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Marketing

Politiche di marketing e valori d’impresa (Fiocca, Sebastiani) + appunti delle lezioni

Il marketing nell’economia e nella gestione d’impresa (capitolo 1)


• Marketing// diverse componenti nella mentalità comune– pubblicità, vendita, strategia, analisi di
mercato. Multiformità del concetto di marketing, difficile da perimetrare in un ambito definito, perché
ha a che fare con una serie di discipline e tematiche eterogenee. È sicuramente legato al concetto
di mercato ed è un orientamento complessivo à funge da zona di permeabilità tra l’interno e
l’esterno dell’organizzazione.
¯ Insieme delle conoscenze, delle competenze, delle attività e degli strumenti utilizzati dall’impresa
ai fini della creazione di valore per i diversi stakeholder (in ultimo il consumatore finale, ma poi i
partner, i distributori ecc) e per la società in generale, attraverso la comprensione, la gestione e il
controllo delle relazioni con il mercato. ~ mette in collegamento l’interno con l’esterno: decisivo per
l’impresa agire considerando la centralità delle dinamiche di mercato
• Definito così, è evidente come la sua funzione sia rilevante all’interno delle organizzazioni: sin dagli
anni ’50 il fatto che senza i clienti e il mercato l’organizzazione non sussiste è chiaro, come lo è
tuttora. La finalità dell’impresa è infatti quella di “creare e mantenere i clienti” (Drucker, 1954)
• Il marketing consente all’impresa di analizzare i mercati, di formulare le decisioni più adeguate e di
verificare i risultati che l’impresa ha ottenuto con le sue politiche di mercato.
• Concetti base
1. Marketing è un orientamento complessivo dell’impresa, prima ancora di essere un insieme di
tecniche e strumenti cfn “filosofia di marketing”
2. Il marketing è una disciplina d’impresa con connotati e caratteristiche di intensa interdisciplinarità:
economia, sociologia, psicologia, statistica, informatica, storia economica, politica, diritto ecc.
3. “Insieme di competenze, conoscenze, attività e strumenti” va letto alla luce della suddivisione delle
azioni di marketing in due componenti: la prima di carattere conoscitivo, volta soprattutto
all’individuazione e alla comprensione analitica delle caratteristiche dell’ambiente, e la seconda di
tipo strategico e operativo nella qualche vengono predisposte le decisioni e i metodi.
4. Il mercato è il punto di riferimento dell’attività d’impresa ed è costituito da un insieme di attori – clienti,
intermediari, concorrenti ecc. Gestire il mercato allora significa in primo luogo gestire le relazioni tra
gli attori che lo compongono. Le relazioni intrattenute con i clienti assumono un peso maggiore nei
mercati caratterizzati da un forte grado di concorrenza: si parla di “relatività” nel senso che un’attività
di marketing non può essere ottima o pessima in assoluto, ma piuttosto migliore o peggiore a quella
attuata dai concorrenti.
5. Una gestione approfondita e appropriata delle relazioni di mercato si basa sulla conoscenza, oltre
che del mercato, delle caratteristiche, delle capacità e delle potenzialità dell’impresa.
6. Per consuetudine si distingue tra: marketing strategico, volto a comprendere le decisioni il cui
impatto si ripercuote nel lungo periodo; marketing operativo, che ha invece il compito di attuare le
decisioni prese a livello strategico utilizzando nel modo più appropriato gli strumenti del marketing
mix.
7. La relazione con il mercato va impostata e condotta con grande continuità, infatti il successo
dell’impresa dipende primariamente da due componenti: il posizionamento distintivo e l’eccellenza
esecutiva nella quotidianità delle relazioni con il mercato.
8. L’obiettivo ultimo è la gestione dei processi di generazione di valore per tutti gli stakeholder, per
questo il marketing deve essere esercizio di metodo e di rigore e nel contempo di inventiva e
creatività.
• Evoluzione del pensiero e della pratica di marketing

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- La stessa parola marketing (da “to market”: portare al mercato) evoca la stretta vicinanza tra il
marketing e i commerci e la considerazione che il marketing è logicamente collegato con le attività
e con le relazioni di scambio. In effetti, fin dagli inizi della storia dell’uomo si sono svolti processi di
scambio, prima attraverso il baratto, poi con la moneta. È di fatto con la Rivoluzione industriale e
la nascita delle imprese modernamente organizzate che si intravedono le forme iniziali di un
orientamento al marketing.
- Il concetto di marketing inizia nei primi anni del ‘900, quando le tecniche di produzione di massa
sono sempre più diffuse (c’è infatti una domanda crescente e maggiore dell’offerta) – orientamento
alla produzione: si cercava di rispondere alla domanda di mercato, con prezzi bassi e attraverso la
catena di montaggio cfn Ford modello T. La funzione del marketing era quindi cercare un prodotto
sempre più in linea con le disponibilità della domanda. L’orientamento alla produzione è oggi tipico
per i mercati emergenti, dove allo stesso tempo sono presenti relazioni di mercato molto statiche,
per cui l’intensità della concorrenza è ancora minima e le esigenze della domanda non risultano
particolarmente evolute.
- Negli anni ’20 e a cavallo con gli anni ’30 c’è una risposta all’azione di Ford: si voleva uscire dal
vincolo dell’unico modello (solo “nero”), quindi General Motors inizia a differenziare l’offerta
attraverso nuovi colori – orientamento al prodotto. Questo avvenne perché se con l’avvento delle
tecniche di produzione di massa i problemi di produzione erano risolti, allo stesso tempo queste
tecniche produttive generavano prodotti standardizzati, che non sempre incontravano il gusto dei
clienti. La moda è oggi un classico esempio di settore orientato al prodotto, dove ancora
l’innovazione di prodotto è un elemento focale: il marketing quindi ha la funzione di stimolare
l’innovazione all’interno dell’azienda. Si riscontra quindi nei casi in cui gli aspetti tecnici e di
performance del prodotto tendono a prevalere, e quindi il cliente è in grado a comparare i prodotti.
- Siamo negli anni ‘30/’40: Man mano che aumenta la concorrenza, e quindi la domanda comincia
ad evolversi, il problema diventa come proporre velocemente i volumi generati al mercato –
orientamento alla vendita. Il presidio della fase di commercializzazione è un aspetto ancora chiave
per molte aziende: avviene quindi nei mercati caratterizzati da ampi volumi, che devono supportarsi
attraverso notevoli investimenti in attività di promozione.
­ Questi primi tre orientamenti partono dalle caratteristiche e dagli obiettivi all’azienda, cercando
poi soluzioni rivolgendosi al mercato. Queste tipologie di orientamenti possono essere pericolosi:
se si guarda troppo all’interno, si rischia di perdere di vista l’interlocutore. Nell’agosto del 2020
Toshiba chiude la sezione personal computer (era un benchmark)– avevano perso di vista la
relazione con l’interlocutore. La stessa fine hanno fatto Nokia, Kodak ecc
- L’orientamento al mercato viene definito negli anni ’60 negli USA: abbiamo un cambio di
prospettiva, lo sguardo è quello dell’interlocutore. Il passaggio logico del marketing moderno è lo
spostamento della prospettiva dall’azienda al consumatore. Questa prospettiva necessiterà di un
metodo, di alcuni steps. Questo è il metodo più completo ed è tipico per le imprese operanti in
settori caratterizzati da una concorrenza molto intensa e dinamica e che si confrontano con una
domanda molto sofisticata ed esigente. Il successo concorrenziale qua si avrà cercando di
comprendere le esigenze dei clienti e di adeguare l’offerta alle mutevoli necessità della domanda
fino al limite della personalizzazione.
- Dagli anni ’90, l’orientamento alla sostenibilità allarga lo sguardo al contesto che il consumatore
vive, così come al livello delle diverse istanze che il mondo moderno pone (il problema ecologico,
il divario di qualità della vita ecc). C’è infatti un trade off tra i bisogni personali e quelli collettivi, che
vanno uniti.

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• Gli orientamenti d’impresa:
- Orientamento alla vendita – il punto di partenza è l’azienda, il focus sono prodotti che esistono già
(già prodotti dall’azienda appunto), lo scopo è vendere e promuovere quei prodotti e il risultato è il
profitto attraverso un elevato volume di vendita – la domanda diventa dunque: quanto il mercato è
disposto ad acquistare?
- Orientamento al mercato: il punto di partenza è il mercato, il focus sono i bisogni dei consumatori
(a monte del bisogno c’è il valore che il consumatore gli dà), lo scopo è il marketing integrato (si
mettono in campo più risorse – processo di marketing management), il risultato è il “profitto”
attraverso la customer satisfaction, cioè un cliente che riconosce il valore del prodotto e quindi è
disposto a pagare ~ capovolgimento della prospettiva.
!! I diversi orientamenti non devono indurre a formulare giudizi di valore: il ricorso alle logiche e agli
strumenti del marketing deve essere contestualizzato alle condizioni dei mercati per cui in alcuni ambiti
possono essere preferibili certi orientamenti piuttosto che altri.
• Presupposti del marketing: essi sono considerati quasi degli assiomi fondanti il concetto di
marketing.
1. Il primo è legato alla domanda che si origina dai consumatori e dai clienti: man mano che si
consolidano esigenze più elevate, bisogni più intensi e personalizzati, diventa maggiore la
necessità per l’impresa di affinare le sue capacità di lettura e di interpretazione del mercato e in
parallelo di generare elementi di differenziazione concorrenziale.
2. La concorrenza: esiste una correlazione positiva tra intensità e dinamismo concorrenziale e
fabbisogno di marketing. Nei settori caratterizzati da una elevata intensità competitiva, l’utilizzo di
una logica di gestione guidata dal marketing è indispensabile e spesso le attività di marketing sono
molto visibili. A cosa è dovuta la competizione sempre più accesa e complessa? Abbiamo detto
che l’effetto è positivo, sia per il mercato che per le azienda, perché sviluppa l’innovazione. Anche
per il consumatore, che ha più vasta scelta, attenzione però ad orientarlo. Anche per i prezzi, che
sono tendenzialmente allineati. Se l’azienda non sa come muoversi in questo contesto, il mercato
diventa saturo: il marketing serve a gestire questo. Certamente internet ha aumentato la
concorrenza, perché ha reso trasparenti le offerte dei competitor.
3. Presenza di continue condizioni che provocano situazioni di cambiamento, in quanto il
cambiamento è uno dei fattori di maggiore stimolo allo sviluppo del marketing. Il cambiamento è
caratterizzato da quattro elementi fondamentali à la varietà: la domanda è più sofisticata, i mercati
sono sempre più maturi, le esigenze sono sempre più eterogenee – differenziazione dell’offerta,
addirittura personalizzazione; la variabilità: la domanda si esprime in modo variabile, cioè a volte
si orienta verso l’acquisto di prodotti standardizzati, a volte invece sofisticati Es. case con mobili
Ikea/di design, mondo Virgin – il marketing cerca di dare degli imput alla produzione, attraverso
osservazioni sui comportamenti d’acquisto; l’interdipendenza: tra i diversi attori della domanda e
tra le filiere, “no business is an island” – impone al marketing di attivare team interfunzionali,
piuttosto che fare scouting di nuove start up per poter attivare modelli di offerta che si adeguino a
quella varietà e variabilità; l’imprevedibilità e l’indeterminazione delle risposte del mercato: non è
più pensabile che a una certa azione del marketing corrisponda automaticamente a una reazione
del mercato, i consumatori sembrano dare risposte “random”, questo riguarda anche le reazioni
della concorrenza – il compito qui è pensare e lavorare in modo real time, flessibile, anche per
trovare modalità alternative per dialogare con il mercato. Ne deduciamo che oggi al marketing sono
chiesti tantissimi e svariati compiti. Es. di un colosso che ha sbagliato a causa di questi fattori:
Ferrero con i Nutella Biscuits, non ha saputo calcolare bene i volumi della domanda
(sproporzionata rispetto alle previsioni)
Es. rapporto Coop che viene pubblicato annualmente, sui consumi italiani (dati ottenuti tramite
surveys tra il mese di luglio e agosto): su quali voci di spesa ha risparmiato rispetto a un anno fa e
su quali voci risparmierà anche quando le condizioni miglioreranno? I pasti fuori casa sono diminuiti
(54%), il focus delle persone rimarrà sulla casa; il potere dei grandi brand si sta un po’ perdendo,
per il riconoscimento del valore di altri fattori, non solo strettamente legati all’immagine, perché c’è
stato uno switching verso le marche del distributore; meno viaggi all’estero, questa è una delle
bolle che rientreranno più velocemente; l’intrattenimento extra domestico (cinema, teatri, musica).
Dai cambiamenti della domanda, emergono diversi approcci: non tutti scelgono di risparmiare sulle
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spese alimentari (18%), magari bilanciandosi con l’homemade (35%) e poi si ricerca la sicurezza
nei prodotti e nei pack (34%), così come una maggiore propensione agli acquisti online (23%). Poi,
altri aspetti: il benessere personale cresce (per i consumi alimentari significa il fresco), ma anche
la sostenibilità (soprattutto sul packaging) e poi l’italianità/localismi.
¯ In tutto ciò, in un’ottica di natura prospettica, si situa il concetto di finestre strategiche// opportunità
“visibili”, ma di breve durata, che si presentano all’impresa, la quale deve essere nelle condizioni
di poterle cogliere. Se così non accade, le finestre si chiudono o peggio, se sono sfruttate dai
concorrenti, l’immobilismo dell’azienda trasforma un’opportunità del passato in una minaccia del
presente e del futuro. L’emergere di finestre strategiche può essere principalmente ricondotto a tre
fattori: i consumatori (cioè i loro comportamenti d’acquisto e di consumo e l’evolversi dei gusti e
delle esigenze del mercato), la tecnologia (sia di prodotto che di successo) e l’evoluzione del
sistema distributivo (che incide sulla vicinanza tra domanda e offerta)
à I presupposti del marketing determinano una forte presa di coscienza, da parte dell’impresa, sulla
necessità di un orientamento al mercato
• Obiettivi del marketing: l’obiettivo fondamentale e prioritario dell’orientamento al mercato è la
creazione di valore per gli stakeholder di riferimento. Cos’è il valore, dal punto di vista del
consumatore? Value in-use: la differenza tra i benefici che trae dall’utilizzo del sistema dell’offerta
dell’azienda e i costi che servono per fruire di quell’offerta e utilizzarla (costi non solo monetari, ma
anche psicologici ecc). I benefici possono anche essere di tipo simbolico, ad esempio legati
all’immagine di marca, o di tipo accessorio (Es. ricette dietro un prodotto alimentare), o in termini
di rassicurazione (all’interno del punto vendita e non). à Spostiamo lo sguardo dal valore che
l’azienda pensa che sia intrinseco al suo prodotto, al valore così come percepito dal consumatore:
è un aspetto fondamentale, può cambiare la modalità di approcciarsi al mercato. L’orientamento al
marketing nelle decisioni d’impresa contribuisce alla generazione di valore, evidenziando
l’esistenza di tre obiettivi specifici (pur se tutti riconducibili all’obiettivo primario della generazione
di valore):
1. Ricerca continua della soddisfazione del cliente: quando il valore atteso è minore o uguale al valore
percepito, abbiamo soddisfazione. La soddisfazione ci interessa perché fa diventare un
consumatore meno sensibile al prezzo, quindi più disponibile a fare un sacrificio economico e di
conseguenza si hanno costi minori a livello di comunicazione promozionale. La soddisfazione del
cliente è infatti il punto d’avvio per ottenere un’elevata performance di impresa: esiste una
correlazione positiva tra customer satisfaction e business performance. In particolare, si è
evidenziato che superiori livelli di customer satisfaction determinano un maggior ritorno sul capitale
investito (ROI) e un più elevato tasso di crescita della quota di mercato.
2. Ottenimento di un vantaggio competitivo duraturo e difendibile: Ci sono poi dei meccanismi sottili
che generano atteggiamenti nel cliente, come la fiducia, che poi di fatto ha un impatto sullo stesso
meccanismo di riacquisto – la fedeltà è l’espressione comportamentale della fiducia. E poi, fedeltà
anche nell’acquistare nuovi prodotti o linee di prodotto ricollegabili allo stesso brand: è da questi
meccanismi indiretti che si genera un vantaggio competitivo stabile nel tempo. I prodotti e i servizi
possono essere imitati, molto più difficile è farlo su una base di clienti fedeli (è infatti un asset che
si calcola per le azioni di un’azienda).
3. Perseguimento della redditività di lungo periodo: basata, di conseguenza, su questa base di
vantaggio competitivo che è dato da una corretta relazione con il mercato e da alti livelli di customer
satisfaction.
¯ Riconoscimento di ciò che ha valore per il cliente à traduzione in un sistema di offerta per cui il
cliente arriva a riconoscere quel valore à si genera la soddisfazione à si genera un atteggiamento
positivo, che è la fiducia à che si traduce in un meccanismo comportamentale che è la fedeltà à che
darà luogo a una base clienti, sulla quale l’azienda costruirà il suo futuro sul mercato. !! Questo
meccanismo può incepparsi se l’azienda non continua a presidiare che cosa ha valore per il cliente.
• Ampliamento e diffusione del marketing: il concetto e le finalità del marketing sono di così ampia
portata che nel tempo hanno trovato applicazione in campi sempre più estesi. Vediamo ad esempio
il business marketing (o marketing industriale), che riguarda la gestione delle relazioni nei mercati
formati da altre imprese e non dai consumatori finali; il marketing dei servizi, nato dall’applicazione

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del marketing nel settore dei servizi (parliamo quindi di una sotto categoria del marketing,
focalizzata sulla vendita di qualsiasi cosa che non sia un prodotto fisico); il trade marketing, che
riguarda la gestione dei rapporti di canale e le relazioni tra industria e distribuzione; il marketing
internazionale, indispensabile supporto metodologico e di conoscenza per le imprese che operano
nei mercati internazionali; marketing sociale/no-profit/territoriale/dell’arte e della cultura ecc à alla
base comunque ci stanno i principi base del marketing
• Generare valore: la parola “valore” possiede una miriade di significati e in economia aziendale,
d’impresa e in management il concetto di valore è presente da tempo, anzi, tali discipline sono
nate al fine di generare valore, sostenendo concettualmente le attività d’impresa.
- Fonti che generano valore: fonti conoscitive, c’è bisogno di conoscere il contesto in cui l’azienda si
muove, le dinamiche della domanda e delle concorrenza; fonti interpretative, il marketing
management non solo deve raccogliere le informazioni, ma deve dare loro senso (questo è il valore
aggiunto dei manager); fonti organizzative, infatti il marketing è sempre più pervasivo nell’azienda;
fonti imprenditoriali, si parla sempre di più della necessità di manager che siano anche imprenditori,
cioè che abbiano anche la capacità di raccogliere tutte le risorse intorno a un progetto, per farlo
funzionare; fonti di controllo, tutto quello che abbiamo detto va misurato e controllato, cioè si deve
verificare se l’azienda sta generando valore, a cui il cliente dà riconoscimento.
- L’azienda è in grado poi di generare un continuo valore per il cliente se riesce a svolgere in modo
opportuno tre macroprocessi critici: processo di differenziazione (occorre sempre monitorare il
mercato per capire che cosa ha valore e differenziare quindi la propria offerta da quella che già
esiste sul mercato), processo di innovazione (occorre trovare modi sempre nuovi per pensare al
prodotto, alla leva prezzo, alla distribuzione ecc), processo di comunicazione (quando ho generato
il valore, posso comunicarlo ai dipendenti e ai clienti !! arriva dopo).
- Dopo il momento di trasferimento di valore al mercato, il processo di creazione di valore esce dalle
responsabilità dell’impresa e viene gestito dal cliente: egli cerca un coinvolgimento diretto nella
generazione del valore, tanto che il valore esiste solo se percepito dal cliente, non meramente se
costruito dall’impresa. Così, l’orientamento al mercato non può prescindere dal coinvolgimento del
cliente che gioca un ruolo attivo all’interno della filiera di produzione del valore. La nuova
focalizzazione sul value-in-use piuttosto che sul tradizionale value-in-exchange consente di
adottare una prospettiva realmente customer centric e obbliga a ripensare in modo radicale la
configurazione dei processi di marketing, evidenziandone la continua sequenza circolare (dal
cliente all’impresa e dall’impresa al cliente).
• Il marketing a supporto della sostenibilità dell’impresa: le attività poste in essere dalle imprese nella
relazione con il mercato (cioè le attività di marketing), hanno sicuramente contribuito a determinare
quelli che Scott definisce i tre divari fondamentali che caratterizzano il mondo contemporaneo – il
divario tra il grado di sfruttamento delle risorse fisiche e naturali della Terra e la loro disponibilità
(divario ecologico); divario tra il soddisfacimento dei bisogni individuali e quello dei bisogni collettivi
(divario di qualità della vita) e divario tra ricchi e poveri (divario sociale, politico e strategico). Cosa
può fare il marketing? Innanzitutto rendersi conto che l’apparente paradosso tra capacità di
competere in un ambiente completo e investimento sul campitale ambientale e sociale è risolvibile,
attraverso l’adozione di una prospettiva di interdipendenza tra le ragioni del business e le istanze
dello sviluppo sostenibile. Dunque il vantaggio da ricercare non sarebbe più soltanto la
massimizzazione del profitto, ma la creazione di un valore equilibrante, che media il
raggiungimento del profitto con la soddisfazione degli individui, l’utilità sociale, il rispetto
dell’ambiente. Il marketing può fornire il suo contributo alla sostenibilità d’impresa in quattro aree
prioritarie: sistema integrato di offerta, che si traduce nell’applicazione delle logiche di sostenibilità
a tutto il processo di progettazione del prodotto/servizio e delivery; presidio del valore creato, cioè
monitoraggio costante del processo di generazione del valore e della sua equa distribuzione tra i
diversi stakeholder; gestione integrata e coordinata delle relazioni con gli stakeholder, ora basate
su chiarezza, trasparenza e bidirezionalità, e tese ad eliminare gli squilibri di potere; educazione
alla sostenibilità, cioè sviluppo della conoscenza e della consapevolezza delle istanze della
sostenibilità presso i diversi stakeholder.

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Processo di marketing e processi d’impresa (capitolo 2)

• Nel tempo il marketing è diventato un metodo di approccio per la gestione del rapporto impresa-
mercato. Abbiamo bisogno di un metodo, soprattutto se l’impresa è orientata al mercato, perché
mantenere la prospettiva del mercato è difficile, è meno intuitivo. Quando si parla di processo di
marketing si intende una somma di sottoprocessi, integrati tra loro, che avvengono
contestualmente.
• Il processo di marketing si inserisce nei più generali processi che guidano le attività dell’impresa,
per questo è necessario che esso risulti strettamente collegato alle altre funzioni aziendali
dell’impresa.
• Seguire un processo significa avere un riferimento continuo nelle analisi necessarie per prendere
decisioni, rispettando una sequenza che consenta di evitare dimenticanze ed errori, cioè
minimizzare i rischi (che esistono a causa della complessità delle variabili). Al rigore metodologico
dovrò ovviamente associarsi una dimensione creativa e ideativa, volta ad interpretare in modo
originale i fenomeni del mercato.
• Abbiamo due grandi fasi per quanto riguarda la attività di marketing
1. Fase analitica e conoscitiva (50%): il manager raccoglie una serie d’informazioni sul mercato e
sulle capacità e competenze distintive dell’impresa
2. Fase decisionale o di marketing management (50%): a sua volta suddiviso (vedi dopo) nelle
dimensioni strategiche e operative.
Queste due anime chiave sottendono anche le anime e le competenze di coloro che operano nel
marketing. Es. mondo degli yogurt: era un mondo molto routinario, con alcuni new comer. Negli
anni ’80, Müller coglie una parte del mercato, cioè capisce che solo il 60% degli italiani consuma
yogurt e quindi si domanda quale è il valore che il 40% non percepisce: era percepito “troppo
dietetico”, quindi la creatività è stata capire che bisognava comunicare l’idea di un dessert più
piacevole, appagante. La Müller, avendo un contenuto di panna, ha un sapore più intenso: a partire
da questa essenza di prodotto che c’era già, si è andati a beccare quel 40% di mercato,
introducendo gusti nuovi, venduti singolarmente (così da poterli provare tutti), prezzo da marca
premium, scelta di essere subito presenti in tutti i punti vendita, idea creativa di comunicazione che
lavora sulla sensazione/emozione. à Va monitorato il mercato e poi si deve lavorare in chiave
creativa.
• Abbiamo bisogno del sistema informativo, cioè una struttura che organizzi le informazioni previa
rielaborazione dei manager e del sistema di valutazione, reporting e controllo, per capire se l’azione
che abbiamo fatto è giusta (al contrario, ridimensionarla).
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• Per questo, il processo descritto si fonda su due meccanismi: il sistema informativo, che deve
fornire le misure in merito alle condizioni e al modo con cui l’ambiente evolve e al funzionamento
(in termini di efficienza e di efficacia) delle variabili di marketing proposte dall’impresa; il sistema di
valutazione, reporting e controllo dell’azione
di marketing, senza il quale non si avrebbe
misura dell’effettivo raggiungimento degli
obiettivi dell’impresa.
• Step fondamentali: analisi à macrofase
decisionale fatta da sviluppo di strategie e
traduzione operativa à controllo risultati Es.
Ferrero: strategia di creare long-lasting
products e di rimanere nel settore del
cioccolato.
¯ Il processo di marketing si articola dunque attraverso le fasi classiche di qualunque processo di
management: analisi, pianificazione, realizzazione e controllo

• Fase analitico-conoscitiva

- Si analizza da un lato l’ambiente interno, l’impresa – capire quali sono le risorse materiali e
immateriali di cui essa è dotata, per capire cosa può permettersi di fare e cosa no (le potenzialità)
~ capire gli asset strategici dell’azienda; dall’altro lato l’ambiente esterno, interpretazione (di
fenomeni già evidenti) + comprensione, anticipo, generazione di tendenze (per volgerle in positivo
per l’azienda stessa).
- L’analisi si declina nel macroambiente, cioè tutte quelle forze esterne su cui l’azienda non ha la
possibilità di agire (ma che comunque la influenzano) e il microambiente, cioè l’insieme di tutti gli
attori che compongono la filiera e l’ecosistema in cui l’azienda vive.

- È l’ambito delle forze esterne quello che appare più complesso e articolato, soprattutto se si
considera che l’impresa deve essere vista come un sistema relazionale aperto verso l’esterno e

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quindi: esiste e si sviluppa facendo leva sulle possibilità e le potenzialità presenti (anche allo stato
latente) nell’ambiente; e viceversa l’ambiente è influenzato dalle imprese.
- L’analisi dell’ambiente non produce informazioni oggettive in assoluto, ma esse sono sempre
mediate dalla soggettività percettiva e interpretativa del management.
Es. Tesla (nasce nel 2003): quali sono le forze del macroambiente a cui ha guardato per generare
il suo business? L’ecologia e la sostenibilità/guida sicura: ambiente naturale e socioculturale; gli
ecoincentivi che gli USA avevano introdotto per l’acquisto di auto elettriche; l’evoluzione delle
soluzioni tecnologiche; ambiente economico (risparmio rispetto al costo del petrolio, anche se il
segmento delle auto elettriche di lusso non riguarda consumatori che hanno problemi di
disponibilità economiche)
¯ Impresa, macroambiente: ambiente fisico (risorse naturali del territorio), politico-istituzionale
(sindacati, disciplina della concorrenza, regolamentazione dei prezzi, normative a tutela del
consumatore ecc), economico (inflazione, reddito degli individui/famiglie, politiche fiscali ecc),
tecnologico, socio culturale (valori, norme sociali ecc) e demografico (numerosità, densità,
distribuzione in base alle variabili). L’analisi dell’ambiente va fatta con rigore, cercando di non
tralasciare nulla. Non tutti gli ambienti sono importanti per tutte le aziende (ad esempio, l’ambiente
demografico non è importante per Tesla)
Es. Eataly: nata a Cuneo dal fondatore di Unieuro (Farinetti), come il progetto di creare un punto
vendita dove gli associati slow food potessero andare a fare acquisti; come scegliere i fornitori?
Dovevano rappresentare delle eccellenze sul territorio ma anche avere le risorse di volume
necessarie; tutto questo contenuto di eccellenza è stato comunicato al cliente, anche non associato
slow food; i concorrenti di Eataly praticamente non esistono, è un’esperienza differente (forse
Naturasì, o Il viaggiator goloso), i tre pilastri infatti sono eat (mangia), learn (impara) e buy.
L’obiettivo iniziale era quello di far recuperare agli italiani il gusto di alcuni prodotti (per questo c’è
la ristorazione). Parliamo di interdipendenza in questo caso perché il fondatore si è associato a
slow food e Coop, in quanto del settore alimentare non sapeva tanto.
¯ Impresa, microambiente: concorrenti, fornitori, intermediari commerciali, clienti/utenti finali,
distributori/clienti intermedi (da qui muove il trade marketing), altri stakeholder (potenziali partner
ecc). In particolare rispetto ai clienti, è necessario che l’impresa faccia un’analisi compiuta,
considerando il cliente in tutte le sue dimensioni (qualitativa, quantitativa, razionale, emozionale,
statica, dinamica, presente e futura) – il cliente è anzitutto una persona.
à L’analisi esterna serve a decidere quale azione strategica sarebbe opportuno adottare, mentre
l’analisi interna serve a valutare quale strategia è possibile attuare stanti le caratteristiche
dell’impresa.
- Il compito più difficile è forse quello relativo all’analisi del microambiente, perché corrisponde alla
ricerca di “conoscere sé stessi”. L’analisi delle proprie risorse parte da una sorta di inventario di
quelle disponibili per capire quale contributo possano dare alla strategia dell’impresa. In questo
senso possiamo distinguere tra risorse tangibili (finanziarie o fisiche), intangibili (conoscenze
tecnologiche, reputazione, fiducia, relazioni) e umane. Le risorse però vanno trasformate in
competenze attraverso le routine organizzative dell’impresa: le core competences, cioè le
competenze distintive dell’impresa, rappresentano i fattori che possono generare un vantaggio
competitivo duraturo e difendibile. Cfn cap. 7
- La logica è: quale è la modalità migliore da utilizzare per l’azienda? Ci sono modelli di tipo diverso,
approcci di tipo saltuario (Es. focalizzazione temporanee su alcune tematiche per sviluppare nuovi
prodotti), ma anche controlli regolari (Es. analisi per quarter sull’andamento delle vendite) e
continui. Quello che si suggerisce comunque è un approccio continuativo alla relazione impresa-
mercato. Da qui, è possibile evidenziare quattro orientamenti fondamentali che le imprese
solitamente adottano in questa fase del processo di marketing
a) Nel caso in cui l’impresa operi in ambienti complessi da interpretare e difficili da modificare,
l’approccio è quello dell’osservazione indiretta, spesso attraverso l’attivazione di alleanze tra più
imprese, anche tra loro concorrenti.
b) Qualora l’ambiente sia instabile ma comunque modificabile dall’impresa, come nel caso di mercati
nuovi e/o frammentati, l’analisi è volta a definire una o più rappresentazioni possibili dell’ambiente

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futuro. L’attività di monitoraggio è quindi discontinua, nel senso di focalizzava volta per volta sugli
elementi che in quel momento caratterizzano le dinamiche evolutive dell’ambiente.
c) Quando i mercati sono stabili e caratterizzati da un limitato cambiamento, ad esempio nel caso di
imprese presenti in settori molto concentrati, è essenziale l’analisi e il controllo costante della
concorrenza
d) In presenza di mercati stabili ma oggetto di cambiamenti l’approccio di norma adottato è
tipicamente esplorativo, tramite analisi in profondità.
- Ci focalizziamo su due strumenti a disposizione dei manager, che favoriscono l’avvicinamento alla
fase decisionale
1. L’analisi di scenario: viene utilizzata quando è difficile prevedere l’evoluzione delle dinamiche di
settore, o dei trend socioculturali, o delle normative. Uno “scenario” delinea una situazione futura
possibile o verosimile attraverso l’organizzazione logica e coerente di un gruppo di variabili tra loro
interdipendenti. Tendenzialmente abbiamo qua a che fare con i fattori del macroambiente. Essa è
infatti uno strumento che cerca di prospettare le dinamiche di evoluzione futura dell’ambiente.
L’analisi di scenario nasce negli anni ’70, quando il contesto era più prevedibile: oggi le aziende la
usano in una logica di futuri scenari possibili rispetto ai quali le aziende si potranno trovare a
prendere decisioni. Ci sono tecniche di tipo quantitativo e qualitativo: le prime hanno a che fare
con le trend impact analysis (colgono attraverso approssimazioni e analisi statistiche le evoluzioni
degli scenari futuri), le seconde invece con le crossing impact analysis (interpretazioni di tipo
qualitativo che aiutano ad individuare i trend fondamentali che vanno monitorati e capire quali sono
le sfide possibili e gli elementi che hanno maggiore probabilità di verificarsi). Esiste una tecnica di
analisi di scenario che attinge al coinvolgimento di una serie di esperti: il metodo, in una prima fase,
identifica i fattori del macroambiente, poi vengono 8/10 esperti a cui vengono sottoposte delle
domande aperte per approfondire le dinamiche evolutive del contesto di interesse per l’azienda, in
ultimo le risposte vengono trascritte, unite in un unico documento e “divise” in frasi – le affermazioni
che otterranno l’80% degli esperti saranno ritenute vere, quindi con un alto grado di probabilità di
futuro avvenimento. Va seguito uno schema logico attraverso il quale giungere alla costruzione
dello scenario: individuazione delle forze trainanti (soprattutto del macroambiente) che potrebbero
essere in grado di cambiare la situazione attuale, identificazione degli elementi caratterizzati da un
alto grado di probabilità, identificazione dei fattori di incertezza (triggering factors) e infine
creazione di uno o più scenari a partire dai fattori di certezza attraverso l’esplorazione degli spazi
di opportunità basati sulle possibili combinazioni dei fattori di incertezza.
2. La SWOT analysis: si focalizza sulla situazione attuale o appena passata. Coinvolge sia i fenomeni
legati al macroambiente che a quelli legati al microambiente – occorre un momento di sintesi per
poi avere una condivisione anche con altri soggetti dell’organizzazione. Innanzitutto si ha una
esplorazione dell’ambiente (environmental scanning), alla quale segue la raccolta di dati (anche
se questo è fatto dal manager in continuità): si dà ad ogni informazione una valenza positiva o
negativa i termini di impatto sullo sviluppo del business dell’azienda; alcune informazioni
provengono dall’interno dell’azienda (i suoi punti di forza e quelli di debolezza), analogo lavoro si
fa per l’analisi del contesto esterno (opportunità e minacce). Non si fanno delle ipotesi quindi, ma
analisi derivate da dati sull’ambiente (environmental analysis). Il secondo step è quello di dare una
priorità a questi fattori individuati, perché le informazioni sono tantissime (una priorità in termini di
impatto) – si dà quindi una valutazione ed una interpretazione delle informazioni. È uno strumento
molto utilizzato all’interno delle aziende, perché molto utile per fare chiarezza. Es. Alfablue (startup
che vende swim tracker): forza – specializzazione e capacità di fare partnership, debolezza –
vincoli della dimensione aziendale, opportunità – interesse del target giovani sportivi e molteplicità
di aziende nel mercato che tendono a fare network, minacce – nuovi competitor. La matrice SWOT
è uno strumento semplice per aiutarci a connettere le decisioni strategiche (che arrivano dopo) alle
analisi: le strategie ci faranno capire se vale la pena lavorare su un punto di forza, di debolezza
oppure un’opportunità o una minaccia.

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Esercitazione analisi SWOT, il mercato dei soft drink – il caso Yellow: il caso è di fantasia, ma il
mercato e i suoi dati sono reali. Il punto sarà poi capire quale strategia dovrebbe perseguire
l’azienda. Punti di forza: aroma unico (ingredienti in una logica di differenziazione e sugar free),
provenienza locale, promozione di valori come la sostenibilità ambientale, distribuzione soprattutto
in GDO, internazionalizzazione (è già posta in essere!!), partnership, storia del brand,
focalizzazione su una nicchia (conoscenza del mercato), attivazione di orientamento al mercato
(dal 2020). Punti di debolezza: vincoli dimensionali (mercato di nicchia), packaging da rivisitare,
quota di mercato limitata, mancanza di altri canali distributivi (soprattutto in Italia), mancanza di e-
commerce, orientamento sul prodotto, pochi investimenti, comunicazione essenziale. Opportunità:
aumento consumi bibite salutari, caratteristiche del settore (dinamico), cambiamenti dei gusti dei
consumatori, aumento consumi bevande vegetali (85 ml di litri), aumento consumi energy drink,
sensibilità del consumatore alla sostenibilità, attenzione all’alimentazione/prevenzione stress,
crescita del segmento health conscious/forever young/vegani, mercato tedesco. Minacce: mercato
competitivo e concentrato (le prime 4 aziende detengono il 70% del mercato), piccoli produttori
intendono crescere, bevande gasate in lieve calo, competitor con packaging sostenibili, nuovi gusti
creativi nei competitor, mercato italiano (bassi consumi bevande gasate).
¯ Le strategie deriveranno dal capire come incrociare i punti di forza e di debolezza con la
possibilità di cogliere delle opportunità o evitare delle minacce Es. lavorare sul bergamotto per
creare gusti nuovi e quindi rispondere ai competitor (con gusti nuovi appunto); l’e-commerce non
potrà essere una strategia immediata perché mancano le risorse economiche; lavorare sul
packaging per rispondere alla sensibilità crescente dei consumatori; lavorare sulla nicchia di
mercato, ad esempio concentrandosi sul segmento degli health conscious à la SWOT ci aiuta a
rappresentare le informazioni sulle quali prendere delle decisioni. Poi c’è da domandarsi: a quale
strategia dare la priorità? Forse il packaging è l’intervento a breve periodo più facile, o anche
insieme lanciare una nuova linea di prodotti per un segmento. Ci orientiamo nelle decisioni
strategiche e poi a cascata su quelle tattico-operative. à L’analisi SWOT dà in ultimo uno schema
di sintesi nel quale vengono riportate le opportunità e le minacce ambientali, messe a confronti con
i punti di forza e di debolezza dell’impresa.

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• La fase decisionale/ il marketing management: dobbiamo distinguere tra le decisioni strategiche –
le decisioni di segmentazione del mercato, la targetizzazione e il posizionamento ~ marketing
strategico; e le decisioni operative, cioè quelle legate alle leve del marketing mix (prodotto,
promozione, prezzo, distribuzione ecc) ~ marketing operativo. A questa distinzione, forse a volte
ambigua, è più chiaro affiancare quella tra scelte (decisioni che si assumono) e attuazione delle
scelte compiute.

- Si parte dall’identificazione e dalla definizione delle caratteristiche del prodotto/servizio offerto, si


verificano i costi e gli investimenti che si sono accumulati e parallelamente il valore che che si è
riusciti a generare à il risultato finale è riconducibile, in sintesi, al concetto di valore
- A queste leve del marketing mix corrispondono dunque dei processi di creazione di valore:
processo di co-creazione del valore intrinsecamente legato al sistema di offerta (prodotto),
appropriazione del valore (prezzo), rappresentazione del valore (comunicazione/promozione),
misurazione del valore (distribuzione). Con questa fase, e con quella di controllo, si chiude il
processo di marketing management.
• La fase di controllo dei risultati: è un momento doveroso del processo, ma anche il potenziale inizio
di un successivo processo di marketing. Esso consente infatti di verificare l’avverarsi delle
condizioni ipotizzate, ma non solo, anche ad impostare e/o modificare la politica di marketing per
il futuro.
• Tre processi d’impresa e di relazione con il mercato: l’analisi di ciascuno di questi processi può far
comprendere le ragioni del successo o dell’insuccesso dell’impresa.
a. Processo di generazione del valore per il cliente (d’uso e di scambio): questo processo è centrale
e prioritario per ogni impresa orientata al mercato. L’intero processo può essere definito come
l’insieme delle analisi e delle decisioni che consente la comprensione, la progettazione, la
costruzione e il trasferimento fisico e d’immagine di soluzioni (incorporate nel prodotto/servizio)
idonee a risolvere al meglio l’insieme di problemi che il cliente sta affrontando. Il valore generato
per il cliente è relativo a tre dimensioni tra loro strettamente legate: il miglior uso possibile delle
risorse disponibili (cfn efficienza), la capacità di risolvere i problemi del cliente (cfn efficacia) e gli
spazi di opportunità che si aprono per l’impresa (suo sviluppo futuro) e il cliente (in termini di attività
sempre più evolute).
b. Processi innovativi: ogni innovazione, anche la più semplice, è frutto di un processo e si svolge
seguendo diverse fasi che prendono avvio con le attività che possono consentire la nascita e
l’individuazione di nuove idee. Le nuove idee possono avere due sorgenti diverse, la tecnologia e
il mercato. Appare decisivo quindi mantenere una relazione con il mercato, durante tutti i momenti
del processo di innovazione, dall’idea al lancio definitivo del prodotto sul mercato: è proprio
l’inimitabilità delle relazioni con i clienti costituisce il momento saliente su cui un’impresa può
fondare un importante differenziale competitivo.
c. Processi di trasferimento del valore e di adattamento del cliente: spesso si tratta della fase
terminale del processo d’interazione con il cliente. Può essere molto semplice o estremamente
onerosa, dipende da come il tutto sia o meno il frutto di un’armoniosa piuttosto che tesa relazione
impresa-cliente.

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Il ruolo chiave dell’informazione e delle ricerche di marketing (capitolo 3)
à Senza l’informazione non è possibile un’efficace ed efficiente relazione con il mercato, nel senso
che senza informazioni corrette, consistenti e tempestive il processo decisionale di marketing è
potenzialmente destinato a produrre risultati erronei o inconsistenti.
• Abbiamo detto che il sistema azienda orientato al mercato non può prescindere dal potersi avvalere
di un sistema informativo // un insieme di elementi che concorrono alla trasformazione dei dati in
conoscenza di marketing finalizzata al conseguimento degli obiettivi aziendali e al monitoraggio
dei processi a essi connessi. I dati sono modi di esprimere fatti e oggetti, mentre le informazioni
consistono in fatti e in dati organizzati per descrivere una particolare situazione o condizione.
• Il ruolo dell’informazione è decisivo in ogni livello del marketing management, perché fornisce
supporto per ogni decisione d’impresa. Bisogna capire come gestire tutti i flussi informativi, e quindi
trovare dei criteri. Il primo criterio è la correttezza, in particolare rispetto alle metodologie di raccolta
delle info, per evitare errori; l’efficacia, cioè la capacità dell’informazione di rappresentare la realtà;
l’efficienza, cioè l’utilizzo ottimale delle risorse per elaborare le info, valutando un corretto rapporto
tra il costo dell’info e valore della stessa a supporto del processo decisionale. Il processo
decisionale di marketing ha bisogno di informazioni corrette per non produrre risultati erronei o
inconsistenti. Il “sistema azienda” deve quindi avvalersi di un sistema informativo dedicato che
trasformi i dati in conoscenza di marketing.
• Momenti pilastri per la creazione di questo sistema informativo: valutazione del fabbisogno
informativo necessario, definizione delle modalità di raccolta e archiviazione dei dati (data
warehouse// magazzino di dati aziendali), la scelta degli strumenti da utilizzare per l’elaborazione
di dati (data mining// processo che valuta i dati, trova associazioni e relazioni nascoste ecc) e la
loro trasformazione in informazioni e infine la definizione delle soluzioni operative per la
distribuzione e la condivisione dei dati ~ magazzini di dati aziendali, detti “sistemi di business
intelligence”// la business intelligence è quel processo che si genera per trasformare quelli che
sono ancora dati (strutturati in database operativi) in info utili e in conoscenza, in grado di
indirizzare le scelte aziendali.

• Una particolare forma di business intelligence è il sistema informativo di marketing, imprescindibile


quando l’azienda ha a che fare con una molteplicità di info e una complessità del mercato. Bisogna
quindi disporre di una struttura composta da attrezzatura, procedure e persone (manager e non
solo che alimentano il sistema). Il suo obiettivo è quello di raccogliere, classificare, analizzare e
distribuire (agli operatori di decisioni di mercato) delle informazioni pertinenti, tempestive ed
accurate. Un esempio è il sistema di customer relationship management, cioè quelle strutture che
consentono all’azienda di mantenere un rapporto con i propri clienti: è una struttura che connette i
momenti del marketing management all’ambiente di marketing, cioè fa da tramite tra i manager
dell’azienda e il mondo esterno.

