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RIASSUNTO PSICOLOGIA CLINICA

CAPITOLO 1. INTRODUZIONE E PANORAMICA STORICA.

Psicopatologia: Disciplina che studia la natura, l’evoluzione e il trattamento dei disturbi mentali.

È importante riconoscere i propri preconcetti sui disturbi mentali (per conservare l’obiettività di giudizio),
ma anche cercare di cambiare lo stigma che spesso associamo a queste condizioni.

Questo termine fa riferimento a quell’insieme di convinzioni e atteggiamenti deleteri che la società sviluppa
nei confronti di gruppi considerati in qualche modo diversi, come lo sono appunto le persone con una
malattia mentale.

Lo stigma presenta quattro caratteristiche:

1) Ad un gruppo di persone viene applicata un’etichetta che la distingue dalle altre, ad esempio, “pazzo”.
2) Etichetta si associa ad attributi che la società ritiene devianti o indesiderabili (i pazzi sono pericolosi).
3) Le persone così etichettate sono viste come sostanzialmente diversa dalle altre; ciò contribuisce al
sorgere di una mentalità che contrappone un “noi” ad un “loro”.
4) Le persone definite da quest’etichetta sono ingiustamente discriminante.

UNA DEFINIZIONE DI DISTURBO MENTALE.

La miglior definizione di disturbo mentale tiene conto di diverse caratteristiche essenziali:

• Il disturbo colpisce il funzionamento dell’individuo;


• Implica alterazioni clinicamente significative nella sfera del pensiero, delle emozioni e del
comportamento
• Di solito causa qualche forma di disagio personale, ad esempio nelle relazioni sociali o nell’attività
lavorativa
• Implica una disfunzione dei processi psicologici, evolutivi e/o neurobiologici che sottendono il
funzionamento mentale
• Non è una reazione culturalmente attesa ad un evento (ad esempio, la morte di una persona
amata);
• Non è primariamente il risultato di devianza sociale o conflitto con la società.

Il disturbo mentale, quindi, viene di solito determinato in base alla presenza simultanea di più
caratteristiche, le 4 caratteristiche chiave per definirlo sono:

- Disagio
- Disabilità
- Violazione di norme sociali
- Disfunzione

Nessuna caratteristica è sufficiente da sola a definire il concetto, benché ognuna esprime una parte
rilevante della definizione completa.
• IL DISAGIO PERSONALE.
È una delle caratteristiche utilizzate per definire disturbo mentale, poiché il comportamento di una
persona può essere diagnosticato come disturbato quando è causa per la persona stessa di un
profondo malessere. Le persone afflitte da disturbi d’ansia o depressione soffrono grandemente per la
loro situazione.
Ma non tutti disturbi mentali causano disagio personale: un individuo con disturbo antisociale della
personalità, ad esempio, può trattare gli altri con insensibilità senza provare alcun senso di colpa,
rimorso o qualunque altra forma di disagio. E non tutti i tipi di disagio derivano da comportamenti
riconducibili a un disturbo mentale

• LA DISABILITÀ.
È la compromissione di qualche area importante nella vita dell’individuo (ad esempio, il lavoro o le
relazioni personali), ed è una caratteristica del disturbo mentale.

I disturbi collegati all’uso di sostanze vengono diagnosticati anche sulla base di disabilità a livello sociale
o occupazionale (come liti con il coniuge o scarso rendimento sul lavoro).

Le fobie possono causare sia distress che disabilità: una paura di volare può impedire alle persone che
vivono in California di accettare un lavoro a New York.

Ma come per il disagio, anche la disabilità non è, da sola, un criterio sufficiente a definire disturbo
mentale, in quanto non necessariamente si associa a tutti disturbi. Ad esempio, la bulimia nervosa non
comporta necessariamente una disabilità: molte persone che ne soffrono conducono un’esistenza in
cui gli aspetti sociali non sono compromessi, in quanto gli episodi di assunzione smodata di cibo e la sua
successiva eliminazione hanno luogo in privato.

• LA VIOLAZIONE DELLE NORME SOCIALI.


Nell’ambito del comportamento, le norme sociali sono solitamente considerare degli standard che la
maggioranza delle persone utilizza nel formulare giudizi su dove si collocano i comportamenti su
determinate scale di valori (buono-cattivo, giusto- sbagliato, accettabile-inaccettabile).
Comportamenti che violano le norme sociali potrebbero essere classificati come disturbati, nel senso
di patologici.
I rituali ripetitivi messi in atto dalle persone che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo e le
conversazioni con voci immaginarie tipiche delle persone affette da schizofrenia, sono comportamenti
che violano le norme sociali.

Eppure, questo modo di definire disturbo mentale è un criterio troppo ampio e allo stesso tempo
troppo ristretto.
È troppo ampio quando si considerano i criminali, i quali violano le norme sociali ma non rientrano
nell’ambito della psicopatologia.
È troppo ristretto nel caso delle persone ansiose che, tipicamente, non trasgrediscono le norme sociali.

Inoltre, le norme sociali variano grandemente tra culture e gruppi etnici diversi e un comportamento
che in un gruppo è un’aperta violazione di norme sociali, in un altro può non esserlo affatto.
• LA DISFUNZIONE.
Wakefield ha proposto di definire il disturbo mentale è una disfunzione che produce danno.
Si parla di disfunzione quando un meccanismo interno non è in grado di svolgere la sua funzione
naturale, ovvero la funzione che è deputato a svolgere.
Molte critiche sono state volte al concetto di disfunzione, in quanto non così facilmente e
oggettivamente identificabile quando si tratta di valutare un disturbo mentale.
I meccanismi interni coinvolti nei disturbi mentali sono ancora in larga parte sconosciuti, e quindi risulta
impossibile definire con esattezza quali particolari elementi non funzionano in modo corretto in un
determinato disturbo.

