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Management - Riassunti libro e slide della prof Simone


Cristina
Management (Sapienza - Università di Roma)

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MANAGEMENT:
To manage: sottoporre qualcuno al proprio controllo, realizzare con successo → (maneggiare i cavalli)
Il Manager è colui che maneggia qualcosa con abilità, guidandola in una determinata direzione. Questo è colui che
ha il compito di gestire risorse umane e non e perciò può identificarsi anche in uno qualsiasi dei subordinati.
Il management perciò interviene a rendere i comportamenti auspicati e a ridurre la probabilità di risultati
indesiderati. Questo una volta era visto come l’insieme di gestione, amministrazione e direzione di un’azienda. Oggi
invece managerializzare significa dotare un’azienda di un forte gruppo dirigente, così da fornirle capacità di decisione
e direzione.
LE ORIGINI DELLA DISCIPLINA:
Questa disciplina prende origine nel periodo del gigantismo industriale, periodo caratterizzato dal passaggio da
piccole imprese a grandi industrie. I padri fondatori sono: (capitalismo presente in entrambi)
Henri Fayol, secondo il quale l’azienda può essere descritta tramite operazioni: tecniche (produzione), commerciali,
finanziarie, di contabilità, di sicurezza e direttive. Queste ultime riguardano l’azienda nel suo complesso, è tratta da
tutti coloro che gestiscono risorse. Riguarda perciò tutte le linee tranne l’ultima, che non ha risorse da gestire. In
quel periodo ancora non esistevano istituti di formazione per dirigenti e lui fu il primo a decidere di codificare i
principi secondo lui fondamentali per tramandarli ai futuri manager. Le operazioni direttive sono composte da:
1. La programmazione: cioè scrivere qualcosa prima che accadrà;
Il programma deve rappresentare i seguenti principi: unicità, flessibilità (deve poter cambiare a seguito di
discostamenti da ciò che si era pensato, precisione. Non ha senso fare un programma se poi non c’è un controllo
sullo stesso.
2. L’organizzazione: cioè dotare l’impresa di ciò che le serve per il suo funzionamento;
3. Comandare: effettuare delle deleghe e dare il buon esempio;
4. Coordinare: armonizzare le attività per arrivare al successo;
5. Controllare: verificare l’andamento per correggere difetti sul nascere;
Gli sbagli sono visti da Fayol come un momento di apprendimento in quanto questo punta a formare una dottrina,
mentre da Taylor sono visti come un errore, un vero e proprio fallimento perché non considera la flessibilità e perciò
ogni discostamento dal programma è per errori ai quali non si è rimediato.
I principi generali di direzione sono:
• Ripartizione del lavoro→ specializzazione →economie di apprendimento;
• Autorità e responsabilità, cioè il diritto di comandare i subordinati;
L’autorità deve sia avere una investitura dall’alto, cioè una data posizione all’interno dell’impresa (essere perciò
formale), sia avere le competenze personali adatte per stare al comando (e cioè essere personale). Se non sono
presenti entrambe si ha una destabilizzazione.
• Unicità del comando→ Line e Staff;
Ognuno deve ricevere comandi da una sola persona sennò si viene a creare instabilità. Gli organi dell’impresa
possono essere “di line”, cioè posizionati sulla linea gerarchica e basati su un ordine di grado (ognuno ha un capo, o
“di staff”, cioè posizioni organizzative a supporto dei capi. Questi sono organi consultivi, cioè hanno il potere di idea
ma non di decisione.
• Gerarchia;
• Centralizzazione o decentralizzazione;
Delegare o meno alcuni compiti dando ad altri lo spazio di prendere decisioni.
• Incentivo all’iniziativa e ammissione dell’errore;
• Remunerazione equa dei dipendenti →benessere dei dipendenti.
Egli prende in considerazione l’aspetto sociale all’interno dell’azienda, incentivando le iniziative, ammettendo gli
errori e rispettando le esperienze del subordinato.
L’altro padre di questa materia è Frederick Taylor, secondo il quale ognuno deve essere comandato da ogni
superiore competente in una data materia (più capi). Inoltre, come già, detto, questo vede gli errori come dei
fallimenti e non considera per nulla l’aspetto sociale. Inoltre questo si focalizza di più sulla fabbrica e non
sull’organizzazione.
Il superamento della scuola classica si ebbe con C. I. Barnard il quale vedeva l’organizzazione come un sistema
cooperativo, cioè un sistema che riusciva, grazie all’unione e all’organizzazione degli individui, a superare i limiti dei
singoli. Questo opera a inizi 900, a seguito della crisi del 1929, periodo in cui il capitalismo era molto fragile e le

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imprese erano già “Manageriali”, cioè caratterizzate dalla separazione tra proprietà e controllo manageriale. Con
questo si ha il passaggio dal modello DICOTOMICO (proprietari-dipendenti), ad uno TRICOTOMICO (proprietari-
dipendenti-manager). In questo le decisioni e il controllo sono nelle mani dei manager. Il rischio non ricade in capo a
questi bensì in capo a proprietari ed azionisti. E’ proprio per questo che ai manager spettava un’attività di
mediazione tra organizzazione e stakeholder. I temi maggiormente trattati da questo furono la cooperazione,
l’organizzazione, la comunicazione e il sistema delle decisioni. Le organizzazioni nascono perciò per arrivare dove
non possono arrivare i singoli. Queste non sono una somma di individui ma un sistema cooperativo tramite il quale si
arriva ad obiettivi singolarmente non raggiungibili. Il coefficiente cooperativo può essere visto da un punto di vista
formale, cioè tramite ad esempio accordi con i mediatori progettati nel piano, o da un punto di vista informale, cioè
ad esempio tramite le formazioni di spinoff (manager che formano una propria impresa).
Le organizzazioni si muovono al fine di arrivare all’efficacia (grado di raggiungimento degli obiettivi) nonché
all’efficienza (rapporto tra performance e ricompense).
a. Efficace ed efficiente: la situazione ottimale b. Efficace e non efficiente: raggiungimento degli obiettivi, ma insoddisfazione
personale c. Non efficace ma efficiente: fallimento degli obiettivi, ma soddisfacimento individuale d. Non efficace né efficiente:
la situazione peggiore
L’impegno nell’organizzazione può essere visto tramite il collegamento tra 3 fattori:

CONTRIBUTI
I contributi rappresentano l’impegno messo.

La persuasione mira a far apparire gli incentivi adeguati, a modificare le


aspettative esistenti per incrementare la collaborazione.

Gli incentivi rappresentano sia la remunerazione che la soddisfazione


INCENTIVI PERSUASIONE
personale.

Il manager, ricollegandoci alla persuasione che deve attuare, ha lo scopo di fare allargare la cosiddetta zona di
indifferenza, cioè l’area di disponibilità a seguire gli ordini impartiti dal superiore. Questa è così rappresentata:
opposizione totale adesione totale
I______________________________________I
L’ordine impartito è importante che sia capito, che non sia in contrasto con l’organizzazione, che sia compatibile con
gli interessi delle persone che devono seguirlo e che le persone possano seguirlo (obiettivi realizzabili e realistici).
Il dirigente deve perciò assicurare un sistema di comunicazione, stabilire i fini e garantire e regolare il flusso di
risorse. La decisione deve andare a regolare il rapporto tra i fini ed i mezzi.
La MAPPA sono gli schemi che si adottano, mentre il PAESSAGGIO è la realtà. Il ruolo del management è quello di
riconcettualizzare le mappe (reinterpretare la realtà) e riconfigurare il paesaggio cambiando le regole del gioco.
IL MANAGEMENT COME ATTIVITA’ DECISIONALE:
L’attività principe del manager è decidere, ma per decidere bisogna interpretare la realtà, la quale è ambigua e piena
di distorsioni. Le decisioni manageriali devono essere operative, e perciò correnti, nonché strategiche, cioè basate
sul medio lungo termine. Queste danno luogo a dei risultati che possono essere:
• Economico finanziari: del tipo ROI, ROE, RO, RN;
• Competitivi;
• Sociali;
• Di sviluppo;
Nelle decisioni è presente incertezza nel caso in cui non vi è la possibilità di effettuare calcoli di probabilità dei
possibili esiti, mentre vi è rischio quando le probabilità di ogni scelta sono note.
Il problem solvig si caratterizza sul percorso del calcolo delle probabilità, sulla possibilità di rifarsi a conoscenze, capacità e all’esperienza per confrontare
situazioni e capire così come far fronte al problema. Qui sono noti, oltre al problema anche le condizioni ed i fattori di cui tener conto per raggiungere la
soluzione. Il decision making fa riferimento al percorso da intraprendere per arrivare alla decisione, comporta sia la definizione del problema che le conseguenti
azioni da intraprendere, viene utilizzato per situazioni più incerte.
Herbert Simon è il primo a vedere il management come un’attività di decisione. Questo si focalizza sulle decisioni
dalle quali discendono i fatti ed eventuali obiettivi raggiunti. Questo attua una distinzione tra:
• UOMO ECONOMICO: con razionalità assoluta, il quale attua decisioni complete conoscendo qualsiasi tipo di
alternativa e conoscenza. Questo arriva sempre ad una scelta Ottima. (non è un modello realistico)
• UOMO AMMINSITRATIVO: con razionalità limitata, il quale è consapevole del costo delle informazioni e di
non poter paragonare tutte le alternative possibili in quanto ha conoscenze parziali e frammentate. Le

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preferenze dello stesso possono variare e non sempre sono ordinabili, per questo arriva ad una decisione
che è soddisfacente e non ottima.
L’uomo descritto da Simon è tendenzialmente razionale e perciò focalizzato sulla soddisfazione.
Qui il sistema è complesso, cioè composto da un elevato numero di parti che interagiscono in modo non lineare.
L’analisi del singolo non aiuta a comprendere il tutto. Questo sistema complesso è caratterizzato da: proprietà
emergenti (studiare l’albero non mi fa capire la foresta), non linearità (una piccola variazione comporta cambiamenti
sostanziali), retroazione (difficoltà nel distinguere causa e effetto) e varietà, variabilità, ambiguità e incertezza.
La varietà è rappresentata da differenti tipologie della stessa categoria. → principio della varietà necessaria e rischio
di scarsa varietà.
La variabilità rappresenta quei cambiamenti nel tempo che possono essere predicibili o meno. Questa ha natura
dinamica e fa riferimento come dice Sange a quegli eventi ovvi che danno luogo a risultati non ovvi, o a quelle azioni
che hanno risultati diversi nel breve o lungo periodo, o ancora quei punti dello stesso sistema che possono portare a
risultati diversi. → ESEMPIO DEL CIGNO NERO, questo ha una bassa probabilità di presentarsi ma grande impatto se
se ne vede uno. Pensare che tutti i cigni siano bianchi, solo perché non ne abbiamo mai visto uno, rappresenta un
limite dettato dall’esperienza un cosiddetto “Effetto framing” (decisioni prese retrospettivamente).
L’incertezza e l’ambiguità derivano dall’impossibilità di prevedere il futuro in quanto un minimo cambiamento di una
sola componente può portare alla variazione dell’intero sistema.
In generale i problemi non sono presenti in natura, sono frutto della mente umana. Qualsiasi cosa ci porta a
prendere delle decisioni anche partendo dal numero di aspetti del problema da considerare stesso, chiamata
perimetrazione, cioè l’andare a definire cosa sta dentro e cosa fuori dal nostro problema.
L’ambiente psicologico della decisione è composto da delle premesse cognitive che condizionano la selezione e la
strutturazione del problema, nonché le conseguenze. Qui possiamo dividere i giudizi in:
• Giudizi di valore: esprimono preferenze che dipendono da fattori etici, culturali, … Nono sono verificabili e
sono soggettive e perciò possono essere condivisi o meno;
• Giudizi di fatto: fanno riferimento a date o ad informazioni verificabili/confrontabili e sono perciò oggettivi.
Attuando un processo decisionale, noi ci andiamo a focalizzare sui giudizi di valore, in base alle nostre preferenze.
Esistono diversi tipi di problemi:
• Docili o addomesticabili (strutturati): caratterizzati da fattori definibili, la soluzione è chiusa e i feedback
sono noti e ovvi;
• Malvagi o perfidi (non strutturati): il decisore deve rilevare i fattori più importanti e la soluzione può essere
diversa in base a ciò che viene considerato. Ogni decisione rappresenta un mezzo per una ulteriore
decisione, spetta al decisore decidere quando fermarsi. Qui i feedback non sono né noti né scontati.

L’organizzazione viene utilizzata in questi sistemi detti complessi, nei quali a seguito della risoluzione di un problema
può venirsene a creare un altro (retroazioni). I problemi possono essere impostati tramite:
• Schemi lineari di causa effetto A→B→C→D
• Schemi non lineari ad anelli di rotazione A→B
DC

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• Schemi basati su interrelazioni che servono a vere i processi di cambiamento:


• Schemi basati su feedback, che possono essere di due tipi:
o Di stabilità o equilibrio, basati su dei processi di riequilibrio nascosti che fanno tornare il sistema allo
status quo. In questi è importante individuare le fonti di resistenza al cambiamento;
o A escalation o rafforzativa, nel quale gli effetti reagiscono allontanando il sistema dall’equilibrio.
Essendo presente la razionalità limitata negli individui, l’interpretazione della realtà non è molto precisa. Sono
presenti dei fattori che ci fanno vedere con “Opacità”, questi sono l’illusione della comprensione, l’illusione del
controllo, illusorietà delle correlazioni e distorsioni retrospettive (collegate all’esperienza passata).
Anche gli scostamenti più piccoli possono portare alla rottura del sistema, è perciò fondamentale conoscere il punto
di rottura.
Per varietà informativa si intende l’insieme omogeneo di informazioni di cui ognuno di noi è direttore.
Il sistema delle 4C, ci spiega di quali condizioni del contesto bisogna tener conto, queste sono: il caos, la complessità,
la complicazione e la certezza. Questo grafico rappresenta una sintesi dell’azione del potenziale intellettivo
all’aumentare dell’entropia dovuta dall’incessante flusso di informazioni e tale da attivare il processo che conduce
alla produzione di conoscenza.
ABDUZIONE: il decisore ha capito il problema e arriva
ad una ipotesi risolutiva;

INDUZIONE (scoperta): l’ipotesi viene sottoposta a


test e se accade nella realtà ciò che ci aspettiamo
viene applicata al problema;

DEDUZIONE (controllo): l’ipotesi confermata


dall’esperienza diventa parte di una tecnica, di un
modello operativo.

Il processo decisionale richiede di dovere passare queste 4 fasi:


1. non si è ancora focalizzato il problema = caos;
2. non si sa cosa fare (complessità →momento abduttivo);
3. si ha un’ipotesi (complicazione → momento induttivo);
4. la verifica ha dato esito positivo (certezza→ momento deduttivo)
Esistono due livelli di apprendimento:
1. Single loop learning: Gli individui rispondono all’errore modificando in parte il proprio comportamento ma
sempre all’interno di un sistema statico di norme, valori, assunti di base → apprendimento superficiale
2. Double loop learning: Oltre a risolvere il problema, vengono messe in discussione i valori e le norme
generalmente accettati che sono alla base dell’errore, in modo da evitare le condizioni per l’insorgere
dell’errore → profondo apprendimento
L’effetto framing è uno degli errori comportamentali più diffusi. Le decisioni differiscono in base alle modalità con
cui il problema viene incorniciato. Possono essere maggiormente evidenziati diversi aspetti del problema.