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• Il sistema di creazione/sviluppo delle informazioni: gli ambiti in cui le informazioni con cui lavora il
sistema informativo di marketing sono generate coincidono nei seguenti quattro sottosistemi – le
rilevazioni interne, cioè le info che vengono prodotte all’interno dell’azienda (magari anche a fini
amministrativi Es. fatturato di un cliente); marketing intelligence, l’attività di mappare le dinamiche
di cambiamento a livello micro e macro per captare le finestre strategiche; modelli di marketing,
che nelle forme più semplici sono procedure per ottimizzare e allineare i diversi attori nell’azienda,
nelle forme più complesse sono anche modelli econometrici (mettono in relazione dati sui prezzi e
sulle vendite); ricerche di marketing/market research, processi ad hoc finalizzati a raccogliere info
originali che servono per comprendere meglio le dinamiche legate a certi cambiamenti del mercato
¯
• La ricerca di marketing// la raccolta, la registrazione e l’analisi sistematica dei dati riguardanti
problemi relativi al marketing di beni e servizi. Esso è uno strumento molto potente che permette
di colmare una serie di lacune informative cui il sistema informativo di marketing non potrebbe
supplire diversamente e soprattutto sondare ambiti che altrimenti non potrebbero essere indagati.
Ci sono diverse tipologie di ricerca: ad hoc, quando c’è un problema specifico rilevato e quindi
l’azienda commissiona all’istituto di ricerca una ricerca molto dettagliata ed esclusiva (costo molto
elevato); multiclient, ricerca che viene commissionata ad un istituto da un gruppo di aziende (non
acquisiscono l’esclusiva dei dati) che contribuiscono allo sviluppo di un progetto di ricerca e che
ricevono informazioni di carattere generale rispetto alle caratteristiche di specifici mercati o settori;
omnibus, spesso è l’istituto di ricerca che propone alle aziende, sulla base di una ricerca multiclient
già avviata, la possibilità di inserire in un questionario alcune domande specifiche sulla singola
azienda (che deterrà i suoi dati). È possibile che l’istituto di ricerca lavori su una base di panel, un
campione continuativo di consumatori sulla base del quale vengono analizzati e definiti i dati che
compongono la ricerca multiclient/omnibus.
• Tipologie di dati e fonti informative: la selezione delle fonti informative diventa un tema prioritario
per garantire la costruzione di un sistema informativo di marketing efficace ed efficiente. Una prima
distinzione va fatta tra: dati primari, cioè quelli che vengono ricercati specificatamente per risolvere
una carenza informativa, anche detti field ¹ dati secondari, cioè quelli che sono già stati prodotti e
resi disponibili, anche detti desk. Tra i dati primari interni possiamo provare i dati provenienti dalla
marketing intelligence (relativamente facili da acquisire, con costo contenuto); tra i dati primari
esterni ci sono quelli che derivano dalle ricerche di marketing; i dati secondari interni sono
provenienti dai sistemi contabili ed extra contabili (Es. calo delle vendite); i dati secondari esterni
sono invece provenienti da fonti istituzionali private e pubbliche (da qui si può sviluppare una
ricerca di marketing desk)

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• Le fasi del processo di ricerca (ad hoc): definizione del problema (cioè del fabbisogno informativo),
definizione del modello di ricerca, definizione del metodo di raccolta dei dati, fase di rilevazione dei
dati sul campo, elaborazione dei risultati, stesura del rapporto (sintesi dei risultati emersi) e la
presentazione dei risultati al committente della ricerca.
1. Definizione del problema: è una fase critica, perché non sempre il manager è consapevole del
reale problema decisionale al quale vuole dare una risposta, quale è il vuoto informativo che vuole
colmare con la ricerca. Il problema aziendale deve essere tradotto adeguatamente nel problema
della ricerca. Ci sono tre momenti chiave utili: lo sviluppo di una ipotesi di ricerca (la comprensione
di quale è il problema e delle sue cause), l’individuazione delle research questions (quali info
vogliamo raccogliere, la loro priorità, le tipologie di fonti) e la delimitazione degli ambiti della ricerca.
Questo darà luogo a un brief, documento in cui il problema viene definito in termini di: oggetto
preciso della ricerca, obiettivo della ricerca, target di riferimento, tempistiche, budget ecc.
2. Definizione del modello: si definiscono le caratteristiche e la tipologia di ricerca che si vuole
realizzare e che può avere diversi approcci. Un approccio di tipo induttivo (conoscenza generale
derivata dall’osservazione di n casi particolari Es. analisi di un nuovo mercato/nuovo concept di
prodotto – il limite è la difficoltà nello scegliere i casi) VS deduttivo (verifica di teoria generale
andando a guardare n casi particolari Es. valore del brand, customer satisfaction – il limite sta nella
scelta dei criteri alla base della teoria e nella definizione delle ipotesi). A questi due approcci
corrispondono altrettanti modelli di ricerca: ricerca esplorativa (esplora un fenomeno, ne
comprende le caratteristiche Es. fenomeno nuovo per il settore/azienda), ricerca descrittiva (misura
un fenomeno, ne si osserva la quantificazione) e la ricerca causale (approfondisce le relazioni
causa-effetto nei fenomeni analizzati).
3. Definizione del metodo: in questa fase si definiscono le fonti informative da utilizzare, quali sono i
metodi di ricerca più indicati e gli strumenti per la raccolta dati. I metodi di tipo qualitativo si
preferiscono quando si deve comprendere a fondo un fenomeno, dunque si adatta a un modello
esplorativo o causale, infatti cerca di identificare le ragioni vere o nascoste di un fenomeno di
mercato; i metodi quantitativi invece misurano un fenomeno, contano le sue occorrenze e
costruiscono modelli statistici al fine di spiegare osservazioni fatte, sono funzionali quindi a un
modello descrittivo o causale.

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• Una ricerca di tipo qualitativo è consigliata nelle fasi iniziali di un progetto di ricerca, soprattutto
quando il problema non è chiaro a priori al management, invece il metodo quantitativo misura e
verifica nel contesto reale il fenomeno. Il primo presuppone la presenza di intervistatori qualificati,
che entrano nel merito dei dati: la componente di soggettività che l’intervistatore esprime è quindi
ovviamente maggiore rispetto a quella presente nel secondo metodo. I tipi di dati raccolti sono
differenti: attraverso il primo metodo i dati assumono una forma testuale o visiva, mentre nel
secondo metodo prevale la componente numerica del dato – la ricchezza delle informazioni quindi
è maggiore, in un certo senso, nel primo metodo, perché nel secondo prevale di più una
componente di efficienza.
• Metodi di contatto qualitativi: attraverso questo metodo si predilige la profondità di analisi e la
possibilità di adattare il processo di rivelazione nel corso dell’intervista, dando quindi
all’intervistatore una certa autonomia . L’intervista in profondità prevede tre possibili tipologie – il
colloquio clinico cerca di andare veramente in profondità, a livello psicologico e a volte inconscio,
rispetto alle dinamiche di consumo; l’intervista proiettiva è tesa a sviluppare e sollecitare delle
associazioni mentali per comprendere le percezioni più profonde di un fenomeno; l’intervista semi-
strutturata, che prevede a monte un disegno di analisi attraverso un’intervista di domande aperte
che identificano i temi fondamentali dell’intervista stessa (modalità più diffusa). Anche nel focus
group si possono usare le tecniche proiettive, ma quello che interessa qui è capire in che modo i
diversi partecipanti del focus group interagiscono tra loro: è interessante quindi osservare anche
la componente non verbale, per questo ci sono due persone che guidano il focus group (chi guida
effettivamente e chi prende appunti su quello che succede). Una tecnica dell’osservazione è la
mistery shopping, che prevede un acquirente “fantasma” nel punto vendita. Il metodo etnografico
(fuori dalla tabella) ha origini antropologiche e consiste nel fatto che l’intervistatore si immerge nel
contesto che intende osservare e combina interviste in profondità, osservazione partecipante e
ricerca documentale. È possibile declinare il metodo sociologico etnografico all’interno del web,
usando la cosiddetta “netnografia”.

• Metodi di contatto quantitativi: la modalità principe è il questionario, erogato tramite intervista


personale, telefonica, postale o via web. I diversi strumenti si differenziano per: il costo per contatto
(è più elevato nel caso dell’intervista personale), la qualità e la quantità delle informazioni raccolte
è differente (più dettagliata se personale), le tempistiche, il controllo dell’intervistato e l’interazione.
Le caratteristiche del questionario sono complesse, perché mirano ad avere una raccolta
omogenea dei dati: innanzitutto, nella redazione di un questionario, va redatto lo schema
concettuale, poi la redazione del questionario stesso (scelta puntuale delle domande) e infine la
verifica del questionario (prima di essere somministrato è oggetto di un’attenta fase di prova che
ne valuta l’adeguatezza rispetto allo scopo della ricerca). Il contenuto deve essere chiaro e
comprensibile per l’intervistato e anche in grado di soddisfare gli obiettivi della ricerca; la
formulazione delle domande prevede domande aperte e/o chiuse, di nuovo è importante
considerare le esigenze degli intervistate e dei ricercatori; il linguaggio deve essere semplice e
tarato sul target della ricerca; la struttura deve seguire una linea logica per l’intervistato. Le

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domande chiuse facilitano la misurazione delle risposte, perché sono in qualche modo
“precodificate” (questo però può presentare anche un limite nella creazione del questionario) e
hanno diverse tipologie: dicotomiche (SI/NO) o a scelta multipla, la scala di Likert (livello di accordo
o disaccordo tramite una scala numerica), il differenziale semantico (la scala rappresenta agli
estremi due concetti tra loro opposti), scala di importanza o di valutazione.

• Il campionamento// tecnica utilizzata per conoscere uno o più parametri di una popolazione, senza
doverne analizzare ogni elemento. Innanzitutto va chiarito che la numerosità del campione non
dipende dalla numerosità della popolazione analizzata, ma dal livello di eterogeneità dei caratteri
in essa presenti. Ovviamente i metodi di campionamento saranno diversi se si parla di ricerca
qualitativa o quantitativa, perché le prime hanno lo scopo di esplorare un fenomeno (approccio
induttivo), dunque la numerosità non dovrà essere significativa, al contrario per la ricerca
quantitativa (approccio deduttivo). I metodi di campionamento non probabilistici (quindi più afferenti
a una ricerca di tipo qualitativo) vedono unità estratte con criteri soggettivi giustificati dagli obiettivi
di ricerca e tra di essi troviamo: il campionamento per quote (la popolazione viene suddivisa in
gruppi omogenei in base a delle variabili come la fascia d’età, tipologia di professione, stile di vita
ecc e poi il ricercatore sceglie chi intervistare), il campionamento ragionato (il ricercatore e il
committente identificano i soggetti che con maggiore probabilità forniranno info rilevanti – tipico
delle analisi di scenario), il campionamento di convenienza (prevale la facilità di contatto e
reperibilità dell’informatore) – non sono né vogliono essere rappresentativi dell’interezza della
popolazione. I metodi di campionamento probabilistici, quindi legati a ricerche quantitative,
prevedono che la probabilità di estrazione per ogni unità campionaria sia nota a priori (quindi
possiamo generalizzare i risultati) e tra di essi troviamo: il campionamento casuale semplice (ogni
elemento della popolazione di riferimento può essere estratto, quindi tutte le unità campionarie –
funziona soprattutto in caso di popolazioni non ampie e poco eterogenee), il campionamento
stratificato (si utilizzano informazioni già detenute per stratificare la popolazione e poi si estraggono
campioni casuali semplici all’interno di ciascuno strato), il campionamento a grappolo/cluster (la
popolazione viene raggruppata in insiemi, vengono estratti i grappoli secondo criteri casuali e
analizzati interamente), il campionamento a stadi (popolazione divisa in gruppi, si estrae un primo
campione e all’interno dello stadio vengono estratte le unità elementari – estrazione per stadi
successivi). Non necessariamente possiamo attribuire i campionamenti non probabilistici al
metodo qualitativo e viceversa con il metodo quantitativo.
4. Rilevazione dei dati: è una fase critica, in cui si definisce la qualità del risultato finale e in cui si
sostengono i costi della ricerca e segna il passaggio da un momento di progettazione ad uno più
attuativo. I dati vengono raccolti tramite i metodi precedenti, possono essere di diversa tipologia e
derivare da diverse fonti informative: va tenuto conto che i dati possono essere di natura differente,
ma comunque andranno a confluire nello stesso database.
5. Elaborazione dei risultati: a seconda del metodo di ricerca scelto, si passa all’elaborazione dei
risultati. I metodi qualitativi presuppongono ovviamente una maggiore interpretazione dei dati da
parte dell’intervistatore, mentre i metodi quantitativi presuppongono la statistica descrittiva per
sintetizzare i dati e strumenti di analisi avanzati per individuare connessioni e interrelazioni.

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6. Stesura del report: l’istituto o il professionista incaricato di svolgere la ricerca di marketing dovrà
condividere non solo i risultati (in generale e nel dettaglio), ma anche richiamare gli obiettivi e una
sintesi, per presentare in modo puntuale tutto ciò che è uscito dalla ricerca. Eventualmente anche
appendici metodologiche e statistiche per dimostrare il livello di significatività dei risultati ottenuti.
7. Presentazione dei risultati: fase finale durante la quale si evidenziano i risultati dell’attività di ricerca
e vengono approfonditi alcuni aspetti magari poco chiari nel rapporto di ricerca, fase dunque in cui
si confronta quello che ci si aspettava all’inizio della ricerca e quello che si è ottenuto. Non è
soltanto un momento illustrativo, ma diventa quindi anche un momento di confronto che consente
di progettare eventuali steps successivi di ricerca.
• L’ICT (Information and Communications Technology) e il sistema informativo di marketing: ci sono
alcune decisioni importanti che vanno guardate, come l’assegnazione del grado di priorità alle
diverse decisioni che il sistema informativo deve facilitare, la definizione del livello di
centralizzazione/decentralizzazione dell’informazione (in coerenza con le caratteristiche e i bisogni
dell’impresa). Da un lato, lo sviluppo dei big data (nato con il Web 2.0), che ha consentito
l’accumulo di grandissime moli di dati: volume cospicuo, varietà delle fonti e velocità di crescita –
oggi le imprese devono capire come integrare questo sistema dei big data nel proprio sistema
informativo di marketing, in quanto i big data presuppongono un ripensamento delle logiche di
business intelligence, dando ad esempio priorità al dato quantitativo e sollecitando le forme di
integrazione tra dati quantitativi e dati più “fini” (cioè quei dati che provengono da ricerche
quantitative). L’altro tema è quello del cloud computing, utilizzato sempre più come repository delle
info e che consente anche la condivisione delle info stesse anche con i clienti.
Esercitazione sulla ricerca E-mobility (monopattini elettrici) – da gennaio a luglio le vendite sono salite
del 140%, con incremento anche del prezzo (circa 320 euro). Il committente è Motorway, che sta
valutando di entrare nel mercato dei monopattini elettrici: vuole comprendere le abitudini degli abitanti
delle grandi città a seguito di Covid e i driver più importanti per l’acquisto di un monopattino elettrico.
Quale tipologia di ricerca è più adeguata (ad hoc/omnibus)? Innanzitutto va capito se esiste una ricerca
già avviata multiclient dove inserirci per farla diventare omnibus, in mancanza di essa, dovremmo
virare verso una ricerca ad hoc; e poi, se i due costi sono comparabili, forse ci conviene andare di
ricerca ad hoc autonoma. Quali tipologie di dati si potrebbe partire (primari/secondari, interne/esterne)?
Secondari esterni (ad esempio chiedendo al comune se ha reso pubblici dei dati su monopattini in
sharing), non abbiamo dati secondari interni (perché non siamo ancora in questo settore), primari
esterni (attraverso la propria forza vendita, rispetto agli altri brand, cercare di capire quali siano i trend
nel settore), dati provenienti dal passato, dati da internet (attenzione alla fonte, sono dati secondari),
dati secondari esterni provenienti da altre aziende competitor (bilanci – se le aziende sono
monoprodotto). Quindi il vuoto informativo può essere sintetizzato nella domanda: quali sono le
abitudini di mobilità degli abitanti delle grandi città a seguito di Covid? Brief (punto 1): l’oggetto della
ricerca sono le nuove forme di mobilità, l’obiettivo della ricerca è capire se conviene adesso entrare in
quel mercato (e se sì, con un prodotto che ha quali caratteristiche?), target di riferimento sono gli
abitanti di grandi città metropolitane (Milano e Roma) tra i 18-60 anni, la tempistica è 2 mesi e il budget
10.000 euro. Il modello più adatto (punto 2) è quello esplorativo, ma anche descrittivo – il budget ci
dirà cosa possiamo utilizzare a livello di metodo di ricerca e di campionamento. La definizione del
metodo (punto 3): di tipo qualitativo, un’intervista semi-strutturata o in alternativa un focus group per
capire le dinamiche sociali (avendo anche dei vincoli di costo) – da questi metodi potranno emergere
informazioni su come declinare il metodo quantitativo: questionario via web (tempi di risposta veloci e
budget ridotti). Il campione è non probabilistico: numerosità elevata ma non rappresentativa della
popolazione. Una possibilità per renderlo probabilistico (ma non ci interessa) sarebbe far diventare la
ricerca una ricerca omnibus. Sviluppo del questionario: privilegiare le domande chiuse, le cui
alternative saranno emerse nei focus group/interviste semi strutturate (step esplorativo) – le alternative
ce le facciamo dire dal consumatore, non le inventiamo noi. Es. dicotomiche: genere (profilo del
rispondente), possiedi un monopattino elettrico? Cfn domanda filtro: quelle domande tendenzialmente
dicotomiche che ci aiuteranno a rielaborare meglio le risposte alle domande successive/filtri tali per cui
creo dei percorsi diversi; a scelta multipla: professione, qual è il mezzo principale che usi per muoverti
in città? (mezzi pubblici, auto privata, scooter/moto, bicicletta, servizio di sharing, a piedi ecc),

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frequenza di utilizzo di un determinato mezzo (mettendo tipo: spesso, poco, sempre, mai ecc);
differenziale semantico: come valuti il trasporto pubblico? (veloce/lento, comodo/scomodo,
sostenibile/inquinante ecc); scala di Likert: nel prossimo anno continuerò ad utilizzare lo stesso mezzo
di trasporto/cercherò alternative di trasporto individuale/cercherò di limitare gli spostamenti ecc; scala
di importanza o di valutazione: quali condizioni potrebbero spingerti ad acquistare un monopattino
elettrico e dare importanza alla risposta (incentivi all’acquisto, parcheggi sicuri, piste ciclabili ecc);
scala di importanza: quali sono le caratteristiche del prodotto decisive per l’acquisto (decisivo per la
ricerca).
!! Errori comuni nella formulazione di un questionario: se la somministrazione avviene sul web, meglio
iniziare con i dati di profilazione, nel caso invece sia via web o postale, bisogna introdurre lo scopo del
questionario. Una domanda ad alternative multiple deve esaurire tutte le alternative. Meglio dire “con
quale frequenza…” e poi porre come alternative “mai, poco, tanto ecc” e poi cercare un lasso di tempo
tendenzialmente breve. à Tutto deve essere sempre pensato nei termini del fabbisogno informativo
che ci manca.

Analisi del settore e strategie di marketing (capitolo 4)


• L’azione di marketing deve tenere conto delle caratteristiche e dei tratti evolutivi che definiscono il
settore, cioè il luogo dove si sviluppa la concorrenza tra le imprese: innanzitutto andrà definito il
settore nel rapporto con l’impresa e comprendere, dell’uno e dell’altra, i confini che ne circoscrivono
il campo d’azione. Si affrontano temi legati alla numerosità e alla concentrazione delle imprese
concorrenti, le barriere all’entrata nel settore, le forze competitive che circondano il settore e l’attuale
fenomeno della convergenza settoriale.
• Se si vuole ottenere un vantaggio sui concorrenti è indispensabile conoscere le caratteristiche
dell’arena competitiva (settore) e ovviamente bisogna ricordarsi che ogni settore ha delle
caratteristiche particolari che lo rendono diverso dagli altri. Tradizionalmente si è fatto riferimento
alla necessità che l’impresa dovesse avere le caratteristiche idonee al settore, in base alla struttura
che esso presenta (paradigma strutture-condotta-performance, vedi dopo): una simile prospettiva
però conferisce be poca libertà di azione all’impresa. Adeguarsi alle regole del gioco competitivo è
una prassi corretta, finché non limita l’innovazione. à Per l’impresa conoscere il settore in cui opera
è importante perché le permette di comprendere la posizione migliore da ottenere rispetto alle
esigenze dei clienti e alle capacità di offerta dei concorrenti.
• Mercato e settore: spesso in impresa si tende ad utilizzare come sinonimi questi due vocaboli,
quando in realtà non lo sono, sono proprio categorie logiche diverse. Nella definizione più comune
di mercato, lo si considera come il luogo in cui domanda e offerta si incontrano e ove, a determinate
condizioni di reciproca convenienza, avviene lo scambio – l’eccessivo focus sul momento dello
scambio è limitante, per cui un’altra definizione potrebbe essere quella che identifica il mercato come
l’insieme degli acquirenti di un determinato prodotto o servizio, anzi, di quei prodotti o servizi ritenuti
tra loro sostituibili e quindi in reciproca concorrenza nelle decisioni d’acquisto e di utilizzo da parte
dei clienti; in una prospettiva più ampia, il mercato può essere definito come il luogo ove si svolgono
le relazioni (non solo lo scambio) tra attori economici – comunque lo si consideri, il mercato
rappresenta il lato della domanda. Es. Amazon, Ebay, Zalando ecc Dall’altra parte, il settore
identifica il lato dell’offerta: esso è qualificato come l’insieme delle imprese che offrono prodotti o
servizi in diretta concorrenza. Es. settore alimentare, dell’abbigliamento, dei trasporti. Se un certo
numero di consumatori condivide uno stesso bisogno (e quindi, nel caso di bisogni semplici,
possiamo dire che costituisce un mercato) e individua nell’offerta di alcune imprese una possibile
risposta alle proprie esigenze, allora queste imprese fanno parte dello stesso settore, appunto
perché offrono beni tra loro sostituibili nelle percezioni della domanda; in una prospettiva più ampia,
il settore può essere definito dall’insieme delle imprese che fanno leva sulle stesse fonti del
vantaggio competitivo: i rapporti di sostituibilità (e quindi di concorrenza) si spostano dal risultato
(prodotti/servizi offerti) all’origine, cioè alle fonti su cui le imprese di basano per generare un certo
risultato Es. vendita capillare, relazioni con canali distributivi, prezzi contenuti, processi di
produzione ecc. Partendo da questa nuova logica, non è così semplice stabilire se due o più imprese
appartengono effettivamente allo stesso settore, perché non esiste una corrispondenza sicura tra le
fonti del vantaggio competitivo e i prodotti/servizi offerti: così, può capitare che due imprese
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posseggano le stesse fonti di vantaggio concorrenziale (e quindi appartengono allo stesso settore),
ma producano beni non considerati tra loro sostituibili da parte della domanda (e quindi, secondo
l’altra prospettiva, non apparterrebbero allo stesso settore) e viceversa. Es. due imprese producono
bottiglie, una in vetro, l’altra in PET: hanno fonti di vantaggio competitivo diverse (perché collegate
a tipologie di processi produttivi del tutto differenti), ma si trovano a competere nello stesso settore
perché i clienti (come le imprese produttrici di acque minerali) ritengono i prodotti offerti in una buona
misura tra loro sostituibili.
à Il mercato e il settore non devono essere mai intesi come dei “dati” del problema di marketing,
ma devono essere sempre analizzati e interpretati in relazione alle intenzioni, alla volontà e alla
capacità dell’impresa.
• I confini del settore e del mercato: il problema della determinazione dei confini del settore e del
mercato è il primo passo che deve compiere il management per comprendere qual è l’ambito in cui
si colloca la sua impresa, significa domandarsi in che business ci si trova (il termine business ci
svincola dagli sbatti terminologici tra settore e mercato). Inoltre, definire i confini è indispensabile
alle decisioni di marketing: se non si conosce l’entità del mercato cui ci si riferisce non se ne può
comprendere la consistenza, l’attrattività, le dinamiche evolutive ecc.
- Teoricamente, i confini del settore sono definibili calcolando l’elasticità incrociata, che stabilisce i
rapporti di sostituibilità tra i prodotti offerti dalle varie imprese: nella pratica, ovviamente, non viene
mai utilizzata, perchè la sua stima comporterebbe delle modifiche di prezzo per valutare le reazioni
degli acquirenti. Si deve quindi ricorrere ad alcuni sostituti concettuali per risolvere questo problema,
come una serie di fattori di omogeneità, in particolare che riguardano le seguenti quattro aree di
attenzione: le materie prime e le componenti utilizzate; le tecnologie e i processi produttivi; l’utilizzo
di determinante politiche commerciali (Es. ricorso al canale grossista, l’abitudine alle pratiche
promozionali, l’utilizzo della pubblicità ecc); il fatto che le imprese siano orientate a soddisfare lo
stesso insieme di bisogni espressi dalla domanda. Le imprese tra loro, seguendo questo schema,
possono essere: rivali, in reciproca concorrenza, relativamente concorrenti e non in reciproca
concorrenza (quindi non appartenenti allo stesso settore). In una prospettiva di marketing l’elemento
più determinante ai fini dell’individuazione dei concorrenti è quello che riguarda l’omogeneità dei
bisogni soddisfatti, anche se è meglio affiancare a questo criterio della domanda almeno uno degli
altri criteri menzionati (per quello che dicevamo prima dell’esempio delle bottiglie).
- Un altro modo per definire il business in cui opera l’impresa suggerisce di prendere in considerazione
tre punti di riferimento: i bisogni dei clienti, la tecnologia utilizzata e le funzioni d’uso del prodotto –
ponendo le informazioni in uno spazio tridimensionale. Cfn modello di Abell (vedi dopo): il solido che
si crea dalla congiunzione delle tre variabili indica la posizione strategica dell’impresa. à L’impresa,
percorrendo i tre vettori, può: privilegiare lo sviluppo di nuove tecnologie e/o presidiare nuovi
segmenti di clientela e/o aggiungere o modificare le funzioni d’uso attuali del prodotto/servizio. Es.
Amazon: è evidente qui come i confini dell’area di business siano labili.
• I confini dell’impresa: configurare i confini dell’impresa significa identificare i limiti delle sue azioni e
in particolare delle azioni di marketing. Una prima prospettiva è di tipo proprietario-contrattuale, dal
punto di vista del controllo che la tale impresa detiene: il controllo proprietario definisce i confini
interni, cioè le risorse di proprietà dell’impresa (impianti, marchi registrati, brevetti ecc), mentre il
controllo contrattuale definisce i confini esterni, cioè la capacità dell’impresa di controllare il mercato
(ad esempio rispetto ai canali distributivi) – grado di controllo dell’impresa su attività e risorse. In
questo senso ulteriore, la misura dei confini dell’impresa diventa la quota di mercato, in quanto essa
può essere vista come la capacità che l’impresa ha di attrarre le preferenze della domanda e quindi
di fatto controllare una parte del mercato. Questa prospettiva in realtà è limitata, soprattutto perché
la relazione che l’impresa mette in campo con il mercato è difficile da definire come una proprietà –
è necessaria una visione diversa che, secondo la logica relazionale, colloca le due tipologie di
imprese sugli estremi di impresa “chiusa” ed impresa “aperta”: la prima tipologia ha relazioni definite
e limitate, non attrae risorse dall’esterno, possiede dei confini stabili, attua un comportamento
autarchico e sul lungo termine ha scarsa difendibilità dei vantaggi competitivi !! Quanto più l’ambiente
è dinamico, tanto meno potranno sopravvivere queste imprese chiuse; la seconda invece possiede
un ampio sistema di relazioni, è continuamente in grado di attrarre e attivare risorse dall’esterno,

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possiede dei confini dinamici, attua un comportamento etero diretto e quindi una capacità di
adeguamento flessibile ai mutamenti.
• Il paradigma struttura-condotte-performance: questo approccio, essendo fortemente determinista
(cfn studi di economia industriale), considera il settore come costituito da una serie di elementi
caratterizzanti che ne definiscono la struttura e, sulla base di questi, l’impresa formula le proprie
strategie (tra le quali quelle di marketing). Qualora vi sia coerenza tra i fattori che determinano il
settore e il modo con il quale l’impresa li affronta, cioè le sue “condotte”, l’impresa potrà ottenere un
risultato positivo (“performance”) sia in termini concorrenziali (quota di mercato ecc) sia economici
(ROI, redditività ecc).

La lettura sopra mostrata è discendente, però vi si può aggiungere una lettura anche ascendente,
che si verifica nei casi in cui un’impresa, interpretando in modo creativo e diversi dagli altri gli
elementi strutturali del settore, formuli strategie diverse da quelle che la logica del paradigma
suggerirebbe – è la strada dell’innovazione. In ogni caso, che si assecondino o si modifichino le
caratteristiche strutturali, la conoscenza del settore è indispensabile.
• Caratteristiche del settore e decisioni di marketing: ogni settore è identificabile con una pluralità di
elementi distintivi la cui combinazione consente di individuare le alternative concorrenziali più
opportune, mettendole in relazione con i tratti distintivi della singola impresa.
1. La concentrazione settoriale e le strategie concorrenziali nei settori frammentati e concentrati: la
concentrazione identifica la numerosità dei concorrenti e la relativa capacità di presidio del mercato.
Infatti, nei settori si contrappongono due forze contrarie, il potere di mercato (cioè la capacità di
imporre alla domanda e ai concorrenti le proprie decisioni) e la concorrenza (cioè la necessità di far
fronte alle strategie e ai comportamenti delle imprese nel settore) – se esiste equilibrio tra i poteri si
genera la concorrenza. Ciò che conta, ovviamente, non è tanto la numerosità assoluta dei
concorrenti, ma la distribuzione delle quote di mercato tra le imprese. La concentrazione può essere
misurata a tre livelli: la concentrazione tecnica (se si ha come riferimento le unità produttive),
finanziaria (l’unità sono più imprese controllate dallo stesso soggetto economico) ed economica
(capacità di presidiare i mercati, tipologia più decisiva) – molto spesso queste tipologie non si
distinguono tra loro. La misura più utilizzata della concentrazione economica è data dalla cumulata
delle quote di mercato delle prime imprese (le prime quattro tendenzialmente, C4): vengono
considerati concentrati i settori in cui le prime quattro imprese detengono più del 50% del mercato,
mentre se l’ indice è inferiore al 10% il mercato è considerato frammentato. Vediamo ora le strategie
concorrenziali nei settori frammentati e concentrati
- Settori frammentati: di norma, in questi contesti le maggiori dimensioni dell’impresa non sono
premianti, per cui sarebbe errato/effimero perseguire una più alta quota di mercato. Le condizioni di
frammentazione strutturale del settore dipendono da tre possibili cause: l’impossibilità o l’incapacità
da parte delle imprese concorrenti di trovare modalità competitive che evidenzino elementi di
diversità (il marketing qui ha poco spazio di manovra, le imprese sono favorite dalle piccole
dimensioni); quando la maggior parte delle imprese propone strategie concorrenziali molto diverse
le une dalle altre, ma nessuna è in grado di far primeggiare la sua impresa in termini di quota di
mercato, questo perché le imprese si concentrano su nicchie di domanda sofisticata e quasi
individuale (qui vince la creatività dell’impresa, quindi il marketing è cruciale); la terza condizione è

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temporanea, ad esempio nel caso dei settori nascenti che inizialmente possono essere frammentati
ma che poi evolvono verso più elevati livelli di concentrazione (il marketing deve individuare i fattori
necessari per superare la frammentazione). Es. settori dell’abbigliamento, dei servizi e della
ristorazione, settore sanitario, gli hotels e il settore calzaturiero (perché le specializzazioni tra i
produttori sono molteplici, infatti ci sono barriere all’entrata e all’uscita molto easy). Perché avere
grandi dimensioni qui non è molto vantaggioso? Perché tendenzialmente va a scapito della creatività
e della flessibilità operativa richiesta.
- Settori concentrati: in questi settori il fattore premiante è la dimensione dell’impresa (in termini di
quota di mercato), infatti tipicamente si tratta di contesti causati dalla presenza di economie di scala
– poche imprese occupano posizioni di rilievo all’interno del settore. Si possono verificare due
situazioni differenti: la staticità competitiva, che avviene quando le alternative concorrenziali sono
molto limitate (c’è una sorta di letargo competitivo: ci si comporta come ci si è sempre comportati),
ma può accadere che le imprese cerchino comunque di migliorare la loro posizione innescando
situazioni concorrenziali molto accese, così come può capitare che la vitalità possibile venga evitata
intenzionalmente ~ marketing potenziale, poco visibile e latente, ma pronto a divenire effettivo
qualora le condizioni del mercato lo richiedano; dinamismo competitivo, situazione più idonea allo
sviluppo di intense politiche di marketing, infatti si tratta del caso in cui le imprese più grandi
continuano ad agire lanciando nuovi prodotti e campagne di comunicazione, sempre tenendo come
base per queste strategia una continua analisi delle esigenze e dei comportamenti dei clienti ~ qui
vincono le imprese più grandi e la segmentazione/differenziazione efficace. Es. settore della
telefonia (Tim, Vodafone, Wind Tre e Iliad), della grande distribuzione e degli energy e sport drinks.
- Benché esistano settori frammentati e concentrati, vi sono settori in cui le due condizioni coesistono:
si tratta di quei settori nei quali, accanto a poche grandi imprese, permangono degli spazi interstiziali
(tendenzialmente nicchie di mercato) presidiati da imprese di minori dimensioni.
2. Alternativa tra economie di dimensione e differenziazione dell’offerta, la ricerca delle fonti del
vantaggio competitivo: in ogni settore esistono due insiemi contrastanti di forze che spingono le
imprese a formulare strategie contrapposte, quelle di base, imperniate sulla ricerca di un vantaggio
competitivo basato sulla minimizzazione dei costi e quelle basate sulla differenziazione e sull’unicità
dell’offerta. Le due strategie alternative si basano su fonti del vantaggio competitivo differenti:
approfondiamo prima questo concetto.
- Le fonti del vantaggio competitivo// tutti quei fattori sui quali un’impresa può fare leva per definire
una posizione forte nel settore e che consentono quindi di ottenere un vantaggio sui concorrenti
duraturo e difendibile nel tempo. Si tratta dunque di evidenziare gli elementi che qualificano l’impresa
e determinano il riferimento principale nell’impostare e nell’eseguire le politiche di marketing. Le fonti
sono rintracciabili nelle risorse (asset) dell’impresa: gli asset possono essere tangibili (impianti,
fabbriche, edifici, magazzini ecc) e intangibili. Gli asset intangibili sono scindibili in due grandi
categorie: le risorse di conoscenza, cioè l’insieme delle capacità e delle competenze delle persone
che operano in impresa e le risorse di fiducia, che si evidenziano nelle relazioni che collegano
l’impresa con l’ambiente (immagine, la fedeltà dei clienti, la credibilità dell’impresa presso gli
stakeholders ecc) – tra queste due tipologie di risorse intangibili c’è un legame molto stretto e sono
le risorse intangibili la vera fonte del vantaggio concorrenziale (di fatto quelle tangibili sono imitabili,
o comunque necessarie ma non sufficienti). L’impresa deve innanzitutto riflettere su quali siano le
reali fonti di vantaggio competitivo e se esse siano i grado di sostenerne le scelte strategiche: esse
sono industry specific, market specific e firm specific, dunque necessitano di continui investimenti.
Es. Esselunga: risorse tangibili come la qualità dei prodotti, risorse intangibili come la richiesta di
fiducia e di relazione costante. Se l’impresa dovesse rendersi conto che le sue fonti non sono
sufficienti, può: tentare di costruire ex novo fonti più adeguate al settore, collocarsi in un mercato più
accogliente di fronte a quello che ha oppure (comportamento rischioso ma a volte vincente)
cambiare le regole del gioco concorrenziale. !! Creare e mantenere le fonti del vantaggio competitivo
è molto costoso, ma necessario, infatti le risorse sono soggette a un continuo processo di
obsolescenza. Nei casi più estremi, la continua erosione del vantaggio competitivo e la conseguente
necessità di ricercare nuove e diverse fonti provoca situazioni di ipercompetizione, che si concretizza
nel lancio continuo di nuovi prodotti, di nuove versioni, dello sviluppo di nuove proposte commerciali
ecc Es. settore della telefonia mobile, il mercato degli yogurt ecc
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- È ben raro che in un settore esistano esclusivamente condizioni determinanti una delle due
alternative che ora trattiamo Es. settore dei prodotti per l’igiene della persona: esistono prodotti molto
sofisticati, venduti in profumeria, inseriti in linee di prodotto di alta gamma, con marche prestigiose
ecc/ prodotti molto semplici, privi di marca conosciuta, venduti a prezzi molto bassi negli hard
discount.
- Le strategie competitive basate sulle economie di dimensione: le economie di dimensione si
sviluppano in ambienti competitivi caratterizzati dalla standardizzazione e dalla semplicità dei
prodotti, dei processi produttivi e distributivi e della gestione dell’impresa. Questo suggerisce
un’offerta basata su prezzi contenuti, che utilizza una distribuzione estensiva e con scarsi livelli di
servizio e una comunicazione di massa non particolarmente sofisticata. Con il termine “economie
legate alle dimensioni” si identificano le circostanze per cui le imprese di maggiori dimensioni
riescono a realizzare le loro attività a costi medi inferiori rispetto a quelli sostenuti dalle imprese più
piccole, e questo avviene per l’azione di quattro fattori: le economie di scala, che si verificano quando
al crescere della potenzialità costruttiva i costi
medi unitari si riducono (perché alcune risorse
non sono divisibili e quindi vanno utilizzate in
grandi volumi/perché alcune risorse una volta
acquistate sono disponibili per lungo tempo senza
costi aggiuntivi/perché si trova un equilibrio
ottimale di combinazione di risorse); economie
d’esperienza e d’apprendimento (/curve di …),
che si verificano in molti settori quando il costo
unitario del prodotto diminuisce, in percentuale
costante, ogni volta che la produzione cumulata (il
totale prodotto) raddoppia (questo perché mano a
mano che si impara migliora l’efficienza e la velocità di esecuzione ecc); vantaggi assoluti di costo,
che sono dati dal fatto che un’impresa di grandi dimensioni può far valere un potere contrattuale
elevato nei cfn dei propri fornitori e avere la possibilità di accedere alle risorse produttive a costi
minori; le scope economies (economie di raggio d’azione), che prevedono notevoli riduzioni ottenibili
sui costi produttivi/distributivi qualora lo stesso processo (o la stessa risorsa) sia utilizzato per più
prodotti della stessa azienda. Se le condizioni di vantaggio concorrenziale collegate alla
standardizzazione produttiva e alla semplicità gestionale permangono stabili, è difficile che la
posizione di leadership di costo venga minacciata, a meno che non si profilino cambiamenti
significativi.
- Le strategie competitive basate sulla differenziazione dell’offerta: in questo caso le imprese sono
indotte ad aumentare il livello di riconoscibilità della loro offerta, conferendole caratteristiche diverse
da quelle dell’offerta delle imprese concorrenti. Dunque l’impresa vuole presidiare uno spazio di
mercato autonomo, acquisendo sempre più consistenti preferenze da parte della domanda e
ottenendo un vantaggio che si concretizza nella disponibilità della domanda a sopportare un prezzo
più elevato (premium price)/ad acquistare quantità maggiori del bene allo stesso prezzo. Le infinite
possibilità di differenziazione sono però limitate dalla tecnologia, dai costi, dal cliente (che deve
apprezzare la diversità dei beni proposti ~ sovranità del cliente), dal fatto che gli elementi differenziati
devono essere difficilmente imitabili. Le alternative utilizzabili per attuare una strategia di
differenziazione ricadono nelle seguenti categorie: differenziazione delle caratteristiche fisiche del
prodotto/servizio, del livello qualitativo (anche nel senso di “qualità più adatta”), dei costi di accesso
e utilizzo dei prodotto e d’immagine. Ovviamente il concetto di differenziazione è legato a quello di
segmentazione: abbiamo detto che alla differenziazione proposta dall’impresa deve corrispondere il
gradimento della domanda, ma è ovvio che non ci si rivolge a tutta la domanda possibile, ma ad un
segmento. Es. rebranding di Tiger, in Flying Tiger: articoli che mensilmente che si rinnovano, prezzi
bassi, sguardo al design (vantaggio di costo+differenziazione)
- Considerazioni di sintesi rispetto alle due strategie: ognuna delle due può attuarsi in funzione del
fatto che l’impresa possegga specifiche fonti del vantaggio competitivo adatte all’attuazione dell’una
o dell’altra strategia Es. per la strategia dell’economia di dimensioni: risorse materiali come grandi
capacità finanziarie, impianti produttivi, grande rete distributiva ecc, risorse immateriali come
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capacità di progettazione, attenzione ai costi ecc; per la strategia della differenziazione: risorse
materiali come prodotti con caratteristiche inimitabili, forti campagne di comunicazione, reti e punti
vendita in grado di sostenere la differenziazione ecc, risorse immateriali come l’intuizione, la
conoscenza delle esigenze della domanda ecc.
3. Quando la concorrenza proviene da fuori il settore: ogni settore è collegato ad altri settori. Questi
legami possono essere verticali, con i settori a monte (i fornitori) e a valle (i clienti), inoltre ne
parliamo anche in termini di altre imprese che potenzialmente potrebbero avere prodotti sostituibili
al nostro. M. Porter nei primi anni ’80 sviluppò lo schema delle cinque forze competitive, dove
vengono appunto considerati i fattori che agiscono tanto all’interno quanto all’esterno del settore e
ne determinano le possibilità reddituali e di crescita: il potere contrattuale dei fornitori, il potere
contrattuale dei clienti (rispetto a questi primi due – quanto maggiore è il loro potere, tanto minori
sono gli spazi di negoziazione delle imprese nel settore), minacce di prodotti sostitutivi e minacce di
nuove entrate (attratte dal nostro settore). à Tutto questo è oltre alla rivalità tra le imprese esistenti
nel settore (la quinta forza). !! L’attrattività del settore va considerata in termini relativi
4. Barriere all’entrata (sapersi difendere dai nuovi concorrenti): ogni settore è difeso dall’ingresso di
nuovi concorrenti grazie all’esistenza di barriere più o meno elevate – in assenza di barriere, ogni
impresa potrebbe facilmente entrare nel settore, apportando le proprie modalità concorrenziali e
mettendo in crisi quelle delle imprese già operanti nel settore. Le barriere all’entrata di tipo strutturale
sono: tecnologiche (know-how tecnologico spesso difeso da brevetti), istituzionali (autorizzazioni
amministrative ecc), di tipo finanziario (un certo capitale), di marketing (divise in: barriere di marca
– notorietà e immagine, di relazione con il trade e i consumatori e barriere di esperienza). In ultima
analisi queste tipologie di barriere sono riconducibili alla dimensione finanziaria e in quei termini
superabili. Esistono però anche barriere di tipo concorrenziale, determinate da comportamenti
reattivi delle imprese già presenti nel settore, allorché un nuovo concorrente si insinui in esso:
riduzione del prezzo, rinforzo delle relazioni con il trade, lancio tattico di un nuovo prodotto ecc. Al
contrario, esistono barriere all’uscita, derivate dal fatto che l’abbandono (e quindi i connessi
disinvestimenti) causi perdite più o meno rilevanti: in presenza di elevate barriere all’uscita restano
attive nel settore anche imprese con scarsa o nulla convenienza economica e questo genera la
distorsione della concorrenza (e quindi un rischio).
5. Barriere alla mobilità: all’interno dello stesso settore si possono osservare comportamenti e logiche
competitive e di marketing molto diverse tra loro, che possono condurre a risultati altrettanto
differenti – per questo nello stesso settore c’è chi guadagna di più e chi meno. Interviene qui l’analisi
interna del settore, o analisi della concorrenza intrasettoriale, che muove dalla considerazione che
ciascuna impresa formula una propria strategia autonoma e diversa da quella dei concorrenti. !! Ciò
significa che non si parte dalla struttura per definire le strategie, ma dall’analisi delle strategie per
definire i contorni del settore (VS paradigma). L’analisi innanzitutto si crea mettendo sugli assi le
due variabili che differenziano a livello strategico le imprese. Questa analisi consente di
comprendere: il focus strategico di ciascuna impresa concorrente (desunto dalla posizione occupata
nella mappa dei gruppi strategici), le prossimità tra le imprese e quindi l’intensità della rivalità tra di
esse (quanto più c’è affollamento, tanto più c’è rivalità), le zone più convenienti in termini di redditività,
di rischi e prospettive di crescita e in ultimo la presenza di barriere alla mobilità intrasettoriale.
Rispetto a queste ultime, possiamo dire che esistono tre tipologie di ostacoli: l’inerzia al
cambiamento che ogni spostamento di posizione comporta, il tempo necessario a raggiungere la
nuova posizione e fattori strutturali e concorrenziali (i cosiddetti fattori critici di successo, superati
solo sopportando costi superiori a quelli delle imprese che già operano nel settore). !! Spesso l’analisi
interna del settore viene sovrapposta o confusa con l’analisi del posizionamento: la differenza sta
nel fatto che la prima considera come riferimento l’impresa, mentre la seconda prende in esame
nello specifico le marche.
6. Evoluzione del settore e ciclo di vita: i settori evolvono con intensità più o meno elevata a motivo dei
cambiamenti che si verificano nell’ambiente circostante e dei comportamenti delle imprese. Il
modello che viene utilizzato per descrivere i fenomeni evolutivi è quello del ciclo di vita, che mette
in relazione l’evolversi dei volumi di vendita nel tempo le strategie che mettono in campo le imprese
in ogni fase. Esso evidenzia quattro fasi evolutive: settori emergenti, in sviluppo, maturi e in declino.
I fondamenti concettuali del ciclo di vita riguardano l’evolvere nel tempo di due macrovariabili, i
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volumi di vendita nel tempo e il tasso di crescita del settore – questa è un’analisi prettamente
quantitativa, non ci si deve però limitare a questa, ma guardare anche in modo qualitativo alle
modifiche che avvengono nelle strategie concorrenziali (quindi guardare ai consumatori e ai
concorrenti). I settori nascono quando si concretizzano allo stesso tempo due condizioni: l’emergere
di un bisogno di una certa importanza per un numero non marginale di clienti potenziali + la
disponibilità di una tecnologia nuova, conveniente e capace di soddisfare tale bisogno – se non
esiste un bisogno non esiste un mercato e se non esiste un mercato non esiste il settore; l’origine
della spinta per la nascita può essere tecnologica (technological push Es. cuffie wireless dopo il
cambio di jack) o del mercato (demand pull Es. pasta senza glutine – tutto il settore bio), ma poco
importa. Nei settori emergenti sono possibili tutte le strategie concorrenziali, da quelle orientate alla
difesa tramite l’utilizzo dei brevetti, a quelle delle alleanze tra imprese ecc. Le opzioni per crescere
sono molte, possiamo quindi utilizzare la matrice di Ansoff, per riflettere sui potenziali rischi di ogni
opzione: la market penetration, vede la proposta di un prodotto esistente in un mercato esistente
(attraverso la conquista di clienti di concorrenti o nuovi clienti); product development, nuovo prodotto
in un mercato esistente (Es. McDonalds che introduce nuovi panini); market development, prodotto
esistente in un nuovo mercato (prodotto esportato in un nuovo segmento di consumatori);
diversification, nuovo prodotto in un nuovo mercato (Es. strategie oceano blu). Una volta superata
la fase nascente del settore, è più facile delineare quali siano le sue caratteristiche: se lo sviluppo
premia le economie di scala, vedremo strategie volte all’acquisizione di un vantaggio competitivo
fondato sull’ottimizzazione dei costi/se è più interessante adattarsi ai bisogni differenziati, vedremo
la strategica di segmentazione della domanda e di differenziazione dell’offerta. L’ingresso nella
maturità tende a stabilizzare il dinamismo tipico delle prime fasi e vede i settori molto condizionati
dal livello di coinvolgimento psicologico e dai conseguenti effetti di eventuale banalizzazione del
processo d’acquisto. L’ultima fase è quella del declino, che induce ovviamente le imprese a cercare
alternative in settori più promettenti, anche se pure in questa fase la concorrenza può essere molto
accesa (sul prezzo) – l’esito finale della fase di declino può essere la scomparsa definitiva del settore
stesso o un suo notevole ridimensionamento Es. settore dei tubi catodici.
• La convergenza settoriale// uno dei fenomeni più attuali, definito come la confluenza di imprese
provenienti da settori diversi che convergono verso un unico ambito competitivo esteso che non
annulla i settori originari, ma li integra in un meccanismo concorrenziale più ampio. Dunque i settori,
condizionati dall’evoluzione economica e dalle politiche di sviluppo delle imprese, non sono più
circoscrivibili nell’ambito definito delle merceologie dei beni prodotti e venduti ~ progressiva
“ibridizzazione” dei prodotti. I primi fenomeni di convergenza si sono manifestati negli anni ’80 nel
settore dell’ICT, quindi nell’ambito delle tecnologie Es. domotica. Oltre a questa prima variabile
esplicativa della convergenza, la tecnologia, sono nate anche altre variabili, come la concorrenza
diretta: essa ha indotto imprese a cercare modalità di sviluppo esterne al settore, indirizzandole
verso settori contigui aventi prospettive di crescita e redditività superiori – la convergenza quindi
diviene il risultato del comportamento delle imprese sospinte dal tentativo di ampliare il loro raggio
d’azione. La prospettiva più recente che si sovrappone alle precedenti è di tipo costumer based,
cioè la prospettiva che considera i vantaggi che i clienti avrebbero dalla convergenza, quindi la
capacità di quest’ultima di generare valore per il cliente, appunto integrando offerte diverse Es.
Eataly. Le tre prospettive (tecnologica, concorrenziale e customer based) non devono essere intese
reciprocamente sostitutive, infatti: i comportamenti convergenti delle imprese sono spesso indotti da
fattori tecnologici, per acquisire un vantaggio competitivo, a condizione che il mercato e i clienti ne
ottengano un valore superiore.