La definizione di disfunzione del DSM fa riferimento al fatto che le disfunzioni comportamentali,


psicologiche e biologiche sono fra loro interrelate. Significa che il cervello ha un impatto sul
comportamento, il comportamento ha impatto sul cervello; pertanto, una disfunzione nell’uno è
interrelata all’altro.

STORIA DELLA PSICOPATOLOGIA. Da pagina 8 a 25 sul libro.

La demonologia delle epoche più antiche

Nei tempi che hanno preceduto la nascita dell'indagine scientifica, tutte le manifestazioni buone e cattive di
potenza al di fuori del controllo umano - come le eclissi, i terremoti, le tempeste, il fuoco, la malattia,
l'avvicendarsi delle stagioni - erano considerati eventi soprannaturali. Allo stesso modo, venivano attribuiti
a cause soprannaturali anche i comportamenti che parevano sfuggire al controllo individuale. Molti dei
primi filosofi, teologi e medici che studiarono i problemi della mente umana ritenevano che il
comportamento disturbato fosse un segno di sfavore degli dei o di possessione demoniaca.

La dottrina secondo cui un demone o uno spirito malvagio può abitare all'interno di una persona, e
controllarne la mente e il corpo, è detta demonologia.

La credenza che all'origine del comportamento anomalo vi fosse la possessione portò a trattarlo mediante
esorcismo, un insieme di pratiche rituali atte a scacciare gli spiriti maligni dal corpo del malato. L'esorcismo
assunse la forma di riti complessi, che comprendevano recitare preghiere, produrre rumori assordanti,
costringere la persona a bere pozioni dal sapore disgustoso.

Le prime spiegazioni biologiche

Nel V secolo a.C, Ippocrate, spesso definito il padre della medicina moderna, separò la medicina dalla
religione, dalla magia e dalla superstizione. Ippocrate rigettò la credenza, allora dominante nella cultura
greca, che i disturbi mentali fossero una punizione mandata dagli dèi agli uomini e sostenne, invece, che
quelle malattie avevano origine da cause naturali per cui dovevano es sere trattate come altre malattie più
comuni, quali il raffreddore e la costipazione.

Considerando il cervello l'organo della coscienza, della vita intellettiva e delle emozioni, Ippocrate riteneva
che il pensiero e il comporta mento devianti fossero un segno di qualche tipo di patologia del cervello
stesso. Ippocrate fu uno dei primi a proporre la teoria secondo cui turbe del pensiero e del comportamento
derivano da problemi cerebrali.

Ippocrate classificò i disturbi mentali in tre categorie: mania, melanconia e frenite (o febbre cerebrale). Egli,
inoltre, riteneva che il normale funzionamento del cervello, e quindi la salute mentale, dipendesse da un
delicato equilibrio tra quattro umori o fluidi corporei: il sangue, la bile nera, la bile gialla, il flegma (o
flemma). Il manifestarsi di disturbi era indice di un disequilibrio umorale.
I trattamenti che Ippocrate raccomandava erano alquanto diversi dagli esorcismi. Per la melanconia, ad
esempio, egli prescriveva tranquillità, abitudini di vita sobrie, una scelta accurata dei cibi e delle bevande e
astinenza dall'attività sessuale. Ritenendo che all'origine delle malattie non vi fossero cause soprannaturali
bensì naturali, Ippocrate si basava sull'attenta osservazione della realtà.

La demonologia dei secoli bui


Gli storici hanno spesso indicato la morte di Galeno (130 200 d.C.) - il grande studioso greco del II secolo
dopo Cristo, considerato l'ultimo grande medico dell'epoca classica - come l'inizio dei cosiddetti «secoli
bui» per la medicina occidentale in generale, e in particolare per la ricerca e il trattamento dei disturbi
mentali. Dopo secoli di decadenza, la grande civiltà greco-romana giunse alla fine. La Chiesa aumentò la sua
influenza. I monasteri cristiani, attraverso la loro opera missionaria ed educativa, sostituirono i medici in
quanto ad autorità per il trattamento dei disturbi mentali.

All'interno dei monasteri i monaci si dedicavano all'assistenza e alla cura dei malati; alcuni monasteri
conservavano anche i manoscritti della cultura medica della Grecia classica, ma i monaci non sempre
facevano ricorso alle conoscenze riportate in quei lavori. Le persone con disturbi mentali venivano curate
indirizzando loro preghiere e toccandole con sacre reliquie; inoltre, i monaci preparavano fantasiose
pozioni, che la persona doveva bere nei periodi di luna calante. Molti malati mentali vagabondavano per le
campagne, nell'indigenza più totale e in condizioni progressivamente peggiori. In questo periodo ritornò
anche in auge credere nelle cause soprannaturali dei disturbi mentali.

La persecuzione delle streghe


A partire dal XIII secolo, in tempi di disordini sociali incessanti, aggravati da ripetute carestie e pestilenze, le
popolazioni europee si volsero di nuovo alla demonologia per spiegare queste sventure. La stregoneria, che
si riteneva fosse istigata da Satana, era vista come un'attività eretica, una negazione di Dio. Allora, come
oggi, di fronte a eventi spaventosi e inesplicabili la gente cercava di aggrapparsi alla spiegazione che
appariva più plausibile. Tutti questi elementi favorirono il montare della condanna sociale nei confronti
delle donne accusate di stregoneria, che venivano perseguitate con grande zelo.