LE STRATEGIE
La strategia viene definita come l’arte della guerra, è il piano di azioni per arrivare ad obiettivi nel lungo termine.
(se si fa riferimento al breve termine vengono dette “tattiche”)
L’ambiente che circonda l’impresa è composto da tutte le variabili ambientali che ne influenzano decisioni e risultati.
Bisogna andare ad effettuare un’analisi strategica dell’ambiente per prima cosa, andando a vedere:
• L’ambiente generale, che è dato da un insieme di macro variabili che la singola impresa non può influenzare
ma che condizionano la vita della stessa (ambiente naturale, culturale, il clima, la struttura sociale, …)
• Il settore o l’ambiente operativo, cioè quello che influenza e si fa influenzare dall’impresa; è composto da
fornitori, concorrenti, clienti, partner e così via;
• Le qualità, quali la variabilità dell’ambiente, (instabilità/stabilità, incertezza, turbolenze, predicibilità), le
capacità (ambiente ricco/povero, tollerante, …) e il grado di interconnessione tra le variabili.

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L’ambiente è una rappresentazione della realtà ed è influenzato anche da quelle variabili e elementi non visibili. Il
vertice strategico ha il compito di selezionare una parte di ambiente (il contesto) e su questo impostare il disegno
strategico. L’ambiente è funzione delle informazioni raccolte, della loro organizzazione ed interpretazione, viene
definito perciò come un prodotto cognitivo del management.
Lo spettro delle strutture di settore è così rappresentato:

Un prodotto si può differenziare da un altro in base alla sua natura fisica, alla sua qualità, al brand e così via. Tramite
queste caratteristiche si può arrivare ad avere una redditività maggiore.
L’analisi del settore è rilevante a livello di:
• Strategia di gruppo: per decidere in che settori è profittevole operare;
• Strategia di business: ricerca dei fattori critici di successo per il raggiungimento del vantaggio competitivo
sostenibile nel tempo all’interno di un determinato settore.
IL MODELLO DELLE 5 FORZE COMPETITIVE DI PORTER:
E’ uno schema di analisi che
individua un set di forze che
influenza l’andamento del
settore.

Sono presenti 3 forze


orizzontali che limitano il
potere di mercato e 2 forze
verticali (fornitori a monte e
acquirenti a valle).

Questo schema ha dei limiti: in questo tutto vinee utilizzato in chiave competitiva, tutto è statico (non viene spiegato
come cambiano i rapporti di forza), dal lato della domanda non va preso in considerazione il prodotto “non
sostituibile”, dal lato dell’offerta si può avere un collegamento tra prodotti che pur non essendo richiesti dalle stesse
tipologie di clienti, può essere conveniente produrli congiuntamente.
LA RETE DEL VALORE

Ci mostra che l’impresa crea valore


condividendo tecnologie e competendo
sul mercato.

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Il ciclo di vita di un settore esplica la dinamicità dei rapporti di forza. Questo si sostanzia in:
INTRODUZIONE→SVILUPPO→MATURITA’→DECLINO

Porre in essere gruppi strategici significa raggruppare imprese all’interno dello stesso settore in base alle
caratteristiche ce le accomunano e alle strategie simili. Questi si possono attuare in base a:
• L’ambito di attività: ampiezza della gamma di prodotti, vastità dei mercati, …;
• L’impiego di risorse: se innovano o si adattano, se investono in marketing, …;
L’utilità dell’analisi strategica, mi aiuta a capire quali strategie sono vincenti e quali perdenti. Questa si sostanzia in:
• Comprensione delle caratteristiche della concorrenza: andare a identificare i concorrenti e capire su quali
settori bisogna focalizzarsi;
• Analisi delle opportunità strategiche: vedere quali rappresentano maggiore redditività e se sono presenti
spazi vuoti;
• Analisi delle barriere alla mobilità: vedere i movimenti tra i gruppi strategici;
Le Resource Best-View (RBV) ci dicono da dove scaturisce il vantaggio competitivo e ci spiegano l’andamento delle
performance (LOW o TOP). L’analisi parte dall’idea che le imprese arrivino tutte a performance uguali (elemento di
debolezza). In realtà si hanno dei risultati eterogenei con livelli di redditività diversi che possono perciò portare a
performance dette Low o Top. Questo modello ci spiega perciò il differenziale di competitività sulla base di set di
risorse che alcune imprese hanno rispetto ad altre. Il vantaggio competitivo viene definito come una posizione di
superiorità creata e mantenuta nel medio-lungo periodo, superiore a quella dei concorrenti. Le risorse sulle quali
questo si poggia possono essere di diverso tipo: risorse fisiche, cognitive/tecnologiche, umane
(creatività/esperienza) e basate sulla reputazione e sulla fiducia. Anche per quanto riguarda le capacità, possiamo
classificarne diverse come ad esempio quelle funzionali (di specializzazione), di coordinamento, di apprendimento e
di riconfigurazione.

Le risorse core sono quel tipo di risorse non imitabili, non


trasferibili, eterogenei (non perfettamente distribuite nello
spazio) e tenute nel tempo.

AMBIGUITA’ MECCANISMI DI IMITABILITA’


CAUSALE ISOLAMENTO INCERTA

E’ la difficoltà per un competitor Protegge l’impresa dagli Se non riesco ad aggirare l’isolamento
di collegare lo schema sopra al attacchi imitativi. Può essere si arriva a questa situazione. Non
vantaggio competitivo della aggirato violando le regole di riesco a ricollegare perciò:
concorrente, cioè non riesce a mercato. -Il vantaggio competitivo alle capacità
capire quale sia la fonte del core;
vantaggio. Questa può essere: -Le capacità alle risorse core;
-TACITNESS: conoscenze tacite o Tanto più il vantaggio competitivo è
nascoste; multidimensionale tanto meno è
-SPECIFICITA’: es accordi; possibile capirlo ed imitarlo.
-COMPLESSITA’ di informazione.
= MECCANISMI DI ISOLAMENTO

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SERENDIPITY: trovare qualcosa che non si sta cercando. Vede perciò l’esperienza come un apprendimento,
un’occasione accidentale che ci porta a delle scoperte. Questa richiede un allenamento continuo delle proprie
capacità e conoscenze, nonché l’ascolto attivo di noi stessi e dei nostri obiettivi.

Henry Mintzberg ci parla di diverse concezioni di strategie. Fino agli anni 80, fare strategie, significava fare un piano,
trattare informazioni future, determinare gli obiettivi nonché le risorse future. La strategia era perciò basata sulla
pianificazione. Questa però funziona solamente in un contesto statico e non in uno caratterizzato da instabilità. E’
per questo che Mintzberg ci propone una diversa concezione di strategie.

Dal passaggio dalla strategia iniziale a quella


realizzata, ci sono ulteriori fasi secondo questo.
(prima ci si fermava alla strategia intenzionale)
La strategia non realizzata è la parte di strategia
intenzionale che non è stata attuata a seguito di
uno scostamento dal piano. La strategia emergente
invece è quella che deriva dalla serendipity. Non fa
parte del piano originario, viene fuori da un
apprendimento da mettere in atto.

Secondo Mitzberg perciò nella strategia realizzata, sarà presente una parte che si discosta da quella intenzionale in
quanto una parte di questa viene persa ma ne viene subito dopo acquisita un’altra solitamente migliore.
Esistono due livelli diversi di strategie decisionali:
• Livello corporate: nei quali si sceglie in quali settori giocare e da quali uscire;
• Livello di business: nei quali si sceglie come giocare nel settore; →(es. ASA1= area strategica di affari 1)
Gli obiettivi di quest’ultima sono la redditività, acquisire una quota di mercato e la responsabilità sociale. Le attività
essenziali del livello di business sono: la produzione, l’organizzazione, gli approvvigionamenti, la finanza, la ReS,
l’amministrazione e il controllo, la progettazione e il marketing. Queste possono seguire:
▪ Leadership di costo: a parità di prodotto si cerca di operare i costi più bassi per abbassare i prezzi;
Si basa su economie di saturazione, cioè il giusto utilizzo dell’impianto (al massimo delle sue capacità senno spreco
risorse), economie di scala e di apprendimento, nonché tecnologie di processo (meccanizzazione ed automazione).
Bisogna poi andare a progettare il prodotto in modo tale da poter risparmiare anche attribuendogli un elevato grado
di modularità, cioè possibilità di scombinazione e ricombinazione delle componenti. Bisogna prestare attenzione al
costo degli input cioè vantaggi di localizzazione, vantaggi della prima mossa, cooperazioni nonché all’efficienza
residuale, cioè la capacità di eliminare le risorse libere per arrivare alla massima condizione di efficienza.
▪ Leadership di differenziazione: si cerca di creare un prodotto percepito come il migliore dal cliente che
permette perciò all’impresa di alzare i prezzi.
VENGONO DETTE IBRIDE QUELLE STRATEGIE CHE SI BASANO SU ENTRAMBE LE LEADERSHIP.
Qui il vantaggio competitivo poggia su due aspetti: la qualità e l’efficienza.
LA CATENA DEL VALORE DI PORTER:

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Questo modello ci permette di descrivere la struttura di un’organizzazione come un insieme limitato di processi.
Rappresenta 9 attività di cui 5 primarie e 4 di supporto (in quelle di supporto orizzontali mancano gli
approvvigionamenti cioè le attività preposte all’acquisto delle risorse necessarie). Le attività primarie sono quelle
strettamente legate alla creazione del valore. Ogni attività è vista come un anello sul quale si fanno considerazioni in
termini di costo.
A livello corporate invece possiamo trovare strategie di:
▪ Integrazione verticale: Sia con integrazioni ascendenti che discendenti siamo in situazione
strategiche di crescita e di sviluppo.
Il profilo dell’integrazione verticale tratta del rapporto tra input ed output
tra i diversi stadi produttivi. Esistono 3 tipi di integrazione:
• Verticale perfetta: se con l’integrazione si soddisfa l’intero
fabbisogno. A seguito di questa si diventa indipendenti dal mercato.

• Verticale parziale: se non si soddisfa integralmente il fabbisogno e


perciò rimango dipendente dal mercato ma in maniera meno ampia.

• Verticale eccedente: se la parte che viene integrata supera il mio


fabbisogno e perciò ad esempio, se si tratta di integrazione verticale
a monte, produco più materie prime di quante me ne servono e
perciò mi avanzano e posso rivenderle →creo un nuovo business.

Fa parte dell’integrazione verticale il problema del Make or Buy. Questo fa parte dell’economia dei costi di
transazione (Williamson), che sono quei costi di informazione per utilizzare il mercato. Questa permette do vedere
l’impresa come una struttura di governo delle transazioni. L’impresa è una forma di governo delle transazioni
alternativa al mercato. Le transazioni sono trasferimenti di beni o servizi attraverso unità tecnologicamente
separate; una fase dell’attività termina e subito ne inizia un’altra. Il dilemma qui è se continuare ad acquistare
prodotti o iniziare a produrli internamente. A seguito della crisi del mercato di massa, a seguito dell’avvento del
modello toyota, l’integrazione verticale inizia a diventare disintegrazione verticale (le imprese non riescono a tenere
sotto controllo tutte le curve di valore di ogni anello). Arrivando ad una saturazione del mercato, la sfida, non
crescendo più la domanda, diventava sui costi. E’ così che inizia l’outsorcing o esternalizzazione (da imprese
integrate a disintegrate). Per capire quali economie tenere dentro e quali fuori, bisogna attuare una perimetrazione
del confine efficiente, a seguito della quale bisogna comparare i costi di produzione, cioè di trasformazione fisica da
A a B del prodotto, e i costi di transazione, che sono quei costi di coordinamento e informazione. Questi possono
essere visti sia ex ante, tramite la ricerca della controparte, la raccolta delle info sui prezzi e così via, sia ex post, quali
costi di controllo, di adempimento. Si ha un punto di indifferenza tra mercato e Gerarchia (impresa) e cioè tra make
or buy quando ∆CP+∆ct=0.
I comportamenti opportunistici, il non rispetto dei tempi, l’aumento dei prezzi e la diffusione di informazioni
riservate portano alla crisi del mercato, dalla quale discente un’integrazione verticale (gerarchia);
L’ipertrofia burocratica, una macchina organizzativa troppo grande e complessa e un’eccessiva conflittualità con la
manodopera porta alla crisi della gerarchia, dalla quale discende un’esternalizzazione (mercato).
Questo processo è ciclico in quanto dalla crisi della gerarchia discente l’esternalizzazione, dalla quale discende la crisi
di mercato, dalla quale discende l’internalizzazione e così via ricominciando.
Make or Buy non sono però le uniche due opzioni che abbiamo. Possiamo anche rifarci a forme ibride, cioè accordi
collaborativi tramite i quali si possono gestire in maniera efficiente i confini, come le joint venture, i franchising e
legami di partnership; questi hanno elementi sia di mercato che di gerarchia e prevedono interazioni nel lungo
termine. Rappresentano accordi volontari di cooperazione tra 2 o più imprese, finalizzate al raggiungimento di un
vantaggio competitivo, tramite la messa in comune delle loro risorse e capacità. Si viene perciò a creare una
dipendenza reciproca tra le imprese che mettono a punto l’accordo. Mettendo in atto un’alleanza strategica si:
• Condividono i rischi e i costi;

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• Elaborano conoscenze ed innovazioni;


• Accede a conoscenze e capacità di altre imprese;
• Apprende dai concorrenti;
• Entra in mercati o aree geografiche nuove;
• Riduce l’incertezza
I rischi però possono essere diversi come ad esempio l’opportunismo.
Gli accordi che si possono mettere in atto possono essere:
✓ Complementari: se i portafogli sono omogenei, se si completano;
✓ Supplementari: se le aziende convogliano risorse della stessa natura;
✓ Competitivi o non: se competono sullo stesso mercato o meno;
✓ Orizzontali e cioè competitivi;
✓ Verticali e cioè tra fornitori e clienti;
✓ Trasversali cioè tra aziende che lavorano in settori molto distanti (solitamente da questi si hanno output
molto innovativi);

▪ Diversificazione:
o Di prodotto: può essere attuata a seguito di:
▪ Una logica dominante: cioè un filo rosso che accompagna le scelte di diversificazione;
▪ Economie di varietà: cioè lo sfruttamento di risorse di un business per realizzare valore in un
business diverso; (ripartire i costi fissi su più famiglie di prodotti)
▪ Sussidi incrociati: cioè business che si supportano l’un l’altro (con un business già avviato ci
finanzio quello nascente o in difficoltà)
Qui vi è una condivisione di risorse le quali possono essere tangibili, quali impianti e macchinari, o intangibili quali
brevetti o marchi. La diversificazione può essere fatta in base a prodotti:
✓ Correlati: cioè se hanno interdipendenze tecnologiche o di mercato;
✓ Non correlati: (conglomerata) se i business non hanno nulla in comune e comportano così una
diversificazione del rischio.
In base al grado di diversificazione, si possono distinguere diversi tipi di diversificazione:
➢ Limitata:
1. Single business: se più del 95% dei ricavi sono generati da un solo business;
2. Dominant business: se i ricavi di un solo business sono il 70/95% dei ricavi totali;
➢ Correlata:
1. Stretta: se ogni business genera meno del 70% dei ricavi e le varie ASA condividono numerosi
collegamenti e caratteristiche comuni;
2. Collegata: se ogni business genera meno del 70% dei ricavi e le varie aree di business condividono
pochi collegamenti e caratteristiche comuni o differenti legami e caratteristiche comuni;
➢ Non correlata (conglomerata): se ogni business genera meno del 70% dei ricavi ma non ci sono collegamenti
tra questi.
Quando due o più imprese diversificate giocano nello stesso business si può arrivare ad una multipoint competition:

Con questa si arriva ad una guerra incrociata. Ad ogni mossa ci si può


aspettare una contromossa in un settore diverso, competendo entrambe in
più settori uguali. In questi casi ci si può comportare in due modi:

➢ No attack: attuando una tolleranza reciproca;


➢ Business attack: rischio di guerra ad escaletion che può portare a
grandissime perdite.