Il comportamento del consumatore (capitolo 5)


• La centralità del consumatore: il consumatore oggi esprime una di quelle dimensioni colme di
complessità, infatti è sempre più esigente, informato, abituato. Si arriverà addirittura a parlare di
marketing one-to-one. Egli non è più considerato come il ricevente passivo di proposte commerciali
dell’impresa, ma diviene attivo protagonista del processo di marketing. Da consumatore a co-
creatore del valore. Il valore è enfatizzato non nello scambio, ma nell’utilizzo cfn value-in-use. Es.
quanto valore c’è all’interno di uno smartphone? Tantissimo, proprio per tutte le possibilità di utilizzo

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che propone (e che noi paghiamo), MA di fatto non utilizziamo mai le potenzialità di uno smartphone
al 100%. Cosa significa per il consumatore diventare co-creatore del valore?
• Oggi si parla sempre di più di “clienti”, piuttosto che di “consumatori”: il secondo termine infatti, a
livello etimologico, identifica un atto conclusivo e dunque ha una valenza negativa (consumare
significa anche logorare, intaccare ecc); dall’altra parte, il primo termine è pervaso da fattori positivi,
in quanto richiama elementi come la fiducia, la fedeltà, la reputazione, e non ultima la dimensione
relazionale.
• I principali trend a livello macro, socioculturale: risultati di Euromonitor International, “Top 10 Global
Consumer Trends 2020” – notiamo che il consumatore si trova stretto tra due elementi a volte in
contraddizione tra loro, la convenience (d’uso, di prezzo ecc) e la personalizzazione (il tailor-made).
La complessità per le aziende nasce dal fatto che cercano di creare prodotti personalizzati e comodi,
ma anche con un costo di produzione e di marketing (e conseguente prezzo) contenuti.
• Le diverse prospettive d’analisi dei consumi: il consumo innanzitutto è un fenomeno sociale che
riguarda la collettività e singolarmente gli individui, per questo deve essere analizzato e interpretato
in chiave interdisciplinare in una prospettiva sia macro che micro. La prospettiva economica – il
consumo è un momento fondante, i concetti sono svariati (utilità, utilità marginale, funzioni di
consumo e modelli econometrici ecc), il limite è che non considera la soggettività degli individui;
prospettiva sociologica – consumo come fenomeno sociale, concetti come il consumo ostentativo,
effetti emulativi, teorie dei consumi di massa ecc; prospettiva psicologica – il consumo come atto
individuale volto al soddisfacimento di un’esigenza/piacere personale. Altre discipline si sono
occupate anche se con minore centralità dei consumi: gli storici, gli statistici, i politici e i tecnologi.
• Ovviamente, non tutte le occasioni d’acquisto posseggono le caratteristiche dell’interesse, della
partecipazione attiva e del coinvolgimento – da qui deduciamo le due tipologie di base: il
convenience shopping ¹ recreational shopping. Una stessa persona può vivere
contemporaneamente le due condizioni e modificare di conseguenza i suoi comportamenti. Da
notare che paradossalmente il recreational shopper risulta molto più razionale di quello convenience,
proprio perché ha visitato più punti vendita. Secondo Fabris le caratteristiche salienti del
consumatore di oggi sono riconducibili alle seguenti dimensioni: autonomo e dotato di senso critico,
per cui che richiede maggiore considerazione da parte dell’impresa; competente (a causa delle
maggiori info a disposizione); esigente in termini di qualità e valore dell’offerta; selettivo; orientato in
senso olistico rispetto alle dimensioni tangibili e non dell’offerta; disincantato.
• Questi filoni di studio ci aiutano a capire che oggi il consumatore non va più alla ricerca di un singolo
prodotto, ma di un’esperienza. ~ Customer experience: conseguenza a livello cognitivo e affettivo
dell’esposizione e dell’interazione del cliente coi prodotti, i servizi, i processi, le tecnologie e le
persone dell’azienda. Dall’esperienza il consumatore desumerà atteggiamenti positivi o negativi
rispetto all’azienda. Già nel 1998 Pine e Gilmore parlavamo di “economia dell’esperienza”. Schmitt
poi giungerà a definire cinque tipologie di esperienze (SEMs, Strategic Experiential Modules): sense
experience (esperienza tratta dall’uso dei cinque sensi), feel experience (attiva la componente
emozionale), think experience (lavora sulle dimensioni cognitive), l’act experience (attivazione di
comportamenti fisici) e la relate experience (in interazione con altri soggetti). L’attuazione di
un’esperienza si fonda sulla compresenza di tre fattori: prodotto/servizio offerto, servizio (inteso
come interazioni tra l’impresa, il personale, il consumatore) e l’ambiente (cioè tutti gli elementi esterni
che circondano il prodotto) à A noi interessa, come azienda, su quali dimensioni dell’esperienza ci
conviene insistere, anche in base alla tipologia di prodotto, per arrivare alla customer satisfaction.
• Le fasi del processo d’acquisto: dobbiamo entrare nel merito della “black box” del consumatore, per
captare cosa lo guida nelle scelte e nelle decisioni d’acquisto per fornirgli un’esperienza positiva e
captare i touchpoint di essa, per stimolarlo a co-creare con noi quell’esperienza positiva. ~ customer
journey. Entrano in gioco tre sistemi: il sistema motivante, quello percettivo e quello valutativo. Non
sempre il consumatore svilupperà le fasi del customer journey in maniera sequenziale, spesso
tornerà indietro a riconsiderare quello che aveva pensato. Inoltre, il processo in tutte le sue fasi è
quello nella complessità massima.

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1. Percezione del bisogno. Es. siamo sempre più stimolati dal well-being, dal sentirci bene a livello
fisico e mentale – antidolorifici di Menarini. Spesso come azienda dobbiamo passare dal concetto
del bisogno al quello del problema che il consumatore vuole risolvere. Le aziende non creano bisogni
(perché essi sono di un numero finito), sono i desideri con cui dare risposta ai bisogni che invece
sono infiniti e qui l’azienda può intervenire, creando infinite soluzioni ai bisogni concreti che il
consumatore ha. L’azienda può quindi innanzitutto identificare il bisogno, per poi cominciare a
pensare ad una soluzione al problema: per farlo, deve fare ricerche. L’azienda vuole entrare nel
mondo del consumatore e aiutarlo a mettere meglio a fuoco il suo bisogno e la soluzione. Es.
azienda che vuole entrare nel mercato dei contapassi, per rispondere a quel bisogno di well-being.
Il sistema motivante quindi entra in gioco tra la prima e la seconda fase, spingendo l’individuo
all’azione attraverso elementi come il sistema culturale (migliorare le propri condizioni fisiche),
sociale (i gruppi di appartenenza), personale (caratteristiche dell’individuo) e psicologico (personalità,
stile di vita ecc).
2. Ricerca delle informazioni: nel momento in cui l’individuo ha identificato il suo bisogno in maniera
tale da motivarlo (è entrato già in gioco il sistema motivante), per fare un passo successivo arriviamo
alla fase di ricerca di informazioni. Il sistema percettivo, che entra qui, rielabora le informazioni in
ingresso per consentire all’individuo di raccogliere e sistematizzare le informazioni utili a capire le
diverse alternative presenti sul mercato e per rielaborare le diverse fonti di informazioni: le info
selezionate rientreranno poi nella cosiddetta “memoria attiva”, una sorta di magazzino di
conoscenze ed esperienze precedenti dal quale il consumatore attinge in caso di necessità. Es. per
cercare informazioni su un contapassi, potremmo guardare Instagram, Google, Amazon, recensioni,
punto vendita ecc. Le fonti possono essere quindi: commerciali (ne conosciamo l’origine, cioè
l’azienda), sociali (amici, peer), istituzionali (gli esperti in punto vendita), personale (esperienza
passata diretta). All’azienda serve identificare le diverse fonti e capire poi a quali fonti informative il
consumatore dà più importanza: da questo, capirà come investire nella comunicazione. Il sistema
percettivo ormai presente consiste in meccanismi di attenzione selettiva, percezione selettiva e
ritenzione/memoria selettiva: ciò significa che il consumatore non assorbe senza criterio le
informazioni, ma le rielabora e interpreta con un’intenzione – questo tira in campo tutto il sistema di
valori del consumatore, che di conseguenza l’azienda deve avere ben in mente, ma soprattutto
l’azienda deve saper superare queste barriere di selettività. Es. Nutella Biscuits: la percezione
selettiva, da parte degli acquirenti Nutella, è stata positiva, perché la qualità del prodotto (nonostante
la novità) si assimila perfettamente a tutto quel mondo di valori che Nutella propone. Questi
meccanismi non hanno a che fare tanto con la fonte del messaggio, quanto con il contenuto e lo
stile dell’informazione, che quindi l’azienda deve calibrare in modo sensato. Le informazioni possono

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essere immagazzinate in tre set: quello evocato negativo (brand che hanno dato informazioni
contraddittorie, incoerenti, non congruenti al valore del consumatore) – se capita questo, il processo
d’acquisto finire qui; quello evocato neutro (brand che ha dato informazioni indifferenti o incerti, su
cui non ho un’opinione o di cui non ho abbastanza informazioni); quello evocato positivo/evoked set
(brand che hanno saputo superare le barriere del sistema percettivo) – questi brand entreranno nella
prossima fase.
3. Valutazione delle alternative di prodotto/marca e del punto vendita: si mettono a confronto le
alternative di brand o di prodotto presenti nel set positivo. Entra in gioco il sistema valutativo:
interviene in primis in questa fase, ma anche nella fase finale (quando si valuterà la
soddisfazione/insoddisfazione), e nella fase di percezione del bisogno iniziale (soppesa le diverse
motivazioni/influenze ambientali). Ci sono diversi modi per valutare le alternative, che
tendenzialmente non sono più di quattro o cinque – siamo però ancora in una fase di intenzione,
quindi di potenzialità. Si dovrà innanzitutto scegliere il prodotto e poi anche in quale punto vendita
andarlo ad acquistare, o al contrario: la sequenza è decisiva, perché nel secondo caso la selezione
viene limitata ai prodotti disponibili nei punti vendita prescelti.
4. Acquisto: atto effettivo. Cosa può succedere tra l’intenzione e l’acquisto? Diversi fattori esogeni Es.
cassa integrazione, ho un’altra mancanza improvvisa, mancanza del prodotto nel punto vendita,
fattore psicologico, intervento sul prezzo fatto da un competitor ecc !! Tutte le carte possono essere
sconvolte, il consumatore ha sempre la libertà di cambiare idea, per questo dobbiamo mantenere il
contatto con lui per tutte le fasi del processo. Es. Ferrero per evitare questo ha scelto di essere
presente capillarmente, ovunque, in tutti i touchpoint in cui il consumatore può avere il bisogno
fisiologico a cui Ferrero immediatamente riesce a rispondere.
5. Utilizzo: anche questa è una fase importante, perché è il momento di verifica per il consumatore e
per l’impresa.
6. Soddisfazione/insoddisfazione: fase finale, decisiva, che dovrà essere adeguatamente misurata
dall’azienda. È dunque un momento di verifica e di feedback: è decisiva la soddisfazione se vogliamo
lavorare sul lungo periodo. Essa è determinata dalla differenza tra il valore atteso e il valore percepito:
VA minore-uguale al VP. È individuale, perché le aspettative sono create in modo autonomo, ma
dinamica, perché magari il consumatore dopo trova altri prodotti migliori. Inoltre non ha un limite
superiore e non può mai dirsi conquistata stabilmente. Ogni fase del processo d’acquisto è
sottoposta a una valutazione della soddisfazione: la somma delle soddisfazioni darà luogo a una
soddisfazione totale dell’esperienza. La customer satisfaction è l’antecedente della fiducia (e la
fiducia a sua volta è antecedente alla fedeltà), al contrario l’insoddisfazione rallenta il processo
d’acquisto o lo interrompe definitivamente. à Un comportamento fedele verso una marca è
intenzionale, si concretizza nell’acquisto, è ripetuto nel tempo, è la scelta di uno o più beni di marca
in presenza di alternative e in ultimo è il risultato di un processo valutativo e decisionale in presenza
di alternative. Fedeltà alla marca (brand loyalty) e/o fedeltà al punto vendita (store loyalty). Vi sono
alcuni indici che possono essere utilizzati per monitorare il livello di fidelizzazione dei clienti di
un’impresa e il valore della relazione tra impresa e cliente nel lungo periodo:
- Customer retention rate (CRR): questo indice evidenza la variazione del numero di clienti rispetto al
periodo precedente al netto delle nuove acquisizioni, è quindi utile per capire se le azioni sono state
!" #$!
fatte finora sono state efficace. 𝐶𝑟𝑟 = !!" Es. 31 dicembre T1, 1 gennaio T0. Crr = 175-50/ 125
"
(x100)= 1, cioè 100% - l’azienda è stata efficace? Di fatto ha mantenuto la sua base clienti, non c’è
stato un incremento in termini di nuovi clienti al netto dell’anno: il saldo è nullo. 50 sono i nuovi clienti
e l’azienda per acquisirli ha dovuto investire: questi clienti rimasti, possiamo definirli fedeli?
Apparentemente sì, va verificato il prossimo indice.
- Coefficiente di fedeltà alla clientela (CFC): rispetto al primo indice, questo riguarda maggiormente
la dimensione cognitiva che rappresenta in ultimo la fiducia del cliente nell’impresa. Con un tasso di
customer satisfaction del 60% e un customer retention rate del 70%, il coefficiente di fedeltà è pari
al 42 % (0.7 x 0.6). 𝐶𝑓𝑐 = 𝐶𝑟𝑟 × 𝐶𝑠𝑟. Quindi, soltanto il 42% dei clienti probabilmente ci sarà fedele
l’anno prossimo, proprio perché la customer satisfaction è bassa. Un altro indice simile è il Net
Promoter Score, che si basa sulla domanda “consiglieresti questo prodotto a un tuo amico/familiare/
collega?” e che guardando i risultati dice che, chi risponde da 0-6 è detrattore, da 7-8 è passivo e

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da 9-10 è promotore: facendo la differenza in percentuale tra i promotori e i detrattori (ovviamente
calcolato sulla percentuale dei rispondenti), avremo lo score in termini numerici – questo dà
un’indicazione sulla percezione reale che i consumatori hanno rispetto al tal prodotto
- Livello di redditività del cliente: per comprendere quali siano i clienti più profittevoli per l’impresa e
quindi più interessanti, può essere rilevante integrare gli indici visti con quest’altro indice, che è dato
dal rapporto tra i ricavi generati dal consumatore e i costi di marketing necessari per la sua
acquisizione e mantenimento.
- Customer share: consiste nella percentuale dei prodotti che il singolo consumatore acquista
dall’azienda rispetto al totale dei suoi acquisti per quella categoria di prodotto. Più aumentiamo la
customer share, più il consumatore sarà insensibile alle offerte della concorrenza.
- Customer lifetime value: essa è la contribuzione, in termini di ricavi al netto dei costi, di un cliente al
profitto dell’impresa durante tutta la sua relazione con essa e pertanto riflette la reddittività futura del
cliente. Nella sua formulazione più semplice, gli elementi da stimare sono: durata del rapporto in
anni (D), numero di acquisti all’anno (Aq) e valore medio di ogni acquisto (Vm). Lifetime value = D x
Aq x Vm. Es. siamo L’Oreal e abbiamo calcolato che la pelle di una donna cambia ogni 15 anni;
possiamo ipotizzare che D sia la durata media del rapporto del consumatore rispetto alla linea di
prodotti specifici; mediamente il consumatore acquista 6 volte all’anno una confezione di crema
idratante e spende circa 100 euro (valore medio). Lifetime value = 15 x 6 x 100 = 9000 euro, cioè
effettivamente i soldi che L’Oreal perderebbe se la consumatrice passasse a Nivea ad esempio.
• Esistono dunque tre tipi di risposte che il consumatore può dare agli stimoli che l’azienda gli dà
durante tutto il processo d’acquisto: learn, risposta cognitiva – riguarda le informazioni e la
conoscenza; le misure sono riferibili alla notorietà di un brand, alla memorizzazione, alla rilevanza
ecc. Feel, risposta affettiva/emozionale – riguarda le preferenze individuali e le valutazioni soggettive;
può essere misurata considerando l’immagine di prodotto, le associazioni rispetto al brand, le
preferenze dichiarate ecc. Do, risposta comportamentale – ha a che fare con l’azione o non azione
d’acquisto, ma anche la ricerca di ulteriori informazioni, la prova, la scrittura di recensioni, la fedeltà.
• Diverse situazioni d’acquisto: la sequenza learn-feel-do, cioè quella “normale”, potrà essere
sovvertita infatti in base alla tipologia di prodotto o servizio, nello specifico in relazione al livello di
coinvolgimento psicologico e alle tipologie di apprendimento (vedi dopo). Oltre ad essere circolare,
nel processo d’acquisto ci sono infatti tre fattori fondamentali che intervengono a connotare le
diverse situazioni d’acquisto:
a. L’apprendimento, cioè lo sforzo richiesto al consumatore di apprendere modelli nuovi di utilizzo, di
abitudini, di canali distributivi ecc. I fattori rilevanti sono dunque divisibili in tre macro categorie: la
novità del prodotto rispetto al set di conoscenze del consumatore, la complessità tecnica e di utilizzo
del prodotto e la mancanza di chiarezza rispetto ai benefici. I prodotti possono essere ad alto o a
basso apprendimento: non è detto che i prodotti ad alto apprendimento siano per forza tecnologici.
Es. Bioscalin per i capelli/Inneov per l’anti-age erano prodotti molto innovativi quando furono lanciati,
perchè proponevano pastiglie per risolvere i problemi estetici. Nei casi di prodotti ad alto
apprendimento, si dilatano i tempi del processo d’acquisto (perché si allunga la fase di ricerca delle
info soprattutto): è questo il rischio delle aziende fortemente orientate al prodotto. I prodotti a basso
apprendimento trovano un riscontro più immediato da parte della domanda, non perché sono banali,
ma perché muovono da esigenze già presenti ma non ancora aventi risposte (e quindi sono prodotti
molto intuitivi). Oltre a considerare il livello di apprendimento, va considerato il modo con cui il
consumatore si avvicina al prodotto per poi “apprenderlo”, per questo esistono due modelli di
apprendimento: intellettuale (razionale) e affettivo (sensoriale, emotivo).
b. Livello di coinvolgimento psicologico del consumatore: può essere un livello di coinvolgimento alto
o basso.
¯ I possibili percorsi di risposta del consumatore, incrociando l’apprendimento e il coinvolgimento
sono i seguenti. Interessante guardare a questo schema per capire come approcciarsi al consumatore,
cioè quale sia la prima risposta con la quale far partire il processo. Es. edonismo: cioccolata, birra,
marmellata; affettività: cosmetici, gioielli, alta moda; routine: detersivi, fazzoletti; apprendimento:
automobile, elettrodomestici, prodotti durevoli.

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¯ Incrociamo il livello di coinvolgimento psicologico con la differenziazione percepita tra i prodotti. Da
questo si determina se il processo d’acquisto è completo in tutte le sue parti o “scontato”. Es. di ricerca
di varietà: biscotti Mulino Bianco; nel caso di fedeltà alla marca il processo è completo; dissonanza
cognitiva: prodotti di artigianato di alto livello (tipo tappeti persiani) o pezzi di design.

c. Rischio percepito e associato alle decisioni: la percezione del rischio d’insuccesso/d’errore è del
tutto soggettiva. La percezione del rischio tende a essere vissuta soprattutto durante le fasi
precedenti la decisione d’acquisto (rischio associato all’incompletezza delle info) e nel momento
delle scelte tra alternative di prodotto/marco e punto vendita. Il rischio ovviamente è tanto più elevato
quanto più alto è il sacrificio necessario per ottenere un determinato prodotto. Vi sono tre modalità
disponibili per l’impresa che riducono la percezione del rischio: gestire le informazioni e le
comunicazioni, offrire garanzie che rassicurino gli acquirenti nel caso di acquisti errati/incauti e
diminuire il prezzo.
• Il sistema valutativo delle alternative e i modelli decisionali: esistono innanzitutto tre archetipi di
modelli
- Compensatorio/multiattributo: valutazione di più attributi del prodotto, dando loro dei pesi differenti
in base all’importanza che ciascun attributo ha nella scelta. Per misurarlo ci serve l’indice di Fishbein,
che è un modello che aiuta a definire il valore percepito di un prodotto/servizio o di una marca da
parte del consumatore. È il prodotto tra l’importanza di un attributo e la performance percepita

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rispetto a quell’attributo nel brand/prodotto specifico: la sommatoria di questi prodotti darà luogo a
un indice sintetico.
Esercitazione sull’indice di Fishbein, monopattini elettrici: avevamo chiesto quale fosse il valore
attribuito a diversi attributi forniti. I nostri coefficienti di importanza nell’indice di Fishbein ci dicono
che il criterio più importante è la durata dell’autonomia (27%), poi la leggerezza (22%), la velocità
(21%), la dimensione (15%), gli accessori (10%) e per ultimo il design e il colore (5%). Queste
informazioni possiamo raccogliere soltanto attraverso ricerche. Non abbiamo inserito il prezzo,
perché sono stati deliberati a livello di governo degli incentivi per l’acquisto di questi prodotti e questo
ha avuto la conseguenza di desensibilizzare il mercato rispetto al prezzo (per cui non sarebbe un
fattore psicologicamente determinante) + essendo la media del prezzo pieno 320 euro, si capisce
che al consumatore medio non interessa tanto spendere poco rispetto a questo prodotto. Motorway
ha cercato di capire quale valutazione (da 1 a 10) davano i clienti di questi 7 brand a ciascun attributo
analizzato, attraverso un ulteriore questionario.

Esempio calcolo indice di Fishbein con Nilox: 5x0.22+5x0.15+7.4x0.05+7.1x0.27+7x0.21+8x0.10=


6.407; Segway 7.625; Xiaomi 7.85; MegaWheels 6.856; Magicelec 7.116; Razor 5.51; NITO 7.56.
Xiaomi nella mente del consumatore è percepito come il migliore, per cui seguendo la logica di
questo modello, sarebbe l’alternativa più favorevole nella valutazione, appunto perché ha l’indice di
Fishbein più alto. Possiamo dire inoltre che si tratta di un mercato competitivo (ci sono tre brand con
indici di Fishbein molto vicini tra loro). Noi siamo andati a verificare che Xiaomi è il concorrente più
temibile, quello a cui aspiriamo quanto meno ad allinearci. Ma se i consumatori non fossero tutti così
consapevoli del valore dei vari attributi? Passiamo al prossimo modello. !! Tendenzialmente si
costruisce l’indice di Fishbein per prodotti ad alto coinvolgimento.
- Lessicografico: tende nel consumatore a far ordinare gli attributi del prodotto secondo una gerarchia
di importanza, e questa gerarchia gli consente di scegliere. Lavoriamo quindi soltanto sull’attributo
più importante Es. continuando con l’esempio precedente, qua Motorway capirebbe che dovrebbe
concentrarsi su Segway (8.5), non solo su Xiaomi.
- Discriminatorio: nel caso ad esempio in cui il consumatore non sia in grado di dire le differenze tra
le marche, tende ad adottare questo modello, che gli fa fissare un “valore soglia” rispetto alle
caratteristiche del prodotto. Es. considerando attributi più verificabili, come la velocità massima
raggiungibile, mi do come soglia velocità maggiore-uguale a 8. Se così fosse, il competitor di
riferimento per Motorway sarebbe Magicelec. Oppure, se il consumatore vuole semplicemente un
prodotto di “qualità” e pone come soglia a tutti gli attributi maggiore-uguale a 7.5, di nuovo Motorway
tornerebbe a riguardare Xiaomi.
!! A seconda del modello di scelta del consumatore, cambia la prospettiva dell’azienda nell’approccio
strategico. Il punto è quindi capire quale modello utilizza primariamente il target di riferimento, questo
determinerà anche chi sono i competitors e come dovrà intervenire sul prodotto – tutto questo ha
come finalità l’aiutare il consumatore a scegliere il nostro prodotto, perché sempre più vicino ai suoi
bisogni/desideri/esigenze. Questo è un esempio di bisogno unico, la mobilità urbana, ma di desideri
multipli.

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• I ruoli nel processo d’acquisto: ogni decisone d’acquisto può essere il frutto di un sistema complesso
di compiti e di attività e può non essere svolto dalla medesima persona, ma potrebbe essere invece
il risultato dell’operare di una “unità decisionale” i cui membri hanno ruoli ben precisi. Es. nel caso
del petfood o dei prodotti per l’infanzia: chi percepisce il problema è l’animale/bambino;
l’influenzatore prima era il veterinario/pediatra, ora sono gli influencer; i decisori sono il proprietario
dell’animale o il veterinario/mamma e papà; l’acquirente, colui che materialmente acquista il bene
può essere il papà o i nonni; l’utilizzatore è colui che consuma e utilizza il bene, cioè
l’animale/bambino. Il problema per l’azienda è capire come indirizzarsi ai diversi soggetti: riguardo
all’iniziatore, bisogna lavorare sulle caratteristiche di prodotto, rispetto all’influenzatore invece sulla
comunicazione e sulla vendita, rispetto al decisore sulla leva prezzo, rispetto all’acquirente invece
su alcune attività sul punto vendita (online/offline). Inoltre, altra cosa che devono fare gli operatori di
marketing è determinare il grado d’influenza dei diversi membri dell’unità decisionale.
• Verso un consumo sempre più sostenibile: negli anni più recenti il consumatore ha mostrato una
crescente attenzione alle tematiche del rispetto dell’ambiente e dell’etica nei comportamenti delle
imprese. Questo significa che i neo-consumatori prediligono prodotti a km 0, imprese del commercio
equo e solidale ecc. Detto ciò, ci sono delle condizioni che i consumatori pongono per l’acquisto di
prodotti sostenibili: la performance (pari o superiore a quella di un prodotto abituale), il prezzo e la
credibilità della comunicazione. Costruendo una matrice che incrocia le dimensioni della
consapevolezza dei consumatori delle istanze di tipo etico/sostenibile e le intenzioni di acquisto, si
evidenziano quattro tipologie di profili: gli attenti e sostenibili, i confusi e incerti, i cinici e disinteressati
e gli inconsapevoli. Ovviamente, per ciascun archetipo sono diverse le sfide che si pongono alle
imprese che intendono muoversi nella direzione della sostenibilità.

La prospettiva individuale deve però essere integrata da una prospettiva più ampia focalizzata sulla
dimensione sociale del consumo sostenibile: ciò a cui si sta assistendo è infatti il diffondersi di
movimenti sociali che vogliono collettivizzare queste istanze, al fine di tradurre le azioni individuali
in azioni collettive in grado di intervenire sulle dinamiche di mercato. Es. voluntary simplicity, slow
living, riuso/riciclo, buycotting.

La definizione del mercato dell’impresa e l’analisi della domanda (capitolo 6)


• Una parte del marketing ha la necessità di misurare il mercato, per capire se le azioni che l’azienda
sta sviluppando hanno effetti sul mercato anche in termini di comportamento à misuriamo la
domanda. Alla base della misurazione della domanda ci sta una definizione del perimetro del
fenomeno che si va a misurare: questo significa definire correttamente in quale mercato l’azienda
opera. Obiettivo finale è infatti quello di determinare attraverso quali modalità la relazione con il
mercato può approfondirsi e fino a che punto, considerando anche una logica di sostenibilità
dell’agire dell’impresa nel lungo periodo. Perché è importante definire il mercato e l’andamento dello
stesso ai fini decisionali? Per tre ordini di ragioni:
- L’ingresso di un’impresa in un nuovo mercato è condizionato dalle dimensioni attuali e future dello
stesso
- L’allocazione di risorse tra i vari business deve tenere conto delle dinamiche della domanda
- Gli investimenti per la crescita o riduzione della produzione devono essere giustificati da accurate
previsioni di mercato

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• Nella prospettiva manageriale, il mercato per un certo prodotto è rappresentato dai soggetti, siano
essi consumatori o utilizzatori finali, che in un definito contesto spaziale e in un periodo di tempo
determinato cercano di dare soddisfazione ai propri sistemi di bisogni attraverso il prodotto stesso.
• Il modello di Abell (1980): in una prospettiva maggiormente operativa, attraverso la specificazione
delle tre componenti fondamentali alla base di questo modello, l’azienda può giungere a una
determinazione del mercato di riferimento cui si atterrà nello sviluppo dell’attività di misurazione della
domanda. È decisivo all’azienda per chiedersi quali siano i bisogni che deve soddisfare (funzioni
d’uso), in quale modo (tecnologia) e per chi (segmenti di clienti), e poi quali siano i concorrenti (nella
prospettiva del consumatore). Questo è il primo momento, perché il mercato nella prospettiva di
marketing è definito maggiormente dal punto di vista del consumatore, quindi ci si focalizza sulla
domanda.

• Va definito il mercato in termini numerici, non bastano i termini generali. La dimensione totale del
mercato è rappresentata dal numero totale di potenziali acquirenti di una specifica forma di offerta,
cioè tutti coloro che manifestano nei confronti dell’offerta tre condizioni fondamentali: l’interesse, il
reddito e l’accesso.
• Domanda di mercato// volume (numero di pezzi o unità di misura) o valore (numero di pezzi o unità
di misura PER prezzo medio) totale degli acquisti che sono o potrebbero essere effettuati da un
determinato gruppo di clienti, in una determinata area geografica, in un determinato periodo di tempo,
in determinate situazioni di mercato (presenza di competitor e fattori esogeni Es. tutto è cambiato
col Covid) e nell’ambito di un determinato programma di marketing (con specifici investimenti). à la
domanda quindi è una grandezza numerica, fisica o monetaria che esprime le dimensioni della
richiesta di un bene o di un servizio. Possiamo fare delle specificazioni, la domanda si misura infatti
a due livelli:
- Domanda globale o primaria: il volume totale delle vendite realizzate in un certo periodo di tempo e
in un certo luogo, relativo a una certa tipologia di prodotto, da parte di tutte le aziende operanti in
quel mercato
- Domanda aziendale o secondaria: la quota di vendite relative alla domanda globale detenuta da una
singola impresa o da una singola marca
!! Oltre a queste due prime tipologie, si possono individuare ulteriori categorie di domanda che
potrebbero essere oggetto di misurazione e che implicano interpretazioni e valutazioni differenti:
- Domanda di prodotti industriali: domanda generata da operatori economici quali imprese, enti,
organizzazioni ecc che si muovono meramente secondo un criterio di convenienza economica
- Domanda di prodotti di consumo, da parte dei consumatori, a sua volta divisibile in domanda di beni
destinati all’immediato consumo e domanda di beni di consumo durevoli
- Domanda finale: espressa dal mercato finale

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- Domanda intermedia: espressa dalle imprese della distribuzione o in generale dagli intermediari
commerciali
- Domanda autonoma: non connessa all’acquisto di altri prodotti
- Domanda derivata: dipendente dall’acquisto di altri beni complementari Es. stampanti e computer,
mattonelle per pavimenti e casa
• Inoltre, nel linguaggio tecnico, si utilizzano i concetti di:
- Sell in: vendite che l’impresa effettua (a volume o a valore, fatturato) ai distributori – dato ricavabile
dai bilanci
- Sell out: vendite che i distributori effettuano (a volume o a valore, fatturato) ai clienti finali – dato
ricavato acquistando le stime di mercato da Istituti specializzati (di ricerca o i distributori stessi, come
Esselunga)
!! Il sell in e il sell out in media non coincidono, perché c’è il mark up (margine) dell’intermediario (il
distributore) e poi il sell out riflette eventuali promozioni di prezzo che il distributore realizza verso il
consumatore. Con una buona gestione del magazzino comunque il sell in e il sell out potrebbero
coincidere, ovviamente a volume, a valore no (perché i prezzi pagati dal distributore e dal cliente
finale sono diversi). E poi il sell in a volume può essere più alto del sell out, magari perché Esselunga
non riesce a vendere tutto.
• L’analisi quantitativa della domanda deve rappresentare un completamento naturale e non
distaccato dall’analisi qualitativa del comportamento del consumatore (capitolo 5). Dovremo capire
innanzitutto che cosa vogliamo misurare in termini di domanda, che tipo di domanda ci interessa,
basandoci su: tre livelli temporali (breve, medio e lungo periodo), sei livelli di aggregazione di
prodotto (singolo, classe, linea, impresa, settore e vendite globali) e quattro livelli geografici
(provincia, regione, nazione, mondo). La direzione dell’impresa deve quindi selezionare quali tipi di
domanda misurare in relazione agli obiettivi che ciascuna misurazione si propone di raggiungere.

• Andremo a misurare tre fattispecie di domande:


1. Domanda potenziale, cioè il limite massimo a cui può tendere il mercato, quando tutte le aziende
che vi operano hanno raggiunto lo sviluppo dei loro programmi di marketing ~ stima.
- Per stimare la domanda potenziale, dobbiamo innanzitutto cercare di capire a quale mercato ci
affacciamo: il mercato totale è dato dalla popolazione complessiva in un’area geografica; al suo
interno c’è il mercato potenziale, cioè la domanda potenziale di quel mercato, ossia tutti coloro che
dimostrano un interesse rispetto al mio prodotto o alla categoria di prodotto; poi, restringendo, il
mercato disponibile, cioè non solo chi ha interesse, ma anche coloro che hanno le disponibilità
economiche e l’accesso (certe caratteristiche e competenze che servono per accedere a quel
prodotto); se il prodotto è ulteriormente qualificato, parliamo del mercato disponibile qualificato Es.
un farmaco che non si deve prendere sotto i 12 anni; il mercato servito/obiettivo è costituito dalla
parte di mercato disponibile qualificato che l’impresa ha scelto di servire, cioè il suo target; il mercato

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acquisito/penetrato sfocia nella domanda effettiva (coloro che hanno già acquistato il prodotto).
Ovviamente, possiamo notare come la dimensione si riduca man mano che si introducono criteri di
affinamento dell’analisi.
- Due sono gli indicatori che si riferiscono alla domanda potenziale: la domanda potenziale teorica,
rappresentata dall’insieme di soggetti economici, consumatori e organizzazioni, che in linea teorica,
in funzione di caratteristiche strutturali, potrebbero dimostrare interesse nei confronti della struttura
di offerta proposta dall’azienda; la domanda potenziale reale, che si basa sulla considerazione degli
acquisti effettuabili dai soggetti che in un dato periodo di tempo hanno già acquistato almeno una
volta il prodotto e quindi hanno dimostrato in concreto l’effettivo interesse nei confronti della struttura
di offerta. Nel primo caso i dati si definiscono a partire da dati istituzionali (dimensione della
popolazione totale ecc), nel secondo invece da ricerche di mercato, ricerche di settore ecc.
- Noi troviamo una manifestazione di questa stima, grazie al tasso di penetrazione del mercato (TMP):
esso mette a rapporto il mercato potenziale teorico (popolazione totale tendenzialmente) e il mercato
potenziale reale (l’insieme di coloro che hanno acquistato almeno una volta il prodotto, quindi hanno
reso tangibile l’interesse) x 100. Da questo indice ricaviamo dei numeri: in Italia il caffè che ha un
tasso di penetrazione del 100% (e di fedeltà del 85%), quindi per me azienda significa che la mia
crescita sussiste solo se sottraggo clienti alla concorrenza – qui il problema diventa quindi come
sottrarre clienti ai competitor Es. Nespresso l’ha capito, infatti ha proposto un nuovo modo di fare
caffè in casa (ha sottratto ai bar e alle moche). Se guardiamo al caffè decaffeinato, che ha il 15% di
tasso di penetrazione, notiamo innanzitutto il mercato non è ancora saturo ma poi che piace di meno,
cioè che il problema di un consumo eccessivo di caffeina è confinato solo a una piccola parte della
popolazione: la crescita non si raggiungerà mai di fatto, perché chi non ha questo problema non
acquisterà mai caffè decaffeinato. Diverso è il vino a marchio bio: anche qui c’è una percentuale
contenuta (6.8%), ma è più espandibile, anche se l’espansione è legata ai vincoli di produzione (se
non ci sono vigne che producono in modo biologico non ci sarà mai) e al prezzo (ancora elevato) –
bisogna aspettare un attimo che il mercato evolva.
- Il gap tra domanda potenziale teorica e potenziale reale è
spesso dovuto a: opportunità non sfruttate
(conoscenza/disponibilità/capacità di utilizzo del prodotto
del prodotto, benefici non apprezzati o costo troppo alto) ,
tasso di sviluppo del mercato (ad esempio, il segmento di
chi acquista bio è ancora una nicchia/la competitività è
intensa), il ciclo di vita del prodotto (man mano che il
prodotto si evolve e diventa maturo assistiamo a una
riduzione del gap tra domanda potenziale teorica e reale).
à Queste dimensioni ci suggeriscono in quale direzione
possiamo muoverci per riuscire ad intercettare questo gap
tra il mercato potenziale teorico e reale: infatti, quello che emerge è che il concetto di domanda del
mercato non si traduce in una grandezza definita, in un numero, ma in una funzione dello sforzo di
marketing espresso dalle imprese operanti all’interno di un determinato settore.
- Alle spalle del concetto di domanda potenziale ci sta una curva di domanda, cioè l’andamento della
domanda di mercato. Questa curva ci fa vedere il limite a cui tende la curva di domanda per il tendere
all’infinito degli investimenti di marketing: questo significa che per ingenti spese di marketing, le
vendite tendono in senso asintotico a un valore massimo, cioè la domanda potenziale o potenziale
di mercato. Esiste un livello minimo di domanda che il mercato sarà disposto ad acquistare in
assenza di investimenti di marketing da parte delle aziende e poi la distanza tra questo minimo e la
linea della domanda potenziale (quella più in alto) è la sensitività della domanda rispetto alle attività
di marketing dell’azienda (domanda secondaria) o delle aziende di quel comparto (domanda
primaria). !! Maggiore è la sensitività della domanda al marketing, più elevata è l'influenza che gli
investimenti di marketing possono avere sul mercato. Inoltre, al di sotto del punto di flesso (la parte
che sta nel quadrato tratteggiato) gli investimenti che l’azienda può fare avranno un effetto meno
che proporzionale sulla domanda: al di sotto di quel livello minimo, forse l’azienda dovrebbe
concludere che non ha senso investire sul marketing del brand. Es. nel mercato della detergenza
per la casa, fino a un po’ di tempo fa il livello di investimento minimo in comunicazione per togliersi
34
dalla confusione di info ecc era di un milione di euro all’anno, al di sotto di quella cifra non era
conveniente per l’azienda investire in leve di marketing: per questo alcune aziende in Italia
rimangono subfornitori di Procter & Gamble ecc. Nel momento in cui la domanda tende al suo limite
abbiamo l’effetto opposto: a un certo punto la domanda sta sotto il limite e ha raggiunto la sua
saturazione, non è più espandibile, per cui non è più necessario per le aziende investire tante somme
nel marketing (occorre però trovare un equilibrio per rimanere in quel punto positivo della curva).

- Quindi, in questo contesto possiamo distinguere tra: mercati caratterizzati da domanda espandibile,
che presentano cioè un basso tasso di penetrazione e in cui dunque la dimensione globale della
domanda dipende dal livello di investimento di marketing del settore; mercati caratterizzati da
domanda non espandibile, che presentano un alto tasso di penetrazione (vedi prima: caffè), in cui
gli investimenti di marketing influenzano in modo minimo l’espansione della domanda.
- I metodi di stima

a. Q/PMt = n x q (x p) Metodo utilizzato spesso per stimare la domanda di prodotti di consumo


durevole (non acquistati frequentemente). Se consideriamo solo n e q stiamo calcolando la domanda
potenziale a volume, se consideriamo anche p invece ci spostiamo sulla domanda potenziale a
valore.
b. Q/PMt = Nt x Pil x O x D (x p) Metodo invece utilizzato per prodotti ad acquisto ricorrente (di largo
consumo, ma anche acquistabili con abbonamenti). Consideriamo qui anche le occasioni d’uso e la
quantità di prodotto consumato in ogni occasione d’uso. Analogamente, fino alla D abbiamo la stima
della domanda potenziale a volume, se invece moltiplichiamo il tutto per il prezzo medio abbiamo
anche quella a valore.
¯ Vi sono due approcci generalmente utilizzati per la stima della domanda potenziale, l’approccio
break-down e quello built-up: nel primo, il marketing manager in primo luogo definisce una previsione
generale degli andamenti economici in un periodo di tempo dato, successivamente perviene alla
stima del potenziale sulla base di queste previsioni e degli andamenti storici delle vendite; nel
secondo, la stima del potenziale del mercato avviene a partire da singole aree geografiche, di
business ecc. In questo ultimo caso (approccio built-up), è possibile ricorrere a due metodi di
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valutazione: la valutazione induttiva di mercato (vengono identificati tutti i possibili acquirenti in ogni
area e poi vengono stimati i possibili acquisti) e il metodo degli indici a fattori multipli (misurazione
indiretta che assume la forma di una correlazione tra il livello delle vendite nell’area e alcuni indicatori
come la numerosità della popolazione, l’intensità del consumo del prodotto ecc.)
- La stima della domanda potenziale assume grande rilevanza nei processi decisionali che riguardano
in particolare: definizione degli obiettivi in termini di quote di vendita, modalità di allocazione degli
investimenti di marketing, introduzione di nuovi prodotti sul mercato, selezione di nuovi canali
distributivi, attivazione e sfruttamento degli impianti di produzione.
- La determinazione del potenziale di mercato consente inoltre di stimare l’indice di sviluppo del
mercato (MDI), inteso come il rapporto (divisione) tra il livello della domanda effettiva e il potenziale
di mercato à MDI = ED/MP x 100. Questo indice esprime l’attrattività di un mercato in termini di
potenzialità di sviluppo (quindi può essere utile all’impresa nella scelta dei mercati obiettivo). In
particolare, un indice di sviluppo del mercato inferiore al 33% suggerisce che ci sono considerevoli
spazi di crescita e che l’impresa dovrebbe agire ad esempio: specificando maggiormente i benefits,
rivedendo i prezzi, reindirizzando la comunicazione attraverso la proposta di potenziali occasioni di
consumo ecc. Quando l’indice supera il 67% vi sono ancora spazi di manovra, ma ovviamente il
compito diviene più complesso e lo si fronteggia ad esempio attraverso una crescente
differenziazione dell’offerta e nuove modalità di confronto competitivo. Nell’esempio dei monopattini
(vedi dopo), abbiamo la conferma di questo: 25000/29000 x 100 = 84%, il mercato, come diremo
dopo, è già abbastanza saturo e poco capace di sviluppo – entrarci sarebbe costoso e rischioso.
- La dimensione dell’agire sostenibile in questo contesto vede un momento di efficacia: infatti, le
aziende che si muovono in contesti caratterizzati da indici di sviluppo elevati (sempre più diffusi
soprattutto nelle economie avanzate) sono spinte ad attivare politiche rivolte non solo ai singoli
individui, ma anche alla collettività.
Esercitazione sulla domanda potenziale: siamo una società free floating che vuole entrare nel mercato
dello scooter sharing. Il prezzo è più basso di quello della media del mercato (perchè nell'app verranno
visionate spot di sponsor), target giovane e residente
nei centri urbani. I monopattini elettrici vengono utilizzati
circa 3 volte al mese con una durata media di 20 minuti
per volta. Ogni monopattino elettrico riesce ad
effettuare una media di 3 ore al giorno prima di dover
essere ricaricato. Nt= 60.244.639 italiani, Pil= 15%
(residenti nelle grandi città) e 30% (fascia di età che ci
interessa), O = 3 occasioni d’uso al mese, D= 20 minuti
e P=7 euro (media di mercato) à PMt= 60.244.639 x
0,3 x 0,15 x 3 x 20 = 1.951.926.303,6 minuti è il potenziale di mercato annuo i termini di minutaggio.
Se trasformiamo questi minuti in ore, escono 32.532.105,06 ore. Per trasformare questo dato ad ora
soltanto a volume, a valore, dovremmo moltiplicarlo per 7 euro. Abbiamo però un limite massimo,
poco utile. Ogni anno un monopattino può effettuare 1095 ore di servizio (3h x 365): ci interessa infatti
capire con quanti monopattini entrare nel mercato. Se prendo il potenziale di mercato ad ore, cioè
32.532.105,06 e lo divido per le 1095 ore di servizio, esce che la flotta potenziale nel mercato italiano
necessaria per soddisfare la domanda è di circa 29.710 monopattini. Se fossimo l’azienda, che
decisioni prenderemmo? Mancano delle info, ad esempio serve sapere quanti monopattini ci sono già
in circolazione: i concorrenti sono già presenti sul mercato con circa 25.000 monopattini (sommando
le flotte) – con questa informazione, possiamo dire che conviene entrare nel mercato. Gli articoli
pubblicati ci dicono in realtà che a Milano ci sono troppi monopattini: la domanda potenziale pare già
saturata quasi completamente. Se apparentemente, stimando la domanda, appariva un mercato
interessante, poi si è capito che non è poi così espandibile e sensibile ad investimenti di marketing:
si espanderà, ma ancora non è pronto. Inoltre, per una società nuova, sarebbe forse troppo costoso.
Dobbiamo aspettare una modifica delle variabili esogene (se cresce il target, le ore di consumo, gli
incentivi promessi ecc) per vedere se la domanda potenziale aumenta.
- La domanda potenziale ci serve anche per calcolare il gap potenziale, cioè il divario fra il livello della
domanda potenziale e quello raggiunto della domanda effettiva in un determinato periodo. à
𝐺𝑎𝑝𝑃𝑜𝑡" = 𝐷𝑃" − 𝐷𝑒" . Possono esserci tre tipologie di gap: gap di non utilizzatori(non-user gap),
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gap di occasioni (light-user gap) e gap di quantità minima utilizzata (light-usage gap). Nel nostro
esempio: i light-user gap ci farebbero domandare perché solo 3 volte al mese si utilizza il
monopattino elettrico, mentre il light-usage gap ci farebbe domandare che percorsi ci stanno dietro
ai 20 minuti medi di utilizzo.
2. Domanda effettiva, le dimensioni del mercato esistente in un momento specifico, quindi si tratta della
domanda attuale, che può essere globale se ci riferiamo a un bene generico/intera clientela o
parziale se invece ci riferiamo a prodotti specifici/particolari gruppi di consumatori ~ misurazione.
!! Obiettivi

¯ Questa misurazione dunque ci consente di valutare i risultati, in termini di vendite, che l’impresa
ha ottenuto a fronte delle decisioni di marketing che sono state definite dal management in sede di
pianificazione. ~ dimensione di controllo
- L’indicatore principe della domanda effettiva è la quota di mercato. 𝑄𝑀% = vendite del prodotto “i” da
&
parte dell’impresa/vendite totali del prodotto “i” x 100. à 𝑄𝑀% = # . È un valore espresso in %. Ci
&
interessa per capire se quello che abbiamo fatto in termini di attività e politiche di marketing è stato
efficace e poi anche capire nell’evoluzione generale del mercato nel tempo come la nostra impresa
si muove.
- Anche la quota di mercato può essere espressa in volumi (quantità vendute) e valore (fatturato).
Non è banale questa distinzione, perché possiamo confrontare questi risultati: quando QM val > QM
vol significa che il nostro prezzo è superiore a quello medio del mercato (abbiamo un premium price,
calcolabile come la differenza percentuale tra il prezzo del nostro prodotto e il prezzo medio); se QM
val < QM vol significa invece che il nostro prezzo è inferiore alla media del mercato.
- La quota di mercato può essere analizzata a due livelli: il numero degli acquisti da parte dei
distributori (livello retail) o il numero degli acquisti da parte dei consumatori finali (livello consumer).
Il secondo livello è calcolabile se sono un retailer, se sono un’impresa è un po’ più difficile ritrovare
i dati. Calcolare il primo livello ci serve anche per capire come tararsi nei confronti della distribuzione.
- La quota di mercato relativa ci consente di valutare la posizione competitiva dell’azienda rispetto al
mercato e ai competitors e ci interessa a livello qualitativo per capire che la quota di mercato
rappresenta la capacità del prodotto/azienda di attrarre e mantenere le preferenze della domanda,
quindi dei consumatori. Il maggior concorrente è l’impresa leader oppure se l’impresa in questione
è leader, il primo inseguitore. à 𝑄'() = quota di mercato dell’impresa A/quota di mercato del
maggiore concorrente x 100. Questa dimensione è decisiva, perché diverse saranno le valutazioni
se l’azienda deterrà una quota di mercato del 35% a fronti di un concorrente con una quota pari al
28% (e quindi la sua 𝑄'() sarebbe 1,25), rispetto alla stessa situazione ma con un concorrente che
detiene il 2% della quota di mercato (e quindi la sua 𝑄'() sarebbe 1,75)
- Teorema fondamentale della quota di mercato (Kotler)// la quota di mercato di un’impresa è
proporzionale all’intensità e all’efficacia dello sforzo di marketing esercitato dall’impresa stessa,
*
paragonato a quello di tutte le imprese concorrenti à 𝑄𝑀% = *# , dove 𝑀% è lo sforzo di marketing
dell’impresa i ed M è lo sforzo di marketing di tutte le imprese concorrenti.
- Inoltre, gli studi collegati al progetto PIMS (Profit Impact on Market Strategies) hanno dimostrato che
fra le principali determinanti della redditività aziendale un ruolo fondamentale è giocato proprio dalla
quota di mercato. È stata infatti dimostrata l’esistenza di una correlazione positiva tra la quota di
mercato e la redditività del capitale investito, espresso in termini di ROI (return on investment).