Nel 1484 papa Innocenzo VIII esortò il clero di tutta l'Europa a non lasciare nulla d'intentato nella ricerca
delle streghe. Il papa inviò nel nord della Germania due monaci Domenicani, in veste di inquisitori. Due anni
più tardi essi pubblicarono un testo esaustivo e categorico, il Malleus Maleficarum («Il martello delle
streghe») per la caccia alle streghe. Questo testo giuridico e teologico fu considerato, dai cattolici come dai
protestanti, una sorta di manuale sulla stregoneria. Coloro che erano accusati di stregoneria, se non
avessero confessato, sarebbero stati sottoposti a torture; i condannati che si pentivano dovevano restare in
prigione per il resto della loro vita, quelli che non si pentivano venivano consegnati alla giustizia e messi a
morte.

Nel manuale si specificava che l'improvvisa perdita della ragione era un sintomo di possessione demoniaca,
e che bruciare sul rogo la persona che ne aveva dato segno era il metodo più certo per scacciare dal suo
corpo il diavolo che se ne era impadronito. Sebbene i resoconti di quel periodo non siano ritenuti
attendibili, si pensa che durante la caccia alle streghe, che durò alcuni secoli, furono centinaia di migliaia le
persone, in particolare donne e bambini, accusate di stregoneria, torturate e messe a morte.

Nella ricerca storica moderna, inizialmente si diffuse la convinzione che molti dei condannati per
stregoneria nel tardo Medioevo fossero malati di mente. Questo convincimento traeva origine dalla lettura
delle confessioni degli accusati, che furono interpretate da alcuni ricercatori come deliri o allucinazioni.

Ma un'analisi più accurata del periodo storico suggerisce che, nonostante le loro confessioni, molte di
quelle persone non soffrissero di un disturbo mentale. Esaminando la documentazione sulla caccia alle
streghe si evince che, fra le persone trascinate in giudizio, quelle sane di mente erano più numerose di
quelle malate. Le confessioni venivano ottenute sotto torture terribili, ed erano messe in bocca alle
presunte streghe dai loro stessi accusatori e dalle credenze del tempo. In Inghilterra, infatti, dove la tortura
non era ammessa, in genere le confessioni non contenevano descrizioni che possano far pensare a deliri o
ad allucinazioni

I processi per pazzia


Lo studio di altre fonti storiche indica che il disturbo mentale non veniva attribuito soltanto a stregoneria. A
partire dal XIII secolo, con l'espandersi delle città europee, gli ospedali iniziarono a passare sotto la
giurisdizione civile. Acquisendo maggior potere, le autorità municipali cercarono di integrare l'operato della
Chiesa o di sostituirsi ad essa in alcune attività, una delle quali era l'assistenza ai malati di mente. L'atto di
fondazione del Trinity Hospital di Salisbury, in Inghilterra, che risale alla metà del XIV secolo, specifica gli
scopi dell'ospedale; tra essi compare il «tenere i pazzi in condizioni di sicurezza, fino a quando non
recuperino la ragione»>. In questo periodo le leggi inglesi consentivano l'ospedalizzazione dei malati di
mente. Fatto molto importante, le persone ospedalizzate non erano descritte come possedute dal demonio

A partire dal XIII secolo si tenevano in Inghilterra i cosiddetti processi per accertare lo stato di pazzia della
persona in giudizio, tali processi erano fondati sul diritto della Corona di proteggere le persone con
problemi mentali, e un giudizio di pazzia consentiva alla Corona di ottenere la custodia dei beni della
persona giudicata pazza.

Dato interessante, il termine inglese per «pazzia>> lunacy (dal latino luna e analogo a «lunatico»), derivava
da una teoria proposta dal medico svizzero Paracelso (1493 1541), il quale attribuiva il comportamento
anomalo a un disallineamento fra luna e stelle. Questa spiegazione che coinvolgeva la luna, sebbene non
sostanziata da alcuna prova, era una ben gradita alternativa alle spiegazioni che chiamavano in causa il
demonio o la stregoneria. Ancora oggi vi sono persone che credono che la luna piena sia associata ad
anomalie del comportamento, una credenza non sostenuta da alcuna evidenza scientifica.

La nascita dei manicomi


Fino al XV secolo, gli ospedali per persone con disturbi mentali erano ben pochi in tutta Europa. Numerosi
erano invece i lebbrosari. La lebbra scomparve gradualmente dall'Europa, probabilmente perché, cessando
le spedizioni nel Vicino Oriente, venne meno il contatto con i focolai d'infezione.
Molti di questi ospedali restarono quindi sottoutilizzati e forse proprio questo fattore spostò l'attenzione
verso le persone con disturbi mentali. I lebbrosari furono trasformati in manicomi, istituti dedicati alla
custodia e all'assistenza dei malati mentali.

II Bethlehem e i primi manicomi


Il convento di Saint Mary of Bethlehem fu fondato nel 1243, Risulta dalla documentazione che nel 1403
l'istituto ospitasse sei uomini con disturbi mentali. Nel 1547 Enrico VIII lo cedette alla municipalità di
Londra, e da allora fu un ospedale destinato soltanto all'internamento delle persone con disturbi mentali.
Al Bethlehem le condizioni erano deplorevoli. Col tempo il nome Bedlam, comunemente usato per indicare
l'istituto, arrivò a significare un luogo in cui regnavano tumulto sfrenato e confusione.
Infine, il Bethlehem divenne una delle più grosse attrazioni turistiche di Londra, tanto da rivaleggiare nel
XVIII secolo con l'Abbazia di Westminster e la Torre di Londra. Fino al XIX secolo, andare ad assistere agli
accessi furiosi dei pazzi era considerato un divertimento e la gente pagava il biglietto per vedere tale
spettacolo. Analogamente, nella Torre dei per Pazzi costruita a Vienna nel 1784 le persone venivano
confinate nello spazio fra le stanze interne e le pareti esterne dell'edificio, da dove potevano essere viste da
chi passava.

