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In generali condizioni di scarsità la domanda tende a essere rivolta a beni di base e l’individuazione
di mercati redditizi diviene piuttosto facile, mentre in mercati altamente competitivi e in
condizioni di eccesso di offerta, diventa necessaria l’adozione di una filosofia di business che
sancisca che l’offerta sia guidata dal mercato (market-driven) e che il processo di produzione sia
avviato a seguito di una chiara definizione dei bisogni dei clienti. Tale concetto suggerisce che
perseguire l’interesse del cliente, alla fine, favorisce anche l’interesse dell’impresa: una situazione
win-win.
Il mkt strategico si basa innanzitutto sull’analisi dei bisogni degli individui e delle organizzazioni.
Nell’ottica di marketing, quello che il cliente cerca non è tanto il prodotto, ma la “soluzione al
problema” che il prodotto(servizio) è in grado di fornire. Il ruolo del mkt strategico è quello di
seguire l’evoluzione del mercato di riferimento e di identificare i vari prodotti-mercati e segmenti
attuali e potenziali, in base all’analisi dei diversi bisogni da soddisfare. Le innovazioni (idee di nuovi
prodotti) possono avere due origini diverse: il mercato o l’impresa. Se l’esigenza di un nuovo
prodotto proviene dal mercato si dice che l’innovazione è “tirata dal mercato” (market-pull).
L’indicazione derivante dal mercato viene trasmessa alla funzione R&S, che cercherà di dare una
risposta adeguata al bisogno insoddisfatto (marketing strategico reattivo o di risposta domanda
chiave: “E’ fattibile?”). Sarà poi compito del marketing operativo promuovere la nuova soluzione
nel segmento target identificato dall’indagine di mercato.
Un’altra fonte d’innovazione è il laboratorio o la funzione R&S che, in seguito a una ricerca di base
o applicata, scopre un nuovo processo, un nuovo prodotto che permetta di soddisfare un bisogno
latente, o anticipare una domanda di cui non vi è consapevolezza nel mercato. Le innovazioni,
dunque, sono trainate dalla tecnologia più che dall’orientamento a soddisfare i bisogni espressi del
consumatore. L’innovazione è, quindi, spinta dalla tecnologia o dall’impresa (tecnology-push o
corporate-push). Il ruolo del mkt strategico in questo caso è più complesso. L’interrogativo a cui
occorre rispondere è: “esiste un bisogno e un segmento di mercato potenzialmente redditizio?”.
Al marketing strategico spetta quindi il compito di valutare le dimensioni del segmento individuato
e i fattori di successo alla base dell’innovazione da introdurre (marketing strategico proattivo o di
creazione dell’offerta). Il ruolo del mkt operativo sarà quello complesso di dover creare un
mercato per un prodotto che non viene richiesto esplicitamente dai consumatori e la cui adozione
può implicare dei cambiamenti nelle abitudini di consumo da parte dei clienti potenziali.
Nel marketing strategico reattivo o di risposta l’obiettivo è individuare i bisogni o desideri espressi
e soddisfarli.
Per quanto riguarda il mkt operativo, il suo ruolo primario consiste nel raggiungere l’obiettivo di
fatturato programmato, cioè nel vendere e ottenere ordini d’acquisto utilizzando gli strumenti di
vendita più efficaci, minimizzando nel contempo i costi. L’obiettivo di fatturato da realizzare si
traduce poi in programmi di fabbricazione per la funzione produzione e in programmi di stoccaggio
e distribuzione fisica per i servizi commerciali. Il mkt operativo, dunque, è un elemento
determinante che influenza in modo diretto la redditività a breve termine dell’impresa. Ogni
prodotto, infatti, deve avere un prezzo accettabile per il mercato in cui si inserisce, essere
disponibile in circuiti di distribuzione adeguati alle abitudini d’acquisto del segmento target, essere
sostenuto da attività di comunicazione finalizzate a renderne nota l’esistenza e a valorizzarne le
qualità distintive. Il mkt operativo è, dunque, il braccio commerciale dell’impresa, senza il quale il
migliore piano strategico non potrebbe fornire risultati soddisfacenti, come d’altronde non ci
potrebbe essere un mkt operativo redditizio senza solide scelte strategiche alle spalle.
Il marketing operativo può essere transazionale, che si focalizza sulle singole vendite (transazioni)
considerate a sé stanti e prevede che la relazione col cliente finisca con la conclusione della
vendita; oppure può essere relazionale, ovvero orientato alla costruzione di una relazione forte e
duratura. L’obiettivo principale è il mantenimento e lo sviluppo di una base di clienti, per creare un
rapporto mutualmente redditizio (CRM). Il mkt relazionale sposta l’attenzione sui vantaggi non
economici, come i servizi, il tempo di consegna e la certezza di una fornitura continua.
Il programma di marketing
Il mkt operativo mette in rilievo le variabili non legate direttamente al prodotto (prezzo,
distribuzione, comunicazione), mentre il mkt strategico mette l’accento sulla capacità di fornire un
prodotto di qualità superiore a un prezzo competitivo. Il marketing strategico conduce alla scelta
dei prodotti-mercati da sfruttare in ordine di priorità e a una previsione della domanda primaria in
ciascuno dei prodotti-mercati di riferimento. Il marketing operativo, invece, proporrà un obiettivo
di quota di mercato, tenendo conto dell’ambizione strategica dell’impresa e del budget di mkt
necessario alla realizzazione di tale obiettivo. L’obiettivo di vendita viene individuato prima in
termini di volumi di vendita e poi in termini di fatturato, tenuto conto della politica di prezzo
adottata. Il profitto lordo atteso si ottiene dopo aver sottratto i costi diretti di produzione, la quota
dei costi fissi attesi in relazione alle strutture e le spese di marketing (forza vendita, pubblicità,
promozione). Tale profitto lordo rappresenta la contribuzione fornita dal prodotto-mercato
all’impresa nel segmento target, destinata ad assicurare la copertura delle spese generali
d’esercizio e a garantire un profitto netto.
Il marketing mix o “paradigma delle 4P”: Product (prodotto); Price (prezzo); Place (punto
vendita/distribuzione); Promotion (promozione/comunicazione) fu proposto da McCarthy nel 1960
e viene considerato la dimensione operativa del marketing (braccio commerciale dell’impresa).
Esso comprende le tecniche e gli strumenti specifici di marketing che i manager combinano tra
loro in un determinato modo per affrontare una situazione specifica (in particolare per soddisfare i
bisogni dei clienti). Riconoscendo il carattere peculiare dei servizi rispetto ai prodotti, Boons e
Bitner (1981) aggiungono alle 4P standard altre 3P, per un totale di sette: People (persone), coloro
che entrano in contatto con i clienti; Process (processo di erogazione), cioè il sistema di servuction
implicato nel fornire il servizio; Physical evidence (evidenza/supporto fisico), prevista per rendere
tangibile il servizio al cliente. Solo una volta identificati i business da realizzare, i clienti da servire, i
concorrenti con cui confrontarsi e i distributori con cui collaborare a livello strategico, acquisirà
importanza il paradigma delle 4P o 7P.
Il ruolo del mkt strategico è quindi di condurre l’impresa verso le opportunità esistenti o creare
opportunità interessanti, cioè adatte alle risorse e al know-how dell’impresa e che offrano un
potenziale di crescita e redditività. Il processo di mkt strategico può essere implementato in sette
fasi:
1. Definizione del mercato di riferimento. La definizione del business è il punto di partenza
per lo sviluppo della strategia, in quanto consente di identificare i clienti da servire, i
concorrenti da superare, i fattori chiave di successo da governare e le tecnologie da
utilizzare.
2. Qual è la diversità dei bisogni nel mercato di riferimento? Consumatori diversi
manifestano interessi e desideri diversi, dunque nella definizione degli obiettivi, ormai
sempre più spesso le imprese si allontanano dal mkt di massa per focalizzare l’attenzione su
uno(o più) gruppi di clienti ben identificati. L’obiettivo diventa quindi quello di suddividere il
mercato in sottogruppi omogenei di clienti (segmentare), per adattare l’offerta dell’impresa
in base a una migliore comprensione delle loro esigenze.
3. Quanto è interessante l’opportunità di business nei segmenti individuati? (attrattività e
competitività). Prima di definire il segmento target, l’impresa deve valutare l’attrattività
intrinseca di ciascun segmento, cioè la sua dimensione attuale e potenziale, il tasso di
crescita, l’accessibilità, l’intensità della concorrenza e cosi via. Tutti questi indicatori sono
oggettivi e fuori dal controllo dell’impresa, descrivendo il contesto economico e competitivo
di ogni segmento e possono essere valutati attraverso ricerche di mercato standard.
4. Abbiamo una proposta di valore sostenibile per ciascun segmento? Il vantaggio
competitivo si riferisce a quelle caratteristiche o attributi di un prodotto o di una marca che
conferiscono all’impresa un qualche tipo di superiorità rispetto ai suoi concorrenti diretti,
generando valore per i clienti. L’obiettivo è identificare il tipo di vantaggio competitivo di
cui l’impresa gode in ogni segmento e valutarne la sostenibilità, perché è importante
sottolineare che un’impresa può superare i suoi concorrenti solo se è in grado di stabilire un
vantaggio competitivo che si possa mantenere nel tempo.
5. A quale/i segmento/i rivolgersi in via prioritaria? (copertura). In una strategia di
focalizzazione i confini di mercato sono definiti in modo ristretto. In una strategia di
completa copertura del mercato vi sono 2 opzioni: una strategia di “marketing di massa”, in
cui l’impresa si concentra su ciò che è comune nelle esigenze dei clienti, piuttosto che su ciò
che è diverso; una strategia di “personalizzazione di massa”, in cui l’impresa si avvicina al
mercato con un programma su misura per ogni segmento. In una “strategia mista”
l’impresa diversifica le sue attività, al fine di garantire che il suo portafoglio sia ben
equilibrato in termini di profitto e crescita potenziale e ben diversificato in termini di rischio
6. Come vogliamo competere nel(i) segmento(i) target? (posizionamento). Il passo
successivo è decidere la strategia di posizionamento da adottare all’interno di ciascun
segmento target, cioè la decisione assunta dall’impresa nella scelta del/i beneficio/i che la
marca deve possedere e nella sua/loro valorizzazione, per occupare una posizione specifica
nel mercato. L’obiettivo dell’impresa sarà quindi comunicare con chiarezza il
posizionamento scelto ai potenziali clienti affinché essi se lo ricordino.
7. Come ottenere un portafoglio prodotti ben bilanciato? Lo scopo di un’analisi del
portafoglio prodotti è aiutare le decisioni delle imprese multi-business nella destinazione
delle risorse tra le varie unità strategiche di business o SBU (Strategic Business Unit), che
competono nei diversi segmenti target. Tale analisi coinvolge gli indicatori di attrattività e
competitività, che aiutano a guidare il pensiero strategico, insistendo sul mantenimento di
un equilibrio tra attività a redditività immediata e attività che preparano il futuro,
incoraggiando l’impresa a tenere sempre a mente sia l’attrattività del mercato sia il
potenziale di competitività, proponendo strategie di sviluppo differenziate per tipo di
attività e fissando chiari obiettivi per rafforzare la motivazione interna all’impresa e
facilitarne il controllo.
Il risultato di queste 7 tappe del processo di marketing strategico costituisce la struttura portante
del piano di mkt operativo. Tutte queste fasi sono fondamentali nel loro insieme perché sapere
cosa vogliono i clienti non è poi così utile se: i concorrenti stanno già fornendo lo stesso prodotto o
servizio; potenti distributori si rifiutano di inserire la marca nei propri listini, impedendo
all’impresa di raggiungere la clientela-target; potenti influenzatori di mercato non certificano o
considerano il prodotto; se potenti stakeholder decidono di boicottare la marca.
Kohli e Jaworski hanno proposto una concettualizzazione del concetto di orientamento al mercato
in cui vengono definiti operativamente due dei tre pilastri del tradizionale concetto di marketing:
l’orientamento al cliente e integrazione interfunzionale. K&J propongono la seguente definizione
formale: L’orientamento al mercato è la generazione in tutta l’organizzazione d’impresa, di
market-intelligence relativamente alle esigenze attuali e future dei clienti, la sua diffusione tra le
funzioni e la responsabilizzazione di tutta l’organizzazione nei suoi riguardi. La generazione di
market-intelligence coinvolge un concetto più ampio di customer intelligence e comprende il
monitoraggio di fattori quali la concorrenza, gli orientamenti legislativi, la tecnologia e le altre
forze del contesto. La diffusione di market-intelligence implica la partecipazione virtuale di tutte le
funzioni dell’organizzazione, che devono essere informate riguardo le notizie importanti di market-
intelligence, appunto. La definizione della responsabilità organizzativa riguarda l’atteggiamento
adottato in risposta alle informazioni di market-intelligence diffuse. Essa si manifesta nella
selezione dei segmenti target, progettazione e promozione di prodotti o servizi, in grado di
soddisfare bisogni attuali o futuri. Da un punto di vista operativo il modello K&J rimane molto
generale: esso non specifica per esempio, il tipo di market intelligence da adottare, né il tipo di
risposta che l’impresa dovrà assumere.
I clienti diretti e i clienti finali esprimono una domanda diretta di beni o servizi e l’impresa li
conosce e sa come soddisfarli. In molti settori, tuttavia, vi sono ulteriori gruppi di clienti, i quali
rappresentano una domanda potenziale che viene spesso ignorata, perché le imprese non
sono in grado di raggiungere tali clienti direttamente. Tale domanda indiretta esiste perché il
valore di alcuni prodotti si realizza quando vengono utilizzati con altri prodotti (es. pag 28
Nestlé – Baxter). Per diventare completamente demand-driven e soddisfare cosi anche la
domanda indiretta, molte imprese hanno adottato un approccio di vendita di soluzioni.
Probabilmente l’impresa fornitrice di soluzioni non possiederà tutte le risorse necessarie per
fornire tutte le componenti della soluzione al cliente e quindi dovrà impegnarsi nel cercare e
trovare i partner giusti per trarre vantaggio dalla domanda indiretta. Per rivolgersi alla
domanda diretta i tradizionali partner commerciali sono i grossisti e i dettaglianti. Per
rivolgersi, invece, alla domanda indiretta, oltre ai partner della distribuzione, si individuano
diversi tipi di altri partner in virtù delle numerose funzioni da svolgere: aggregatori, integratori,
educatori e sottoscrittori.
Per quanto riguarda i distributori e i fornitori operiamo una distinzione: il dettagliante guarda
al massimo rendimento sull’investimento di spazio e al contributo alla sua immagine globale; il
fornitore cerca massimo spazio sugli scaffali, possibilità di testare nuovi prodotti e la
preferenza del cliente rispetto ai concorrenti. I produttori quindi devono definire
esplicitamente le relazioni strategiche di marketing nei confronti dei distributori.
I concorrenti, siano essi diretti o produttori di beni sostitutivi, sono attori chiave del mercato e
l’atteggiamento da adottare nei loro confronti è un elemento centrale nella formulazione di
qualsiasi strategia, dato che servirà come base per la definizione del vantaggio competitivo.
Occorre definire una strategia basata su una valutazione realistica delle forze in gioco,
attraverso l’acquisizione e la diffusione di informazioni sui concorrenti nel mercato target, e
determinare i mezzi più idonei per raggiungere gli obiettivi definiti. Nei mercati saturi e
stagnanti, l’aggressività della lotta competitiva tende ad aumentare e contrastare le azioni dei
rivali diventa un obiettivo fondamentale. Il rischio di una strategia basata solo sul “marketing
guerriero”, tuttavia, è che venga dedicata troppa energia al tentativo di battere i concorrenti,
con il rischio di perdere di vista l’obiettivo di soddisfare i bisogni dei clienti. È quindi essenziale
un giusto equilibrio tra l’orientamento ai clienti e ai concorrenti.
Gli influenzatori e i prescrittori – in molti mercati, oltre ai tradizionali attori, altri individui o
organizzazioni possono svolgere un importante ruolo nel consigliare, raccomandare o
prescrivere marche, imprese, prodotti o servizi ai clienti o distributori.
Un mercato globale elettronico (MGE) può essere definito come un mercato virtuale online,
cioè una rete di interazioni e relazioni d’impresa, in cui i consumatori, fornitori, distributori e
venditori trovano e scambiano informazioni, realizzano scambi commerciali e collaborano gli
uni con gli altri, attraverso l’aggregazione di contenuti provenienti da più fornitori. Nei MGE i
dettaglianti elettronici o e-tailer utilizzano Internet come mezzo di comunicazione e di vendita
al dettaglio. I pure play e-tailer usano esclusivamente Internet, mentre gli e-tailer brick-and-
click utilizzano Internet per promuovere i loro prodotti, ma dispongono anche del tradizionale
negozio fisico accessibile ai consumatori.
Per quanto attiene ai mercati B2B, invece, un numero crescente di imprese sta sperimentando
l’acquisto e la vendita di merci attraverso l’e-marketplace (mercato elettronico), ovvero un
sistema informativo interorganizzativo, che abilita lo scambio di informazioni relative a prezzi e
offerti di prodotti tra acquirenti e fornitori, eliminando così le inefficienze della tradizionale
catena di approvvigionamento.
I facilitatori di mercato sono uno speciale gruppo di fornitori di servizi, che opera sia nei MGT
sia nei MGE, motivati a fornire infrastrutture e a garantire le transazioni di mercato.
Per stakeholder, invece, si intende qualsiasi gruppo o individuo che può influenzare o è
influenzato dagli obiettivi dell’impresa. Dunque potrebbe trattarsi indistintamente di lavoratori
dipendenti, sindacati, organizzazioni non governative (ONG), le comunità locali, i consumeristi,
gli investitori e l’ambiente. Secondo l’approccio degli stakeholder l’impresa è responsabile nei
loro confronti e pertanto deve perseguire i benefici di tutti quei soggetti che rappresentano i
suoi stakeholder.
Secondo McKinsey le organizzazioni di mkt oggi sono costruite attorno a due ruoli collegati tra
loro da team e processi, piuttosto che da strutture funzionali o divisionali: gli integratori
(manager di processo) che sono responsabili di mkt con ampie capacità e assumono un ruolo
critico: guidare le attività attraverso l’intera catena del valore aziendale, individuando i
segmenti di mercato in cui competere e le leve da utilizzare per massimizzare la redditività a
lungo termine; gli specialisti che forniranno le competenze tecniche e specialistiche necessarie
per attuare con successo la strategia di marketing in diversi ambiti, come la ricerca di
marketing, le strategie di prezzo, la pubblicità, le promozioni, la comunicazione online, il direct
mkt e cosi via. La tendenza è di subappaltare a specialisti esterni le attività di mkt quali le
ricerche e le analisi di mercato, la gestione di database e l’esecuzione di alcuni compiti di mkt
operativo. L’Idea chiave è ritenere che l’orientamento al mercato sia un’attività che debba
coinvolgere tutti e non solo i responsabili di mkt, che hanno tuttavia un ruolo chiave nella
diffusione della cultura di OM all’interno dell’organizzazione.