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Questo perché i prodotti caratterizzati da un’elevata quota di mercato: godono di economie di
produzione, riducono l’avversione al rischio da parte dei clienti, rafforzano il loro potere di mercato
verso fornitori e distributori e sono in grado di attirare le risorse umane più qualificate.
- La quota di mercato a livello retail può essere scomposta in due indici, l’indice di penetrazione e
l’indice di copertura ponderata. L’indice di penetrazione, detta in sintesi, è quanto siamo riusciti a
“conquistare il distributore”: ipotizziamo che l’indice sia pari al 100%, vorrebbe dire i distributori
acquistano (e vendono) solo i nostri prodotti. Per aumentare l’indice di penetrazione quindi dobbiamo
cercare di rinsaldare le relazioni con il distributore, cercando di fargli capire perché il nostro
prodotto/linea di prodotto è più interessante rispetto a quella dei competitor. La copertura ponderata
invece indica quanto incidono i nostri distributori sulle vendite del mercato, ovviamente per la nostra
tipologia di prodotti. Per 𝑄% si intende la quantità venduta dall’impresa iesima, mentre per 𝑄 si
intende la quantità di vendita totale del mercato (e il loro rapporto è la quota di mercato). Infine, per
𝐴𝐶𝑆% si intendono gli acquisti totali (del tipo di prodotto) effettuati dalla clientela servita.

Esercitazione, calcolo della quota di mercato relativa: caso di un brand di Colgate, Sugar Friends,
linea di prodotto dedicata all’igiene orale dei bambini. Vuole capire la sua quota di mercato relativa,
appunto perché gli interessa la forza dei competitor. È entrato bene nel mercato, perché ha raggiunto
un indice di penetrazione e di copertura entrambi del 40% (Colgate comunque è un brand forte). I
competitor sul mercato sono Elmex (indice di copertura ponderata del 50% e di penetrazione del 30%),
Oral B (indice di copertura del 30% e di penetrazione dell’80%) e AloeDent Kids (indice di copertura
del 20% e di penetrazione del 50%). Dunque, qual è la quota di mercato relativa di Sugar Friends? Il
suo indice di copertura ponderata e il suo indice di penetrazione è del 40%. La quota di mercato è
16%: perché? La calcolo come la moltiplicazione dei due indici, 0.4 x 0.4 = 0.16 cioè 16%.Invece, la
quota di mercato relativa= quota di mercato di Sugar Friends/ quota di mercato di Oral B (maggior
competitor), cioè 0.16/0.24= 67%. Nel confronto delle quote di mercato, possiamo vedere che Sugar
Friends è un follower e che bisogna lavorare sull’indice di penetrazione (Elmex ha una penetrazione
più alta della nostra, appena dietro di noi come quota di mercato). La quota di mercato relativa è un
po’ bassa, è due terzi della quota del leader.
- Possiamo scomporre l’indice di copertura ponderata in tre ulteriori indici, il peso medio dei distributori
serviti, la copertura numerica e l’indice di dispersione della clientela. Questi tre indici sono dati dalla
moltiplicazione e dalla divisione di 𝑁% , che è il numero di distributori che trattano il nostro prodotto
(Barilla), cioè i clienti serviti, mentre 𝑁 è il numero di distributori che genericamente vendono la
nostra categoria di prodotto (pasta). La copertura numerica è data dal rapporto di questi due ultimi
numeri citati ed è quello più utilizzato. Il peso medio dei distributori invece riguarda la dimensione
media della clientela servita (cioè dei distributori). L’indice di dispersione della clientela invece è il
contrario della concentrazione, perché è il rapporto tra il numero totale di distributori della categoria
e le vendite della nostra categoria.

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- Possiamo calcolare anche l’indice della qualità dei distributori, dati dal rapporto tra la copertura
+!,# $#
ponderata e la copertura numerica = / . Se è >1 l’impresa ha un portafoglio clienti di buona
& $
qualità.
- Calcolo della quota di mercato a livello consumer: essa viene effettuata con il supporto di entità
estere che si avvalgono di metodologie di raccolta dei dati, quali le rilevazioni presso un panel di
famiglie. È calcolata come il prodotto di tre indici, l’indice di penetrazione x tasso di fedeltà (simile
al customer share) x tasso di intensità. Per 𝑁% intendiamo il numero di acquirenti della marca i, per
𝑁- il numero di acquirenti della categoria di prodotto a cui appartiene la marca i; per 𝑄% la quantità
della marca i acquistata (quanta Barilla viene acquistata), per 𝑄-% la quantità della categoria di
prodotto acquistata dagli acquirenti della marca i (quanta pasta viene acquistata da chi compra
Barilla) e per 𝑄-- la quantità della categoria di prodotto acquistata complessivamente (quanta pasta
viene acquistata).

Esercitazione, scomposizione della quota di mercato a livello retail: La Free & Healthy è un’azienda
che produce prodotti Gluten Free. Da poco ha lanciato una linea di pane in cassetta con variazione
di pane ai cereali e focaccine. Vogliamo andare ad analizzare le vendite di quei prodotti, cercando
anche di capire come si differenziano per aree geografiche. Attraverso dati secondari soprattutto,
intercetta le vendite a volume suddivise per Nord-Centro-Sud, a valore, il numero di punti vendita e
gli acquisti totali di pane gluten free di Free & Healthy da parte dei distributori, poi le quote di vendita
a volume e a valore e poi i rivenditori di pane gluten free in generale. Cerchiamo la QM a volume e a
valore, poi la copertura numerica, ponderata e l’indice di penetrazione (totale e ad aree) e poi
scomponiamo la copertura ponderata.

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Acquisti totali
VENDITE PANIFICATI - FREE & HEALTHY di PANE
Dati F&H 2019 Numero Clienti (punti vendita) GLUTEN FREE
dei clienti
volume Valore
(tons)
(tons) (migliaia di euro)
area 1 (nord) 1800 € 3.200,00 1.200 10.450
area 2 (centro) 870 € 1.900,00 850 7.100
area 3 (sud) 520 € 1.500,00 1400 5.000
tot 2.550 6.000 3.450 22.550

VENDITE PANIFICATI gluten free


Numero di PDV che trattano
Italia - 2019 volume Valore
PANE GLUTEN FREE
(tons) (migliaia di euro)
area 1 (nord) 10.900 € 22.700,00 1.900
area 2 (centro) 9.400 € 19.700,00 1.700
area 3 (sud) 7.100 € 14.600,00 1.850
Totale 26.300 57.000 5.450

La quota di mercato a volume per il Nord si calcola così: 1800/10900 x 100 = 16.51%, mentre a valore
sempre per il Nord così: 3200/22.700 x 100= 14.10% - allo stesso modo per le altre aree geografiche.
Possiamo dire che: è un prodotto che si vende di più a Nord, il prezzo è minore della media del
mercato al Nord perché QM val < QM vol (a differenza delle altre aree e nel totale, probabilmente
perché ha utilizzato strategie di trial). Copertura numerica per il Nord è 𝑁% /𝑁 = 1200/1900 cioè 63,16%.
La copertura ponderata sempre per il Nord è acquisti totali del nostro pane/quota di vendita a volume
generiche Q, 𝐴𝐶𝑆% /𝑄= 10.450/10.900 x 100 = 95.87%. L’indice di penetrazione, cioè la quota di vendita
&
a volume nostra, 𝑄% / gli acquisti totali in generale, +!,# = 1800/10900 x 100= 17.22%. A livello di
#
copertura numerica, cioè guardando le scelte dei punti vendita possiamo dire che al Sud l’azienda è
presente in poco più di ¾ dei punti vendita: questo dato da solo potrebbe suggerirci di aumentare il
numero di punti vendita al Nord e al Centro. Guardando però anche la copertura ponderata notiamo
che al Nord già si genera una copertura quasi totale, per cui già molto buona anche senza aumentare
il numero di punti vendita. Rispetto agli indici di penetrazione, va detto che siamo molto bassi in tutte
e tre le aree. Il peso medio dei distributori al Nord, acquisti totali del nostro pane/ nostri clienti totali,
+!,
cioè = $ # 10450/1200= 8.71. Questo dato è più alto al Nord. L’indice di dispersione della clientela,
#
cioè acquisti totali in generale/vendite totali a volume, N/Q= 1900/10900= 0.17.
à Per il Nord non contattare nuovi distributori, ma andare a incrementare e migliorare la propria
presenza a scaffale presso i distributori già presenti, cioè migliorare l’indice di penetrazione
à Per il Centro potremmo pensare di aumentare la copertura numerica, andando ad intercettare
anche qui l’indice di penetrazione
à Per il Sud dobbiamo incrementare la presenza a scaffale, ma anche selezionare meglio i punti
vendita in cui l’azienda è presente.
3. Domanda prevista, cioè le vendite potenzialmente sviluppabili in un determinato arco di tempo
prospettico ~ previsione. Le previsioni legate all’andamento della domanda sia nel breve sia nel
medio-lungo periodo costituiscono la base per definire e programmare, nella migliore combinazione
possibile, gli obiettivi e le risorse interne di tutte le funzioni aziendali. Ovviamente, sono più affidabili
le previsioni di vendita delle tipologie di prodotti rispetto alle singole marche, delle grandi aree
geografiche rispetto alle piccole, di un breve periodo rispetto a uno più lungo ecc. Prima di eseguire
una previsione si devono stabilire gli obiettivi della stessa, bisogna tener conto del trade-off tra costo
e accuratezza ecc. Anche per la previsione della domanda futura si possono identificare diversi livelli
di analisi, infatti la previsione può riguardare: la domanda globale, l’evoluzione della quota di mercato

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dell’impresa oppure la domanda relativa dell’impresa. I metodi di previsione della domanda sono
organizzati secondo le seguenti tre tipologie:
a. Metodi qualitativi (soggettivi): le intenzioni d’acquisto dei consumatori – indagini supportate da
campionari per stabilire i futuri comportamenti di varie categorie di consumatori nei confronti di un
particolare prodotto (attenzione, simili ricerche sono efficaci per gli acquisti programmati, non
d’impulso); opinione della forza vendita e degli intermediari commerciali – tali opinioni vengono
rilevate con interviste o colloqui, si tratta di un metodo estremamente motivante nei cfn della forza
vendita, particolarmente interessante perché in una posizione più concretamente vicina al mercato;
parere di esperti esterni cfn analisi di scenario (pagina 9).
b. Metodi quantitativi (oggettivi): sono basati su modelli statistici che si fondano a loro volta su dati
storici. Vi sono tre approcci utilizzabili: l’approccio estrapolativo, che si basa sul presupposto per
cui per ipotizzare l’evoluzione futura basta essere a conoscenza degli andamenti precedenti;
l’approccio simulato, che si basa su modelli econometrici che consentono di valutare gli effetti di
diverse ipotesi; l’approccio normativo, che consiste nel definire gli obiettivi e individuare le possibili
azioni di marketing per raggiungerli. I diversi modelli statistici sono divisibili in due tipologie
significative: analisi delle serie storiche e i metodi proiettivi; modelli causali.
c. Metodi sperimentali: consistono in test di mercato finalizzati a valutare le reazioni della domanda
di un determinato prodotto a fronti di differenti alternative di scelta di gestione delle variabili del
marketing mix. Il metodo del mercato di prova ad esempio, che viene di norma applicato per i nuovi
prodotti, consiste nell’individuazione di un ristretto mercato (rappresentativo del mercato globale)
sul quale si cerca di riscontrare le possibilità di diffusione del nuovo prodotto, per dedurne un indice
di probabilità di successo.

Il processo di segmentazione, targeting e posizionamento (capitolo 6)


• Il processo di segmentazione del mercato è un momento chiave nella definizione delle modalità
con cui l’impresa intende relazionarsi con i diversi attori che compongono il mercato stesso,
declinando l’intensità e la qualità della relazione che vuole instaurare attraverso una struttura di
offerta che si reinterpreta e reinventa alla luce delle specificità della domanda. È il primo passo
della fase decisionale strategica (e poi operativa).
• Negli ultimi decenni si è assistito ad un incremento nell’offerta e analogamente, di conseguenza,
nella domanda, che è diventata quindi molto più eterogenea – il problema è diventato quindi trovare
adeguati vettori di relazione tra un’offerta sempre più complessa e una domanda sempre più
eterogenea.
• Negli anni ’50 è dunque emerso il concetto di segmento di domanda// sub mercato caratterizzato
da una specifica elasticità a particolari caratteristiche dell’offerta (in primis il prezzo) e quindi
oggetto di politiche e strategie di marketing ad hoc da parte dell’azienda. Il cliente inteso come
entità, a cui si associa una certa funzione di domanda, pone un problema di varietà tra i soggetti,
che però ai fini della semplificazione va eliminataà Il processo di segmentazione interpreta
l’eterogeneità della domanda esprimendola attraverso una distribuzione plurimodale delle funzioni
individuali di domanda. Il mercato viene quindi rappresentato attraverso la definizione di un numero
di segmenti caratterizzati da una specifica funzione di domanda cui l’impresa si riferirà nella
definizione di strategie e politiche di marketing. La segmentazione perfetta implicherebbe che tutti
gli individui possano essere identificabili attraverso un’unica funzione di domanda – cosa
impossibile: abbiamo una riduzione della complessità della domanda. L’adozione di una
prospettiva strategica alla segmentazione significa quindi per l’impresa il riconoscere
esplicitamente l’esistenza di elementi di eterogeneità che caratterizzano il mercato.
• Vantaggi della segmentazione: ottimizzazione del rapporto risultato/risorse impiegate (riduzione
delle dispersioni del capitale investito), specializzazione della produzione (prodotti e servizi adattati
ai bisogni dei clienti), individuazione delle nicchie di mercato e dei mutamenti della domanda,
adattamento dell’offerta, valutazione dei punti di forza e debolezza rispetto ai concorrenza e ricerca
di segmenti più adatti.

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• Le fasi del processo di segmentazione del mercato, un’azione chiave per l’impresa. La prima fase,
osservazione e analisi, è la fase preliminare attraverso la quale si studia e si analizza il mercato
(capitolo 4-6); la seconda è la fase della suddivisione, cioè la segmentazione del mercato in senso
stretto, che consente di suddividere appunto il mercato i gruppi distinti di potenziali acquirenti, di
cui vengono identificate le caratteristiche; la terza fase è la definizione delle priorità (il targeting),
viene qui attribuito un ordine di priorità tra i segmenti individuati, per selezionare quelli più attrattivi;
nell’ultima fase, il posizionamento e la formulazione delle politiche, si formula una posizione
competitiva per il prodotto/servizio e si definisce un marketing-mix per ciascun segmento obiettivo.

1. La definizione dei segmenti: Non esiste una modalità unica per segmentare il mercato, tutto è in
funzione degli obiettivi che l’impresa vuole perseguire: innanzitutto vanno scelte le variabili
attraverso le quali analizzare la varietà della domanda. Le variabili possono essere ricondotte a
due macro categorie, a seconda che guardino ai clienti da un punto di vista generale o nel momento
del consumo/utilizzo. In questo momento l’impresa può attivamente interpretare il mercato, magari
inserendo nuove variabili. Le variabili possono avere un ruolo di basi (se generano direttamente il
processo di classificazione in segmenti) o descrittori (se entrano in gioco soltanto a posteriori
nell’interpretazione dei profili dei segmenti), inoltre possono essere osservabili/non osservabili (dal
punto di vista della natura dei dati) o generali/prodotto-specifiche, come abbiamo detto. Le 1a
(generali osservabili – descrittive) sono riconducibili ad analisi sostanzialmente strutturali, per cui
se sono variabili facilmente interpretabili, allo stesso modo consentono la progettazione di azioni
di marketing altrettanto facilmente implementabili; le 1b (generali non osservabili – psicografiche)
consistono nelle variabili psicografiche, per cui l’utilizzo di queste variabili passa per forza
attraverso l’individuazione dei valori a cui la domanda si riferisce, consentendo così una più
affidabile interpretazione dei comportamenti di consumo; le 2a (prodotto-specifiche osservabili –
comportamentali) sono le variabili correlate al comportamento d’acquisto ecc, per cui molto
interessanti ma i segmenti hanno un limitato grado di accessibilità (se non attraverso l’adozione di
sistemi di Customer Relationship Management); le 2b (prodotto-specifiche non osservabili – legate
ai benefici ricercati) sono di nuovo variabili psicografiche, ma legate alla percezione del prodotto,
ai benefici ricercati ecc, per cui hanno un costo di ricerca elevato.

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¯ Due sono le aree fondamentali di scelta legate alla determinazione dei segmenti che
compongono la domanda: la definizione dei criteri sulla base dei quali procedere alla ripartizione
del mercato e la determinazione dei metodi attraverso i quali giungere alla definizione del numero
e dei profili dei segmenti stessi.
- Criteri di segmentazione: convenzionalmente le variabili sono associate in macro gruppi –
descrittive, molto facili da reperire presso istituti di ricerca (anche se nelle economie avanzate
queste variabili non sono particolarmente discriminanti) e identificano una segmentazione
tendenzialmente a priori, cioè descrive il profilo degli individui ma non ne indaga le cause;
psicografiche, legate ai concetti di differenze personali di approccio ai consumi, stili di vita (va oltre
il concetto di classe sociale) e personalità (cioè l’insieme delle caratteristiche psicologiche
dell’individuo); legate ai benefici ricercati, che considerano le aspettative dei clienti rispetto
all’offerta e quindi la dinamica del valore dato al prodotto da parte cliente, andranno dunque a
cercare gli attributi associati al prodotto, l’importanza relativa attribuita a ciascun attributo e
raggrupperanno così gli acquirenti che avranno ottenuto stesse valutazioni cfn indice di Fishbein;
variabili comportamentali, che si riferiscono ad un’analisi storica, per cui considerano il livello di
conoscenza del prodotto, il livello di interesse verso il prodotto
(ostili/contrari/indifferenti/positivi/entusiasti), livello di utilizzo del prodotto (non utilizzatori, ex
utilizzatori, utilizzatori potenziali, nuovi utilizzatori e utilizzatori abituali), tasso di utilizzo del prodotto,
grado di fedeltà verso la marca (fedelissimi/fedeli tiepidi/fedeli mutevoli/incostanti) e sensibilità alle
leve del marketing mix.

- Esempi applicativi delle variabili:


o Variabili descrittive: Trenitalia ha costruito due sistemi di offerta diversi appunto in base all’età
(bimbi fino ai 15 anni gratis su frecce e intercity), Atm scontata per giovani; genere: Nivea che
declina il sistema di offerta sulle donne/uomini in base alla differenza di genere appunto, per la
pelle oppure tutto il mercato dei profumi. !! Difficilmente si usa una sola variabile per volta,
abbonamenti della Scala: per età (balletto under 30 ad esempio), reddito, benefici ricercati
(culturale/d’intrattenimento), comportamentale (livello di conoscenza). Seven: età, reddito, benefici
ricercati, lo stile (variabile psicografica). L’azienda corporate L’Oreal si sviluppa in 5 linee diverse
di brand perchè rispondono a 5 gruppi di clienti differenti: il primo ad esempio è stato creato
rivolgendosi ai parrucchieri (cioè i professionisti), quindi usando le variabili comportamentali (alto
livello di conoscenza del prodotto, tasso di utilizzo alta ecc), quella descrittiva dell’occupazione e
quella legate ai benefici ricercati. Mercedes-Benz ha tante linee di prodotti (berline, SUV, station
wagon e la smart for2/for4): variabili descrittive (reddito, età), psicografica (valori, classe sociale),
comportamentali (interessa e conoscenza del prodotto) e ai benefici ricercati – per la Smart: target
giovane, benefici di comfort e praticità, livello di utilizzo basso (brevi tratti, in città), stile di vita
(contesto urbano, dinamicità). Lego utilizza la variabile delle fasi del ciclo di vita molto bene: Duplo
è per i più piccoli (prima fase), Friends (bambine, mondo delle fiabe/principesse), Technic (esperti,
ragazzini più grandi). Guardando Elvive abbiamo un esempio di variabile descrittiva dell’etnia: il
capello afro viene trattato attraverso degli shampoo specifici. Caffè: Esselunga propone tre linee,

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Smart, Esselunga classica e top – che senso ha inserirsi così in un mercato e settore già
estremamente affollato? Per le differenze di reddito (tre fasce differenti), variabili comportamentali
(fedeltà e conoscenza), psicografiche (personalità) e benefici (gusto). La variabile descrittiva della
nazionalità può essere visibile nelle offerte telefoniche (Noi International Asia). L’occupazione può
essere rilevata ad esempio nelle varie offerte di assicurazione o delle banche (Generali, BNL).
o Variabili psicografiche: la personalità e lo stile di vita è ravvisabile ad esempio nelle differenze tra
Harley-Davidson/ BMW/ Ducati, i primi sono affezionati alla libertà, alla tradizione americana, alla
forza del branco ecc. La Guide Routard è una guida turistica che si caratterizza per intercettare
una tipologia di viaggiatore avventuroso (è un certo stile di viaggiare). Fondazione Paoletti è un
ente no profit che organizza corsi in logica pedagogica (coaching ecc), pensata per una nicchia
consapevole dell’importanza delle emozioni ecc – sono valori.
o Variabili comportamentali: livello di conoscenza del prodotto (viene utilizzata di base da Google
Analytics e Facebook), di utilizzo del prodotto (Amazon Prime), di fedeltà al prodotto (carte Fidaty
o anche carte fedeltà trasversali come Nectar). Vino à Porter è un rivenditore di vini che ha alla
base un questionario che cerca di scoprire i gusti e le esigenze del cliente per proporre il vino
ideale, ad esempio il “carismatico”.
o Benefici ricercati: il Brioschi risponde al beneficio implicito funzionale della digestione (c’è una
possibilità di interpretazione). L’Oreal anti-rughe risponde a una beneficio simbolico esplicito.
- Metodi di definizione dei segmenti: la classificazione proposta si basa su due dimensioni analitiche,
la modalità di determinazione del numero dei segmenti e la natura del metodo. Per quanto
concerne la prima, abbiamo metodi a priori (che operano in una logica di pre-definizione del
numero dei segmenti) e post-hoc (che giungono alla definizione del numero solo a valle dell’analisi
dei risultati). Per quanto invece riguarda la seconda dimensione, abbiamo metodi descrittivi (che
si limitano all’evidenza delle associazioni fra variabili e segmenti) e metodi predittivi. Gli 1a sono
metodi molto utili quando si vuole ottenere un primo rapido approfondimento delle caratteristiche
dei segmenti, e di solito come base per la segmentazione vengono scelte caratteristiche specifiche
del prodotto (modalità d’uso, fedeltà ecc) o caratteristiche generali del cliente; gli 1b sono metodi
per cui i gruppi vengono analizzati per descrivere la relazione che sussiste tra l’appartenenza ad
un gruppo e un insieme di variabili (forward approach, prima variabili
psicografiche/sociodemografiche e poi prodotto specifiche Es. cross tabulation VS backward
approach, viceversa Es. analisi discriminante); i 2a sono metodi in cui l’identificazione dei segmenti
avviene attraverso il raggruppamento dei soggetti che mostrano un comportamento omogeneo
rispetto a uno specifico set di variabili Es. tecniche di clustering e modelli mistura; i 2b sono metodi
che individuano i segmenti di mercato sulla base della stima della relazione che sussiste tra una
variabile dipendente e un insieme di predittori, cioè l’obiettivo è quello di identificare segmenti
costituiti da insiemi di clienti con profili di risposta simili in termini di gradimento nei cfn di prodotti.

- Descrizione del profilo dei segmenti: avviene al duplice scopo di facilitare l’analisi dell’attrattività
dei singoli segmenti e poi la progettazione delle attività di marketing mirate. Le condizioni per una
segmentazione efficace sono: distintività, identificabilità, sostanzialità (consistenti in termini di
numerosità e potere d’acquisto totale), stabilità, accessibilità (possibilità di raggiungere i segmenti
con azioni promozionali), azionabilità. Sempre più spesso l’esito dell’attività di segmentazione si
traduce in un’ipersegmentazione, che può indurre a una proliferazione di prodotti tutti leggermente
diversi tra loro (funzioni secondarie in aggiunta a quella di base), che quindi innalzano il costo di
produzione e il prezzo al cliente. Questo non funziona nell’ottica di una sostenibilità dell’agire
dell’impresa.

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2. Le strategie di copertura del mercato e la definizione dei mercati obiettivo (il targeting): l’impresa
qui decide in quanti e quali segmenti entrare, e poi come affrontarli e come soddisfarli. Ciascun
segmento sarà misurato in termini di potenzialità e attrattività: la potenzialità dipende dalla
dimensione del segmento e dal suo tasso di sviluppo, mentre l’attrattività è misurata sulla base del
numero di imprese concorrenti presenti, la presenza o meno di barriere all’entrata o all’uscita,
grado di sostituibilità dei prodotti, il potere contrattuale dei fornitori e dei consumatori. Ovviamente
tali valutazioni devono essere integrate con le risorse dell’impresa, l’analisi degli obiettivi ecc.
- Quest’ultima può decidere di muoversi in due direzioni: tentare di soddisfare il bisogni generali del
maggior numero possibile dei clienti presenti nel mercato, oppure concentrarsi in una o più nicchie
(o segmenti) in cui il mercato può essere disaggregato.
- La qualificazione della strategia implica la scelta della strategia di copertura di mercato che
l’impresa vuole adottare – le alternative sono tre: marketing indifferenziato, differenziato o
concentrato. Quando la scelta è quella di un marketing indifferenziato, significa che l’impresa
decide di considerare il mercato come un aggregato omogeneo, o comunque decide di focalizzarsi
sui tratti comuni dei consumatori piuttosto che sulle loro differenze. La strategia del marketing
concentrato è tipica delle imprese con risorse limitate o quelle che offrono un prodotto con
caratteristiche molto specifiche, per cui la filosofia consiste nel cercare di conquistare una quota di
mercato molto elevate in un piccolo segmento, anziché una quota limitata in un grande segmento.
Es. di marketing indifferenziato, Coca Cola: utilizza la stessa strategia per tutti i gruppi,
considerandoli omogenei; differenziato, Fiat: ha individuato dei cluster di consumatori e si muove
in modi differenti (la 500 per i giovani, i minivan per altri target e i furgoni per i lavoratori ecc);
concentrato, Caterpillar: produce veicoli per costruzione ed estrazione, ma propone anche scarpe
anti-infortunistiche per il target dei propri lavoratori.

¯ In termini più concreti, possiamo declinare quanto detto in ulteriori alternative strategiche:
concentrazione su un solo segmento/prodotto, specializzazione di prodotto (si cercano di coprire
tutti gli acquirenti interessati al prodotto), specializzazione di segmento (ci si concentra su una
categoria di clienti e si offre una gamma completa di prodotti), specializzazione selettiva (introdurre
vari prodotti in mercati diversi privi di collegamento reciproco) e copertura completa (assortimento
completo per andare incontro ai diversi sistemi di bisogni di tutti gli acquirenti).

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4. Posizionamento del mercato// insieme delle attività compiute dall’impresa per individuare e
scegliere una determinata posizione nel mercato.
- Il posizionamento è il risultato di tre riflessioni congiunte: la capacità dell’impresa di comprendere
le esigenze dei clienti, di progettare un’offerta adeguata e farne percepire la consistenza ai clienti;
la possibilità che la domanda sia in grado di definire una scala di preferenze e quindi percepire le
differenze esistenti tra le offerte; il comportamento dei concorrenti, che possono determinare
diversi livelli di affollamento concorrenziale intorno all’offerta. Di conseguenza, se i clienti non
capiscono la validità dell’offerta o se il posizionamento è molto imitabile da parte della concorrenza
tutto è inutile.
- Il collegamento concettuale tra differenziazione e posizionamento è infatti molto evidente: le
alternative su cui può agire l’impresa per differenziarsi tendono all’infinito (a livello teorico), così
come sono altrettanto infinite e in evoluzione le esigenze della domanda. Comunque, le molteplici
possibilità sono limitate da alcuni elementi: la praticabilità tecnologica, i costi, la rilevanza per il
cliente e la difendibilità dei fattori differenzianti dalle azioni imitative (cfn cap. 4)
à Il posizionamento consiste quindi in un’analisi che permetta di capire quale posizione occupi, o
debba occupare, il sistema di offerta di un’impresa nell’ambito delle preferenze espresse dalla
domanda e come esso venga, o debba essere, percepito rispetto ai prodotti concorrenti.
- Abbiamo tre momenti valutativi
a. Si definiscono le caratteristiche del sistema di offerta e si cerca di comprendere l’importanza di
ciascuno degli elementi nella prospettiva degli acquirenti e dei consumatori. Dunque in questa fase
si cerca di definire il profilo del sistema di offerta ideale dal punto di vista dei clienti.
b. Ci si interroga poi in quale misura un determinato prodotto/marca sia in linea con le caratteristiche
desiderate dalla domanda, e questa analisi delle preferenze si concretizza visivamente nella
mappa delle preferenze, che è uno spazio cartesiano dato dall’incrocio dei primi due attributi
significativi rilevati con l’indice di Fishbein, con il polo positivo e negativo. Es. se parlo di dentifrici:
funzione estetica/medicale e gusto blando/intenso: ci piazzo dei segmenti tanto grandi quanto la
numerosità delle persone che hanno quella preferenza.
c. In ultimo si pone a confronto la marca in questione con i suoi concorrenti e si costruisce un’analoga
mappa delle percezioni dove vengono collocati i sistemi di offerta concorrenti. Gli assi della mappa
delle percezioni sono gli stessi della mappa delle preferenze: non abbiamo più però i segmenti, ma
le marche, che si posizionano nel luogo in cui vengono percepite dai clienti rispetto agli attributi.
¯ Dall’analisi congiunta delle mappe delle preferenze e delle percezioni scaturisce la mappa di
posizionamento del prodotto/marca ~ sovrapposizione delle prime due mappe, per capire dove sono io
rispetto ai miei competitor e rispetto anche alla presenza/assenza di clienti a cui mi rivolgo. Se vedo
che la mia marca non è dentro a nessun segmento, devo cercare di riposizionarmi. !! L’analisi
soggettiva di queste mappe potrebbe portare a una distorsione della realtà, è meglio basarsi su una
ricerca (ovviamente devo avere un budget).
Esercitazione: analisi del posizionamento competitivo delle marche di monopattini elettrici (caso su cui
abbiamo ragionato per costruire l’indice di Fishbein, pagina 27). Vogliamo fare il passo successivo, cioè

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fare le mappe: per fare questo, ci serve una ricerca qualitativa che riconosca quali sono i cluster in
questo mercato – cluster degli addicted (20% del totale degli interessati alla categoria merceologica),
dei curiosi (30% “ ”) e dei comodi (50% “ ”). Scegliamo i due attributi più rilevanti per la domanda, la
durata dell’autonomia e la leggerezza e costruiamo la mappa delle preferenze. Poi costruiamo la mappa
delle percezione piazzando le marche sui gradienti degli assi, prendendo informazioni a partire
dall’indice di Fishbein iniziale. Si può notare ad esempio che Nito non ha un segmento di appartenenza,
è vicina agli addicted (cluster già presidiato da Xiaomi e Segway – potrebbe spostarsi lì), o potrebbe
spostarsi nel segmento dei comodi (quello più grosso): questa scelta avrà come conseguenza la
rivisitazione del suo sistema di offerta.

- Un posizionamento efficace si fonda su tre elementi: deve rispondere in maniera non equivoca alle
esigenze e alle attese del target cui si indirizza, proponendo un beneficio chiaro da un pv funzionale
o simbolico; questi benefici devono qualificare l’offerta dell’impresa in modo superiore e distintivo
rispetto ai concorrenti; le politiche di marketing devono generare un’immagine percepita e
memorizzabile. à Da un punto di vista decisionale il posizionamento si fonda quindi su tre elementi:
l’innovazione (il sistema d’offerta dev’essere innovativo, cioè proporre un prodotto nuovo o
migliorato) , la differenziazione (vogliamo emergere rispetto ai competitor, quindi mostrarci come
un’alternativa valida per il mercato di riferimento) e la comunicazione (deve comunicare al mercato
le sue scelte, se no tutto è inutile).
- Il posizionamento si concretizza a livello quantitativo in una determinata quota di mercato, cioè in
un certo numero di consumatori che esprime una preferenza, attraverso l’acquisto, per quella data
combinazione di fattori, tra i quali possiamo elencare: gli attributi fisici del prodotto, gli elementi
simbolici associati al prodotto, le occasioni/modalità di utilizzo, i benefici, la fascia di prezzo, le
caratteristiche del target, il confronto diretto con un concorrente e il Paese di origine.
- In ogni mercato e per ogni tipologia di prodotto esistono fattori più o meno rilevanti e di
conseguenza i criteri di posizionamento devono essere coerenti con le caratteristiche dei mercati,
verificando che si stiano utilizzando i parametri più significativi nella prospettiva del cliente. Per
questo, esistono due tipi di analisi di posizionamento: le analisi basate su un approccio logico-
deduttivo (management based), che si fondano sull’opinione del management rispetto alle
caratteristiche fisiche e oggettive del prodotto (poor positioning) o rispetto ai riscontri ottenuti in
passato; analisi di tipo empirico, customer based, che rilevano le opinioni dei clienti. Per queste

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analisi può ritornare utile l’indice di Fishbein, che permette di sintetizzare il livello di importanza e
il grado di presenza di un determinato attributo secondo le percezioni dei clienti: incrociando le
dimensioni “importanza dell’attributo” e “differenziale di performance” si ottiene un quadrante
(quadrant analysis) che evidenzia le posizioni relative di ogni singola marca rispetto alle altre,
collocandola nei quadranti della “criticità”, dell’ “eccellenza”, della “superiorità irrilevante” e della
“criticità trascurabile”.
- La costruzione delle mappe delle percezioni e delle preferenze si ottiene ricorrendo a diverse
tecniche di analisi: la factor analysis, che ha la finalità di aggregare insieme unici fattori tra loro
correlati, la discriminant analysis, che individua i fattori di differenza tra le marche che nella
prospettiva del consumatore possono rappresentare il riferimento principale per le scelte, l’analisi
delle corrispondenze, che pone in evidenza le interrelazioni tra di variabili di natura qualitativa e fa
risaltare le vicinanze possibili tra prodotti/marche, e infine la multidimensional scaling, che verifica
le distanze percepite tra i prodotti.
- Le analisi e le decisioni riguardanti il posizionamento devono essere continuamente verificate
perché si possono creare le condizioni che impongono un cambiamento di posizione, cioè un
riposizionamento.
5. Dal posizionamento alle decisioni legate al marketing mix// insieme delle variabili dell’offerta che
sono proposte al mercato e sulle quali l’impresa concentra le sue decisioni a livello tattico operativo.
- L’attività di marketing è costituita da un insieme numeroso e variegato di “ingredienti” (le singole
decisioni, le politiche) che vanno adeguatamente dosati e tra loro integrati a formare un insieme
unitario, cioè un mix. Tradizionalmente le variabili sono quattro: le politiche di prodotto, le politiche
di prezzo, le politiche distributive e le politiche di comunicazione di marketing.
- Il marketing deve soddisfare alcuni requisiti che ne consentano una formulazione unitaria, ci deve
essere infatti coerenza sotto quattro aspetti: coerenza tra le singole variabili (il cliente non può
essere posto di fronte ad un’offerta contraddittoria), coerenza tra il marketing mix stesso e la
struttura e le dinamiche del mercato, coerenza con la disponibilità e l’ammontare delle risorse
dell’impresa e coerenza tra marketing mix e obiettivi dell’impresa (la raggiungibilità di quest’ultimi
deve essere assunta come punto di riferimento per giudicare l’adeguatezza del marketing mix).

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Le politiche di prodotto (capitolo 8)
à Il primo vero elemento di marketing mix: il prodotto.
• Il prodotto deve essere inteso per le sue capacità di dare una risposta alle esigenze dei clienti e
come riferimento della differenziazione dell’offerta. A partire dalle dimensioni chiave del prodotto,
il management potrà svolgere un ruolo di coordinamento rispetto alle diverse funzioni aziendali
coinvolte nello sviluppo e nella gestione del prodotto.
• Il concetto di prodotto: il prodotto è un sistema di attributi tangibili ed intangibili che rappresenta
una piattaforma potenziale per la creazione di valore per e con il cliente. È un’offerta multilivello: è
il mercato a decodificarne le caratteristiche, per cui la relazione è sia uno-molti (azienda-mercato),
ma anche uno-uno (il singolo cliente-prodotto). Dunque, l’impresa colloca sul mercato un insieme
d’offerta che ha nel prodotto la sua dimensione centrale: le ragioni che inducono a considerare il
prodotto come “prima” variabile del mkt mix sono riconducibili al fatto che le decisioni del cliente
prendono innanzitutto in considerazione il “cosa”, dall’altra parte nel prodotto si sintetizzano molte
delle abilità dell’impresa. Il prodotto ha due anime che si completano e si combinano: una
componente materiale ed immateriale Es. macchina Abarth (colore, materiale, materie prime
ecc)/logo Abarth (il brand, i valori ecc). La componente materiale è quella di maggiore e più
immediato confronto con gli altri sistemi di offerta, ma soprattutto la componente immateriale è
decisiva per le fonti del vantaggio competitivo (e quindi una redditività nel lungo periodo) cfn fonti
intangibili di conoscenza e di fiducia. Il prodotto quindi è quel veicolo relazionale grazie al quale
l’azienda è in grado di differenziarsi, posizionarsi, creare un confine chiaro in termini di settore e
generare un valore e una performance mantenibili nel tempo.
• Dobbiamo analizzare come gestire in maniera efficace ed efficiente un sistema di offerta: vedremo
quindi diversi modelli di analisi per generare tattiche che costruiscono un buon prodotto.
1. Il primo modello di analisi parte dal presupposto per cui acquistare un prodotto da parte del cliente
implica uno sforzo, un investimento di comprensione, di tempo, di denaro, di comparazione, in
raccolta delle info, psicologico ecc. Quindi innanzitutto va capito come il sistema di offerta si colloca
rispetto a due variabili: lo sforzo profuso nella scelta e il rischio percepito (economico, errore ecc).
Abbiamo dunque l’identificazione di quattro alternative di concetto di prodotto possibile: prodotti
convenience, cioè prodotti tendenzialmente banali, semplici, poco costosi e ad acquisto ricorrente,
reperibili in canali di massa, di fronte al quale il cliente è esperto e che hanno un’elevata
sostituibilità possibile tra le diverse offerte Es. carta igienica, fazzoletti, SMART (fascia
convenience dei prodotti Esselunga), sale grosso, benzina, pasta, litro di latte intero, bottiglietta
d’acqua !! Il discrimine è il prezzo; prodotti preference, cioè prodotti preferiti (dove le caratteristiche
sia tecniche che immateriali cominciano ad essere più connotate), sempre beni di largo consumo
ma più specifici, includono benefici e/o sociali, prezzo medio basso e coinvolgimento psicologico
superiore Es. yogurt Müller, pasta Barilla, acqua Fiuggi, latte Granarolo Accadì !! Il discrimine è la
differenziazione che la marca apporta; prodotti shopping, cioè beni di acquisto ponderato, costo
più elevato, coinvolgimento affettivo elevato, non fungibili (cioè che hanno rapporti di non
sostituibilità), con ridotta frequenza d’acquisto che porta il consumatore a fare dei veri e propri
confronti tra prodotti Es. cucina, lavatrice !! Il discrimine è la differenziazione, ma anche l’assistenza
nel punto vendita (customer care); prodotti specialty, i prodotti più complessi, tendenzialmente
appartenenti alla categoria del lusso (comunque prevedono un costo elevato), hanno un
investimento affettivo elevato, assolutamente non fungibili (a volte unici, quindi custom) e per i quali
il consumatore ha una forte preferenza di marca (cioè la marca è un forte driver di acquisto) Es.
Rolex, penne Mont Blanc, Ferrari !! Il discrimine sono tutte le leve del mkt (non solo le connotazioni
materiali/immateriali, i punti vendita ecc ma anche il mondo dell’omnicanalità). à La stessa
azienda può lavorare su tutti e quattro i livelli di prodotto (Granarolo normale/Granarolo Accadì),
inoltre lo stesso concetto di prodotto può essere declinato diversamente dalle offerte delle aziende
(acqua Rocchetta/acqua Fiuggi, cucine Mondo Convenienza/Ikea/Scavolini/Dada).
¯ Questa è una delle aree di analisi per cercare di guardare al prodotto: essa ha come riferimento
il comportamento del cliente e il rapporto che esso instaura con il prodotto stesso.
2. Il modello di Levitt: questo modello ha una prospettiva verticale sul singolo sistema di offerta (non
prende diverse azienda a confronto) e possiede quindi uno sguardo verso le caratteristiche del

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prodotto stesso. Il cuore è definito vantaggio essenziale, cioè il bisogno a cui l’offerta ad un primo
livello risponde, ma poi l’azienda può differenziarsi e specializzarsi modulando la qualità dell’offerta.
Il punto di partenza è che ogni volta che l’azienda costruisce un’offerta lo fa per un motivo:
rispondere a un bisogno dei clienti, questo è proprio il vantaggio essenziale, cioè il motivo di essere
del prodotto, il vantaggio che l’azienda desidera avere nei cfn dei competitor per essere scelta dal
mercato di riferimento. Il livello successivo coincide con il prodotto generico, che fa riferimento ai
caratteri di base del prodotto (forma, dimensione, materiale, colore ecc). Poi c’è il prodotto atteso,
che è ciò che si aspetta il cliente dal prodotto offerto: questo livello dunque include il cliente nella
prospettiva, che però ovviamente deve considerare il core dell’offerta. Questi primi tre livelli fanno
rifermento allo stato dell’arte attuale al momento in cui l’azienda svolge l’analisi. Gli ultimi due livelli
invece (prodotto ampliato e potenziale) prendono invece in considerazione gli sviluppi futuri che il
prodotto potrebbe assumere: infatti il prodotto ampliato prende in considerazione i servizi che il
cliente si aspetta e che io azienda potrei aggiungere – visione nel breve periodo, mentre il prodotto
potenziale riguarda lo sviluppo futuro del prodotto, ovvero come potrebbe trasformarsi il prodotto
per rendere più completa l’offerta (andando al di là di ciò che è attualmente, ma senza snaturare il
vantaggio essenziale – visione nel lungo periodo). Le ultime due tipologie di prodotti (ampliato e
potenziale) comportano delle verifiche accurate, in quanto la possibilità di spostarsi verso di esse
deve appunto essere valutata in relazione alle reazioni della domanda (e poi, ad esempio, alla sua
disponibilità di accettare un prezzo più elevato, conseguenza della differenziazione) Es. se io sono
un albergo – un possibile vantaggio essenziale è offrire sonno e riposo; il prodotto generico è
possedere letto, armadio, asciugamani, stanza doppia/singola, location ecc !! parcheggio, se esiste
(se no è ampliato); il prodotto atteso è la pulizia, la qualità del cibo e del sonno, il rapporto qualità-
prezzo; il prodotto ampliato potrebbe comprendere il parcheggio, servizio lavanderia, sala giochi
(se non ci sono già); il prodotto potenziale è diventare anche una spa, una palestra, un ristorante,
offrire esperienze varie (visite guidate ecc). Es. siamo Loacker, il prodotto è la barretta choco &
milk cereals: il core è il concetto di break con sfizio, il prodotto generico sono gli ingredienti (latte,
cereali, cioccolato, wafer), il prodotto atteso è una merenda golosa (la qualità, il gusto, rapporto
qualità-prezzo, praticità ecc), il prodotto ampliato è la possibilità di acquisto alle macchinette, la
sostenibilità (packaging differente), sguardo alle intolleranze e il prodotto potenziale potrebbe
accogliere necessità alimentari di altri target (nuove linee ecc), creare una piattaforma digitale per
cercare nuove soluzioni per un’alimentazione sana ecc. !! Non è detto che l’azienda nel prodotto
potenziale lavori soltanto sulla dimensione del prodotto, è più che altro lo sviluppo potenziale del
vantaggio essenziale, quindi riguarda maggiormente l’evoluzione dell’azienda.
à Entrambe le classificazioni del prodotto richiamano le logiche di differenziazione concorrenziale
e consentono di comprendere l’esistenza di numerose alternative nella formulazione delle politiche
di prodotto.
• Smaterializzazione dell’offerta: sempre di più ci troviamo di fronte a soluzioni che sono legate a
qualcosa di intangibile Es. sharing economy: i monopattini e le bici sono tangibili, ma di fatto ciò
che ci viene offerto è la possibilità di spostarsi a prescindere dal possedere l’oggetto – l’obiettivo
finale è proporre una soluzione, quindi coinvolge una dimensione olistica di offerta. In più, il cliente
in questo modo è sempre più coinvolto: sia perché attraverso le call to action le aziende ci
propongono di creare prodotti, dare opinioni. Il consumatore diventa dunque un cliente – co-
creazione, co-design e co-produzione del sistema di offerta. I vantaggi sono: la possibilità di
differenziarsi a costi inferiori (se il cliente è parte della creazione dell’offerta, l’azienda quando
alloca le sue risorse sa già che sta andando in una direzione gradita dal mercato), ampliare la sua
capacità creativa (proprio perché anche i clienti vengono interrogati e coinvolti), aumentare il valore
dell’offerta per effetto dei contenuti immateriali (da un pv tecnico, vengono lanciati nuovi
prodotti/varianti + da un pv relazionale e quindi customer satisfaction, fedeltà ecc). Es. il mondo
dello sharing, Airbnb, car pooling, Gnammo (social eating: chef a domicilio). à Smaterializzare//
estrarre dal contesto materiale del bene tangibile del servizio la conoscenza che è incorporata nel
bene o nel servizio stesso e, sotto forma di “idea”, renderla il fulcro del processo gestionale.
à Gestire il prodotto di un’azienda è una questione complessa: dobbiamo capire cosa abbiamo in
mano, cercare di interpretare le fatiche del cliente nella valutazione delle alternative e quindi

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collocarci lungo quella direttrice di sforzo-rischio e prendere in considerazione il fatto che sempre di
più i consumatori vogliono essere partecipi.
• Le dimensioni chiave delle politiche di prodotto: dal pv manageriale, la complessità può essere
approcciata tramite le seguenti dimensioni chiave
1. Connotazione del portafoglio prodotti: il prodotto fa parte di un insieme di prodotti/servizi, di
proposte, che connotano la relazione con il mercato, che è complessa – in prospettiva strategica,
il prodotto non deve mai essere considerato isolatamente dalla gamma di offerta che l’impresa
propone. Tutto il pacchetto deve essere coerente, dunque la domanda diventa: come gestire un
sistema multiprodotto? Guardiamo alla dimensione dell’assortimento del prodotto, cioè il
complesso di tutti i prodotti che l’azienda pone sul mercato e che può essere suddiviso in quattro
varianti a seconda di: chi sono come azienda (dimensione) e quantità di prodotti che sono in grado
di offrire al mercato. Innanzitutto dobbiamo distinguere tra ampiezza e profondità di assortimento:
l’ampiezza (gamma) è il numero delle linee che compongono l’assortimento stesso (logica di
completezza/differenziazione volta a soddisfare i sistemi di bisogni complessi) – diversi business
in cui l’azienda ha deciso di agire; la profondità invece è il numero di varianti di prodotto che
compongono le linee di una azienda (logica di specializzazione volta a soddisfare la varietà
richiesta da parte dei diversi segmenti). La combinazione tra ampiezza e profondità si generano
quattro strategie possibili: offerta limitata, spesso si trova nel mondo B2B (perché nei sistemi
industriali c’è una tendenza alla standardizzazione, per cercare di lavorare su economie di scala),
ma può lasciare spazi di manovra ad aziende concorrenti con strategie più definite/è un momento
evolutivo iniziale in casi come le start up Es. Iqos, Ghedini (centrifuga industriale); specializzazione
di prodotto, dove l’obiettivo prioritario dell’impresa è quello di rivolgersi in modo focalizzato ai
diversi segmenti della domanda interessati alla categoria di prodotto proposto Es. Dash (detersivo
in capsule, monodose, in polvere ecc), Ampifon, Same (azienda del B2B, produttore di macchine
agricole da quelle che trascinano la sabbia a ruspe elevatrici ecc), Mondi (palloni e
pavimentazione), Nespresso; offerta allargata, finalizzata a sostenere un processo di fidelizzazione
della clientela consentendole di soddisfare sistemi di bisogni eterogenei attraverso reiterati contatti
Es. Riso Scotti (linea dei risotti, delle gallette, delle galletti, zuppe, cracker, spalmabili: ci sono tante
linee, ma per ogni tipologia di prodotto non ci sono tante varianti), Almaverde Bio, Lush;
specializzazione estesa, è il caso delle grandi aziende, che hanno l’obiettivo ultimo di incrementare
le distanze competitive rispetto alle imprese concorrenti Es. Ferrero (sulla linea di prodotto praline
ha Ferrero Rocher, Mon Chéri, Pocket Coffee ecc, sulla linea di snack al cioccolato ha Kinder
Bueno, Kinder Cereali, Duplo ecc), Nestlé, Barilla, Ikea (borderline con l’offerta allargata, così come
Decathlon).