Ovviamente, rinchiudere le persone affette da disturbi mentali in appositi istituti e riportare nell'ambito
della medicina la loro cura non volle automaticamente dire che il trattamento riservato a queste persone
fosse più umano, o le cure più efficaci. Anzi, i trattamenti erano spesso brutali e dolorosi. Ad esempio,
Benjamin Rush che iniziò a praticare la professione medica a Filadelfia nel 1769, è considerato il padre
della psichiatria americana; eppure, ritenendo che la causa del disturbo mentale stesse in un eccesso di
sangue nel cervello, il suo trattamento di elezione consisteva nel prelevare ai malati grandi quantità di
sangue. Rush inoltre credeva che molte persone con disturbi mentali potessero essere curate con un forte
spavento; quindi, raccomandava caldamente ai medici di spaventare queste persone convincendole che
stavano per morire!

Le riforme di Pinel
Philippe Pinel è spesso considerato una delle più eminenti figure del movimento che sostenne il
trattamento umanitario dei malati mentali rinchiusi nei manicomi. Nel 1793 gli fu affidata la direzione di un
grande manicomio di Parigi, La Bicêtre. Pinel giunse a convincersi che le persone affidate alle sue cure
fossero innanzitutto e soprattutto esseri umani, e che in quanto tali meritassero compassione,
comprensione e un trattamento rispettoso della loro dignità. Pinel presumeva che, se la ragione li aveva
abbandonati in conseguenza di gravi problemi personali e sociali, fosse possibile ristabilire il loro equilibrio
attraverso un'opera di sostegno che li confortasse e li indirizzasse verso attività utili.

Le celle furono sostituite da camerate ariose e bene il luminate. Molti, prima del tutto ingovernabili,
divennero calmi. Pazienti prima considerati pericolosi ora passeggiavano per l'ospedale e i giardini che lo
circondavano, senza creare disturbo né fare del male ad alcuno. Alcune persone, internati da anni, parvero
recuperare la salute e furono infine dimessi dall'ospedale.

Benché facesse cose egregie per i malati di mente, Pinel non fu certo un modello di egualitarismo
illuminato. Egli riservò un trattamento umanitario soprattutto alle persone delle classi più ricche, mentre
quelle delle classi meno abbienti erano ancora soggette a un regime di rigido controllo mantenuto col
terrore e la coercizione, dove le camicie di forza avevano preso il posto delle catene.

Il trattamento morale
Per un certo periodo, gli ospedali psichiatrici fondati in Europa e negli Stati Uniti furono relativamente
piccoli, finanziati con fondi privati e impostati sui principi del trattamento umanitario emersi a La Bicêtre.

Negli Stati Uniti sorsero istituti ispirati a questo modello e in grado di fornire un trattamento umano, come
il Friends' Asylum, fondato nel 1817 in Pennsylvania. In consonanza con questo approccio, noto come
trattamento morale, i ricoverati avevano stretti contatti col personale, che parlava con loro o leggeva loro
delle storie e li incoraggiava a impegnarsi in attività utili; le persone ospitate in questi istituti conducevano
un'esistenza il più possi-bile normale, assumendosi la responsabilità di sé stessi, nei limiti consentiti dal loro
disturbo. Inoltre, ognuno di questi ospedali non doveva ospitare più di 250 persone.

Il trattamento morale fu in larga parte abbandonato nella seconda metà del XIX secolo. Paradossalmente,
proprio gli sforzi di Dorothea Dix che si era battuta perché i malati mentali potessero vivere in condizioni
migliori in centri creati apposta per assisterli, finirono per promuovere questo cambiamento.

La Dix, un'insegnante di Boston che teneva un corso domenicale nella prigione della città, fu
profondamente turbata dalle condizioni in cui erano tenuti i carcerati. Il suo interesse si estese poi alle
condizioni degli ospedali psichiatrici e ai malati di mente che non avevano dove farsi curare. Con le sue
vigorose campagne di informazione, la Dix riuscì a ottenere l'istituzione di 32 ospedali statali per malati di
mente. Queste grandi strutture pubbliche accolsero molti dei ricoverati che i piccoli istituti privati non
erano in grado di ospitare. Purtroppo, in questi nuovi istituti lo scarso personale non era in grado di fornire
alle singole persone quelle attenzioni che erano state il segno distintivo del trattamento morale. Inoltre,
questi ospedali finirono con l'essere diretti da medici in prevalenza interessati agli aspetti biologici della
malattia e al benessere fisico, piuttosto che psicologico, dei ricoverati. Il denaro che in precedenza era
servito a pagare i salari del personale che assisteva i malati adesso serviva per apparecchiature e laboratori.
Gli approcci biologici
La scoperta dell'origine biologica della paresi generale e della sifilide

Verso la metà del XIX secolo l'anatomia e il funzionamento del sistema nervoso erano parzialmente
conosciuti, ma non abbastanza da consentire agli studiosi di trarre conclusioni definitive sull'effettiva
presenza di quelle anomalie cerebrali strutturali da cui si presumeva avessero origine i disturbi mentali.
Forse il più grande successo di quel periodo fu la scoperta della natura e delle cause della sifilide, una
malattia venerea nota ormai da secoli.

Sin dalla fine del XVIII secolo era noto che molte persone affette da disturbi mentali presentavano una
sindrome caratterizzata da un progressivo deterioramento delle capacità fisiche e mentali e paralisi
progressiva; alla presunta malattia associata a questa sindrome si diede il nome di paresi generale. Benché
intorno alla metà dell'Ottocento fosse ormai accertato che alcune persone affette da paresi generale
avevano anche la sifilide, un collegamento tra le due condizioni non era ancora stato stabilito.