È necessaria dunque una visione socio-ecologica del consumo, data la consapevolezza della
scarsità delle risorse naturali, della crescita incontrollata dei rifiuti e del costo sociale del
consumo stesso. Quest’ultimo non è più visto come fine a se stesso, ma in termini di tutte le
implicazioni a monte(costo di opportunità) e a valle(costo di riparazione e prevenzione). La
globalizzazione, con la crescente interdipendenza dei mercati, sta contribuendo a diffondere
questa nuova cultura a livello planetario. L’ecologista desidera soprattutto stabilire un prezzo
per l’utilizzo dell’ambiente, che fino a qualche tempo fa era considerato un “bene gratuito”; gli
strumenti economici utilizzati per stabilire tale prezzo generalmente sono tasse dirette sulle
attività inquinanti, o in termini di prevenzione (eco-imposte) o in prospettiva riparatrice (eco-
tasse o Imposta Pigouviana). Il modello dell’ inventario del ciclo di vita (LCI, Life- Cycle
Inventory) è lo strumento fondamentale usato dagli ecologisti per valutare l’impatto totale di
un prodotto sull’ambiente L’inventario del ciclo di vita (LCI) è un processo che quantifica
l’utilizzo di energia, risorse ed emissioni nell’ambiente di un prodotto nel corso del suo ciclo di
vita. Esso comprende l’impatto ambientale legato all’approvvigionamento delle materie prime,
la produzione, il confezionamento, la distribuzione e le caratteristiche d’uso, fino a dopo
l’utilizzo e allo smaltimento. Quindi le imprese di fronte a tale prospettiva, sono state costrette
a rivedere complessivamente il concetto che hanno dei loro prodotti, dalla ricerca di materie
prime sino allo smaltimento. In futuro la certificazione ISO 14001, sostituirà la ISO 9000, che
oggi certifica e misura il rispetto per l’ambiente e diventerà anch’essa una condizione
necessaria per poter partecipare a gare d’appalto internazionali.
Questa non è una moda o una protesta, bensì uno stile di vita che si sta rapidamente
diffondendo a tutti i livelli della società e in tutto il mondo. Le imprese sono indotte a
migliorare la loro “eco-efficienza”, aumentando il volume di produzione per unità di risorsa
naturale impiegata, applicando all’uso delle risorse naturali il principio Fordista (Henry Ford)
“fare di più utilizzando meno”. Tale miglioramento non solo sarebbe benefico per l’ambiente,
ma aumenterebbe la redditività dell’impresa, creando una situazione win-win, con guadagni
sia dal punto di vista ambientale, sia da quello economico, in quanto l’immagine dell’impresa
che gode di una buona reputazione in merito al rispetto dell’ambiente diventa sempre più un
motivo di fedeltà per clienti, dipendenti e azionisti.
Per implementare l’obiettivo di sviluppo sostenibile l’impresa deve adottare nuovi modelli di
business eco-sensibili. Il modello economico della performance di Stahel (2006) distingue tra
tre tipi di economia:
I modelli economici circolari e dei servizi funzionali sono complementari e propongono soluzioni di
compromesso per sviluppare un capitalismo eco-responsabile, che sleghi crescita economica e
distruzione dell’ambiente.
L’approccio ai portatori d’interesse (stakeholder) sostiene, invece, che l’impresa è responsabile nei
confronti dei suoi stakeholder e deve operare a loro beneficio, cioè per il bene di tutti i portatori
d’interesse. Portatore d’interesse (stakeholder) sarebbe qualsiasi gruppo di persone o individuo che
può influire sugli obiettivi aziendali o subirne l’influenza: dipendenti, consumatori, fornitori,
comunità locali e ambiente. Dunque al centro del modello appena descritto sta il principio
secondo cui tutte le persone devono essere rispettate e l’azienda esiste per soddisfare tutti i
portatori d’interesse allo stesso modo, che è un obiettivo alquanto complesso di per sé. La
presenza di numerosi gruppi di stakeholder non fa che accrescerne la complessità e quindi a prima
vista sembra che i due approcci non possano convivere facilmente all’interno della stessa
economia. Tuttavia l’emergere dei nuovi valori di cui si è parlato prima, fa pensare che in questa
direzione (soddisfare i bisogni di tutti gli stakeholder e ottenere utili maggiori per gli azionisti)
siano stati compiuti progressi molto importanti.
In tutto il mondo le imprese stanno adottando il concetto di responsabilità sociale d’impresa (RSI o
CSR – Corporate Social Responsibility): l’impresa riconosce di essere responsabile non solo nei
confronti dei propri azionisti, ma anche della società intera. Si tratta di un’organizzazione che
desidera stabilire una relazione sostenibile e a lungo termine con la comunità in cui si trova
inserita e da cui trae la sua prosperità. L’azienda responsabile, quindi, prendendo parte alla vita
sociale, impegna le proprie risorse e competenze per aiutare a combattere i problemi della
società, spesso in collaborazione con le autorità pubbliche. Nella nuova economia globale, un
comportamento etico che consista nel “far bene (economicamente), facendo del bene
(socialmente)” è compatibile non solo con gli obiettivi del capitalismo moderno ma rappresenta
anche una fonte di vantaggio competitivo, perché soddisfa la domanda del mercato. Ancora una
volta l’interdipendenza dei mercati creata dalla globalizzazione permette di garantire che questi
nuovi standard di comportamento diventino un imperativo per tutte le imprese che ambiscono a
giocare un ruolo di primo piano nel mercato globale. Il processo di CRM (Corporate Responsibility
Management) è importante, ma presenta un gap di credibilità nel momento in cui tale concetto
viene utilizzato in forma massiccia solo a livello di comunicazione d’impresa. E’ d’obbligo uscire dal
terreno della moralità e stabilire chiare regole definite legalmente dai Governi. Come attualmente
stabilito nelle norme internazionali CSR ISO 2600, lo scopo della responsabilità sociale d’impresa è
contribuire al raggiungimento dello sviluppo sostenibile e al benessere delle persone. L’ambito
delle nuove norme CSR coinvolge sette tipi di responsabilità: il rispetto dei diritti umani, le regole
di corporate governance, le obbligazioni sociali, la protezione dell’ambiente, le business practice, il
rapporto con i consumatori e l’impegno sociale.
In questo nuovo contesto alle autorità nazionali e sovranazionali spetta il compito di monitorare e
controllare le iniziative intraprese per soddisfare i nuovi bisogni, per conciliare l’efficienza di
mercato con quella sociale.
Lo sviluppo di Internet
Solo una minoranza di imprese è in grado di vendere ai propri clienti finali attraverso il Web,
mentre il ruolo principale svolto da Internet resta piuttosto quello di fornire informazioni,
facilitando soprattutto il passaparola, che è sempre stata tra le prime e più attendibili fonti
d’informazione. In breve, Internet ha cambiato il comportamento del consumatore nei seguenti
modi: i potenziali clienti sono più collegati, informati e critici; preferiscono usare Internet e gli
user-generated media per cercare prodotti; tendono ad ignorare i consigli del personale di
vendita; acquisendo esperienza online, le persone tendono ad utilizzare Internet per svolgervi
attività più complesse.
Una soluzione è una combinazione di prodotti e servizi che creano un valore superiore alla somma
delle sue parti. Essa non consiste quindi nel semplice accorpamento di componenti collegate. È il
livello di personalizzazione e di integrazione a porre le soluzioni al di sopra dei prodotti e servizi o
delle loro combinazioni e a giustificare una maggiorazione del prezzo. In un’impresa orientata al
mercato occorre definire una soluzione coerentemente con la richiesta del cliente, il ché
rappresenta un compito particolarmente impegnativo. Il mkt strategico definisce il mercato
facendo riferimento a bisogni generici o a “problemi” di cui hanno esperienza i potenziali clienti.
Ciò che il mkt operativo propone, poi, non sono “prodotti” ma “soluzioni” a questi problemi.
Nell’approccio di soluzione, obiettivo prioritario è la comprensione dei problemi del cliente. I clienti
non cercano necessariamente prodotti specifici, ma piuttosto una soluzione globale, che può
implicare l’uso di un pacchetto di prodotti e servizi. L’approccio di soluzione ai problemi del cliente
propone un nuovo modo di guardare agli elementi del marketing mix:
Per ottenere la soluzione desiderata, i clienti vengono coinvolti in diverse attività, direttamente o
indirettamente collegate al risultato cercato. Queste attività formano ciò che viene definito
mercato virtuale, che rappresenta quindi una sequenza temporale completa di attività logicamente
collegate nello spazio cognitivo dei clienti, mentre cercano una soluzione a un bisogno generico.
Per esempio, per soddisfare il bisogno generico di “possedere una casa”, i clienti devono
relazionarsi con imprese costruttrici, agenzie immobiliari, compagnie di assicurazione, istituti di
credito, imprese di traslochi, ecc. Quindi in un mercato virtuale, le attività intraprese dai potenziali
clienti sono in genere trasversali, travalicano i confini tradizionali dei settori e dei prodotti-mercati,
e potrebbero non necessariamente far parte del core business dell’impresa. Di conseguenza, i
mercati virtuali assorbono una percentuale molto più elevata di spesa del cliente rispetto a uno
specifico prodotto-mercato e rappresentano quindi un potenziale di mercato più elevato. La sfida
per l’impresa, è passare dal concetto piuttosto astratto di mercato virtuale a quello di
metamercato, che consiste in un’offerta o in un assortimento di offerte definite con riferimento a
tutti gli elementi (attività e servizi), compresi nello spazio cognitivo del cliente. In altre parole, si
crea un “metamercato” quando le associazioni cognitive tra attività diverse, logicamente
correlate, vengono riprodotte nel mercato fisico, razionalizzando le attività del cliente. L’agente,
che rappresenta i diversi partner che collaborano nel fornire la soluzione nel metamercato, viene
definito metamediario. I metamediari risolvono 4 principali problemi dei consumatori: tempo di
ricerca; garanzia di qualità; facilitazione delle transazioni per acquisti collegati; informazioni
imparziali sui contenuti.
In conclusione possiamo aggiungere che Internet offre anche la possibilità ai potenziali clienti di
sviluppare l’idea di un nuovo prodotto a partire dalla soluzione ricercata e di selezionare un
fornitore in grado di realizzarlo. I consumatori, come membri delle comunità online, possono
apportare valore all’innovazione in tutte le fasi, dalla generazione di idee, alla concezione,
progettazione e prova. Proprio in questo consiste il paradigma del cliente attivo, che sta
guadagnando popolarità nella letteratura accademica, in seguito alla pubblicazione del best-seller
di Tapscott e Williams (2006) “Wikinomics”. Il libro sostiene che le nuove tecnologie di
comunicazione stanno democratizzando la creazione del valore attraverso la collaborazione di
massa (outsourcing di massa), che si basa sulla libertà dei singoli individui di unirsi e collaborare,
per migliorare una situazione o risolvere un problema. Il modello di business di Wikinomics è
basato su 4 principi base: openness, peering, sharing, acting globally. Toffler, inoltre, come ben
sappiamo nel 1980 ha introdotto il concetto di prosumer o prosumption per descrivere come la
distinzione tra produttori e consumatori stia diventando sempre meno netta: i consumatori
partecipano alla creazione di prodotti in modo attivo e costante, co-innovando e co-producendo
beni che essi stessi consumano.
Il bisogno del consumatore, in quest’ottica, corrisponde alla necessità di acquisire un bene. In tali
condizioni, qualsiasi bisogno verrà soddisfatto in maniera razionale, e cioè calcolando il valore di
tutte le azioni disponibili e scegliendo la migliore possibile sulla base di una personale graduatoria
delle preferenze e del limite del reddito disponibile. La teoria economica del consumatore afferma
che tutti gli individui a parità di condizioni si comporterebbero nello stesso modo, dunque in
maniera prevedibile. Ciò sarebbe vero, però, solo nel caso in cui esistesse un sistema di preferenze
note e stabili nella mente di chi deve decidere, il che è ben lontano dalla realtà. Il consumo, infatti,
non è solo l’espressione di un comportamento razionale, ma è anche fortemente condizionato da
fattori psicologici e sociologici. Occorre fare molta attenzione a non confondere la condizione di
disagio, che corrisponde al bisogno, e il bene (servizio) che ci permette di attenuare o far
scomparire quella sensazione di disagio. Il marketing quindi non è in grado di creare bisogni, come
si credeva diffusamente fino a qualche tempo fa, ma può solo creare una domanda per i beni e
servizi che permettono di soddisfare quei particolari bisogni, i quali pre-esistono e sono legati allo
stesso vivere di ciascuno di noi. Un bisogno generico è un problema che un consumatore cerca di
risolvere acquistando prodotti o servizi, mentre un bisogno derivato è una specifica risposta
tecnologica a un bisogno generico e rappresenta l’oggetto del desiderio del consumatore. (ad
esempio, l’automobile è un bisogno derivato in relazione al bisogno generico di trasporto
individuale autonomo). A parità di bisogno generico da soddisfare, i differenti bisogni derivati sono
alternativi e competono tra loro. Quale bisogno derivato prenderà il sopravvento sugli altri,
dipenderà dalle caratteristiche dell’individuo, nonché da ragioni psicologiche e culturali. Un ruolo
importante del mkt strategico consisterà dunque nel favorire l’adattamento dell’impresa
all’evoluzione osservata nella soddisfazione dei bisogni; evoluzione caratterizzata dalla saturazione
relativa dei bisogni derivati, provocata dal progresso sia a livello di performance dei prodotti
stessi, sia a livello di sostituzione pura e semplice di una soluzione tecnologica con un’altra,
talvolta migliore (VinileCD-ROM). In questa prospettiva l’azienda ha quindi interesse a definire la
sua mission facendo riferimento al bisogno generico piuttosto che al bisogno derivato, visto che il
secondo a differenza del primo, è variabile.
- Bisogni assoluti, che sono quelli che noi sentiamo qualunque sia la condizione altrui e sono
dunque saturabili.
- Bisogni relativi, che sono quelli la cui soddisfazione ci porta al di sopra dei nostri simili,
donandoci una sensazione di superiorità nei loro confronti e sono dunque insaziabili, poiché
più sale il livello generale, più essi andranno oltre.
È il fenomeno per cui gli individui hanno la tendenza a considerare la loro situazione peggiorata,
anche se in termini assoluti il loro livello di vita è migliorato nettamente, se coloro che servono
abitualmente da elemento di confronto hanno visto migliorata la loro posizione relativa più di loro.
Lo scarto tra la realtà e il livello di soddisfazione tende a spostarsi continuamente, con un aumento
dell’insoddisfazione e quindi produrre per soddisfare i bisogni relativi significa concorrere a
svilupparli ulteriormente.
I bisogni latenti sono universali, in quanto esistono in ogni consumatore. Il ruolo del mkt strategico
proattivo è quello di scoprirli e di analizzare il loro potenziale di redditività, attivando un dialogo
interfunzionale con il reparto R&S, gli analisti di marketing e gli addetti alla produzione. Da una
parte ci sono i cosidetti “bisogni consapevoli”, che a loro volta comprendono i bisogni espressi (ciò
che il cliente dice), i bisogni non espressi (ciò che il cliente si aspetta) e i bisogni immaginari ( i
sogni del cliente). Dall’altra, invece, ci sono i “bisogni non consapevoli”, che includono i bisogni
effettivi (il benessere del cliente) e i bisogni inconsci (ciò che motiva inconsciamente il cliente).
L’obiettivo del mkt strategico è quello di fornire al cliente soluzioni concepite sulla base di una
buona comprensione dei suoi bisogni effettivi, di cui sia consapevole o meno.
I bisogni esistenziali sono quei bisogni la cui soddisfazione fornisce una certa utilità, che è
strettamente legata al funzionamento del bene/servizio acquistato e consumato. Il semplice
possesso di quel bene fa sentire meglio il cliente, lo gratifica. Tuttavia, nella realtà di tutti i giorni,
le persone si ritrovano immerse in un “vuoto esistenziale” caratterizzato dall’assenza di specifici
bisogni o di precisi obiettivi e attività concrete da svolgere. In queste situazioni il benessere psico-
fisico diminuisce ed è allora possibile che ci si ritrovi a svolgere qualche attività, o ad utilizzare dei
beni, senza avere un fine preciso, ma per il solo gusto di farlo; tali azioni sono fini a se stesse e
piacevoli in quanto tali. Questi sono i bisogni esperienziali, che provocano azioni compiute per il
piacere che si prova mentre le si fa e senza obiettivi specifici: tutti provano questo tipo di bisogni, in
particolare quando sentono la necessità di tenersi occupati o interessarsi a qualcosa.
Quindi in un’ottica di analisi dei bisogni del cliente, le imprese devono tenere in considerazione
anche altri aspetti di natura esperienziale ed edonistica oltre a quelli funzionali e tecnici del bene o
del servizio. Il filone del marketing esperienziale si dedica proprio allo studio e all’analisi
dell’esperienza di consumo nei differenti contesti, mettendo a disposizione dei marketing manager
una serie di strumenti, strategici e operativi, tali da poter migliorare la soddisfazione dei propri
clienti.
La motivazione può essere definita come quell’energia che ci spinge a mettere in atto un
comportamento finalizzato a un preciso obiettivo. In pratica quando un individuo avverte una
sensazione di malessere, dovuta alla mancanza di qualcosa (quando avverte un bisogno) inizierà a
porre in essere tutta una serie di comportamenti e azioni volte a soddisfare quel bisogno e a far
cessare la sensazione di malessere. La spinta, l’impulso di questi comportamenti finalizzati è ciò
che in psicologia viene definito “motivazione”. La motivazione svolge due funzioni: attiva i
comportamenti, dando l’impulso, e li orienta, definendone la direzione e la tipologia.
Vi sono due approcci di tipo psicologico che spiegherebbero l’origine della motivazione e dunque
del comportamento individuale: l’approccio comportamentista e l’approccio cognitivista. Il primo
studia il comportamento senza fare riferimento alla consapevolezza dell’individuo; il secondo
attribuisce consapevolezza e volontà all’individuo, il quale con i suoi ragionamenti è in grado di
decidere come comportarsi. Per gli studiosi comportamentisti, il concetto fondamentale è
l’apprendimento: il comportamento di un individuo dipenderebbe da ciò che ha fatto in passato e
dai risultati dei comportamenti già messi in atto. Per gli studiosi cognitivisti, invece, i concetti
fondamentali sono l’elaborazione delle informazioni, la memoria e tutti i processi cognitivi che
avvengono dentro di noi quando ci si trova di fronte a una decisione da prendere.