Qualunque sia la decisione strategica, bisogna che le imprese, in una prospettiva di sostenibilità,
pongano attenzione ad alcuni fenomeni potenzialmente degenerativi: ad esempio capita che le
decisioni di assortimento sono sempre più spesso dettate più che dai reali sistemi di bisogni della
domanda, dall’imitazione dei comportamenti dei competitors e questo porta sempre di più verso
un’ ipersegmentazione della domanda, le cui conseguenze sono un appesantimento delle strutture
dei costi e quindi dei prezzi.
2. Qualità del prodotto: devo capire di che prodotto sto parlando, quindi il mio portafoglio prodotti, con
che tipologia di sfaccettature si interfaccia con il cliente/mercato finale? Il concetto di qualità è
estremamente articolato, infatti è un concetto multidimensionale che connota il prodotto e che
costituisce una delle basi della piattaforma relazionale tra impresa e cliente. Definire la qualità di
un prodotto è molto complesso, alcuni concetti la sintetizzano in questo modo: “the efficent
production of the quality that the market expects” (prodotto finito che rispecchia la possibilità di

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essere efficiente, quindi che non stressi l’azienda sui cost), “fitness to use” (un prodotto è di qualità
quando il cliente lo sa usare, ne sa trarre vantaggio – devo far capire gli insight), “The total
composite product and service characteristics (…) through which the product and service in use
will meet he expectations of the customer” e “Meeting of exceeding customer expectations at a
cost that represents value to them” (un prodotto di qualità rispecchia le mie aspettative). In ogni
caso, l’azienda è chiamata a seguire passo passo le aspettative del cliente rispetto al prodotto.
Nella prospettiva delle politiche di prodotto la dimensione della qualità rappresenta un momento
decisionale strategico, perché in grado di connotare da un lato le implicazioni nella gestione
operativa della struttura di offerta a partire dalla definizione del prodotto, dall’altro i driver della
relazione con il mercato. Per cui passiamo da una qualità di base (risposta caratterizzata da una
standardizzazione del prodotto in relazione a un sistema di esigenze espresso da un target non
particolarmente sofisticato) a un livello di qualità elevato, teso a stabilire una relazione più profonda
e articolata con target caratterizzati da sistemi di bisogni complessi.
3. Orizzonte temporale adottato nella gestione del prodotto: il prodotto evolve (cfn ciclo di vita), quindi
in ogni fase di sviluppo succedono delle cose che l’azienda deve esser in grado di adottare. Si
tratta quindi di una prospettiva dinamica, legata alla dimensione temporale: in alcuni casi, come
nei prodotti di moda, l’orizzonte temporale è necessariamente di breve periodo, a differenza di altri
casi in cui vi è la precisa consapevolezza dell’impresa a orientare tutto il processo gestionale del
prodotto verso il lungo periodo.
• Innovazione e mercato: sul concetto di innovazione ci sono tantissime distorsioni in quanto è uno
dei temi legati alle politiche di prodotto di marketing più attuali e dibattuti, per cui va fatta una
classificazione delle diverse aree possibili di innovazione. Prima va detto però che la tradizionale
sequenza scoperta (scientifica)-invenzione (tecnologica)-innovazione si sta spostando sempre di
più verso un fulcro sul mercato e sull’utilizzo delle innovazioni compiute da parte del cliente –
prospettiva di cogenerazione: la cogenerazione può essere effettiva quando l’innovazione nasce
dall’interazione fornitore-cliente o può essere simulata, ma altrettanto valida. La dimensione
classica di innovazione è quella radicale: qualcosa che prima non esisteva, viene creato da zero –
è la tipologia più rara Es. machine learning, chatbot; innovazione incrementale: partendo da un
punto di osservazione interna, miglioro prodotti esistenti, nel senso delle sue capacità tecniche Es.
passaggio dal 3G al 5G, nuovi Iphone (sfocia nella prossima); innovazione nell’utilizzo dei
prodotti/servizi (consumo): a seguito di un’osservazione della base clienti, propongo delle migliorie
in termini di varianti di prodotto Es. Solvay, che guardando all’uso che i clienti fanno del bicarbonato
ha creato varianti più piccole e più specializzate su certi usi, aggiunta di tappo salvafreschezza;
innovazione di trade, modifiche nella relazione con il canale distributivo Es. Legumi self-service
(per evitare sprechi e risparmiare), app che danno info real time su sconti/caratteristiche del singolo
prodotto; innovazione della cultura di impresa, legata al modo con cui l’azienda vuole fare business;
innovazione di metodo, nella raccolta dei dati (quindi nel fare ricerca) oppure nel modo di
relazionarsi con il mercato.
• Il processo di sviluppo di un nuovo prodotto: questo diviene il territorio ove l’impresa si confronta
con la sua capacità di innovare e di creare le condizioni interne che favoriscano la sua attitudine
all’innovazione. L’innovazione continua declinata a livello di prodotto trova la sua ragione in una
serie di motivazioni legate ai contesti altamente concorrenziali in cui si trovano la maggior parte
delle imprese: mantenimento di leadership, difesa della quota di mercato, entrata in nuovi mercati,
difesa da parte dell’entrata di nuovi concorrenti ecc. Il processo è costituito dalle seguenti fasi
sequenziali:
1. Idea generation, tutta l’azienda lancia delle idee, quindi è una fase di massima creatività. Una
modalità di generazione delle idee è Hackaton, oppure luoghi fisici come i Talent Garden. In
generale, le tecniche più utilizzate per la generazione delle idee sono le seguenti: il brainstorming,
l’analisi morfologica, l’elencazione degli attributi, l’analisi delle situazioni d’uso e il confronto tra
oggetti diversi.
2. Idea screening: le idee generate secondo una logica “divergente” vengono selezionate (passiamo
quindi a un momento “convergente”), in base alle risorse, alle competenze e agli obiettivi
dell’azienda. Sul pool di idee classificate come “interessanti e fattibili” l’azienda si concentrerà per
generare quindi un concetto di prodotto.
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3. Concept development e testing: l’azienda deve mettere a sistema tre dimensioni per creare il
concept di prodotto, cioè l’output dell’esplorazione – il consumer insight (problema da risolvere,
bisogno non soddisfatto), il main benefit (promessa di beneficio e impegno che si prende l’azienda
nei confronti del problema emerso) e la reason why (giustificazione della promessa: perché io?
Dichiarazione di competenze specifiche). Es. siamo l’azienda Star e proponiamo scarpe e in
particolare sneakers: il consumer/customer insight è quello di avere scarpe comode per girare
tutto il giorno (lunghi spostamenti durante la giornata lavorativa), che si adattino all’outfit, ma che
abbiano una marca attenzione al tema della sostenibilità; il main benefit è una scarpa green,
comoda e traspirante, che rende unico ogni outfit; la reason why è che Star è l’unico modello di
sneakers con un’elevata funzione traspirante, una suola flessibile e un’imbottitura innovativa e
poi l’azienda si avvale di materiali ecosostenibili e una tecnologia green. !! Questi primi tre pilastri
sono gli stessi su cui si basano le agenzie di comunicazione per creare campagne pubblicitarie.
Gli altri due elementi che costituiscono il concept di un prodotto sono: i key elements, cioè ulteriori
elementi che influenzano la percezione del prodotto, accrescendo la credibilità del concept Es.
raccomandazione di opinion leader o influencer, elementi dichiarati in modo ufficiale che siano di
differenziazione – interni + esterni all’azienda; wrap up, è una sintesi che rafforza la promessa, si
ricorda quindi come l’esigenza verrà soddisfatta utilizzando il prodotto cfn slogan, positioning
statement, claim. Es. sempre rispetto a Star, i key elements potrebbe essere il fatto che è
raccomandata da testimonial del mondo imprenditoriale che valorizzano la sostenibilità e il wrap
up potrebbe essere “Con Star…comodità, stile e sostenibilità sono assicurati”.
Esercitazione, lancio di un nuovo prodotto: HappyPet è un’azienda presente da più di 50 anni nel
mercato del petfood. I responsabili di mkt sono intenzionati a lanciare un nuovo presente, si decide
quindi di fare un’analisi di mercato e capire meglio le esigenze dei clienti (il customer insight).
L’analisi di mercato fa emergere che: il mercato è interessante secondo i consumatori e in crescita,
secondo Assalco l’orientamento del consumatore è quello di scegliere prodotti premium, con
packaging più piccoli e dietetici. I prodotti sono spesso venduti in canali di distributivi specializzati
(vedi Arcaplanet), che cavalcano trend emergenti (tema del dietetico, biologico ecc). gli alimenti per
gatto rappresentano il 52.6% del valore totale del mercato, mentre quelli per il cane il 47.7%: in
proporzione, il mondo del gatto sembra avere quindi una leggera preponderanza. Emergono frasi e
punti di vista dei clienti nella ricerca qualitativa: prodotti grain free, preferenze sempre nuove,
confezioni piccole per evitare sprechi, prodotti naturali con vitamine e minerali, essenze botaniche.
Come costruire il concept del prodotto? Il consumer insight: tema della salute, personalizzazione dei
piani alimentari, qualità degli alimenti, l’attenzione della sostenibilità, esigenze di porzione – allergie,
packaging salvafreschezza, referenze sempre più naturali; il main benefit potrebbe essere “Prodotto
grain free, sostenibile e in comode porzioni senza sprechi”, oppure “per il benessere dei propri pet,
prodotti sostenibili, senza rinunciare a gusto e genuinità, con prodotti monopasto”; la reason why:
collaborazione con i maggiori veterinari esperti di alimentazione, aggiunta di vitamine e minerali; key
elements: raccomandato dai veterinari, recensioni su internet dei nostri precedenti prodotti in
portafoglio, eventuali influencer, etichettatura con precise caratteristiche organolettiche; wrap up:
potrebbe essere “happy pet non solo cibo ma anche salute, sostenibilità e attenzione”, “solo il meglio
per il tuo pet”.
!! Ho bisogno poi di testare il concept, cioè proporlo a un campione di potenziali acquirenti, per
verificare che il mio prototipo di prodotto abbia effettivamente tutte le caratteristiche che il mercato
richiede.
4. Marketing strategy: il prodotto è stato prototipato, cioè costruito in una forma che non è definitiva,
guardando al target scelto. Immagino quindi il suo posizionamento rispetto al portafoglio già
esistente e rispetto ai competitor, andando a definire nella strategia anche le altre leve del mix (il
prezzo, il canale, la digital strategy, cioè tutti gli elementi promozionali in un’ottica di omnicanalità).
5. Business analysis: l’azienda si domanda, “questo lancio di prodotto, è sostenibile?”, cioè, mi porta
ad essere in una situazione di criticità o genera profitto e vantaggi concorrenziali? Ho le risorse
economiche, le risorse competenziali e le materie prime? Quali risultati economici mi genera, in
termini di clienti (numero e fidelizzazione), distanza dai competitor e quota di mercato? Questa è
quindi un’analisi di fattibilità.

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6. Product development: l’azienda mette a sistema le sue risorse e costruisce effettivamente il
prodotto.
7. Test marketing: possiamo avere diversi approcci possibili con cui mettere in atto un test di
mercato, il cui obiettivo è quello di verificare atteggiamenti e comportamenti relativi alla
combinazione di prodotto, prezzo, comunicazione e modalità di distribuzione. Ricordiamo quanto
detto rispetto alla previsione della domanda futura. Possiamo testare un nuovo prodotto
attraverso: l’acquisto simulato, cioè una simulazione “di laboratorio” totalmente controllata dal
ricercatore, in cui cerco di creare delle proiezioni future basandomi su serie storiche delle vendite
di altri prodotti in portafoglio cfn metodo quantitativo; test di marketing controllato, simulazione in
punti vendita reali, appositamente selezionati (quelli più coerenti con il posizionamento del
prodotto, dove l’azienda ha già una base clienti solida ecc), dove metto a scaffale il prodotto e
vedo come vanno le vendite in un certo arco temporale; mercato di prova, commercializzazione
a tutti gli effetti in un’area geografica limitata.
¯ A valle dell’attività di test, l’impresa procederà con il lancio del prodotto vero e proprio, dando
inizio alle attività che caratterizzeranno tutto il ciclo evolutivo che questo affronterà del corso della
sua permanenza sul mercato. Relativamente al lancio ci sono tre aree decisionali fondamentali:
quando effettuare il lancio (definizione del periodo), dove effettuare il lancio (definizione dell’area)
e come effettuare il lancio (definizione di piano operativo).
- Tale modello sequenziale oggi mostra delle aree di criticità, perché sempre di più il successo
ottenibile da un nuovo prodotto è maggiormente legato alla capacità di realizzare un processo di
sviluppo basato sull’effetto sinergico di fattori quali: la velocità con la quale l’impresa recepisce i
bisogni del mercato, progetta, sviluppa e quindi introduce sul mercato il nuovo prodotto (time to
market), la capacità di attivare logiche relazionali con il mercato nello sviluppo del prodotto e
capacità di ottimizzare la quantità di risorse utilizzate à sempre più necessario il passaggio da
un legame di tipo sequenziale, a una parziale sovrapposizione delle fasi e in ultimo
parallelizzazione delle attività: questo, possibile grazie ai principi del concurrent engeneering,
rende indispensabile una stretta sinergia fra le diverse attività e le diverse funzioni a queste
preposte, dunque il tutto potrebbe essere facilitato dalla presenza di un project leader.
- Queste sette fasi possono essere raggruppate, attraverso una proposta coerente con il modello
parallelo, in tre momenti fondamentali: l’esplorazione (dalla generazione delle idee al concept),
di sperimentazione (sia tecnica che di mercato, dalla prototipazione del prodotto alla product
development) e la predisposizione al lancio (ultima fase).
• La gestione del prodotto e del ciclo di vita: trattiamo ora il ciclo di vita del prodotto, dal momento
in cui viene lanciato a quando viene dismesso – le prime elaborazioni teoriche del concetto di
ciclo di vita del prodotto risalgono agli anni ’50.
- ll concetto base è il seguente: quando un prodotto viene sviluppato, posso avere dei livelli di costo
che rendono più o meno lungo il rientro dei costi stessi, di sicuro prodotti come quelli del fast
fashion hanno la capacità di essere introdotti molto velocemente, ma altrettanto velocemente
vengono dismessi. Sull’asse delle ascisse vi è la dimensione temporale, sull’asse delle ordinate
invece ci sono le vendite o i profitti: questi due assi danno origine a due curve logistiche, quella
delle vendite e quella dei profitti.
- Il modello dl ciclo di vita si può utilizzare in tre specifiche aree analitiche e decisionali: nella
previsione delle vendite, cercando in primo luogo ovviamente di determinare il tipo di ciclo di vita
che meglio si adatta al proprio prodotto; controllo e verifica della posizione del prodotto nel ciclo
di vita, infatti nonostante non esistano misurazioni scientifiche globalmente valide della durata del
ciclo di vita né di ogni sua fase, ci sono vari indicatori (variazioni percentuali delle vendite,
rapporto pubblicità/vendite ecc); determinazione delle politiche di marketing durante le varie fasi
(vedi dopo).

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- Le fasi del ciclo di vita sono le seguenti: lo sviluppo del prodotto, l’introduzione, la
crescita/sviluppo, la maturità e il declino – ogni fase ha le proprie caratteristiche specifiche.
a. La fase di sviluppo/prototipazione del prodotto è fatta dalle sette fasi viste in precedenza, dove il
prodotto non è ancora stato lanciato sul mercato: i profitti quindi sono ovviamente negativi.
b. Il prodotto viene successivamente lanciato, per la prima volta compare a scaffale, siamo quindi
nella fase di introduzione: le vendite sono limitate, i costi elevati, i profitti negativi, i target sono i
primi innovatori e la concorrenza è scarsa – la strategia dunque sarà quella di un prodotto di base
(l’azienda deve capire se la prima referenza è gradita), il prezzo sarà settato strategicamente per
essere in grado in poco tempo di coprire i costi (cost-plus basis), il canale distribuivo sarà
selezionato e la comunicazione verterà sul costruire notorietà tra innovatori e canali distributivi e
favorire la prova del prodotto.
c. La seconda fase è quella di sviluppo: le vendite sono in rapida crescita, i costi in diminuzione, i
profitti sono crescenti, i target sono adottanti (cioè coloro che si sono convinti della bontà del
prodotto) e la concorrenza è crescente – la strategia sarà quindi quella di proporre un prodotto
con varianti e aggiungere servizi accessori, il prezzo sarò basato sul valore della domanda, la
distribuzione verrà ampliata e la comunicazione enfatizzerà le caratteristiche funzionali e
simboliche del prodotto.
d. La terza fase, quella della maturità: le vendite sono stabili, il costo è di mantenimento, i profitti
sono elevati, il target ormai copre la maggior parte degli interessati (saturo il mio gap potenziale),
la concorrenza è stabile (c’è la tendenza all’oligopolio) – la strategia sarà quella innanzitutto di
una diversificazione e innovazione (incrementale) se il mercato me lo consente, il prezzo dovrà
essere competitivo rispetto alla concorrenza, una massima intensità distributiva e una
comunicazione che porrà enfasi sulla mia brand reputation e tenterò di provocare il brand
switching.
e. Cercherò di stare in questa fase il più possibile, per evitare di arrivare all’ultima fase, quella del
declino: le vendite si riducono, i costi sono in diminuzione (l’azienda inizia a disinvestire, non ha
senso tenere in vita un prodotto vecchio che non piace più), così come i profitti, i target sono i
fidelizzati e la concorrenza è in declino – la strategia è un prodotto più semplice, il prezzo è
aggressivo, la distribuzione è ridotta e la comunicazione più soft (a causa della riduzione degli
investimenti, inoltre vari autori credono che il consumatori in questa fase sia pressoché insensibile
al richiamo pubblicitario, ma piuttosto interessato a iniziative di carattere promozionale).

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- A seconda della tipologia di prodotto, la forma della curva varia: la versione classica (fatta da due
curve logistiche, vendite e profitti) è una
rappresentazione media del ciclo di vita dei prodotti. La
curva classica è tipica più che altro dei prodotti di
consumo durevoli (grafico A). Ci sono sei andamenti che
sufficientemente esplicano le molteplici realtà di mercato:
contrapposta alla prima classica, vi è la curva delle
vendite di quei prodotti che non richiedono una lunga fase
di introduzione prima di raggiungere volumi di vendita
consistenti (grafico B). Un’ ulteriore curva è relativa a quei
prodotti che, nella fase di maturità o di declino, dapprima
registrano tassi di crescita negativi e poi si riportano su
variazioni percentuali delle vendite di nuovo crescenti
(grafico C). Un altro tipo di ciclo di vita è quello piramidale,
dove l’estensione della curva è dovuta, per le classi di
prodotti, all’introduzione di nuovi tipi e per i tipi,
all’ingresso di nuove marche (grafico D). Le ultime due
curve sono quelle relative quelle relative ai prodotti “fat” e
di moda: il grafico E è relativo a quei prodotti il cui unico
contributo alle esigenze del consumatore è costituito dal
fattore novità, mentre il grafico F è relativo ai prodotti di
moda (che hanno brevi e molteplici cicli a causa
dell’andamento generale del settore).

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• Gli interventi sulla gamma e sulle linee di prodotto: alla dimensione dinamica della gestione del
prodotto si affianca il presidio dell’evoluzione del portafoglio prodotti. Dal punto di vista gestionale,
questo significa cercare di determinare una struttura equilibrata di gamma e linee affinché il
portafoglio prodotti risulti economicamente sostenibile, ma grazie al quale nel contempo la
domanda sappia trovare soddisfazione.
- I vantaggi derivanti dalla numerosità dei prodotti sono: migliore sfruttamento dei costi fissi
produttivi, possibilità di soddisfare più segmenti di mercato, razionalizzazione delle capacità
commerciali, regolamentazione degli andamenti periodici delle vendite, migliore sfruttamento
della notorietà e dell’immagine di marca, riduzione dei rischi di obsolescenza dei prodotti.
Dall’altra parte gli svantaggi sono: produzioni limitate per tipo di prodotto, costi unitari maggiori,
più sbatti amministrativi, minore velocità del rigiro delle scorte, dispersione su molti prodotti degli
sforzi promozionali, eventuali fenomeni di cannibalizzazione.
- Una prima attività di monitoraggio riguarda il livello del singolo prodotto, è infatti periodicamente
necessario accettarsi che il prodotto vada bene così, oppure se ha bisogno di modifiche o
addirittura se debba essere eliminato – nel caso in cui la conclusione dell’analisi porti verso un
miglioramento, si identificano cinque aree: riposizionamento del prodotto, miglioramento della
qualità, delle caratteristiche funzionali, estetico e dell’immagini.
- Analogamente la valutazione può essere declinata a livello di linea di prodotti. Una prima area è
quella di un’analisi economica della linea, cioè l’analisi delle vendite e dei profitti in termini di
contributo percentuale di ogni prodotto della linea alle vendite e ai profitti complessivi, nonché
una definizione del posizionamento dei prodotti della linea rispetto a quelli dei concorrenti. Una
seconda area riguarda le decisioni di intervento sulla lunghezza (completezza) della linea:
innanzitutto va detto che le imprese che ricercano un’immagine di completezza della linea,
avranno linee di prodotto più lunghe, mentre le imprese che mirano a un’elevata redditività
tenderanno a gestire linee più corte. In ogni caso, le direzioni dell’allungamento possono essere
due: allungamento verso l’alto (politiche di trading-up), cioè si allunga verso la fascia alta (prodotti
di maggiore qualità e prezzo più alto), ad esempio se si nota che i segmenti di quella fascia hanno
un elevato tasso di sviluppo, o perché si vuole riqualificare la propria immagine di marca;
allungamento verso il basso (politiche di trading-down), cioè ci si allunga verso prodotti di fasce
più basse (a prezzi e costi minori), ad esempio per colmare un vuoto di mercato, ridurre i costi
e/o proporre prodotti a prezzi più competitivi. In alternativa, si possono attuare politiche di cross-
selling, cioè proporre al cliente che ha già acquistato un particolare prodotto o servizio anche
l’acquisto di altri prodotti o servizi complementari (Es. produttore di computer + stampanti) o
comunque proporre linee che coprono differenti fasce di prezzo, avendo cura di differenziare
anche adeguatamente le marche.
• Matrice BCG (Boston Consulting Group): va ad analizzare il tasso di crescita di mercato, cioè la
capacità del mercato di aggiungere numero di clienti, la quota di mercato relativa. L’obiettivo è
quello di classificare i prodotti secondo un’ottica finanziaria, cioè di performance. Ci servono: l’
indice di sviluppo del mercato di riferimento (o tasso medio di sviluppo del mercato), cioè
domanda effettiva/domanda potenziale; tasso medio di sviluppo dei singoli business, cioè il livello
di crescita possibile del settore, ed è legato alla qualità dei concorrenti presenti del settore (quanti
siamo e quante varianti di prodotto attualmente stiamo sviluppato); la quota di mercato relativa
per ogni singolo prodotto presente nel portafoglio dell’impresa. La matrice costruisce quattro
quadranti e quattro “etichette” di questi quadranti: il primo quadrante, cash cow (tasso di crescita
basso ma quota alta), è un mercato che cresce poco ma dove io ho un’ottima performance, quindi
è un mercato da sfruttare al massimo; il secondo quadrante, star (tasso di crescita alto e quota
alta), sono in un’ottima posizione competitiva; il terzo quadrante, question mark (tasso di crescita
alto ma quota bassa), ho una scarsa performance rispetto al leader, faccio fatica a conquistare
nuovi clienti; il quarto quadrante, dog (tasso di crescita basso e quota bassa), è la posizione
peggiore, sto qui ma so già che sarà un quadrante che mi aiuterà solo a consolidare il mio
rapporto con i clienti fedeli.
• Packaging: questa è una delle dimensioni connotative del prodotto, sia funzionale che simbolica,
che più sta mostrando oggi opportunità di intervento nella prospettiva della dimensione
relazionale con il mercato. L’evoluzione che ha avuto il packaging evidenza come esso debba
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essere considerato parte integrante del sistema prodotto e componente determinante del valore
dell’offerta. Dalle tradizionali funzioni di protezione ed economicità legate strettamente alla realtà
produttivo-distributiva dell’azienda, l’enfasi è passato negli ultimi decenni alle funzioni di
promozione/informazione e praticità/funzionalità, più vicine alla sfera d’interesse del consumatore:
è diventato un vero e proprio elemento del marketing mix, tanto quanto lo è il prodotto. Oltre alla
dimensione della protezione, si è aggiunta quella di economicità (in ottica sostenibile, vedi dopo),
praticità e funzionalità (non è solo qualcosa che copre, ma diventa utile per usare meglio il
contenuto) e promozione e informazione. Inoltre, si deve riconoscere che il packaging è un
oggetto complesso che funge da elemento unificatore di varie dimensioni comunicative: soggetto
nell’ambito pubblicitario (è capace di influenzare l’articolazione del messaggio in una campagna),
vettore di orientamento presso il punto vendita (quindi orientamento ai fini della decisione
d’acquisto) e strumento nello spazio di utilizzo e consumo. Su questa scia, oltre all’importanza
che sempre di più acquisiscono design e selezione dei materiali, ci si concentra anche sulla nuova
prospettiva di riutilizzo, recupero o smaltimento del packaging in modo sicuro ed efficiente: ad
esempio, creazione di packaging ecocompatibili, packaging in grado di veicolare info corrette e
veritiere, elevati livelli di utilizzabilità e massimi standard di sicurezza. !! Sono tendenze in atto
con cui le imprese si stanno confrontando e che rappresentano una delle direzioni su cui i
processi di innovazione potranno trovare nuove dimensioni di sviluppo, anche nella prospettiva
di un’educazione del cliente verso logiche di sostenibilità dei consumi. Es. Duck Fresh: ha saputo
interpretare al meglio l’ida di praticità e funzionalità, perché il vero prodotto è la capsula molle che
deve essere applicata nel wc per mantenerlo pulito, ma il packaging diventa un applicatore così
che si sta a distanza dal wc ma si riesce comunque ad applicare la capsula, inoltre il tappo a
chiusura evita che si secchino. Tic tac: a fronte della difficoltà di apertura del tappo e di fuoriuscita
di un numero eccessivo di caramelline, hanno creato una sorta di vassoietto. Coca Cola: succhi
di frutta in versione concentrata in pack più piccoli e in plastica riciclata, con l’indicazione della
quantità d’acqua necessaria per diluire il succo e renderlo più voluminoso. L’Erbolario:
etichettatura molto chiara (“azienda con sistema di gestione ambientale”, “da sempre amici degli
animali” ecc), in ottica di promozione e informazione.
• I servizi accessori: sempre più spesso la politica di prodotto comprende la proposta di servizi
accessori che possono costituire una dimensione rilevante di differenziazione dell’offerta. Le
quattro macrocategorie con cui si distinguono le tipologie di servizi sono le seguenti: per
destinazione (servizi al cliente finale/servizi al cliente intermediario commerciale) e per affinità (al
prodotto/all’impresa). Le quattro categorie generali dei servizi sono quindi: servizi di vicinanza e
prossimità, d’informazione, di completezza dell’offerta, di garanzia e di assistenza. Benché i
servizi accessori vengano solitamente ricondotti alle politiche di prodotto, in molti casi essi sono
parte integrante anche di altre politiche del marketing mix: ad esempio, i servizi di vicinanza e
prossimità si riconducono alle scelte in termini di canale e alle politiche distributive, oppure i
servizi d’informazione sono il frutto dell’integrazione tra le politiche di prodotto e le politiche di
comunicazione al mercato.

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Brand management e brand equity (capitolo 9)
à Così come un’azienda non esiste senza un sistema di offerta, allo stesso tempo questo
sistema non può essere valorizzato senza il brand: la marca infatti può essere considerata la
sintesi delle azioni dell’impresa sul mercato perché in essa si riuniscono molti degli elementi che
contraddistinguono il marketing.
• La marca// “Un nome, un termine, un segno, un simbolo o un design, o meglio una combinazione
di tutti questi elementi, volti all’identificazione dei prodotti e dei servizi, ma anche dell’azienda
stessa, di un produttore o un gruppo di produttori il cui obiettivo è quello di differenziarsi dai
competitor”. Lavorare sulla marca significa guardare a cinque grandi ambiti: componenti e
funzioni, benefici economici e di mercato (relazionali), potenzialità, valore derivante, percorsi
suggeriti.
1. Le funzioni e le componenti di una marca: dobbiamo capire cosa c’è dietro al costrutto “marca”
- Il ruolo della marca: la marca si trova in una posizione di interfaccia tra il sistema aziendale (offerta)
e domanda. Essa è un traduttore, da una parte, delle specificità dell’azienda (qualità, economicità,
fiducia, immagine), quindi è un costrutto di sintesi che va a raccogliere le capacità e le
competenze distintive dell’azienda per trasmettere ai vari stakeholders; dall’altra parte la marca
aiuta il mercato a mettere a fuoco i propri bisogni e quindi nell’incontro con la marca se quel
sistema di offerta sia in linea ad essi oppure no ~ doppio movimento: la marca è un vettore
relazionale, che fa incontrare la sintesi delle capacità e la sintesi dei bisogni.
- Gli elementi costitutivi del brand: il nome, il simbolo (attribuire al nome anche un qualcosa che
immediatamente faccia venire in mente al mercato quell’azienda) e il pay off (una frase che viene
abbinato, alle volte, al simbolo e al nome). !! La differenza con il wrap up è che il pay off non deve
per forza esprimere la promessa ed elencare le caratteristiche distintive, ma deve darci un
universo di vissuto con la marca. Questi primi tre elementi sono quelli di base, e consentono di
identificare la marca, permettendo al mercato di riconoscerla e differenziarla sul piano
comunicativo. Es. “Barilla” nome, l’ovale bianco e rosso è il simbolo, “dove c’è Barilla c’è casa” è
il pay off; “Apple è il nome”, il simbolo è la mela, “Think different” è il pay off ecc. Gli altri segni di
riconoscimento della marca sono: il picturing, cioè un design distintivo e coordinato Es. Milka,
montagne innevate e colore viola ricorrente; il jingle Es. musichetta di McDonald’s, oppure quello
più “democratico” di Radio Italia; i caratteri (lettering o wording) Es. Disney, il font è specifico,
tanto che è un marchio registrato (ulteriore rinforzo). Non necessario che la marca abbia tutti
questi elementi: i tre più comuni ed essenziali comunque sono il nome, il simbolo e il pay off, gli
altri sono corollario alla volontà della marca di essere unica.
- Le cinque funzioni che la marca può assumere nei confronti del mercato: innanzitutto, queste
funzioni che seguono si potrebbero riassumere nel fatto che la marca consente l’attuarsi di un
rapporto efficace tra impresa e mercato nel quale l’impresa riesce a disporre ed evidenziare tutte
le sue capacità e parallelamente i clienti riescono con maggiore facilità ad individuare e a
selezionare i prodotti più adeguati alle loro esigenze. La funzione di orientamento e relazione, in
quanto la marca è un segnale inviato ai consumatori, quindi se una marca è adeguatamente
abbinata a un settore e a un prodotto, diventa un punto di riferimento per il cliente (fa convergere
in modo chiaro le caratteristiche dell’offerta ai miei bisogni – questa funzione contribuisce alla
trasparenza del mercato) Es. prodotti P&G nel settore dell’igiene personale; la funzione di
praticità, infatti la marca anche solo per il fatto che esiste è pratica, perché una volta che ho fatto
esperienza di un prodotto, inizio una routine di consumo e posso risparmiare tempo e impegno
Es. palestra 20hours, nel nome è chiaro la funzione di praticità che questa offerta offre; funzione
di garanzia, la marca esprime la sua validità in termini di controllo delle materie prime,
investimento sulla ricerca e sviluppo ecc, e a volte questa garanzia è rinforzata da loghi
riguardanti varie denominazioni (di origine protetta, controllata, “eletto prodotto dell’anno” ecc) –
in ogni caso, della marca il cliente si può fidare, proprio perché una marca è una firma che
responsabilizza l’impresa in modo continuativo; funzione ludica, legata al fatto che io scelgo una
marca rispetto ad un’altra e questo soddisfa un mio bisogno, che può andare anche nella
direzione del “ludico”, nel senso che il bisogno può creare engagement su elementi soft, quindi
anche solo nella direzione del mero “piacere” nell’uso e nell’acquisto di quella marca; funzione di
personalizzazione, in quanto ogni marca tenta sempre di parlare in modo esclusivo con il suo
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mercato, attraverso alcune call to action, o nel dialogo con le diverse community, oppure
addirittura creando prodotti unici per il singolo cliente Es. Coca Cola con le bottiglie con il proprio
nome.
- Le tre funzioni che la marca assolve nei confronti dell’impresa che possiede quella stessa marca:
funzione di identificazione, in quanto l’impresa attraverso la marca si mostra in modo
immediatamente riconoscibile, sia a livello di elementi tangibili che intangibili Es. il simbolo
Starbucks fa subito saltare alla mente l’universo americano per il momento della colazione; Old
Wild West carne, un certo design interno, molto diverso da Burger King; funzione di
posizionamento, che avviene nel momento in cui la marca fa scattare nella mente del mercato
un’unicità di “spazio” rispetto ai competitor; funzione di capitalizzazione, in quanto la marca non
è un mero esercizio creativo, ma anche un investimento che l’azienda fa e che porta a un ritorno
di investimento, è la capacità della marca di produrre equity (soddisfazione, ROI, quota di mercato
ecc) – la capitalizzazione è di mercato (di relazione e di fiducia) ed economico-finanziaria.
2. I benefici economici e di mercato della marca: i benefici che l’impresa può ottenere possono
essere ricondotti a tre risultati principali
- Vantaggi di relazione con il mercato: maggiori livelli di fiducia dei clienti (cfn garanzia), superiorità
nei rapporti con tutti gli stakeholder (sia interni che esterni) e risorse tangibili (avrò un budget
spendibile ad esempio per creare nuovi prodotti) e intangibili (potrò permettermi ad esempio di
acquisire migliori talenti, dato che sarò un catalizzatore di interesse per gli attuali e i potenziali
dipendenti). In sintesi, le migliori relazioni ottenute attraverso la marca arricchiscono l’impresa,
incrementando il patrimonio di risorse su cui essa può contare.
- Vantaggi di natura distributiva: posso aumentare la copertura numerica, cioè entrare in relazione
con più canali distributivi (saranno loro a volermi a scaffale) e questo genera maggiori livelli di
quota di mercato, indice di penetrazione e copertura ponderata. Tra l’altro, la presenza di prodotti
di marca, e per questo noti al consumatore, contribuisce alla definizione dell’immagine percepita
del punto vendita e, quindi, incentiva la scelta di una posizione privilegiata sugli scaffali per i
prodotti di marca.
- Vantaggi derivanti da un miglior funzionamento delle variabili del marketing mix: i vantaggi
funzionali e simbolici saranno espressi in modo più chiaro al mercato, e di conseguenza avrò la
possibilità di scegliere una strategia di prezzo premium. Un altro vantaggio del marketing mix
riguarda la difendibilità della posizione di mercato, infatti una marca non è imitabile da parte dei
concorrenti (e quindi vengono configurate delle barriere all’entrata). Da ultimo, una marca ben
conosciuta e apprezzata dai clienti può essere il punto di avvio e sviluppo di una strategia di
espansione sia dei prodotti sia dei mercati di riferimento: l’ipotesi su cui si fonda l’estendibilità
della marca (brand extension) è proprio il fatto che se la marca è stata in grado di soddisfare il
cliente in un determinato ambito, acquisendone la fiducia, lo stesso cliente potrà ritenere
altrettanto affidabile un’offerta di prodotti diversi da quella originaria, ma “garantiti dalla stessa
marca” – questa impresa potrà quindi far leva sui valori di marca e ottenere un vantaggio in termini
di trasferimento di fiducia e fedeltà, di velocità di ingresso e di scope economies.
Es. mercato dei frollini: tra le Gocciole Pavesi, i Gocciolotti e le “gocciole” Carrefour, quale rimane
prima impresso? Le Gocciole Pavesi, non perché è stato il first mover, ma perché c’è dietro un
altissimo investimento di capacità di essere credibile anche perché è un product brand del
corporate brand Barilla (a sua volta fortissimo), quindi ha appresso la reputazione di Barilla.
3. Le potenzialità della marca: trattiamo qui la marca nella prospettiva del resource based
management che considera la marca come una risorsa e le conferisce un valore generatore di
ulteriore valore. Essendo quindi la marca una risorsa che genera ulteriori risorse, consente
all’impresa di cogliere delle potenzialità che permangono nel lungo periodo. Alcuni dei fattori di
potenzialità sono riconducibili agli aspetti economici e di mercato, in particolare, l’ottenimento di
più elevati livelli di redditività determinati dalle politiche di premium price, oppure anche la
riduzione della concorrenza (grazie all’instaurarsi di barriere all’entrata e alla mobilità). Inoltre, le
potenzialità della marca si riscontrano nella possibilità di ampliamento dell’offerta e nella direzione
dell’innovazione: rispetto a quest’ultima, c’è da dire che non solo la marca sostiene e facilita
l’innovazione, ma anche l’innovazione rinforza la marca e il suo valore.

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4. Dalla marca alla brand equity (il valore derivante dalla marca): la marca genera intorno al prodotto
un’intelaiatura di senso che lo rende unico e multidimensionale e conferisce un valore
economicamente rilevante sia per il cliente che per l’impresa. Il riconoscimento del valore
economico della marca ha portato, verso la fine degli anni ’80, a cercare di individuare quali e
quante siano le determinanti del valore di marca, cioè della brand equity.
- Il brand è uno stadio evolutivo del marchio, il passaggio da strumento di differenziazione ad asset
immateriale dotato di autonomo valore economico – il marchio è quello che viene depositato
presso la camera di commercio, perché l’azienda ha fatto degli studi e decide che vuole
proteggere il proprio patrimonio intellettuale e di prodotto !! Il marchio da solo non parla, è
inanimato, un codice. Il brand invece è il modo in cui il marchio parla al mercato, il modo in cui
l’azienda vuole far vivere quell’asset immateriale al mercato. La brand equity è “L’effetto
differenziale che la conoscenza del brand esercita sulle risposte dei consumatori alle azioni di
marketing dell’impresa” (Keller): cioè, nel momento in cui ho un brand, con dietro magari un
marchio, desidero avere un vantaggio di differenziazione rispetto ai competitor, e questo deriva
dal mio avere risposte positive, soddisfatte e auspicabilmente fedeli da parte dei consumatori alle
mie azioni di marketing.
- Nella prospettiva di marketing, il valore della brand equity deriva da un insieme di fattori
(immagine, associazioni di marca, vari livelli di notorietà e awareness ecc) che si traducono in
comportamenti guidati dalla brand loyalty e che consentono all’impresa di ottenere adeguati livelli
di customer retention.
- Quando la valutazione della marca non riguarda solo il prodotto (product branding) ma l’impresa
in generale (corporate branding), si devono prendere in considerazione anche altri elementi:
infatti in questo caso il focus non è solo il cliente, ma sono tutti gli stakeholders, interni ed esterni,
e i networks di cui l’impresa fa parte.
- Tra i vari modelli che riducono l’analisi della brand equity a livello di marca di prodotto e che
permettono quindi di comprendere in quale modo e in virtù di quali azioni e investimenti una
marca sviluppa valore economico, vi è il modello di Aaker: si costruisce su cinque pilastri, fedeltà
alla marca, notorietà, qualità percepita, associazione di marca e immagine, altri asset della marca.
L’unione di questi elementi fa sì che la marca abbia una serie di vantaggi non solo “soft”, ma
anche di tipo economico, cioè creerà valore: per il cliente (acquisizione ed elaborare info, fiducia
e garanzia, soddisfazione d’uso) e per l’impresa stessa (acquisizione, efficacia ed efficienza delle
leve di marketing, fedeltà di marca, premium price, potere contrattuale nei cfn del trade, barriere
all’ingresso ed estendibilità, cioè lanciare altre linee di business). Dunque, questo insieme di
asset (attività) o nei casi negativi passività, collegate a una marca aumentano o diminuiscono il
valore del prodotto offerto dall’impresa.
o Fedeltà alla marca: la fedeltà è il risultato del valore percepito della marca perché testimonia
quanto sia forte il legame dei clienti con la marca e quanto siano affezionati ad essa. Essa,
inscindibilmente correlata alla soddisfazione, è un indicatore della redditività presente e futura e
del tasso di crescita della marca. La fedeltà alla marca quindi non significa avere soltanto una
base clienti che in modo reiterato, di fronte ad alternative, sceglie il mio prodotto, ma avere clienti
che si sentono talmente parte del concept di prodotto che generano innovazione e a cui il brand
i può appoggiare “gratuitamente”. Es. AFOL, cioè Adults Fans of Lego, cioè persone talmente
esperte e abili con i Lego ad essere diventati una community a cui Lego fa particolare riferimento,
perché è proprio da quella che nascono nuove idee, infatti sono diventati designer di nuovi modelli,
idee o temi.
o Notorietà: la notorietà agisce da acceleratore, nel senso che moltiplica valori, positivi o negativi,
sviluppati in virtù di altre componenti della brand equity, l’immagine in primo luogo. La sua facilità
di misurazione è connessa alla semplicità del concetto: vi è una serie di domande che posso
essere fatte per verificare il livello di notorietà di un brand, così da collocarlo in una fascia della
piramide, top of mind, brand recall (conoscenza forte, ricordo spontaneo), brand recognition
(conoscenza superficiale, ricordo sollecitato) e unaware of brand (assenza di conoscenza). Es.
Quale è la prima marca di pasta a cui pensi quando devi acquistare una confezione di spaghetti?
Barilla. Quali sono le prime 5 marche che ti vengono in mente di pasta? Barilla, Voiello, De Cecco,
Divella, La Molisana. Conosci la marca di pasta Rummo? Sì/no. La notorietà può essere acquista
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e/o rinforzata con opportuni interventi di comunicazione governabili dall’impresa, mentre altre
volte si sviluppano, senza che l’impresa possa controllarsi, fenomeni di comunicazione informale
e di passaparola.
o Qualità percepita: si valuta su parametri oggettivi, in termini di prodotto e customer satisfaction.
La percezione della qualità può essere analizzata e valutata a diversi livelli: di settore, di processo,
d’impresa, di prodotto e anche di comunicazione (solo una comunicazione di qualità consente
l’effettivo dispiegarsi del valore della marca). Es. brand come Prada nel settore dell’abbigliamento
o Ferrari nel settore del beverage alcolico.
o Associazioni e immagine di marca: la definizione di associazioni è intuitiva, quindi vanno valutate
quali sono le associazioni mentali che vengono evocate dai clienti quando si cita una determinata
marca. L’individuazione delle associazioni definisce il posizionamento della marca nella mente
del consumatore e lo spazio percettivo che lo definisce e consente di determinare la prossimità
tra marche. L’associazione alla marca è personale, quindi ognuno può avere un’associazione
diversa da quella che il brand vuol far passare o a quella che gli addicted sentono come vera e
inoltre sono country-specific (in quanto l’immagine di marca è fortemente connotata in termini di
valore, tradizione e cultura). Es. Apple: innovazione, design minimal, status. Quando le
associazioni sono convergenti verso un profilo ben definito si forma l’immagine di marca, che è
la sintesi di tutte le associazioni che si sono formate nella mente del consumatore: l’oggetto di
riferimento però è vario, si parla infatti d’immagine di settore o di categorie di prodotti, d’immagine
d’impresa e/o d’immagine di marca – ovviamente, qualsiasi intervento volto a qualificare o a
modificare l’immagine di una certa marca non può trascurare le associazioni che qualificano
l’impresa e il settore, o le categorie di prodotti, a cui appartiene.
o Altri asset di marca: marchi registrati, brevetti, intensità delle relazioni con la distribuzione con la
distribuzione.

