consumatore. In questa campagna
fanno ironia sul ruolo del consumatore che secondo loro risulta illimitato, troppo forte rispetto al
brand stesso.
Le marche stanno prendendo il controllo in quanto detta legge il consumatore e non
il brand nonostante alcuni di questi come Nike hanno assunto un ruolo educational nei confronti
del consumatore.
L’empowerment dei consumatori viene riflesso all’interno del contesto digitale nelle azioni
individuali o collettive che si rivelano in grado di dare beneficio al brand. Attraverso i social media,
le persone sono in grado di generare valore materiale e immateriale che vada ad aggiungersi al
brand value già esistente. La visibilità del brand viene aumentata grazie all’enorme consenso
collettivo delle comunità online, le quali generano hashtag virali. Al giorno d’oggi i consumatori si
formano attraverso l’uso di tecniche espressive tipiche della brand communication, utilizzate
attraverso diversi canali mediatici. Essi superano così il tradizionale concetto di brand diventando
loro stessi nuovi brand. I consumatori moderni vanno oltre il tradizionale brand anche quando
intraprendono progetti imprenditoriali che si avvantaggiano di nuove opportunità di marketing
negate dai brand esistenti.

The media mix in digital platforms

Earned guadagnati, quella copertura mediatiche che è gratuita perché l’azienda è stata brava a
cavalcare determinati temi in maniera creativa. Guadagnati, quella copertura mediatica che è
gratuita perché l’azienda è estata brava a cavalcare determinati temi in maniera creativa. Contenuti
che si vendono da soli e gli utenti stessi condividono siccome lo ritengono degno di nota, si fanno
amplificatori e Ambassador. Cassa di risonanza gratuita perché ha comunicato in un certo modo.
La capacità di maggior efficacia in termini di KPI, quanti post organici sono stati fatti da influencer
senza pagarli, citazioni…ci sono metriche di efficacia di comunicazione che paragono quanto un
pezzo di testo spontaneamente sarebbe costato se avessero dovuto comprare quei tipi di commenti
o acquistare lo spazio pubblicitario. Ovviamente ce un risparmio.

Owned  media proprietari, sono le tue e le utilizzi, ma raggiungono poche persone, servono come
vetrina, si vede il portfolio prodotti.

Paid siti a pagamento o sponsorizzazione tramite influencer o advertising, sono i mezzi pagati.

Il mix di questi da idea dei touch point che oggi l’azienda ha a disposizione, quelli più efficaci sono
gli earned, più credibili perché spontanei e da altri, a costo zero. Vuol dire avere grande testa per il
marketing, un grande gruppo di marketing creator e copertura mediatica spontanea.

1.12.21
STRATEGIC MARKETING- OSPITE DI ROSSELLA
TrendHunting consiste nella ricerca e nel monitoraggio di quelli che sono il trend.
1. Natural observation del comportamento delle persone;
2. Lettura di megazines, libri, blog.
Il monitoraggio e la gestione del trend è importante per capire (1)a chi si parla (il target) (2)che
cosa comunicare (i contenuti e i messaggi) (3)e come comunicarlo (con quali mezzi). Questi tre
elementi possono impattare sulla strategia di comunicazione di un’impresa.
(1)
Un brand può impattare la definizione o ridifinizione di un target.
Active aging, l’invecchiamento attivo, la popolazione sta invecchiando, questa fascia particolare
di popolazione sono nuovi ‘’active agers’’ persone che per la loro età non sono poi così giovani, ma
anche non estremamente vecchi, perché attive. Scoprono nuovi hobby e si muovono, che imparano
cose nuove, non sono fermi in casa e hanno un potere d’acquisto molto alto, anche più delle altre
fasce della popolazione, c’è del potenziale della crescita di una marca proprio su quest’audience.
Nuova fascia da ricercare e su cui costruire messaggi diversi sa quelli già presenti per altre fasce di
comunicazione.
Essere tra i primi a riuscire a sfruttare un trend permette di essere all’avanguardia e costruire la
sua immagine di brand sempre sul pezzo rispetto a quello che succede nel contesto socioculturale
del momento.
(2)
Un trend può anche ridefinire il modo in cui comunichiamo a un determinato target. Ad esempio
abbiamo il fempowerment ovvero il movimento per raggiungere l’uguaglianza di genere e
l’empowerment, maggiore forza, autostima, consapevolezza, di tutte le donne e le ragazze, contro
ogni stereotipo e giudizio. Il trend nasce nel 2004 dopo il discorso alle Nazioni Unite di Emma
Watson.
In questo caso la figura della donna secondo diversi punti di vista, estetici ma anche valoriali, non
era più in linea con i desideri delle donne e probabilmente la rilevanza la rilevanza su questo
particolare target femminile oggi lo si costruisce veramente mediante messaggi di empowerment,
che invitano al rafforzamento dell’autostima. Under Armour è una case History di successo.

(3) come comunicarlo


Il brand può impattare anche il mezzo attraverso il cui comunichiamo ad un determinato target, è
importante capire chi impatta e la tipologia del messaggio, ma anche il come. Un esempio sono gli
smart speaker, i dispositivi, cioè gli assistenti vocali che stanno avendo una crescita vertiginosa.
Essendo sempre più presenti, possono diventare un nuovo veicolo o mezzo di comunicazione.

I trend possono cambiare il nostro target di riferimento, ampliarlo, migliorarlo, i trend cambiano il
modo di costruire messaggi, di entrare in empatia con il target di riferimento, di creare vera
rilevanza.
I trend possono cambiare il modo di entrare in relazione con la marca.

Uno dei trend che ha fatto la storia è il gaming: esso si preannuncia come la prossima frontiera per
la comunicazione delle marche, soprattutto sul target più giovane.

Altro trend recente è il Diversity and inclusion, il bisogno di rappresentare e celebrare ogni
sfumatura dell’essere umano, senza inutili censure, altra case history di L’Oreàl.

CULTURAL BRANDING

Il cultural branding (branding culturale) è stato teorizzato da un accademico americano


Douglas Holt, il quale ha spiegato come una marca possa diventatare un’icona culturale. Le
marche si relazionano con il consumatore andando a diventare parte della cultura di consumo
inserendosi nei simboli e nel lifestyle delle persone.
Il branding culturale è un branding che cerca di capire come la marca può entrare spontaneamente
e organicamente nelle conversazioni tra le persone. È di fatto un approccio che considera il
brand come una risorsa culturale che entra a far parte dello stile di vita dei
consumatori. Il brand non è solo di proprietà dell’azienda, ma anche del vissuto culturale dei
consumatori. La marca deve essere in grado, secondo questa logica, di parlare un linguaggio
moderno e contemporaneo e deve essere sempre aggiornata su quello che accade nel mondo.
Il cultural branding si delinea anche come la capacità del brand di gestire se stesso
come una risorsa in grado di parlare alle communities. Fare cultural branding, oggi,
significa sfruttare i social media e le piattaforme digitali per comprendere quali elementi
aggreghino le persone in un dato momento storico.
I brand vengono visti come “attori sociali”,
ossia ricoprono un ruolo che qualifica
il loro modo di agire e la loro
sopravvivenza non solo come
finalizzati all’ottenimento di un
vantaggio competitivo ma anche a
delinearle come agenti “umani” che
interagiscono con i consumatori per
migliorare la società e l’agenza politica.
Con il termine Societal Corporate
Branding si intendono quelle azioni del
brand che riguardano una certa distintività sociale, la quale va ad impattare sull’azienda e sul suo
ruolo come attore sociale. Il brand non è più legato a un prodotto. Questo implica però un lungo
viaggio per l’azienda. “The company carries out quasigovernmental interventions in favor of
society”. Facendo questo, i brand assumono il ruolo di “sociopolitical citizens” grazie al loro sforzo
di partecipare nella comunità e contribuire al bene comune. In particolare, le aziende attuando
come attori sociali stanno utilizzando il loro potere di influenza per spingere le persone a fare bene
(“to do good”) e in qualche educandole.
Il brand purpose è la finalità ultima, il motivo per cui l’azienda esiste e opera sul mercato. Il
brand purpose rivela l’essenza: why the brand has been launched, why it is relevant and
necessary for consumers and how it should improve society for the better. L’obiettivo è quello di
dare valore e migliorare la società (passano in secondo piano il valore economico e la
remunerazione dei soci). All’azienda non interessa più sostenere il proprio prodotto, essa vuole
anche essere eticamente stabile. “Purpose is a long-term business strategy tied to a societal
benefit that guides every decision and action, from product development and customer/employee
engagement to marketing and hiring”. Il brand purpose può essere definito anche come “a
cultural entity”.
Oggi si parla anche di brand activism (l’attivismo di marca) che prevede la presa di posizione
delle marche su tematiche sociopolitiche (questo deve essere fatto poiché la società è liquida, le
marche in quanto imprenditori e player industriali di successo sono chiamate in causa come attori.
La marca deve prendere posizione e parlare di altro rispetto a sé). Il concetto di brand purpose è
quello che si intendeva come responsabilità sociale. Ormai il concetto di responsabilità sociale è un
tema superato in quanto oggi si parla di cittadinanza di un’azienda.
Il purpose si dice che è socialmente costruito attraverso cultural labor. Ciò significa che
si passa da “productive consumption to consumers’ boycotts”. Questa idea di “socialmente
costruito” può essere capita attraverso delle azioni simboli introdotte nello sport che portano a:
together individual gestures, civic engagement and agendas, political parties and representatives,
brands and society. Il take a knee movement è considerato un elemento rappresentativo nella
co-costruzione del purpose. La co-costruzione del brand è stata ingrandita con l’avanzo e la
flessibilità delle piattaforme digitali. Con azioni come liking/disliking, post, commenti e recensioni
sui social si è spostato l’esercizio di dissenso e consenso che modellava il Brand Purpose
dall’interpersonal domain al digital realm.
Come si è arrivati a questo? Gli studiosi parlano dell’emergenza del fenomeno chiamato
“tecnocapitalismo”. Questo ha portato a nuove forme di consumer collectives che hanno
assunto diversi nomi nel corso degli anni (individualized networking, networked collective action,
crowds of individuals, connective action e brand publics). Queste forme hanno poi portato a un
attivismo del consumatore sulle piattaforme digitali. Oggigiorno si fa sempre più leva sul concetto
di consumer clicktivism, ossia un attivismo del consumatore che si basa sui “click” in
rete. Si tratta di una forma di attivismo che ha un impatto e una potenza superiore rispetto a
quella del passato. Milioni e milioni di persone manifestano la loro emozionalità e la loro presa di
posizione su determinati problemi attraverso la rete e la loro partecipazione sui social media.
Oggigiorno, molti consumatori fanno uso di questa pratica di mobilità sociale e politica per reagire
o per provocare il brand. Il termine slacktivism, invece, si riferisce ad un attivismo molto forte ma
più effimero, passeggero che si manifesta sui social media.
Si può dire, quindi, che il 12esimo secolo ha dato vita a una potente interazione tra mass
production, mass media e mass marketing.
Tutto ciò va a far fronte a delle esigenze vissute dalle persone che presentano aspettative al di là
della convenienza e della qualità. In particolare, i consumatori si aspettano che le imprese abbiano:
- Una condotta etica
- Dei comportamenti sostenibili
- Le aziende devono preoccuparsi per la società
Se questi elementi non sono presenti, i consumatori si rivolgono ad altre imprese.