Tra il 1860 e 1870, Louis Pasteur elaborò la «<teoria dei germi», secondo la quale le malattie sono causate
dall'infezione del corpo da parte di microrganismi. Sulla base di questa teoria, si arrivò a dimostrare una
relazione tra sifilide e paresi generale. Infine, nel 1905 fu scoperto il microrganismo che causa la sifilide.
Per la prima volta era possibile stabilire un nesso causale tra infezione, distruzione di particolari aree del
cervello e una sorta di psicopatologia (la paresi generale). Se un tipo di psicopatologia fosse stato
riconducibile a una causa biologica, ciò avrebbe voluto dire che potevano esserlo anche altri tipi. La teoria
biologica acquistò sempre più credito e la ricerca di ulteriori cause biologiche ricevette notevole impulso.

La genetica
Francis Galton, spesso considerato il padre della ricerca genetica su gemelli, grazie ai suoi studi su gemelli
condotti in Inghilterra verso la fine dell'Ottocento - attribuiva molte caratteristiche comportamentali
all'ereditarietà. A lui si riconosce il merito di avere coniato l'efficace binomio nature e nurture per indicare
le differenze tra genetica (nature) e ambiente (nurture).

All'inizio del XX secolo i ricercatori furono incuriositi dal fatto che i disturbi mentali erano ricorrenti
nell'ambito di certe famiglie; a partire da quegli anni, numerosi studi furono dedicati a documentare
l'ereditabilità di certi disturbi mentali, come la schizofrenia, il disturbo bipolare e la depressione. Questi
studi avrebbero gettato le basi per lo sviluppo di teorie successive relative alle cause dei disturbi mentali.

Sfortunatamente, a Galton viene attribuita anche la creazione del movimento per l'eugenetica nel 1883. I
fautori di questo movimento sostenevano l'opportunità di eliminare dalla popolazione i caratteri
indesiderabili limitando la capacità di procreazione di alcune persone (ad esempio, mediante la loro
sterilizzazione forzata). Molti dei primi tentativi di determinare l'ereditarietà dei disturbi mentali si
associarono, negli Stati Uniti, al diffondersi del movimento per l'eugenetica, e questo ostacolò il progredire
della ricerca.

In quella che si rivelò come una pagina molto triste nella storia degli Stati Uniti, verso la fine dell'Ottocento
e gli inizi del Novecento, furono promulgate in vari stati americani leggi che impedivano alle persone con un
disturbo mentale di sposarsi e che le co-stringevano a subire una sterilizzazione coatta, al fine di impedire la
«trasmissione» del loro disturbo. Queste leggi furono confermate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel
1927 e soltanto negli anni Cinquanta queste deprecabili pratiche ebbero termine. Ma ormai il danno fatto
era notevole: fino al 1945, più di 45 000 persone con disturbo mentale erano state sottoposte negli Stati
Uniti a sterilizzazione forzata.
I trattamenti biologici
Nei primi decenni del XX secolo, l'ospedalizzazione generalizzata di persone con disturbi mentali, associata
alla cronica carenza di personale per assisterli, creò un clima che consentì, e forse anche im-plicitamente
incoraggiò, la sperimentazione di trattamenti molto drastici.

Nei primi anni Trenta Sakel introdusse il metodo di indurre il coma mediante alte dosi di insulina,
asserendo che i tre quarti delle persone affette da schizofrenia da lui trattate con questo metodo avevano
mostrato un significativo miglioramento. I risultati ottenuti da ricerche successive furono meno
incoraggianti e la terapia del coma insulinico, che comportava rischi molto seri per la salute, compreso il
coma irreversibile e la morte, fu gradualmente abbandonata.

Nei primi decenni del XX secolo due medici italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, idearono la terapia elettro
convulsivante (ECT, electroconvulsive therapy) o elettroshock. Cerletti, uno studioso di epilessia, cercava
un metodo per indurre sperimentalmente crisi epilettiche, e infine trovò che l'applicazione di scariche
elettriche ai lati della testa era in grado di scatenare crisi epilettiche.

Nei decenni che seguirono la terapia elettro-convulsivante fu somministrata a persone affette da


schizofrenia e da depressione grave, di solito in ambiente ospedaliero. Questa procedura viene applicata
ancora oggi su persone che soffrono di depressione grave. Fortunatamente, i consistenti miglioramenti
apportati a questa tecnica hanno reso l'elettroshock meno problematico, ed esso può essere un
trattamento efficace.

Nel 1935 Egas Moniz, uno psichiatra portoghese, introdusse come forma di trattamento la lobotomia
prefrontale, un tipo di intervento chirurgico che distrugge le connessioni nervose tra i lobi frontali e altre
aree del cervello. Nei suoi rapporti iniziali, Moniz proclamava un'elevata percentuale di successi (Moniz,
1936) e nei vent'anni successivi migliaia di persone con disturbi mentali furono sottoposti a varianti di
questo intervento. In particolare, si ricorreva a questa procedura per coloro che mostravano comporta
menti violenti; molti, in seguito all'operazione, di fatto si calmavano e venivano perfino dimessi dagli
ospedali, ma in realtà perché il loro cervello era stato danneggiato. Negli anni Cinquanta questo intervento
cadde in discredito per varie ragioni. Dopo l'operazione molte persone diventavano fiacche e apatiche, e
soffrivano di gravi perdite delle abilità cognitive - ad esempio, non erano più in grado di sostenere una
conversazione coerente con un'altra persona.

Gli approcci psicologici


A partire dalla fine del XVIII secolo erano emersi anche altri tipi di approccio, secondo i quali i disturbi
mentali erano dovuti a un malfunzionamento di natura psicologica. Sulla base di queste teorie psicologiche
furono sviluppati diversi metodi di intervento psicoterapeutico.