A supporto dei manager che hanno diversi business nel portafoglio dell’impresa ci sono 2 matrici:

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LA MATRICE GENERAL ELECTRIC:

Nell’asse delle X abbiamo l’attrattività,


che è una variabile esogena che
rappresenta l’ambiente esterno.
Questa accorpa una serie di sotto
indicatori come la qualità delle risorse, i
cambiamenti di mercato, ecc.

Nell’asse delle Y abbiamo la


competitività che si riferisce a variabili
endogene.

Questa matrice indica delle mosse strategiche da adottare. Nella parte gialla il marcato è in crescita e ci sono
finanziamenti; nella parte grigio scuro bisogna decidere e riflettere su cosa tenere e cosa dismettere mentre nella
parte grigio chiara il mercato è in declino e perciò bisogna ridimensionare ed eventualmente abbandonare.
La rappresentazione avviene tramite dei cerchi, che rappresentano i business, i quali sono collocati in base al
punteggio ottenuto nelle variabili. La grandezza del cerchio dipende dal fatturato dei vari business in vista di quello
totale.
LA MATRICE BCG:
Questa è semplificata rispetto degli indicatori. Prende in
considerazione solo una variabile e cioè la crescita di mercato
(attrattività) e la quota di mercato (competitività →nella GE
conteneva diverse variabili).
Le stelle si hanno quando il mercato è in crescita e abbiamo una
quota molto elevata.
Le mucche cassiere lavorano in mercati saturi in cui abbiamo
elevate quote di mercato e perciò abbiamo flussi di cassa molto
elevati, a seguito dei quali possiamo sostenere start up.
I cani lavorano in un mercato in declino e in una posizione non
florida. E’ bene uscire dal mercato.
Nei punti di domanda è possibile diventare o cani o stelle.
o Per area geografica: INTERNAZIONALIZZAZIONE:
▪ Gerarchica: creazione di sedi operative in nuovi mercati;
▪ Comunicativa: digitalizzazione delle reti;
▪ Mercantile;
La GLOBALIZZAZIONE ha portato ad un aumento dell’interdipendenza reciproca tra le varie aree geografiche, stadi
ed economie del mondo. Questa interdipendenza può essere:
➢ Da competitività, se le performance di un paese o di un’impresa sono legate alle performance di altre;
➢ Da complementarietà, se le catene del valore delle diverse imprese sono disperse e non più accentrate nello
stesso punto. Il valore viene creato da anelli gestiti in diverse parti del mondo (dislocazione);
Le motivazioni a seguito delle quali si diversifica geograficamente sono legate:
• Alla domanda, cioè alle caratteristiche del mercato. Sia interna che esterna;
• All’efficienza, cioè ai diversi corsi del lavoro, delle energie, alle diverse normative, attrattività e così via.
Il marcato estero è caratterizzato dalla sua grandezza e dalla sua rapida e continua crescita; da una concorrenza non
troppo aspra nonché con domanda e stagionalità opposta e quindi cronologicamente complementare.
L’internazionalizzazione può essere:
• Aggressiva: cioè effettuata tramite una manovra di sviluppo. Si ha quando si è alla ricerca di nuovi sbocchi, di
nuovi mercati e nuovi clienti. Si sostanzia nell’apertura di nuove sedi operative vicino ai clienti;
• Difensiva: manovra volta a non perdere ciò al quale si è arrivati fino a quel momento. Si difende l’efficienza
interna e si delocalizza per tenere i costi sotto controllo.
Questa si può avere tramite esportazioni dirette o indirette, investimenti diretti esteri o forme ibride, cioè accordi
collaborativi.

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IL MODELLO UPPSALA si basa sull’apprendimento organizzativo. Questo ci dice che inizialmente le imprese sono più
reversibili, poi, man mano che acquisiscono conoscenza ed esperienza, adottano forme interne sempre più rischiose
e meno reversibili. Ai primi stadi le imprese entrano nel mercato straniero utilizzando risorse minime per
minimizzare i rischi, andando a selezionare paesi vicini al mercato domestico.
Le EMM (Emergign Market Multinational) sono delle imprese nate in mercati emergenti con attività in almeno un
paese estero.
LA STRATEGIA OCEANO BLU ci dice che l’unico modo di battere la concorrenza è smettere di battere la concorrenza.
Questa strategia si basa sulla definizione di due tipi di oceani: quelli rossi rappresentano tutti i settori esistenti, nei
quali lo spazio di mercato è conosciuto e i confini del settore sono definiti e accettati, nonché le regole del gioco
competitivo sono note; quelli blu, caratterizzati da settori sconosciuti in cui lo spazio di mercato è incontestato e i
confini sono ridefiniti nonché le regole da inventare. Attuare una strategia di oceano blu significa creare uno spazio
nuovo di mercato per aggirare la concorrenza e creare e acquistare una nuova domanda. L’innovazione di valore è la
colonna portante della strategia. Si è affidato a questa strategia il Cirque du Soleil, il quale è andato a creare un
nuovo spazio di mercato caratterizzato da un misto tra teatro e circo. Le caratteristiche di una buona strategia si
basano su un focus di pochi fattori strategici e sulla divergenza con la curva del valore rispetto ai competitors. Per
attuare una strategia del genere bisogna:
• Attuare un’analisi dei gruppi strategici;
• Attuare un’analisi in ambito di attività e impiego di risorse per individuare top performer e low performer;
• Attuare un’analisi delle opportunità strategiche;
• Attuare un’analisi della catena degli acquirenti;
• Attuare un’analisi dei non clienti per renderli clienti;

DAL LAVORO ARTIGIANALE ALL’INDUSTRIA 4.0:


Un modello produttivo è un complesso sistema di decisioni su: impianti, organizzazione della manodopera,
procedure di programmazione dei cicli di acquisto, controllo e stoccaggio, qualità, logistica, rapporti con i fornitori e
grado di integrazione verticale. I paradigmi produttivi sono modelli generali di rapporto tra lavoro, tecnologia,
output e articolazione della catena del valore cui le imprese hanno conformato e conformano la loro funzione di
produzione, indipendentemente dal settore economico. I diversi paradigmi produttivi che si sono conseguiti nella
prospettiva storica sono diversi e i passaggi tra questi non sempre si è avuto con uno spiazzamento bensì alcuni si
sono evoluti mantenendo elementi di continuità e similarità.
1. LA PRODUZIONE ARTIGIANALE: fino a metà del 1800
L’artigiano è colui che esegue in sequenza tutte le operazioni necessarie per fabbricare un prodotto. Questa è una
persona che governa l’intero processo produttivo e conosce tutte le procedure per trasformare l’input in output.
Questo conosce perciò un mestiere completo, produce prodotti unici nel loro genere con costi elevati e conseguenti
prezzi elevati data la scala molto ridotta di produzione. Questo soggetto ha autonomia decisionale nel proprio lavoro
ed ha la libertà di sperimentare. Questo sviluppa la sua bravura con l’esperienza e decide da sé come distribuire il
suo tempo.
A seguito della prima rivoluzione industriale questo paradigma entra in crisi e si passa a quello successivo:
2. LA PRODUZIONE TAYLOR-FORDISTA: (fine 1800)
In questo modello l’interazione sociale è annullata, si hanno rapporti solamente con le macchine. Il lavoro è
standardizzato ed è presente una catena di montaggio, dalla quale discendono determinati tempi da rispettare. Il
prodotto non è più diverso l’un l’altro ma diventa standardizzato passando ad una produzione così detta di massa.
Aumentando la produttività aumentano anche i profitti ed i consumi e si inizia ad instaurare un approccio negoziale
con i fornitori. E’ qui presente un rapporto competitivo in seguito al quale si cerca sempre di spuntare il prezzo più
basso. Questa è l’epoca del gigantismo industriale nel quale i macchinari diventano sempre più grandi e le catene di
montaggio sempre più lunghe. I lavoratori sono persone non specializzate, non sindacalizzate ed analfabeti che
vengono sfruttati e sottopagati e apprendono guardandosi l’un l’altro. Ognuno lavora in base ai propri schemi
mentali e la produzione ne risente. Taylor riformula il lavoro per arrivare all’efficienza ed a profitti maggiori. Tramite
l’osservazione e lo studio dei processi utilizzati nella fabbrica nella quale lavorava, questo capisce che il lavoro
poteva meglio organizzarsi se si andava a frantumare in piccoli segmenti e andando ad assegnare un singolo
segmento ad ogni singolo lavoratore, il quale aveva quel solo e unico compito per l’intera giornata lavorativa. Il
lavoro diventa così standardizzato, il lavoratore inizia a conosce solo uno dei miliardi di passaggi della produzione e si
arriva a formulare un ufficio di programmazione e controllo che andava a misurare il tempo entro in quale si doveva

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compiere ogni operazione. Questo modello ebbe il suo massimo splendore con Ford, il quale collegò i principi della
OSL alla catena di montaggio, a seguito della quale si ebbe un incremento di efficienza enorme. Si veniva a stabilire
una produzione detta di massa che prevedeva la vendita di prodotti tutti uguali. I fornitori delle imprese fordiste
erano in competizione tra loro e avevano interesse solamente al breve termine. L’apoteosi di questo tipo di
produzione si ebbe dagli anni 40 agli anni 70, il cosiddetto trentennio d’oro. Questa fu anche l’epoca del
consumismo, a seguito del quale anche il ceto medio basso poteva permettersi di comprare beni che altrimenti non
avrebbero mai potuto comprare. Il compromesso fordista garantiva la pace sociale e assistenza di ogni tipo a patto
che nessuno attuasse lotte sindacali.
Questo modello entra in crisi con le grandi crisi petrolifere. I consumatori iniziano a richiedere una customizzazione
dei prodotti e perciò una diversificazione degli stessi in base alle singole preferenze.
3. LA PRODUZIONE SNELLA (TOYOTA) (dal 1870 in poi)
E’ in un mercato saturo e maturo che prende piede il modello giapponese Toyota, a seguito del quale avviene il
passaggio dal mercato del produttore a quello del consumatore. Questa fabbrica si focalizzò su i 6 zeri: 0 stock, 0
difetti, 0 conflitto, 0 tempi morti, 0 tempi d’attesa e 0 cartacce. I tre pilastri di quella che a seguito di questi 0 venne
chiamata produzione “snella” sono:
a. Il JIT→ il flusso non deve fermarsi mai, non devono essere presenti tempi né morti né d’attesa. La
produzione deve essere organizzata con tempistiche precise. La materia prima deve arrivare nel
momento esatto nel quale deve essere utilizzata (0 stock);
b. AUTONOMAZIONE → autonomia + automazione
Autonomia in quanto l’operaio ha la possibilità di bloccare la catena di produzione, automazione in
quanto ci si basa sulla tecnologia frugale, in base alla quale il macchinario è progettato in maniera
semplice e può essere riparato da un qualsiasi lavoratore.
c. QUALITA’ TOTALE → la qualità è presente in ogni passaggio all’interno di queste imprese.
In questo modello è presente interazione sociale. Il lavoratore ha la possibilità di lavorare in diversi settori in maniera
tale da saper svolgere più fasi della lavorazione. Non essendoci un magazzino tutte le inefficienze vengono fuori
subito (tubo di cristallo). Questo sistema è un sistema aperto che cerca di migliorare di volta in volta (taylor
fordismo= sistema chiuso e one best way). I rapporti con i fornitori possono essere rappresentati tramite degli anelli.
Questi sono basati sulla fiducia e sulla trasparenza, vengono selezionati non solo sul prezzo ma sulla capacità
collaborativa e in un’ottica di lungo termine. E’ presente una gerarchia della fornitura. Il primo anello fornisce
toyota, il secondo fornisce il primo e così via. Il primo anello è responsabile dei suoi fornitori. Se ci sono dei guadagni
in termini di efficienza, si dividono e condividono tra le imprese che collaborano. Vengono condivise informazioni
progetti e miglioramenti.
4. INDUSTRIA 4.0:
Viene a chiamarsi 4.0 perché si vuole sottolineare l’avvento della quarta rivoluzione industriale. La prima fu
caratterizzata dalle macchine a vapore, la seconda dal gigantismo industriale, la terza dall’informatizzazione e la
quarta la stiamo vivendo ora. Questa proviene da un progetto di sviluppo strategico tedesco ed è connotata da una
forte integrazione tra uomo e sistemi cibernetici che si auto organizzano e auto riparano e reagiscono ai
cambiamenti ambientali auto adattandosi. Si parla di realtà aumentata e intelligenza aumentata facendo riferimento
a dispositivi che ci permettono di cogliere aspetti che non possono essere colti solo con i nostri sensi.

Non c’è una rinuncia allo slack ma un appoggio su quello intangibile. Sono presenti cicli di apprendimento multiplo
quali: uomo-uomo, uomo-macchina e macchina-macchina (le macchine apprendono tra loro senza l’aiuto
dell’uomo). I processi che caratterizzano il passaggio all’industria 4.0 sono:

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Le tecnologie additive
permettono di
costruire oggetti strato
dopo strato
depositando materiale
partendo dalla base.
Non offrono economie
di scala. Queste sono
tipiche delle stampanti
in 3D. Altre macchine
utilizzano tecnologie di
sottrazione che tramite
testine rotanti portano
via materiale per
costruire l’oggetto.
La Peer Production (P2P). Le tecnologie distribuite possono essere definite come un arcipelago di applicazioni, sia
computazionali che multimediali, indipendenti e altamente interoperabili e diffuse in rete tra un elevatissimo
numero di utenti che non sono in rapporto gerarchico. Queste sono armi di collaborazione di massa che sono legate
alla auto organizzazione. Le tecnologie distribuite realizzano vere e proprie infrastrutture cooperative in quanto
consentono su base volontaria a decine, centinaia, migliaia di soggetti dispersi geograficamente di co-creare, in
modalità sincrona e/o asincrona, un vasto ventaglio di output immateriali ad elevato grado di non rivalness, inclusa la
soluzione di problemi altamente complessi e, più in generale, la produzione di nuova conoscenza. Il termine è stato
coniato dal Prof. Yochai Benkler della Scuola di legge di Harvard per descrivere un nuovo modello economico di
produzione nel quale l’energia creativa di un grande numero di persone è coordinata con l’aiuto delle tecnologie
distribuite in grandi e significativi progetti, per lo più senza la tradizionale organizzazione gerarchica (e spesso, ma
non sempre, senza compensazione economica o con una compensazione decentralizzata). (es wikipedia)
Il Labirinto rizomatico è una metafora dell’industria 4.0. (rizoma= pianta le cui radici si espandono orizzontalmente e
si collegano tra loro). Questo può essere ricollegato ad una tecnologia nata in un punto che si ricollega
orizzontalmente con una nata in un altro generando nuovi settori.
Un nuovo paradigma pone come sfida l’individuazione di nuove conoscenze e capacità. Il lavoro sarà sempre più
protetto, creativo e relazionale e questo creerà marginalità per coloro che non hanno specializzazione e
competenze.
Da anni si lavora sul profilo di management del T-SHAPED PROFESSIONAL, caratterizzato da una competenza
specialistica in almeno un campo disciplinare legata a competenze tecniche tipiche di una professione. In un mondo
rizomatico non bastano più le sole competenze specialistiche, bensì c’è bisogno di Bridge capabilities cioè capacità in
grado di collegare orizzontalmente le competenze ricombinandole in maniera originale. Questo va a creare la
cosiddetta capacità a T che connette nuove idee a nuovi aspetti. Gli schemi generali rendono possibile il
collegamento tra una disciplina e l’altra, creano un ponte tra barre verticali e sviluppano nuovi schemi disciplinari e
nuove competenze. La produzione è caratterizzata da linearità, proveniente dalla fluidità del processo:

Il Life Cycle Costing (LCC) rileva tutti i costi sostenuti da un prodotto nel corso del suo intero ciclo di vita. Le fasi sono:
progettazione, produzione, vendita e assistenza al cliente e abbandono del prodotto.