ES: Corona  campagna in cui si riprende la campagna con cui Trump era stato eletto e viene
problematizzato con un punto di domanda. Il Brand Activism nasce negli Stati Uniti con l’elezione
di Trump.
Fenty Beauty  brand activism for inclusivity (black beauty) campagna con Rhianna. Il primo
brand di cosmetica
Bumble (app social dating)  brand activism for women empowerment. Ambassador: Serena
Williams. La donna non è l’oggetto. L’81% delle employee sono femmine all’interno dell’azienda.

Tutto ciò ha portato a una nuova faccettatura del panorama delle aziende. In particolare, il risvolto
più pragmatico del cultural branding ha delle cause economiche:
- Globalizzazione
- Intensa competizione e omogeneizzazione dell’offerta (me too products)
- Declino del concetto di “preferenza di marca”
- Focus a breve termine
Tutti questi fattori hanno determinato una crisi del concetto di posizionamento del prodotto. Le
aziende, dunque, vedono come sempre più fondamentale la prese di posizione su temi sociali e
politici, al fine di differenziare competitivamente non il singolo prodotto ma l’intera
organizzazione. Le marche e le aziende di successo sono quelle che si aderiscono alla cultura e alle
sottoculture dei nuclei di consumatori a cui si rivolgono.
Un’altra dimensione del culturale branding prende il nome di real time o instant marketing
che riprende tutte le iniziative di branding culturale che intercettano le community di persone e le
conversazioni. Si tratta di una tecnica opportunistica con cui i brand saltano dentro a un
“trend topic”, ovvero quelle iniziative che creano conversazioni monitorando
quotidianamente i social. Le marche cosi vanno a strutturare dei pezzi di contenuti social e li
vanno a postare qualche ora dopo rispetto a qualche evento chiave che ha determinato grande
aggregazione e conversazionalità. Il real time marketing si focalizza su trend attuali e non si basa
su strategie di marketing pianificate in anticipo. Il real time marketing gioca
sulla leva dell’ironia, diverte. L’attivismo in questo caso appare ogni tanto.
I fattori chiave dell’instant marketing sono riconducibili al fatto che il brand risponde ad un evento
culturale attuale ed esprima la sua opinione al fine di attirare awareness e considerazione, e in
aggiunta al fatto che vengano utilizzati dati attuali per comprendere lo stato di bisogno dei
consumatori e potervi rispondere tramite messaggi mirati.
ES: De Cecco  nel primo lockdown, l’unico prodotto che rimaneva sugli scaffali erano le penne
lisce (“alle penne lisce scivola addosso anche il coronavirus”). Sulla base di ciò, De Cecco ha fatto
un post in cui scrive “non tutte le penne lisce sono uguali” e propone delle ricette. Così da far
parlare e far girare l’awerness nel mondo.
Taffo Funeral  primo brand di pompe funebri a parlare in maniera ironica della morte. Quando
si inizia a parlare di Green Pass, Taffo Funeral ha pubblicato un post contro i no vax scrivendo
“possiamo essere gli unici a farvi entrare senza Green Pass”. In questo modo, il linguaggio crea
istantaneità e Heard Media. Si va a fare un cultural branding ludico e frivolo.
Al centro del concetto di cultural branding troviamo una sorta di value covenant,
ovvero un patto di valore che rappresenta una promessa bilaterale tra aziende e
consumatori: tra quello che l’una promette e gli altri si attendono. Questo significa
da parte dell’azienda, essere coerente con le promesse che fa e che dovrà mantenere.

BRANDING IN THE AGE OF SOCIAL MEDIA (approfondimento)


Nell’era di Facebook and Youtube, la costruzione del brand era diventata esasperante. Oggigiorno,
viral, buzz, memes, stickiness e form factor sono diventate la lingua franca del branding. Fare
branding nell’era dei social media non è facile. La caratteristica centrale della digital
strategy delle aziende era quella di fare una grande scommessa su quello che viene chiamato
branded content. L’idea principale era che i social media avrebbero forgiato una relazione
diretta tra il brand e il consumatore. Grazie alle grandi storie raccontate e ad una connessione con i
consumatori in real time si pensava che il brand potesse diventare il cuore della comunità di
consumatori stessi. È stato investito molto da parte delle aziende in questa visione. Ma andando
avanti, i social media sembrano aver reso le aziende meno significanti. Questo perché i social
media hanno alterato la cultura e le digital crowds sono diventate potenti cultural innovators. In
particolare, oggi si parla del fenomeno di crowdculture che ha cambiato le regole del
branding: le digital crowds sono efficienti nel produrre intrattenimenti creativi che
diventa difficile per le aziende competere.
Con l’avanzo dei social media, il branded content è stato rimodellato come un digital
concept. I brand per diventare popolari all’inizio utilizzavano forme di intrattenimento popolare,
short-form storytelling, cinematic tricks, canzoni e personaggi empatici. Inoltre, si insediarono
anche in TV, negli shows and events. Ma con l’introduzione dei social media diventò sempre più
difficile per le aziende raggiungere la fama. Social media hanno legato insieme comunità che prima
erano distanti e questo le ha rese ancora più dense e la loro influenza culturale è diventata sempre
più diretta e sostanziale. Queste crowdcultures possono essere distinte in:
- Subcultures che detengono le nuove ideologie e pratiche
- Art worlds che cominciano nuovi lavori per l’intrattenimento.
Ma mentre crowdculture ha sgonfiato i modelli convenzionali di branding, ha anche creato un
modello alternativo che prende il nome di cultural branding: i brands collaborano con le
crowdcultures propugnando le loro ideologie nel mercato. In cultural branding, il brand
promuove una nuova ideologia che rompe con le convenzioni attraverso un processo che si
caratterizza per:
1. Map the cultural orthodoxy  Prima di tutto deve identificare quali convenzioni
bisogna scavalcare.
2. Locate the cultural opportunity  I consumatori iniziano a cercare alternative che
danno un’opportunità ai brand innovativi di diffondere la nuova idea.
3. Target the crowdculture  in questo modo i brands hanno la possibilità di spiccare e
differenziarsi.
4. Diffuse the new ideology
5. Innovate continually, using cultural flash-points. I brand continueranno ad avere
una rilevanza culturale se continuano a intrigare i consumatori e a dominare il media
discourse.

20.10.21 lezione 6 -seminario

Public relations management-Dalia Andreotti

È una disciplina particolare, non ci vuole uno background specifico, in quanto è una professione
molto vasta.

Comunicazione strategica in azienda

Viviamo in un’età di grandi cambiamenti, nell’ultimo anno si è cambiato il modo di rivolgersi ai


clienti e le aziende si devono aggiornare, anche strada facendo, aumento dei social network negli
ultimi dieci anni, specie dal 2015. Con il Covid c’è stato un impatto ulteriore nell’evoluzione delle
tecnologie.

Primo elemento di crisi è quello del cambio di fiducia, variazione della fiducia che i consumatori
riconoscono alle aziende, anche agli enti governativi, situazione di diminuzione della fiducia
nell’ultimo anno e mezzo. Il consumatore è ancora più sciettico. Se il consumatore non ha più
fiducia, diventa ancora più difficile mantenere un legame e ingaggiarlo

Geopolitica
La comunicazione deve avvenire sempre secondo gli equilibri, i cambi al vertice, che avvengono nel
mondo, es Trump Biden. Ci si concentra non solo sulla nostras azienda ma nell’insieme.

La tecnologia
Ha scardinato tutte le certezze dei consumatori, prima era un sistema intermediato, si passava
attraverso un opinion leader, che adesso però affianca, l’informazione è completamente
disintermediata

Potere
Nel senso di uno shift tra le aziende e i consumatori, che sono diventati più potenti rispetto al
passato, abbiamo libertà di parola e possiamo intervenire, prima era più semplice, le aziende
riuscivano a schermare l’informazione anche interna.