Parte dal presupposto che vi siano alcuni bisogni fondamentali, i quali danno luogo a specifiche
pulsioni. Le pulsioni, a loro volta, orientano i comportamenti individuali: la motivazione, quindi,
secondo tale teoria, è legata all’equilibrio delle pulsioni. Qui si parla allora di “omeostasi”, cioè di
un meccanismo attraverso il quale un problema crea una pulsione, grazie alla quale l’attività che
ne risulta mira a ristabilire l’equilibrio, sopprimendo la pulsione. L’organismo è considerato come
essenzialmente reattivo, nel senso che esso risponde in modo specifico agli stimoli che riceve, con
uno schema tipico di S-R (stimolo-risposta).
Sviluppato da Tolman, si fonda sull’ipotesi che l’anticipazione o l’attesa del risultato sia il motore
principale nell’orientare la nostra condotta, servendo in pratica da stimolo all’azione. Tolman
introduce le cosidette “variabili intervenienti” o “intermedie”, le quali non sarebbero altro che i
processi interni che connettono la situazione-stimolo iniziale con la risposta osservabile. La
formula S-R si trasforma in S-I-R, dove la variabile intermedia è ciò che avviene all’interno
dell’organismo (variabili intervenienti o intermedie), che provoca poi una determinata risposta
come reazione allo stimolo.
Hull introduce un’altra variabile proveniente dall’ambiente esterno: gli incentivi. Essi amplificano
le pulsioni fondamentali o ne evocano altre non direttamente collegate ai bisogni fisiologici.
Secondo questa teoria il comportamento è regolato da una relazione costi-benefici: l’individuo
imparerà a reagire a certi stimoli ponendo in essere quei comportamenti che procurano un
beneficio o comunque degli effetti positivi ed evitando quei comportamenti che implicano costi o
che hanno in passato procurato effetti negativi. Quindi il meccanismo che permette di giudicare se
un comportamento avrà effetti negativi o positivi è quello dell’apprendimento e dell’esperienza.
L’incentivo rappresenta lo scopo o una sorta di ricompensa che influirà sull’intensità della
motivazione dell’individuo.
Tale teoria si basa sull’ipotesi che l’organismo non sia fisiologicamente inerte, ma, al contrario,
abbia un’attività naturale che costituisce una sorta di automotivazione. La motivazione
nascerebbe, per Hebb, non tanto dall’abbassare il livello generale di stimolazione, quanto dal
mantenerlo a un livello ottimale, che non è uguale per tutti gli individui. I livelli di attività di un
individuo dipenderebbero dal grado di energia mobilizzata, cioè dalla variazione del livello di
risveglio o di attenzione, misurato attraverso le variazioni di corrente elettrica nel tronco cerebrale
e controllate tramite un elettroencefalogramma. Hebb ammette l’esistenza di un livello ottimale di
risveglio che favorirebbe il funzionamento rapido del meccanismo stimolo-risposta. Quando lo
scarto, rispetto al livello ottimale, è negativo, provoca una sensazione di noia; nel caso opposto,
provoca una sensazione di fatica e ansia. Tale motivazione implica da una parte, un
comportamento di riduzione delle tensioni che soddisfi i diversi bisogni psico-fisici e riduca un
livello di risveglio troppo elevato; dall’altra parte, un comportamento di lotta contro la noia che
cerchi di non far abbassare troppo il livello di risveglio, innalzandolo con la ricerca di stimoli. Per gli
economisti, la riduzione del livello di risveglio è particolarmente importante, perché, a loro
giudizio, quasi tutte le attività umane, compreso il consumo, hanno origine da questo processo.
Berlyne dimostrò che per spiegare i processi di apprendimento occorreva introdurre i concetti di
complessità dello stimolo – per cui gli stimoli relativamente più complessi sono di solito preferiti
agli stimoli più semplici – e di novità - nel senso di sorpresa, di diversità rispetto al passato o a ciò
che ci si aspettava. Precisiamo tuttavia che il nuovo e l’insolito, se usati sempre, attirano solo fino
a un certo punto, al di là del quale infastidiscono o disorientano. Questo rapporto si traduce in
curva a forma di U rovesciata, la “curva di Wundt”, fig. 5.2 pag 87: ciò che non è abbastanza nuovo
né sorprendente annoia, ciò che lo è troppo disorienta. Un grado intermedio di novità sembra
essere il più attraente.
Il bisogno di piacere
Gli psicologi sperimentali hanno evidenziato l’esistenza del piacere come fenomeno diverso
dall’assenza di sofferenza o dalla presenza di benessere. Le sensazioni di piacere nascerebbero
dalle variazioni del livello di risveglio, in particolare quando queste variazioni riportano verso
l’optimum un livello di risveglio troppo basso o troppo alto. Si possono identificare due fonti di
piacere: quella che deriva dal processo di soddisfazione di un bisogno e dalla riduzione di tensione
che procura; quella che deriva dallo stesso stimolo. Il processo di soddisfazione di un bisogno è
gradevole in sé e spinge l’organismo a continuare l’attività alla quale si è dedicato fino alla sazietà
e anche oltre. Nel caso in cui, invece, il piacere derivi dallo stimolo in sé, l’obiettivo del bisogno
non consiste nel colmare una mancanza, ma nello sviluppare l’individuo in quanto tale, attraverso
la trasmissione all’individuo di una volontà di progresso e superamento; si ottiene maggiore
soddisfazione lottando per un obiettivo che non raggiungendolo. Una volta superata la fase del
trionfo, l’individuo è quasi deluso dall’aver raggiunto il suo scopo, dandosi allora un’altra meta
ancora più lontana, forzando così il suo ambiente a stimolarlo.
Benessere individuale
La ricerca di comfort si propone di colmare una mancanza e di assicurare così un bene negativo; il
piacere e la stimolazione, invece, hanno lo scopo di assicurare un bene positivo. La progressiva
escalation del marketing, che prende la forma di prodotti rinnovati in continuazione, non fa altro
che adeguarsi all’evoluzione dei bisogni di piacere e stimolazione che si osserva nelle società
opulente, dove i bisogni di base sono ampiamente soddisfatti, ma dove al contrario i bisogni di
novità, sorpresa e rischio diventano necessità vitali. Si tratta, dunque, di una ricerca senza fine , dal
momento che non esiste saturazione possibile per questo tipo di bisogno.
Murray sostiene che un bisogno è un costrutto ipotetico che rappresenta una forza nella
corrispondente regione del cervello e che organizza e guida il comportamento della mente e del
corpo al fine di mantenere l’organismo in una condizione di equilibrio. Egli fornisce un elenco
schematico dei bisogni dell’individuo, che classifica secondo quattro dimensioni: bisogni primari
(viscerogenici) o secondari (psicogenici), a seconda che abbiano origine fisiologica o meno; bisogni
positivi o negativi, a seconda che il soggetto sia attirato o respinto dall’oggetto; bisogni manifesti o
latenti, a seconda che il bisogno conduca a un comportamento reale o immaginario; bisogni
consapevoli o inconsapevoli, a seconda che mantenga nei loro confronti un atteggiamento
introspettivo o meno. Murray fornisce una lista di 37 bisogni suddivisi in queste diverse categorie.
Egli ritiene che tutti gli individui abbiano gli stessi bisogni, ma che la loro espressione possa variare
da persona a persona, in base a differenze caratteriali o di contesto. Si possono distinguere tre
stati diversi: refrattario, in cui nessuno stimolo è in grado di risvegliare il bisogno; inducibile, in cui
il bisogno è inattivo ma può essere risvegliato; attivo, in cui il bisogno determina il comportamento
dell’organismo.
I valori sono strettamente legati ai bisogni umani, ma si esprimono a un livello più vicino a noi; essi
sono le rappresentazioni mentali dei bisogni sottostanti, individuali, ma anche sociali e
istituzionali. In altre parole, un valore è la convinzione durevole del fatto che uno specifico modello
di comportamento o di vita sia preferibile a un altro opposto o diverso, sul piano personale e
sociale. Un “sistema di valori” è un insieme organizzato di convincimenti durevoli, relativamente a
modelli di comportamento o di vita. Esistono 2 tipi di valori: i valori terminali, che sono i nostri
convincimenti riguardo agli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere (felicità, saggezza); mentre i
valori strumentali indicano i nostri convincimenti sulle modalità di comportamento da adottare
per raggiungere i valori terminali (comportarsi onestamente, assumersi delle responsabilità,ecc.).
Dato che i valori si acquisiscono attraverso la cultura, la maggiorparte delle persone appartenenti
a una stessa società possiede gli stessi valori, anche se in misura diversa. L’importanza relativa di
ogni valore, varierà quindi da persona a persona e tali differenze possono essere utilizzate come
criterio di segmentazione del mercato. La comprensione dei cambiamenti nei valori, all’interno di
una società, faciliterà lo sviluppo di strategie efficaci nell’affrontare la dinamica del cambiamento
sociale.
L’obiettivo della teoria “mezzi-fini” (modello MEC: Means-End Chain Model) è quello di utilizzare i
valori nelle ricerche di mkt per confrontare il comportamento del consumatori con i suoi valori, in
quanto produttivo sia analiticamente sia previsionalmente. I mezzi sono i prodotti e servizi
acquistati, che serviranno al consumatore a ottenere le conseguenze desiderate, ovvero i fini, che
non sono altro che i valori terminali evocati da Rokeach. La rappresentazione mentale della catena
è composta da 3 elementi: gli attributi (tangibili e intangibili); le conseguenze (fisiologiche e psico-
sociali) derivanti dal comportamento di consumo da parte del consumatore; i valori (strumentali e
terminali). Per scoprire varie gerarchie di mezzi e fini, Reynolds e Gutman hanno sviluppato un
metodo d’intervista e analisi profonda, detto laddering, che consente di scoprire le relazioni
causali tra gli attributi, le conseguenze e i valori. Per ogni attributo rilevante il ricercatore farà
domande che gli consentano di ottenere una mappa delle catene mezzi-fini, organizzata in chiave
gerarchica, che consente di evidenziare gli attributi più rilevanti e i collegamenti tra essi e le
conseguenze e i valori.
La domanda industriale è una domanda derivata, cioè espressa da un’organizzazione che utilizza i
prodotti acquistati, all’interno del suo sistema di produzione, per poter rispondere alla domanda
sia di altre organizzazioni sia del consumatore finale. La domanda industriale, quindi, si inserisce in
una filiera che dipende da una domanda che sta a valle e che a sua volta deriva dalla richiesta di
beni di consumo. La domanda industriale, in particolare di beni d’investimento, è molto instabile e
reagisce bruscamente a una debole variazione della domanda finale.
Il cliente industriale è un acquirente professionista tecnicamente competente; l’atto d’acquisto è
caratterizzato da un più alto livello di standardizzazione, rispetto a quello del consumatore finale.
Il prodotto industriale ricercato è generalmente indicato con precisione dal cliente industriale che
sa ciò che vuole a livello di “specifiche tecniche”; le prestazioni attese sono chiaramente
specificate e il margine di manovra del fornitore è limitato.
In un’impresa industriale le decisioni d’acquisto sono prese quasi sempre da un gruppo di persone,
chiamato centro decisionale d’acquisto, che devono prendere insieme una specifica decisione
d’acquisto. Ognuno di essi esercita un ruolo specifico nel processo decisionale. Il gruppo d’acquisto
è caratterizzato dalla presenza di un sistema di comunicazione o d’interazione e da un insieme di
valori e norme condivise, che orientano e vincolano, al contempo, il comportamento di ogni
membro del centro d’acquisto. Nel centro d’acquisto si individuano ruoli diversi, coinvolti a vario
titolo nell’atto d’acquisto, con diverse motivazioni, obiettivi e comportamenti, il che comporta che
la maggiorparte delle decisioni d’acquisto siano conflittuali e frutto di un lungo processo di
negoziazione interna. I ruoli sono: acquirente, ovvero colui che all’interno dell’organizzazione ha il
compito formale di definire le condizioni d’acquisto, di selezionare i fornitori e negoziare i
contratti (direzione acquisti); utente, colui che utilizza il prodotto e quindi può formulare
specifiche rivendicazioni essendo nella posizione migliore per valutare le prestazioni dei
prodotti/servizi acquistati (ingegnere di produzione o operai); prescrittore, che non
necessariamente ha il potere d’acquistare, ma è in grado di influenzare la decisione finale,
definendo dei criteri che restringono la scelta possibile (personale del settore R&S, progettisti,
ingegneri, consulenti, ecc); decisore, cioè la persona responsabile della scelta finale delle marche e
dei venditori. In genere esiste un tetto massimo di spesa per cui può impegnarsi direttamente,
mentre gli acquisti più importanti possono spettare ad altri componenti dell’impresa, come il
C.d.A; filtri, cioè i membri del gruppo che controllano il flusso di informazioni all’interno del
gruppo stesso e che possono influenzare direttamente il processo d’acquisto. Saranno la
complessità della decisione e il suo grado di novità per l’impresa a influenzare la composizione del
centro d’acquisto. Esattamente come per il consumatore, il bisogno generico dei clienti industriali
ha una struttura multidimensionale, in riferimento a 5 dimensioni:
Nonostante le determinanti del benessere del cliente industriale siano di natura molto diversa
rispetto a quelle che presiedono al benessere del consumatore finale, le idee alla base
dell’approccio hanno la stessa pertinenza: adattare l’offerta alla multidimensionalità del bisogno
espresso dal cliente.
Nel processo d’acquisto intervengono le fasi tipiche del processo di risoluzione di un problema, da
parte del cliente. Possiamo distinguere 5 fasi del processo d’acquisto: 1) individuazione del
problema; 2) ricerca d’informazioni; 3) valutazione delle possibili soluzioni alternative; 4)decisione
d’acquisto; 5)comportamento dopo l’acquisto. La complessità del processo decisionale varia a
seconda del tipo di decisione e del livello di coinvolgimento del cliente.
Si possono distinguere tre tipi di comportamenti risolutori: estensivo, che verrà adottato laddove il
valore delle informazioni e il rischio percepito siano elevati (ad es. di fronte a nuove marche in una
categoria di prodotti nuova per il cliente) criteri di scelta mal definiti e ricerca approfondita di
informazioni; limitato, che si osserverà quando l’acquirente si trovi di fronte a una marca nuova e
sconosciuta all’interno di una classe di prodotti nota criteri di scelta già definiti, ma sarà
richiesta comunque una preliminare ricerca di informazioni; di routine, quando il cliente sia
riuscito ad accumulare una quantità sufficiente di esperienza e di informazioni, oltre a formulare
preferenze ben definite su una o più marche in una categoria di prodotti nota il processo di
scelta sarà semplice e ripetitivo, quasi senza ricerca di informazioni e si osserverà un alto livello di
fedeltà abitudinaria.
Per quanto riguarda i costi dell’informazione è possibile raggruppare in 3 categorie i costi di ricerca
legati all’obiettivo di ridurre l’incertezza sulle alternative possibili, sul loro valore, nonché su
termini e condizioni d’acquisto: i costi di ricerca, che sono sostenuti per conoscere i mercati e
delimitare l’insieme delle opportunità che il cliente può considerare come alternative. I costi di
percezione, invece, sono sostenuti per identificare le caratteristiche dei beni inseriti nell’insieme
sotto esame, nonché i termini di scambio. I costi di valutazione, infine, permettono di valutare il
grado di presenza delle caratteristiche percepite e di verificare l’autenticità dei segnali inviati dal
mercato sulla qualità dei beni. Il costo in termini di tempo impiegato nell’acquisto, misurato dal
costo-opportunità varia da individuo a individuo e anche a seconda delle situazioni.
Per quanto riguarda le fonti d’informazione, una prima categoria comprende le fonti di
informazione dominate dai produttori, cioè la pubblicità, il parere di venditori e distributori, gli
espositori e le brochure. I vantaggi sono la gratuità e la facilità d’accesso. Tuttavia si tratta di
informazioni incomplete e parziali, che valorizzano unicamente le caratteristiche positive del
prodotto, cercando di non mettere in luce quelle negative. Una seconda categoria è costituita
dalle fonti d’informazione personali, rappresentate dagli amici, dai vicini, dagli opinion leader o dal
cosiddetto “passaparola”. Spesso questo tipo di info si addice ai bisogni del futuro acquirente e la
loro affidabilità dipenderà da quella della fonte. Un’ultima categoria è costituita dalle fonti
d’informazione neutre, quali gli articoli sui giornali o sulle riviste specializzate che trattano di vari
settori. I vantaggi di questa fonte sono l’obiettività, il carattere concreto e la competenza dei
consigli formulati. Laddove però il costo di percezione delle caratteristiche distintive di un
prodotto sia particolarmente elevato, diventa conveniente per l’individuo unirsi ad altri
consumatori (associazioni di consumatori) per compiere valutazioni approfondite che sarebbero
irrealizzabili dal singolo. Si assiste così a una forma di sindacalizzazione dei consumatori, che
rappresenta un contropotere (consumerismo) nei confronti dell’impresa, il cui principale scopo è
la riduzione del costo di reperimento delle info da parte del consumatore.
Anche il processo d’acquisto del cliente industriale può suddividersi in diverse fasi; Webster e
Wind ne propongono sei: identificazione dei bisogni; determinazione delle specifiche;
identificazione delle alternative d’acquisto; valutazione delle alternative; scelta dei fornitori;
controllo e valutazione delle performance. È chiaro che non tutte le decisioni del cliente industriale
seguono necessariamente questo processo. Saranno la complessità della decisione e il suo grado
di rischio o novità a determinare il grado di formalizzazione del processo d’acquisto, anche se ci
potranno essere comunque delle variazioni nelle procedure organizzative e decisionali tra
imprese, sia a seconda del settore sia delle dimensioni.