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CONOSCENZA, INNOVAZIONE E CAMBIAMENTO:


L’innovazione è il motore del vantaggio competitivo.
L’economia della conoscenza è un tipo di sistema economico basato su:
• La globalizzazione (transterritoriale);
• L’aspetto locale (territoriale);
• Il passaggio da economie settoriali a transettoriali;
Questa si rifà ai criteri della non rivalità (cioè l’utilizzo da parte di un soggetto non compromette l’utilizzo da parte di
altri → la conoscenza non si esaurisce), non escludibilità (possibilità di controllare il flusso di conoscenza ad esempio
tramite brevetti) e cumulabilità (le nuove conoscenze hanno radici in conoscenze pregresse. La conoscenza si
accumula per dar luogo a nuovi processi produttivi). La protezione della conoscenza che avviene tramite i brevetti fa
sì di non far catturare ad altri il valore della conoscenza creato da una persona, senza sostenere uno sforzo.
Alcune tesi sono a favore del recingimento della conoscenza, quali ad esempio tesi del diritto naturale o del
monopolio temporaneo per incentivare l’innovazione e per far sì che ci sia un premio per colui che ha innovato; altre
invece affermano che la conoscenza è un bene pubblico globale (BPG) ed essendo tale, una recinzione posta intorno
alla conoscenza è dannosa per il genere umano→ meccanismi di brevetti devono essere eliminati perché creano un
monopolio artificiale senza generare un benessere per la collettività.
Il problema della conoscenza è che non c’è una relazione stabile che collega gli input con gli output perché non
riesco a quantificarla. I contenuti della conoscenza possono essere definiti come:
• KNOW WHAT: è il linguaggio che mi permette di comunicare
• KNOW HOW: è la conoscenza di processo.
• KNOW WHY: è la conoscenza grazie alla quale so spiegare la CAUSA e l’EFFETTO. So spiegare l’effetto
casuale→ se non capisco il legame tra causa ed effetto allora non so dire il perché di un problema. Se sbaglio
questo sbaglio strategia.
• KNOW WHO, WHERE: definisce in quali persone o luoghi è presente la conoscenza.
I modi di espressione della conoscenza possono essere:
• TACITA: è legata all’esperienza del singolo non codificata e con un basso grado di mobilità;
• ESPLICITA: è legata a conoscenze codificate, ad esempio il brevetto. Questa viaggia su un supporto cartaceo
o elettronico, indipendentemente da chi ha sviluppato la conoscenza stessa e perciò ha un elevato grado di
mobilità oltre che di codificazione.
Possiamo inoltre dividere le conoscenze in:
➢ Critiche: sono legate all’apprendimento consapevole; sono basate su innovazione dell’azione e di
esplorazione;
➢ Paradigmatiche: sono basate su un apprendimento fiduciario; sono conoscenze stabili che non vengono
messe in discussione in quanto sono date per scontate da chi le trasmette;
Il confine tra questi due tipi di conoscenze è stabilito dal grado di docilità e di innovazione che caratterizza la singola
impresa. Le strategie di governo di una data impresa possono basarsi sullo sfruttamento di conoscenze pregresse
(exploting), a seguito del quale le innovazioni avvengono solo raramente (→ rimango in una zona di comfort
caratterizzata da curve di apprendimento, imitazione, diminuzione di costi e risparmio di risorse), o tramite la
creazione di nuove conoscenze e perciò l’esplorazione (exploring)→(in questo caso devo crearmi dei problemi per
riuscire a dargli nuove soluzioni).
Per bilanciare queste due possono decidere di
attuare un’organizzazione ambidestra/ibrida,
tramite la quale coniugare al meglio i processi
innovativi con una elevata standardizzazione

L’innovazione è vista dalle imprese come lo strumento chiave per aumentare i profitti e le quote di mercato. Questo
si sostanzia in un fenomeno lento, difficile, a seguito del quale si trae beneficio solo dopo molto tempo ma a seguito

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del quale si acquista molta competitività. Occorrono dei modelli interpretativi sia per stimolarla che per governarla
strategicamente.
Invenzione→ nuova idea che pone le basi per avere un vantaggio economico;
innovazione→ è la dimensione applicativa dell’invenzione, nella quale viene applicata una nuova idea e si arriva ad
un beneficio economico;

Incrementale Radicale
Se attua miglioramenti rispetto agli standard. Se determina una rottura con i prodotti/processi/modelli esistenti.
Di prodotto Di processo
Creazione di un nuovo prodotto. Creazione di un nuovo modo per
realizzare un prodotto.
Queste classificazioni con cui leggiamo la realtà sono affette da una intrinseca ambiguità, infatti spesso questa è
frutto di un gruppo di invenzioni e innovazioni tra loro indipendenti (cumulatività).
Le tecnologie inoltre possono essere identificate come:
➢ Dedicata: se creata per uno specifico mercato.
➢ Generale: se la tecnologia serve più imprese in settori diversi contemporaneamente, migliora le
performance di tutti i settori interessati;
Non sempre l’innovatore è colui che consegue il premio e non sempre i profitti derivanti dall’innovazione vanno
all’innovatore. Secondo la dinamica Schumpteriana, è vero che l’innovatore crea un monopolio per difendere la sua
innovazione dai concorrenti ma è pur vero che questi potrebbero prendere delle idee dalla stessa e ricrearla in
maniera migliore. E’ perciò sempre presente una tensione tra innovazione e imitazione che però viene vista in
maniera positiva in quanto corrisponde ad uno stimolo per il successo. Attuare un’innovazione vera e propria è
molto costoso nonostante dia molti extraprofitti; attuare invece un’imitazione è una maniera più rapida per avere
una buona innovazione con un poco dispendio che da alcuni extra profitti. A seguito della possibilità di imitare però
gli incentivi ad innovare diminuiscono in quanto non sempre colui che investe arriva ad una innovazione e non
sempre, anche qualora ci arrivi, può goderne dei risultati in quanto può essere imitata e migliorata da altri.
Le risorse complementari sono asset che supportano le Core innovation, cioè quelle innovazioni centrali dalle quali
può discendere un vantaggio competitivo. Se questa innovazione centrale non si combina con degli asset di
supporto, il rischio per l’innovatore è quello di non riuscire a recuperare il valore che ha investito nella core
innovation perché qualcuno può sostituirsi a lui.
Possono attuarsi diverse strategie anche su quella che è l’economia della conoscenza, queste possono essere:
• Strategie proprietarie: l’impresa tiene sotto controllo lo sviluppo del prodotto e ne guida l’evoluzione;
• Strategie aperte: è presente un’interazione continua con l’esterno tramite la quale si condividono e
diffondono le innovazioni sviluppate passo passo;
• Strategie di parziale apertura;
Le innovazioni “chiuse” sono quelle che avvengono all’interno dei confini aziendali e che fuoriescono solo quando
sono collocabili sul mercato (→fossilizzazione e rischio di falsi negativi);

mentre le innovazioni “aperte” si basano sull’interscambio di conoscenze sul mercato con i partner (→viene a
crearsi a seguito della riduzione del ciclo di vita dei prodotti e dell’aumento dei costi in ReS).

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La MAPPA DELLA TRANSILIENZA ci dice come l’innovazione impatta sulle competenze di mercato e sulle tecnologie.
A seconda di come impatta su queste, vengono a configurarsi diverse tipologie di innovazione:
1) STRUTTURALE = spesso da nuovo a nuove industrie, settori o segmenti;
2) INCREMENTALE= migliora la tecnologia ma è facile da imitare;
3) CHE CREA NICCHIE= migliora le tecnologie esistenti, stabilisce un monopolio temporaneo nel segmento;
4) RIVOLUZIONALE= rinforza le competenze di mercato attuale.
I modelli stage gate prevedono che il processo di sviluppo di una innovazione sia suddiviso in un insieme prefissato di
fasi (stage), intervallate da momenti di controllo (gate).

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LA LOGISTICA:
In campo militare riguarda il rifornimento, i movimenti e i mezzi di trasporto degli eserciti. Alla fine degli anni 50,
nasce la necessità di assicurare alti livelli di qualità e affidabilità dei prodotti, garantendo una tempestiva consegna al
cliente che porta la logistica ad assumere un importante ruolo strategico all’interno dell’impresa, generando valore e
contribuendo al successo del sistema impresa. Questa perciò riguarda lo spostamento di materiali e beni nello spazio
e nel tempo. I processi chiave della stessa sono:
• L’approvvigionamento: l’identificazione delle fonti di fornitura e la gestione del rapporto con i fornitori
nonchè l’acquisto delle materie prime;
• La gestione delle scorte: il ricevimento di materie, lo stoccaggio e la movimentazione interna delle stesse;
• La distribuzione fisica: ricevimento e stoccaggio prodotti finiti, preparazione alle spedizioni, trasferimento
materiali dai magazzini ai depositi e poi dai depositi al cliente;
Il percorso evolutivo della logistica si divide in 3 periodi fondamentali:
➢ La logistica tradizionale: la responsabilità per le attività logistiche è di competenza di aree funzionali diverse,
scarsamente coordinate tra loro. La frammentazione delle responsabilità provoca sacche di inefficienza,
dovute a sovrapposizioni di attività e perseguimento di obiettivi contrastanti. (a Silos)
➢ La logistica integrata: nasce da una riconcettualizzazione della logistica avvenuta intorno agli anni 60. Con
questa si ha l’integrazione delle attività fisiche, gestionali e organizzative. Si punta a organizzare il ciclo
produttivo in maniera sistemica, si supera la logica stock per la logica flow e si basa sulla customer
satisfaction (bisogna andare a soddisfare la richiesta del mercato) e sulla creazione del valore
E’ questo il periodo in cui viene a crearsi LA MATRICE DI PETER KRALJICH: Rischio di approvvigionamento: fa
riferimento alla probabilità di acquisire
e avere dunque la disponibilità le
risorse nei tempi utili e desiderati
dall’impresa V/S impossibilità di non
poter ottenere le risorse nei tempi e
modi a lei consoli.

Sulle ordinate: Importanza strategica


del materiale acquisito, fa riferimento
all’impatto che quel materiale ha sulle
dinamiche di profitto dell’azienda.

In questa matrice troviamo diversi tipi di materiali:


-CON EFFETTO LEVA: sono reperibili facilmente ma molto importanti per il paniere del cliente;
-STRATEGICI: sono difficili da trovare a causa della grande competizione tra gli acquirenti. →si punta ad una stabilità
con i rapporti con i fornitori;
-NON CRITICI: si trovano facilmente sul mercato;
-COLLI DI BOTTIGLIA: non sono facilmente reperibili ma non hanno molta validità strategica;
• Il supply chain management: emerge negli anni 80 e si basa sull’ampliamento dei mercati geografici di
acquisto e vendita, sul decentramento produttivo, sulla moltiplicazione dei luoghi di approvvigionamento e
sulla diversificazione dei mercati di assorbimento dei prodotti. La supply chain è la rete di organizzazioni
coinvolte, attraverso collegamenti a valle e a monte, nei diversi processi e attività che producono valore
sotto forma di prodotti e servizi per il consumatore finale. Questa è una funzione integratrice che connette i
principali processi all’interno dell’azienda e attraverso le aziende in un modello di business coesivo e
performante.

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Per attuare la supply chain serve un sistema informativo sempre aggiornato che garantisca la tracciabilità. Gli
strumenti SCM utilizzati sono: sistemi ERP, CRM ed E-procurement. L’obiettivo del SCM è l’ottimizzazione della
delivery al cliente, perseguibile attraverso una diminuzione delle giacenze, una riduzione dei costi totali di
produzione e il miglioramento della soddisfazione del cliente.
Anche in questa ci si pone il problema di Make or Buy, se outsourcing o insourcing.

Le funzioni logistiche primarie sono il trasporto ed il magazzinaggio, mentre quelle di fine linea sono il flusso fisico,
composto da post assemblaggi, configurazioni e kittizzazioni, e il flusso informativo, composto dalla gestione dei
processi relativi al trattamento dell’ordine, l’interfacciamento diretto con il cliente ed i servizi di assistenza post
vendita. Gli operatori chiave sono:
• Il carrier: spedizioniere che si occupa di trasporti;
• Il fornitore di servizi logistici integrati: specialisti che gestiscono in maniera unitaria le fasi di logistica e
supportano le imprese nell’accesso ai mercati di approvvigionamento più convenienti;
• Il Fourth party logic provider: progettisti di rete e negoziatori di relazioni con operatori specializzati;

IL MARKETING:
E’ il processo di management che individua, anticipa e soddisfa le esigenze dei clienti in modo efficace e redditizio.
Questo ha l’obiettivo di valorizzare le relazioni di mercato: deve creare valore ed essere un processo condiviso. Il
marketing diventa molto importante a seguito dello spostamento del mercato da una produzione cosiddetta di
massa, caratterizzata dal mercato del produttore, ad una cosiddetta snella, caratterizzata dal mercato del
consumatore. La frontiera è rappresentata dal marketing relazionale, cioè quello che si occupa della creazione,
mantenimento e rafforzamento delle relazioni con acquirenti, fornitori e altri partner dell’impresa, con una
prospettiva di lungo termine. Grazie a questo si ha la possibilità di mantenere relazioni stabili e durature con la
clientela, promuovere così la fedeltà all’acquisto e garantirsi la ripetizione dell’acquisto stesso.

Possiamo distinguere diversi tipi di


marketing:

• ANALITICO;
• STRATEGICO;
• OPERATIVO;

Marketing analitico
Si occupa di identificare, di comprendere il comportamento del consumatore, attuale o potenziale. Il
comportamento può essere studiato a livello individuale, di singolo individuo, o in chiave di gruppo. Si tiene conto
del comportamento del consumatore inserito in un contesto sociale più ampio (es. famiglia, con gli amici, nelle
organizzazioni. B to B, imprese che vendono ad altre imprese). Il marketing analitico studia, inoltre, anche il
comportamento del singolo o del gruppo i mentre utilizza un bene/servizio (comportamento post-acquisto), nonchè i
benefici (materiali, psicologici, sociali) che il consumatore attende dall’acquisto di un determinato bene.
Sono importanti anche le variabili culturali, quindi in che contesto avviene tutto ciò.