Valori
Cambio di valori, tema della sostenibilità, inclusione, femminismo, la società si muove e la
comunicazione deve intercettare questi trend e collegarli. Bisogna essere up-to-date.
Comunicazione come leva aziendale
Le aziende devono essere in grado di cavalcare questi trend. La comunicazione, quale sesto
elemento, diventa leva strategica aziendale. Numerosi errori attuali nelle aziende nascono
proprio da un’errata valutazione di tale leva.
Dalla massa alle community:
In quest’immagine è possibile vedere i principali cambiamenti legati ai brands nel corso degli anni:

 Nella prima sezione, si vede come il brand era concepito negli anni ’80. Esso comunicava
one to many (dall’emittente al ricevente). Non c’era possibilità di interagire, in
quanto la comunicazione era una via.
 Nella seconda sezione, si parla di experience brand. Un brand che avvolge e che
coinvolge il consumatore (anni ’90 – 2000)
 Nella terza sezione, si vede come con l’avvento delle piattaforme social, ci sia stata una
disintegrazione del pubblico. Le aziende, oggi, hanno difficoltà nel comprendere dove
sono i propri consumatori. Questa frammentazione è dovuta anche alla quantità di mezzi di
comunicazione di massa.
Da questi cambiamenti, oggi si ha una comunicazione a due vie: le aziende hanno sempre
considerato il consumatore come una parte rilevante della comunicazione, ma adesso il
consumatore è anche attore e autore collaborando con l’equity dell’azienda. Si parla di
co-creation. Sembra che il brand sia a metà strada tra il consumatore e l’azienda. Il
consumatore è multitasking, un’altra difficoltà per le relazioni pubbliche in quanto egli si
trova su molti più devices di un tempo (chatta, commenta e twitta).
Dalla comunicazione top-down (classica comunicazione unidirezionale da pubblicità) negli anni
2000 si è passati al concetto di brand experience: i brand cercano di trovare punti di
contatto con il proprio target per creare esperienze piacevoli che vengano ricordate).
Con la nascita dei social network è possibile interagire e trovare più punti in comune. Il brand deve
andare a cercare le community e il proprio pubblico, lo scenario è sempre più complesso, i canali
sono diversi e quindi lo sforzo fatto deve essere sempre maggiore. Per le aziende diventa
necessario essere costantemente aggiornati, conoscere il proprio target e parlare il suo stesso
linguaggio.
Il consumatore è al contempo:
1. Re (deve essere soddisfatto)
2. Attore (partecipa alla comunicazione)
3. Autore (co-creazione)
Il cambiamento nella comunicazione ha influenzato il nostro modo di agire e di fare business.
Tutto è cambiato con la comunicazione digitale e la disintermediazione che essa ha portato
riguardante principalmente la costruzione del consenso e dell’affidabilità. Nel mondo delle aziende
si parla di brand journalism  le aziende comunicando con i propri interlocutori
utilizzeranno strutture professionali e daranno la sensazione di parlare
direttamente con il consumatore/cliente. In questo caso l’intermediazione non ritornerà in
modo evidente, ma come elemento sotteso. L’arma delle relazioni pubbliche, quindi, si caratterizza
da due pilastri importanti: la comunicazione con i giornalisti e la gestione dei rapporti
diretti con il proprio pubblico.

Il consumatore è anche multitasking, si trova su molti più device allo stesso tempo.
Le aziende si sono ritrovate a parlare al pubblico, che prima passavano dai giornalisti, l’anima
dell’attività delle PR ha due grandi pilastri la gestione dei rapporti con i giornalisti e quella con il
pubblico, attraverso i mezzi e gli influencer. L’azienda deve trovare la strada migliore, nulla è
lasciato al caso.
La comunicazione è un processo di business guidato dall’audience; tale processo riguarda le
strategie verso gli stakeholder, il contesto, i canali mediatici e i risultati dei programmi di
comunicazione del brand.

Non si può fare a meno di questo processo, non è un processo laterale ma fa parte ormai, la
comunicazione porta tutto all’esterno.

- Stakeholder
In primis i consumatori, seguiti da altri, diversificati. Per ogni gruppo di stakeholder viene messa
in atto una strategia comunicativa personalizzata.
- Contesto
Dove si muove l’azienda
- Canali mediatici
Quali sono i canali, in questo caso sia quelli intermediati che quelli non intermediati, attraverso cui
raggiungo il consumatore.
- Risultati
Essendo la comunicazione intangibile è difficile misurare i risultati. Però risulta importante
riconoscere quale sia il ROI.

Importante il ruolo delle risorse umane, in passato importanti ma non come oggi. Si ha
un’attenzione massima verso i dipendenti, primi ambassador, se sono contenti, fungono come il
principale biglietto da visita.
L’obiettivo è quello di stare bene il dipendente perché a sua volta porta una serie di vantaggi
intangibili.

Tre livelli di comunicazione


Posizionamento vcross a tutti e tre i livelli
- Prodotto
Riguarda una referenza del brand, ad esempio pan di stelle. Non si deve sfociare nella
comunicazione commerciale.
- Brand
Riguarda una famiglia di prodotti, per esempio il mulino bianco, brand di Barilla, comunicazione
non dell’azienda.
- Corporate
Per esempio, Barilla, comunicazione del gruppo, tutto ciò che riguarda la comunicazione
dell’azienda deve avere un linguaggio specifico e riguarda l’attività di gruppo.

Piano di comunicazione
Partendo dal target devo capire a chi sto parlando, chi sono le persone interessate al prodotto, il
nostro fare, se non sappiamo chi è il target non possiamo fare una comunicazione adeguata per
esso.
Swot analyisis, i punti di forza e debolezza rischi e opportunità, serve per settare il background
del territorio. Si mandano dei messaggi che servono per evidenziare le criticità da gestire. Analisi
di benchmark, con brand affidato, vedere cosa fanno i competitor, ma anche altri con possibili
punti di contatto che risultano interessanti, non necessariamente dello stesso settore, aiuta ad
avere altre idee e non essere ripetitivi.
Necessario fissare degli obiettivi.
È necessario realizzare una strategia coerente con target e obiettivi fissati.
Fissare dei budget, la comunicazione costa quindi bisogna avere fisso un target per avere un
progetto.
Controllo dei KPI(key performance indicator) i più comunic sono le visualizzazioni, i commenti,
l’engagement rate.

Le relazioni esterne e altre discipline della


comunicazione

Le discipline della comunicazione sono il


- Direct marketing
Sostanzialmente il marketing diretto, nudo e crudo
senza strategie, propone un’offerta e richiede una
risposta. Attività base.
- Promozione
Propone una prova e richiede una sorta di piccolo
riconoscimento, con un nuovo prodotto per esempio.
- Pubblicità
In tutti i canali, propone un acquisto, un valore
- Sponsorizzazione
Associa il brand ad un evento sportivo, propone una percezione positiva subliminale
dell’immagine.
- Relazioni esterne
Chiedono consenso e approvazione dagli influencer

Le prime quattro rispetto alle ultime hanno in comune che hanno un intermediario, fanno una
proposta mentre le altre portano consenso. La vera grande differenza è che sono a pagamento.
Pagano per usare il filtro (che esiste sempre per arrivare al consumatore finale), per esempio il
computer, il televisore o il giornale, le relazioni esterne non pagano il filtro, per esempio
l’Amministratore Delegato fa un articolo sul giornale, l’azienda non paga il giornalista, che
pubblica l’articolo solo se rilevante.
Discriminante è il valore della notizia, più ha valore più ha spazio, pagano l’evento, ma non
direttamente il filtro.

L’azienda ha a disposizione quattro spazi, il proprio, dove scrive quello che vuole, i siti
condivisi, come i social dell’azienda, dove c’è una comunicazione a due vie, spazi a pagamento,
per i quali vige la pubblicità, la sponsorizzazione, spazi delle relazioni pubbliche sono quelli
conquistate, le ottengo in vario titolo e modo, se sono bravo.

Relazioni esterne
ER- external relation

Gestione di relazioni tra diversi soggetti


indipendenti che partecipano alla vita
dell’impresa. L’impresa ha una serie di
stakeholder che gravitano intorno, queste
persone sono dedite a comunicare con essi. Le
relazioni esterne sono tutte attività che al
grande pubblico non compaiono.

Gli stakeholder aziendali


All’interno delle aziende vi sono delle persone
preposte alla gestione dei rapporti con: le
istituzioni: Governo/Parlamento, Pubblica Amministrazione, Authority, Sindacati e ONG; la
comunità locale: Istituzioni locali e autorità locali e gruppi di opinione: Associazioni
consumatori, movimenti d’opinione e opinion leaders.
Allo stesso modo vi sono persone preposte alla gestione della comunità finanziaria: azionisti,
analisti, banche e investitori. Se l’azienda è quotata in Borsa è necessario un responsabile della
gestione dei rapporti con gli investitori.
Le pubbliche relazioni si occupano di gestire la relazione con la comunità culturale, il
pubblico interno, l’area commerciale, il mercato, la web community e i media.

Si dividono in:
- Relazioni istituzionali
Può essere a vario livello, provincia, regione, tutti le authority, con cui l’azienda ha rapporti
quotidiani, le ONG. Comunità lovali e i gruppi d’opinione, particolarmente importanti
Hanno il nome inglese di lobby e nascono tempo fa, si tratta del favoreggiamento, con attività di
pressione per un’azienda nei propri interessi, crea pressione sui governi affinché si prendano
determinate azioni. Tutte le imprese più importanti hanno un responsabile della lobby. Nel mondo
anglosassone sono molto più evidenti.
Il lobbista deve avere una grande credibilità
Fa un’analisi del macroambiente, dove si trova l’azienda a livello generale e le tendenze che le
circondano.
Successivamente si passa all’analisi del microambiente, quindi i competitor, e le mappe delle
influenze. Si tratta molto spesso di una persona con relazioni con il mondo politico.

- Relazioni con investitori


Azionisti, di riferimento se è famigliare, o pubblico se è quotata in borsa, in questo caso c’è bisogno
di uno investor relator manager, figura responsabile delle relazioni con gli investitori, che cerca di
coinvolgerli con il futuro dell’azienda. Un unico pubblico, molto particolari in quanto bisogna
essere specializzati in finanza.
Si occupa di finanza e marketing, ma anche delle risorse umane, della sezione legale e delle
relazioni pubbliche.
Mentre le pubbliche relazioni hanno come pubblico generale i giornalisti, gli investor relator
parlano con gli analisti, nelle banche. Spesso sono specializzati in settori e raccolgono i dati.
Risponde al CFO, perché si tratta di dati, relazioni finanziarie.