- Es. di brand extension come conseguenza di una grande equity: Mercedes Benz parte come liea
di business all’interno del mondo automotiv ma, lavorando sulle associazioni di marca, le
immagini e avendo capitalizzato il valore dell’investimento marca ecc è riuscita ad entrare in altre
linee di business restando credibile – anche Ferrari, ma è possibile anche con prodotti mass
market, ad esempio Vitasnella (da acqua a barrette ecc)
- I 10 brand più forti al Mondo nel 2018: la classifica è fatta grazie al BSI score (brand strenght
index), scomponibile nel brand investment (25%), la brand equity (50%) e la brand performance
(25%). Nel 2018 il primo in classifica era Disney, oggi invece non lo è più, perché andando a
coprire più target la performance è diminuita.
5. La costruzione della marca: se il processo si svolge in modo corretto e si genera una forte marca,
essa diventa sintesi delle capacità dell’impresa in chiave dinamica ed è capace di incorporare i
necessari fattori relazionali e di soggettività.
- Secondo il modello costruito da Young&Rubicam, il BAV (Brand Asset Valuator), la marca è forte
se si basa su quattro pilastri – diversità, cioè avere un forte potere di differenziazione sui vari
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punti di vista; rilevanza, cioè essere adeguata rispetto alla soddisfazione di un bisogno specifico
del mercato !! Questi primi due elementi costituiscono la forza della marca, la sua potenza, la sua
capacità di essere solida: infatti, una marca è forte rispetto alle marche concorrenti s ha i sé
elementi che la contraddistinguono e che sono ritenuti importanti per il cliente. Poi, la stima, cioè
la capacità di avere una buona performance di qualità e quindi generare loyalty; la familiarità,
cioè la capacità di diventare intima, di entrare in relazione vera con il mercato, essere parte della
quotidianità di acquisti (ovviamente è legata strettamente alla notorietà) !! Questi due elementi
costituiscono la statura della marca e testimoniano il fatto che i clienti hanno instaurato con la
marca un rapporto di natura fiduciaria destinato a durare nel tempo.

- Il modello può anche essere considerato sfruttandone il dinamismo: i quattro momenti del modello
costituiscono la base analitica di una griglia che sotto forma di matrice consente di individuare i
percorsi critici dello sviluppo di una marca.

- Il consolidamento di una marca richiede la presenza di un fattore aggregante fondamentale, cioè


la fiducia, che si sviluppa in quanto i processi cognitivi del consumatore si basano sulla stima. La
generazione e l’acquisizione di fiducia sono determinate dalle relazioni che la marca è riuscita a
sviluppare sia con il mercato sia verso l’impresa stessa: si deve consolidare una sorta di
triangolazione generatrice di fiducia, i cui vertici sono costruiti dalla marca, dai clienti e
dall’impresa. La relazione marca-clienti genera fiducia se la marca è in grado di soddisfare le
esigenze del cliente, la relazione cliente-impresa va intesa nel senso che il cliente si affida
all’impresa come garanzia di continuità, e proprio per quest’ultimo punto è fondamentale una
solida relazione marca-impresa.

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- La costruzione e il consolidamento di una marca sono operazioni costose e spesso cariche di
rischi, ma il raggiungimento di elevati livelli di stima e familiarità può ripagare degli sforzi e degli
investimenti compiuti, anche in una prospettiva di ritorno economico e finanziario.

- Es. modello di applicazione della brand equity, Chanel: casa di moda parigina fondata all’inizio
del secolo scorso da Coco Chanel, specializzata nei beni di lusso, è diventata uno dei più
riconoscibili nomi nel campo della moda, proprio per la congruenza tra Coco e i suoi prodotti. Si
è presentata al mercato in modo sempre molto al passo con i tempi, innovativa e con una storia.
Si è fatta una ricerca per capire quale fosse il vissuto attuale del brand, per rinforzare le sue
strategie attuali. Si è sempre avvalsa di testimonial celebri (Catherine Deneuve, Nicole Kidman,
ma soprattutto Marilyn Monroe, che si è fatta fotografare mentre si spruzza Chanel No.5, uno
degli scatti più celebri nella storia del marketing). L’azienda si è resa conto, anche a fronte di
riduzione della quota di mercato, che qualcosa non andava: la notorietà spontanea del brand si
colloca al 75% (il competitor è Dior, 58%) , mentre la notorietà sollecitata è al 100%; rispetto alle
associazioni di marca, vediamo elegante (66%), di lusso, inaccessibile, rigoroso e alla moda !! Le
immagini desiderate dell’azienda (innovazione, al passo coi tempi e con una storia) non
coincidono con le associazioni. Rispetto a vari attributi (elegante, rapporto qualità-prezzo,
femminile ecc) vengono chieste le importanze specifiche e scopriamo di nuovo che, anche dal
punto di vista di qualità percepita, il tema dell’innovazione non viene colto. Non è un profumo
giovanile, è molto forte e il vissuto di marca creato dalla figura di Marilyn Monroe è di una
femminilità inaccessibile. Guardando al modello della brand equity: in ermini di fedeltà: il 26% è
un consumatore indifferente, il 23% è un consumatore soddisfatto dalla marca (ma
tendenzialmente che comprano su suggerimento di altri), il 37% è un consumatore per scelta (a
cui piace Chanel) e solo l’8.7% è strettamente legato alla marca – quindi il 45% è
soddisfatto/legato alla marca, c’è uno zoccolo duro, ma c’è una base di clienti problematica, che
sceglie il brand per mancanza di alternative o orientati casualmente. Dobbiamo cambiare
strategia: riposizionare il brand – spot con Brad Pitt: si è cambiata la direzione, viene ampliato il
target verso il genere maschile (proprio quel segmento centrale che veniva orientato), mantiene
il tema storia ma è innovato, perché non è più la storia del profumo (e la pesantezza), ma scia
del profumo che la donna lascia.
!! La marca è sempre e comunque esposta a minacce ambientali e competitive dalle quali è
necessario difenderla. Infatti, è proprio una continua verifica della sua adeguatezza alle mutevoli
condizioni del mercato che possono nascere nuove idee, mantenendo sempre vivo l’interesse e
l’apprezzamento dei clienti nei cfn della marca.
Testimonianza Coty (Violante, CMO e Di Monica, HR) – la gestione di un brand con connotati luxury:
la purpose è “to celebrate and liberate the diversity of your beauty” la dimensione della diversità e

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dell’inclusività tornerà spesso, è uno dei trend più importanti nel mercato in generale e soprattutto
nel mercato del beauty. Operiamo su tutte le categorie del beauty: luxury, consumer, professional
attraverso tre divisioni. È un’azienda creata dall’imprenditore Francois Coty a Parigi el 1904,
considerato il padre della profumeria moderna, perché ebbe l’intuizione agli inizi del ‘900 di far
diventare il profumo (che era solo per l’altissima borghesia, fatto su misura ecc) vendibile ad un
pubblico più ampio. Producono profumi per tantissime case di moda. Marketing plan: tiene conto
delle tre C, company, customer e competition, con l’obiettivo di vendere (value proposition) e quindi
offrire un beneficio al consumatore. Un modello molto diffuso è quello delle 7 P: physical environment,
place, price, promotion, people, process, product – leve che vengono mosse per creare il piano
strategico. Le cinque dimensioni essenziali da guardare sono: goal, target market, value proposition,
business offering e communication strategy. Caso CK EveryOne: market analysis e goals –
guardando i dati di mercato, il segmento è quello del low premium che non è il segmento più forte in
profumeria (abbiamo uno zoccolo duro di premium, molto affollato); devo cercare di posizionarmi da
un’altra parte, proponendo un’altra offerta, deve essere rivitalizzato perché se no, essendo al limite
della commodity, non abbiamo una chiara value proposition; l’obiettivo era guadagnare 1 punto di
market share. Target market – abbiamo un’audience molto larga, ma il target di comunicazione è
sempre più giovane del target effettivo; un tempo i valori erano: unisex (prima fragranza di questo
tipo), unified, provocative, edgy (avanti rispetto al resto) young, mentre adesso quello stesso target
cerca altre cose, in qualche modo derivate dai primi valori: infinite gender, inclusive, purposeful,
authenticity, youthful !! la sustainability diventa oggi chiave; quindi Calvin Klein rimane una timeless
icon, ma oggi parla di “new youth” ed è una fragranza gender-free. Value proposition: il prodotto va
considerato in primo luogo, e si tratta di una fragranza vegana che contiene quasi il 79% di
ingredienti di origine naturale (simile agli stilemi di CK One, ma con un twick dii modernità); la
promessa della sostenibilità è anche del packaging, completamente riciclabile. Business offering –
che tipo di line up (offerta di formati e prezzi) proporre, tenendo a mente che i profumi
tendenzialmente vengono regalati (e quindi ognuno decide quanto investire); poi bisogna lavorare
sul punto vendita (trade marketing) inteso come luogo fisico (cartello ecc) e digitale (e-commerce) e
sulle varie attività (trial della fragranza, evento, engagement, social). Communication strategy – il
piano media che coinvolge la tv, i social (Instagram, Facebook, TikTok, Spotify, Youtube ecc, anche
attraverso i cookies e i programmatic) e gli special event; gli outdoor, come la maxi affissione, che
di fatto serve per aumentare l’awareness; launch event attraverso Myss Keta, rappresentativa del
lifestyle a cui richiama il profumo.

Prezzo, costi e valore (capitolo 10)


à Le decisioni e le politiche di prezzo rappresentano il punto di contatto più evidente tra teoria
economica, economia aziendale e marketing: con esse l’impresa cerca di sintetizzare in modo
economicamente tangibile la costruzione di valore per il cliente cfn value in use. È un vettore della
relazione tra la domanda e l’offerta. Prezzo// espressione economicamente tangibile e monetaria
della volontà del cliente di voler entrare in possesso dei valori incorporati nell’offerta e quindi del
sacrificio che il cliente intende sopportare per acquisire e utilizzare detti valori.
• Prezzi, costi e valore: la prospettiva qui assunta parte dal presupposto dell’inscindibilità tra politiche
di prodotto e prezzo, addirittura alcune letterature di marketing (come quella tedesca) considerano
prodotto e prezzo come un’unica variabile del mix. Dunque, le politiche di prezzo vengono trattate
subito dopo le decisioni di marketing che generano un valore intrinseco e simbolico, cioè le politiche
di prodotto e brand management.
- Il punto focale e da cui partire è il concetto di valore inteso nelle sue tre componenti fondamentali:
valore costruito, valore percepito e valore trasferito. Dobbiamo tradurre la componente statica e
astratta, il prezzo, nella componente dinamica che invece è il valore. La prima dimensione, il valore
costruito, riguarda le modalità attraverso le quali l’impresa, dopo aver compreso le esigenze della
domanda, costruisce valore incorporandolo nel prodotto fisico e incrementandolo nelle dimensioni
di prodotto atteso, aumentato e potenziale, e questo ovviamente comporta investimenti e costi
(quindi, l’impresa deve generare sistemi di offerta). La seconda dimensione, il valore percepito,
sposta l’asse dell’osservazione dall’impresa al mercato e al cliente, infatti esso è decisivo, valuta
l’offerta e decide di sopportare un sacrificio economico e di pagare un determinato prezzo per entrare
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in possesso del bene. à Valore costruito e valore percepito rappresentano i due punti di riferimento
nelle politiche di prezzo: il primo costituisce la soglia minima (il prezzo non deve essere inferiore al
costo del prodotto ~ lato dell’impresa), il secondo rappresenta il livello massimo (un prezzo che
superi la volontà del cliente ad accettarlo colloca l’offerta fuori mercato ~ lato del mercato). La terza
dimensione, il valore trasferito, si colloca nel mezzo tra il minimo e il massimo e deriva quindi
dall’incrocio tra offerta e domanda, è la rappresentazione economica degli sforzi di reciproco
adattamento e avvicinamento messi in atto da entrambe le parti: l’offerta si avvicina alla domanda
mettendo in atto continui miglioramenti, mentre la domanda compie uno sforzo per informarsi sui
prodotti, valutarli, acquistarli e utilizzarli. In mezzo quindi l’attore sarebbe il distributore, o comunque
tutti gli intermediari commerciali, che infatti traducono e trasferiscono il valore costruito al mercato,
attraverso la spiegazione dei servizi, una certa brand image, a fronte di un mercato che nuovamente
valuta e percepisce il valore. à In una corretta pianificazione strategica, dobbiamo necessariamente
includere l’idea che il prezzo debba essere compreso e percepito nel modo giusto dal mercato:
questo è faticoso, perché il mercato è aleatorio ~ l’orientamento deve essere al mercato.
¯ Un’impresa deve sviluppare una proposta di valore superiore e differente rispetto alla concorrenza,
rivolta a un certo segmento di mercato, attraverso un certo sistema di distribuzione del valore e
attraverso certe esperienze che il cliente realizzerà per ottenere ed utilizzare l’offerta.
- Un’ulteriore dinamica da considerare, oltre al concetto di valore, è la concorrenza: nel marketing
infatti, il rapporto concorrenza-prezzo è molto forte, dunque la formulazione delle politiche di prezzo
sono condizionate dalla situazione competitiva, dal livello di concentrazione settoriale e dalle azioni
e reazioni della concorrenza. Il prezzo rappresenta una componente fondamentale dell’economia
dell’impresa, ma nello stesso tempo il marketing nasce proprio per sfuggire alle concorrenza sul
prezzo, dal momento in cui le imprese si sono rese conto della necessità di operare secondo una
logica di differenziazione che le allontanasse appunto dal confronto di prezzo. Il prezzo però può
costituire un rilevante vantaggio solo quando l’impresa abbia inteso intraprendere una strategia
basata sulla leadership dei costi: sono strategie low cost, diffuse in molti settori (dalla distribuzione
commerciale, gli hard discount, alle linee aeree ecc) per cui il confronto sui prezzi è giustificato dalla
capacità dell’impresa di essere riuscita a strutturare un processo produttivo e distributivo ai minimi
costi cfn economie di scala.
- Infine, un ultimo elemento al quale le politiche di prezzo non possono fare a meno di adeguarsi sono
gli obiettivi della strategia di marketing, ad esempio l’ingresso in un mercato al fine di acquisire
rapidamente quota di mercato, una strategia di consolidamento o una strategia volta alla
massimizzazione della redditività di breve periodo ecc.

Es. Diesel: quali sono i valori del brand? Quali gli elementi di qualità percepita? Quali le associazioni
di marca? Valore: ribellione, essere sé stessi, libertà. Il prodotto tipo è il jeans. La qualità percepita
sono tessuti resistenti, adattabilità al proprio stile ecc. Associazioni di marca: il buyer tipico è gender-
free, giovane, trasgressivo. “Diesel non vende solo prodotti, ma propon uno stile di vita libero,
intelligente, creativo ecc”. il caso dei jeans usurati: il brand italiano di denim trasforma il jeans in
prodotto fashion e sperimentale, volendo i jeans macchiati, strappati, dall’effetto consumato ecc per
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rompere le regole del mercato, quindi le regole del valore costruito. Quali sono i benefici ricercati in
questo prodotto? Essere alla moda, distinzione, unicità – no potremmo ritrovare queste connotazioni
anche nel jeans classico? È una visione talmente soggettiva da dover essere trasferita in maniera
specifica. I costi di produzione tra l’altro sono molto superiori per questi jeans usurati: bisogna lavarli
con materiali abrasivi, degli enzimi per scolorirli, una sabbiatura ecc. – il costo variabile diretto di
produzione è incrementato di circa 2/3 euro a capo. Quanto siamo disposti a pagare questi jeans?
Quali elementi rientrano nella determinazione del prezzo di questo prodotto? Il prezzo dipende da
vissuto eventuale che ho del brand, la notorietà di marca, la brand equity e il mark up (un certo
prezzo è il sell-in, un altro che pago io è il sell-out) ecc.
à Tre prospettive di analisi per la determinazione del prezzo: i costi, e quindi il prezzo minimo; la
domanda, quindi il prezzo massimo; la concorrenza e quindi l’effettivo prezzo praticabile.

• Il valore per il cliente, cioè la determinazione del prezzo in base alla domanda: il riferimento alla
domanda e al singolo cliente (come spesso nel caso di mercati B2B) è il modo più corretto per
individuare le possibili alternative di prezzo e per indirizzare le politiche di prezzo verso un chiaro
orientamento al mercato. Consideriamo dunque il cliente come riferimento principale nella
definizione del “valore economico” che l’impresa intende attribuire al prodotto offerto, cioè il suo
prezzo. La formulazione delle politiche di prezzo riferite al valore per il cliente si deve fondare
preliminarmente su un’analisi che conduca a una quantificazione la più precisa possibile degli
elementi dell’offerta che determinano il valore per il cliente: ne consegue che il valore non è mai un
dato oggettivo, assoluto e statico, esso è il risultato delle percezioni e delle valutazioni che il cliente
fa di tutte le componenti dell’offerta, confrontandole con le proprie esigenze e con le offerte
concorrenti e sostitutive – il valore per il cliente dunque è un oggetto soggettivo, relativo (cioè
continuamente soggetto al confronto con l’offerta della concorrenza), dinamico e multidimensionale:
questo non significa che esso non sia quantitativamente misurabile.
- Dal rapporto tra i benefici percepiti e i costi che il cliente deve sopportare (tutte le fasi del customer
journey) si individua, in modo sintetico, il valore per il cliente, che può essere migliorato inserendo
una misura della performance associata a ciascuno dei benefici e l’onerosità percepita in riferimento
. 0 1
a ciascuna componente di costo (in primis il prezzo) à V = dove V è il valore, B i
! 0 2
benefici percepiti, P la performance riferita ai benefici, C i costi associati al prodotto e O la loro
onerosità (cioè la pesantezza percepita di quel costo). Questo è diverso dal concetto di valore atteso,
che è benefici attesi/costi attesi, e anche dal valore percepito, che è benefici ricevuti/ costi effettivi.
Il tutto è riassumibile e dettagliato nella seguente tabella.

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- Una volta identificate le componenti di valore, in termini di benefici e di costi, si può procedere alla
loro misurazione: si tratta di tradurre in termini economici le percezioni di benefici e di costi – valore
economico per il cliente (Economic Value for the Customer, EVC). Questa misura ci dà la possibilità
di confrontare, a differenza della prima formula che è di massima, sistemi di offerta diversi. Esso si
calcola identificando i fattori che generano benefici e costi e valutandoli rispetto all’importanza che
ciascuno di essi assume nella prospettiva del cliente, quantificando poi il tutto in termini economici
e monetari. à EVC = P – R + M + S + G dove P è il prezzo (investimento iniziale), R il valore
attualizzato del valore residuo del bene, M i costi di manutenzione, S i costi di sostituzione e G quelli
di gestione. !! Non considera gli elementi intangibili, simbolici, di status e il vissuto del cliente con la
marca. Es. valore attualizzato: quanto vale la tua macchina comprata se la vendi in questo momento,
ovviamente dopo un minimo di tempo ha perso di valore.
¯ Value-based pricing VS cost-based pricing: posso prendere una prospettiva di costo o di valore
per individuare il mio prezzo. Finora abbiamo visto la seconda, perché abbiamo cercato le esigenze
del cliente, identificato il target price per matchare il valore percepito, compreso quale sia il livello
massimo e disegnato il prodotto per trasferire il valore atteso al target price.

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• Costi e valore per l’impresa: l’individuazione dei costi nel caso dell’impresa definisce il limite minimo
del prezzo che possa garantire il livello di convenienza economica desiderato dall’impresa. Il
problema della misurazione dei costi sarebbe relativamente più semplice, se non fosse che molto
spesso (la maggio parte delle volte) nelle imprese sono presenti più prodotti, se non più linee di
prodotto, collocati in mercati diversi: sono condizioni che generano un notevole ammontare di costi
comuni, spesso di difficile attribuzione. Proprio questo punto genera un’area di dubbio: in presenza
di consistenti costi di struttura e di imponenti aree di investimento generale l’ammontare complessivo
dei costi comuni è molto rilevante rispetto ai cost direttamente imputabili ai singoli prodotti. In questi
casi, le imprese possono ricorrere a tre metodi per l’attribuzione dei costi comuni: imputazione
analitica (si compie un notevole sforzo allo scopo di comprendere le quote da imputare a ciascun
prodotto), imputazione uniforme (tra i prodotti in relazione), imputazione in base a determinati criteri
(a volte si preferisce, ad esempio, caricare i prodotti a maggiore margine di una quota più consistente
di costi comuni).
- Alla base di qualsiasi considerazione sui prezzi orientati ai costi vi è la conoscenza del conto
economico di prodotto, che contempla: i ricavi, i costi variabili (di marketing, di trasporto ecc),
margine di contribuzione di prodotto, il risultato di gestione (è il risultato operativo, cioè l’utile).
!! NB: margine di contribuzione unitario// differenza tra il prezzo di vendita unitario e il costo variabile
unitario, quindi è quello che guadagniamo meno costi come il filo della lana per un maglione;
contribuzione di prodotto// è il margine di contribuzione meno ulteriori costi, che non sono basici,
come ad esempio i costi di marketing per quel prodotto; risultato di gestione o utile// contribuzione
di prodotto meno i costi fissi comuni (macchina per fare la lana), ovviamente l’utile esiste se il
margine di contribuzione è maggiore dei costi fissi ~ ricavi - costi.
- La struttura dei conti economici e il diverso peso dei costi fissi comuni inoltre ci fa riflettere sui margini
di operatività dell’impresa (utile), decisivo nelle decisioni di prezzo. L’analisi dei costi consente inoltre
di esprimere dei giudizi di convenienza sui prezzi, suddividendo i costi complessivi nelle componenti
di costo fisso e di costo variabile – si arriva così al margine di contribuzione: MC = P – CV
Dove P è il prezzo e CV il costo variabile unitario (manodopera, materie prime ecc: variabili perché
variano in base ai volumi di produzione): dice quanti costi sono stati necessari per avere quei profitti.
Il calcolo del margine di contribuzione è il punto di avvio per definire il break-even point, cioè il punto
di pareggio tra costi e ricavi totali. BEP (a quantità) = CF/MC dove CF è il totale dei costi fissi e
MC il margine di contribuzione di prodotto. Il punto di pareggio è un valore che esprime la quantità
espresse in volumi di vendite che quel prodotto deve generare affinché l’impresa non abbia punti di
rottura, quindi per coprir i costi sostenuti per la produzione, in un arco temporale dato. La break-
even analysis è utile per avere un criterio di definizione del prezzo minimo: è necessario ipotizzare
vari prezzi e per ciascuno di essi verificare il quantitativo necessario al raggiungimento del pareggio
economico – questo è interessante dalla prospettiva di marketing.

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­ Nel P3 serviranno meno vendite per avere profitti, perché il prezzo è aumentato, al contrario nel
P2 quando il prezzo è diminuito e quindi dovremo aumentare il volume delle vendite. Quindi,
conoscendo il margine di contribuzione e volendo lasciare inalterata la reddittività complessiva
derivante dalle vendite di un determinato prodotto, si possono calcolare gli incrementi di vendita
necessari considerando diverse ipotesi di diminuzione di prezzo (sconti) o al contrario quanto sia
possibile diminuire le vendite qualora si decida di incrementare il prezzo dei prodotti. In ultimo, c’è
da ricordare che se l’obiettivo dell’analisi è di conoscere l’incremento di vendite necessario a
mantenere inalterata la reddittività in presenza di una diminuzione dei margini di contribuzione,
significa che è il caso di un prezzo diminuito o un costo aumentato, infatti se MC = P – CV per avere
un risultato minore, il prezzo diminuisce e/o i costi aumentano. ~ analisi previsionale in caso di
variazione del prezzo (analisi interna)
- L’analisi di break-even point è la modalità più elementare per configurare le aree di convenienza
economica, altre indagini e strumenti economici finanziari permettono una valutazione più puntuale:
le dimensioni finanziarie sono particolarmente rilevanti quando dobbiamo prendere decisioni nel
medio-lungo periodo e che riguardano la gestione complessiva del prodotto. Gli indicatori
maggiormente utilizzati sono il ROS (return on sales, cioè il rapporto tra il risultato operativo, l’utile,
e i ricavi netti) e il ROI (return on investment). Le due componenti del ROI, il ROS e il turnover del
capitale investito (TUR: esprime la velocità di ritorno dei capitali investiti nella gestione aziendale,
quindi è il rapporto tra i ricavi totali e il capitale operativo investito netto) consentono di paragonare
diversi prodotti in relazione alla loro redditività e all’ammontare degli investimenti necessari. Qual è
la differenza tra ROS e utile?

­ Ad un identico risultato di ROI si giunge con componenti diverse della redditività delle vendite
(ROS) e dell’ammontare del capitale investito.
• Prezzo, mercato e concorrenza: le strutture del mercato influenzano in modo determinante le
decisioni di prezzo, conferendo maggiori o minori gradi di libertà d’azione e di iniziativa all’impresa
– il prezzo può essere un dato del mercato, una variabile su cui poter agire, può essere difendibile
e costituire una fonte del vantaggio competitivo, oppure una variabile facilmente imitabile. Il mercato
che osserviamo è l’oligopolio, forma tipica dei settori concentrati e di volume, che può essere statico
o dinamico: nei casi di oligopoli statici è raro che il prezzo venga usato come strumento di politica
concorrenziale, perché ogni manovra di prezzi sarebbe imitabile e quindi inefficace (una guerriglia
dei prezzi che non porta da nessuna parte) – l’unica condizione che suggerisce una diminuzione del
prezzo in questi casi è il possesso della cost leadership da parte dell’azienda che dà inizio al
processo di riduzione di prezzo; allo stesso modo, anche le manovra volte all’aumento di prezzo
sono sconsigliate nei caso dei mercati concentrati statici, perché non si verrebbe imitati e quindi si
perderebbe quota di mercato – l’unica possibilità è se vi siano forme di accordi o di collusione (taciti),
così una volta che un’azienda aumenta il prezzo, le altre la imitano e si raggiungono quote di mercato
più alte per tutti (questa volta a perderci è il cliente). Nel caso di oligopoli dinamici (ho un’offerta
differenziata, riconosciuta e apprezzata e una base solida di clienti) invece il prezzo può essere
considerato un’importante leva competitiva, ad esempio quando si applicano premium price derivanti

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dalla maggiore notorietà e immagine (in questo caso il prezzo funge anche da segnale della qualità
percepita del prodotto), ovviamente però è necessario che almeno una parte della domanda
apprezzi tali elementi differenziali e sia disposta a un sacrificio economico. Nel caso invece di settori
frammentati, di nuovo il prezzo è raramente usato come strumento di politica concorrenziale (perché
le azioni sul prezzo si disperderebbero tra le mille offerte) a meno che non si vi siano elevate
possibilità di differenziazione (come accade nei mercati di nicchia). Es. settore della ristorazione,
tipico settore frammentato: il prezzo è più alto nei ristoranti stellati, poiché hanno una nicchia di
mercato e un sistema di offerta particolarmente differenziato/ McDonald’s al ribasso.
- Si tratta in ogni caso di comprendere in ultima analisi qual è il livello più adeguato di valore costruito
compreso e apprezzato dalla domanda (valore percepito) e che generi soddisfazione al cliente.
Infatti, il cliente acquista e paga non solo il prodotto in sé, ma anche la garanzia della propria
soddisfazione: il premium price in questo senso è il compenso economico della fiducia che l’impresa
che ha ben operato si è conquistata presso i clienti.
- Un elemento decisivo nella formulazione delle politiche di prezzo è la comprensione del livello di
discrezionalità nel fissare il prezzo da parte dell’impresa: la libertà d’azione nel definire i prezzi è
requisito fondamentale per comprendere se il prezzo è in effetti una variabile competitiva e quello
che determina i livelli di libertà nelle politiche di prezzo è il grado di differenziazione dell’offerta.
- Tramite l’individuazione dei fattori di differenziazione concorrenziale e della valutazione che di essi
hanno i clienti, l’impresa può decidere di assumere di conseguenza un comportamento di guida o di
imitazione delle politiche di prezzo formulate dai concorrenti. Tendenzialmente, se l’impresa
possiede fattori di differenziazione e ritiene di poter continuare una logica di innovazione può
assumere una posizione di leadership. La centralità della dimensione concorrenziale nelle politiche
di prezzo si osserva nelle quattro tipologie di condotte delle imprese: cooperativa, tipico dei settori
oligopolistici con una non price competitor (a volte tacita) Es. Eni ed Esso; di adattamento, imprese
follower che cedono ad altri il compito di definire le politiche di prezzo Es. Huawei follower di
Apple/Samsung (benchmark); opportunistica, per utilizzare la leva prezzo senza che si inneschi una
guerra di prezzo, l’azienda può mascherare i suoi comportamenti attraverso sconti, facilitazione,
concessione di merce gratuita ecc. Es. Get Fit rispetto a Virgin Active e Down Town, che non offre
soltanto l’open, ma ha introdotto prima degli altri degli abbonamenti pensati su fasce orarie e
segmenti di clientela differenti !! Spesso questa condotta ha una durata limitata, perché poi potrebbe
andare a generare una reazione da parte dei competitor in termini di adattamento; offensiva, qui è
esplicito l’obiettivo dell’impresa di incrementare la propria quota di mercato, a volte a costo di
sopportare un periodo di minore di redditività per poi essere compensato nel medio periodo
dall’incremento delle vendite Es. Wind rispetto a Vodafone e Tim che ha rivisitato a più riprese il
settore.
• Adattamento e dinamica dei prezzi nel tempo e nello spazio: il prezzo, come tutte le altre variabili
del mkt mix, è soggetto di continuo adeguamento alle condizioni dell’ambiente del mercato e alle
caratteristiche evolutive dell’impresa, ma la differenza è che è estremamente trasparente e quindi
confrontabile con i prezzi dei concorrenti (almeno a livello di prezzi di listino). La diversità dei prezzi
praticati può coinvolgere due situazioni: il lancio di un prodotto o le politiche di discriminazione.
- Il livello di prezzo di entrata viene scelto all’origine, e a seconda di quella decisione, quel prezzo
evolverà durante la durata del ciclo di vita del prodotto. Si sceglie il prezzo per il nuovo prodotto
riferendosi continuamente al mercato, e questo è difficile perché spesso si ha scarsa conoscenza
delle reazioni della domanda a diversi livelli di prezzo. Si può scegliere tra due strategie: il prezzo di
penetrazione, che è un sistema di offerta che viene lanciato ad un prezzo basso, quindi tenderà ad
andare in profondità rispetto al numero di clienti acquisibili e cercherà di coprire i costi e gli
investimenti ~ margini di profitto unitari più contenuti ma compensati da ampi volumi di vendita attesi
Es. Mondo Convenienza (“La nostra forza è il prezzo”); il prezzo di scrematura è l’opposto, è un
sistema di offerta che ha un prezzo elevato e tende a setacciare i possibili segmenti di mercato e
focalizzarsi solo su alcuni, tende quindi a puntare sul concetto di fidelizzazione. ~ sono maggiori i
margini unitari che i volumi di vendita Es. Snaidero (“cucine per la vita”). La scrematura del mercato
è consigliabile in presenza di elementi di evidente differenziazione del prodotto, di una domanda
poco sensibile al prezzo e di una concorrenza incapace di imitare il prodotto.

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- Si può decidere di adottare una strategia di prezzo discriminante, per cui il prodotto è lo stesso (o
più in generale, quando il differenziale tra i costi di due prodotti non giustifica la differenza tra i prezzi)
ma a seconda di una serie di condizioni il prezzo può cambiare: a seconda della destinazione del
prodotto/servizio (quindi i segmenti di clientela, o nel caso il prodotto sia destinato al consumo finale
piuttosto che ad un acquirente industriale) Es. prezzo avvantaggiato per gli under 30; volumi di
acquisto Es. prendi 3 paghi 2, i vari sconti quantità o uso; modalità di pagamento Es. acquisto online
vantaggioso; libera scelta dell’acquirente Es. io scelgo il livello di prezzo a cui accedere, ad esempio
viaggiando in business o in economy (pur essendo medesima la tratta aerea/ferroviaria).
Es. totale, Virgin Active: sconto del 15% per studenti over 25 e sconto del 20% per gli over 60; 1
mese 100 euro e abbonamento annuale 1000 euro; rateizzazione automatica con carta di credito e
pagamento in contati con 2,50 euro aggiuntivi a mensilità; possibilità di frequentare la palestra dopo
le 18 con 1 mese 60 euro e 12 mesi 600 euro ecc.
à L’evoluzione dei prezzi nel tempo segue le naturali dinamiche evolutive dei mercati e dei settori.
Un’ultima situazione particolare può essere quella del target pricing, per cui stante il rilevante potere
contrattuale del cliente (siamo nei mercati B2B), quest’ultimo chiede ai fornitori di ridurre
progressivamente i prezzi, in virtù di una possibile capacità del fornitore stesso di ridurre i costi
(target costing).

La progettazione e la gestione dei canali di distribuzione (capitolo 11)


à Le decisioni legate alla progettazione e alla gestione del canale di distribuzione stanno
acquisendo una rilevanza e una criticità sempre maggiori in ragione dell’incrementata centralità del
punto vendita nell’orientamento delle decisioni di acquisto. Guarderemo quindi a questa struttura a
partire dalla comprensione delle attese in termini di servizio commerciale da parte della clientela. Il
trade marketing rappresenta, in questo contesto, una delle risposte che le imprese di produzione
stanno ponendo in essere per attivare logiche di cooperazione nelle dinamiche relazionali con i
diversi attori del canale.
• La centralità delle scelte distributive dell’impresa: nei mercati odierni, il canale distribuivo costituisce
sempre di più il vettore non solo dei flussi fisici propri del trasferimento delle merci, ma anche dei
flussi relazionali tra i diversi attori della filiera e il mercato. Per questo, l’American Marketing
Association (AMA) definisce il canale come: “An organized network (system) of agencies and
institutions which, in combination, perform all the functions required to link producers with end
customers to accomplish he marketing task”. Il canale assume quindi una triplice valenza (di
distribuzione fisica, di comunicazione e di informazione) e questo rende la scelta del canale
distributivo stesso particolarmente delicata: rispetto alle altre leve la distribuzione coinvolge degli
attori esterni all’organizzazioni, che magari hanno alti obiettivi e spesso e volentieri entrano in
possesso del prodotto (diventano proprietari) per poi rivenderlo ~ coordinamento e coinvolgimento.
Oltre a questo, occorre porre molta attenzione nella definizione delle politiche distributive dal
momento che queste: implicano l’allineamento strategico e operativo di una pluralità di soggetti,
anche economicamente indipendenti e spesso caratterizzati da obiettivi divergenti, pongono
problemi di rigidità e inerzia rispetto al cambiamento, possono sovvenire potenziali inferenze tra
canal diversi e creano una potenziale “distanza” tra impresa e consumatore finale (che va colmata).
Tra l’altro le politiche distributive, non solo influenzano le altre decisioni di marketing mix (soprattutto
quelle di pricing e comunicazione), ma possono rappresentare fonti rilevanti per l’acquisizione e il
mantenimento del vantaggio competitivo: sono dunque volte alla costruzione e al continuo
consolidamento delle relazioni con le imprese intermediarie, al trasferimento ai consumatori di
dimensioni di valore connesse alla struttura dell’offerta (i servizi commerciali, collegati alla fase di
acquisto e post-acquisto) – il tutto sempre cercando di minimizzare i costi e di aumentare il valore
per il cliente intermedio (trade) e finale (consumatore). Oggi la formulazione della strategia
distributiva dell’impresa industriale appare caratterizzata da un’elevata complessità, e si articola in
almeno tre sub-strategie che riguardano: scelte e gestione dei canali distributivi, scelte relative alla
logistica (non ci soffermiamo) e scelte di organizzazione interna (ovvero le decisioni di struttura e di
gestione delle reti di vendita cfn Capitolo 12). Ad aumentarne la complessità, c’è da ricordarsi che
ciascuna delle tre sub-strategie è in stretta connessione con gli altri elementi caratterizzanti
l’ambiente di mercato e d’impresa: le scelte di canale non possono essere definite in assenza di
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un’attenta considerazione dell’evolversi delle strategie delle imprese distributive, le decisioni in tema
di logistica devono tenere conto delle capacità dell’impresa e le scelte relative alle rete di vendita
devono tenere conto dell’assetto organizzativo di marketing, le sue politiche di gestione del
personale e le esigenze di relazione espresse dalla clientela – queste decisioni strategico-operative,
inoltre, sono difficilmente reversibili e hanno costi importanti, per cui sono delicate. Appurata quindi
la centralità delle politiche distributive, le imprese hanno deciso di separare di conseguenza le
funzioni di marketing in due sub-funzioni: il consumer marketing, che si occupa delle decisioni
relative al binomio prodotto/consumatore finale e il trade marketing, al quale sono affidati i compiti
di gestione strategica dei rapporti con i distributori commerciali. à La definizione delle politiche
distributive vede la presenza di momenti di analisi, decisione, realizzazione e controllo tipici dei
processi di marketing: analisi delle esigenze dei consumatori in termini di servizio commerciale
funzionale al trasferimento di valore (A), identificazione degli obiettivi e dei vincoli i canale (B),
identificazione delle alternative strategiche e operative di canale (C) e valutazione delle alternative
(D).
• Le due categorie di soggetti coinvolti sono gli intermediari commerciali (grossista e dettagliante) e i
venditori: i primi sono soggetti esterni all’organizzazione, che acquistano il prodotto e ne diventano
i gestori per rivenderli ai canali finali; i secondi invece si rifanno alla rete di vendita, che invece molto
spesso è controllata dall’impresa, e sono coloro che si interfacciano con gli intermediari commerciali,
gestiscono la contrattualistica, definiscono le condizioni ecc, in generale sono le persone di cui i
produttori si servono per raggiungere e vendere i loro prodotti al distributore – sales management
(capitolo 12).
• Prima di affrontare questi momenti, va fatta una premessa, cioè le dinamiche del settore della
distribuzione commerciale: la prossimità anche fisica tra le imprese che operano nel settore della
distribuzione commerciale e i consumatori finale consente a questi attori di fungere sempre più da
“cerniera attiva” tra l’impresa e il mercato, attraverso la creazione di valore differenziante per e con
il consumatore finale, come le funzioni di promozione dell’offerta, di assistenza pre e post-vendita e
di fidelizzazione della clientela – tutto ciò in una prospettiva di sostenibilità nei confronti dei
consumatori finale e della collettività. NB: supply chain (catena di distribuzione): materie prime à
fornitore à manifattura à distribuzione à rivenditore à consumatore. Vi sono quindi alcune
dinamiche che rappresentano vere e proprie sfide che le imprese di produzione devono interpretare:
- La crescente concentrazione del settore della distribuzione commerciale: ciò è determinato
dall’innalzarsi progressivo di importanti barriere all’entrata e alla mobilità, soprattutto di natura
commerciale, proprio perché oggi gestire un punto vendita necessità di un know-how sempre più
sofisticato. Le maggiori barriere all’entrata e alla mobilità rendono più ardua la concorrenza: le
imprese non sono in grado di stare al passo con l’evoluzione e quindi o vengono assorbite in modo
progressivo o vengono escluse dal mercato, e questo fa aumentare ancor di più la concentrazione.
In Italia questo fenomeno è in piena evoluzione, perché si assiste ancora a una significativa
frammentazione delle insegne della GDO, oltre al fatto che si trovano soverchiate dalla potenza dei
colossi esteri (in particolar modo nei settori discount e ipermercati) francesi e tedeschi. Es. Conad
(realtà italiana) ha acquisito gran parte della rete distributiva di Auchan, che ha deciso di uscire dal
mercato italiano (molto complesso, competitivo e maturo)
- L’internazionalizzazione delle insegne: le imprese appartenenti a sistemi distributivi nazionali più
evoluti vedono nell’esportazione dei loro modelli di vendita e del loro know-how commerciale
un’interessante modalità di sviluppo, tuttavia, l’internazionalizzazione in Italia pare più subita che
vissuta (Carrefour, Auchan, Rewe ecc) – in Italia, la quota di mercato delle imprese multinazionali
nelle grandi superfici di vendita ha già superato il 50% e questo ha reso il commercio non più solo
un fattore interno a ciascun Paese. Le ragioni di questo fenomeno sono ricondotte a due grandi
categorie: motivazioni di contesto (emergere di stili di vita e di consumo trasversali rispetto alle realtà
Paese e quindi una progressiva omogeneizzazione a livello globale di specifici segmenti di domanda,
l’evoluzione dell’ICT e la creazione di zone a libero scambio sempre più integrate); motivazioni
riconducibili alle specificità delle singoli imprese – di tipo reattivo, quindi come decisioni forzate (ad
esempio dalla saturazione del mercato domestico) o di tipo pro-attivo, quando ad esempio ci si
muove alla ricerca di una dimensione critica internazionale ecc.