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Marketing strategico
Riguarda le decisioni prese a livello di direzione generale (in quali segmenti si va ad operare, quali sono i clienti).
Le tre grandi decisioni (processi) che costituiscono nel loro complesso il marketing strategico sono:
➢ Segmentazione: individuare porzioni di mercato (ottica: domanda) con comportamenti omogenei, cioè simili
(comportamento d’acquisto, profittabilità, tassi di crescita simili).
➢ Targeting: scegliere segmenti di mercato (in o out) in cui si vanno a impiegare le risorse.
➢ Posizionamento: come si vuole far percepire dai potenziali o attuali clienti. Ha a che fare col rapporto con il
mercato.
La segmentazione (è soggettivo, frutto di un’analisi strategica accurata) consiste nella individuazione di porzioni di
mercato con comportamenti omogenei. L’omogeneità si riscontra in comportamenti simili e nella profittabilità.
È una disaggregazione dei mercati in porzioni specifiche.
1) Identificazione delle variabili chiave di segmentazione;
2) Costruzione di una matrice di segmentazione (strumento utile ai manager che li prepara alla fase successiva,
il targeting).
Attenzione agli errori che si fanno in queste fasi. Le matrici non sono mai “giuste” o “sbagliate” (regola generale). Le
scelte devono essere coerenti con il prodotto o il servizio che si vuole porre sul mercato. Non ci devono essere
sovrapposizioni dei diversi segmenti (ambiguità). Non deve essere troppo spinta, altrimenti il targeting è troppo
ristretto (segmenti insignificanti dal punto di vista dell’attrattività).
Le basi della segmentazione (set di variabili che guidano i manager nel definire il segmento):
1. Caratteristiche geografiche o base geografica di segmentazione (regione, popolazione, clima);
2. Caratteristiche (base) demografiche (età, reddito, genere F o M, titolo di studio, etnia);
3. Caratteristiche psicofisiche (stile di vita);
4. Benefici attesi e comportamento (fedeltà, comportamento d’acquisto, utilizzo)
L’impresa si pone come domanda: che tipo di beneficio si aspetta il cliente dal mio bene/servizio?
In base alle scelte attuate per la segmentazione si hanno risultati diversi.
La matrice di segmentazione ha normalmente due o tre dimensioni, quindi si basa si due o tre variabili. In questa
posso decidere di basarmi sui paesi più simili o posso decidere di fare una cross-national segmentation, andando a
ricercare gli elementi comuni trasnazionali (enfatizzando i comportamenti invece del paese).
In base al Targeting, l’impresa valuta i segmenti di mercato e sceglie quelli più attrattivi in base alle sue risorse e
capacità. È una fase di valutazione, in cui ci si domanda: quali risorse mi chiede un determinato segmento? Chi sarà il
mio competitor? C’è una domanda insoddisfatta?
1) Per avviare questa fase viene attuato il modello delle cinque forze competitive di Poter (analisi per ogni
segmento individuato);
2) Identificazione dei fattori critici di successo (FCS) del segmento;
3) Scelta del segmento obiettivo.
Con riferimento a questa ultima fase, si può procedere verso due strade differenti:
➢ Molteplicità di segmenti
Benefici: ripartizione del rischio, economie di scala ed economie di varietà;
Rischi: defocalizzazione, perdita di immagine (banalizzazione del brand).
➢ Specializzazione (uno, massimo due, segmenti)
Benefici: economie di specializzazione (possibilità di diventare un leader);
Rischi: possibilità di non conseguire economie di varietà e, in caso di crisi del segmento, non si può far leva su un
altro business.
Marketing differenziato e indifferenziato

Il marketing indifferenziato si ha in quei settori meno reattivi e


meno costosi;
Il marketing differenziato si fa in quei settori più reattivi ma
anche più costosi;
All’interno si hanno delle strategie intermedie a seguito delle
quali è bene trovare un equilibrio tra standardizzazione (il più
possibile) e differenziazione (solo dove necessario).

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Problema del marketing: standardizzare o differenziare (porre l’azienda in posizione a sostenere maggiori costi,
perdita di economie di scala e di efficienza).
Trade off sempre presente in azienda.
Il posizionamento è il processo che cerca di interpretare quella che è l’immagine del prodotto che hanno i clienti.
Mira a costruire l’immagine e vuole capire come questo prodotto o servizio venga percepito dal cliente (obiettivi).
Si possono individuare tre diverse strategie:
➢ Reverse: punta ad eliminare alcuni aspetti drastici (scontati) di servizio al cliente e ad aggiungere nuove e
diverse specificità che non sono offerte dai competitor (oceano blu);
➢ Breakaway (fuga): punta a creare confusione, creando così curiosità, attirando l’attenzione del consumatore;
➢ Stealth (segreto, qualcosa di nascosto): creare un’immagine del prodotto per poi andare a mano a mano a
svelare le sue caratteristiche di base, essenziali.
Lo strumento che si usa per il posizionamento è la mappa di posizionamento/mappa percettiva. Tra le funzioni
troviamo:
• Aiutano i manager/responsabili del marketing a comprendere/leggere e ad interpretare l’opinione/giudizio
dei clienti rispetto ai prodotti concorrenti e del prodotto dell’impresa stessa (prodotti in competizione);
• Aiutare i marketers a capire in che modo le persone scelgono, perché si comportano in un certo modo
(Abitudine? Tradizione? Prezzo?);
• Capire se ci sono set di caratteristiche di prodotto che non sono state prodotte dal mercato (C’è un vuoto di
offerta?) → aree di offerte non presidiate.
Gli approcci al posizionamento (la mappa ci dà un fronte visivo: visual management).
Le variabili che possono essere messe a croce sono: le caratteristiche del prodotto (gusto, eleganza, resistenza), la
qualità e il prezzo e gli utilizzatori.

In questo esempio ci sono due dimensioni: qualità e


prezzo. Vengono fuori quattro quadranti. Nell’analisi si
collocano i diversi prodotti/brand e si può vedere come
stanno messe all’interno della mappa, come si
rapportano.

Marketing operativo
Va a tradurre in azione gli altri tipi di marketing (analitico e strategico).
Si avvale delle quattro P:
➢ Prodotto;
➢ Prezzo;
➢ Promozione (pubblicità, comunicazione);
➢ Place (distribuzione): canali distributivi.
Gli attributi del prodotto:
• Strutturali; sono sotto la responsabilità del marketing e della
• Esteriori; progettazione/produzione/R&S.
• Di servizio. *

*Parte intangibile, usata per agevolare ed invogliare all’acquisto (può fare la differenza).
Il problema tipico del marketing: la tensione tra standardizzazione e tra adattamento.
Per il marketer (responsabile dei ricavi), il quale viene coinvolto nel processo di creazione del prodotto, sarebbe
ideale adattare (customizzare) il prodotto al cliente, al segmento. Si deve ragionare su tutte e tre le tipologie di
attributi. Questa esigenza comporta un aumento dei costi (più c’è adattamento, più aumentano i costi per l’azienda),
dato che si deve resettare la macchina, cambiare il materiale (incide sulla produzione) → tensione classica tra
marketing e produzione.

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Logica della produzione: efficienza, riduzione dei costi, economie di scala, learning by doing, riduzione del prezzo.
Logica del marketing: differenziazione di prodotto, adattamento del segmento, aumento dei costi.
C’è tensione tra produzione e marketing, infatti bisogna creare un bilanciamento tra queste due parti.
Il prezzo è espressione del valore monetario (moneta). Non è la variabile chiave in cui ruotano le logiche di
marketing, perché questo guarda un’altra variabile che è il valore.
In particolar modo, al marketing interessa il rapporto tra prezzo e valore percepito dall’acquirente.
Si hanno quattro concetti di valore:
➢ Monetario: il prezzo (dollari, euro, sterline);
➢ Percepito: quali sono i benefici funzionali e simbolici del prodotto;
➢ Reso: valore percepito al netto di costi sostenuti per l’acquisto del prodotto;
➢ Di scambio: lo sforzo che il consumatore sostiene per acquisire un determinato prodotto (oltre lo sborso
economico per il bene stesso, es. informazioni, viaggio in macchina, pagamento del parcheggio). Il prezzo più
tutti i costi sostenuti.
Il marketing non deve focalizzarsi solo sul prezzo, ma tutto il valore di scambio e il beneficio che il cliente vuol trarre.
Per fare confronti con i competitor si deve tenere conto di questi fattori, oltre che il prezzo (analisi più articolata).
Le determinanti per istituire un dato prezzo:
• Esterni: struttura del mercato e concorrenza, domanda e il suo grado di elasticità rispetto al prezzo e
influenze delle politiche governative;
• Interni (dipendono dall’efficienza interna): curve di costo, ciclo di vita del prodotto, grado di sfruttamento
dell’impianto, scelta del portafoglio prodotti, qualità, impatto ambientale.
Un altro aspetto collegato alla variabile del prezzo è quello del modo in cui l’azienda si approccia alla creazione del
prezzo. Si distingue tra due approcci:
• Approccio tradizionale: l’azienda definisce le caratteristiche del prodotto, poi si va a definire
progettualmente il prodotto e a ingegnerizzare (come si arriva al prodotto finito, come svilupparlo), si
procede poi alla stima dei costi e dopodiché analizza la profittabilità.
È l’approccio utilizzato prevalentemente fino agli anni ’70 (mercato del produttore), ad un certo punto il
mercato diventa mercato della domanda (del cliente), quindi si è diffuso sempre di più il target costing.
• Target costing: la prima preoccupazione è cosa vuole il mercato, quanto è disposto a pagare il consumatore
per un certo prodotto, che cosa si aspetta/vuole.
Si parte dal mercato (cosa fanno gli altri, se ci sono prodotti simili, potenziale quota di mercato), si inizia dal
marketing analitico, si analizzano i comportamenti del consumatore. Dopodiché si procede con la definizione
del allowable cost (vincolo di costo) che è il costo sostenibile/ammissibile, cioè oltre il quale non si può
andare, per realizzare un certo prodotto. Si definisce poi il target cost, vuol dire il massimo a cui si può
arrivare e, infine, c’è la progettazione e la ingegnerizzazione.
Il processo è rovesciato.
Il target costing nasce con la lean production, richiede infatti di rivedere la progettazione in caso di errori (nel
momento in cui si passa da produzione di massa a produzione snella).
Promozione: pubblicità comunicazione. Tutto ciò che l’azienda comunica al consumatore.
Place (distribuzione): permette al consumatore di avere a disposizione il prodotto (mercato).

ORGANIZZAZIONE:
Organizzare vuol dire affrontare problemi di carattere predicibile e non predicibile che dobbiamo gestire come se
fossero problemi ignoti. Fanno riferimento all’organizzazione quei problemi che si rifanno all’ordinamento del
fattore umano nell’azienda attraverso la definizione di compiti, poteri e responsabilità di ciascuna persona operante
in essa e il loro coordinamento.
Problemi fondamentali:
- Problema legato alla divisione;
- Coordinare;
- Controllare.
Il livello di analisi parte dal micro e arriva al macro.
Le posizioni individuali sono un punto di accumulo di compiti e responsabilità. Il Compito è un elemento non
scomponibile ulteriormente, lo identifichiamo come l’insieme delle attività umane necessariamente collegate, in
relazione alla proprietà del lavoro umano e alla tecnica impiegata. La dimensione fondamentale del compito è la

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standardizzazione, scomposizione e standardizzazione dei tempi. La formalizzazione si ha quando la parcellizzazione


viene codificata. Per la standardizzazione invece, il compito deve essere programmabile.
La mansione è l’insieme di compiti aggregati in relazione ad uno scopo. Questa viene progettata rispetto a quattro
macro-variabili:
➢ Varietà: posizione che ha più compiti all’interno →dimensione orizzontale (la dimensione verticale tratta del
grado di autonomia lasciato al lavoratore);
➢ Variabile: è una posizione che può cambiare;
➢ Interazione sociale: interazione e comunicazione degli operai durante lo svolgimento del lavoro;
➢ Significatività: importante perché riguarda la costruzione del sé, processo che rende i lavoratori parte
dell’organizzazione. Possibilità di lavoratore di attribuire un senso al proprio operato.
Abbiamo tre metodologie per progettare le mansioni:
➢ Job enlargement: lavora sulla dimensione verticale, c’è una aggiunta di compiti alla mansione, viene
ampliata e diviene più varia, significa anche che la mansione diventa meno routinaria e consente quindi di
aumentare anche la significatività della mansione; (dimensione orizzontale)
➢ Job enrichment: riguarda la dimensione verticale, rendere la dimensione più ricca, maggiore potere
decisionale alle risorse umane; (dimensione orizzontale)
➢ Job rotation: ruolo particolarmente importante nel momento di superamento della produzione di massa e
introduzione della produzione snella, per rendere il lavoratore partecipe a quel lavoratore possono essere
assegnate più mansioni. Questo processo consente di affiancare ai lavoratori dei lavoratori con particolari
conoscenze e permetterne l’acquisizione.
Specializzazione verticale e orizzontale possono essere combinate tra di loro dando luogo a differenti tipologie:
- Posizioni operative: caratterizzate da conoscenze tecnico- specialistiche di livello più o meno elevato;
- Posizioni gestionali: caratterizzate da conoscenze manageriali;
- Posizioni miste.
Abbiamo diversi tipi di interdipendenze:
- Generica: esistono per il semplice fatto di appartenere alla stessa organizzazione
- Da risorse: riguardano una scelta di diversa natura, scelta di accentramento o decentramento. Es: accentrare
risorse significa consentire economie di scala ma anche irrigidire la struttura.
- Da conoscenza: Lo stesso possiamo dire per la conoscenza, accentrare la conoscenza vuol dire permettere
una maggiore risolvibilità del problema
- Da workflow:
o interdipendenze sequenziali: sono
interdipendenze lineari ragionando in termini
di input e output.
o Interdipendenze reciproche: c’è un processo
di feedback ad esempio tra uffici
o Intensiva: tipologia di interdipendenza in cui
crea una rete di legami

Intensità interdipendenze: maggiore è la frequenza, necessità di costruire il link comunicativo maggiore sarà
l’intensità.
Meccanismi di coordinamento:
1) Reciproco adattamento: meccanismo più semplice perché è basato sul legame informale tra le risorse ma
paradossalmente anche più complesso poiché problemi per i quali non c’è una metodologia certa di risoluzione
hanno bisogno dello scambio informale e quindi della creazione della conoscenza tacita. Le unità attraverso lo
scambio informale si adattano.
2) Supervisione diretta: collegamento tra manager e unità che sono alla base. Gli ordini passano dal livello gerarchico
superiore a quello inferiore. Questo tipo di autorità si chiama autorità legittima o anche formale ed è diversa
dall’autorità della leadership che viene dal basso. Nell’esercizio di questa autorità bisogna tenere da conto le
condizioni per i quali l’ordine sia rispettato:

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- Sia capito
- Non in contrasto
- Compatibile con gli interessi
- Le persone siano in grado di eseguirlo
3) Standardizzazione: c’è il ruolo dell’analista, il quale osserva il processo, lo scompone e lo divide in fasi.
Possiamo avere tre tipi:
- Compiti: così come veniva nell’organizzazione scientifica del lavoro;
- Output: quando si danno dei valori previsionali (es. ricavi, profitto);
- Input: standardizzazione della cultura: insieme di elementi tangibili e intangibili;

La progettazione organizzativa: progettare significa decidere/prendere decisioni rispetto al numero e all’ampiezza e


la collocazione delle componenti dell’organizzazione e definire in che modo controllare. Un primo elemento da
tenere in considerazione è lo Span of control: abbiamo organizzazioni tall o flat. L’organizzazione tall è fortemente
gerarchizzata a differenza di quella flat. L’adozione di un modello o dell’altro dipende dal tipo di risorse umane che
abbiamo a disposizione. Una struttura flat è una struttura dove i meccanismi di coordinamento sono più realizzabili,
c’è possibilità di generare più conoscenza perché c’è possibilità di comunicare facilmente.
Variabili su cui impatta la scelta del tipo di organizzazione:
- Motivazione;
- Avanzamenti di carriera: impercettibili nella struttura tall;
- Competenze dei subordinati: con una organizzazione tall riduciamo la possibilità di scambio e quindi di generare
conoscenza;
- Carico di lavoro sostenibile dal capo: una struttura accentrata crea un accumulo di compiti e responsabilità al
vertice e una situazione di conflitto latente e di asimmetria informativa.
Definire il potere decisionale vuol dire stabilire se, quali e quante decisioni delegare, a chi delegare e quale grado di
autonomia assegnare. Possiamo avere due tipi di strutture in base alla distribuzione del potere decisionali fra le varie
componenti: accentrato e decentrato. Decentrare significa attribuire autorità di decidere e responsabilità a persone
posizionate al di sotto del massimo livello direttivo e quindi più vicine al punto in cui sorgono. Questo migliora
qualità decisione, motiva le persone, sviluppa le capacità manageriali e risponde al cambiamento ambientale.
Relazione tra modelli organizzativi e ambiente: modelli meccanici e organici
modelli meccanici: l’ambiente è stabile, prevedibile, conoscibile a bassa complessità
modelli organici: ambiente: dinamico, imprevedibile, non conoscibile, alta complessità.
Organizzazione ambidestra: in grado di tenere insieme modelli organizzativi differenti. Tipo di struttura che nasce nei
primi anni novanta. I vantaggi traibili compensano i costi sostenuti a monte.
Le scelte operate nel progettare l’organizzazione interna hanno ad oggetto la scomposizione diretta dell’attività
direttiva al livello dipendente dall’alta direzione.
Paradigma strategia-struttura (Chandler, 1970)
L’organigramma è uno dei documenti impiegati per descrivere la struttura organizzativa.
È utile per rispondere a domande come, ad esempio: come è strutturata e quali sono le figure più importanti
all’interno dell’impresa? Chi è responsabile di determinate decisioni? Quali criteri di divisione del lavoro sono
applicati?L’insieme delle unità organizzative e delle principali relazioni che le legano (gerarchiche, consuntive, di
standardizzazione, ausiliarie) trovano, nell’organigramma, la loro formalizzazione più completa e sintetica.
All’interno dell’organigramma si trovano:
➢ Organi di line: ad essi sono affidate le attività tipiche dell’impresa, che sono legate al corporate da relazioni
verticali di autorità-responsabilità (es. direzione commerciale, direzione di produzione);
➢ Organi di staff: ad essi sono assegnate delle funzioni consultive, di supporto, di standardizzazione e di
sostegno alle attività degli organi di line (es. controllo di gestione, controllo qualità).