- Pubbliche relazioni
Mercato nel senso più ampio.
Le relazioni con il pubblico interno sono per lo più fatte dalle risorse umani.
Hanno come finalità quella di creare sviluppare e gestire sistemi di relazioni con i pubblici
influenti e dei singoli o realtà organizzate.
Singoli se si tratta di politici e le realtà organizzate sono le imprese, tutto ciò che non fa capo al
lobbista e all’investor relator rientra nelle pubbliche relazioni.
Le aree di competenza si dividono nell’azienda, con le informazioni corporate, i brand, prodotto,
sponsorizzazioni, testimonials, eventi e storia aziendale.
Dall’altra parte l’informazione indipendente, con i giornalisti gli influencer e le internet
communities, le relazioni si trovano al centro.
L’obiettivo è prendere qualcosa di sconosciuto e renderlo conosciuto, dall’azienda verso l’esterno,
renderlo ‘’notiziabile’’.
Deve creare un interesse dall’apatia, all’interno delle comunità, sempre più frammentate
attraverso campagne delle relazioni pubbliche.
Deve creare accettazione all’interno del pubblico, facendo cadere i muri del pregiudizio.
Dove c’è ostilità, difficoltà, portare il proprio gruppo onboard, spiegandone le caratteristiche. In
alcuni casi è più facile, come food e sport, in altre più complicato.

Le pubbliche relazioni abbiamo le attività di relazione ordinaria. Sono le attività proattive, le


campagne. Un’altra straordinaria, è quella della crisis managment.

Il settore della comunicazione


Tutti rapporti non a pagamento ma frutti dei rapporti delle persone all’interno dell’azienda.
È un settore a tutti gli effetti, ha dei player, delle testate e dei premi di settore.
È un settore B2B, hanno come cliente le altre aziende, si spartiscono le altre imprese. Mondo
sconosciuto al grande pubblico e molto concentrato oltre che ricco. Si sono creati dei network, con
una comunicazione più globale, specie nel campo della pubblicità. Network con uffici in molti
paesi.
Sono nati i big4, principali gruppi di comunicazione.
1. WPP: è il maggiore gruppo di comunicazione a livello globale con un fatturato di circa 16
miliardi di euro, ha sede a Londra ed quotato al London Stock Exchange e in parte al
NASDAQ.
WPP svolge diverse attività, tra cui integrated networks, brand consulting, media, public
relations & public affairs, data & insight, production e health & wellness.
2. Omnicom Group: è un gruppo americano, ha sede a NY ed è il secondo gruppo di
comunicazione a livello mondiale (circa 14 miliardi di euro di fatturato). Le attività svolte
sono le medesime rispetto a quelle svolte da WPP.
3. Publicis Groupe: è una società francese e rappresenta il terzo gruppo di comunicazione al
mondo, con un fatturato di 10 miliardi di euro. È quotata alla Borsa di Parigi ed è molto
amata dalle aziende francesi. Fa parte dei 40 titoli più importanti della Borsa di Parigi.
All’interno della holding ci sono poi diverse sigle: MSL è il brand delle relazioni pubbliche,
mentre Leo Burnet e Saatchi & Saatchi si occupano di pubblicità.
4. Interpublic Group: anche questo gruppo è di appartenenza americana e si colloca al
quarto posto, con un fatturato di circa 7,5 miliardi di euro.

Sono tutti quotati in borsa, con un investor, si sono strutturati tutti nello stesso modo.

Il fatturato ci dà la dimensione del peso dell’azienda.

All’interno di queste compagnie si possono trovare diverse società tutte specializzate nelle
discipline del marketing, in comune a tutte le big4.
I centri Media sono il braccio operativo dei network, che danno ai clienti le informazioni circa il
target e come deve essere realizzata la campagna.
La parte di data insight sono la rielaborazione dei dati, tutto viaggia intorno ai dati, chi fa
comunicazione deve avere i dati e delle società specializzate nelle analisi.
Public relations e affairs, fanno campagne di relazioni pubbliche.
Brand consulting, parte di design sono grafici che disegnano i loghi.
Production, la parte di produzione, più operativa, di produzione dello spot.
In relazione all’ambito sanitario ci sono delle norme e regole che bisogna seguire.

Non ci sono solo società internazionale, anche una serie di agenzie Italiane, ASSOREL.
Non hanno mediamente molte persone, poi si affidano alle agenzie esterne in outsourcing. Settore
piccolo. Associazione delle agenzie.
Ci sono le associazioni internazionali, ogni paese ha un’associazione di categoria che si
raggruppano poi in quelle internazionali. (ICCO)

Ci sono i giornali di settore, questi sconosciuti ai più, parlano delle campagne di pubblicità,
raccontano il settore.
Alcuni sono Spot and web, Ninja marketing, YouMark!
I media di settore all’estero sono le prweek, con parti a pagamento, Ad Age, e The Holmes Report,
provokemedia.

17.11.21
Presentazione Andreotti

PR- gestione delle media relation


Gli spazi sono conquistati tramite le relazioni con i giornalisti, il discorso social è un po’ diverso,
qui si parla rapporti con giornalisti professionisti, che lavorano per delle case editrici. Chi parla
con i giornalisti sono persone formate, che conoscono le dinamiche dei giornali, e le aziende
cercano di usarle come le loro news letter, diverso da quello del giornalista (che cerca lo scoop). La
bravura di un bravo ufficio stampa è quello di ricercare la notizia, capacità di scrittura.
Lo storytelling e la storia sono scritti, serve del materiale scritto da mandare ai giornalisti, ed una
serie di strumenti per veicolare le notizie, anche lì sta nella bravura del capo ufficio stampa. Non è
una scienza esatta, la stessa notizia in mano a diversi esperti darà risultati diversi.
Varia molto e si può distinguere un buon ufficio stampa da uno mediocre.

Pencils, acronimo di KOTLER definizione degli elementi principali delle pubbliche relazioni
Ogni iniziale sta per una delle leve delle PR:
- Pubblicazioni
- Eventi, amplificatori della notizia
- News, relazioni pubbliche vivono di notizie, delle capacità di scovarle
- Community, con cui l’azienda parla attraverso i social
- Identity, parte di attività che identifica l’attività della marca, visiva, coordinare la
definizione dei loghi, per esempio, l’ufficio stampa è il deposito di tutti gli elementi, come
corpo, font, che fanno di un brand la forza.
- Lobbying, a braccetto con le relazioni pubbliche, il mondo delle istituzioni, la lobby è più
vicino alle PR piuttosto che alle ADV
- Social

Relazioni media per le aziende


Un tool strategico che trasformando un evento aziendale in una notizia, permette di accrescere,
supportare, rafforzare la percezione e la visibilità dei prodotti dei servizi e delle persone che
rappresentano l’azienda.
L’ ufficio stampa è la voce dell’azienda verso i media
tradizionali e quelli digitali, parlando in maniera più ampia
possibile. Seleziona le informazioni più importanti e le
manda al mondo esterno, facendo da anello di congiunzione. Esiste una criticità, deve mediare il
compromesso, tra le esigenze dell’azienda e il mondo esterno. Situazione di equilibrio e difficoltà.
Dal lato dei giornalisti l’ufficio stampa è fonte di informazione diretta, senza prendere come oro
colato quello che dice l’azienda, ma verificando le fonti.
Tre tipi di ufficio stampa, il primo è quello strategico.
All’inizio dell’anno, tipo a novembre, c’è il piano strategico di massa per l’anno dopo, avviene con i
responsabili dell’ufficio stampa e i vertici dell’azienda, con le iniziative che vuole prendere
l’azienda, e in quale periodo. Il piano strategico vuol dire la word map dell’anno e definire i
momenti di comunicazione topici dell’azienda e come sfruttarli.
Tanto più programmo tanto posso aumentare la mia visibilità.
Ufficio stampa intermedio, progetto di comunicazione specifico, impossibile da programmare in
precedenza, ma ha bisogno di un discorso ad hoc. Attività molto reattiva e che ha a che fare con i
media.
Ufficio stampa tattico / di battuta, gestione giornaliera. È quello per esempio dei politici, che ogni
giorno hanno un programma diverso di dichiarazioni da elargire. Vivono di ora in ora. L’addetto è
sempre attaccato alle agenzie di stampa, canali privilegiati dove professionisti passano delle notizie
di informazioni, la più importante è l’AMSA.
Gli obiettivi dell’ufficio stampa si dividono in:
- Dare ai media notizie per costruire l’immagine dell’azienda;
- Raccoglie le percezioni esterne dai media. Si possono ottenere degli insight, considerandoli
degli amplificatori ma anche valorizzarli per avere informazioni dell’azienda;
- Identifica i contenuti delle notizie;
- Valuta l’interesse del target per la notizia, che varia in base al tipo di target e al tipo di
notizia;
- Selezionare i media a cui proporre la notizia. In Italia molto usata la televisione;
- Attiva il ciclo di diffusione delle notizie;
- Controllo dei risultati.
Due tipi fondamentali di ufficio stampa, il corporate, il quale obiettivo è generare comprensione
reciproca e un atteggiamento positivo tra l’azienda e i suoi stakeholder. Incidere sulla reputazione
aziendale e le notizie che riguardano l’azienda come gruppo, nel suo complesso.
Ufficio stampa di prodotto ha l’obiettivo di mantenere vivo il rapporto con i consumatori e
condurli all’acquisto.
La notizia.
La notizia è una risorsa da sfruttare nel miglior modo possibile.
La stessa notizia può essere proposta in modi diversi. Una notizia è il primo annuncio di qualcosa
accaduto di recente, di cui le persone non erano a conoscenza e di cui vogliono sapere di più.
Caratteristiche che definiscono una notizia.
- Unicità del fatto, anche in relazione al target
- Le possibili conseguenze sulla vita quotidiana delle persone e l’interesse generale delle
persone, i giornali vivono di pubblicità, ma il giornalista deve chiedersi anche se la notizia
interessa al pubblico e perché.
- Vicinanza fisica o psicologica.
- Possibilità di fare leva sulle emozioni, quanto storytelling c’è nella notizia e quali emozioni
posso suscitare.
- Gli sviluppi attesi della notizia, se avrà un seguito, se lancio un’iniziativa, la riproporrò o
morirà subito.
- Esclusiva, noi siamo in un mercato, quello delle notizie, il giornalista ha tutte le notizie che
gli arrivano e deve scegliere in base alle informazioni che ha, vale la legge della domanda e
dell’offerta. Avere l’esclusiva è negoziabile per avere uno spazio più ampio, più è diffusa
invece più piccolo sarà lo spazio.