MESMER E CHARCOT
Nell'Europa occidentale del XVIII secolo molte persone andavano soggette a fenomeni di isteria, che
consisteva in forme di inabilità, come cecità o paralisi, non riconducibili ad alcuna causa fisica.
Franz Anton Mesmer un medico austriaco che esercitò a Vienna e a Parigi verso la fine del Settecento,
riteneva che l'isteria fosse causata da una particolare distribuzione nel corpo di un fluido magnetico
universale.
Egli credeva, inoltre, che una persona fosse in grado di influenzare il fluido di un'altra e in questo modo
indurre una modifica nel suo comportamento.
Mesmer era solito tenere incontri avvolti in un'aura di mistero e misticismo, durante i quali le persone
sedevano attorno a una tinozza di legno chiusa, dalla quale sporgevano, attraverso il coperchio, corte
verghe di ferro infilate in bottiglie contenute al suo interno e riempite di diverse sostanze chimiche.
Mesmer entrava nella sala, estraeva dalla tinozza alcune verghe e con quelle toccava le parti malate del
corpo della persona. Si credeva che le verghe trasmettessero magnetismo animale e riequilibrassero la
distribuzione del fluido magnetico universale, eliminando così i disturbi di natura isterica.
Successivamente Mesmer perfezionò e semplificò la sua procedura limitandosi a fissare negli occhi le
persone senza utilizzare alcuna verga. Per quanto oggi la sua teoria e il suo modo di procedere ci appaiano
alquanto discutibili, Mesmer riuscì apparentemente ad aiutare molte persone a superare i loro problemi di
isteria.
Benché Mesmer attribuisse i disturbi isterici a cause strettamente biologiche, prendiamo in considerazione
il suo lavoro in questa sezione poiché egli è generalmente considerato un antesignano della tecnica oggi
chiamata ipnosi (il termine mesmerismo è sinonimo di ipnotismo; il fenomeno dell'ipnosi era comunque già
noto a molte culture dell'antichità, presso le quali faceva parte delle pratiche di stregoneria e magia a cui
ricorrevano maghi e guaritori).

Per la maggior parte dei suoi contemporanei Mesmer non fu che un ciarlatano, tuttavia, lo studio dell'ipnosi
acquistò gradatamente sempre maggiore rispetto. Anche un grande neurologo parigino, Jean Martin
Charcot (1825-1893), si dedicò allo studio delle manifestazioni isteriche. Benché ritenesse l'isteria un
problema legato al sistema nervoso e una causa biologica, Charcot trovò anche convincenti le spiegazioni di
natura psicologica.

Breuer e il metodo catartico


Verso la fine del XIX secolo, Josef Breuer, un medico viennese, iniziò a curare una giovane donna (la cui
identità fu celata sotto lo pseudonimo di Anna O.), la quale manifestava numerosi sintomi isterici, tra cui
paralisi parziale, indebolimento della vista e dell'udito e, spesso, difficoltà a par lare. Inoltre, la giovane
cadeva a volte in uno stato simile al sogno, una sorta di «assenza», durante il quale mormorava tra sé
parole sconnesse, apparentemente turbata da pensieri inquietanti.
Durante una seduta Breuer ipnotizzò la donna che cominciò a parlare più liberamente e infine, con
notevole emozione, di certi eventi del passato che l'avevano profondamente sconvolta.
Spesso, al suo risveglio dall'ipnosi, la giovane si sentiva molto meglio. Breuer trovò che l'alleviamento di un
sintomo sembrava durare più a lungo se, sotto ipnosi, la donna era riuscita a ricordare l'evento associato
alla prima comparsa di quel sintomo, e se era riuscita a esprimere nuovamente l'emozione provata allora.
Questo rivivere un lontano trauma emotivo, rilasciando la tensione emozionale tramite la libera
espressione di pensieri sull'evento fino a quel momento dimenticati, fu chiamato catarsi e il metodo di
Breuer divenne noto col nome di metodo catartico.
Nel 1895, in parte basandosi sul caso di Anna O., Breuer pubblicò insieme a un giovane collaboratore,
Sigmund Freud, Studi sull'isteria.
Il caso di Anna O. divenne uno dei casi clinici più noti della letteratura psicoanalitica. Per ironia della sorte,
indagini successive hanno rivelato che Breuer e Freud non riferirono correttamente i dati relativi al caso
della giovane Anna. Secondo l'indagine storica svolta da Henri Ellenberger (1972), la donna ebbe un
miglioramento soltanto temporaneo in seguito alla terapia applicata da Breuer. Questa tesi è confermata
da una citazione tratta da Carl Jung, famoso collega di Freud, il quale affermò che, in occasione di una
conferenza tenutasi nel 1925, Freud gli aveva riferito che Anna O. non era mai guarita completamente. Le
cartelle cliniche dell'ospedale viennese ritrovate da Ellenberg confermano che Anna O. continuava ad
assumere morfina per alleviare quei sintomi «<isterici»> che dovevano essere stati eliminati da Breuer
tramite l'applica zione del metodo catartico.

Freud e la psicoanalisi
L'evidente potenza di alcuni elementi della psiche dei quali i pazienti apparivano del tutto inconsapevoli
portò Freud a postulare che il comportamento umano fosse in gran parte determinato da forze inaccessibili
alla coscienza. L'assunto centrale della teoria di Freud, spesso chiamata teoria psicoanalitica, è che la
psicopatologia sia il prodotto di conflitti inconsci.
La struttura della mente
Freud distinse nella mente, o psiche, tre componenti principali: l'Es, l'Io e il Super-lo.