Concetto centrale nei mercati B2B è quello di filiera industriale, che è costituita da tutti gli stadi del
processo produttivo che porta, dalle materie prime, a soddisfare il bisogno del cliente finale,
indipendentemente dal fatto che questo bisogno riguardi un bene materiale o un servizio. La sua
struttura tipica è questa: (fig.6.5 pag 110)
Dal punto di vista del cliente si può definire il prodotto come un “paniere di attributi” che fornisce
al cliente stesso il valore funzionale o “di base” specifico di quella classe di prodotti. Nel paniere è
compreso anche un insieme di valori e caratteristiche secondarie (benefici o servizi) che possono a
loro volta essere necessari o aggiunti. Sono soprattutto questi ultimi a differenziare le marche e a
influenzare in maniera determinante le preferenze del cliente. Il servizio di base offerto da un
prodotto o da una marca corrisponde al valore funzionale della categoria di prodotto, costituendo
il vantaggio di base, o generico, fornito da ciascuna delle marche che fanno parte della categoria di
prodotto. Tutte le marche appartenenti allo stesso mercato di riferimento offrono al cliente il
medesimo servizio di base, con modalità che tendono ad uniformarsi, poiché le performance
tecnologiche si equilibrano per effetto della concorrenza e della diffusione del progresso
tecnologico. Sarà più discriminante come criterio di scelta, quindi, il modo in cui si offre il servizio
di base. Il prodotto, infatti, come detto, offre un insieme di altre utilità o servizi supplementari,
secondari rispetto al servizio base, ma la cui importanza può essere decisiva quando le prestazioni
di due marche diverse si equivalgono. Tali servizi supplementari possono essere: necessari, ovvero
modalità di produzione del servizio di base e tutto ciò che accompagna di norma il servizio base
(confezione, consegna, termini di pagamento, servizio post-vendita); aggiunti, ovvero utilità non
legate al servizio di base, offerte in più dalla marca e che rappresentano un importante elemento
di differenziazione. È evidente che diversi clienti possano attribuire differenti gradi d’importanza
alla presenza di alcuni attributi. Possiamo quindi definire una marca, come un paniere di attributi
che genera il servizio di base e alcuni servizi supplementari, necessari o aggiunti, la cui importanza
e utilità possono essere percepite in modo diverso dai potenziali clienti. Bisogna sottolineare che
ogni marca possiede almeno una caratteristica unica (di solito più di una) e la sua percezione
globale da parte del cliente costituisce dunque l’immagine di marca (identità di marca percepita
dal cliente).
La gestione del rapporto con il cliente (CRM, Customer Relationship Management) è al centro nel
processo di marketing e prevede che le imprese valutino in modo sistematico il grado di
soddisfazione del cliente e monitorino attitudini e livello di soddisfazione raggiunti anche dopo
l’uso o il consumo. Può esservi una differenza significativa tra la qualità concepita dal produttore e
quella voluta e percepita dal cliente, senza che quest’ultimo esprima necessariamente la sua
insoddisfazione. Da qui la necessità di interpellare direttamente il cliente e di misurare
formalmente il suo grado di soddisfazione o d’insoddisfazione. Oggi le aziende hanno acquisito
una maggiore possibilità di utilizzare tecnologie e di gestire relazioni one-to-one con un numero di
clienti potenzialmente enorme, in un contesto di mercato globale. Lo scopo del CRM è quello di
aumentare in modo efficace ed efficiente l’acquisizione e il mantenimento di clienti redditizi
avviando in modo selettivo, costruendo e mantenendo con loro un rapporto adeguato. Anche il
marketing relazionale (relationship marketing) si propone di sviluppare relazioni reciproche e a
lungo termini con i clienti più redditizi, ma all’interno di una visione che contempla più soggetti
portatori d’interesse. Con il CRM si parte dall’identificazione, all’interno del segmento target, degli
indiziati, cioè i clienti che potrebbero essere molto interessati al prodotto/servizio offerto; dei
candidati, ossia i potenziali clienti che hanno già un forte interesse nei confronti del prodotto e
che hanno i mezzi per pagarlo, e infine dei candidati non accreditati, cioè coloro che l’azienda
esclude perché non sufficientemente affidabili o redditizi. A questo punto l’impresa cercherà di
convertire i candidati accreditati in nuovi clienti e, se soddisfatti, in clienti affezionati. La sfida
successiva è quella di trasformare i clienti in sostenitori, ossia consumatori che lodano l’azienda,
incoraggiando altre persone a rivolgersi alla stessa per i loro acquisti. I progressi nell’information
technology e nelle tecnologie web possono aiutare ad instaurare questo tipo di relazioni selettive,
con strumenti e software in gran numero che permettono all’azienda di mettere in atto il CRM,
acquisendo, interpretando ed utilizzando una grande quantità di dati sui clienti. Non bastano però
tali software o strumenti per mettere in pratica un buon piano di CRM; la ricerca ha provato,
infatti, che affinchè il rapporto col cliente sia efficace, è necessario che membri delle diverse
funzioni dell’impresa (mkt operativo, sistemi informativi e gestione delle risorse umane, lavorino
insieme per costituire team interfunzionali appositi. È inoltre necessario che la cultura aziendale,
orientata al mercato o al cliente, sia presente a ogni livello dell’organizzazione.
In questi mercati si possono identificare 3 diverse categorie di cliente, in base al grado di controllo
e volontà di collaborazione nel corso dell’esperienza d’acquisto da parte sua: il cliente
collaborativo, che vuole e può avere un rapporto di controllo condiviso col fornitore, con scambio
dinamico di informazioni su esigenze del cliente e offerte del fornitore (tipologia ideale di
orientamento al cliente per far funzionare il mkt one-to-one); il cliente attivo, che ricerca il
controllo quasi totale della relazione d’acquisto, definendo le specifiche, i termini di consegna e i
parametri di costo, facendo adattare i fornitori alle sue richieste; il cliente passivo, che ha un basso
livello di coinvolgimento nell’esperienza d’acquisto e non mostra fedeltà e disponibilità a
informarsi di più. La tipologia del cliente è fondamentale per adattare il CRM.
L’obiettivo del CRM è quello di costruire rapporti redditizi, durevoli e reciproci con buoni clienti.
Per farlo è necessario: monitorare la soddisfazione del cliente; gestire correttamente i reclami dei
clienti insoddisfatti; trovare soluzioni appropriate ai loro problemi; ricompensare i clienti che
collaborano e dimostrano fedeltà. I clienti che pongono dei problemi sono: (a) quelli che sono
scontenti e non si lamentano; (b) quelli che si lamentano ma non sono soddisfatti del modo in cui
il loro reclamo è stato accolto e trattato dall’impresa. Le perdite di clienti provengono da questi 2
gruppi e costituiscono una forma di pubblicità negativa tramite passaparola, dannosa e
difficilmente controllabile dall’impresa.
Se il livello di soddisfazione del cliente è alto, la sua fedeltà naturalmente crescerà, diventando il
principale motore della performance finanziaria a lungo termine. Alla radice di un
comportamento fedele c’è un processo valutativo che occorre identificare, e che è correlato al
livello di soddisfazione del cliente. Jacoby e Kyner hanno elencato 6 criteri considerati necessari e
sufficienti, nell’insieme, a determinare la fedeltà alla marca: 1 risposta comportamentale; 2
premeditata (non casuale); 3 espressa nel tempo; 4 da una unità decisionale; 5 con rispetto a una o
più marche alternative; 6 dipendente da un processo psicologico (decisionale, valutativo). Il
concetto di fedeltà alla marca è importante in particolare alla luce della relazione esistente tra
fedeltà e soddisfazione, oltre che per l’impatto che la fedeltà del cliente ha sulla redditività
dell’impresa. Si tenderebbe a pensare che il rapporto tra soddisfazione e fedeltà sia di tipo
lineare. In realtà è più complesso e vi possono essere differenze a seconda della situazione
competitiva (fig. 6.11 pag 121). Nei mercati non competitivi, il grado di soddisfazione ha un
impatto limitato sul grado di fedeltà, perché si tratta essenzialmente di mercati monopolistici
regolamentati o mercati in cui i costi di trasferimento sono molto elevati, in cui i clienti sono
vincolati e, quindi, non hanno scelta. Nei mercati competitivi, invece, in cui la concorrenza è
intensa, esistono molti beni succedanei e i costi di trasferimento sono minimi, vi sono notevoli
differenze tra i clienti “soddisfatti” (punteggio di 4) e quelli “pienamente soddisfatti” (tra 4 e 5).
Quindi possiamo concludere affermando che limitarsi semplicemente a soddisfare clienti che
hanno libertà di scelta non è più sufficiente per conservare la loro fedeltà. Soltanto i clienti
pienamente soddisfatti, infatti, saranno clienti veramente fedeli.
Analisi di “macrosegmentazione”
Nella maggior parte dei mercati è praticamente impossibile soddisfare tutti i clienti con un unico
prodotto o servizio: clienti diversi hanno infatti interessi e desideri diversi. Le imprese sono spinte
quindi ad abbandonare sempre più le strategie di mkt di massa per evolvere verso strategie di mkt
mirate a uno o più gruppi di clienti. La segmentazione definisce il campo di attività dell’impresa,
guida lo sviluppo della strategia e determina la tipologia di competenze necessarie nell’unità di
business. Per realizzarla si presuppone la definizione della missione dell’impresa, cioè il suo ruolo
in un’ottica di orientamento al mercato: in quale settore/i operare? In quali settore/i non operare?
Bisogna rispondere a queste domande in una prospettiva orientata alle soluzioni cercate dal
cliente, in quanto quest’ultimo identifica il prodotto con la soluzione che offre: nessuno compra un
prodotto in quanto tale, ma ciò che si cerca è appunto la soluzione a un problema che il prodotto è
in grado di offrire. La definizione della mission del business costituisce il punto di partenza per lo
sviluppo della strategia, perché aiuta a identificare i clienti da servire, i concorrenti da superare, i
fattori di successo da controllare e le tecnologie a disposizione per la produzione del servizio.
Occorre perciò definire il mercato di riferimento dal punto di vista del cliente in base a 3
dimensioni: i clienti, o chi occorre soddisfare (a livello di macrosegmentazione si considerano le
caratteristiche generali, mentre a livello di microsegmentazione si prendono in considerazione le
fasce d’età, i vantaggi perseguiti, i comportamenti d’acquisto o lo stile di vita); le tecnologie
utilizzate per soddisfare i bisogni e che potranno essere sostituite da altre col tempo; i bisogni o
funzioni da soddisfare. Da un punto di vista grafico si ottiene così uno schema tridimensionale (fig.
8.3 pag 163). Per quanto riguarda i confini di mercato possiamo distinguere 3 concetti: prodotto
mercato, definito da un gruppo specifico di clienti che cerca una determinata funzione o un
assortimento di funzioni basate su una singola tecnologia; mercato-soluzione, definito
dall’esecuzione di determinate funzioni per un gruppo di clienti determinati, comprese tutte le
tecnologie sostitutive che possono eseguire la stessa funzione; industria, definita da una
particolare tecnologia, ma che include diversi business (funzioni o bisogni) e numerosi gruppi di
clienti. Queste 3 definizioni corrispondono a 3 diverse strategie di copertura del mercato (fig. 8.4
pag 164 approfondire da lì).
Griglia di macrosegmentazione
Obiettivo della microsegmentazione è l’analisi più approfondita della diversità nelle richieste dei
vari gruppi di clienti all’interno dei prodotti-mercati (o macrosegmenti) identificati attraverso la
macrosegmentazione. I clienti appartenenti a uno stesso prodotto-mercato richiedono lo stesso
tipo di servizio di base; tenendo presente il concetto di prodotto come paniere di attributi,
possono esserci delle differenze nelle modalità di erogazione del servizio di base o nei servizi
supplementari. L’analisi di microsegmentazione si propone quindi d’individuare gruppi di clienti
che cercano nel prodotto lo stesso paniere di attributi. Si può cosi arrivare a una strategia di
differenziazione che, tramite il miglioramento del servizio o la soddisfazione delle richieste del
cliente, fornisca un vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti.
Al contrario nella cosiddetta segmentazione tribale sono gli individui stessi a raggrupparsi
spontaneamente in base a caratteristiche comuni. In un moto di resistenza alla solitudine, sembra
che molte persone cerchino oggi di creare legami sociali e vicinanza affettiva. Sotto la spinta di
questo ritorno alla comunità, la società si evolverebbe così verso la ricostituzione delle tribù,
ovvero microcomunità nelle quale i soggetti sono stretti da forti legami emotivi e da una sorta di
cultura comune. L’appartenenza a una tribù non è il risultato di caratteristiche individuali, ma di
un’esperienza comune della realtà. Ciononostante queste tribù sono più volatili ed effimere delle
comunità tradizionali, poiché ogni individuo è libero di uscirne quando desidera.
Concettualmente non esistono differenze rilevanti tra la segmentazione dei mercati dei beni
industriali o quella dei beni di consumo, anche se vengono utilizzati criteri molto diversi. È
possibile tracciare la stessa distinzione tra macro e micro segmentazione.
La segmentazione in base ai vantaggi perseguiti poggia direttamente sui bisogni specifici del
cliente industriale che vengono, nella maggior parte dei casi, definiti molto chiaramente. Si
classificano i clienti in base al settore o all’utilizzo finale del prodotto. Le funzioni esercitate da un
prodotto industriale e la loro importanza nel processo produttivo del cliente industriale variano a
seconda che si tratti di beni strumentali principali (stabilimento) o secondari (radiatore e
camioncino); di prodotti intermedi semilavorati (lamiere) o di componenti (motori elettrici); di
prodotti di consumo (piccola utensileria); di materie prime grezze (carbone, lubrificante); di servizi
(ingegneria, pulizia, manutenzione). La percezione economica del prodotto da parte del cliente
industriale sarà molto diversa a seconda di queste diverse categorie di beni.
- Risposta differenziata. I segmenti identificati devono essere diversi dal punto di vista della
loro sensibilità a una o più variabili di marketing controllate dall’impresa. Bisogna quindi
che il criterio di segmentazione applicato massimizzi le differenze tra i segmenti (condizione
di eterogeneità) e minimizzi quelle tra clienti nell’ambito di uno stesso segmento
(condizione di omogeneità). Uno stesso individuo può partecipare a due o più segmenti;
prodotti che appartengono a segmenti diversi possono essere acquistati dalla stessa
persona. Un segmento quindi non raggruppa necessariamente degli acquirenti, ma
piuttosto gli acquisti che essi effettuano.
- Dimensione sufficiente. I segmenti identificati devono costituire un mercato potenziale di
dimensioni tali da giustificare l’elaborazione di una specifica strategia di marketing. Questa
condizione non riguarda soltanto la dimensione del segmento in termini di volume o
frequenza degli acquisti, ma anche il suo ciclo di vita. È quindi importante accertarsi che la
nicchia identificata non sia effimera e la durata della sua vita economica sia lunga; è
importante, infine, anche che il prezzo accettabile per il segmento target sia
sufficientemente remunerativo per l’impresa.
- Misurabilità. Prima di scegliere un segmento target, bisogna poter stabilire le sue
dimensioni, valutare il potere d’acquisto dei segmenti identificati e le caratteristiche
comportamentali.
- Accessibilità. Essa indica la misura in cui un segmento di mercato è raggiungibile utilizzando
un unico programma di marketing. Esistono 2 modi per arrivare ai potenziali clienti. Uno
consiste nell’ “autoselezione dei clienti”, per cui i consumatori si selezionano da soli in base
all’attenzione che riservano alla pubblicità del prodotto. Con questa tecnica si arriva a un
target più generico, mentre il prodotto e la pubblicità mirano direttamente al gruppo
selezionato. L’altro, invece, consiste nella “copertura controllata dei segmenti”. Si tratta di
una strategia più efficace dal punto di vista dell’impresa, che si basa su una strategia
comunicativa che implica una buona conoscenza del profilo socio-demografico del
segmento target, per raggiungere quasi esclusivamente quest’ultimo, evitando di sprecare
risorse, cosa che non sempre si verifica quando la segmentazione è basata sui vantaggi
ricercati e sugli stili di vita.
- Attivabilità. Per raggiungere i segmenti è possibile elaborare programmi di marketing
specifici.
Nell’ America del Nord, in Giappone, in Europa occidentale e in alcuni dei paesi emergenti si
individuano i cosiddetti segmenti transnazionali, ovvero gruppi di consumatori con gli stessi
bisogni e le stesse aspettative, ma residenti in Paesi diversi. Globalizzazione non significa però
standardizzazione degli stili di vita, perché comunque ogni gruppo manifesta il desiderio di
mantenere e difendere la propria diversità culturale. L’interdipendenza dei mercati, unita a questa
frammentazione culturale, dà luogo paradossalmente a una convergenza culturale, creando
segmenti transnazionali di mercato. Si trovano insomma gruppi di consumatori in ciascun Paese
con gli stessi bisogni e aspettative. La globalizzazione dei bisogni non è quindi sinonimo di
standardizzazione degli stili di vita: essa si traduce invece nella nascita, in Paesi diversi, di gruppi di
consumatori dal profilo simile, cui rivolgersi usando le stesse campagne pubblicitarie e le stesse
marche. La segmentazione internazionale rappresenta un approccio globale alla vendita di
prodotti fisicamente simili in tutto il mondo. L’obiettivo è scoprire nei diversi Paesi gruppi di
consumatori con le stesse aspettative in relazione ai prodotti, a prescindere dalle differenze
culturali e nazionali. Per adattarsi alle differenze locali, il prodotto può poi essere personalizzato
con l’aggiunta di servizi accessori o modifiche di basso costo. Il potenziale di globalizzazione, però,
non è uguale in tutti i prodotti della stessa categoria, per cui è necessario adottare approcci
diversi.
La domanda di un determinato prodotto corrisponde, innanzi tutto, alla quantità venduta. Per
iniziare, bisogna distinguere fra 2 livelli di domanda: la domanda primaria o globale di mercato e
la domanda relativa all’impresa o domanda selettiva. La domanda primaria di un determinato
prodotto rappresenta il volume delle vendite realizzate presso un dato gruppo di clienti in un luogo
e in un periodo specifici e in un determinato contesto economico e di micromarketing. Tale
definizione comporta quindi l’identificazione preliminare del segmento o del prodotto-mercato di
riferimento, ed è funzione degli investimenti di marketing sia del contesto sia del settore nel suo
insieme. La domanda relativa alla marca o all’impresa rappresenta la quota della domanda
primaria detenuta dalla marca o dall’impresa in una determinata categoria di prodotto e in un
determinato segmento o prodotto-mercato.
Si possono osservare due situazioni di mercato ben distinte: i mercati in cui la domanda primaria è
detta espandibile, ovvero quando il livello delle vendite è influenzato da fattori del contesto
macromarketing, nonché dall’intensità degli sforzi di marketing (è ciò che accade nella fase di
introduzione e di crescita del ciclo di vita di un prodotto nuovo, quando il suo tasso di occupazione
e penetrazione sono deboli inferiori al 20%); i mercati in cui la domanda primaria è stagnante e
viene definita non espandibile, ovvero quando il livello totale delle vendite non è più influenzato dal
contesto macromarketing in cui è inserito e dagli sforzi di mkt delle aziende concorrenti (è ciò che
accade nei mercati che si trovano in fase di maturità, in cui si registrano tassi di occupazione e
penetrazione molto alti; in queste situazioni l’impresa deve tener presente che potrà ottenere un
aumento delle vendite solo ed esclusivamente aumentando la sua quota di mercato.