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Le strutture:
• La struttura elementare (a pettine)
È utilizzata da aziende di piccole dimensioni, è caratterizzata da accentramento delle funzioni direttive ed operative
in capo all’imprenditore e da bassa specializzazione dei compiti e notevole intercambiabilità dei ruoli del personale
esecutivo, coordinato dall’imprenditore e, infine, da decisioni rapide e flessibilità operativa.
• La struttura plurifunzionale
Questa struttura nasce tra la fine dell’800 e gli inizio ‘900, come evoluzione delle strutture di tipo elementare.
Sono due i passaggi chiave che caratterizzano tale transizione:
- Integrazione a monte e a valle, a causa dell’inefficienza dei canali distributivi presenti;
- Specializzazione e tensione all’ottimizzazione del processo produttivo.
Ciò ha comportato:
- L’introduzione dei principi delle delega e della specializzazione decisionale, la creazione, quindi, di un livello
intermedio di responsabilità direzionale;
- La costituzione di organi specialistici, fuori della gerarchia manageriale, designati con il termine di staff →
consultivi.
Le attività similari confluiscono in distinti raggruppamenti, i dipartimenti funzionali, che sono affidati a manager che
dipendono dalla direzione generale. La direzione generale si occupa di definire le linee di sviluppo dell’impresa nel
suo complesso (percorso strategico), di creare coordinamento tra le aree funzionali, di allocare le risorse tra le
diverse aree funzionali e di monitorare e valutare le prestazioni funzionali. I direttori dei dipartimenti funzionali si
occupano della gestione ordinaria delle funzioni di competenza e controllano le diverse unità operative da esse
dipendenti.
I punti di forza
Il raggruppamento di attività aziendali simili sotto la guida di manager specialistici produce effetti positivi per quanto
riguarda il miglioramento dell’efficienza (ottimizzazione degli outcome e delle risorse impiegate), l’economicità
(sfruttamento di economie di scala e diminuzione di spese generali).
C’è quindi la possibilità di aumentare l’apprendimento organizzativo attraverso l’interazione di varietà informative e
simili.
Punti di debolezza
I vantaggi offerti da tale struttura sono conseguibili solo se si verificano determinate condizioni, tra cui le dimensioni
aziendali piccole, un solo prodotto (o linea di prodotti), un unico mercato.
• Le imprese multi-divisionali
A partire dalla prima metà del 1900, a causa dell’elevata dinamicità ambientale e del processo tecnologico, molte
grandi imprese intrapresero differenti strategie di crescita:
- Integrazione verticale
- Diversificazione geografica
- Diversificazione produttiva
Questo porta a → paradigma strategia-struttura: alla nascita di un nuovo modello organizzativo basato sulla
scomposizione dell’impresa in parti (divisioni) ciascuna delle quali impegnata nella realizzazione di un ciclo di attività
funzionali ad un distinto output.
Le divisioni sono progettate per produrre risultati/output che sono valorizzati direttamente dal mercato.
Si distingue tra:
- Divisioni geografiche: stessa attività ma in aree geografiche diverse;
- Divisioni di mercato: tipologie non omogenee di clienti;
- Divisioni produttive forniscono output diversi.
Fanno parte delle funzioni del corporate quelle strategiche e operative:
Le funzioni strategiche relative alla definizione delle strategie complessive di gruppo sono:
- Entrata – uscita – permanenza in nuovi business e/o aree geografiche;
- Funzione finanziaria (operazioni esterne, interne);
- Gestione risorsa manageriale (manager divisionali).
Le funzioni operative effettuano un controllo basato sulla standardizzazione dei risultati.
Consistono nell’assegnazione ai manager di obiettivi economico-finanziari, ovvero il controllo esercitato attraverso la
valutazione del risultato economico di periodo, ottenuto dalle divisioni.

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Le capacità manageriali (manager divisionali) possono servire per valutare la validità del business (risultato
economico).
Il reddito divisionale rappresenta un parametro insufficiente per poter valutare e comprendere in che modo le
risorse allocate alla divisione siano state utilizzate.
Per ovviare a questo si può ricorrere al ROI, dato dal rapporto tra reddito operativo e capitale investito.
ROI = RO/KI
I limiti del ROI sono:
• È focalizzato su obiettivi di breve termine;
• È facilmente soggetto a manovre tese a modificatore il numeratore e/o il denominatore;
• Non tiene in considerazione le interrelazioni tra divisioni.
Il sistema di reporting consiste nella trasmissione sistematica alla direzione centrale di un insieme di informazioni,
contenute in uno specifico documento (report), relative all’andamento della gestione.
In passato il contenuto del report era costituito da dati economici e dati relativi alla struttura patrimoniale. Oggi il
contenuto è arricchito da informazioni quali-quantitative.
Punti di forza
Miglior coordinamento e controllo organizzativo, quindi un aumento di varietà scaturente dalla presenza in molti
mercati; maggior responsabilizzazione sui risultati operativi ed economici a carico delle singole divisioni, quindi lo
sviluppo di competenze manageriali di tipo globale; alleggerimento del lavoro a carico dell’alta direzione.
Punti di debolezza
Ridondanza, quindi unità organizzative che svolgono la stessa attività in diversi punti della struttura, questo
comporta costi elevati; competizione tra divisioni; maggiore enfasi sui risultati economici di breve termine.
• La struttura a matrice (ibrida)
Rappresenta il massimo di complessità tra le diverse forme organizzative. Viene utilizzata per la prima volta negli
anni ’60 da imprese del settore aereospaziale e trova diffusione negli anni ’70.
La complessità nasce da:
- Mette in discussione il principio dell’unicità di comanda di Fayol;
- Accanto alla dimensione economico/tecnica (funzioni) consente di presidiare la dimensione del
mercato/cliente/tecnologica (tipica della struttura divisionale);
- Ne discende una struttura a due o più dimensioni, con doppie linee di riporto gerarchico e non solo di tipo
verticale;
- Mette in discussione la centralizzazione presso il vertice aziendale delle decisioni più importanti.
Questa struttura è particolarmente adatta in settori di attività caratterizzati da elevata turbolenza o dove conta il
presidio di più fattori critici di successo, settori nei quali la struttura funzionale si dimostra inefficace ed inefficiente.
La struttura a matrice è adeguata quando sussistono simultaneamente le seguenti esigenze:
- Orientamento al prodotto;
- Capacità di ascolto del cliente;
- Ricerca delle più elevate delle competenze tecniche.
Le spinte contrastanti che devono essere tenute insieme da un disegno complessivo sono:
1. Max. competenze tecniche e max. orientamento al cliente/mercato;
2. Economie di scala/specializzazione e personalizzazione del prodotto/servizio;
3. Max. efficienza e efficacia.
Negli anni ’80 la forma matriciale viene ampiamente criticata (Peters e Waterman) perché contrasta le esigenze di
rapidità e di semplicità (oggi, in realtà, le org.ni sono ancora più complesse, hanno tre/quattro dimensioni).
Le posizioni organizzative chiave
A. Top management
B. Responsabile dell’area/funzione
C. Responsabile di divisione
D. Two-Bosses manager
A. Il top management elabora la strategia, bilanciando le dimensioni della matrice, a seconda del momento
contingente prediligendo una delle due dimensioni. Ad es. fatturato, soddisfazione del cliente, etc. Tutto questo non
dimenticando il patrimonio di competenze.
Inoltre, definisce gli obiettivi di qualità/quantità di input e qualità/redditività degli output.
Assegna le risorse economiche (dove investire di più, quali risorse attribuire). Ciò comporta una competizione tra

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unità org.ve per l’assegnazione delle risorse.


Infine, cura l’integrazione tra le due dimensioni. La conflittualità tra queste ultime può essere molto elevata. Ad es.
l’obiettivo delle funzioni può essere lo sviluppo delle competenze delle risorse più giovani, mentre quello delle
divisioni la qualità dell’output.
B. Il responsabile dell’area/funzione è responsabile della quantità/qualità/disponibilità degli input. Gli obiettivi sono
di sviluppo tecnico-professionale delle risorse che gli sono state affidate.
Infine, l’integrazione con i manager di divisione per rispondere alla necessità di disporre di capacità relazionali,
negoziali, di comunicazione, di lavoro in gruppo, di tener conto delle esigenze e degli obiettivi delle divisioni.
C. Il responsabile di divisione (prodotto/mercato/progetto) è responsabile dell’uso efficace delle risorse disponibili,
ha responsabilità di risultato (profitto/QM/margine di contribuzione/redditività del cliente).
Deve avere capacità di integrazione con i responsabili di funzione e con risorse che presentano competenza, punti di
vista, esperienze, sensibilità molto diverse: leadership e stile direzionale orientato alle persone, capacità di
comunicazione, di motivare i collaboratori verso l’obiettivo dell’impresa.
I manager di progetto sono responsabili del risultato operativo, ma non dispone della piena autorità sui mezzi da
impegnare. I manager funzionali stabiliscono come il lavoro deve essere svolto. Tra i due può esserci conflitto.
Il compito fondamentale del vertice è quello di mantenere l’equilibrio tra le due dimensioni della matrice.
D. I Two-Bosses manager (professional che risponde a due responsabili) hanno alta resistenza allo stress (persone
costrette a tener presente due esigenze diverse), alta tolleranza all’ambiguità (regole del gioco poco chiare e che
cambiano rapidamente), hanno capacità di lavorare in autonomia e di lavorare per obiettivi (implica elevate
competenze, capacità relazioni, flessibilità, capacità negoziali).
Le condizioni per l’efficacia di questa struttura sono:
- Doppio sistema di programmazione e controllo;
- Doppio sistema di valutazione delle prestazioni/incentivazione;
- Sistema di comunicazione/informazione reticolare;
- Cultura aperta (innovazione, collaborazione, team work): organizzazione che funziona sia come gerarchia
(capi) sia come mercato (meccanismi di collocazione delle risorse, di negoziazione per ottenere le risorse
migliori), sia come clan (comunità tenuta insieme da una forte condivisione dei valori di fondo, ideali, norme,
controllo sociale).
Vantaggi
- Uso più efficiente delle risorse disponibili;
- Protezione delle competenze core;
- Flessibilità;
- Maggiore integrazione;
- Maggiore elaborazione di informazioni.

Svantaggi
- Sovraccarico informativo;
- Conflitti/lotte tra divisioni e tra queste e le funzioni;
- Costi di struttura elevati;
- Necessità di staff centralizzate.
-
LA FUNZIONE FINANZIARIA NELLA GESTIONE DELL’IMPRESA:
- Garantire il reperimento delle risorse finanziarie necessarie per il fabbisogno finanziario, questa deve avvenire
sostenibilmente e temporalmente.
- Finanza allargata: la finanza diventa un’area che permette la creazione di valore, un centro di profitto.
- Nuova finanza: ulteriore sviluppo della finanza allargata.
La funzione finanziaria rappresenta il luogo delle competenze-conoscenze strumentali alla gestione dei rapporti che
si instaurano tra l’impresa e il mercato dei capitali.
Il soggetto preposto a questa funzione è il CFO (Chief financial officier), a questo spettano diverse competenze:
-Supporto alle decisioni
-Struttura ottimale del capitale: capitale proprio, di terzi, definire il rapporto ottimo
-Competenze gestionali

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-Programmazione e controllo dei flussi finanziari: entrate e uscite monetarie, è importante perché il ciclo aziendale si
articola in sotto cicli: abbiamo un ciclo tecnico, un ciclo monetario. Il ciclo tecnico non è perfettamente allineato con
quello monetario, c’è uno sfasamento tra i due cicli. Ci sono questi sfasamenti che rendono essenziali la funzione
finanziaria vuoi dal punto di vista dell’equilibrio economico, vuoi dal punto di vista dell’equilibrio finanziario
-Valutazione delle scelte strategiche: valutazione riguardo gli investimenti. La funzione finanziaria supporta la scelta
andando a valutare le varie alternative di investimento e le relative conseguenze.
-Gestione speculativa dei flussi finanziari dell’impresa: si concepisce la funzione finanziaria come centro di profitto.

La funzione finanziaria si occupa delle decisioni ed operazioni volte a reperire o impiegare fondi aziendali.
Da una parte svolge un ruolo strategico dall’altra gestionale.
Strategico: legate alle decisioni di medio lungo termine del top- management.
Gestionale: Garantire equilibrio tra fonti e impieghi entrate monetarie e uscite monetarie.
La funzione finanziaria è quella che maggiormente evidenzia l’importanza di un adeguato processo di pianificazione e
controllo delle scelte aziendali e deve contemporaneamente soddisfare i tre principali equilibri di gestione:
-Equilibrio economico tra ricavi e costi: economicità
-Equilibrio finanziario tra impieghi (investimenti, capitale di cui ha bisogno l’azienda per il suo core business) e fonti:
solvibilità (l’azienda è solvibile quando riesce a far fronte ai propri impegni)
-Equilibrio monetario tra entrate e uscite: liquidità (ci deve essere sempre un equilibrio tra entrate e uscite
monetarie)

Tipi di fabbisogno di risorse di cui un’impresa può avere necessità sono:


-Strutturale: dipende dalle scelte di medio termine e dalla struttura aziendale permanente, è il fabbisogno che si
ripresenta tenendo conto tra capitale fisso e variabile e le fonti di finanziamento relative.
- Corrente: correlato al volume e dai movimenti dell’attività corrente dell’impresa.
Il fabbisogno strutturale e corrente sono quelli che sono prevedibili poiché storicamente si manifestano sempre dei livelli simili.
-Straordinario: legato ad eventi imprevisti che impattano nel mio lungo termine (es. incendio capannone)
-Occasionale: legato ad eventi imprevedibili nel breve termine (es. un cliente acquista un grosso lotto non previsto,
devo far fronte al reperimento delle fonti)
Questi presentano un elevato grado di aleatorietà.
PRINCIPI DELLA STRUTTURA FINANZIARIA per assicurare gli equilibri precedentemente citati:
-Omogeneità: tra fonti e impieghi, significa che deve esserci un allineamento temporale tra fonti e impieghi (per un
impiego di lungo termine deve esserci una fonte di lungo termine)
-Elasticità: possibilità di ampliare le fonti di finanziamento, ne vario la misura.
-Flessibilità: riguarda la composizione delle fonti, il rapporto tra fonti a breve e fonti a lungo termine e quindi cambio
la struttura.
-Economicità: scegliere fonti di finanziamento che massimizzano lo spread tra costo e rendimento delle fonti, che
siano più convenienti.