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- Le dimensioni dell’innovazione nella distribuzione: le innovazioni sono iniziate gradualmente con
l’intento di recuperare capacità ed efficienza economica che si stavano perdendo, tanto che oggi il
settore commerciale rappresenta uno dei motori dell’innovazione gestionale e uno stimolo al
progresso delle imprese e dei mercati. Le nuove formule distributive tendono a entrare nel settore
con un’offerta conveniente, ma molto semplificata, e con una base minima di servizio: una volta
conquistato il cliente, l’impresa è però costretta ad assecondare le richieste di maggiore servizio
espresse dal consumatore, quindi questo incrementa l’offerta e aumenta i prezzi di vendita – questo
genera il fatto che i clienti rimangono fedeli per tot tempo, ma poi passano a nuove offerte più
convenienti che nel mentre sono emerse !! continue nuove aree d’offerta dal basso che però tendono
nel tempo a riposizionarsi verso l’alto, a fasi alterne: la teoria della wheel of retailing. I comportamenti
innovativi delle imprese del settore si sono inoltre mosse lungo tre direttrici: innovazione a livello
strategico (sotto il profilo della store image), innovazione nella gestione delle leve operative
dell’assortimento, della comunicazione, dell’ambiente di vendita e dei servizi accessori e
innovazione di natura relazionale. Es. innovazione di formato dei discount, Esse per Esselunga,
Tech Village di MediaWorld, Amazon che apre punti vendita fisici (le vendite online non
raggiungeranno mai, nel breve periodo, le vendite fisiche, anche se sono molto aumentate con la
pandemia), affiancare le vendite online con un e-commerce proprietario (questo, vedi dopo,
solleverà conflitti tra canali).
- Attenzione alla sostenibilità della filiera: la sostenibilità, intesa come la capacità di perseguire nel
tempo obiettivi economici focalizzando al contempo l’attenzione sul rispetto delle risorse ambientali
e sociali disponibili, è oggi centrale in ogni parte della catena di soggetti interconnessi tra loro
nell’ambito del ciclo produzione-distribuzione-consumo ~ bisogna guardare alla filiera nella sua
globalità. Gli intermediari commerciali sono importanti in questo senso perché in grado di abilitare
concretamente una visione in termini di sostenibilità della filiera, anche attraverso un coinvolgimento
dei fornitori a monte: rispetto dei diritti umani, salvaguardia dell’ambiente, equità nella distribuzione
delle risorse ecc. Dunque, la sostenibilità dell’impresa tende a divenire, in questa prospettiva,
sempre più un imperativo dalle connotazioni strategiche: serve riconoscere la valenza sociale e
ambientale dell’agire dell’imprese attraverso una correlazione virtuosa tra le attività di corporate
social responsibility e le performances generali dell’azienda. Es. virtuoso: Migros, gruppo storico
della grande distribuzione svizzera.
A. La prospettiva del consumatore nella definizione delle politiche distributive: il valore per il
consumatore della variabile “distribuzione” dipende dall’utilità che il consumatore stesso trae dal
servizio commerciale, che varierà in funzione dei segmenti target cui l’impresa fa riferimento. Le
dimensione di analisi della struttura dei bisogni legati al comportamento d’acquisto dei consumatori
sono due: una dimensione più qualitativa, esperienziale ed edonistica, per cui il servizio commerciale
atteso, i servizi complementari e integrativi, l’atmosfera del punto vendita ecc e una dimensione più
quantitativa, legata alla varietà della proposta commerciale (ampiezza e profondità
dell’assortimento), tempi di raggiungimento del luogo di acquisto (accessibilità del punto vendita) e
tempi di attesa per giungere in possesso del prodotto. Bisogna quindi stimare efficacemente il valore
del servizio offerto per ciascun segmento e i benefici definiti per i potenziali clienti rappresenteranno
la base per la progettazione del canale. In questa prospettiva, occorre estendere l’analisi anche alle
esigenze e alle attese degli intermediari commerciali, tra le quali ricordiamo: il riconoscimento di
margini commerciali adeguati (NB margine commerciale// Il margine commerciale rappresenta
quanto ci rimane dopo la vendita di un prodotto ossia la parte del prezzo di vendita che va a coprire
i costi di gestione dell’azienda e a formare il profitto netto ed è espresso in percentuale – qual è la
differenza con il margine di contribuzione?), certi gradi di libertà condivisi nella definizione di prezzi
e promozioni (a supporto della strategia di posizionamento del punto vendita), il sostegno all’attività
commerciale, la contribuzione (anche economica) alle politiche di trasferimento delle info e di
gestione della relazione con il consumatore, la protezione nei cfn delle concorrenza di tipo intratipo
e intertipo (tra stessi formati commerciali e tra formati commerciali diversi).
B. Obiettivi e vincoli nelle politiche di canale: tra i fattori esogeni all’impresa si segnalano i fattori
ambientali (condizioni recessive o meno dell’economia, la dimensione normativa, i cambiamenti a
livello demografico, le evoluzioni socioculturali, l’accresciuta importanza del punto vendita, le
innovazioni tecnologiche), i fattori legati alla domanda (l’ampiezza del mercato segmento, la sua
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dispersione/concentrazione geografica, i modelli d’acquisto espressi dalla domanda – questo ci può
suggerire l’uso di nuovi canali, come il canale elettronico), i fattori legati alla concorrenza (il numero
e le dimensioni dei concorrenti, in che canali intendono operare, come e con che budget – questo
per ricercare nuovi spazi di opportunità scarsamente o non ancora presidiati dalla concorrenza),
fattori legati alle caratteristiche dell’intermediario (posizionamento dell’insegna, mercato geografico
servito, tipologia di servizi offerti, specificità dell’assortimento anche in termini di presenza di prodotti
dei concorrenti, attività di mkt sviluppate, potere contrattuale associato ecc). Tra i fattori endogeni
invece ritroviamo i fattori legati al prodotto (livello di standardizzazione che quindi vuole grandi volumi
di vendita, trasferimento di informazioni, sostegno al valore del brand e proposta di servizi aggiuntivi),
fattori legati all’impresa (risorse economiche e di competenze specifiche, ma soprattutto la
dimensione economica, che consente spazi di manovra estremamente differenziati, la brand
reputation, l’ampiezza del portafoglio prodotti, il livello di controllo che l’impresa intende esercitare
sul canale).
C. Le alternative strategiche alla base delle scelte di distribuzione: le alternative decisionali riguardano
tre differenti ambiti, tanto rilevanti quanto interconnessi tra loro.
- Logiche di approccio al mercato, strategie push e pull: la strategia push si concretizza in un
approccio finalizzato a enfatizzare il ruolo dell’intermediario nell’azione commerciale verso il cliente
finale, quindi si attivano azioni di sensibilizzazione e coinvolgimento degli attori del canale per indurre
un atteggiamento collaborativo, che può tradursi in una maggiore disponibilità a inserire il prodotto
in assortimento e a incrementare il sell out (si cerca di spingere il prodotto verso la fine della filiera)
~ si punta sul sell-in. La strategia pull invece si focalizza sul coinvolgimento diretto del mercato,
attraverso le classiche attività di comunicazione e promozione, affinché sia proprio il mercato a
sollecitare la presenza del prodotto all’interno dei punti vendita e tenta di ridimensionare il potere
contrattuale del distributore, che collabora in modo forzato. ~ si punta sul sell-out. Le imprese oggi
tendenzialmente adottano un approccio che costituisce un mix delle due strategie, date le
complessità già note, cambierà l’enfasi: i brand più forti che hanno già lavorato bene sulla capacità
del prodotto di intercettare le esigenze della clientela (cfn prodotti a basso apprendimento) e hanno
una strategia di brand management efficace, privilegeranno una strategia pull, ma questo non basta,
perché anche un brand famoso si deve conquistare uno spazio nel punto vendita (perché è
aumentata la concorrenza). Es. Barilla.
- Intensità dell’attività di distribuzione: questa scelta ha un impatto non solo sulla lunghezza del canale,
ma anche sulla quantità di canali e degli sbocchi distributivi (// punti vendita in cui si vogliono
collocare i prodotti). Vi sono tre alternative strategiche (non riconvertibili nel breve termine),
decrescenti in termini di pressione distributiva esercitata: la distribuzione intensiva, per cui si cerca
una presenza capillare sul mercato per avere grandi volumi di vendita al di là delle diverse categorie
di clientela, quindi si sceglie il maggior numero di punti vendita disponibili (livelli molto elevati di
copertura numerica, spesso prossimi al 100%) – questo ovviamente è fatto da aziende che vengono
prodotti di largo consumo (convenience o preference), con livelli di differenziazione scarsi a fronte
di consumatori che preferiscono acquistare i prodotti di categoria che sono più facilmente reperibili
Es. Danone, Scottex, Coca Cola (FMCG, fast-mover consumer goods) ~ bisogna puntare tutto sui
volumi per avere profitto, perché il prezzo è basso (i margini unitari di ciascun prodotto sono bassi).
La distribuzione selettiva, che viene preferita quando il prodotto presenta elementi di differenziazione
(prodotti shopping) e quindi anche le politiche dei canali e degli sbocchi distributivi devono sostenere
il posizionamento competitivo prescelto Es. Calzedonia, Poltronesofà, Electrolux; si cerca qui di
enfatizzare il ruolo dell’intermediario commerciale a supporto del processo d’acquisto del
consumatore, e la selezione può avvenire in base a vari criteri: dimensione del puto vendita,
localizzazione geografica, livello di servizio garantito, immagine del punto vendita (comunque
considerata da consumatori di questa tipologia di prodotti); questa strategia, oltre che per prodotti
che prevedono un processo d’acquisto ponderato, è utilizzata anche per prodotti di recente
introduzione sul mercato (in questi casi la selettività è temporanea e volta a verificare il grado di
accettazione del prodotto). La distribuzione esclusiva, praticata quando gli elementi di specificità del
prodotto sono assolutamente rilevanti (prodotti di lusso, beni di alto contenuto tecnologico e di design
ecc) e volta a scegliere pochi punti vendita, capaci di relazionarsi con il cliente in modo avanzato e
in grado di offrire un elevato contenuto di servizio a fronte di prodotti la cui dimensione
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emotivo/simbolica ed esperienziale è decisiva Es. Cartier, Porsche, Louis Vuitton; in questi casi
inoltre, si instaura una relazione molto forte tra l’impresa e i negozi esclusivisti.

- Numerosità degli stadi del canale, quindi la lunghezza dei canali di distribuzione: i canali distributivi
possono essere di tre tipi, diretto, breve o lungo in funzione del numero d’intermediazioni esistenti
tra momento produttivo e di consumo. Il canale diretto comporta un contatto immediato, nonché
privo di intermediazione commerciale, tra impresa industriale e consumatore finale: è il caso di
negozi propri (cioè di proprietà dell’impresa), vendite a domicilio, televendita (Es. Eminflex per i
materassi, dagli anni ‘80) vending, e-commerce di proprietà del produttore. Il canale breve coinvolge
un attore autonomo che assume una posizione intermedia nella filiera (molto spesso esso è un attore
della GDO). Il canale lungo prevede la presenza di almeno un livello di intermediazione, il grossista
e il dettagliante (a due stadi: grossista + dettagliante, a tre stadi: intermediario + grossista +
dettagliante !! Adatto nel caso di entrate in mercati esteri): nei mercati consumo, la presenza del
grossista rende efficiente la gestione del canale sotto il profilo dei costi di logistica e accelera la
capillarità e la velocità nel servizio agli attori più a valle del canale, oltre a poter essere un
interlocutore strategico in grado di fungere da elemento intermedio di coordinamento. La scelta del
canale più idoneo è condizionata dalla struttura del settore e del mercato, in particolare se essi sono
concentrati o frammentati: essendo che la presenza di un intermediario diminuisce la numerosità di
contatti tra impresa di produzione e consumatori, se il settore e il mercato sono frammentati, i contatti
necessari sono numerosi e quindi si privilegerà un canale più breve. Inoltre, quanto maggiore è la
lunghezza del canale tanto minore è la capacità dell’impresa di tenere sotto controllo le dinamiche
del mercato, per cui un canale lungo sarà più facilmente praticabile per le imprese che operano in
mercati statici. Queste sono alternative ideali, infatti nella realtà si osserva che la multicanalità
(presidio contemporaneo di più canali distributivi) è ormai una prassi consolidata: questo avviene
allo scopo di rafforzare la costruzione di relazioni con i consumatori, permettendo loro di accedere
all’offerta dell’impresa secondo le modalità maggiormente desiderate, ovviamente però questo
richiede che l’impresa abbia mente in mente il ruolo ricoperto da ciascun canale. Es. Barilla ha scelto
il canale breve (GDO), ma anche i singoli punti vendita (canale lungo, per avvalersi di un grossista
per servire il canale bar e ristorazione), o nei mercati esteri con un intermediario: perché non ha un
canale diretto, ad esempio l’e-commerce? Maggiori costi, ma soprattutto il tipo di prodotto
commodity non è molto adatto a questo tipo di canale. Emerge in ogni caso la necessità di una
revisione periodica delle scelte compiute per verificarne l’attualità, l’efficacia e l’efficienza
complessive.
D. La valutazione delle alternative distributive: le politiche distributive vengono formulate tenendo conto
di tre fattori che rappresentano altrettanti criteri di valutazione dell’efficacia, dell’efficienza e
dell’adeguatezza delle strutture di canale prescelte.
- Il livello di controllo del mercato: quanto più intensa è la concorrenza, quanto maggior è alto il livello
di instabilità del mercato, quanto più dinamiche sono le esigenze dei clienti, tanto maggiore sarà la
necessità di esercitare un certo controllo, formulando politiche di marketing che esercitino una certa
pressione positiva sul trade. Per quanto riguarda i canali, tanto minore è la distanza tra impresa e
mercato finale tanto maggiore sarà la sua possibilità di controllo, si preferiranno quindi canali brevi
e rapporti con i punti di vendita di tipo contrattuale. Allo stesso modo, il ciclo logistico risulterà tanto
più controllato quanto maggiore sarà la possibilità di monitoraggio del mercato: depositi, centri di

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distribuzione e trasporti dovranno essere gestiti per via diretta dall’impresa, così da avere una
maggiore garanzia dei tempi, della velocità e della puntualità delle consegne.
- La capacità di adattamento del canale: a fronte della crescente complessità (varietà, variabilità,
indeterminazione dei comportamenti della domanda ecc) si esplicita la necessità di orientare le
scelte distributive nella direzione della flessibilità, cioè le imprese dovranno saper sopravvivere in
presenza di scenari mutevoli, adeguandosi o anticipando il cambiamento.
- La dimensione economica nelle scelte distributive: tutto quanto abbiamo detto ha un costo, infatti
l’entità dei costi è la diretta conseguenza delle scelte prese in merito alla flessibilità distributiva e alla
volontà di controllo del mercato. Quanto maggiore sarà il numero e l’articolazione dei canali, tanto
più numerosi saranno i punti vendita e più elevata sarà la consistenza numerica della forza vendita
e degli apparati logistici: questi sono tutti elementi che incidono sui costi. Allo stesso modo, un
maggiore controllo richiede canali più brevi, venditori dipendenti e apparati logistici propri, di
conseguenza, costi fissi più elevati. Il canale diretto presenta un profilo di rischio più elevato,
connesso alle variazioni dei volumi e a costi fissi più elevati: per volumi di vendita contenuti, le perdite
saranno maggiori rispetto al canale breve o lungo, mentre per volumi elevati i profitti saranno
superiori. Nel canale indiretto (breve/lungo) invece l’aumento del numero di stadi si traduce in una
riduzione dei costi fissi ma non necessariamente in un incremento dei profitti (che appunto
dipendono dai volumi di vendita).

¯ Canali a confronto: il canale diretto permette una relazione stretta con il consumatore finale nel
momento in cui acquista, quindi coglierne i ragionamenti e difficoltà, avere la possibilità di spiegargli
il prodotto e magari creare occasioni di co-creazione Es. i prodotti specialty sono spesso venduti in
questo tipo di canali, ad esempio nei punti vendita monomarca, dall’altra parte è il canale più rigido,
meno flessibile ai cambiamenti del mercato e i costi totali (fissi e variabili) sono più alti (dunque
necessitano di più vendite); il canale breve ha una minore possibilità di relazione, ma è più adattabile
al mercato; il canale lungo ha perso la relazione diretta (che va attivata attraverso altre modalità, ad
esempio la leva comunicazione), però è molto adattabile (ad esempio posso entrare in un’altra area
geografica attraverso un grossista) ed economico (in termini di volumi da raggiungere per

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raggiungere il punto di pareggio) anche se diminuisce la marginalità del distributore, proprio per la
presenza di tanti intermediari. Una strategia inclusiva privilegia il canale diretto o al massimo breve.
• I Sistemi Verticali di Marketing: in questo quadro, le logiche di coordinamento e di armonizzazione
del canale si sono evolute nel tempo verso una concezione del canale come sistema. Si attribuisce
quindi oggi molta importanza alle dinamiche relazionali e di interazione tra i soggetti della filiera
distributiva. Si è così assistito in molti settori all’evoluzione dai canali convenzionali di marketing ai
Sistemi Verticali di Marketing (SVM), dove la logica del sistema trova una sua espressione più
completa: spesso non sono altro che delle forme di integrazione a valle delle imprese di produzione.
Le tre tipologie principali sono le seguenti: SVM aziendali, caso in cui l’impresa svolge direttamente
tutte le fasi successive alla produzione e sviluppa le attività di commercializzazione attraverso la
creazione di una rete distributiva di proprietà, per cui l’impresa acquista direttamente la rete
distributiva Es. Luxottica, acquisendo la catena di Salmoiraghi & Viganò – risolve in parte i problemi
di controllo; SVM amministrativi, quando vi è la presenza di un soggetto del canale che accentra su
di sè il controllo della filiera, ma non si tratta in questo caso di un controllo proprietario Es. tipico del
franchising, perché ha consentito pur nella formula del canale breve di controllare la relazione con il
consumatore finale, tramite l’uso di una stessa insegna ad esempio – McDonald’s; SVM contrattuali,
che rappresentano il risultato di operazioni di aggregazione associativa tra imprese indipendenti che
attivano strategie di collaborazione interne alla filiera distributiva al fine di fronteggiare le pressioni
competitive del mercato (questa forma si è indebolita a fronte di una maggiore forza data al
disributore). In ogni caso, la rilevanza della dimensione relazione nella filiera distributiva diventa oggi
una delle dimensioni di maggiore criticità e al contempo foriera di nuove opportunità per l’impresa.

• La gestione della conflittualità tra gli attori del sistema distributivo: elevati livelli di conflittualità tra gli
attori del canale potranno compromettere le buone relazioni tra imprese, attori della distribuzione e
mercato finale. I conflitti che possono manifestarsi sono di tre tipi: orizzontali, tra imprese distributrici
appartenenti alla stessa forma distributiva; verticali, lungo il canale distributivo; e trasversali, tra
diversi canali e/o diverse forme distributive (Es. punti vendita tradizionali VS supermercati). Rispetto
a questa ultima tipologia, può capitare che un prodotto distribuito attraverso gli ipermercati e i negozi
specializzati venga venduto a condizioni di particolare favore in alcune tipologie di punto vendita,
costituendo così motivo di conflitto da parte dei punti di vendita sfavoriti. È quindi importante che le
politiche di vendita e di relazione con i canali siano improntate al massimo equilibrio, chiarezza e
trasparenza per evitare ritorsioni da parte della distribuzione, questo perché il conflitto rappresenta
uno dei principali elementi in grado di incidere negativamente sulla performance di canale. Di
conseguenza, la determinazione delle cause che portano ai conflitti è un momento rilevante, al fine
della loro eliminazione e dell’attivazione di logiche virtuose di cooperazione, con l’obiettivo ultimo di
migliorare la performance del canale nel suo complesso. Tra le cause di conflitto più comuni
possiamo citare l’incompatibilità degli obiettivi, la non congruenza delle percezioni (per cui parte che
i vari attori del canali siano orientati in direzioni eterogenee) e il non accordo sulla posizione

78
dominante. La ricerca di relazioni durature con i distributori in funzione della stabilizzazione delle
dinamiche relazionali diviene allora uno dei tempi chiave alla base delle decisioni in tema di
distribuzione.
• Dalla scelta del canale al trade marketing: i produttori sono ormai divenuti consapevoli del fatto che
tutti gli sforzi commerciali e comunicazionali propri del consumer marketing possono essere
vanificati da una loro non appropriata traduzione in politiche varie da parte del distributore ~ è
essenziale collaborare per rendere la filiera efficace e capace di trasferire effettivo valore al cliente.
La nascita e l’affermarsi del trade marketing è la manifestazione evidente della necessità di gestire
i rapporti con il trade in una logica di sistema à trade marketing // insieme delle strategie e degli
strumenti di marketing utilizzati dalle imprese industriali (impresa produttrice, il brand) nel porsi in
relazione con le imprese commerciali (distributori). In questo senso, il trade marketing rappresenta
un’innovazione nella cultura dell’impresa industriale, per cui il distributore viene considerato da
oggetto a soggetto del processo di marketing. Le imprese giungono quindi a formulare politiche di
marketing parallele, una parte indirizzata direttamente al consumatore finale (consumer marketing)
e l’altra parte ha invece come obiettivo primario le imprese della distribuzione – l’obiettivo ultimo
rimane comunque il consumatore finale. Sulla scia di quest’ultimo accenno, si può parlare di
marketing al trade (formulazione di politiche ad hoc per gestire i rapporti con la distribuzione) e
marketing attraverso il trade (perché ci si è resi conto che se non si riesce a “passare attraverso” il
trade, non si raggiungerà mai il consumatore finale). Dunque il trade marketing è al contempo una
manovra di contrasto del potere esercitato dalla distribuzione e un atto di collaborazione con la
distribuzione stessa. L’attuazione di una politica di trade marketing si concretizza in una serie di
politiche che hanno lo scopo di gestire le diverse aree e queste politiche trovano coerenza nel
cosiddetto trade marketing mix:
- Prodotto: la politica di prodotto rivolta al trade può assumere due orientamenti. Essa può comportare
un adattamento del prodotto dell’impresa industriale in termini di confezione e di imballaggio, per cui
il nome della marca rimane dell’impresa industriale. Oppure ci possono essere forme più intense di
collaborazione, che implicano la disponibilità dell’industria a produrre per conto dell’impresa
commerciale, nel caso in cui vi sia una forte condivisione strategica di obiettivi e comportamenti tra
la marca dell’industria e quella della distribuzione.
- Assistenza pre e post-vendita e merchandising: l’assistenza tecnica e commerciale può spingersi a
volte fino alla cooperazione sul piano manageriale e delle decisioni sull’opportunità, ad esempio, di
mettere in atto campagne pubblicitarie. Dall’altra parte rispetto al merchandising, non è infrequente
che l’impresa industriale fornisca attrezzature e know how che possono consentire all’impresa
commerciale una migliore disposizione dei prodotti sul punto vendita.
- Prezzi e condizioni economiche: si tratta di definire una politica di prezzo all’interno del canale che
consideri i diversi servizi prestati dalla distribuzione all’impresa. I diversi prezzi praticati (al grossista,
al dettagliante e al consumatore) definiscono i margini di intermediazione commerciale (la differenza
tra il prezzo di vendita del bene e il costo di acquisto dello stesso). Alle politiche di prezzo si
associano poi le condizioni di vendita, di pagamento e di sconto.
- Comunicazione di marketing: spesso l’impresa industriale attua politiche di comunicazione
indirizzate in modo specifico al trade (Es. trade promotion). In altri casi la comunicazione pubblicitaria
che ha come target il consumatore finale va indirettamente anche a beneficio del trade (Es.
campagne su mezzo stampa che accanto alla presentazione del prodotto propongono l’elenco dei
punti vendita dove può essere acquistato).
- Logistica: l’elemento logistico genera costi notevoli (vedi dopo), ma offre un servizio molto
importante tanto al trade quanto al consumatore finale, in termini di velocità e puntualità delle
consegne, pronta disponibilità delle merci e assenza di rotture di stock (stock out/out of stock/OOS,
si verifica quando si esauriscono le scorte di un determinato articolo i magazzino o nel punto vendita).
• La gestione operativa dei canali distribuivi: le maggiori difficoltà si incontrano qui, perché i canali e
gli sbocchi distributivi non sono un’entità astratta, ma sono formate da imprese e da persone che
devono essere analizzate, comprese e gestite. Innanzitutto la politica dei canali deve garantire
all’impresa il raggiungimento di adeguati volumi di vendita, in secondo luogo i canali utilizzati
dall’impresa dovrebbero consentirle una certa capacità di controllo sulla quota di mercato, ottenibile
spesso con una politica multicanale. L’impresa inoltre deve definire quantitativamente i risultati
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economici derivanti dalla gestione dei canali, di solito definibili in termini di massimizzazione del
divario tra prezzi ottenuti e costi di gestione del canale, oltre che di minimizzazione dei rischi derivanti
dagli investimenti effettuati. Per fare tutto ciò in modo corretto è utile rifasi alle curve di
concentrazione (cfn la curva di Lorenz): la concentrazione, dato un campione di n unità, interpreta il
grado di disuguaglianza nella distribuzione di una variabile quantitativa (nel nostro caso il totale
vendite) tra le n unità (le singole vendite); più è elevata la concentrazione maggiore è alto il livello di
rischio a cui si va incontro nella propria attività Es. un'azienda che ha un portafoglio di 100 clienti,
tra i quali uno solo costituisce il 90% del totale venduto, presenta un elevata concentrazione, a cui
corrisponderà il rischio di assistere ad una drastica riduzione dei
ricavi, qualora perdesse quel cliente. Per evitare un simile
scenario, occorre diversificare prodotti, canali di vendita e
acquisire molti clienti che presentano quote percentuali non
rilevanti rispetto ai ricavi complessivi – rispetto alla
rappresentazione grafica della curva: più è alta la
concentrazione maggiore sarà l’area racchiusa tra la retta di
equivalenza (equa distribuzione, situa che accade quando tutte
le quote di vendita dei nostri distributori sono uguali e quindi la
concentrazione è nulla) e la spezzata delle vendite.
In aggiunta, l’impresa deve considerare la competenza
merceologica e il livello di specializzazione dei diversi punti
vendita, le abitudini e i comportamenti dei consumatori, il
comportamento dei concorrenti ecc. Tutto ciò è alla base di quei
criteri di valutazione che riguardano la volontà del punto vendita
di collaborare per la buona riuscita delle operazioni di marketing
dell’impresa, il giro d’affari che sono in grado di garantire, il livello di penetrazione ecc. cfn indici
della scomposizione della quota di mercato a livello retail: indice di penetrazione (percentuale delle
vendite di una marca/quantità totali di prodotto dello stesso genere acquistate dai clienti
dell’impresa), indice di copertura ponderata (acquisti totali di un prodotto di un determinato tipo
effettuali dalla clientela dell’impresa/vendite complessive del prodotto nel mercato di riferimento),
indice di copertura numerica (numero di clienti della marca/numero totale dei clienti presenti sul
mercato). A partire da questi indicatori, si possono trarre alcune valutazioni generali: un basso indice
di copertura ponderata richiede interventi sulla selezione della clientela, aumentandone la
dimensione media, mentre il miglioramento dell’indice di penetrazione implica il miglioramento del
grado di accettazione del prodotto.
• La dimensione logistica: tradizionalmente il termine logistica viene associato alla funzione aziendale
che provvede alla distribuzione fisica del prodotto. L’efficacia della distribuzione fisica e della
logistica sta sempre di più esercitando un’influenza fondamentale sia sulla soddisfazione del cliente
sia sui costi dell’impresa legati alle politiche distributive. La logistica di marketing dunque è intesa
come l’attività di previsione, pianificazione, gestione e controllo sia del flusso fisico di beni e servizi
(attività di evasione degli ordini, di magazzinaggio, di gestione delle scorte e di trasporto) sia delle
informazioni correlate, dai luoghi di produzione ai luoghi di consumo. Stabilito il livello di servizio che
il mercato richiede (che può essere molto variabile, in base alle caratteristiche fisiche del prodotto,
cioè la deperibilità, la fedeltà alla marca, il tipo di canale di distribuzione ecc) e che l’impresa intende
fornire, la logistica deve supportare il sistema di distribuzione al fine di consentire il perseguimento
degli obiettivi prefissati. I costi di distribuzione di solito oscillano tra il 2-3% ma possono arrivare
anche fino al 30% del fatturato dell’impresa. Per valutare i costi della logistica, si può utilizzare la
seguente formula Clog= Ct + Cgo + Cconf + Cm + Cfl + Ct + Cc dove Clog è il costo totale della
logistica, Ct sono i costi delle transazioni “fallite”, Cgo i costi per la gestione degli ordini, Cconf i costi
del confezionamento, Cm i costi per la gestione del magazzino, Cfl i costi per la gestione dei flussi
dei materiali, Ct i costi totali del trasporto e Cc i costi di coordinamento della logistica del canale.

Sales management (capitolo 12)


à Le politiche di marketing non possono realizzarsi compiutamente se non esiste una struttura
commerciale che consenta lo sviluppo di una relazione con i clienti, in un’ottica del lungo periodo.
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• Rapporti tra marketing, vendite e commerciale: è possibile rendere disponibile al cliente il prodotto
di un’impresa grazie all’esistenza delle reti di vendita (o reti commerciali) in grado di garantire il
collegamento tra l’impresa e i clienti, la distribuzione fisica dei beni e il completamento dell’offerta
con informazioni e servizi aggiuntivi. Ovviamente la rete commerciale possiede caratteristiche,
consistenza numerica e competenze professionali fortemente influenzate dal tipo di settore in cui
opera l’impresa, dalle specificità di mercati e clienti, dalle scelte compiute rispetto ai canali distributivi
e dalle caratteristiche dell’offerta e dalle strategie di marketing dell’impresa. Il sales management
quindi diventa fondamentale, tanto che in molte imprese parte delle attività di marketing sono
demandate alla forza vendita alla quale spetta, tra le altre cose, il compito di presidiare il rapporto
con i clienti, di assumere informazioni necessarie all’impresa, di adattare l’offerta alle esigenze e
naturalmente di vendere, cioè di portare a termine il processo di marketing concretizzandolo con un
atto di scambio. Spesso si è registrato un disinteresse teorico rispetto a questo ambito, per cui le
attività di vendite venivano poi poste in una posizione ancillare rispetto a quelle di marketing, ma in
realtà queste sono complesse e necessitano di diverse e sofisticate competenze (di tipo
commerciale e di marketing, organizzative, di tipo negoziale e di conoscenza delle modalità di
interazione personale). Le vendite dunque, svolgendo una funzione fondamentale in termini di
marketing relazionale, sono un anello di congiunzione indispensabile tra l’impresa e i suoi clienti. I
rapporti tra marketing e vendite, dall’altra parte, costituiscono uno dei momenti di maggiore dibattito,
spesso conflittuale: rispetto agli aspetti organizzativi, perché è evidente che quanto è maggiore la
suddivisione di responsabilità tra marketing di prodotto e di canale, tanto maggiore risulta essere la
difficoltà d’integrazione interfunzionale, oltre al fatto che spesso le due funzioni possono avere
strumenti diversi o anche in contrasto per raggiungere gli obbiettivi; rispetto alle culture organizzative
e ai percorsi di carriera, che spesso non sono convergenti: chi lavora nel marketing è spesso
accusato di essere troppo desk (ci si affida troppo alle ricerche e ai numeri nel dettaglio), al contrario
chi opera nelle vendite di essere troppo field (agiscono d’istinto, assecondano troppo il cliente) –
l’equilibrio è ovviamente dinamico ed è ottenibile inserendo cultura di marketing nelle vendite e
apprezzamento dell’attività e dei risultati di vendita nel marketing. Rispetto a questo, la recente
diffusione del trade marketing e del category management (//concetto di vendita al dettaglio e di
acquisto in cui la gamma di prodotti acquistati da un'organizzazione aziendale o venduti da un
rivenditore è suddivisa in gruppi discreti di prodotti simili o correlati, questi gruppi sono noti come
categorie di prodotti) può favorire questo opportuno avvicinamento, soprattutto nei settori del largo
consumo, dove il cliente finale è sempre più preparato e il trade è sempre più agguerrito. à Le
politiche di sales management sono strettamente legate alle politiche dei canali distributivi
dell’impresa, infatti insieme costituiscono la politica distributiva dell’impresa, per questo la
sequenzialità decisionale è indispensabile. Le decisioni che riguardano il sales management
prendono in considerazione gli aspetti che seguono: struttura e reti di vendita, modalità di gestione
delle rete di vendita e ruolo e compiti del venditore.
• Reti di vendita, scelte di struttura: la rete di vendita è formata dal personale incaricato della vendita
dei prodotti dell’impresa e costituisce l’elemento di raccordo organizzativo tra impresa e mercato, in
quanto gestisce capillarmente i rapporti con i singoli clienti che nei mercati di consumo sono di solito
gli operatori del trade. La rete di vendita deve svolgere una serie di compiti fondamentali: raccolta
degli ordini e loro trasmissione alla sede centrale, monitoraggio della rotazione del prodotto a
scaffale (o nel magazzino) dei singoli clienti, presentazione delle attività promozionali e di
comunicazione organizzate dal marketing, presentazione dei nuovi prodotti, raccolta di info sulle
esigenze della clientela, controllo dell’attività e delle iniziative della concorrenza. Una prima
decisione fondamentale riguarda il tipo di rete di vendita, decisione per la quale l’impresa ha tre
alternative: una rete diretta, formata cioè da personale alle dirette dipendenze dell’impresa; una rete
indiretta, formata da personale legato all’impresa anche in modo stabile, ma da un contratto di lavoro
di lavoro autonomo, come il contratto di agenzia, che prevede diversi livelli (agenti
monomandatari/multimandatari); una rete mista, composta in parte da personale dipendente, in
parte da personale autonomo. I criteri di scelta sono sia di tipo economico (le diverse strutture di
costo che si generano), sia di funzionamento (in relazione alla capacità delle differenti tipologie delle
reti di vendite di completare nel modo più opportuno l’offerta dell’impresa).

81
- Criteri economici: in una rete di vendita diretta prevalgono i costi fissi, mentre in una indiretta quelli
variabili, questo soprattutto a causa del tipo di
remunerazione del personale di vendita, cioè uno
stipendio fisso per i venditori delle rete dirette (al quale si
aggiunge una componente variabile legata ai risultati di
vendita) e invece con una provvigione (percentuale del
fatturato che generano) i venditori autonomi. Per volumi di
vendita inferiori al punto A (quindi non molto notevoli)
conviene la rete indiretta, al contrario conviene la rete
diretta quando i volumi di vendita sono superiori al punto
A cfn canale diretto/breve/lungo. La scelta di struttura deve
anche tener conto dei costi di transazione, cioè i costi di
gestione, coordinamento e controllo della relazione con i
clienti. In ultimo, da ricordare gli eventuali comportamenti opportunistici, contenuti nel caso di reti
dirette e che aumentano con l’affievolirsi della relazione di dipendenza, in particolare più frequenti
tra i multimandatari.
- Criteri funzionali: bisogna considerare la natura del prodotto, del valore aggiunto in esso incorporato,
la necessità di servizi e assistenza pre/post vendita, l’intensità della concorrenza, il tipo e la
numerosità dei clienti ecc. La differente struttura dei mercati e delle imprese impongono spesso
l’organizzazione di reti di vendita miste: in alcune reti di vendita (o per alcuni prodotti) si utilizzano i
venditori diretti, in altre gli agenti monomandatari ecc. Un altro tema è la numerosità degli addetti
(ovviamente più sono e più costano): il numero dei venditori necessari in una determinata zona può
essere calcolato mettendo a confronto le esigenze di visita alla clientela con la capacità di eseguirle
da parte di ciascun venditore. Un ulteriore elemento di decisione riguarda la specializzazione dei
venditori e delle reti al fine di avvicinarle il più possibile alle esigenze, per cui la specializzazione può
avere i seguenti riferimenti: per prodotto (opportuna soprattutto quando le caratteristiche tecniche
dei prodotti sono sofisticate e complesse), per clienti (segmenti/canali distributivi, qualora le
esigenze sono differenziate), per zone geografiche (consente di minimizzare i costi, perché si
riducono i tempi delle trasferte dei venditori).
• La gestione della rete di vendita, remunerazione, incentivazione, valutazione e controllo: bisogna
ora individuare i meccanismi operativi che permettono il funzionamento del tutto, attraverso quattro
aree, la remunerazione, l’incentivazione, la valutazione e il controllo. Rispetto ai sistemi di
remunerazione vale quanto detto prima riguardo alle differenze che esistono tra rete diretta e
indiretta: la remunerazione variabile di fatto funge da incentivo. I sistemi di valutazione e controllo in
genere prendono spunto dalle previsioni dei venditori, anche se spesso queste soffrono di una
soggettività interessata, per cui vanno verificate con parametri oggettivi (Es. andamenti delle vendite
per zona e per anni passati). Importante anche aggiungere altri parametri ed indicatori di prestazione
delle vendite, che possono essere utilizzati per comporre le cosiddette “quote di vendita” Es. tasso
di crescita del fatturato, numero nuovi clienti acquisiti, costi di vendita per cliente, livelli di customer
satisfaction ecc.
• Il ruolo e i compiti del venditore: la vendita in realtà è il risultato finale di una relazione con il cliente
che va costruita, gestita e continuamente rinforzata nel tempo. Alla forza vendita si richiede di
svolgere il proprio ruolo interpretandolo secondo una logica relazionale e di farsi tramite e portavoce
delle esigenze del cliente e delle capacità dell’impresa ~ reciproco adattamento. Oltre a questo, non
c’è da dimenticare che spesso il cliente trova nella rete di vendita il primo interlocutore a cui può
rivolgersi, quindi essa avrà compiti anche di servizio. In ultimo, il venditore svolge una fondamentale
funzione di business intelligence, infatti vengono a conoscenza delle attività e delle proposte della
concorrenza e dell’apprezzamento che i clienti esprimono.

82
La comunicazione di marketing (capitolo 13)
à È una leva del marketing mix: non a caso è l’ultima che vediamo, è quel ponte relazionale che
insieme al brand dà visibilità a tutte le strategie che sono state attuate.
• La relazione tra impresa e mercato si sviluppa, oltre che sul piano fisico (canali distributivi, logistica,
reti di vendita ecc) anche attraverso la comunicazione: infatti essa in generale svolge un ruolo di
unione e di “messa in comune” (dall’etimologia). L’importanza della comunicazione nell’ambito delle
decisioni d’impresa e di marketing è indiscutibile: ricordiamo infatti che un’impresa di successo deve
saper gestire tre macro processi, innovazione, differenziazione e comunicazione che, tra loro
combinati, consentono di generare valore per il cliente e di conseguenza per se stessa cfn pag. 5.
Inoltre la comunicazione agisce tanto all’interno, come “collante” delle organizzazioni, creando
compattezza e unitarietà, quanto all’esterno, in quanto lo interpreta e lo modifica con il fine ultimo di
modificare se stessa e le sue relazioni con il mercato. à La comunicazione è quindi la modalità
attraverso la quale si attiva e si compie il processo di continuo e reciproco adattamento tra impresa
e mercato e, anche per questo motivo, genera valore per l’impresa, valore non solo sul piano estetico
ma soprattutto su quello economico.
• Processo di comunicazione: abbiamo due estremi, la fonte/mittente e il destinatario (nel nostro caso,
il mercato – in generale, gli stakeholders dell’azienda). Gli stakeholder dell’azienda hanno diverse
capacità di decodificare il messaggio dell’azienda, così come un interesse differenziale rispetto al
messaggio. Il passaggio in mezzo riguarda la scelta dei canale, il medium, che trasferisce il
messaggio. Il messaggio deve essere codificato, cioè deve avere dei contenuti chiari e specifici, e
questo implica ovviamente il fatto che a seconda del medium e del destinatario il contenuto cambia:
questo perché il destinatario deve saperlo decodificare, ed eventualmente rispondere. C’è però
un’area grigia, il rumore, che ci dice che la fonte (singola azienda) non è l’unica a veicolare messaggi
al destinatario: l’effetto rumore è quindi dato dal fatto che tutte le altre aziende che

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contemporaneamente vogliono intercettare il nostro medesimo destinatario, ne disturbano
l’attenzione e sovraccaricano i media – questo è un meccanismo che va interpretato a partire dal
fatto che ogni fonte ha una codifica che va decodificata in modo corretto: contenuti specifici, obiettivi
specifici, destinatari non casuali. Questo processo produce un risultato, cioè una risposta, sul piano
cognitivo, affettivo e/o comportamentale: il cliente infatti verrà a conoscenza del prodotto e delle sue
caratteristiche (risposta cognitiva), lo apprezzerà e si formerà un’immagine di esso (risposta affettiva)
e sarà eventualmente disposto ad acquistarlo (risposta comportamentale). Nell’impresa, la
complessità aumenta per il fatto che i destinatari (stakeholders) riceventi la comunicazione sono
molteplici per numero e diversi tra loro: mercato dei consumatori, intermediari commerciali, pubblica
opinione, istituzioni politiche e amministrative, sistema dei mezzi di comunicazione, comunità
finanziaria, azionisti, dipendenti – l’impresa però, a fronte di tutte queste differenze, deve essere
intesa come un insieme unitario e sistemico, nasce quindi l’esigenza di predisporre decisioni di
comunicazione integrate tra loro, pur non dimenticando le specificità dei pubblici di riferimento cui si
indirizza cfn corporate communication.
• A partire da questa esigenza, si può classificare la codifica del messaggio nelle quattro aree di
comunicazione d’impresa: istituzionale, organizzativa, finanziaria e di marketing.
1. L’area istituzionale è quella più ampia, perché non ha un destinatario specifico, ma ha in mente tutti
gli stakeholder, anche se nel particolare la pubblica opinione e il sistema dei media: “vola alto”, è
relativa alle ampie dimensioni di mission e vision che servono a presentare a 360 gradi l’azienda e
quindi in ultimo a gestire la reputazione complessiva dell’impresa. Es. comunicato Unicredit: ci
racconta come supporta l’International Day per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne e che
eventi sono stati organizzati in questo senso, non parla di prodotti e servizi, ma di valori; Eni: video
istituzionale lanciato anche su canali di massa, emergono parole chiave sull’approccio di Eni e i suoi
pilastri operativi; Heathrow: comunicazione emozionale che mira ad esprimere i passaggi e le
procedure che caratterizzano l’aeroporto, il tema dell’accoglienza, attraverso i teddy bears (simboli
di Londra) ecc.
2. La comunicazione organizzativa è rivolta specificatamente ai dipendenti e ai collaboratori, quindi è
una comunicazione interna, mirata, con lo scopo di attirare l’attenzione sui valori, l’identità aziendale,
la cultura d’impresa, le novità interne ecc e di creare un forte senso di coinvolgimento nei confronti
dell’impresa stessa Es. “Presenza”: giornale redazionale (“house of organ”) della Cattolica
consegnato agli studenti, ai docenti e al personale.
3. La comunicazione finanziaria è rivolta agli shareholders (portatori di interesse economico), che sono
attenti a capire come sono state gestite le risorse e a quali risultati hanno portato, sono quindi
comunicazioni tecniche (indici di crescita ecc) volte a favorire il processo d’acquisizione delle risorse
indispensabili alla gestione d’impresa Es. Eni, “Bilanci e rapporti”: documentazione finanziaria che
ci dà i risultati trimestre per trimestre delle azioni dell’azienda – queste comunicazioni sono fatte
solitamente da CEO, dal capo del board di una business unit ecc, attraverso diversi media (sito
internet, evento, Youtube).
4. La comunicazione di marketing (ci concentriamo su questa) ha come interlocutore il mercato (clienti
e consumatori), con lo scopo di sviluppare la brand equity, quindi la notorietà (spontanea/sollecitata)
e l’immagine di marca, in armonia con le decisioni di marketing e di politica della comunicazione
d’impresa. Es. Coca Cola spot di Natale: racconta una storia emozionale, contestualizzata in uno
scenario (viaggio di un papà verso il polo Nord), si vede il prodotto e in qualche modo si fa trasparire
il beneficio dell’uso del prodotto; Buondì: spot asteroide, mostra i ruoli di acquisto (elemento tipico
presente in questo tipo di comunicazione); H&M spot di Natale: target eterogeneo ed internazionale;
Coca Cola spot in Svezia: utilizza il contesto esterno per creare engagement (ambient marketing) e
proiettare il cliente in un universo differente, di felicità.

84
­ La ripartizione proposta in quattro aree risponde ad un’interpretazione strettamente economico
aziendale e qualifica il ruolo della comunicazione all’interno delle decisioni d’impresa rispetto a tre
elementi: la capacità della comunicazione di incrementare il valore economico dell’impresa, i presidi
organizzativi che governano ciascuna delle aree e le circostanze che suggeriscono eventuali
maggiori livelli di integrazione tra di esse. à Ciascuna delle aree, pur in ambiti relativamente diversi,
deve agire nella prospettiva di incrementare il valore economico complessivo dell’impresa.
• La comunicazione di marketing rientra in due ambiti disciplinari contigui ma differenti, il marketing e
la comunicazione di impresa: tendenzialmente è il marketing a decidere le politiche di
comunicazione di marketing, mentre alle funzioni di relazioni esterne e corporate communication
spetta in genere un compito di coordinamento e di armonizzazione con quanto in essere a livello di
comunicazione di impresa. La comunicazione di marketing è composta da una pluralità di strumenti,
ciascuno con la sua precisa funzionalità e il suo canale elettivo ~ promotional mix: pubblicità,
promozione delle vendite (al consumatore e al trade), comunicazione istituzionale e di relazioni
esterne (PR), personal selling, comunicazione interattiva (dalla direct mail al web advertising ecc.)
à Per scegliere lo strumento giusto, vanno tenuti in considerazione i seguenti fattori
- La numerosità dei clienti: quando ho pochi grandi clienti, come nel caso dei mercati B2B o quando
si trattano intermediari commerciali, privilegerò strumenti di comunicazione interpersonale. Al
contrario, nei mercati di massa, si utilizzeranno strumenti di comunicazione di massa, in primo luogo
la pubblicità.
- Fase del processo di acquisto del cliente: ogni fase ha il suo touchpoint, il suo bisogno e quindi la
su strategia. Quindi, nelle prime fasi (riconoscimento del problema, ricerca delle alternative presenti)
si preferiranno strumenti di comunicazione di massa (stante la vastità e l’indeterminatezza del target)
per ottenere una risposta cognitiva; più si va avanti, più si cercherà una risposta affettiva e quindi
comportamentale, dunque si utilizzeranno maggiormente sales promotion sul punto vendita.
- Alternativa tra politiche push VS pull (mercato intermedio/finale): nel primo caso, si preferiranno gli
strumenti di trade promotion, le attività pubblicitarie congiunte tra impresa industriale ed impresa
commerciale ecc, mentre nel secondo caso la pubblicità, in grado di incidere in via diretta sulle
preferenze del consumatore.
- Costi e budget
- Tipologia di mercato
­ Le varie possibilità si combinano tra loro determinando molteplici scelte possibili, tutte
potenzialmente corrette, della cui maggiore o minore efficacia si può giudicare solo rifacendosi agli
obiettivi specifici che si sta ponendo l’impresa. A determinare il successo di un’iniziativa di
comunicazione, in ultimo, un ruolo critico è rivestito dalla creatività, dalla ricerca continua
dell’originalità e dal fattore sorpresa: tutti elementi che però non devono stravolgere l’approccio
metodologico di fondo, nel senso che devono raccordarsi agli obiettivi e alla strategie di marketing
dell’impresa.

85
• Effetti della comunicazione di marketing: nel momento in cui un’azienda comunica, questo ha un
impatto sui principali stakeholder, in particolare sulla domanda (il mercato finale), sulla concorrenza
(competitor, hanno una reazione), sul canale distributivo e, da un punto di vista interno, sui costi del
prodotto. Questi temi sono stati oggetto di numerose ricerche focalizzate, in prevalenza, sugli effetti
della pubblicità, a causa del fatto che essa è facile da verificare da un punto di vista quantitativo e
degli investimenti attuati.
- Effetti sulla domanda: l’azienda a fronte di un investimento di comunicazione vede un incremento
dei suoi costi che si ripercuotono sul prezzo finale del prodotto – presupposto di partenza per
qualunque scenario. Di fatto, la comunicazione agisce in modo importante sulla domanda perché ne
modifica la curva. Il primo scenario possibile è lo spostamento: l’azienda parte da un livello di prezzo
(P0) che corrisponde a un livello di vendite (Q0) e poi il prezzo aumenta (passa a P1 dove P0<P1)
ma anche le quantità acquistate dal mercato finale aumentano (Q1) – è definibile come l’effetto
notorietà, cioè i clienti iniziano a sentir parlare del prodotto e/o ne sentono parlare in modo più
consapevole e dettagliato e quindi decidono di acquistare il prodotto. Il secondo scenario è quello
dell’irrigidimento: passiamo nuovamente da un prezzo minore ad uno maggiore, ma in questo caso
all’incremento del prezzo le vendite diminuiscono – vediamo l’ effetto del cambio di preferenze. Il
terzo è l’effetto spostamento e successivamente l’irrigidimento: il prezzo aumenta ma le quantità
acquistate rimangono le stesse – effetto fedeltà, il cliente conferma le sue preferenze ma non può
acquistare quantità maggiori. L’ultimo scenario è quello degli effetti complessivi: il prezzo del
prodotto aumenta e nel primo movimento le quantità acquistate diminuiscono, quindi l’azienda si
rende conto che i suoi clienti non sono disposti a questo incremento, quindi rilancia il prodotto
abbassandone il prezzo e questo genera un grande aumento degli acquisti (assorbendo
internamente i costi, magari ridistribuendoli su altri prodotti). In generale, è interessante vedere che
a volte se il cliente ritiene il prodotto migliore degli altri, può decidere di sopportare un incremento di
prezzo, almeno entro certi limiti cfn soglia massima.
- Gli effetti sui rapporti con la distribuzione: con la comunicazione di marketing l’impresa industriale
cerca di instaurare una relazione diretta e stabile innanzitutto con il consumatore, ma per non “far
sentire stretto” il distributore, si cerca di migliorare il proprio rapporto con lui, per evitare reazioni che
avrebbero per l’azienda ripercussioni negative (creazione di marche commerciali, private label, del
distributore stesso). Infatti, se un primo effetto (positivo per entrambi) è l’aumento dei volumi di
vendita (diretta conseguenza degli incrementi della domanda generati dalla comunicazione), un
secondo effetto è la minore capacità di influenza della distribuzione sulle scelte dei consumatori.
Un’azienda che comunica molto farà aumentare e rendere più solido l’indice di penetrazione, quindi
di conseguenza il sell in: queste sono le dinamiche del trade marketing. Quando l’impresa è forte
(posizionamento e reputazione), il distributore non potrà che assecondarla, al contrario se sono in
una situazione in cui è il distributore che detiene la customer loyalty sarà lui a scegliere a quale
marca dare la maggiore visibilità. Inoltre, avvicinando la produzione al consumo, la comunicazione
diminuisce l’importanza del ruolo di alcuni intermediari, in particolare i grossisti. In ogni caso, il
concretizzarsi di alcuni effetti non positivi per le imprese commerciali ha causato la loro reazione,
spesso attuata nell’utilizzo più intenso e consapevole della comunicazione di marketing: da questo
cambiamento sono scaturiti fenomeni come la nascita della marca commerciale e più in generale la
sfida tra brand loyalty e store loyalty.
- Gli effetti sul costo dei prodotti: l’investimento pubblicitario è chiaramente un costo, che genererà
una pressione aggiuntiva sul prodotto, che dovrà dunque essere venduto per far rientrare i costi. Ma
questo genera anche dei vantaggi, che non possono essere non considerati: aumento delle vendite
(cfn effetto notorietà), consolidamento delle quote di mercato (lavorando sull’indice di penetrazione,
ad esempio), creazione di economie di dimensione, riduzione delle scorte, maggior turnover di
magazzino, tecniche di up-selling e cross-selling.
- Gli effetti sulla concorrenza: la comunicazione di marketing incide sulle preferenze di marca,
modificandole. Ciò comporta il fatto che essa può essere considerata come una variabile critica di
successo, una barriera all’entrata e alla mobilità e una fonte generatrice del vantaggio
concorrenziale (in quanto determina l’immagine di marca, uno degli asset intangibili su cui può
basarsi il vantaggio concorrenziale). Le azioni di comunicazione quindi si ripercuotono
sull’andamento delle quote di mercato e sui livelli di concentrazione settoriale. Inoltre, l’immagine di
86
marca rompe il dualismo esistente nelle logiche concorrenziali tra economia legata alle dimensioni
e differenziazione dell’offerta: infatti da un lato più si comunica, maggiori saranno le vendite e le
produzioni potranno godere di un vantaggio di costo, dall’altro la comunicazione evidenzia fattori
peculiari del prodotto e genera differenziazione concorrenziale, che aumenta l’isolamento
competitivo. In questo contesto di competitività, i competitor hanno due alternative, muoversi nella
direzione dell’incrementare anche loro la comunicazione, o cercare di oscurare la comunicazione
dell’azienda avversaria – in ogni caso, non possono stare fermi.
• Il settore della comunicazione di marketing: in esso si possono comprendere tutte le imprese che
agiscono nel mondo della comunicazione e che, a diverso titolo, consentono l’attuarsi dei processi
di comunicazione. La campagna pubblicitaria prende avvio dall’impresa (definita nel linguaggio
pubblicitario “utente”, in quanto utente dei servizi dell’agenzia di pubblicità) che definisce gli obiettivi
che intende raggiungere e le risorse che può investire in pubblicità. A questo punto entra in gioco
l’agenzia di pubblicità, che viene appunto coinvolta nel processo di formulazione e di esecuzione
della campagna: essa è un’azienda di servizi professionali, che permette all’impresa di acquisire
una prospettiva più ampia. Essa di norma interviene in modo rilevante sul versante della creatività,
nella selezione e scelta dei mezzi pubblicitari più idonei e più in generale nella continua verifica
dell’evolversi del profilo di marca: esistono molte tipologie di agenzie, dalle cosiddette “boutique
creative”, alle grandi agenzie a servizio completo, che hanno addirittura allargato il campo d’azione
presentandosi come partner di comunicazione idoneo a gestire tutte le manifestazioni e le esigenze
comunicative dell’impresa. Nel tempo, il settore delle agenzie si è enormemente specializzato e
frammentato, e in questo processo un ruolo molto importante è stato giocato dai centri media (nati
dagli anni ’80), società di servizi specializzate nella scelta e nella gestione degli spazi e dei tempi
sui mezzi pubblicitari. L’ultimo passaggio della pubblicità prima di giungere al mercato riguarda i
mezzi di comunicazione e le concessionarie di pubblicità, società specializzate nella vendita degli
spazi e dei tempi pubblicitari delle imprese. Infine ci sono le società di ricerche di marketing, che
forniscono alle imprese, alle agenzie e ai mezzi dati e informazioni sul pubblico, sulla sua numerosità,
sul livello di accettazione e di gradimento dei messaggi, sui risultati ottenuti in termini di notorietà e
di immagine ecc.
à Le decisioni che riguardano la comunicazione di marketing devono essere riferite strettamente a
tutte le politiche di marketing, per questo essa è l’ultima ad essere nominata – la comunicazione è il
tassello di chiusura, cioè chiude la catena delle politiche di marketing.