La domanda primaria non è rappresentata da una quantità fissa ma da una funzione, che mette in
relazione il livello delle vendite alle cause che lo determinano, le quali si definiscono “determinanti
della domanda”. A determinare il livello delle vendite intervengo 2 categorie di fattori: fattori
controllabili, rappresentati dagli sforzi totali di mkt delle imprese concorrenti nel mercato, e fattori
esterni o non controllabili, legati al contesto macromarketing.
Fattori di marketing (contabili) --- Fattori del contesto macromarketing (non controllabili)
vedere figure e spiegazione nei paragrafi pag 188 e 189
Il mercato potenziale attuale (livello di saturazione) è rappresentato graficamente dal limite verso
il quale tende la domanda primaria, per una pressione di mkt totale del settore tendente
all’infinito, in un dato contesto e in un determinato periodo di tempo.
Il mercato potenziale assoluto, può essere invece definito come il limite massimo della dimensione
del mercato, nell’ipotesi fittizia di una copertura ottimale del mercato di riferimento. Esso dipende
dal tempo, evolvendosi sotto l’influenza di fattori di diffusione e contagio o a causa di fattori
esogeni, quali i cambiamenti nel livello dei prezzi, la legislazione, ecc. L’impresa non ha alcun
controllo diretto su questi fattori, che tuttavia influiscono in modo decisivo sull’evoluzione del
mercato. In alcuni casi le imprese possono riuscire ad influenzare le cause esogene (attraverso
azioni di lobbying), ma il loro potere rimane limitato. Gran parte degli sforzi aziendali, quindi, sono
diretti a cercare di prevedere i cambiamenti di contesto.
L’analisi, la misurazione e la previsione della domanda sono la prima responsabilità delle ricerche
di mercato, con l’obiettivo di arrivare a stime quantitative del mercato potenziale e del livello
attuale della domanda, oltre che di formulare ipotesi sul suo sviluppo negli anni successivi. La
stima della domanda dei beni di consumo si basa essenzialmente su 2 fattori: il numero di unità
potenziali di consumo (n) e la quantità acquistata da ciascuna unità (q). Si ha quindi Q = n x q
dove Q indica la domanda totale in quantità. Analogamente il volume d’affari totale si determina
cosi R = n x q x p, dove R indica il volume d’affari totale e p il prezzo medio per unità.
Non durevoli
La domanda totale di un bene non legato all’uso di un bene durevole può determinarsi ricorrendo
ai dati seguenti: numero di unità di consumo potenziali; percentuale di clienti che utilizzano il
prodotto (tasso di occupazione); dimensione o frequenza degli acquisti (tasso di penetrazione). Il
mercato potenziale assoluto si determina ipotizzando un tasso di occupazione del 100% e un tasso
di penetrazione ottimale per occasione di utilizzo. Si dovrà quindi disporre di dati sui
comportamenti di consumo per determinare il livello attuale della domanda primaria.
Durevoli
Quando il bene di consumo è durevole, si deve distinguere tra domanda di primo acquisto e
domanda di sostituzione. “La domanda di primo acquisto” chiama in causa i seguenti dati: numero
di unità di consumo esistenti e loro tasso di dotazione; numero di nuove unità di consumo e il loro
tasso di dotazione. Un dato importante per la crescita della domanda di primo acquisto è la
velocità di diffusione del bene durevole nel segmento target. “La domanda di sostituzione” è più
complessa da valutare e dipende direttamente dal ritmo al quale gli utenti si sbarazzano di un
prodotto in quanto consumato oppure considerato obsoleto (tasso di rottamazione); chiama in
causa le seguenti componenti: dimensioni del parco esistente; distribuzione dell’età del parco;
distribuzione della durata di vita; tasso di rottamazione del prodotto; eventuale effetto di
sostituzione (nuove tecnologie); tasso di mortalità delle unità di consumo. In linea generale, i tassi
di rottamazione possono essere assunti in larga misura come proporzionali alla durata di vita fisica
dei prodotti in una determinata categoria. In altri termini, se la durata media è di 12 anni, il tasso
annuale di rottamazione dovrebbe teoricamente essere uguale al suo reciproco, ossia all’8,3 %. Le
previsioni formulate sulla durata di vita tecnica dei beni durevoli influiscono direttamente sul
livello previsto della domanda primaria negli anni successivi. Alcuni dei dati necessari per la
previsione della domanda primaria possono essere ottenuti a partire dai dati storici relativi alle
vendite, in particolare alla dimensione del parco e alla distribuzione della sua età.
La domanda di servizi nei mercati di consumo si determina esattamente come la domanda di beni
di consumo, basandosi sul numero di unità di consumo potenziali e sulla frequenza di utilizzo del
servizio. Essi però presentano un certo numero di caratteristiche distintive che influenzano
pesantemente la gestione di mkt: sono immateriali e deperibili e la loro produzione necessita di un
contatto diretto con la persona o organizzazione che eroga il servizio.
La domanda industriale è una domanda derivata dal mercato di consumo finale. Il responsabile
mkt dei beni industriali deve quindi non solo conoscere le condizioni del suo mercato, ma deve
anche essere consapevole dell’evoluzione dei mercati serviti dai suoi clienti, e dai clienti dei suoi
clienti. La domanda di beni industriali si struttura in modo diverso a seconda che si tratti di beni di
consumo, di componenti o di attrezzature industriali. I dati necessari alla valutazione della
domanda sono praticamente gli stessi che vengono utilizzati per i beni destinati al consumatore
finale, con poche eccezioni.
Si tratta di prodotti che l’impresa industriale utilizza nella sua attività produttiva e che non
vengono incorporati nel prodotto finito. Le componenti della domanda sono: numero potenziale di
imprese utenti (per dimensioni); percentuale di utenti effettivi (per dimensioni); livello di attività
per utente effettivo; tasso d’impiego per occasione d’uso.
Componenti industriali
I componenti industriali vengono incorporati nel prodotto fabbricato dal cliente industriale. In
questo caso la domanda dipende direttamente dalla quantità prodotta dall’impresa industriale
cliente. Si hanno quindi le seguenti componenti della domanda: numero di potenziali utenti
industriali (per dimensioni); percentuale di utenti effettivi (per dimensioni); quantità prodotta per
utente effettivo; tasso d’impiego per unità di prodotto.
In questa categoria rientrano prodotti come le macchine utensili o i pc, necessari all’attività
produttiva. Si tratta di beni durevoli ed è quindi importante distinguere ancora una volta fra
domanda di primo acquisto e domanda di sostituzione. La domanda di beni strumentali industriali
dipende direttamente dalla capacità produttiva delle imprese clienti e quindi una variazione anche
minima della domanda finale può tradursi in un cambiamento sostanziale nella domanda di beni
strumentali. Questo fenomeno prende il nome di “effetto di accelerazione”. La volatilità della
domanda di beni strumentali implica che per un’accurata previsione della propria domanda i
produttori di tali beni devono analizzare non solo la propria domanda, ma anche la domanda finale
che si rivolge alle imprese che essi riforniscono, da cui in definitiva dipendono.
Lo scarto tra il livello attuale e il livello assoluto della domanda primaria rappresenta un indicatore
del grado di sviluppo o sottosviluppo di un prodotto-mercato. Maggiore è lo scarto, più il
potenziale di crescita della domanda primaria sarà elevato; viceversa, minore è lo scarto, più si
sarà vicini al livello di saturazione. Weber ha elaborato uno schema detto gap analysis, per
studiare lo scarto tra il mercato potenziale attuale e quello potenziale assoluto, identificando 4
opportunità di crescita: gap nella distribuzione; gap nell’utilizzo; gap nell’offerta di prodotti; gap
nella concorrenzialità.
La domanda di una particolare linea di prodotti può essere penalizzata dal verificarsi di una o tutte
queste tre situazioni.
Gap nell’utilizzo del prodotto
Si possono verificare tre tipi di gap nell’impiego del prodotto: 1) una carenza nel numero di utenti,
quando molti utenti potenziale non impiegano il prodotto; 2) una carenza nelle occasioni di
utilizzo del prodotto, quando gli utenti effettivi non utilizzano il prodotto in tutte le possibili
occasioni d’impiego; 3) una carenza d’impiego, quando gli utenti effettivi utilizzano una quantità
ridotta di prodotti a ogni impiego.
L’inadeguatezza delle linee di prodotti è dovuta alla mancanza di una linea completa. In questo
caso si possono verificare 7 diverse situazioni: 1) gap nella dimensione delle linee di prodotti; 2)
gap nelle opzioni disponibili nelle linee di prodotti; 3) gap nello stile, colore, gusto o profumo della
linea di prodotti; 4) gap nella forma; 5) gap di qualità nelle linee di prodotti; 6) gap nelle linee di
prodotti con marca del distributore; 7) gap nelle linee di prodotti relativi a un determinato
segmento. (approfondire se necessario da pag 197 a 199).
Nell’analisi di attrattività, l’analisi del potenziale di mercato, rappresenta una prima fase, che va
completata con una valutazione del ciclo di vita del prodotto o servizio (CVP), ossia dell’evoluzione
della domanda potenziale nel tempo. Il modello dinamico del ciclo di vita del prodotto descrive il
ciclo vitale di un prodotto per mezzo di una funzione logistica a forma di “S” composta da cinque
fasi: decollo o introduzione; crescita esponenziale; turbolenza; maturità; declino. (fig. 9.9 pag 200).
Si ritiene generalmente che il livello di analisi più utile per quanto riguarda il ciclo di vita sia quello
del prodotto-mercato. Un prodotto-mercato si presta meglio a un’analisi del ciclo di vita perché
descrive meglio i comportamenti d’acquisto in una determinata categoria di prodotto e definisce
più chiaramente il quadro di riferimento: un prodotto visto come un insieme specifico di attributi,
destinato a un gruppo determinato di clienti. Uno stesso prodotto può, infatti, presentare un
profilo di ciclo di vita diverso a seconda dei mercati geografici, o addirittura a seconda dei vari
segmenti nell’ambito di uno stesso mercato di riferimento. A ogni prodotto-mercato, quindi, può
corrispondere un ciclo diverso, che riflette non soltanto l’evoluzione del prodotto, determinata in
larga parte dalla tecnologia, ma anche della domanda primaria e delle sue determinanti. Come
abbiamo già detto i fattori più importanti dell’evoluzione della domanda primaria sono le variabili
di contesto fuori controllo e, dall’altra, le variabili di marketing totalmente sotto controllo
dell’impresa. Il modello CVP ritrae la storia delle vendite di un prodotto dotato di una determinata
tecnologia, che costituisce una soluzione specifica (tra molte altre) a un bisogno di mercato per un
gruppo specifico di acquirenti. Il CVP rimane sempre esposto all’influenza della pressione di mkt
del settore, in particolare nella fase di espansione del mercato. È il dinamismo delle imprese che fa
evolvere un mercato, lo sviluppa ed eventualmente lo rilancia attraverso modifiche al prodotto.
Affermare che un prodotto ha un ciclo di vita significa che:
La strategia di mkt deve evolvere, dunque, di pari passo con i cambiamenti dei comportamenti dei
consumatori e della concorrenza, che intervengono nelle varie fasi.
La fase di introduzione
Nella fase di introduzione, il mercato è spesso (ma non sempre) caratterizzato da una crescita
lenta delle vendite, dovuta a diversi fattori tipici del contesto:
-la distribuzione può mostrarsi restia in questa fase nell’offrire un prodotto non ancora affermato
su un ampio mercato;
-i clienti potenziali possono essere lenti nel modificare le loro abitudini di consumo o produzione,
in ragione di un atteggiamento cauto nei riguardi dell’innovazione e dei costi ad essa legati (solo i
più ricettivi adotteranno il prodotto per primi, contribuendo alla lenta crescita delle vendite);
-la concorrenza, che inizialmente nei confronti di un’azienda innovatrice è inesistente, fino a
quando durerà la protezione dell’innovazione. La concorrenza di prodotti succedanei può tuttavia
essere molto forte, se si eccettua il caso di un’innovazione di rottura.
La fase di crescita
Se il prodotto supera con successo il test dell’introduzione sul mercato, entra nella fase di crescita,
caratterizzata da un rapido sviluppo delle vendite. Una caratteristica importante di questa fase è la
diminuzione regolare dei costi di produzione, dovuta all’aumento dei volumi prodotti e all’effetto
d’esperienza che comincia a manifestarsi. I prezzi tendono a ridursi, consentendo in tal modo di
raggiungere progressivamente la copertura totale del mercato potenziale. Le spese di mkt
vengono quindi ripartite su un volume d’affari più consistente e i flussi di cassa diventano positivi.
Nuovi concorrenti si affacciano sul mercato e la tecnologia comincia ad essere ampiamente diffusa
nel mercato. Per far fronte a questa nuova situazione, gli obiettivi di mkt strategico diventano
quelli di estendere la dimensione del mercato totale, costruendo una forte immagine di marca e
creando la fedeltà ad essa. Tutto ciò sarà possibile arricchendo il prodotto di nuove caratteristiche,
distribuendolo intensivamente o attraverso il metodo multicanale, riducendo il prezzo per
penetrare il mercato e adottando una strategia comunicativa mirata alla costruzione
dell’immagine.
La fase di turbolenza
Questa fase rappresenta una fase di transizione, durante la quale il tasso di crescita delle vendite
subisce una decelerazione, pur rimanendo superiore a quello dell’economia generale. I concorrenti
più deboli abbandonano il mercato in seguito alla diminuzione dei prezzi e quindi il settore
aumenta il suo grado di concentrazione, complicando lo scenario. L’attenzione da un punto di vista
strategico, si sposta dallo sviluppo della domanda primaria alla creazione o massimizzazione della
quota di mercato. Inoltre, la segmentazione deve orientare la politica di prodotto, allo scopo di
differenziare l’offerta dalle sempre più diffuse imitazioni e di allontanarsi dal concetto di “prodotto
medio”, posizionando chiaramente la marca nella mente dei clienti, creando e mantenendo la
fedeltà. Per raggiungere tali obiettivi, il programma di mkt dovrà adottare una differenziazione del
prodotto guidata dalla segmentazione del mercato, espandere la distribuzione per ottenere la
massima copertura di mercato, attuare una politica di prezzo basata sugli attributi della marca e
promuovere un messaggio pubblicitario che miri a comunicare al mercato il posizionamento
scelto. In questa fase l’indicatore chiave di performance aziendale, in questa fase (che può essere
molto breve), diventa la quota di mercato.
La fase di maturità
Nel momento in cui la crescita della domanda primaria continua a rallentare, per poi assestarsi al
ritmo di crescita del PIL in termini reali, o al ritmo della crescita demografica, il prodotto è entrato
nella fase di maturità. La maggior parte dei prodotti si colloca in questa fase, che è solitamente la
più lunga. In questa fase i tassi di occupazione e penetrazione del prodotto nel mercato sono
molto elevati, e poco suscettibili di ulteriori aumenti, cosi come la distribuzione già intensiva e
difficilmente aumentabile e la tecnologia, già stabilizzatasi, in attesa di piccole modifiche
secondarie del prodotto. Il mercato, in tale fase, è molto segmentato e le imprese si sforzano di
coprire l’intera gamma dei bisogni offrendo una vasta scelta di varianti dello stesso prodotto.
Dunque si fa più elevata la probabilità di un rilancio tecnologico del prodotto, mentre tutti i
concorrenti nel mercato si sforzano di prolungarne la vita media. Il mercato, dominato da pochi
concorrenti, assume una struttura oligopolistica e, di conseguenza, l’obiettivo prioritario
dell’impresa consiste nel mantenere e, se possibile, allargare la quota di mercato e ritagliarsi un
vantaggio competitivo difendibile sui concorrenti diretti, dato che la concorrenza basata sul prezzo
si fa più intensa, ma con un impatto ormai scarso o nullo sulla domanda primaria, divenuta
anelastica rispetto al prezzo. Si potrebbe così differenziare i prodotti, con miglioramenti qualitativi
o di stile, entrare in nuove nicchie di mercato oppure acquisire un vantaggio competitivo basato
sulle variabili del mkt mix non legate al prodotto. Questa, a condizione che l’impresa riesca ad
evitare una guerra di prezzi, è la fase in cui la redditività è più elevata; in teoria il livello di
redditività corrisponderà alla quota di mercato mantenuta.
La fase di declino
Questa fase si traduce in un decremento strutturale della domanda in quanto possono comparire
nuovi prodotti tecnologicamente più avanzati, che sostituiscono i prodotti esistenti, svolgendo la
stessa funzione; possono modificarsi preferenze, gusti e abitudini di consumo, rendendo i prodotti
superati; possono, inoltre, esserci cambiamenti nell’ambiente sociale, economico e politico, che in
alcuni casi rendono i prodotti obsoleti, se non addirittura vietati. Quando le vendite e le previsioni
di utile calano, alcune imprese disinvestono e si ritirano dal mercato; altre, al contrario, scelgono
di specializzarsi sul mercato residuo nel caso in cui rappresenti ancora un’opportunità valida, cioè
quando il calo delle vendite è graduale. Salvo inversioni di rotta del mercato, verificatesi in alcuni
casi, l’abbandono di un prodotto tecnologicamente sorpassato è a lungo andare inevitabile
Una delle difficoltà interpretative del modello del CVP è rappresentata dal fatto che le osservazioni
sperimentali mostrano che la vita di un prodotto non sempre segue la curva a forma di “S”
proposta dal modello. Non si presume l’esistenza di un solo modello di evoluzione che intervenga
sempre, e non è sempre facile identificare la fase che il prodotto sta attraversando, tanto più che
la durata delle fasi può variare da un prodotto all’altro, se non addirittura da un Paese all’altro per
uno stesso prodotto. I diversi profili osservati si spiegano con l’evoluzione dei fattori quali la
tecnologia, le abitudini di consumo e il dinamismo delle imprese. La difficoltà consiste, quindi, nel
determinare in anticipo il tipo di evoluzione destinato a prevalere. In ogni fase del CVP l’impresa
dinamica tenterà di:
Un profilo ideale di CVP è caratterizzato da una fase d’introduzione breve, una fase di crescita
rapida, una fase di maturità lunga e un declino lento e progressivo, con la possibilità per l’impresa
innovatrice di modificare attraverso le proprie iniziative il profilo del ciclo di vito del prodotto-
mercato in questione.
La struttura dei flussi finanziari che accompagnano l’evoluzione (idealizzata) della domanda
primaria nel tempo è descritta nella fig. 9.14 pag 211. I flussi finanziari sono ripartiti in modo
estremamente disomogeneo tra le varie fasi del CVP. Nelle fasi d’introduzione e crescita, gli
investimenti passati e le spese di mkt per il lancio del prodotto influiscono notevolmente sulla
redditività, che può restare a lungo negativa, specie nei mercati in cui l’introduzione è lunga.