Gli strumenti dell’ufficio stampa.


- Mailing list (lista di distribuzione), è un’operazione preliminare, di fondamentale
importanza per la diffusione dei comunicati stampa del press kit al target.
1. Testata,
2. Periodicità,
3. nome,
4. giornalista,
5. carica,
6. indirizzo,
7. cellulare,
8. e-mail.

Ufficiali
- comunicato stampa
È un testo sintetico che contiene le informazioni principali, utili a veicolare il messaggio aziendale,
il titolo deve contenere solo le informazioni principali, non deve essere uno slogan, le informazioni
principali devono essere incluse nelle prime 4-5 righe, la combinazione delle 5W dipende dal
‘’mood’’ del target e dall’effetto che si desidera generare. Virgolettato è la dichiarazione presente
sia nel comunicato che nella nota, che nella nota appare solo sostanzialmente.
- nota stampa
Più breve del comunicato, si usa molto spesso nell’ufficio stampa di battuta, perché ha
un’intrinseca caratteristica di velocità di diffusione.
- cartella stampa
È uno strumentato che serve per approfondire le informazioni sull’azienda, è flessibile ed
adattabile a diversi eventi aziendali, per esempio lancio di nuove collezioni.
- libro bianco
Riassunto di scenario su un tema specifico.
- studio scientifico
Contiene i risultati di una ricerca fatta da un’organizzazione pubblica o privata su uno specifico
tema scientifico.
- ricerca statistica
Permette di approfondire un tema attraverso opinioni e commenti.
- lettera a quotidiano
Lettera di smentita.

Esclusivo uso interno


- Q&A
Contiene le domande che potrebbero essere generate da una notizia e le risposte approvate.
- Position paper
Il position paper è un documento con la posizione ufficiale dell’azienda in relazione ad una notizia.

Le modalità di diffusione della notizia

Come l’ufficio stampa manda in circolo questa notizia.


Il comunicato stampa, conferenza stampa, briefing/viaggio stampa, intervista, annuncio non
ufficiale.
La scelta deve essere ponderata e motivata.
1. Diffusione del comunicato stampa
Viene diramato, dopo che il comunicato stampa è stato approvato dall’azienda. La diffusione che
deve essere pianificata a seconda della mailing list più adatta, sarà seguita dal follow up. La
diramazione va supportata.
Il taglio della notizia è importante bisogna individuarlo, taglio economico, gender gap, innovazione
o ecologia per esempio.
2. Conferenza stampa
È un incontro tra azienda e giornalisti, con un elevato livello di interazione dove un panel di
relatori tratta il tema della conferenza. Più rischiosa perché i giornalisti sono liberi di chiedere
quello che vogliono.
Gli aspetti principali sono un tema molto forte, un annuncio importante, si scelgono i relatori, con
un panel che incontrano i giornalisti, si scelgono ed invitano i giornalisti, dividere e preparare gli
interventi.
Si deve occupare dell’organizzazione, essendo piuttosto costosa, quindi bisogna essere sicuri di
avere degli elementi di copertura e di raggiungimento di un certo share. Preparazione dei
documenti.
3. Briefing per la stampa
Se la tematica da affrontare è più specifica, un briefing per la stampa o un viaggio stampa in una
location speciale è la più efficace di una conferenza stampa formale, il briefing per la stampa
spesso può avere il format dell’open day.
4. Intervista
I quattro elementi chiave sono l’intervistato, solidamente un AD, la testata e all’interno di essa il
giornalista, tanto più importante l’intervistato tanto più l’ufficio stampa ha scelta, e l’argomento,
bisogna prepararla bene.
5. Annuncio non ufficiale
Off the records, si utilizza in situazione di crisi o fuoriuscita di notizie.
Non molto apprezzata dalle testate straniere.

30.11.21 Andreotti

Reputazione

Si intende la percezione delle azioni passate e future di una azienda che ne determinano l’attività
generale negli occhi dei suoi interlocutori, a confronto con i principali concorrenti, non universale
ha tanti aspetti.
Tutto quello che fa un’azienda accresce ed aumenta la propria reputazione, manca uno scivolone
per creare problemi.
Questo determina l’attrattività generale, più è alta più c’è rispetto e trasporto, perché il
consumatore si fida.
Diverse reputazioni con quelle dei competitor.
La brand reputation non dipende solo dall’azienda, prima lo era, circa vent’anni fa, era più facile
gestirla. Con l’evoluzione tecnologica, la brand reputation è un processo collettivo, un co-creation
di tutti gli stakeholder, sia interni che esterni.
Con l’overload di informazioni l’azienda deve monitorare la propria reputazione, tenerla sotto
controllo, ci sono magari spesso delle conversazioni sottotraccia negative e che hanno impatti
negativi di cui l’impresa non è a conoscenza.
Un’azienda virtuosa sa gestire la propria reputazione. I responsabili della comunicazione
intercettano e controllano tutti i flussi.
Controllo, gestione e attività di costruzione sono i passaggi fondamentali per l’azienda.
Tre zone della comunicazione aziendale.
Zona 1. Comfort zone, l’azienda è protetta, nell’universo aziendale chiuso, dove si trovano i siti
corporate, i siti brand e i siti prodotto, dove l’azienda scrive ciò che vuole, senza interazioni o
attacchi.
Zona 2, universo aziendale aperto, in questo caso aperta al mondo esterno e agli interlocutori,
social media aziendali, il blog e le community
aziendali. L’azienda parla con altre persone, se ci
sono problemi tutti possono parlarne, situazione di
criticità.
Zona 3 dove l’azienda è fuori dal controllo social
media in generale, forum in generale siti esterni,
news, che formano la maggiore criticità.
Ogni strategia di comunicazione ha un obbiettivo
generale, quello di attirare l’attenzione, necessità di
attirare l’attenzione del consumatore  attention
economy.
Siamo completamente subissati da messaggi di marketing, in maniera disordinata in diversi settori
e aree, sempre meno tempo dedicato dalle persone a fruire dei contenuti.
Il tasso di conversione, fatta la campagna, quanto ho venduto e in cosa si è tradotta la mia attività.
Gli ordini, concetto commerciale, quanti ordini ha dai propri clienti, se non c’è strategia o ordine,
c’è la necessità di migliori risultati.

Gli strumenti
I dati, bisogna studiare dal punto di vista sociodemografico, interessi, abitudini, focus group,
bisogna partire dall’insight; la tecnologia, piattaforme device e tracking; la creatività, cioè
messaggi, i formati e i linguaggi, per attirare l’attenzione.
Bisogna essere time effective, il concetto di time to market, il tempo che l’azienda ci mette ad
arrivare sul mercato, più è lenta più rimane dietro ai competitors. Bisogna cavalcare i trend.
C’è bisogno di essere rilevanti, il trend deve essere utilizzato.
Spazio
Lo spettro di attività online che le aziende scelgono di realizzare per posizionarsi sul mercato è
diventato negli anni sempre più ampio.
Dipende molto dagli investimenti e dai soldi che ha a disposizione e dal tipo di azienda e dal
settore della sua attività.
Adv, Content marketing, Branded content, non classico di tipo spot, anche se forma a pagamento
ma molto meno costosa, ibrido tra relazioni pubbliche (storytelling) e pubblicità.
Digital PR, influencer marketing Social media, sono una via di mezzo, grande componente di story
telling.
SEO&SEM attività puramente tecnica di gestione della reputazione.

ADV su piattaforme social, native advertising, ha questa connotazione di essere ‘’furbo’’ si


inserisce un contenuto a pagamento in un flusso di notizie di interesse dell’interlocutore.
Forma di pubblicità contestuale, inserimento di contenuti pubblicitari all’interno di contesti
coerenti con questi ultimi e che cercano di omogeneizzarsi visivamente al contesto in cui si
inseriscono
I formati di native marketing sono importanti per l’utente:
- Hanno la forma del contesto in cui sono inseriti;
- Sono rilevanti per gli utenti;
- Non interrompono il processo di fruizione dei contenuti;
- Son ottimizzati per tutti i dispositivi e le piattaforme.
Tramite algoritmo viene continuamente analizzato il comportamento online dei consumatori, con
l’obbiettivo di creare cluster di target in base a demografica e interessi. Questo permette di
mostrare un contenuto che l’utente vuole vedere, nel momento in cui vederlo. Il sistema è super
efficiente in termini di raggiungimento dei target e spesa del budget.
Tramite social, i brand riescono a raggiungere il target tramite i dati che si lasciano, in modo da far
arrivare pubblicità mirata.