• Secondo Freud l'ES, già presente alla nascita, è il depositario di tutta l'energia necessaria al
funzionamento della psiche, compresi gli impulsi di base per l'assunzione di cibo e acqua, per le
condotte di eliminazione, per la ricerca di calore, affetto, sesso. Data la sua formazione di neurologo,
Freud riteneva che la fonte di tutta l'energia dell' Es, che egli chiamò libido, fosse di natura biologica.
Poiché l'individuo non è in grado di percepire tale energia, essa resta completa mente inconscia, ossia
al di sotto del livello della coscienza.
L'Es cerca la gratificazione immediata dei suoi impulsi e opera sulla base di quello che Freud definì
principio di piacere, Se l'Es non viene soddisfatto si origina una tensione, che l'Es spinge l'individuo a
eliminare il più rapidamente possibile. Quando, ad esempio, un neonato sente fame, è spinto ad
agitarsi e a succhiare, nel tentativo di ridurre la tensione derivante dalla pulsione insoddisfatta.
L'individuo può anche cercare di ottenere gratificazione generando immagini in sostanza, fantasie
dell'oggetto desiderato. Ad esempio, un bambino affamato immagina di succhiare il seno della madre e
così ottiene una sorta di gratificazione sostitutiva dell'oggetto desiderato. Ovviamente, è una
gratificazione di breve durata e la fantasia non basta in realtà a soddisfare i suoi impulsi.
È a questo punto che entra in scena l'Io.
• Secondo Freud l'IO inizia a svilupparsi, a partire dall'Es, nel secondo semestre di vita. Diversamente da
quanto accade per l'Es, i contenuti dell'Io sono in prevalenza coscienti. In cerca della propria
soddisfazione, l'Es può ricorrere alla fantasia, ma il compito dell'Io è tener conto della realtà. L’Io,
quindi, opera in base al principio di realtà, mediando fra le istanze che la realtà impone e il desiderio di
gratificazione immediata dell'Es.
• Il SUPER-IO, la terza componente della psiche postulata dalla teoria freudiana, può essere considerato
come la coscienza dell'individuo. Freud riteneva che il Super-lo si sviluppasse nel corso di tutta l'infanzia
a partire dall'Io, in maniera assai simile a come l'Io si sviluppa dall'Es. Man mano che i bambini
scoprono che molti dei loro impulsi, come mordere o fare la pipi a letto, per i genitori sono
inaccettabili, essi incominciano a introiettare i valori parentali allo scopo di assicurarsi il piacere
derivante dall'approvazione dei genitori e di evitare il dolore della loro disapprovazione.

I meccanismi di difesa
Secondo la teoria proposta da Freud e rielaborata dalla figlia Anna, anch'essa famosa psicoanalista, il
disagio che l'Io esperisce nel tentativo di risolvere i conflitti soddisfacendo le esigenze dell'Es e del Super-lo
può essere ridotto in diversi modi. Un meccanismo di difesa è una strategia messa in atto dall'Io per
proteggersi dall'angoscia.

La terapia psicoanalitica
La psicoterapia fondata sulla teoria di Freud è detta psicoanalisi o terapia psicoanalitica; il metodo è
tuttora praticato, sebbene non così frequente- mente come un tempo.
Nella terapia psicoanalitica e nella più recente terapia psicodinamica, obiettivo del terapeuta è
comprendere a fondo le esperienze della prima infanzia della persona, la natura delle sue relazioni
fondamentali, e la struttura dei suoi rapporti attuali.
Il terapeuta ascolta per individuare i principali nuclei emozionali e relazionali che ripetutamente emergono

Le principali tecniche psicoanalitiche: libera associazione, interpretazione e analisi del transfert

Freud mise a punto numerose tecniche per aiutare le persone a risolvere i conflitti repressi. In una di esse,
detta tecnica delle associazioni libere, la persona distesa su un lettino, in modo da non vedere lo
psicoanalista seduto alle sue spalle - viene incoraggiata a lasciare libero corso ai propri pensieri,
verbalizzando qualunque cosa le passi per la mente, senza censurare nulla.

Altra tecnica fondamentale della terapia psicoanalitica è l'analisi del transfert, ovvero di quelle risposte nei
confronti dell'analista che paiono riflettere atteggiamenti e modalità comportamentali che la persona ha
avuto verso figure importanti del suo passato. Ad esempio, una persona potrebbe essere convinta che
l'analista trovi noiosi i suoi discorsi e sforzarsi, di conseguenza, di essere divertente; un tale schema
comportamentale potrebbe riflettere ciò che la persona ha vissuto nell'infanzia rispetto a una delle figure
genitoriali, anziché l'attuale relazione con l'analista. Freud riteneva che l'attenta osservazione e l'analisi di
questi atteggiamenti di transfert potessero consentire all'analista di comprendere l'origine infantile dei
conflitti rimossi della persona. Nell'esempio sopra riportato, l'analista potrebbe scoprire che nell'infanzia la
persona provava spesso la sensazione di essere noioso e insignificante per uno dei genitori, e che riusciva a
conquistarne l'attenzione soltanto attraverso battute umoristiche.

Nella tecnica dell'interpretazione, l'analista fa notare alla persona il significato di alcuni suoi
comportamenti. L'interpretazione è soprattutto centrata sui meccanismi di difesa. Ad esempio, un uomo
che abbia difficoltà a stringere relazioni intime potrebbe guardare fuori dalla finestra e cambiare discorso
ogni volta che, nel corso di una seduta, venga fatto anche il minimo accenno all'intimità. A un certo
momento, l'analista cercherà di interpretare quel comportamento, mettendone in evidenza con l'uomo la
natura difensiva, nella speranza di stimolare la sua consapevolezza del fatto che sta cercando di evitare un
tema per lui problematico.