Soltanto nelle fasi di turbolenza e maturità l’impresa innovativa entra nella zona di redditività,
poiché recupera le perdite precedenti e realizza margini di profitto lordi più elevati oltre a una
riduzione dei costi dovuta alle economie di scale. Una regola di gestione risultante da questa
ripartizione dei costi e ricavi è rappresentata dalla necessità di mantenere un equilibrio nella
struttura del portafoglio di attività dell’impresa, in termini di crescita e redditività. Tutto ciò
comporta la presenza costante di prodotti del tipo “mucche da latte” (cash cow), che generano
risorse finanziarie consistenti assorbendone poche, e di prodotti del tipo “problematico” (problem
child), o prodotti nuovi, che hanno un potenziale di crescita elevato, ma il cui sviluppo richiede
notevoli investimenti finanziari. La ricerca di un equilibrio tra crescita e redditività è il fondamento
dei metodi di analisi del portafoglio.
Uno dei principali effetti della globalizzazione è l’interdipendenza tra i mercati: non è più possibile,
infatti, considerare i mercati nazionali come entità a sé stanti, ma vanno piuttosto visti come parte
di un mercato di riferimento regionale o mondiale. Quindi un’economia molto integrata nella rete
globale diventa più vulnerabile a traumi esterni, quali la svalutazione, un improvviso aumento del
prezzo del petrolio, una crisi finanziaria o la possibilità dello scoppio di una guerra. Per l’impresa
transnazionale è sempre difficile mantenere un buon equilibrio tra due obiettivi apertamente
conflittuali: da una parte la standardizzazione (supply-driven), dall’altra l’adattamento (market-
driven). Il problema è capire fino a che punto spingersi con la standardizzazione, senza rischiare di
perdere contatto con i mercati locali solo per ridurre i costi.
Un vantaggio competitivo di qualità si basa su alcune qualità distintive del prodotto che forniscono
un valore superiore al cliente, sia attraverso la riduzione dei costi di utilizzo del prodotto, sia
attraverso l’incremento della sua performance, permettendo di stabilire un prezzo di vendita più
alto rispetto a quello dei concorrenti. Un vantaggio competitivo esterno dà dunque all’impresa un
maggiore potere di mercato, nel senso che la mette in condizione di far accettare al mercato un
prezzo di vendita superiore a quello del principale concorrente, che potrebbe non detenere le
stesse qualità distintive. Per il successo di una strategia fondata sul vantaggio competitivo di
qualità, il supplemento di prezzo (premium price) che il cliente è disposto a pagare deve essere
superiore al costo necessario a conferire il valore supplementare al prodotto. (strategia di
differenziazione che chiama in causa soprattutto il know-how di mkt dell’impresa)
Un vantaggio competitivo di costo si basa sulla superiorità dell’impresa nel controllo dei costi di
produzione, di amministrazione o di gestione del prodotto. Esso apporta un “valore al
produttore”, garantendogli un costo unitario inferiore a quello del principale concorrente. Un
vantaggio competitivo interno è il risultato di una maggiore produttività e di conseguenza dà
all’impresa una maggiore redditività e capacità di resistere a una diminuzione del prezzo di vendita
imposta dal mercato o dalla concorrenza (strategia di dominio attraverso i costi, che chiama in
causa soprattutto il know-how organizzativo e tecnologico dell’impresa). Per il successo di una
strategia fondata su un vantaggio di costo, l’impresa deve offrire al cliente un valore accettabile, in
modo che il prezzo praticato si avvicini al prezzo medio della concorrenza. (analisi del vantaggio
competitivo per potere di mercato o produttività, fig. 10.1 pag 216)
Si definisce competenza chiave una capacità o una tecnologia particolare, che crea un valore unico
per il cliente. Le capacità specifiche di un’impresa si concretizzano quasi per intero nell’insieme
delle conoscenze delle persone che vi lavorano e nelle procedure organizzate d’interazione tra i
dipendenti. Queste competenze chiave possono essere considerate il fondamento del vantaggio
competitivo dell’impresa, perché se usate in modo corretto, possono rappresentare fonti
sostenibili di vantaggio competitivo duraturo nel tempo, applicabili a loro volta in altri settori
d’attività dell’impresa, anche se apparentemente non correlati. Una competenza chiave per essere
sostenibile deve: generare un valore significativo per i clienti rispetto all’offerta dei concorrenti;
essere difficile da imitare sul mercato, creando quindi una barriera competitiva all’entrata per i
concorrenti; consentire all’impresa all’accesso a numerosi settori di attività apparentemente non
collegati tra loro, grazie alla combinazione di abilità e tecnologie trasversali. Per identificare e
sviluppare le competenze chiave, l’impresa deve isolare le abilità più importanti e affinarle
all’interno di una definizione delle forze vitali dell’organizzazione. La ricerca del vantaggio
competitivo sostenibile è centrale nel processo di elaborazione della strategia e rappresenta una
delle responsabilità principali del mkt strategico. Ottenere un vantaggio competitivo operativo in
un dato mercato comporta lo svolgimento delle stesse attività dei concorrenti, ma in modo più
efficace, offrendo una qualità superiore oppure uguale ma ad un prezzo inferiore, operando più
rapidamente dei concorrenti, collocandosi più vicino al cliente e fornendogli una maggiore
assistenza. Ogni funzione aziendale avrà la responsabilità di sorpassare i concorrenti sul piano
dell’efficienza operativa, che è un obiettivo necessario ma non sufficiente, da solo, per mantenere
una redditività superiore. Ma tutto ciò è sempre più difficile a causa della rapida diffusione delle
best practice, che vengono subito imitate dalla concorrenza.
Il posizionamento strategico risulta più sostenibile a lungo termine rispetto a quello operativo.
Minacce per l’impresa [Le 5 forze competitive 4 esterne + 1 interna (concorrenza diretta)]
1) Nuovi entranti
I potenziali concorrenti in grado di entrare in un mercato costituiscono una minaccia che l’impresa
deve circoscrivere e contro la quale deve proteggersi, creando delle barriere all’entrata. La
rilevanza della minaccia dipende dal livello delle barriere all’entrata e dall’intensità delle reazioni
che il potenziale entrante può attendersi. Le possibili barriere all’entrata possono essere legate
alle economie di scala, differenziazione del prodotto o immagine di marca, fabbisogno di capitale,
costi di trasferimento del cliente, accesso ai canali distributivi e all’effetto di esperienza con
conseguente vantaggio di costo. È l’insieme di queste condizioni – l’esistenza di barriere difendibili
e la capacità di risposta dei concorrenti affermati nel settore (con un passato di aggressività nei
confronti dei nuovi entranti, con un alto grado di coinvolgimento in quel prodotto-mercato, con
una disponibilità di risorse finanziarie considerevoli per controbattere) – che dissuaderà il
potenziale concorrente dall’ingresso nel mercato.
2) Prodotti sostitutivi
I prodotti si definiscono sostitutivi quando svolgono una funzione simile per lo stesso gruppo di
clienti, basandosi però su tecnologie diverse. (mercato che raggruppa l’insieme delle tecnologie
per una funzione e uno specifico gruppo di clienti). Questi prodotti costituiscono una minaccia
permanente, in quanto la sostituzione è sempre possibile e il loro prezzo impone un tetto al prezzo
che le imprese possono praticare nel loro prodotto-mercato, soprattutto se sono soggetti a
miglioramenti del rapporto qualità-prezzo rispetto al prodotto del settore di riferimento. Occorre,
dunque, individuare sistematicamente i prodotti che rispondono allo stesso bisogno generico o
che ricoprono la stessa funzione, che a volte può condurre a settori molto lontani da quelli di
origine. Il tutto attraverso un sistema di monitoraggio permanente che tenga d’occhio le principali
scoperte tecnologiche e permetta l’adozione di un comportamento proattivo e non solo reattivo.
I clienti detengono un potere di contrattazione nei confronti dei fornitori e quindi possono
influenzare la redditività di un’impresa costringendola a concedere riduzioni di prezzo, servizi più
estesi e condizioni di pagamento più favorevoli. La rilevanza di questo potere di contrattazione
dipende da un certo numero di condizioni:
- Il gruppo di clienti è concentrato o acquista quantità consistenti rispetto al volume d’affari
dell’impresa;
- I prodotti sono standardizzati o poco differenziati;
- I costi di trasferimento per il cliente, cioè il costo del passaggio a un altro fornitore, sono
contenuti;
- Il cliente dispone di informazioni complete sulla domanda, sui prezzi attuali e sui costi del
fornitore.
Una situazione in cui il potere di contrattazione dei clienti è molto alto, si osserva spesso nel
settore alimentare, dove la grande distribuzione è molto concentrata ed è in grado di dettare ai
produttori le proprie condizioni. Un’impresa può migliorare la propria posizione competitiva
attraverso una politica di selezione della propria clientela, con l’obiettivo di realizzare una buona
ripartizione del portafoglio clienti, e di evitare qualsiasi forma di dipendenza nei confronti dei
gruppi di clienti serviti.
Il potere di contrattazione dei fornitori nei confronti dei propri clienti deriva dalla possibilità per i
primi, di aumentare i prezzi delle forniture, di ridurre la qualità dei prodotti o di limitare le
quantità vendute a un dato cliente. Fornitori influenti così possono ridurre la redditività di un
settore se i clienti non sono in grado di recuperare gli aumenti imposti nei costi, sui prezzi di
vendita. Le condizioni che assicurano ai fornitori un elevato potere di contrattazione sono
analoghe a quelle che determinano il potere dei clienti.
Le quattro forze competitive esterne, a cui bisogna aggiungere la quinta e cioè la concorrenza
diretta tra imprese all’interno dello stesso prodotto-mercato, determinano la redditività e il
potenziale potere di mercato dell’impresa.
5) Concorrenti
Il management può essere indotto a prestare attenzione solo ai concorrenti con cui si verifichi una
sovrapposizione di prodotti o tecnologie, perché sono i più evidenti. La definizione di mercato di
riferimento in termini di soluzioni ricercate e l’utilizzo della macrosegmentazione dovrebbero
essere utili per evitare un approccio miope nella definizione del contesto competitivo. Anche la
matrice 10.5 a pag 223 può risultare utile (studiare dal libro la matrice)
L’intensità e le forme della lotta competitiva tra rivali diretti in un prodotto-mercato variano a
seconda della natura della struttura competitiva osservata, che descrive il grado d’interdipendenza
tra concorrenti e il grado di potere di mercato posseduto da ciascuno. Si distinguono solitamente 4
situazioni competitive: concorrenza pura o perfetta, oligopolio, concorrenza monopolistica (o
imperfetta), monopolio.
Concorrenza pura o perfetta
Tale modello competitivo è caratterizzato dalla presenza sul mercato di un gran numero di
venditori da un lato e di acquirenti dall’altro, nessuno dei quali è abbastanza forte da influire sul
livello dei prezzi. I prodotti, dalle caratteristiche tecniche molto ben definite, sono perfettamente
sostituibili tra loro e si vendono al prezzo di mercato, rigorosamente stabilito dall’incontro della
domanda con l’offerta. In questa situazione i venditori non detengono alcun potere di mercato e i
loro comportamenti non sono influenzati dalle rispettive azioni. La sola manovra possibile per
l’impresa che cerchi di migliorare la propria performance competitiva consiste nel modulare
l’offerta o variare la propria capacità produttiva, aumentandola o diminuendola a seconda del
prezzo di mercato. Quindi a breve termine è importante tenere sotto controllo la concorrenza, per
anticipare l’evoluzione dei prezzi di mercato, mentre a lungo termine, se si vuole uscire
dall’anonimato della concorrenza pura, sono necessarie una fase di ricerca sistematica delle
opportunità di differenziazione e una di segmentazione accurata del mercato, per scoprire
segmenti di mercato che adottino criteri d’acquisto più selettivi. L’impresa quindi tenterà di
differenziare i suoi prodotti per ridurre il loro grado di sostituibilità o tenterà di creare un costo di
trasferimento per il clienti, per spingerlo a restare fedele. (rigido controllo della qualità,
accompagnato da una politica di marca).
Oligopolio
L’oligopolio è una situazione in cui l’interdipendenza tra imprese rivali è molto forte, a causa del
numero ridotto di concorrenti o della presenza di alcune imprese dominanti. Nei mercati
concentrati come questo, le forze a confronto sono note a ciascuno e le azioni intraprese da un
concorrente si ripercuotono profondamente sugli altri, che tendono pertanto a reagire. Il risultato
di una manovra strategica, quindi, dipende in larga misura dall’atteggiamento più o meno reattivo
dei concorrenti. La dipendenza tra concorrenti è tanto più forte quanto più sono indifferenziati i
prodotti delle imprese a confronto: si parla in questo caso di oligopolio indifferenziato, per
distinguerlo dall’oligopolio differenziato, in cui i beni presentano caratteristiche distintive rilevanti
per il cliente. Le situazioni di oligopolio si incontrano soprattutto nei prodotti-mercati che
attraversano la fase della maturità del loro CVP, cioè quando la domanda primaria è stagnante e
non espandibile. In condizioni di oligopolio indifferenziato i prodotti sono percepiti come
commodity e la scelta del cliente dipende in gran parte dal prezzo e dal servizio. È quindi una
situazione che favorisce una intensa competizione sul prezzo, a meno che un’impresa dominante
non sia in grado d’imporsi e di far accettare un prezzo di riferimento per l’insieme dei concorrenti
(leadership di prezzo). Se invece si sviluppa una competizione sul prezzo, si va generalmente verso
una diminuzione della redditività di tutte le imprese rivali, soprattutto se la domanda primaria non
è espandibile.
Monopolio
Esso rappresenta un caso limite, al pari della concorrenza pura. Il mercato è dominato da un solo
produttore, che si trova di fronte un grande numero di clienti: il suo prodotto, per un periodo di
tempo limitato, non ha concorrenti diretti nella sua categoria. È una situazione che si osserva nella
fase introduttiva del CVP, nei settori emergenti, caratterizzati da forti innovazioni tecnologiche,
che conferiscono all’impresa innovatrice un elevato potere di mercato, che può venire
rapidamente minacciato dai nuovi entranti attratti dal potenziale di crescita e di profitto. Un dato
essenziale è la durata prevedibile del monopolio, che dipenderà dalla forza dell’innovazione e
dall’esistenza di barriere difendibili contro l’ingresso di nuovi concorrenti. I monopoli di Stato
seguono una logica diversa da quella dell’impresa privata: non più la logica del profitto ma quella
dell’interesse comune e del servizio pubblico. Nei servizi pubblici la difficoltà di attenersi a questi
obiettivi deriva dall’assenza di incentivi all’adozione di un orientamento al mercato, con una
gestione maggiormente accentrata su problemi interni di funzionamento o burocrazia.
A conclusione, si può constatare che il potere di mercato e il potenziale di profitto possono variare
enormemente a seconda della situazione di mercato. La realtà dei mercati si colloca naturalmente
tra i due casi limite della concorrenza pura e del monopolio, e l’azione delle forze concorrenziali
favorisce ora l’una ora l’altra situazione.
Il vantaggio competitivo di un’impresa può anche dipendere dalla presenza di differenziali di costo,
rispetto ai concorrenti diretti, dovuti a una maggiore produttività e al controllo dei costi,
attraverso economie di scala, effetto di esperienza, abbassamento del costo dei fattori produttivi,
migliore tecnica di produzione, migliore design ed efficienza organizzativa. Nei settori in cui il
valore aggiunto al prodotto rappresenta un ‘alta percentuale del costo totale, si constata una
tendenza alla riduzione dei costi man mano che l’impresa accumula esperienza nella fabbricazione
del prodotto. La scoperta dell’esistenza dell’ “effetto di esperienza” si deve a Wright (1936) e al
team del BCG, che formulò a fine anni Sessanta la legge dell’esperienza che afferma che il costo
unitario del valore aggiunto di un prodotto standard, misurato in unità monetarie costanti (al netto
dell’inflazione), diminuisce di una percentuale fissa ogni volta che la produzione totale cumulata
raddoppia. (fig. 10.7 pag 234). L’effetto di esperienza riguarda principalmente i costi legati al
valore aggiunto, cioè quelli su cui l’impresa esercita un controllo: costi di trasformazione, di
assemblaggio, di distribuzione e di servizio. Ricordiamo che il valore aggiunto è uguale alla
differenza tra il prezzo di vendita e il costo degli input; il costo di realizzazione del valore aggiunto
è dato, invece, dalla differenza tra il costo unitario e il costo degli input.
I fattori che contribuiscono a ridurre i costi lungo la curva di esperienza sono soprattutto legati ai
miglioramenti apportati al processo di produzione grazie all’apprendimento realizzato con
l’accumulo della produzione. Tuttavia l’esperienza in sé non produce una riduzione dei costi;
tutt’al più fornisce occasioni affinché ciò si verifichi; spetta poi alla direzione aziendale cogliere tali
opportunità. (formula matematica della legge di esperienza Approfondimento 10.4 pag 236).
Nell’ottica di una strategia basata sulla legge di esperienza, accrescere la propria quota di mercato
e adottare una politica di prezzo di penetrazione sono fattori chiave per ottenere un vantaggio
competitivo basato sul dominio dei costi. La politica di prezzo di penetrazione (fig. 10.8): l’impresa
anticipa l’evoluzione del suo costo unitario in termini di produzione cumulata e si pone il
raggiungimento di un obiettivo che comporta una crescita delle vendite più rapida di quella del
mercato di riferimento e la conseguente crescita della propria quota di mercato relativa. È in
rapporto a tale volume previsto che sarà stabilito il prezzo di vendita da praticare nel lancio
dell’attività. Una volta raggiunto il livello di esperienza, le ulteriori riduzioni dei costi si
ripercuoteranno sul prezzo di vendita per mantenere il vantaggio rispetto ai concorrenti principali.
Prima di adottare una strategia basata sull’esperienza è importante procedere a un calcolo del
tempo e degli investimenti necessari per raggiungere l’obiettivo prefissato. La legge di esperienza
non ha un’applicazione universale: regge soprattutto nelle attività in cui un volume maggiore
conferisce un vantaggio economico e in cui il processo di apprendimento è importante. Dall’altro
lato, un’impresa dominata, nel suo mercato di riferimento, da un concorrente che dispone di un
vantaggio di costo irraggiungibile, può adottare 2 strategie: una strategia di differenziazione che
offra al cliente attributi distintivi, per cui sia disposto a pagare un prezzo superiore; oppure una
strategia basata sullo sviluppo tecnologico, che la collocherà su una curva di esperienza più
favorevole, neutralizzando di conseguenza il vantaggio di costo detenuto dal leader.