Il grado di rischiosità della struttura dipende da una serie di fattori riguardanti:


-La fase dell’attività dell’impresa: avvio, fase di start up, momento delicato, di decollo, alcune start up non riescono a
‘sopravvivere’ nei primi tre anni; ordinario funzionamento; operazioni straordinarie.
-Il rischio operativo: legato all’attività tipica dell’impresa, dipende dai concorrenti, mercato di riferimento, alla
struttura operativa (bep)
-Rischio finanziario: capacità di far fronte ai propri impegni, riguarda il livello e la tipologia di indebitamento.

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Le modalità di copertura del fabbisogno finanziario sono:


•Capitale proprio
• Autofinanziamento, deriva dal reinvestimento degli utili, non distribuirli
• Finanziamento interno dei soci, da un punto di vista giuridico è un finanziamento esterno dal punto di vista
manageriale può essere visto come un finanziamento interno.
• Finanziamento esterno attinto presso i risparmiatori, le banche, i clienti, i fornitori e i dipendenti.
Le due grandi opzioni sono:
-Capitale proprio: legati ad investimenti di lungo termine, più rischioso il costo si calcola in termini di costo-
opportunità (→Il guadagno a cui rinuncio per effettuare quel determinato investimento);
-Capitale di terzi: valuto le diverse opportunità in base ai tassi di interesse.
LA LEVA FINANZIARIA
Quando parliamo di leva finanziaria parliamo di rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi.
- Il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi dipende dal grado di controllo che l’impresa vuole avere e dal costo che
le due fonti di finanziamento hanno.
Ricorrendo ai mezzi propri andrei a promuovere l’ingresso di nuovi soggetti che iniziano ad entrate nelle decisioni
ecco perché a volte le imprese decidono di indebitarsi.
Se l’impresa trova conveniente indebitarsi, sfrutta quello che viene definito il meccanismo della leva finanziaria.
L’effetto leva finanziaria all’aumentare dell’indebitamento dei terzi aumenta la redditività dei mezzi propri.
Riprendiamo i due indicatori: ROI e ROE.
ROI: RETURN ON INVESTMENT: Risultato operativo= ricavi – costi / capitale investito = capitale proprio + capitale di terzi
(redditività del capitale complessivamente investito)
ROE: RETURN ON EQUITY: redditività dei mezzi propri: reddito netto/ capitale proprio
Si parla di effetto leva quando all’aumentare dell’indebitamento, si verifica una moltiplicazione sulla redditività del
capitale proprio cioè sul ROE.
Leva finanziaria positiva: ROI> i →ROE aumenta
Leva finanziaria negativa: ROI< i → ROE diminuisce Il significato di margine di contribuzione
Una parte dei ricavi andare a coprire una parte dei costi variabili.
La differenza tra costi variabili e il prezzo unitario dà il margine di
contribuzione (md), le singole “gocce” del margine di
contribuzione vanno ad alimentare i costi fissi e, una volta che il
recipiente dei costi fissi è stato coperto/riempito, quello che
residua (o se residua) è il Risultato operativo.
Tutte le variazioni del margine di contribuzione sono variazioni
del risultato operativo.

Il margine di contribuzione contribuisce alla copertura dei costi fissi.


È una grandezza assoluta
TDC è una grandezza relativa → Il tdc mi consente confronti nel tempo e nello spazio, prescinde dalle misure.
Importante perciò se voglio fare valutazioni in ottica comparata.

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BEP: il punto di pareggio si ha quando costi- ricavi= 0

Questa formulazione è
importante perché
guidano i manager nelle
scelte.

Due imprese simili che operano a uno stesso


volume possono avere un diverso grado di leva
operativa in quanto questa dipende dalla
struttura dei costi della data impresa. Le
imprese con costi fissi alti e bassi costi variabili
hanno un grado di leva operativa alto e sono
quindi più sensibili a variazioni dei ricavi.

La leva operativa dà informazioni importanti ai


manager sulla gestione, dà informazioni sulla
reattività del risultato operativo rispetto a
cambiamenti dei ricavi. Quindi è una misura di
sensibilità.
In un conto economico a margine di contribuzione le singole voci di costi si riferiscono a costi variabili oppure a costi
fissi.
In un conto economico a costo del venduto possono confluire all’interno delle singole voci sia a costi variabili sia a
costi fissi.
Questi due prospetti presentano delle differenze, forniscono una diversa chiave di lettura.
Organizzano le informazioni in maniera differente.
Nel conto economico a mcd si enfatizzano tutti i costi variabili (di produzione, commerciali, amministrativi e
generali), ottenendo il margine di contribuzione totale (ricavi-costi variabili). Al mcd si sottraggono i costi fissi
(produzione, commerciali, amm.ni e generali).
Nel conto economico a cdv non si distinguono tra costi fissi e costi variabili. Si enfatizza l’aspetto delle aree che
assorbono quei costi. L’area in cui sorge un determinato costo.
Ricavi-costo del venduto= margine lordo. A questo si sottraggono costi commerciali e amm.ni e generali.
In entrambi i prospetti si ottiene lo stesso risultato reddito netto.
A seconda di come si organizzano le informazioni, si ottengono prospetti differenti, che pongono quindi l’attenzione
su aspetti differenti della gestione.

Il margine di sicurezza è la distanza tra quantità


effettiva e quantità prodotta sulla quantità effettiva
(differenza).

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IL CONTROLLO DI GESTIONE:
La figura del controller è diventata sempre più importante nei vari contesti competitivi, in Italia ha fatto fatica ad
affermarsi ma ad oggi si sta sempre più diffondendo. Il controllo permette di comprendere l’azienda a 360°.
Questa figura si sta affermando nelle medie-grandi imprese, nelle piccole imprese di meno in quanto comporta dei
costi elevati. Nelle imprese medie si configura nel direttore amministrativo.
La dea Maat: Dea della misurazione.
Il tema della misurazione è fortemente collegato al comportamento del management (processi attivati per arrivare a
determinati risultati), quindi la gestione della performance. Non si pone l’attenzione esclusivamente sul risultato.
Questo per garantire una longevità all’azienda.
Misurazione della performance
Questo concetto è poliedrico, sfaccettato, multi o interdisciplinare, in quanto assume accezioni differenti in
differenti contesti, anche all’interno dei confini organizzativi. Un’impresa/org.ne performante è quella che riesce in
modo efficace a raggiungere i suoi obiettivi. L’aggettivo “performante” esprime l’attitudine, la capacità a perseguire
gli obiettivi organizzativi. Tanto più l’azienda cresce, tante più variabili vengono valutate.
Le tre E della performance: misure di efficacia, di efficienza e di economicità.
L’efficacia è la capacità di conseguire gli obiettivi rispetto a quelli programmati.
L’efficienza esprime l’attitudine a massimizzare il rapporto tra output e input. Quante risorse sono state consumate
per raggiungere un certo obiettivo.
L’economicità esprime l’attitudine ad acquisire gli input alle condizioni più favorevoli. In quali condizioni sono state
acquisite le risorse, rispetto alle possibilità che si hanno nel mercato.
L’orientamento alla misurazione di performance prettamente economico-finanziarie (accento mono dimensionale
della misurazione) ha determinato alcuni effetti negativi, tra cui:
• L’orientamento al breve termine, distogliendo l’attenzione dagli sforzi di lungo termine. Questo fa
insorgere comportamenti di moral hazard (comportamenti opportunistici), premiando i manager che
ottengono risultati nel breve termine.
• La mancanza di pensiero strategico, perché si pone l’attenzione solo sul breve termine e non sul
lungo termine. Questa è l’antitesi della strategia.
• Accento esagerato sugli standard, invece di incoraggiare un miglioramento continuo. Si evitano
quindi delle variazioni eccessive. Il manager è quindi sicuro nel replicare lo standard (zona di
comfort).
• La mancanza di collegamento con l’apprendimento e lo sviluppo organizzativo.
Nel tempo, per aggirare i limiti della misurazione monodimensionale economico-finanziaria, sono stati aggiunti altri
indicatori non economico-finanziari → misurazione pluridimensionale.
Tra questi indicatori: indicatori di R&S, quanto è capace l’azienda ad innovare; quanto è sostenibile; quanto l’azienda
presidia i processi di qualità; quanto l’azienda sviluppa le risorse umane (motivazione, trattamento socialmente
accettabile). Questi ultimi sono indicatori di legittimazione sociale.
Alla ricerca dell’eccellenza (Thomas J. Peters e Robert H. Waterman Jr.):
Imprese low performer: concentrate prevalentemente su misurazioni e indicatori quantitativi ec.fin.
Imprese eccellenti: quelle che ricorrono a indicatori di performance eterogenei, quali-quantitativi. Questi indicatori
fornivano informazioni al management per migliorare il processo e i rapporti con gli stakeholder.
Classificazione per oggetto di misurazione
In funzione dell’oggetto di misurazione si distingue tra:
➢ Misure di risultato
Misurano quanto l’azienda è stata in grado di realizzare gli obiettivi (di fatturato, di vendita, innovazione). Si
riferiscono sia all’azienda nel complesso sia a specifiche aree aziendali. Bisogna specificare quindi a cosa si
riferisce la misurazione. A volte, non è possibile avere un numero esatto della performance dei risultati, ci si
deve accontentare delle proxy. Ad esempio, l’innovazione: quanti brevetti, rapporto del numero di brevetti
con gli investimenti che hanno assorbito.
➢ Misure di processo
Fanno riferimento a come si è arrivati ad un determinato risultato. Sono orientate ai fini (misure di processo,
il percorso per arrivare al risultato). Spesso nella pratica non c’è un nesso di causalità tra efficienza e i
risultati. Si può essere stati efficienti, ma non aver ottenuto i risultati. O viceversa → effetti distorsivi.

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➢ Misure di efficacia sociale


La misurazione di questa classe di indicatori appare sempre più frequente e imprescindibile dalle org.ni che
intendono perseguire una strategia orientata alla responsabilità sociale dell’impresa (Corporate Social
Responsability).
→ Luciano Gallino: l’impresa responsabile e l’impresa irresponsabile.
Le imprese che seguono la legge non sono sempre responsabili. Il comportamento manageriale porta
l’impresa ad essere o non essere responsabile.Tra le misure di responsabilità vi è la verifica dell’esistenza o
meno del soffitto di cristallo (discriminazione delle donne).
I livelli di controllo → supporto alle decisioni, coordinamento, guida…
➢ Controllo strategico attuato dalla direzione generale solitamente;
➢ Controllo direzionale/gestionale solitamente attuato dalle divisioni o funzioni;
➢ Controllo operativo attuato al più basso livello gerarchico;
MOB: Management by objecting → i manager che sono responsabili di determinati risultati, concorrono a definire
l’obiettivo che sono destinati a realizzare. L’obiettivo è formulato in condivisione col manager.
Se si è stati coinvolti nel formulare l’obiettivo, allora ci si sarà più responsabili nel raggiungimento del risultato.
Il budget è uno strumento che serve per condividere/comunicare una serie di obiettivi che i manager devono
realizzare nell’anno successivo.
Un obiettivo di per sé non è self evident, non è scontato che si sa come realizzarlo. Richiede quindi un processo di
comunicazione (budget).
Il comportamento del manager per ottenere un risultato è fondamentale (azioni messe in atto).
Il controllo di gestione è facoltativo, quindi non tutte le imprese lo attuano. Una cosa fondamentale è, però, che se si
applica, si deve obbligatoriamente consegnare il report nella data precisa e non ci si deve permettere di fare ritardi.
Questo carico di responsabilità è del controller, il quale, non solo dirige un report a consuntivo, ma deve anche
analizzare i dati e portare delle motivazioni al manager qualora ci siano degli scostamenti, deve andare quindi oltre il
“dato”. Deve comprendere perché la nave si sta scostando dalla rotta. L’’utilizzatore invece è il manager, l’ingegnere
gestionale, il ricercatore. Questi devono analizzare ed interpretare i report per assumere decisioni.
Devono rifarsi a diversi tipi di informazioni:

Le tipiche funzioni del management sono:

PROGRAMMARE significa decidere quali azioni avviare. Questo comporta l’assunzione di decisioni del tipo:
identificazione del problema, generazione di alternative, specificazione dei criteri di scelta e utilizzazione delle
informazioni per arrivare a selezionare l’alternativa migliore. Il budget è il documento che riflette la programmazione
per un determinato periodo, solitamente un anno. Se si fa riferimento ad un arco pluriennale si parla di
pianificazione.

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IMPLEMENTARE significa porre in atto azioni necessarie affinchè si possano conseguire i risultati programmati.
Richiede la supervisione e in casi particolari anche la modifica del programma.
CONTROLLARE significa osservare l’andamento delle decisioni prese e influenzarle per ottenere le azioni e i
comportamenti desiderati.
Il controllo di gestione è il processo che produce informazioni sia qualitative che quantitative (monetarie e non)
utilizzate dal management per favorire il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione.
L’architettura del sistema di controllo
➢ Premessa
➢ Architettura verticale
➢ Architettura orizzontale
➢ Allocazione dei costi corporate
➢ Costi controllabili (per effettuare una valutazione più significativa)
Attenzione!
Bisogna scegliere per i diversi livelli gli strumenti giusti per il controllo. Un’attività molto importante ed interessante
è quella di implementare il controllo di gestione.
In un’azienda green field non c’è un controllo di gestione, si chiama qualcuno che sia pronto a progettare un sistema
di controllo cucito proprio su misura. Non esistono degli standard in assoluto, ma ci sono delle linee guida che
aiutano nella progettazione, un set di principi, che si sono affermati man a mano nel tempo.
Premessa

Principi di base del controllo direzionale sono il carattere del controllo, la coerenza interna e la coerenza esterna:
➢ Coerenza interna: il controllo deve riflettere la cultura dell’impresa nella quale viene implementato. Se c’è
una cultura manageriale che promuove la creatività e le esperienze, l’apprendimento organizzativo e lascia
le persone libere di affrontare problemi, senza procedure stringenti; negli strumenti per il controllo si deve
tener conto di questo diritto all’errore che l’impresa consente.
➢ Coerenza esterna: fa riferimento, ad esempio, ai rapporti con gli stakeholders. Quanto il fornitore ci apre le
porte? Che tipo di rapporto abbiamo?
Il controller chiamato a progettare deve tener conto della cultura interna e della cultura esterna, da quello che
capisce, va a tarare gli strumenti per il controllo di gestione.
L’architettura del controllo di gestione si progetta tenendo conto di due dimensioni:
➢ Architettura orizzontale: significa identificare i diversi centri di responsabilità allo stesso livello gerarchico (si
deve quindi capire la struttura dell’organizzazione, si deve conoscere l’abc dell’organizzazione; se non si
conosce l’alfabeto organizzativo non si può progettare il controllo di gestione). Si deve capire che tipo di
performance ci si aspetta a seconda delle diverse responsabilità.
➢ Architettura verticale: significa decidere qual è la profondità del controllo, il numero di livelli gerarchici a cui
deve esse esteso il controllo (profondità per l’appunto). Si decide di riservare il controllo ad un livello di
middle management o spingere il controllo fino alla base della piramide organizzativa? Ad esempio: mi devo
fermare al direttore marketing o vado a valutare le performance delle diverse unità alla base? In base a
quello che viene deciso, si valuta solo la parte che si decide di “controllare”.
Architettura verticale ed orizzontale sono complementari!
I Centri di Responsabilità (CdR) e la struttura organizzativa

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Allo stesso livello gerarchico sono presenti i centri di responsabilità cioè unità organizzative guidate da un manager
responsabile delle prestazioni di tali unità.