Il promotional mix (capitolo 14)


à Bisogna usare diversi strumenti, parlare di comunicazione in generale non ha molto senso. Sono
strumenti che supportano la strategie di visibilità dell’azienda con i suoi diversi interlocutori, i quali
ne sono impattati quotidianamente.
• Si è detto che la comunicazione al mercato si avvale di una pluralità di strumenti che formano il mix
promozionale: proprio l’esistenza di tanti strumenti e modalità diverse conferiscono alla
comunicazione di marketing un’estrema duttilità, particolarmente adatta alla gestione delle relazioni
in mercati complessi e dinamici.
• Bisogna aver coscienza innanzitutto delle diverse tipologie di media: broadcast media (TV/radio),
print media (giornali, magazine), pubbliche relazioni, internet e la comunicazione interattiva (ambient
marketing, street marketing o in generale il marketing non convenzionale), direct marketing
(newsletter, sms brandizzati ecc), sales promotion (3x2, campioni omaggio), product placement,
eventi e sponsorizzazioni, passaparola, punto vendita (packaging e posizione a scaffale), il
personale di vendita, out-of-home media (street marketing, flash mob ecc). È un palinsesto davvero
molto ampio, ma ci deve essere una coerenza tra tutti i media e i messaggi che l’azienda comunica,
altrimenti si creerà distonia: quindi, coerenza con la strategia di marketing in toto. Inoltre, serve
continuità: se si smette di comunicare, si sparisce dalla mente del cliente, invece la continuità crea
vicinanza. In ultimo, serve originalità e creatività sul contenuto e sul mezzo, per creare un impatto
anche emozionale. à Dunque i quattro elementi da prendere in considerazione nel decidere quali
strumenti utilizzare e quale uso farne sono: il paradigma integrated marketing communication (IMC),
la continuità, la coerenza con la strategia di marketing e l’originalità e la creatività. Gli strumenti

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principali che, in particolare nei mercati dei beni di consumo, fungono da punto di riferimento centrale
di tutto il mix promozionale, sono la pubblicità e la promozione delle vendite.
• Gli effetti della pubblicità: gli strumenti di comunicazione hanno effetti differenti, cioè significati
diversificati. Abbiamo risposte cognitive (learn), affettive (feel) e comportamentale (do), così come
gli effetti della pubblicità: learn (conoscenza delle caratteristiche funzionali, tecniche ecc) e feel
(affiliazione con l’universo di marca, i suoi valori), invece un più basso effetto comportamentale. Al
contrario, le sales promotion non hanno un effetto cognitivo, basso quello affettivo e molto alto quello
comportamentale (prendi 2 paghi 1, scontistica varia ecc), perché hanno maggiormente l’obiettivo
di portare il cliente ad acquistare. Detto ciò, le decisioni in tema di scelta, utilizzo e modalità di verifica
degli effetti della pubblicità e delle promozione delle vendite non devono essere assunte
disgiuntamente: le sinergie e le complementarietà esistenti tra pubblicità e sales promotion sono
così numerose da suggerirne una gestione estremamente integrata ~ reciproca interdipendenza.
Dal punto di vista dell’impresa, le risposte cognitive, affettive e comportamentali generano i
cosiddetti “effetto-comunicazione” e “effetto-vendite”: il primo è costituito dai risultati ottenuti in
termini di notorietà e di immagine, mentre il secondo riguarda la capacità della pubblicità di migliorare
le performance di mercato dell’impresa (ricavi, quota di mercato ecc).

• La pubblicità è una forma di comunicazione a pagamento, con uno scopo prevalentemente


commerciale (ma non esclusivo), con caratteristiche definite dall’azienda e indirizzata a un pubblico
obiettivo (target audience) opportunamente identificato e prescelto. Ci sono due grandi categorie: i
mezzi ATL (above the line), cioè tutti i mezzi “tradizionali”, la TV, la radio, le affissioni, la stampa e
poi i mezzi BTL (below the line), cioè mezzi maggiormente non convenzionali, come le promozioni
in punto vendita, il direct marketing, PR, social media. Inoltre, la pubblicità può essere riferita
all’intera impresa per comunicarne le caratteristiche (corporate advertising), oppure a un prodotto o
a una marca (product/brand advertising), può essere poi indirizzata a pubblici diversi per dimensione
(mass advertising VS pubblicità specializzata). Nel processo decisionale che riguarda una
campagna pubblicitaria intervengono fattori di tipo soggettivo relativi ai gusti e alle preferenze di
coloro che nell’impresa sono chiamati a prendere una decisione, il punto però è che la pubblicità
deve piacere ai consumatori e non necessariamente ai manager dell’impresa, dunque tutto deve
essere subordinato agli obiettivi di marketing.
• Promozione delle vendite: il termine “promozione delle vendite” implica che il fatto che essa deve
consentire un incremento delle vendite e, a questo scopo, tende ad agire soprattutto sulla
dimensione comportamentale del cliente. Questo insieme di attività è molto grande e variegato in
termini di obiettivi perseguibili: si può invogliare all’acquisto di un nuovo prodotto (offerta lancio), può
mascherare diminuzioni di prezzo, può arricchire la dimensione ludica della marca (concorsi a premi
e giochi), può promuovere cause sociali ed eticamente importanti. La promozione delle vendite ha
due target principali, il consumatore/acquirente e il trade, per questo dobbiamo ricordare la
differenza tra consumer promotion e la trade promotion.
- La consumer promotion include tutte le attività in-store (sconti al supermercato) e out-store (Es.
quaderni Just Eat fuori dall’università) dirette al consumatore, con un orizzonte tassativamente
temporaneo, che hanno lo scopo di aumentare la visibilità del prodotto !! Non necessariamente sotto

88
forma di sconti. Gli obiettivi in questo caso sono: aumentare la fidelizzazione e la brand equity,
sollecitare la prova diminuendo il rischio percepito, incentivare l’acquisto di maggiori quantità e
produrre effetti di trascinamento verso tutti i prodotti in portafoglio.
- La trade promotion invece coincide con le attività promozionali indirizzate agli intermediari
commerciali, fatte dal sales manager, non visibili al cliente finale. Es. se mi acquisti un certo
quantitativo di prodotto elevato, il prezzo unitario diminuisce, a seconda di quanto la marketing
intelligence istituisce. I principali vantaggi sono gli incentivi di natura economica, il miglioramento del
rapporto con il trade e la possibilità di lavorare insieme sotto l’ottica del co-marketing (Es. visual
merchandising nel punto vendita: si parla in modo congiunto e migliore al cliente finale, ma si
movimenta anche il punto vendita), gli incentivi non monetari (Es. programmi di training sul proprio
prodotto, gare di vendita per testing di nuovi prodotti o premi per aver raggiunto un certo numero di
prodotti venduti). Questi benefici possono riguardare solamente l’intermediario commerciale o
essere trasferiti in toto o in parte al consumatore finale: per questo, a volte può essere difficile
distinguere se la promozione di cui gode l’acquirente finale è generata dall’impresa industriale, con
una consumer promotion diretta, o dall’impresa commerciale, con una consumer promotion che
deriva da una trade promotion. Le trade promotion comunque sono ormai elementi quasi strutturali
nel rapporto tra impresa industriale e distribuzione.
- Effetti delle promozioni sulle vendite, sia al trade che al consumatore: dopo un picco del periodo
promozionale, si raggiunge una fase di saturazione, oltre al quale l’effetto che prima era positivo in
termini di reputazione, poi diventa negativo. Solo quando le vendite si sono stabilizzate è possibile
valutare in quale misura l’iniziativa promozionale abbia del tutto esaurito i suoi effetti lasciando
inalterati i rapporti tra le marche, ovvero capire se la promozione abbia consentito all’impresa di
avvicinare nuovi acquirenti (B).

Es. National geographic: rivista di settore di qualità molto elevata sul tema della natura e della cultura,
promossa sulla tv (canale specifico), il magazine e il sito web. A livello temporale, rispetto
all’awareness spontanea/sollecitata accade questo: man mano che il tempo aumenta, relativamente
al canale tv, l’awareness migliora; invece, per quando riguarda il magazine, vediamo l’andamento
contrario dell’awareness spontanea; se invece consideriamo l’NPS (strumento per valutare la fedeltà
in una relazione impresa cliente, che si attua ponendo la domanda "Con quale probabilità
consiglieresti questo prodotto/servizio/sito a un amico o a un collega?" e identificando poi i detrattori,
i passivi e i promotori), vediamo che alla terza settimana il sito web è stato considerato come
ridondante.
• Devo avere dei modelli di riferimento per costruire un buon messaggio di comunicazione: il primo
modello è l’AIDA (Attention, Interest, Desire, Action) – c’è un primo momento che vuole catalizzare
l’attenzione dell’individuo (quindi sollecita la sua risposta cognitiva), poi si passa al suscitare
l’interesse (con una domanda, con un insight ecc) e quindi far nascere il desiderio (restare
agganciato, capire che c’è un benefit e desiderarlo: risposta feel), in ultimo c’è il momento che invita
all’azione (risposta comportamentale, spesso attraverso il wrap up). Questo meccanismo è
89
assolutamente esplicito, infatti è possibile riconoscerlo quasi in qualsiasi spot. Un modello differente,
ma che completa il primo, è il DAGMAR: il punto di vista è quello dell’effetto (più che del contenuto),
infatti misura gli effetti della comunicazione, che sono consapevolezza, comprensione, convinzione
e azione cfn communication funnel. Es. Ikea Bookbook’’, spot sul catalogo: nelle prime battute la
nostra attenzione è catalizzata dalla diversità e dall’elemento “banale intuitività” di avere un catalogo
cartaceo davanti, facendo il verso alle pubblicità di nuovi device; gli elementi di interest sono quindi
poi il fatto che non deve essere caricato, non ci sono problemi di pixel ecc; il tema del desiderio
compare quando si cita la condivisione, la possibilità di mettere bookmark e il tema della privacy; il
tema dell’action compare alla fine, quando si invita ad andare agli store di Ikea per prendere la
versione “sempre aggiornata” del catalogo. Entrambi i modelli propongono una gerarchia di effetti
dal punto di vista di coloro che ricevono il messaggio pubblicitario e forniscono utili indicazioni per
la formulazione dei contenuti dei messaggi stessi e dei mezzi pubblicitari da utilizzare.
• Metodi per la definizione del budget pubblicitario: la premessa è che ogni azienda che desidera
essere maggiormente visibile, avere una certa notorietà e riuscire a fare chiarezza nel sistema di
rumore, deve investire. L’investimento pubblicitario è spesso ingente, proprio perché i mezzi costano,
il “prenotarsi uno spazio” costa e costa anche la costruzione del messaggio stesso: per questo
un’azienda prima di allocare risorse, ci pensa bene e deve definire quale sia il suo budget per avere
il risultato sperato.
- Modello teorico: ideale a livello teorico, ma difficilmente applicabile nella realtà. Abbiamo la retta
degli oneri (livello di investimento in pubblicità) e la curva logistica dei vantaggi (asse y) e il budget
(asse x). I vantaggi raggiungono una soglia massima oltre al quale a fronte di un ulteriore
investimento non avrò ulteriori benefici (ho saturato il mercato), mentre invece la soglia minima ci
dice che in corrispondenza di quel budget io non riuscirò ad avere vantaggi tali da coprire gli
investimenti fatti. Lo spazio di manovra corretto è tra A (soglia minima) e una soglia ottima e
massima (B). Abbiamo detto che al di sotto di un certo stanziamento gli effetti positivi sono irrisori
rispetto ai costi: questo vale in assoluto, cioè riferito al budget complessivo, sia in relazione al budget
investito su ogni singolo mezzo, infatti esiste una soglia minima differente per ciascun mezzo, a
seconda delle sue caratteristiche tecnico-economiche cfn sensitività della domanda-investimenti
pubblicitari, pag.34. Il problema è: come faccio a definire il punto A e il punto B? Questo ci porta a
dire che questo metodo è scarsamente applicativo, perché le agenzie pubblicitarie hanno dei dati
che molto raramente condividono con l’impresa. Le stime variano dal potere negoziale delle agenzie
media, del momento temporale (Es. periodo natalizio), quanto siano gli spazi liberi e quanto costano
i singoli spazi. Saper individuare questa zona tra A e B significa aver capito come reagisce il mercato
all’investimento pubblicitario.

- Metodo della percentuale dei ricavi: è piuttosto facile da applicare, ma se io investo in pubblicità, e
più investo, più aumento le vendite, come è possibile utilizzare la vendita per capire quanto investire?
È un’equazione concettualmente irrisolvibile: è un limite strutturale.
- Confronto e parità competitiva: se non è molto logico utilizzare le vendite, posso considerare i
competitor come parametro di confronto. Se i miei competitor investono x, io investo x: il limite è che

90
l’imitazione dei concorrenti dovrà anche tenere conto di un investimento incrementale per cercare di
essere originali, diversi. Questo metodo è perfezionato dal seguente.
- Advertising share VS market share: attraverso questo metodo, se si dispone di dati sufficienti, si può
paragonare il proprio investimento a quello dei concorrenti (cioè alla quota di investimento,
advertising share), assumendo come elemento di controllo le quote di mercato. Es. Se la marca x
ha il 20% di quota di mercato, il budget investito in comunicazione sarà pari al 20% circa del totale
degli investimenti pubblicitari effettuati dal settore. Quindi si considera la quota di mercato e gli
investimenti in comunicazione dei competitor: questo ultimo accento ci fa notare un grave limitazione,
cioè il fatto che si presuppone identità di strategie di marketing all’interno del settore, il che è del
tutto inverosimile.
- Metodo degli obiettivi: si basa su dati storici che consentono di individuare relazioni causa-effetto tra
investimento pubblicitario e obiettivi raggiunti (cfn metodi di ricerca causale). Il limite sta nel fatto
che non è possibile individuare in modo attendibile la relazione tra investimento e ricavi, in quanto i
volumi di vendita sono frutto di tutte le attività di marketing e non solo della pubblicità. Questo metodo
è utilizzato soprattutto qualora si disponga dei dati di GRP (vedi dopo).
­ Si devono preferibilmente usare tutti questi metodi contemporaneamente, cercando di giungere a
una convergenza nel risultato. Il budget pubblicitario è destinato in genere a coprire cinque voci di
costo: le ricerche di marketing ex ante, servizi dell’agenzia di pubblicità (ed eventualmente del centro
media), costi di produzione che comprendono compensi dei grafici, attori, troupe televisive ecc,
acquisto degli spazi e dei tempi sui mezzi selezionati e ricerche di marketing ex post.
• Scelta e pianificazione dei mezzi pubblicitari: questo momento è decisivo per una serie di motivi.
Innanzitutto esiste un numero notevole di mezzi di comunicazione disponibili e quindi infinite
combinazioni possibili tra di essi, inoltre non sempre l’impresa è in grado di conoscere i dati di
audience/readership e di confrontarli con le caratteristiche del proprio target; i mezzi spesso si
sovrappongono tra loro, ma allo stesso tempo ogni mezzo è caratterizzato da elementi tecnici e da
un’immagine percepita – bisogna dunque riflettere a lungo circa la coerenza esistente tra immagine
del prodotto e della marca, contenuto del messaggio e immagine percepita del mezzo. In ultimo il
mercato dei mezzi di comunicazione non brilla per la trasparenza delle condizioni d’offerta: l’impresa
non ha mai la certezza di aver davvero acquistato gli spazi e i tempi pubblicitari alle migliori
condizioni possibili. In ogni caso, la conoscenza delle caratteristiche tecniche e della valenza
pubblicitaria dei mezzi disponibili costituisce un primo criterio di scelta: ad esempio, se il messaggio
richiede dinamismo si preferirà televisione o internet, se richiede invece attenzione, la stampa
periodica.
• Il target di marketing e quello di comunicazione prevedono tre scenari diversi – se il target della
comunicazione e quello di marketing coincidono, significa che tutti coloro a cui si indirizzano le
politiche di marketing sono anche ricompresi nella comunicazione; se il target di marketing è più
ampio di quello di comunicazione significa che con una certa comunicazione io decido di focalizzarmi
soltanto su un mio specifico target; viceversa, se il target di comunicazione è più ampio di quello di
marketing significa che mi rivolgo anche ad interlocutori che non fanno parte della domanda
potenziale. Il confronto e la sovrapposizione tra audience, target e target group (vedi dopo) consente
di valutare la presenza di eventuali “effetti alone”, cioè la quantità di messaggi indirizzati al di fuori
del target: l’effetto alone di per sé non è negativo, salvo i casi estremi di un messaggio che non deve
raggiungere determinate persone – in ogni caso, si tratta di uno spreco/non corretto utilizzo delle
risorse.

91
• Indici pubblicitari
- La copertura netta (CN): numero di individui del target group (TG) esposti almeno una volta alla
comunicazione. Possiamo parlare di reach %, o penetrazione, se è espresso in percentuale: reach
!$
= 100 x 34
- La copertura lorda (CL) consiste nel numero complessivo di individui del TG raggiunto dalla
comunicazione, al lordo delle duplicazioni. CL= CN x AF. Con AF intendiamo la frequenza media,
!5
cioè il numero a cui ciascuno degli individui è stato sottoposto alla comunicazione, cioè 𝐴𝐹 = !$
L’OTS (opportunity to see) o anche frequenza media, quindi, esprime in percentuale l’opportunità di
!5
vedere gli annunci della campagna. 𝑂𝑇𝑆 =
'(6-7%
- Penetrazione e share: il totale d’ascolto è il numero totale di individui sintonizzati davanti alla
TV/stazione radio in un minuto qualunque dell’intervallo considerato – ci porta al concetto di
l’audience, quantità di persone che hanno accesso a quel contenuto su quel medium. La
penetrazione % è data da audience/ totale della popolazione. Lo share % è invece l’audience/totale
d’ascolto, cioè il numero di ascoltatori “colpiti”. Es. spot TV della nuova zuppa Findus, prima serata,
RaiUno: il totale degli ascoltatori in prima serata il 10/12 è di 22.000.000, il totale degli ascoltatori in
prima serata su Rai Uno il 12/10 è di 12.000.000 (audience), mentre la popolazione italiana di
riferimento è di 55.551.000 – la penetrazione % = 12.000.000/55.551.000 cioè 21.60%, mentre lo
share= 12.000.000/22.000.000= 54.55%.
- GRP (Gross Rating Point): è l’indicatore più affidabile e utilizzato, rappresenta infatti l’unità
internazionale di misura del grado di pressione pubblicitaria. È dato da copertura percentuale x
!$ !5 !5
frequenza media (x100). Può essere scomposto in 34 𝑥 !$ à 34 𝑥 100.

92
Il GRP è sempre un numero assoluto. Nel caso in cui frequenza aumenta ma la copertura netta
rimane la stessa, il GRP aumenta, ma non è di per sé positivo: il numero di persone raggiunto è lo
stesso, il problema è che li abbiamo sottoposti ad una frequenza superiore, e questo non è
necessariamente un vantaggio. Lo stesso GRP si può infatti ottenere: con copertre percentuali alte
e basse frequenze oppure con alta frequenza e bassa copertura. Es. Supponiamo di voler
raggiungere le donne tra i 25 e i 55 anni e che esse siano circa 12.000.000: se con un singolo spot
TV raggiungiamo 2.000.000 di persone, di cui però solo 1.200.000 sono donne di casa tra i 25 e i
55 anni, il nostro spot avrà avuto una “copertura” netta del 10%, con la “frequenza” di uno. Infatti,
avremo raggiunto il nostro target una volta sola, avendo mandato in onda un solo spot. Infatti:
copertura = 12.000.000/1.200.000 = 10%, frequenza = 1 quindi GRP= 0,1 x 1 (x100) = 10. Es. Nel
2020 l’azienda Caffè Latazza ha sviluppato una campagna stampa con una copertura del 20% e un
GRP 320. La nuova campagna 2021 vuole aumentare la copertura fino al 30% e diminuire invece la
frequenza di 4 punti. Quindi nel 2020 la frequenza era 320/0,2= 16, se nel 2021 la voglio diminuire
di 4 punti, diventa 12, dunque il GRR del 2021 sarà (0,3 x 12) x 100 = 360.
- Ci sono ulteriori indici di costo: il costo per GRP, cioè il costo dell’annuncio/stima GRP ottenibili; il
costo per contatto, cioè costo dell’annuncio/stima contatti ottenibili del TG; il costo per mille, che è il
costo dell’annuncio/contatti lordi a target x 1000.
¯ Tutte le info raccolte e le decisioni prese in tema dei mezzi confluiscono nel cosiddetto piano media
(media plan): dall’analisi del piano media si può cogliere quanto la campagna sia concentrata su
uno o pochi mezzi, se si preferisce un investimento costante o si opta per una serie di fiammate,
cioè brevi periodi ma ad alta pressione pubblicitaria.
• Formulazione del messaggio pubblicitario: questa azione è tipico e spesso esclusivo compito
dell’agenzia di pubblicità. La relazione tra impresa e agenzia in questo senso si sviluppa proprio
sulla creatività, anche se in realtà all’impresa interessa principalmente il primo momento di brief e
l’ultimo momento, quando si analizzano e si scelgono le proposte creative. In quest’ultima fase,
prima che il messaggio vada on air, è indispensabile un’attenta considerazione della coerenza tra
linguaggio proposto, posizionamento e stile della marca, orientandosi ovviamente al mercato. In
molti casi accade che tra impresa e agenzia si sviluppi un’intensa dialettica, questo perché,
generalizzando, si può dire che l’agenzia tende maggiormente a perseguire un obiettivo di
comunicazione, mentre l’impresa un risultato economicamente rilevante. È la sintesi tra pensiero
strategico dell’impresa e dell’agenzia che può condurre a una buona campagna pubblicitaria, però
questo pensiero deve diventare una base concreta e contenutistica dei documenti formali del
processo di relazione utente-agenzia, in primo luogo il brief. Il brief deve trasferire all’agenzia il senso
del rapporto dell’impresa con il mercato e deve essere presentato, discusso e condiviso con essa.
Per questo, tendenzialmente deve contenere: informazioni sul mercato (dimensione, tasso di
crescita ecc); indicazioni sul comportamento d’acquisto e di consumo del cliente e motivazioni dei
comportamenti e criteri di valutazione; situazione del trade; caratteristiche di prodotto, ossia i fattori
di differenziazione apprezzabili dal cliente; la source of business, cioè le ragioni che sostengono la
marca sul mercato; la reason why; il main consumer benefit; indicazioni sul tono e sul mood della
comunicazione; la risposta desiderata, che diventa il punto di riferimento per il controllo della
performance della campagna; eventuali vincoli di budget; esplicita indicazione della brand
personality (che va preservata).
• Altri strumenti della comunicazione di marketing: benché la maggior parte del budget di
comunicazione di marketing sia investito in pubblicità e sales promotion, vi sono alcune situazioni
particolari e/o imprese che esprimono bisogni di comunicazione molto specifici, per cui sia la
pubblicità che le sales promotion potrebbero essere del tutto sconsigliabili. Tra questi altri strumenti
ricordiamo: le relazioni pubbliche di prodotto (consigliabili quando il target è refrattario agli strumenti
di comunicazione troppo commerciali o quando la pubblicità e le promozioni sono bandite/assai
regolamentate), il direct marketing nelle sue diverse dimensioni tecnologiche (meglio chiamato direct
and interactive marketing, perché ciò che l’impresa intende ottenere è un dialogo ad personam con
il suo pubblico – dal direct marketing di tipo tradizionale si è sviluppato il digital marketing, vedi dopo),
le fiere e le mostre (occasioni di vendita ed eventi comunicativi e di scambio con il mercato, i
concorrenti, i partner potenziali ecc) e le sponsorizzazioni (sia classiche, sportiva, culturale e sociale,
ma anche modalità che esprimono in concreto il concetto di social responsibility).
93
Digital marketing (capitolo 15)
• L’attività di marketing è sempre stata condizionata dai mezzi di comunicazione e dal loro utilizzo
nella società, per questo la diffusione dei pc e dei mobile ha rivoluzionato il modo in cui le persone
possono interagire tra loro, arrivando a definire una nuova categoria di mezzi, i new media. Il digital
marketing nasce come naturale adattamento delle tecniche di marketing ai nuovi strumenti di
comunicazione ora disponibili: la relazione impresa-mercato si arricchisce al punto tale da ridefinire
i confini stessi dell’impresa e del mercato. In questo contesto destrutturato, dove tutti i soggetti
coinvolti possono svolgere un ruolo attivo nel processo di comunicazione e condivisione delle idee,
la strategia di marketing deve porsi dei chiari obiettivi circa il target e il miglior mix di strumenti. à
Digital marketing// tutte le attività di marketing che possono essere svolte mediante l’utilizzo delle
tecnologie digitali e che hanno l’obiettivo classico di generare e distribuire il valore tra le parti
coinvolte. Per fare questo bisogna: esserci, cioè avere una presenza attiva online, farsi trovare, farsi
sentire (comunicazione push + pull) e interagire. Inizialmente considerato in contrapposizione con il
mondo reale, oggi il mondo digitale con la sua pervasività è considerato un elemento imprescindibile
nella definizione delle strategie di marketing di un’impresa.
• L’attuale capitolo della storia dell’internet è il mobile: si è coniato il concetto dell’ “always on”, i
concetti di spazio e tempo hanno assunto nuovi significati, ma soprattutto la rivoluzione digitale ha
portato alla ridefinizione delle caratteristiche di alcuni settori di business e alla creazione di nuovi
modelli di business. Es. una canzone può essere venduta in rete senza più bisogno di un
intermediario commerciale, la realtà aumentata offre nuove modalità di scelta dei prodotti, il punto
vendita tradizionale può essere integrato con attività di e-commerce ecc.
• Il consumatore online è diverso da quello tradizionale: grazie alla disponibilità dei dati reperibili online,
è molto più informato rispetto al passato ed è diventato parte attiva nel processo di produzione delle
informazioni. Oggi per il consumatore il confine tra realtà offline e online è sempre più labile: ci si
informa online e si acquista offline, ma allo stesso tempo si tocca il prodotto nel punto vendita per
poi comprarlo via e-commerce. I cambiamenti osservabili negli atteggiamenti e nei comportamenti
del consumatore non riguardano solo la sfera individuale ma intervengono anche nella dimensione
sociale: gli utenti possono dare vita spontaneamente a vere e proprie comunità virtuali dove poter
scambiare opinioni o semplicemente raccontare le proprie esperienze passate con un determinato
prodotto/servizio. Inoltre attraverso la rete i clienti possono essere coinvolti attivamente da parte
delle aziende nella fase di testing/sperimentazione di un nuovo prodotto/servizio, anche secondo le
logiche di co-sperimentazione, co-design e co-produzione che conferiscono al cliente un notevole
aumento del potere contrattuale.
• La strategia digitale d’impresa deve essere declinata in una logica multimediale, crossmediale,
multidevice e multicanale: multimediale, perché online coesistono varie forme di espressione (testo,
audio, immagini ecc), crossmediale, perché ogni mezzo ha un diverso ruolo e il consumatore ne fa
un diverso utilizzo, multidevice, perché bisogna tenere conto delle preferenze dell’utente (computer,
smartphone, tablet) e multicanale, perché il mondo online si integra costantemente con il mondo
offline e viceversa.
• I diversi mezzi online possono essere classificati in funzione del livello di controllo che l’azienda può
avere su di essi: owned media, cioè i mezzi direttamente gestiti dall’azienda, come il sito web
istituzionale, il sito mobile o il blog aziendale; borrowed media, cioè i mezzi direttamente gestiti
dall’azienda in termini di contenuti ma che appartengono a terze parti, come l’account dell’azienda
sui vari social network, per cui vanno accettate le condizioni della piattaforma che ti ospita; paid
media, i mezzi che vengono comprati per ottenere visibilità, come nel caso del display advertising,
le campagne sponsorizzate su Google, i portali di settore ecc, in cui si accetta di pagare una fee per
ogni nuova visita ottenuta; earned media, quei canali in cui l’azienda è presente tramite citazioni,
commenti, recensioni, conversazioni degli utenti, presenza che non può essere comprata ma deve
essere guadagnata.
• Esiste un ampio numero di strumenti digitali finalizzati alla ottimale gestione della relazione tra
impresa e target di riferimento

94
- Il sito web: tutte le applicazioni che possono essere fruite online sono siti web, ovvero pagine scritte
in HTML. Le pagine web di un’azienda possono avere finalità diverse: puramente informative
(presentazione istituzionale dell’azienda, catalogo prodotti, schede tecniche), funzionali (servizi di
customer care o di assistenza tecnica) e di e-commerce. Ogni computer che si collega a un sito
lascia una serie di informazioni che possono essere rielaborate, circa il sistema operativo del
visitatore, l’area geografica (approssimata), il tempo di permanenza su ogni pagina e la pagina di
ingresso e quella di uscita. Fornire le giuste indicazioni ai motori di ricerca per essere indicizzati
secondo le parole chiave che si presume i potenziali visitatori possano utilizzare, diventa un lavoro
fondamentale per garantirsi un adeguato numero di visitatori qualificati (cioè effettivamente
interessati a visitare il sito): l’insieme delle tecniche finalizzate a massimizzare il traffico organico è
denominato SEO (Search Engine Optimization), che consiste quindi nello scrivere i contenuti in
modo che questi “piacciano” ai crawler (software che analizzano i siti internet in modo sistematico e
automatizzato) dei motori di ricerca. Strettamente collegata al SEO c’è il SEM (Search Engine
Marketing), ovvero l’insieme di attività finalizzate a generare traffico qualificato verso uno specifico
sito web, tipicamente attraverso campagne di keyword advertising che ti rimandano a landing page,
dove è inserita una call to action (per cui pago la pubblicità solo se il messaggio viene cliccato). In
ultimo vi è il SMO (Social media Optimization), che ha lo scopo preciso di stimolare il traffico sui
social media.
- Il blog: è caratterizzato dalla focalizzazione sulla comunicazione bidirezionale che tende alla
conversazione informale. Si taggano i contributi, che vengono ordinati dando sempre prima visibilità
al più recente, mentre quelli più datati vengono automaticamente archiviati. L’analisi dei contenuti
dei blog promossi non solo dall’impresa ma anche da altri individui o organizzazioni e che si
riferiscono all’impresa sono una fonte di interessante analisi per gli operatori di marketing. La
capacità di coinvolgimento prodotta da un blog è tale da spingere gli appassionati di un prodotto o
di un brand a creare legami forti online.
- Il social media marketing e il web 2.0: realizzare una pagina dedicata all’azienda, al brand o al
prodotto su un social è gratuito e offre la possibilità di attivare una rete di contatti che possono
commentare i post pubblicati, inoltre è possibile acquistare spazi pubblicitari e selezionare l proprio
target di potenziali visitatori sulla base degli interessi dichiarati dagli stessi. Il termine “web 2.0”,
coniato da Tim O’Reilly nel 2004, viene utilizzato oggi per evidenziare il ruolo attivo degli utenti, per
cui si è passati da una comunicazione di massa a una via a una comunicazione interattiva a due vie,
per arrivare poi a una comunicazione a tre vie (azienda-consumatore-consumatore). Il social media
marketing ha una serie di vantaggi: creazione di un dialogo diretto coi clienti, attivazione di nuovi
contatti, aumento della notorietà del brand, rafforzamento relazione con gli stakeholder, vendita
senza intermediari, profilazione più dettagliata del target di comunicazione, personalizzazione
dell'offerta MA richiedono competenze specifiche e risorse dedicate.
- Il content marketing: la produzione e la distribuzione di contenuti di qualità sta diventando un
momento cruciale per l’affermazione del digital marketing. L’interazione e il dialogo tra impresa e
cliente è fondamentale per analizzare questi ultimi e quindi produrre contenuti pertinenti e originali.
Alla capacità di analisi segue la ricerca di nuove modalità di engagement, cioè di coinvolgimento
emotivo e intellettuale dei consumator attuali e potenziali nei cfn dell’organizzazione e dei prodotti e
servizi offerti. Gli elementi da considerare per definire una strategia di content marketing efficace
sono di natura demografica, di natura comportamentale (interessi, tipo di interazione ricercato ecc)
e di tipo logistico (device utilizzato ecc). L’analisi della user experience offre quindi la possibilità di
gestire i contenuti strutturati e non, per realizzare campagne di comunicazione integrate online e
offline e di focalizzare l’attenzione su alcuni momenti della verità del visitatore cfn modello P&G e
Google. Una campagna di content marketing deve quindi essere integrata, coerente, contestuale e
ottimizzata.
- E-mail marketing: rappresenta un potente strumento per comunicare in modo push con il proprio
target di riferimento. Inoltre, può essere impiegata per le seguenti finalità: identificazione univoca
dell’utente per consentire l’accesso ad aree riservate, messaggi che confermano la registrazione a
un sito o una qualsiasi attività online, newsletter o vere e proprie campagne di Direct Email Marketing
(DEM). Rispetto a questa ultima finalità, la creazione di campagne DEM, bisogna tenere conto di:
definizione degli obiettivi, predisposizione del database degli indirizzi, preparazione del messaggio,
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invio (bisogna avere server affidabili che assicurino che la mail non venga letta come spam) e
valutazione dei ritorni.
- Mobile e app: per una strategia di web marketing efficace, il mobile è un campo al quale guardare
con attenzione, infatti gli utenti mobile hanno delle richieste e delle aspettative diverse (velocità,
design e navigabilità, contenuti adattati). Una scelta strategica riguarda l’alternativa tra lo sviluppo
di un sito mobile o una app: il primo ha costi di sviluppo ridotti ed è lo strumento migliore per
raggiungere il maggior numero di navigatori possibili, mentre la seconda (che non esclude il primo)
ha un’interfaccia utente più coinvolgente, può generare notifiche push ed è spesso disponibile offline.
- E-commerce: per commercio elettronico si intende la cessione di beni e la prestazione di servizi
effettuabili per via telematica. I vincoli temporali e spaziali perdono di significato, perché un sito di
e-commerce è sempre aperto, l’unico requisito è essere connessi ad internet. Le attività di e-
commerce possono essere realizzate secondo due modalità: generando il proprio sito di e-
commerce oppure affidandosi a marketplace, cioè realtà come eBay o Amazon. La presentazione
dei prodotti è un’attività fondamentale e a volte (nei marketplace) viene lasciata la possibilità agli
utenti di commentare le caratteristiche dei prodotti e le qualità del singolo venditore. Grazie all’e-
commerce aziende di medio-piccole dimensioni possono attivare strategie di internazionalizzazione,
riducendo al minimo gli investimenti di natura commerciale, tenendo però a mente anche di evitare
eventuali conflitti con la rete distributiva esistente. I due maggiori limiti all’e-commerce sono dubbi in
merito alla sicurezza dei pagamenti e le difficoltà connesse con la consegna fisica dei beni acquistati.

Pianificazione e controllo delle attività di marketing (capitolo 16)


à La gestione della relazione con il mercato deve trovare concretizzazione nell’ambito dell’azienda
intesa come una struttura organizzata di persone e routine.
• Il processo di pianificazione di marketing rappresenta un approccio sistematico che consente la
definizione delle modalità di presenza e di competizione dell’impresa sul proprio mercato. Si
evidenzia, a fronte del dinamismo caratteristico del mercato e delle strutture che operano nella
supply chain, la necessità di ricorrere a un processo di sistematizzazione delle attività di marketing,
con il triplice obiettivo di: comprendere la domanda e individuare le modalità di relazione via via più
adeguate, gestire le risorse interne e coordinare la rete di relazioni con tutti gli stakeholder. à Il tutto
con il fine di creare ed erogare valore per il mercato. I livelli e le funzioni aziendali coinvolti nel
processo sono molteplici, di conseguenza lo sviluppo di questo approccio implica una forte
connessione fra le decisioni di impresa e le decisioni di marketing. Tale processo non deve
prescindere dalle caratteristiche dell’azienda e dalle persone che la compongono, attribuire
eccessiva rilevanza alla forma ed enfatizzare la dimensione di razionalizzazione a svantaggio della
creatività.
• Il punto di partenza è rappresentato dall’analisi della situazione attuale dell’impresa, con l’obiettivo
di monitorare l’ambiente in cui l’impresa si muove, per ricercare opportunità significative o per
individuare eventuali minacce emergenti, oltre che considerare i punti di forza e di debolezza cfn
SWOT analysis. La pianificazione delle attività, in seguito, permette di definire e di razionalizzare le
strategie di marketing, per poter quindi conseguire degli obiettivi prefissati – il piano di marketing
(vedi dopo), di prodotto e/o di marca, rappresenta il punto focale della pianificazione delle attività:
esso è lo strumento che sintetizza l’intero processo di marketing, con la valenza di essere un
momento di “ordine” e di possibilità per ottenere le risorse necessarie al raggiungimento degli
obiettivi prefissati. La traduzione dei piani di marketing in azioni tese al conseguimento degli obiettivi
avviene nell’ambito della fase di realizzazione, dove la criticità è data dalla dimensione operativa
stessa e dalla capacità di coordinare le diverse funzioni aziendali rispetto a un comune obiettivo. Il
controllo, infine, consiste nella misurazione e valutazione dei risultati dei piani posti in essere e nella
definizione di interventi correttivi, dunque deve sostenere una struttura flessibile e adatta alle attese
del management e degli stakeholder in generale – due sono le tipologie di controllo potenzialmente
attivabili: il controllo strategico (verificare su base continuativa che le strategie riflettano le
opportunità e i punti di forza su cui si è inteso far leva) e il controllo operativo (verificare i risultati
conseguiti in corso d’opera e compiere in itinere azioni correttive dove necessario).
• L’attività di pianificazione di marketing si può sviluppare secondo due diverse dimensioni: la
pianificazione d’indirizzo, caratterizzata da un orizzonte di riferimento medio lungo e che si declina
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in un documento di poche pagine, redatto e controllato dal top management; la pianificazione al
dettaglio, caratterizzata invece da un orizzonte temporale di riferimento di breve periodo, che si
concentra nella definizione di dettaglio delle attività e che genera un documento piuttosto ampio e
soggetto a continui aggiornamenti da parte del middle management. L’attività di pianificazione si
può esprimere inoltre a due differenti livelli, il livello azienda e il livello prodotto: nel primo caso
l’orizzonte di riferimento è allargato all’impresa nel suo complesso e l’enfasi è posta sulla
componente strategica, mentre nel secondo prevalgono la dimensione operativa e la prospettiva
focalizzata sullo specifico sistema di offerta.
• Piano di marketing// documento scritto, redatto solitamente con cadenza annuale, che sintetizza le
modalità secondo le quali l’impresa intende raggiungere gli obiettivi strategici. Esso si concentra
principalmente sull’identificazione e creazione di un vantaggio competitivo per l’impresa chiaramente
definito e perseguibile nei tempi prefissati. La struttura sostanziale del piano riprende i momenti
fondamentali secondo i quali si sviluppa il processo di marketing: l’analisi della situazione, la
determinazione degli obiettivi, lo sviluppo di strategie, la pianificazione delle azioni, la realizzazione
di tali attività e il controllo. I principali vantaggi della pianificazione strategica di marketing sono la
maggiore redditività nel tempo e il miglioramento della produttività.

La validità generale del piano, sia esso a livello aziendale sia di prodotto, può essere valutata
attraverso la verifica della sussistenza di alcune condizioni fondamentali: solidità, fattibilità, utilità,
coerenza, redditività, vulnerabilità, flessibilità.
• La multidimensionalità del controllo di marketing: per controllo di marketing si intende quell’insieme
di attività che hanno come obiettivo la verifica della correttezza della strategia di marketing adottata
dall’impresa e la corretta esecuzione di quanto deciso da un punto di vista operativo per il suo
conseguimento. Una modalità per tradurre in concreto tale approccio può essere derivata dalla
Balanced Scorecard: metodologia di controllo strategico elaborata da Kaplan e Norton e diffusa a
partire dal 1992, utilizzata in una struttura multidimensionale per tradurre le strategie aziendali in
una serie completa di misure della performance. Questo metodo parte dal presupposto che, per
avere una visione esauriente dell’intera situazione aziendale, nessun indicatore di performance deve
essere preso singolarmente. Per questo, vengono identificate quattro dimensioni rilevanti:
1. La prospettiva della performance economico-finanziaria: pone in relazione i risultati ottenuti
dall’azienda con le aspettative di profitto degli azionisti. Gli indicatori presi in considerazione sono: il
ROI (Return On Investment), che esprime la redditività degli investimenti (ossia il rendimento offerto
9(::%"; ;<('6"%=; :()) $ 6""%=%"à :% ?@"
dal capitale investito nell’attività tipica aziendale) – ROI = AB=(C"%?(B"; -;?<)(CC%=; :())$ 6""%=%"à :% ?@"; il
ROE (Return On Equity), dato dal rapporto tra l’utile d’esercizio e il capitale proprio, quest’ultimo

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ottenuto escludendo dal patrimonio netto l’utile d’esercizio, per cui indica la redditività del capitale di
1';D%""; B("";
rischio, cioè dei mezzi impiegati dai soci o dalla proprietà in azienda – ROE = ; il
*(:%6 -6<%"6)( B("";
ROS (Return on Sales), che esprime la redditività delle vendite indicando il margine conseguito dopo
E"%)( B("";
la copertura di tutti i costi della gestione caratteristica – ROS = F6""G'6";
2. La prospettiva del cliente: deve esserci la definizione di misure di performance in termini di customer
satisfaction. Dato che non sempre il comportamento del cliente è coerente con il suo reale livello di
soddisfazione, vi è la necessità di svolgere indagini sia in modo indiretto che diretto: nel primo caso
si utilizzano indici propri del customer database per verificare gli andamenti e le fluttuazioni dei clienti,
mentre nel secondo caso i costi sono maggiori e richiedono metodologie di analisi accurate e la
collaborazione dei clienti.
3. La prospettiva dei processi aziendali interni: dobbiamo dirigerci verso l’individuazione dei fattori critici
di successo per la soddisfazione dei clienti e degli azionisti (obiettivi finanziari e customer-based).
4. La prospettiva di sviluppo futuro: è strettamente connessa all’innovazione di processo e
all’apprendimento che consentono uno sviluppo globale dell’organizzazione a livello di mercato e
cultura aziendale.
!! Tale attività di controllo non si limita a rilevare i risultati ottenuti, ma deve indagare anche gli
elementi su cui si basa l’analisi e la successiva definizione del piano di marketing per verificare se
le ipotesi di partenza si sono rivelate corrette o meno.
• Tempi, modalità e responsabilità del controllo di marketing: le attività devono essere organizzate in
modo efficace ed efficiente al fine di garantire un adeguato controllo, ma allo stesso tempo evitando
un eccesso di burocrazia e adempimenti non strettamente necessari. Su questo punto, sono di
grande aiuto i sistemi di business intelligence che possono automatizzare gran parte della attività di
controllo, un esempio è il tableau de bord (o cruscotti aziendali), che ha come obiettivi il controllare
le variabili chiave (key performance indicators) e consentire un’immediata lettura degli scostamenti
dei risultati dell’azienda per la definizione delle azioni correttive. Ogni azienda si organizza in modo
da assegnare a ogni funzione aziendale la responsabilità delle proprie attività, ma è bene che ci
siano delle entità dedicate al controllo super partes. Le possibili traduzioni operative delle attività di
controllo sono: il controllo dei risultati (a fine esercizio), il controllo programmato in itinere (che
consente di intervenire subito qualora in qualsiasi elemento non sia in linea con gli obiettivi
desiderati), il controllo complessivo e il controllo puntuale ad hoc. È in ogni caso al vertice aziendale
che spetta la responsabilità ultima dell’attività di controllo.
• Il marketing audit// strumento fondamentale a disposizione dei manager, che consiste in un esame
completo, sistematico, indipendente e periodico dell’ambiente di mercato, degli obiettivi, delle
strategie e delle attività di un’impresa finalizzato all’identificazione delle aree problematiche e delle
opportunità. È condotto normalmente da persone esperte esterne all’azienda o comunque non
appartenenti alla funzione marketing.

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