3) anticipazione dei bisogni degli acquirenti. Il fatto che determinati bisogni vengano espressi
prima dalla clientela nazionale e poi da quella straniera rappresenta un vantaggio per le imprese
locali, poiché la domanda locale anticipa bisogni destinati a generalizzarsi.
Quindi concludiamo dicendo che la composizione qualitativa della domanda interna sta alla base
del vantaggio competitivo delle nazioni.
Strategie di copertura
L’impresa ha a disposizione diverse strategie di copertura del mercato (fig. 11.1 pag244), in cui i
due estremi sono la strategia di “marketing di massa” e quella di “customizzazione di massa”; tra
queste due esistono moltissime opzioni intermedie.
Strategia di focalizzazione
I confini del mercato vengono definiti nei termini generali di funzioni, tecnologie e gruppi di clienti.
La strategia di focalizzazione è quella dello specialista alla conquista di una grossa quota di
mercato all’interno di una nicchia ristretta, che concentra le sue risorse sui bisogni di un numero
ridotto di segmenti, se non uno soltanto, adottando dunque una strategia di specializzazione.
Quest’ultima può riguardare una funzione (specialisti di funzione) o un determinato gruppo di
clienti (specialista di clienti). Nel primo caso, l’impresa svolge un numero ridotto di funzioni, se non
una soltanto, ma si rivolge ad una vasta gamma di clienti. Nel secondo caso, invece, si ha una
situazione in cui i confini del mercato sono definiti in modo ampio per quanto riguarda la funzione,
e ristretto in merito al gruppo di clienti, verso i cui bisogni è orientata l’attenzione. L’applicabilità
di questo tipo di strategie dipende dalle dimensioni del segmento e dalla forza del vantaggio
competitivo conquistato dall’azienda.
In questa strategia i confini del mercato sono definiti in modo ampio sia dal punto di vista della
funzione sia da quello dei gruppi di clienti: l’impresa si rivolge all’intero mercato. L’azienda che
adotta tale strategia può poi scegliere tra una strategia di mkt differenziato e indifferenziato. Se
adotta una strategia di mkt indifferenziato, o mkt di massa, l’impresa ignora le diversità presenti
all’interno del segmento e decide di rivolgersi all’intero mercato come un tutt’uno, concentrandosi
sui punti in comune nei bisogni dei clienti, tralasciandone le differenze, senza servirsi, quindi, della
segmentazione. La scelta di questa strategia può essere motivata dal risparmio conseguito non
solo a livello di produzione, ma anche in fase di stoccaggio, distribuzione e promozione. Nelle
società del benessere è un metodo difficile da applicare, perché raramente un prodotto/marca
vanno bene a tutti. Se invece adotta una strategia di mkt differenziato, o customizzazione di
massa, l’impresa si rivolge sempre all’intero mercato, ma con programmi di mkt su misura per
ciascun segmento. Tale strategia permette all’impresa di operare in diversi segmenti adottando
prezzi, sistemi di distribuzione e di comunicazione ad hoc. I prezzi di vendita vengono stabiliti in
base alla sensibilità al prezzo di ciascun segmento.
Strategia mista
L’impresa diversifica le sue attività in termini di funzioni e/o gruppi di clienti. Garantire che il
portafoglio dell’impresa sia equilibrato (in termini di profitto e potenziale di crescita) e ben
diversificato (in termini di rischio) rientra tra gli obiettivi dell’analisi del portafoglio. La scelta di
una di queste strategie di copertura dipenderà dal numero di segmenti identificabili e
potenzialmente redditizi nel mercato di riferimento e dalle risorse dell’impresa.
Dopo aver deciso il tipo di copertura del mercato, il passo successivo sarà la scelta della strategia
di posizionamento da adottare all’interno di ciascuno dei segmenti target. Si tratta di un momento
critico nel processo di implementazione del mkt strategico, perché l’impresa deve decidere come
differenziare al meglio la sua marca rispetto a quelle dei concorrenti. Il posizionamento è la
decisione dell’impresa relativa al(i) beneficio(i) che la marca deve possedere, per conquistare una
posizione distintiva nel mercato. Il posizionamento si può descrivere rispondendo a 4 domande
chiave:
- Una marca per che cosa? (Promesse della marca e benefici che ne derivano per il cliente);
- Una marca per chi? (Quali segmenti target);
- Una marca per quando? (Si riferisce alla situazione d’uso o di consumo);
- Una marca contro chi? (Diretti concorrenti).
1. Differenziazione del prodotto. Posizionare la marca, facendo leva sui benefici del prodotto,
ossia sulle caratteristiche come performance, affidabilità, design, novità, ecc., per
differenziare la marca.
2. Differenziazione del prezzo. Alcune imprese utilizzano il prezzo per distinguersi dai
concorrenti. Esistono diverse strategie basate sul prezzo: applicare il prezzo più alto della
categoria (Gucci, Cartier), il più alto valore del denaro (Ikea, Nivea), il prezzo più basso nella
categoria (Ryanair, Aldi).
3. Differenziazione dell’immagine. In molti settori le marche non sono differenziabili sulla
base di caratteristiche tangibili e quindi, a fare la differenza, può intervenire l’immagine.
Come indicato da Kotler e Keller (2006), nel posizionamento bisogna evitare 4 errori fondamentali:
1. Sottoposizionamento. I clienti potenziali hanno un’idea vaga di quale sia il fattore distintivo
della marca, quindi non ci vedono nulla di speciale.
2. Sovraposizionamento. I clienti hanno un’immagine troppo ristretta della marca, perché la
percepiscono come troppo specializzata.
3. Posizionamento confuso. I clienti sono confusi perché l’impresa avanza troppe
rivendicazioni sul suo prodotto, oppure cambia troppo spesso posizionamento.
4. Posizionamento ambiguo. I potenziali clienti non riescono a credere ai vantaggi promessi
dalla marca, alla luce dei suoi trascorsi, o di quelli del prezzo o del produttore.
Per “risposta” si intende ogni attività psico-fisica provocata nel cliente da uno stimolo utilizzato dal
produttore. I diversi livelli di risposta del cliente potenziale possono essere raggruppati in 3
categorie: risposta cognitiva, che chiama in causa le informazioni possedute e la conoscenza; la
risposta affettiva, che analizza l’atteggiamento e il sistema di valutazione; la risposta
comportamentale, che descrive l’azione, vale a dire comportamento prima, durante e dopo l’atto
d’acquisto. Questi tre livelli di risposta sono posti in una scala gerarchica, che l’individuo attraversa
in sequenza, secondo quest’ordine: 1 cognitivo (learn); 2 affettivo (feel); 3 comportamentale (do).
Si parla dunque di processo di apprendimento, osservabile principalmente quando il cliente
potenziale è fortemente coinvolto nella sua decisione d’acquisto, per esempio nel caso di forte
sensibilità alla marca o nel caso di elevato rischio percepito. Il modello “learn-feel-do” rimane
valido per la strutturazione delle informazioni raccolte sui comportamenti di risposta, in particolar
modo se usato insieme ai concetti di “rischio percepito” e di “coinvolgimento dell’acquirente”.
La teoria della specializzazione del cervello postula che una separazione anatomica tra le zone del
cervello corrisponde a una specifica percezione della realtà: l’emisfero sinistro presiede agli aspetti
intellettuali, l’emisfero destro a quelli affettivi o sensoriali. La parte sinistra , ovvero
l’apprendimento di tipo intellettuale, si basa essenzialmente sulle informazioni logiche e fattuali,
sul linguaggio e l’analisi, cioè sulla funzione cognitiva. Al contrario la parte destra, ovvero
l’apprendimento di tipo emotivo, si occupa della sintesi, è più intuitiva e reattiva agli stimoli non
verbali; si tratta cioè della funzione affettiva. Vaughn (1986) per ottenere uno schema concettuale
che integrasse il modello gerarchico “learn-feel-do”, il grado di coinvolgimento del consumatore e
la teoria della specializzazione del cervello, ha elaborato una griglia in cui il processo della
decisione d’acquisto viene analizzato in base a due dimensioni: un coinvolgimento alto-basso e
una percezione basata su pensare-sentire (apprendimento emotivo-intellettuale). L’incrocio tra
modalità di apprendimento e di coinvolgimento porta alla matrice “apprendimento-
coinvolgimento” in fig 11.5 pag 252), nella quale possiamo identificare 4 percorsi diversi del
processo di risposta. (studiare matrice dal libro).
Nel giudicare la rilevanza degli attributi occorre prestare attenzione al problema della ridondanza:
due attributi sono ridondanti quando il loro grado di significatività è identico e quindi equivalgono
a selezionare un unico attributo. L’analista dovrebbe definire una lista degli attributi rilevanti ma
non ridondanti. Le ricerche sull’immagine di marca misurano le percezioni dei consumatori e
aiutano a scoprire quali siano le aspettative del mercato, come si può vedere nella mappa
percettiva.
Nel determinare quale strategia adottare per modificare un posizionamento sfavorevole, è
importante capire il modo in cui i consumatori percepiscono i prodotti concorrenti all’interno di un
segmento. Esistono 6 strategie diverse:
- Modificare il prodotto. Se la marca non corrisponde alle aspettative del mercato, si può
modificare il prodotto rinforzando la caratteristica che risulta carente.
- Modificare il peso degli attributi. Si tratta di convincere il mercato che la caratteristica che
l’impresa possiede è molto importante.
- Modificare le convinzioni relative alla marca. Il mercato può essere mal informato e
sottostimare alcuni attributi realmente distintivi della marca (riposizionamento percettivo).
- Modificare le convinzioni relative alle marche concorrenti. Se il mercato sovrastima alcune
caratteristiche dei concorrenti, c’è la possibilità di utilizzare pubblicità comparative.
- Attrarre l’attenzione verso attributi finora ignorati. Implica la creazione di un nuovo
vantaggio, non ancora considerato dal mercato target.
- Modificare il livello di attributi richiesti. E’ possibile che il mercato si aspetti un determinato
livello qualitativo per un tipo di applicazione del prodotto. L’impresa può tentare, quindi, di
convincere il segmento che la qualità offerta è adeguata a quello scopo.
1. Risorse umane: formazione avanzata del personale, impegno nel servizio ai clienti;
2. Ricerca e sviluppo: caratteristiche uniche del prodotto, rapidità di sviluppo di nuovi
prodotti;
3. Infrastruttura: reputazione dell’impresa, sensibilità ai bisogni dei clienti.
L’obiettivo consiste nell’ individuare i fattori di unicità di ogni attività, ovvero le variabili e/o le
azioni attraverso le quali l’impresa può acquisire un elemento di unicità che la differenzi dai
concorrenti e la valorizzi agli occhi del cliente.
Il potere di mercato è misurato dalla capacità dell’impresa di imporre un prezzo superiore a quello
praticato dalla concorrenza. Una misura di questa capacità è data dall’elasticità al prezzo della
domanda dell’impresa per il prodotto differenziato. Minore è l’elasticità della domanda, più bassa
sarà la volatilità o sensibilità della quota di mercato di fronte a un aumento di prezzo del prodotto.
L’impresa, o la marca, che detiene un potere di mercato presenta quindi una domanda meno
elastica rispetto a quella di un prodotto meno differenziato, ed è pertanto in grado di far accettare
un prezzo superiore al gruppo di clienti sensibili all’elemento di differenziazione. È possibile,
inoltre, individuare 5 indicatori forza della marca:
1. Più limitata sensibilità al prezzo. Una marca forte resiste meglio a un aumento di prezzo
rispetto ai concorrenti.
2. Accettazione di premium price. Una marca è forte se i clienti sono disposti a pagarla di più
rispetto alle marche concorrenti.
3. Tasso di esclusività. Il consumatore più fedele è quello per cui la marca detiene una
maggiore percentuale di requisiti all’interno della categoria.
4. Tasso di fedeltà dinamico. Anziché guardare alla percentuale di requisiti di categoria, si può
prendere in esame lo schema d’acquisto nel tempo, per stimare la possibilità che un
consumatore riacquisti la stessa marca nell’occasione successiva d’acquisto.
5. Misure attitudinali positive. Indicatori dell’atteggiamento quali il grado di familiarità con la
marca, il grado di stima, la qualità percepita, le intenzioni d’acquisto, ecc., sono buoni
indicatori della forza della marca.
La segmentazione globale dei mercati può essere definita come il processo d’identificazione di
segmenti di clienti potenziali (formati da gruppi nazionali o da singoli acquirenti) che abbiano
attributi e comportamenti d’acquisto simili. Nella segmentazione globale si possono adottare 3
approcci distinti: (a) identificazione di gruppi di Paesi che richiedono prodotti simili; (b)
identificazione di segmenti presenti in più Paesi; (c) scelta di segmenti target diversi in ciascun
Paese, pur con lo stesso prodotto.
Il mercato globale viene in genere segmentato in base a variabili geografiche, ossia raggruppando
Paesi simili per condizioni climatiche, lingua, religione, sviluppo economico, canali di distribuzione,
ecc. Molti prodotti non necessitano di essere adattati in ogni Paese (eccezion fatta per i problemi
di etichettatura dei prodotti e di traduzione dei cataloghi).
(b) Vendere in segmenti universali che attraversano i confini tra i Paesi
Molti prodotti sono sempre più accettati su scala mondiale perché soddisfano bisogni e desideri
che travalicano i confini nazionali. Quindi anche se in generale i bisogni sono diversi, può esistere
un segmento del mercato che presenta bisogni identici in ogni Paese. La sfida delle imprese
internazionali consiste innanzi tutto nell’identificare questi segmenti universali e,
successivamente, nel raggiungerli con programmi di mkt che soddisfino i bisogni comuni di tali
clienti potenziali. Questi segmenti universali riuniscono, per esempio, i clienti con redditi elevati,
gli sportivi professionisti. In generale, ne fanno parte gli utilizzatori più esigenti, poiché più esposti
ai contatti e alle esperienze internazionali. Le dimensioni di un segmento di questo tipo possono
essere molto limitate in alcuni Paesi, ma è la loro somma a renderli attraenti.
Anche se i bisogni sono differenti in ogni Paese, si può vendere lo stesso prodotto in ciascun Paese
ma in segmenti diversi, adottando un posizionamento specifico sulla base di variabili come il
network distributivo, la pubblicità o il prezzo. Questo approccio richiede una serie di notevoli
adattamenti delle strategie di comunicazione e di vendita, aumentandone i costi o comunque
impedendo di beneficiare di una loro diminuzione grazie alla standardizzazione.
Dei tre approcci al problema della segmentazione internazionale, quello della segmentazione
universale (b) è il più radicale e dà all’impresa un vantaggio competitivo significativo, perché il
prodotto e la comunicazione possono essere standardizzati e trasferiti in Paesi diversi. L’azienda
ne guadagna in reputazione e coerenza d’immagine e il posizionamento risulta rinforzato a livello
internazionale.
Un certo grado di adattamento dei prodotti e/o della strategia di comunicazione sarà quindi
necessario nella maggior parte delle situazioni di mercato. L’idea di base della segmentazione
transnazionale può essere cosi sintetizzata: puntare alle somiglianze transnazionali adattandosi
alle differenze locali. Questa prospettiva dovrebbe aiutare il management a determinare le
somiglianze che superano i confini nazionali, ricercando allo stesso tempo le differenze presenti
all’interno di ogni singolo Paese. Si possono adottare tre tipi di politica di prodotto:
Possiamo concludere dicendo che non tutti i prodotti hanno necessariamente una vocazione
universale e alcuni si prestano meglio di altri a una strategia di sviluppo internazionale. Nella realtà
tale vocazione globale di un prodotto, o di una marca, è strettamente legata al carattere
universale del vantaggio ricercato. Nella misura in cui un prodotto soddisfi efficacemente i bisogni
di un determinato gruppo di acquirenti in un Paese, è logico aspettarsi che esso riscuota il
medesimo o quasi successo presso lo stesso gruppo di clienti in altri Paesi, avendo
opportunamente adattato il prodotto alle condizioni, alle caratteristiche e alle normative locali.
Più il prodotto si avvicini ai poli hi-tech/hi-touch, più diventa universale, perché queste due
categorie di beni hanno in comune il fatto di essere prodotti a forte coinvolgimento e ricorrere a
un linguaggio universale. In particolare, i prodotti hi-tech si rivolgono a un pubblico di acquirenti
specializzati che condividono simboli e linguaggio tecnico. La semplice esistenza, quindi, di un
gergo comune facilita la comunicazione e aumenta le probabilità di successo di una marca su scala
globale. Al contrario, i prodotti hi-touch ricorrono più all’immagine che alle caratteristiche
tecniche, ma si basano su temi o bisogni universali, come l’amore, la ricchezza, l’eroismo, il gioco,
ecc. Sono utilizzati per vendere prodotti come profumi, gioielli, orologi, capi d’abbigliamento. Per
queste due categorie di prodotti, in tutto il mondo, i clienti utilizzano e comprendono lo stesso
linguaggio e ricorrono agli stessi simboli e quindi il potenziale di globalizzazione è più facilmente
realizzabile per prodotti che si avvicinano a uno di questi 2 estremi.
E’ una struttura molto usata per organizzare le informazioni raccolte dal sistema informativo
aziendale e dall’ambiente macromarketing su punti di forza, punti deboli (dell’impresa),
opportunità e minacce (ambientali). Elaborata da Andrews, la tecnica consiste in un’analisi basata
su più criteri, simile ai due metodi precedenti, ma con due differenze: è di tipo puramente
qualitativo e non tenta di giungere a misure oggettive o dati sensibili; definisce in modo diverso i
concetti di attrattività (data da fattori esterni) e competitività (data da fattori interni) dell’azienda.
Eseguire quest’analisi significa , infatti, valutare strutturalmente ciò che l’impresa può fare (punti
di forza) e ciò che non riesce a fare (punti deboli) in un dato istante, mettendo in relazione questi
fattori con le condizioni ambientali che favoriscono (opportunità) o sfavoriscono (minacce)
l’azienda stessa. Se eseguita correttamente, l’analisi SWOT aiuta l’azienda a evidenziare i suoi
punti di forza e minimizzare quelli di debolezza, per perseguire le opportunità che si offrono ed
evitare le minacce. I fattori che si possono prendere in esame nell’analisi SWOT sono numerosi e
dipendono dal tipo di azienda e di settore in esame (il Suggerimento applicativo 12.1 pag 274)
Il primo passo da compiere nell’elaborare una strategia di sviluppo consiste nel determinare la
natura del vantaggio competitivo sostenibile, che servirà da punto d’appoggio alle successive
attività strategiche e tattiche. Il vantaggio competitivo può essere definito in rapporto a 2
dimensioni: produttività (vantaggio di costo) e potere di mercato (vantaggio in termini di massimo
prezzo di vendita accettabile). L’interrogativo è il seguente: quale dimensione del vantaggio
privilegiare, considerando le caratteristiche dell’impresa e del prodotto-mercato? La questione
può essere analizzata da due prospettive: quella dei mercati esistenti e quella dei mercati futuri.