I centri di responsabilità e le relazioni tra input e output


Capire qual è l’attività del centro di responsabilità, di cosa si occupa e capire come quel centro di responsabilità si
collega con altri e quindi da chi riceve gli input e a chi sono destinati gli output.
Cdr:
• molti input e risorse interne sono misurabili come: (quantità fisiche x prezzo) / costo unitario;
• il costo di un CdR è la misura monetaria della somma delle risorse consumate;
Il responsabile di un CdR deve assicurare una relaziona adeguata fra risorse utilizzate e risultati ottenuti. La
misurazione degli output spesso è più problematica di quella degli input in quanto non si sa mai se i ricavi siano del
tutto rappresentativi o meno. Il manager deve assicurare un’adeguata relazione tra input, risorse interne ed output
Possono decidere di sistemate i dati sia per elementi di costo, sia per reparti o posso decide di farlo solo per una voce.
Tre diverse informazioni di costo nel controllo di gestione sono dove è stato sostenuto (da quale CdR), che tipo di
risorsa (elemento di costo) e per quale output (oggetto del costo).
I diversi tipi di Cdr
• Centri di costo (CdC) standardizzati o parametrici: si chiamano così perché consentono di stabilire una
relazione stabile tra gli output che generano e gli input che sfruttano/utilizzano per la realizzazione di quegli
output. Il centro per eccellenza che configura un’unità di questo tipo è il centro manifatturiero.
• Centri di costo discrezionali: il manager è chiamato a manovrare leve di costo. Prendono input dall’interno o
dall’esterno e generano output (come tutti gli altri centri di costo). Quello che cambia è che qui non si ha un
parametro di riferimento, non si può stabilire output rispetto agli input, gli output non sono misurabili
oggettivamente. Non si può attribuire un valore oggettivo, come ad esempio nel centro R&S, dove non si
può valutare l’output prodotto. L’unica cosa che si può fare è valutare grazie al report se le risorse nel quale
si è investito non sono state utilizzate, oppure capire perché si è speso più di quanto è stato stabilito. Quindi
in questa fase si vanno a vedere più che altro gli scostamenti;
• Centri di ricavo: la responsabilità è in chiave di ricavo. Esempio sono le filiali di vendita e le direzioni
marketing. Vado a puntare i riflettori sulle vendite. L’unità di misura è la moneta che ci aiuta valutare. Il
controllo di gestione sottolinea l’aspetto ricavo/fatturato.
• Centri di profitto: si caratterizzano per il fatto che il loro responsabili manovrano sia leve di costo che leve di
ricavo. Siccome la contrapposizione tra costi e ricavi genera il profitto, i direttori dei cdr di profitto
“muovono” il profitto. Il classico esempio è quello della divisione, il manager della divisione è
responsabilizzato sia su ricavi che su costi. Difficoltà per il controllo di gestione è che può accadere che il
centro di profitto è destinatario di una serie di costi non controllati dal manager. La difficoltà per il report è
di distinguere costi controllabili da costi non controllabili. Devo costruire un doppio CE per capire. Buona
regola è andare a scindere i costi che il manager non manovra da quelli che manovra, per non attribuire a li
costi che personalmente non ha deciso. Peculiarità dei centri di profitto è proprio questa distinzione, questa
scissione! (è una peculiarità anche dei centri di investimento)
• Centri di investimento: qui la responsabilità manageriale è ancora più complessa, perché il manager risponde
sia di ricavi che di costi, ma anche degli investimenti. Si ha in questo caso il massimo della responsabilità. Il

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manager ha un ulteriore leva a sua disposizione, quale la complessità degli investimenti. L’indicatore principe
è il ROI e se non è sufficiente dobbiamo contornarlo di ulteriori indicatori, di tipo non solo economici-
finanziari, indicatori multidimensionali, siccome il ROI non riflette perfettamente il tutto
(I primi due sono centri di costo)
Ogni direttore viene valutato in base al suo campo di competenza, è quindi importante capire la natura di quello che
esce fuori dal sistema di gestione. Viene poi premiato o sanzionato il comportamento. Il controller consente di saper
quale direttore ha performato, quanto e come ha performato. Il controllo di gestione è quindi strettamente legato al
sistema premiante dell’impresa.
Ciclo: controllo di gestione → report → sistema premiante
Performance dell’organizzazione vs. Performance dei CdR
La performance di un CdR non può prescindere dai contributi ricevuti da altri CdR. Il sistema di controllo di gestione
ha come obiettivo di definire i risultati che ci si aspetta dai CdR, ma quando si vanno a valutare i risultati si deve
tener conto di processi caratterizzati da interdipendenza (processi trasversali). Le performance conseguite da altri
centri di responsabilità. Bisogna fare indagini per capire dove si trova il problema.
Es. si tagliano i costi per essere efficienti e quindi si tagliano i controlli sulla qualità (più resi dei clienti, molti reclami).
Il problema non è all’ufficio vendita, ma altrove.
Gli strumenti che agevolano la visione sistemica sono il team working (comitati interdipartimentali per comprendere
i problemi) e il premio per gruppi (si premiano le persone in base a risultati conseguiti in gruppo; le persone vengono
responsabilizzate da un obiettivo comune).
I prezzi interni di trasferimento (intracompany prince o transfer price)
È un problema tipico delle aziende, impattano sulle performance dei centri di responsabilità e sulle performance
aziendali. I prezzi di trasferimenti sono quei prezzi in corrispondenza dei quali vengono valorizzati gli scambi tra
divisioni oppure tra divisioni e corporate. Sono prezzi interni, quindi riguardano scambi di beni e servizi all’interno
dell’impresa (non con il mercato). Sono un fenomeno tipico delle grandi imprese, in particolare quelle con strutture
multi-divisionali. Sono quindi circoscritti a questa tipo di struttura organizzativa e disciplinano lo scambio/il
passaggio di beni e servizi da una divisione A ad una divisione B oppure tra il quartier generale (corporate) e le
divisioni sottostanti. Perché impattano sulle performance ed è importante controllarle?
Si supponga di avere un’impresa con una divisione che progetta motori, in parte venduti internamente e in parte sul
mercato. Il prezzo interno di trasferimento deve valorizzare questo scambio, di un oggetto progettato in una
divisione e ceduto ad un’altra divisione o al mercato. È fondamentale la valorizzazione di questo prezzo, consente di
fare valutazioni sulle divisioni (bontà/efficacia che derivano dai risultati/performance delle divisioni).Bisogna trovare
uno strumento che permetta di valorizzare il prezzo di trasferimento. La valorizzazione è più complessa in quelle
imprese in cui le divisioni sono caratterizzate da interdipendenza

Le basi del prezzo di trasferimento


Ci sono molte opzioni:
➢ Prezzo di mercato. Si supponga che una divisione A produca un determinato bene; si può decidere che si
faccia riferimento al prezzo di mercato, quindi si guarda sul mercato a quanto è venduto quel bene. Il prezzo
di trasferimento è adeguato al prezzo di mercato. È quello più oggettivo e dà un’indicazione di efficienza;
non dipende dalle capacità di negoziazione del manager. A volte non è possibile, se non esiste il prezzo di
mercato perché l’oggetto di scambio è unico, ideato specificamente dalla divisione.
➢ Configurazioni di costo*: costo pieno (costi fissi + costi variabili); costi pieno + margine (maggiore redditività
sul capitale investito sul bene); costo variabile.
In base a cosa si scelgono queste configurazioni? Dipende dalla logica strategica con cui si vanno a regolare i
rapporti con le divisioni. Impattano in maniera differente nel CE.
➢ Negoziazione. Il corporate decide di lasciare liberi i capi divisioni a contrattare il prezzo interno del bene
come se si trovassero sul mercato. C’è la volontà del corporate di mettere le divisioni in competizione.
È una decisione strategica, può essere un incentivo per i manager ad essere più efficienti.
*Il costo potrebbe essere un costo consuntivo o un costo pieno standard + una quota di utile valorizzata come
ritorno “normale” del capitale investito.
Il ricavo che si fa sul costo pieno:
Es. Se quel ricavo che si stabilisce sulla transazione è superiore al ROI di una divisione A. ROI 9% e ricavo 12% → Che vuol dire? È un modo di agevolare la
divisione. È positivo. Se non c’è la remunerazione, il manager invece penalizza la divisione. Quindi il ricavo è inferiore al ROI atteso. Attenzione alla asimmetria

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tra valutazione dei CdR e il manager. Bisogna scindere i due aspetti quando si costruisce il CE, per valutare in maniera oggettiva le performance dei CdR e dei
manager.
Le politiche decisionali
Sono le linee guida per decidere le configurazioni di costo. Si tiene conto dei rapporti tra divisioni.
Le dimensioni critiche che accompagnano la precisione sul prezzo e sugli elementi che portano a definire il prezzo
sono:
➢ Interdipendenza
Può essere alta (catene del valore tra divisioni molto intrecciate, condividano asset tangibili e intangibili; business
altamente correlati) o bassa/nulla (non ci sono asset condivisi, i risultati delle divisioni solo slegati/indipendenti).
Un’impresa integrata verticalmente, ad esempio, ha un’interdipendenza alta.
➢ Sostituibilità
Sostituibilità del bene oggetto di scambio, quindi della fonte. È una componente standard che offrono altre imprese
sul mercato oppure è un bene ad hot creato specificamente da una divisione per un’altra? Sono due casi separati.
Nel primo caso la sostituibilità è alta, nel secondo caso è bassa.
➢ Complessità della transazione
Fa riferimento al flusso di informazioni che vengono scambiate tra le divisioni. Tanto più il prodotto è standardizzato,
tanto più basso è il flusso di informazioni scambiate. Il prezzo è l’unica informazione che serve, è sufficiente.
(concorrenza perfetta). Se vi è un intenso scambio di conoscenze, di know how, di informazioni relativi al processo di
produzione, per realizzare uno scambio allora il flusso di informazioni è alto. La comunicazione è più complessa.
Se si mettono insieme queste tre dimensioni, viene fuori un prospetto che dà una linea guida sulle metodologie da
applicare, sulla scelta delle fonti e sulla scelta dei prezzi.
• Interdipendenza alta, sostituibilità bassa e alta complessità della transazione
Metodologie: costo plus o di mercato con equa condivisione utile;
Scelta fonti: tradizionalmente interna (no sostituibilità);
Scelta prezzi: mutuamente concordati (il corporate incentiva le divisioni a fare un lavoro di squadra).
QMc → Quasi Mercato clanizzato: le divisioni si devono comportare come un clan, in maniera unita, coesa. Il
corporate fa di tutto per promuovere lo spirito di squadra tra le divisioni, è come se fosse un mercato ma interno nei
confini dell’impresa.
• Interdipendenza bassa, alta sostituibilità e bassa complessità della transazione
Metodologie: prezzo di mercato (l’informazione è efficiente per capire se è conveniente o meno);
Scelta fonti: negoziata (la divisione che compra può valutare liberamente se acquistare internamente o sul mercato,
c’è competitività all’interno dei confini aziendali);
Scelta prezzi: autonoma (ci si regola sulla base dei margini attesi).
QMp → Quasi Mercato perfetto: rappresenta quasi un mercato esterno.
• Configurazione di mezzo (tra clan e mercato perfetto):
Interdipendenza intermedia, qualche sostituibilità e complessità della transazione che richiede qualche
interazione tra divisione che vende e divisione che compra
Metodologie: costo o costo plus;
Scelta fonti: imposta;
Scelta prezzi: imposta.
Il corporate impone una scelta nelle fonti e nei prezzi, quindi le divisioni hanno meno discrezionalità.
QMb → Quasi Mercato burocratizzato: da una parte il corporate teme che le divisioni non facciano gioco di squadra
(no motivazione forte), potrebbero sorgere dei fenomeni di opportunismo (asimmetria informativa). Il corporate
interviene a gamba tesa, decide lui stabilendo delle regole e dei principi a cui le divisioni devono attenersi.
Il corporate è l’unico che ha la visione sistemica delle divisioni e vuole quindi creare valore nel complesso (ha una
visione d’insieme). Questo per evitare che ci siano transazioni che distruggano valore.

Allocazione dei costi corporate


È un tema che impatta sulle valutazioni delle performance dei centri di responsabilità. È una variabile importante che
condiziona i risultati che si leggono nei report.
Questo permette una lettura più oggettiva delle prestazioni dei CdR.
A chi sono diretti i servizi del quartier generale? Alle unità organizzative sottanti, alle divisioni.
L’allocazione dei costi del corporate si risolve in tre diversi modi:

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➢ Nessuna allocazione: si decide di non ribaltare sui CdR i costi sostenuti dal corporate. Le voci di costo non
sono fatte configurare sui CE delle divisioni.
➢ Allocazione completa: si decide di allocare tutti i costi del corporate alle divisioni che si sono avvantaggiate
dai servizi. Questo comporta di evitare un’eccessiva proliferazione di spese a livello corporate, c’è una
riduzione/contenimento delle richieste delle divisioni alla corporate. Si configurano sui CE delle divisioni.
➢ Allocazione parziale: alcune voci sono fatte gravare sui CE delle divisioni, altre invece no.
Negli ultimi due casi → scelta del criterio: una volta che si decide un approccio si deve stabilire sulla base di quale
criterio andare a ribaltare i costi sui CE delle divisioni.
La controllabilità di un costo si riferisce alla possibilità che il manager del CdR possa influenzare l’ammontare del
costo. Si riferisce ad uno specifico CdR, esiste quando il manager del CdR è in grado di esercitare un’influenza
significativa sulle risorse piuttosto che un controllo pieno.
Ad esempio, la manodopera diretta e i materiali diretti.
I costi indiretti, invece, non sono costi controllabili. Dipendono dall’ammontare complessivo del CdR che eroga il
servizio e dalla formula usata per l’allocazione.
Quindi, tutti i costi controllabili sono diretti, ma non tutti i costi diretti però sono controllabili dal manager (es.
ammortamento, assicurazioni, canoni di locazione, etc.).
Criticità: Definire un costo non controllabile significa non motivare il responsabile del CdR a cercare nuove soluzioni
per migliorare l’efficienza della risorsa alla quale il costo si riferisce (es. catena di montaggio).
A volte un costo non controllabile può essere trasformato in un costo controllabile, in uno dei due seguenti modi:
1. Modificando la base dell’assegnazione: da allocazione arbitraria ad attribuzione diretta;
2. Modificando le responsabilità, e cioè decentrando;
Valutazione economica vs. valutazione manageriale
La prima fa riferimento alle performance dei CdR con tutti costi e ricavi.
La seconda fa riferimento al comportamento del manager.
Il master budget è il documento che riassume tutta la parte della programmazione e le tre parti principali sono:
• Budget operativo, che mostra le attività programmate per il prossimo esercizio, ivi inclusi i correlati ricavi,
costi, livelli di rimanenze, ecc. ;
• Budget di cassa, che mostra la previsione degli incassi e degli esborsi;
• Budget degli investimenti, che mostra i cambiamenti programmati nelle immobilizzazioni e i relativi flussi di
cassa;
Per la redazione del budget si parte dalle vendite in quanto sulla base di cosa si vende, si calcola quanto produrre.
I budget dei CdR sono dettagliati in singoli elementi di costo e di ricavo appartenenti a un comune piano dei conti.

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