Influencer marketing da circa il 2018 c’è stato il boom, ora è una parte fondamentale di tutte
le strategie di comunicazione, non sempre l’azienda è preparata a farlo e spesso si affida ad agenzie
esterne, si dividono in 4 aree, i vip, le persone note al di fuori o che hanno fatto della rete il loro
successo; i vertical, dedicati ad un settore, ambito, in maniera molto connotata; le communities,
che gestiscono communities più ampie; micro-influencer, quelli di nicchia. Sono abbastanza
distribuiti fra loro.
Influencer digitale, virtuale, in realtà non esistono, sono avatar. L’influencer in house, sono i
dipendenti aziendali che diventano influencer e raccontano i brand, trend che unisce influencer
marketing e comunicazione interna.
Il problema delle aziende è che si devono affidare a delle agenzie specifiche, innanzitutto per la
fanbase, che deve essere un target specializzato e vero. In più cosa dire, quanti post fare, avere
un’agenzia aiuta proprio per avere una comunicazione giornaliera.
I criteri
Quello che dice l’influencer, deve essere
in linea con l’azienda, avere
sovrapposizione tra quello che dice il
brand e l’influencer. I followers devono
essere vicini al target da raggiungere,
anche se in termini valoriali è vicino,
bisogna scartare chi ha followers distanti
dal target. TOV (tone of voice) deve
usare lo stesso della comunicazione
aziendale. Insight e influence score,
capire che tipo di influenza può avere l’influencer e che impatto sul target. Content strategy, quello
che gli faccio fare o dire, come promuove il mio brand. Credibilità e professionalità, fake e chi
vuole truffare da evitare. Fit con il progetto e con quello che voglio dire, oltre al livello di
esposizione che voglio raggiungere.
Aree di criticità
Quello che può andare storto sono la misurazione del KPI, si rischia di non avere una strategia,
non c’è fiducia nell’influencer marketing, linguaggio molto giovane che quindi non ispirano le
aziende. Poca disponibilità dell’influencer e
quelli non idonei, perché si sbagli il criterio di
scelta
Gli obiettivi
Awarness, se lancio un nuovo prodotto devo fare
diventare noto il brand, grandi numeri (VIP e
celebrities)
Consideration, fiducia, prendo in considerazione
i consigli, (Mid-Tier Influencer)
Conversion, (Micro-Influencer) scatta l’acquisto
perché ambito più famigliare.
I messaggi che vengono recepiti sono pochi,
quasi 1 su 2.

SEO&SEM Search Engine Optimization, ottimaizzazione per motori di ricerca. Le agenzie


fanno in modo che il contenuto negativo scenda.  le strategie e le tecniche finalizzate a migliorare il
posizionamento di un sito internet tra i risultati organici, cioè non a pagamento, dei motori di
ricerca.
Il PageRank è l’algoritmo che regola, per motori di ricerca, l’ordine di visualizzazione delle pagine
in relazione alle keywords ricercare e tiene conto, fra gli altri, di:
- Numero di link che rimandano ad un determinato contenuto;
- Qualità del contenuto;
- Numero di visite che il contenuto riceve;
- Popolarità della ricerca.
Di conseguenza ogni notizia, positiva e negativa che sia rimane a disposizione nel tempo e i
contenuti sono facilmente rintracciabili.

Branded Content Viene arricchito di contenuti esterni, non parla da solo, non è la marca che
lo dice, ma il contenuto veicola il brand e lo fa arrivare ai consumatori.
Al contrario del Content Marketing, meo costoso e più approcciabile dalle aziende.
Il marketing vive di attività ‘’hard’’ nel senso pubblicità, televendite, che spinge all’acquisto, meno
della comunicazione e delle PR, il content marketing viaggia con i contenuti, non si parla del
prodotto ma di un mondo che il brand ci fa sognare, esempio di redbull.
Differenza: content marketing brand parla direttamente, branded content il contenuto veicola il
brand, lo percepisci ma non è quello l’obiettivo.
Social media Tutte le aziende sono sui canali social. Ancora ora non hanno capito cosa fare,
usano i social come catalogo di prodotti. Gli account sono spesso inutilizzati, molti social sono più
in disuso, perché datati, ora si usano social più recenti.
Primato, Italia più social di Europa in percentuale.
Ora come ora mobile va di più.
Focus importante sulle Stories, evoluzione poi con reels, anche i social cambiano e bisogna fare
una formazione ongoing, le piattaforme hanno interesse a proporre nuovi prodotti e servizi,
bisogna saperli usare.

Social media management


1. Definire la reason why
Un’analisi preliminare per mettere in chiaro obiettivi, strategie e contenuti. Stare attenti a non
mandarli in disuso, in quanto vetrina strategica del brand.
2. Definire lo scenario
Studiando i principali trend, le sfide strategiche nel settore di riferimento e l’attività dei
competitor. Con cognizione di causa, anche analisi dei competitors.
3. Studiare il target
I dati sociodemografici, capire chi si ha di fronte, analisi del listening, benchmark, le keyword, gli
interessi, e le abitudini, cercare di capire di cosa si interessa chi dovrebbe comprare il mio prodotto
e dove si documenta.
4. Pianificare il contenuto
Con strategie e piani ADV a supporto, lasciando spazio al real time e attività live.
5. Definire i KPI
Qualsiasi campagna deve avere degli obiettivi in termini economici e di ricezione del consumatore,
un ritorno sull’investimento, risultati che si vogliono ottenere.
Gli obiettivi di Awarness, sono la notorietà del brand (brand lift e awarness score) e copertura
(quante persone sono riuscita a raggiungere) per veicolare un marchio che ha bisogno di essere
supportato; Consideration, le metriche sono la durata e la visualizzazione del video, le interazione,
i messaggi e le installazioni dell’App; Conversion, vendita dei prodotti di catalogo, visite al punto
vendita, traffico sui canali web, lead generation, che tipo di output in termini di acquisti c’è stata.

2.11.21
LO STRATEGIC PLANNER - OSPITE DI ROSSELLA

STRATEGIC PLANNER e AGENZIA CREATIVA (incontro Ornella)


Agenzia creativa: è un luogo all’interno del quale i professionisti creano dei contenuti di
comunicazione o campagne pubblicitarie. Il processo è molto complesso e si caratterizza da tre
grandi attori: le agenzie creative ovvero coloro che pensano all’idea della campagna
pubblicitaria; le agenzie di produzione che vanno a produrre/registrare la campagna
pubblicitaria (es: costruttori set o attori) e le agenzie media che sono quelle che si occupano di
acquistare gli spazi su cui si mette in onda la campagna.
La figura del planner è presente, sebbene in forme diverse, sia nelle agenzie creative che nelle
agenzie media. Il ruolo di strategist nell’agenzia creativa e in quella media è diverso: nel primo
caso, lo strategist definisce le linee guida dell’idea creativa mentre nel secondo caso significa dare
le linee guida per individuare quelli che sono i canali migliori dove far sviluppare la campagna. Lo
strategist ha a che fare con i reparti marketing delle aziende. Di questi reparti le persone (i
clienti) che prendono parte alla produzione di una campagna pubblicitaria sono:
- Il direttore marketing
- Il marketing manager
- Brand manager

All’interno dell’agenzia pubblicitaria svolgono un ruolo importante:


- lo strategist: si occupa di strutturare la strategia di comunicazione; il suo ruolo primario è
di studio e riflessione.
- l’account ovvero quella persona che si occupa di tenere le relazioni dirette con il cliente
- i creativi: essi possono essere copy creatives e art creatives. Prendono il nome di
coppie creative in quanto lavorano insieme. I creative copy si occupano della parte testuale
mentre i creativi art sono coloro che si occupano della parte visuale.

Il processo di un’agenzia creativa:


All’interno dell’agenzia pubblicitaria si inizia a lavorare con il momento di kick off del brief del
cliente. Durante la sessione di client brief, il cliente si rivolge all’agenzia creativa presentando
quelli che sono gli obiettivi di marketing, business e comunicazione, qual è il target della campagna
e se vi sono dei KPI (Key Performance Indicators). Dopo questa sessione, inizia il percorso di
lavoro della strategist planner che analizza il consumatore, il brand, i competitors e il contesto
culturale e che serviranno poi per definire la strategia di comunicazione da adottare. Dopo questo
momento di analisi si arriva a produrre un creative brief, strumento in cui si sintetizza la
strategia di comunicazione. Cosi si indice la riunione interna di un’ora o due in cui vengono
convocati i creativi e il strategist da loro le linee guida rispetto a quella che è stata la sua idea. I
creativi a loro volta producono delle idee dando vita a un percorso in cui quest’ultimi presentano
delle idee allo strategist. Infine, si arriva a un punto in comune tra tutti e si ritorna dal cliente per
esporre la strategia comunicativa, dopo aver subito una revisione.

Strategist planner:
Esistono diversi nomi con i quali ci si può riferire al concetto unico di strategic planner: strategist,
planner o strategic planner.
Il planner è il membro dell’agenzia che si occupa di elaborare grandi quantità di informazioni, di
sistematizzarle e riunirle insieme al fine di risolvere il problema di marketing o di comunicazione
presentato dal cliente.
È l’esperto di brand, mercato e competition che ha a che fare con un’enorme quantità di
informazioni che è in grado di strutturare queste in un pensiero.
Uno dei principali obiettivo del planner è quello di interpretare e capire gli obiettivi che il cliente si
è posto e trasformarli in quelli che dovranno poi essere gli obiettivi di comunicazione. Il planner si
occupa di comprendere come passare da un business problem ad un communication objective.
Egli svolge un ruolo di “collante” all’interno dell’agenzia: deve saper mettere d’accordo ed ascoltare
le esigenze di tutti, ossia dell’account, dei creativi e del cliente. Lo strategist deve possedere sia doti
creative che una forte razionalità, al fine di risultare credibile agli occhi dei clienti ma anche di
comprendere le esigenze dei creative.
In sintesi, si può dire che le skills essenziali che uno strategist deve possedere sono:
1. capacità analitica (analytical mind)
2. capacità di elaborazione in sintesi
3. cultura
4. capacità di presentazione ed esposizione
5. diplomazia e capacità di ascolto
6. curiosità e interesse
7. capacità di ispirare gli altri (il creative brief deve essere prima di tutto
inspiring).
La task principale di un planner risulta quella di sviluppare strategie di marca e di
comunicazione che abbiano l’obiettivo specifico di risolvere un problema.
All’interno di un’agenzia creativa troviamo diverse tipologie di strategist:
- brand strategist
- data strategist: si occupa della ricerca e raccolta dati
- communication strategist: ha il compito di dare vita all’idea comunicativa all’interno dei
diversi canali di comunicazione.
- digital strategist: gestisce i vari canali digitali
- social media strategist: gestisce le strategie e i canali social
Tutti i planner fanno capo al brand strategist, il quale ha la responsabilità dell’immagine della
marca nella sua interezza.