La prima visione consiste nella scelta di un mercato o prodotto-mercato, nel quale l’impresa
intende essere presente e nel quale potrà differenziarsi dai concorrenti diretti, esercitando attività
diverse o esercitando le stesse attività in modo diverso. Si tratta quindi di ricercare un “vantaggio
competitivo sostenibile” in un dato prodotto-mercato, analizzandone la struttura competitiva,
chiedendosi in particolare quali siano i punti di forza e debolezza propri e dei diretti concorrenti
rispetto ai fattori chiave di successo in quel prodotto-mercato o segmento considerato.
La seconda visione della strategia ha un carattere più proattivo. In questo caso l’obiettivo è
“sviluppare le migliori previsioni possibili sul futuro, necessarie a forgiare in modo proattivo
l’evoluzione del settore”. La lungimiranza nel settore aiuta i manager a dare risposta a tre
domande critiche: che tipo di beneficio nuovo bisognerà cercare di offrire al consumatore tra 5,10
o 15 anni? Per farlo, quali nuove competenze bisognerà sviluppare o acquisire? Come sarà
necessario ridisegnare il rapporto con il cliente nei prossimi anni? Secondo la “strategia del valore”
di Kim e Mauborgne, è fondamentale che l’impresa trovi delle soluzioni a problemi che i
consumatori non sanno nemmeno di avere, perché scoprire soluzioni innovative significa andare
oltre quelle già in uso, ridisegnando i confini segnati per creare mercati e settori nuovi.
Le strategie di base varieranno a seconda del tipo di vantaggio competitivo ricercato, cioè in base
al fatto che dipendano dalla produttività (di costo) o da un elemento di differenziazione (premium
price). Porter ipotizza che esistano 4 strategie competitive di base per superare la concorrenza
delle altre aziende in un dato settore: la differenziazione, il dominio di costo, la focalizzazione con
differenziazione e la focalizzazione sui costi.
Questa strategia si fonda sulla dimensione della produttività ed è generalmente legata alla
presenza di un effetto di esperienza. Essa comporta un’attenzione costante ai costi di
funzionamento, agli investimenti in produttività che permettano di valorizzare gli effetti di
esperienza, ai costi legati al design del prodotto e alla riduzione dei costi di servizio, vendita,
pubblicità,ecc. In questa strategia si pone l’accento soprattutto sulla definizione di costi inferiori a
quelli della concorrenza, in quanto l’esistenza di un vantaggio di costo rappresenta una difesa
efficace contro le 5 forze concorrenziali, perché sono i concorrenti meno efficienti a subire per
primi gli effetti della concorrenza.
-La differenziazione
Una terza strategia di base è di focalizzazione sui bisogni di un segmento, di un gruppo di clienti o
di un mercato geograficamente delimitato, senza pretendere di rivolgersi a tutto il mercato.
L’obiettivo è quindi di scegliere un target ristretto e di soddisfarne i bisogni specifici meglio dei
concorrenti che si rivolgono alla totalità del mercato. Questa strategia può comportare sia la
differenziazione (focalizzazione con differenziazione) sia il dominio attraverso i costi
(focalizzazione sui costi) o entrambi, ma limitatamente al segmento d’interesse. Una strategia del
genere permette di conquistare, nel segmento target, quote di mercato elevate, che sono però
relativamente basse rispetto al mercato globale.
In generale possiamo concludere affermando che una strategia di dominio di costo presuppone
investimenti sostenuti, un’elevata competenza tecnologica, un rigido controllo dei costi di
fabbricazione e distribuzione e prodotti standardizzati che semplifichino la produzione. Una
strategia di differenziazione richiede invece solide competenze di mkt e competenze tecnologiche
avanzate. La capacità di analizzare e prevedere l’evoluzione delle esigenze del mercato diventa
fondamentale, cosi come il coordinamento interfunzionale delle attività di R&S, produzione e
marketing. Infine, una strategia di focalizzazione presuppone tutte le caratteristiche precedenti,
però applicate a uno specifico segmento target. (fig.12.7 pag 278)
Le strategie di crescita
Gli obiettivi di crescita sono presenti nella maggior parte delle strategie aziendali, che si tratti
dell’aumento delle vendite, della quota di mercato, del profitto o delle dimensioni
dell’organizzazione. La crescita stimola le iniziative, accresce la motivazione del personale e del
management ed è necessaria per sopravvivere agli assalti della concorrenza, grazie alle economie
di scale e agli effetti di esperienza che genera. Un’impresa può definire un obiettivo di crescita a
tre livelli diversi: nell’ambito del mercato di riferimento in cui opera (crescita intensiva);
nell’ambito della filiera industriale, attraverso un’estensione laterale, a monte o a valle della sua
attività di base (crescita integrata); nell’ambito di opportunità esterne al suo campo di attività
abituale (crescita per diversificazione). A ciascuno di questi obiettivi di crescita corrisponde un
certo numero di possibili strategie.
Tale strategia è giustificata per un’impresa che non ha ancora sfruttato completamente le
opportunità offerte dai prodotti di cui dispone nei suoi mercati naturali di riferimento. È possibile
attuare diverse strategie.
Consiste nel cercare d’incrementare o mantenere le vendite dei prodotti attuali nei mercati
esistenti. Si possono seguire diverse vie:
Una strategia di sviluppo incentrata sui mercati si propone di aumentare le vendite introducendo i
prodotti attuali dell’impresa su mercati nuovi o futuri. In questo caso esistono 4 approcci diversi
per realizzare questo obiettivo:
1. Bisogni latenti. Consiste nel proporre soluzioni a bisogni che i consumatori non hanno
ancora percepito o espresso, creando nuovi prodotti e mercati, servendosi di una strategia
di mkt proattiva.
2. Nuovi segmenti di mercato. Prevede che l’impresa si rivolga a nuovi segmenti di clienti (non
serviti) nello stesso mercato geografico.
3. Nuovi canali di distribuzione. Consiste nell’introdurre il prodotto in una rete di distribuzione
diversa, complementare a quelle esistenti.
4. Espansione geografica. Consiste nell’insediamento in altre aree del Paese o in altri Stati.
In genere le strategie di sviluppo incentrate sui mercati si basano principalmente sulle conoscenze
distributive e sulle capacità di marketing dell’impresa.
L’elemento su cui fanno leva queste strategie di sviluppo è quindi essenzialmente il settore R&S.
-Le strategie di crescita integrata
La strategia in questione descrive una serie di accordi di make-or-buy che l’impresa stipula per
ottenere forniture rapide di materie prime strategiche e mercati pronti a ricevere i prodotti finiti.
Si distinguono strategie d’integrazione verticale (a monte e a valle) e strategie d’integrazione
orizzontale (o laterale).
Una strategia del genere è solitamente alimentata dall’intento di consolidare, o difendere, una
fonte di approvvigionamento d’importanza strategica per l’impresa, che si tratti di materie prime,
semilavorati, componenti o servizi. In certi casi un’integrazione a monte è necessaria perché i
fornitori non dispongono delle risorse o della competenza tecnologica necessarie a fabbricare
componenti indispensabili all’attività, oppure quando ci si vuole assicurare l’accesso a una
tecnologia chiave essenziale al successo dell’attività di base.
Una strategia del genere ha come motivazione di base quella di garantire all’impresa il controllo
degli sbocchi vitali per la sua esistenza. Per un’impresa produttrice di beni di consumo si tratterà di
assicurarsi il controllo sulla distribuzione con sistemi di franchising o contratti d’esclusiva, o reti di
punti vendita propri. Nei mercati industriali, invece, l’obiettivo principale è quello di controllare lo
sviluppo delle attività di trasformazione o incorporazione a valle, che costituiscono sbocchi
naturali. Ecco perché alcune imprese di base partecipano alla creazione di imprese di
trasformazione situate a valle della loro attività. Talvolta, però, l’integrazione a valle si pone come
obiettivo semplicemente quello di raggiungere una maggiore comprensione dei bisogni dei clienti
che acquistano i prodotti, creando una filiale che svolge il ruolo di unità pilota, deputata a
comprendere più efficacemente le esigenze dei clienti.
Una strategia di crescita per diversificazione appare giustificata quando la filiera industriale
dell’impresa non presenta più alcuna opportunità di crescita o redditività, perché la concorrenza
occupa una posizione troppo forte o perché il mercato di riferimento è in declino. Una strategia di
diversificazione comporta l’entrata in prodotti-mercati nuovi per l’impresa. Si distingue di solito
tra diversificazione concentrica e diversificazione pura
L’impresa esce dalla sua filiera industriale e commerciale e cerca di aggiungere attività nuove,
complementari a quelle esistenti sul piano tecnologico e/o commerciale. L’obiettivo è quello di
beneficiare degli effetti di sinergia dovuti alla complementarità delle attività, allargando così il
mercato di riferimento dell’impresa e attirando, dunque, nuovi gruppi di clienti.
L’impresa entra in attività nuove che non hanno collegamenti con le sue attività tradizionali, a
livello sia tecnologico sia commerciale. L’obiettivo è in tal caso quello di orientarsi verso settori
completamente nuovi, per rinnovare il portafoglio di attività; tali strategie dunque sono le più
rischiose e le più complesse, perché conducono l’impresa su terreni completamente nuovi, con la
necessità di impiegare consistenti risorse umane e finanziarie.
In linea generale, qualunque strategia di diversificazione riuscita sfrutta in una certa misura la
sinergia derivante dall’attività principale dell’impresa, che secondo Drucker, deve possedere
almeno un punto in comune (mercato; tecnologia; processo produttivo) con la nuova attività per
avere una strategia di diversificazione di successo. La valutazione previsionale delle sinergie di
competenze, talenti e conoscenze tra il settore dell’attività tradizionale e quello nuovo
rappresenta una fase particolarmente delicata nella pianificazione di una strategia di
diversificazione, perché il rischio principale è, infatti, quello di sopravvalutare le sinergie di
competenze esistenti tra le due attività.
Posizione e comportamento dei concorrenti costituiscono dati importanti di cui bisogna tener
conto nell’ambito di una strategia di crescita. Le analisi di competitività permettono di valutare
l’importanza del vantaggio competitivo detenuto dall’impresa rispetto ai concorrenti più pericolosi
e d’identificare i loro comportamenti competitivi. Si tratta ora di sviluppare una strategia basata su
una valutazione realistica delle forze in gioco e di definire i mezzi da impiegare per raggiungere gli
obiettivi definiti. Kotler e Keller distinguono fra 4 diverse strategie competitive, in base alla
consistenza della quota di mercato detenuta: strategia del leader, dello sfidante, del follower e
dello specialista.
Sviluppo della domanda primaria. L’impresa leader è generalmente quella che contribuisce in
modo più diretto allo sviluppo del mercato di riferimento. La strategia di sviluppo della domanda
primaria consiste nello sforzarsi di individuare nuovi utenti del prodotto, di promuovere nuove
forme d’impiego dei prodotti esistenti, di accrescere le quantità utilizzate in ogni occasione di
consumo. Adottando questa linea di condotta, l’impresa leader estende il mercato di riferimento,
il che va in definitiva a beneficio dell’insieme dei concorrenti. Questa strategia si osserverà
soprattutto nelle prime fasi del ciclo di vita del prodotto, quando la domanda primaria è ancora
espandibile, e di conseguenza la tensione competitiva è bassa.
Strategie difensive. L’impresa leader, in questo caso, ha l’obiettivo di proteggere la quota di
mercato contrastando l’attività dei concorrenti più pericolosi. È possibile adottare diverse
strategie di difesa: l’innovazione e il vantaggio tecnologico, in modo da scoraggiare la concorrenza;
il consolidamento del mercato, grazie a una distribuzione intensiva e a una politica di linea volta a
coprire tutti i segmenti; oppure il confronto diretto attraverso guerra di prezzi e pubblicità
comparative.
Strategia di demarketing. Comporta una riduzione volontaria della quota di mercato dell’impresa,
al fine di evitare le accuse di monopolio o di quasi monopolio. Si applica il “demarketing” , allora,
allo scopo di ridurre il livello di domanda per certi segmenti attraverso incrementi di prezzo,
riduzione dei servizi offerti, nonché attività pubblicitarie. Si potrebbe anche diversificare verso altri
prodotti-mercati, in cui l’impresa non detiene una posizione dominante, oppure tentare di
valorizzare, attraverso una strategia di comunicazione o di relazioni pubbliche mirata, il ruolo
sociale dell’impresa nei confronti delle varie componenti del suo pubblico.
Lo sfidante adotta strategie aggressive, il cui obiettivo dichiarato è quello di prendere il posto del
leader. I due problemi chiave che lo sfidante deve affrontare sono: la scelta del campo di battaglia
sul quale attaccare l’impresa leader e la valutazione delle capacità di reazione o difesa di
quest’ultimo.
Nella scelta del campo di battaglia lo sfidante ha due possibilità: attacco frontale (opporsi in modo
diretto al concorrente utilizzando le sue stesse armi, senza cercare di puntare sui suoi punti deboli,
con un rapporto di forze che deve essere nettamente a favore dell’attaccante); attacco laterale
(opporsi al leader su una dimensione strategica rispetto alla quale è debole o impreparato,
colpendo, ad esempio, una rete di distribuzione in cui l’impresa leader non è ben rappresentata o
anche un segmento di mercato nel quale il suo prodotto ha attecchito meno bene). La strategia
classica dello sfidante consiste nell’attaccare l’impresa leader sul piano del prezzo: offrire lo stesso
prodotto, ma a un prezzo sensibilmente inferiore. Tale strategia è tanto più efficace quanto più è
alta la quota di mercato del leader, perché l’allineamento al livello di prezzo più basso lo porta a
sostenere costi rilevanti, mentre lo sfidante, soprattutto se piccolo, subirà solo perdite
proporzionali a un volume ridotto.
Per quanto riguarda, la valutazione corretta della capacità di reazione del concorrente leader,
Porter suggerisce di valutare tale capacità alla luce dei criteri di vulnerabilità (a quali manovre
strategiche, iniziative del governo, eventi settoriali il concorrente sarà più vulnerabile?),
provocazione (quali manovre o eventi provocherebbero un concorrente a tal punto da costringerlo
alla vendetta, nonostante i costi elevati e la scarsa performance economica?) e rappresaglia (quali
iniziative o eventi si potrebbero intraprendere senza determinare una risposta efficace da parte
del concorrente stesso?).
L’impresa che si specializza, s’interessa a uno o più segmenti anziché alla totalità del mercato.
L’obiettivo perseguito è quello di essere un pesce grosso in un fiumiciattolo, piuttosto che un
pesciolino in un grande fiume: è la strategia di focalizzazione, vista precedentemente nel capitolo.
Il concetto chiave è: specializzarsi in una nicchia; una nicchia è redditizia e durevole quando:
presenta sufficienti potenzialità di profitto; possiede un potenziale di crescita; è poco attraente
per la concorrenza; corrisponde alle competenze distintive dell’impresa; dispone di barriere
difendibili all’entrata. Per l’impresa che cerca di specializzarsi, il problema è quello di individuare la
caratteristica o il criterio su cui costruire la sua specializzazione. Tale criterio può ravvisarsi in una
caratteristica tecnica del prodotto, in una qualità distintiva particolare o in un qualsiasi elemento
del mkt mix.
- Nel primo caso, l’impresa si incentra sul mercato interno e l’esportazione viene vista come
un’opportunità eventualmente da cogliere.
- Nel secondo caso, l’internazionalizzazione è più attiva, ma l’impresa è sempre concentrata
sul mercato interno, che resta il suo interesse primario. Una tale impresa ha un
orientamento etnocentrico e ritiene che i metodi, i valori, gli approcci e le persone del
Paese di origine siano trasferibili negli altri Paesi del mondo. L’attenzione è rivolta
soprattutto alle similitudini col Paese d’origine e la strategia di base è una strategia di
estensione del mercato: i prodotti ideati per il mercato nazionale vengono esportati cosi
come sono negli altri Paesi.
- Nel terzo caso, l’impresa è cosciente dell’importanza delle differenze esistenti tra i mercati
e si sforza di adattare la sua strategia di mkt alle particolarità locali. L’interesse dell’impresa
diventa cosi multinazionale e l’orientamento è policentrico. I mercati, in base ad esso, sono
unici e diversi e, per avere successo, è quindi necessario adattarsi il più possibile alle
particolarità nazionali. Ogni Paese ha una sua organizzazione e viene gestito come entità
indipendente.
- Nel quarto caso, si ha un mercato globale, raggiungibile cioè con lo stesso tipo di prodotto
e messaggio di base. Prodotto, tecniche commerciali e promozionali possono richiedere un
adattamento alle abitudini e pratiche locali; l’orientamento geocentrico (o regiocentrico) si
basa sull’ipotesi che i mercati in tutto il mondo siano allo stesso tempo simili e differenti e
che sia possibile sviluppare una strategia globale basata sulle similitudini che trascendono i
particolarismi nazionali, adeguandosi alle differenze locali laddove necessario.
Lo sviluppo internazionale non è più un fatto che riguarda solo le grandi imprese. Per crescere, o
più semplicemente per sopravvivere, molte piccole imprese sono spinte a internazionalizzarsi. Gli
obiettivi possono essere vari: allargare il mercato potenziale (ciò permette di incrementare il
volume di produzione e di ottenere, in tal modo, risultati migliori grazie alle economie di scala
realizzate); l’impresa potrebbe anche avere la necessità di prolungare il CVP del prodotto,
entrando in mercati che si trovano a un diverso stadio di sviluppo del CVP e che hanno ancora una
domanda totale espandibile; l’impresa potrebbe, poi, decidere di diversificare il rischio
commerciale, basandosi su clienti che operano in vari contesti economici e che conoscono
congiunture più favorevoli. Questo per quanto riguarda i clienti, mentre per ciò che attiene ai
concorrenti, l’impresa potrebbe porsi l’obiettivo di controllare la concorrenza, diversificando le
proprie posizioni e monitorando le attività dei concorrenti negli altri mercati. Esiste poi una serie
di obiettivi maggiormente connessi alle attività dell’impresa, come ridurre i propri costi di
approvvigionamento e produzione, sfruttando i vantaggi comparati dei diversi Paesi; oppure
sfruttare una capacità di produzione in eccesso, esportando a basso prezzo verso altri mercati; o,
ancora, di realizzare una diversificazione geografica, penetrando su nuovi mercati con prodotti
esistenti. A questi obiettivi di base va aggiunto il fenomeno di globalizzazione dei mercati, che
stimola le imprese ad approfittare della liberalizzazione dei mercati su scala mondiale.