Creative brief
Il creative brief è uno strumento fondamentale per la rielaborazione a livello strategico per
risolvere i problemi di marca. I creativi, in questo modo, vengono guidati nello sviluppo dell’idea.
È uno strumento di sintesi che deve informare ma soprattutto inspirare. Solitamente si
compone di una pagina che serve da mappa che guida il team creativo. Senza il creative brief,
tempo e sforzo saranno necessari in enorme quantità.
Il creative brief, nella sua semplicità, è molto difficile da redigere. Deve sintetizzare in modo
chiaro gli obiettivi di una campagna pubblicitaria. Questo perché il cliente apporta molti
messaggi all’agenzia creativa. La stiuazione standard che si verifica è che il cliente non ha molto
chiaro il messaggio della campagna o il target prioritario.
Esso si inserisce all’interno di un processo che segue i seguenti passi:
1. il team creativo presenzia alla
riunione di client brief e
raccoglie le informazioni
necessarie.
2. In agenzia viene fatta la
situational analysis e vengono
raccolti i dati necessari.
3. Durante una riunione che
comprende planner, account e creativi, si rielaborano tutte le informazioni all’interno di un
documento ufficiale che prende il nome di creative brief.
4. Inizia il processo creativo, vengono fatte una serie di altre riunioni interne e infine il team
ritorna dal cliente per la presentazione del documento.
Il creative brief è sia uno strumento, ossia il punto di partenza per l’intero processo di creazione di
un campagna, che un momento ovvero una riunione durante la quale il planner e l’account
spiegano ai creativi il documento stesso.
Spesso i creative brief non sono solo documenti scritti ma vengono dati anche stimoli attraverso
immagini e altri contenuti visuali. È, inoltre, uno strumento sintetico. Saper sintetizzare,
sacrificare e distillare alcune informazioni è fondamentale per redigere un documento adeguato.
La comunicazione pubblicitaria è fatta infatti di sintesi, in modo da trasmettere un messaggio
chiave, “single-minded” al consumatore.

Gli elementi chiave del creative brief sono: request, target, competition, problem, insight,
proposition, KPI, touchpoint, executional info, deliverables (in cosa la campagna prende
vita), budget e timing.
- Request: si sintetizza quelle che sono le richieste del cliente. È una descrizione coincisa
della richiesta formulata dal cliente nel Client Brief. Qualche volta, questa richiesta non è
cosi chiara in tutte le sue parti. La sezione request è importante perché comunque offre un
minimo punto di partenza per il lavoro dell’agenzia creativa.
- Target: il planner prende le decisioni importanti che possono determinare lo sviluppo della
campagna definendo il conceptual target primario. In questa sezione si descrive la
persona che i creativi devono avere in mente nello sviluppo della campagna pubblicitaria: è
la persona a cui si sta parlando e che è interessata alla proposta. Di solito, ci si
immagina una persona che si conosce oppure si crea un personaggio immaginario. Per
ispirare i creativi si vanno ad indagare i comportamenti dei consumatori e le loro abitudini.
- Competition: si descrive e analizza quali sono i category drivers del mercato e
dell’industry del brand. Quest’analisi è fondamentale perché permette di individuare degli
empty spaces ovvero le opportunità che si possono sfruttare sia da un punto di vista
comunicazionale o luoghi dove la merca si può posizionare. La descrizione in questo caso
non deve riguardare solo la “narrow category” ovvero la categoria a cui appartenogno i
prodotti che si vogliono proporre sul mercato ma deve tenere conto anche di “enlarged
category” che include prodotti anche di diversa categoria.
- Problem: una campagna di comunicazione rappresenta una soluzione a un problema di
comunicazione che si riesce ad individuare di una certa marca. Il problema di comunicazione
non riguarda il business o il marketing. Molte volte la comunicazione può essere una leva per
risolvere problemi di business e di marketing. Cercare un problema su cui costruire il
creative brief per un planner è molto difficile. Il modo in cui si scrive un problema è
fondamentale: si parte dal problem statement (identificazione del problema), how to
question (come risolvere il problema) e il why.
- Insight: deve rispondere al problema rilevato ed essere rilevante per il target. Esistono
diverse definizioni di insight: una verità largamente condivisa che sblocca la creatività;
una scoperta che racconta le motivazioni che sottostanno ad un’azione umana;
un’osservazione penetrante di un comportamento umano che offre una prospettiva nuova
del consumatore; a new way of viewing the world . Il più delle volte l’insight si riferisce al
consumatore ma soprattutto riesce a collegare il consumatore con il brand o problem da
risolvere. Trovare un insight è ancora più difficile: non deve essere banale e per definirlo
bisogna guardare il mondo in modo diverso. L’insight è una frase, non è un dato, non
è una semplice osservazione e non è lo statement di un bisogno. Si tratta della
capacità di penetrare una verità nascosta, liberando il pensiero creativo. È il
legame tra consumatore, brand e problema da risolvere che produce un lavoro efficiente.
È importante che l’insight non corrisponda a un’ovvietà: l’insight non è un semplice insieme di
dati, esso deve rappresentare qualcosa di nuovo. Non è nemmeno una pura osservazione, un
desiderio o l’espressione di un bisogno. È compito del planner scrivere un insight sfruttanfo anche
le proprie intuizioni.
Dati, osservazioni, bisogni e desideri sono il risultato di una semplice osservazione, l’undestanding
e il meaning di questi portono alla definizione dell’insight, ovvero il deep understanding dei fatti
che conferisce un significato a questi ultimi.

TRENDHUNTING:
Il trendhunting è la ricerca e monitoraggio dei trend. Quest’attività è importante perché
permette la definizione della strategia di comunicazione. In particolare, è importante sulla
definizione di tre livelli:
1. Target (a chi parlare): i trend possono ri-definire il target di riferimento, ampliarlo e
restringerlo.
Oggi si assiste a un active aging (un invecchiamento attivo). Gli active agers sono per la loro età
non troppo giovani ma neanche troppo vecchi. Sono persone che viaggiano e che riscoprono nuovi
hobby. È una fascia di popolazione che nel territorio italiano ha un potere d’acquisto molto alto,
pertanto diventa una potenziale audience per i brand.
2. Contenuti o messaggi (che cosa comunicare): un trend può ridefinire il modo in cui
comunica al target dal punto di vista della composizione e costruzione del messaggio
entrando in empatia con il target e cercando di creare rilevanza. Ad esempio, Under armour
ha riposizionato il trend sulla leva femminile (female empowerment)
3. Con quale mezzo (come comunicare): come un trend può impattare il modo con cui si
veicola il messaggio al target. Si rientra nella sfera delle competenze media. ES: Smart
Speaker (assistenti vocali) sono sempre più presenti nelle case e possono diventare un
nuovo mezzo di comunicazione. I trend possono cambiare il modo di entrare in relazione
con la marca, introdurre nuovi touchpoint, nuovi strumenti e nuove modalità.

Il gaming si preannuncia come la prossima frontiera per la comunicazione delle marche,


soprattutto sul target più giovane.
Il diversity and inclusion trend rappresenta il bisogno di rappresentare e celebrare ogni
sfumatura dell’essere umano, senza inutili censure. ES: l’Oreal con questo trend mirava alla fascia
di donne più agée che hanno un potenziale incredibile. Si tratta di un progetto editoriale che vede
collaborare l’Oreal con Vogue.

15.12.21

Comunicazione crisi d’impresa

È importante raccogliere le situazioni negative e trasformarle in e strategie di rilancio di


reputazione.
Ci sono crisi sia grandi, importanti, che minori che riguardano per lo più problemi organizzativi.

Appannaggio del mondo delle relazioni pubbliche, ci sono delle attività che società tentano di
accaparrarsi, sia in agenzie di PR che di pubblicità, la gestione dei rapporti con i giornalisti e crisis
communication sono solo in mano alle aziende pubblico perché richiedono delle expertise molto
particolari che possiede solo il PR.

Reputazione
Valore difficile da costruire, ma facile da perdere, è importante che l’azienda protegga la sua
reputazione.
La corporate reputation protegge il patrimonio di una società, svolge un ruolo sempre più
importante per gli investitori, e rafforza la fiducia dei consumatori nei prodotti e servizi
dell’azienda. La corporate reputation protegge il patrimonio della società, asset intangibile che si
deve proteggere, viene tradotto in una serie di item e sfaccettature che hanno un valore economico
e impatto importante sull’azienda. la reputazione attrae talenti migliori. L’azienda con la
reputazione migliore, con il maggior rispetto, può permettersi di scegliere tra i migliori. La
reputazione ha impatto molto positivo sulle vendite, le persone sono acquistate ad acquistare
prodotti di aziende con reputazione solida, oltre ai buoni prodotti, bisogna lavorare su questo
aspetto in quanto driver importante. Ai prodotti si da fiducia, ci si affida ad aziende con
reputazione elevata.
Premium pricing e consumatori fedeli
Non solo più vendite ma anche possibilità di chiedere un prezzo più alto, un’azienda su tutte è la
Apple.
È inglobato nella reputazione un aumento del prezzo, il consumatore ‘’premia’’ il marchio con un
prezzo maggiore in base alla buona reputazione. Ciò vuol dire anche un insieme di consumatori
fedeli, che si affidano ad un’azienda, i suoi ‘’love marks’’, sono meccanismi di acquisto non sempre
consapevoli, fidelizzare il consumatore fino a portarlo ad essere un ambassador della marca.
Valore economico importante perché consente di entrare in contatto con capitale di investimento a
minor costo. Possono accedere a costo capitale maggiore attraverso gli istituti di credito con
interessi minori rispetto ai competitors.
Questo si traduce nel lungo periodo in un vantaggio competitivo.
Tutto questo si traduce in profitti più alti. Alla lunga diventa quindi tangibile, in pase a tutti i
vantaggi del valore economico.
Risvolti economici importanti, la comunicazione deve apprezzata per difenderla, non bisogna farsi
trovare impreparati, perché altrimenti la reputazione crolla e si porta dietro tutti questi effetti che
diventano negativi.

Ci sono diversi fattori critici che influenzano la reputazione, uno tra questi è la globalizzazione,
anche questo aspetto è importante perché non ci si misura più all’interno di un mercato domestico
ma bisogna fare attenzione a culture diverse dalla nostra.
Altro fattore critico è l’era della ‘’crisi economica permanente’’ non solo con la pandemia, ma anche
prima dell’avvento del Covid19 e la situazione di emergenza, c’era questo concetto. Da un po’ di
anni si sono susseguiti una serie di crisi e scossoni che riguardavano sia il settore finanziario, di
debito pubblico, problemi di mercato, non si può dire che sia un momento facile per l’economia, le
aziende sono sotto pressione, che devono avere saldo comunque positivo.
Altri fattori sono una società maggiormente legata da valori, competente, meno deferente. Sono
sempre più coscienti, e guardano molto agli argomenti con prese di coscienza e di consapevolezza
che premono le aziende, chi non lo fa si trova ad avere problemi di reputazione. Altro fattore è
l’incremento della complessità di business e di regolamentazione. Regole nuove introdotte in ogni
momento che vanno a modificare il comportamento sia interno che esterno alle aziende, con una
complessità sempre più ampia. Migliori sono quelle che hanno interesse nel capitale umano, che
acquistano vantaggio competitivo per questo. Importante è l’impatto delle piattaforme social, di
scambio e condivisione. Fare impresa oggi è tutt’altro che semplice.
C’è sempre di più la ‘’search and peer review’’ le aziende devono gestire le revisioni e i commenti da
parte dei propri commenti, ambito sempre più aperto che ha questo concetto di ‘’navigare’’ in mare
tormentato dove tutti possono avere un’opinione ed esprimerla, molto facile da condividere,
difficoltà alta nella gestione.

Crisis or issue
Crisis è una situazione più complessa, elemento fondamentale è la prevedibilità o meno.
La situazione di crisis colpisce in maniera imprevista nell’attività di impresa.
Nel caso della issue l’azienda lo sa.
Da un punto di vista della comunicazione della gestione essere a conoscenza del problema, dal
momento che l’issue accadrà sicuramente, al contrario della crisis che potrebbe non accadere.
Essendo consapevole della presenza dell’issue, potrebbe essere per esempio la gestione di
licenziamenti. Si potranno attutire i colpi sulla reputazione e gli effetti negativi da questo
fenomeno, dato che crea sempre una situazione di disagio.
Esistono tutta una serie di tattiche sul quale preparare un piano di comunicazione a doc.
La crisis colpisce in maniera imprevedibile, anche se aziende più preparate sono in grado di
prepararsi e mappare le criticità.
Tipologie di crisi
- Prodotti difettosi
Recall di prodotti, attraverso la comunicazione si richiamano i prodotti in quanto difettosi. Il
prodotto non risponde per esempio a determinate norme di sicurezza. Essendo l’output principale
dell’azienda, comporta una crepa importante nel rapporto tra azienda e consumatore, con un
impatto importante sul brand.
- Condotta non etica del management
Ci tocca meno in quanto si conosce meno, colpisce la reputazione in maniera forte ma con altri
stakeholder, meno con i consumatori, più interessati ai prodotti finali. Ma sicuramente va a
toccare il mondo delle istituzioni e della finanza.
Al consumatore finale arriva meno questo aspetto della crisi che interessa invece molto l’ambito
finanziario e bancario
- Informazioni false
Fornire informazioni non vere sulla propria istituzione
- Data security
Con il fatto che i dipendenti si colleghino da dove non c’è un sistema di sicurezza adeguata, rete
informatica sconosciuta dai fruitori.
Dalla piccola crisi più banale di studenti che quelle di vaccini della lezione Lazio per esempio.
Per le aziende è un argomento molto aperto, soprattutto per quelle finanziarie.
- Corruzione, Evasione fiscale
Etica non corretta, ora spesso ci si scontra con situazioni di evasione fiscale più che con corruzione.
Aspetti che vanno sulla condotta etica sulle persone
- Inquinamento o disastri ambientali e incidenti
Esempio è la Costa Crociere, Tissan.
- Sfruttamento, discriminazione, mobbyng, politiche di genere
I brand non vogliono farsi trovare impreparati e devono assicurare ai fornitori e ai clienti di tenere
comportamenti etici. Attente alle condizioni di lavoro della manodopera.
Discriminazione tra livelli retributivi o situazioni di mobbying devono essere evitate. Le aziende
possono essere giornalmente sottoposte a situazioni di stress, sia interne con politiche di
personale, che esterne con i propri fornitori e stabilimenti.

Si va appunto da situazione di crisi più importanti e altro più controllabili e rimediabili.

Caratteristiche distintive della crisi

Ci sono caratteristiche distintive di una crisi, per primo


(1) l’effetto sorpresa, colpisce l’azienda nello svolgimento delle sue attività quotidiane. L’azienda
si può preparare tramite mappamento delle fragilità e come affrontarle.
(2) Informazioni insufficienti, l’azienda non ha abbastanza informazioni su cosa sia successo.
Molto spesso non si sa esattamente cosa sia successo e che tipo di problema o incidente si sia
verificato.
Altra caratteristica è (3) l’incalzare di eventi, quando si verifica un evento problematico gli
stakeholder vengono coinvolti, con una serie di eventi che vanno ad influenzare l’attività aziendale.
(4) Perdita di controllo, per esempio il data security, che impiegano tempo per essere
riconosciuti e sistemati.
(5) Mentalità da stato di assedio, quando non ha informazioni e deve reagire, in questo caso
l’ufficio stampa può giocare un ruolo importante, se c’è stata un’adeguata preparazione e
previsione.
(6) Focalizzazione sul breve termine, l’azienda sbagliando si focalizza sugli eventi che
riguardano la crisi, ma è importante darsi un obiettivo a medio/lungo termine.
(7) Digital, complessità da parte delle aziende di gestire queste crisi è elevata, è fondamentale
comprendere che le informazioni online comportano dei benefici, ma anche un’esposizione
pubblica, da cui non è possibile sottrarsi, rende le aziende più vulnerabili, non si scappa.
Una buona gestione dei ‘’social media’’ è diventata un asset essenziale per avere successo e nello
stesso tempo la principale minaccia di quel successo. Il social amplifica le comunicazioni, mentre
se la situazione è negativa, il social può amplificarla.

Le crisi si propagano in maniera velocissima, presente dopo sei ore su news e mainstream, in
tempo reale, su BBC, Rai, o twitter ma anche sullo sharing, su social, dopo 12 ore, e editorial,
giornali, dopo 18.
Le aziende non sono preparate nell’epoca digitale alla gestione di crisi, in 4 casi su 10 la crisi è una
completa sorpresa, non c’è la cultura della gestione in anticipo della crisi, ignorano la presenza di
possibili elementi critici. In media le aziende impiegano 21 ore prima di diffondere una
comunicazione esterna significativa e più di 48 ore in un quinto dei casi di incidente.
A livello organizzativo, e con lo stato di assedio, se non c’è una leadership diventa difficile prendere
posizione e le imprese impiegano troppo, mentre il flusso comunicativo è più veloce.
5 aziende su 10 non hanno un piano di comunicazione in caso di crisi.
Le aziende più strutturate fanno una mappatura delle criticità.
Partono dal settore di appartenenza, a seconda della tipologia dell’azienda, della tracciabilità delle
materie prime e dei dipendenti, dei fornitori, che seguano comportamenti etici non inquinanti. In
base a queste analisi possono creare un piano di comunicazione di crisi, un manuale con delle issue
con livelli di rischio, con bozze di comunicati stampa approvati dal top manager, un buon ufficio
stampa poi si occupa anche di aggiornarli in maniera più o meno frequente, questo perché se
succede, più delle volte previsto ma anche prevedibile, il comunicato è pronto e si riducono i tempi
di reazione. Se l’azienda non parla ma tutti gli altri attori coinvolti parlano, la comunicazione va
vanti senza che l’azienda abbia degli spazi, la cosa peggiore è intervenire con una dichiarazione
sbagliata.
Solo la metà delle aziende ha il materiale per la comunicazione già pronto e solo 1 su 5 h eseguito
un esercizio di simulazione.
Con la situazione di crisi si può prendere il top manager i vari direttori del personale, dei sistemi
informatici, degli stabilimenti ecc. e si fanno delle simulazioni per capire come sarebbero in grado
di reagire ad una situazione critica.

Esempio di recall di prodotto Spinaci Bonduelle ritiro lotti, nonostante alla fine non fossero
difettati.
Nissan Renault per il comportamento del manager, arrestato per falso.
McDonald fa causa al proprio ex CEO per relazione con dipendente.

1- Mantenere la calma nei momenti di crisi, avere la situazione sotto controllo;


2- Le informazioni sono cruciali, quindi l’ufficio stampa ha il dovere di raccogliere i dati e
ricostruire la dinamica, in casi di eventi più critici, quello di andare ad elencare i fatti in
concreto;
3- Non scappare e parlare con cautela con i giornalisti;
4- Riportare la posizione aziendale, con trasparenza, il position paper viene usato in questo
momento;
5- Essere onesti e mantenere un’etica. Il consumatore è disposto a perdonare se l’azienda
chiede scusa;
6- Evitare l’effetto ombra, quindi limitare l’impatto al brand che è stato coinvolto, proteggere
gli altri in modo che non ci sia un impatto anche sugli altri.
7- Gli aspetti umani, le persone prima di tutto, soprattutto in situazioni di lutti con crisi
importanti, vicinanza.

Potrebbero piacerti anche