Teorie psicodinamiche neofreudiane


Molti studiosi suoi contemporanei si incontravano periodicamente con Freud, per discutere insieme a lui
vari aspetti della teoria e della terapia psicoanalitica. Come spesso accade quando un leader brillante attrae
un gruppo di seguaci e colleghi altrettanto brillanti, col tempo cominciarono a sorgere controversie su molti
aspetti fondamentali della teoria, come l'importanza relativa dell'Es rispetto all'Io; l'influenza esercitata
dalle pulsioni biologiche o dai fattori socioculturali nel determinare lo sviluppo psicologico; il ruolo dei pro
cessi inconsci o di quelli consci; quanto critico sia il ruolo dei primi anni di vita rispetto alle esperienze
adulte; se davvero le pulsioni sessuali siano il motore di comportamenti che non sono chiaramente di
natura sessuale; la natura degli impulsi dell'Es, di tipo riflesso, in contrapposizione al comportamento
finalizzato, governato in prevalenza dalle decisioni dell'Io cosciente, e così via. Qui prenderemo in esame
due figure che hanno avuto grande rilevanza nello sviluppo storico della scuola neofreudiana: Carl Jung e
Alfred Adler.

Jung e la psicologia analitica


Carl Gustav Jung, psichiatra svizzero, fu inizialmente considerato la figura senza dubbio destinata a
raccogliere l'eredità di Freud; ma nel 1914, dopo sette anni di intensa corrispondenza sulle loro divergenze,
egli ruppe definitivamente con Freud. Jung propose idee radicalmente diverse da quelle di Freud, arrivando
a elaborare un proprio modello, definito psicologia analitica.
Jung ipotizzava che, oltre all'inconscio individuale postulato da Freud, esistesse anche un inconscio
collettivo. Esso è la parte di inconscio comune a tutti gli esseri umani e consiste principalmente di quelli che
Jung definì gli archetipi, ovvero le categorie fondamentali di cui tutti gli esseri umani si servono per
concettualizzare il mondo.
Jung riteneva, inoltre, che ogni persona consiste in una combinazione di tratti psichici maschili e femminili,
e che i bisogni spirituali e religiosi sono altrettanto fondamentali di quelli dell'Es. Jung giunse anche a una
classificazione dei diversi tipi di personalità, i più importanti dei quali sono forse i due che rappresentano
gli orientamenti contrapposti dell'estroversione (la tendenza ad aprirsi verso il mondo esterno) e
dell'introversione (la tendenza a chiudersi nel proprio mondo interiore e soggettivo).
Adler e la psicologia individuale
Alfred Adler, anch'egli tra i primi discepoli di Freud, giunse a distaccarsi ancora più di Jung dalle concezioni
freudiane, tanto che, dopo la fine della loro collaborazione, Freud continuò a nutrire del risentimento nei
suoi confronti. La teoria di Adler, nota col nome di psicologia individuale, vedeva le persone legate da
vincoli sociali inestricabili, in quanto era convinto che la piena realizzazione personale potesse essere
raggiunta soltanto nell'agire per il bene comune. Come Jung, anche Adler sottolineava l'importanza di
operare in vista di un obiettivo (Adler, 1930).

Centrale nel lavoro terapeutico di Adler era aiutare la persona a modificare convinzioni e aspettative
illogiche ed erronee; infatti, egli riteneva che, per poter stare e agire meglio, fosse necessario innanzitutto
pensare in modo più razionale; un approccio, questo, che anticipava alcuni sviluppi contemporanei della
terapia cognitivo-comporta mentale.

Il protrarsi dell'influenza di Freud e dei suoi seguaci


Le idee e i metodi originari di Freud sono stati oggetto di pesanti critiche nel corso degli anni. Freud non
condusse alcuna ricerca formale sulle cause e i metodi di trattamento dei disturbi mentali. Questa resta
ancora oggi una delle critiche più forti: in quanto basate su evidenze aneddotiche raccolte durante le
sedute di terapia, alcune teorie psicodinamiche sono accusate di non avere saldi fondamenti oggettivi e
quindi di mancare di scientificità.
Benché forse non più influente come un tempo, l'opera di Freud e dei suoi seguaci continua a esercitare un
impatto nel campo della psicopatologia. Tale influenza è particolarmente evidente nei tre assunti qui sotto
riportati:

1. Le esperienze infantili contribuiscono a plasmare la personalità adulta:


I clinici e i ricercatori contemporanei continuano ad attribuire un'importanza cruciale alle
esperienze infantili e ad altri eventi ambientali. Raramente essi fanno riferimento alle fasi
psicosessuali descritte da Freud, tuttavia alcuni attribuiscono grande importanza alle difficoltà delle
relazioni genitore-figlio e a come queste possano influenzare negativamente le relazioni che
l'individuo stabilisce poi in età adulta.
2. Sul comportamento agiscono influenze inconsce:
L'inconscio è al centro dell'attenzione della ricerca contemporanea nelle neuroscienze cognitive e
in psicopatologia. Queste ricerche dimostrano come le persone possano essere inconsapevoli di ciò
che è all'origine del loro comportamento. Tuttavia, la maggior parte dei ricercatori e dei clinici
odierni non crede che l'inconscio sia da intendersi come depositario degli istinti dell'Es.
3. Le cause e gli scopi del comportamento umano non sono sempre evidenti:
Freud e i suoi seguaci hanno sensibilizzato intere generazioni di clinici e di ricercatori all'idea che
cause e scopi del comportamento umano siano tutt'altro che ovvi. I teorici psicodinamici
contemporanei continuano a metterci in guardia dall’accettare ogni cosa per come appare
superficialmente. Questa tendenza a guardare sotto la superficie, a trovare il significato nascosto
dei comportamenti, è l’eredità più importante lasciataci da Freud.

La nascita del comportamentismo


Dopo alcuni anni molti studiosi iniziarono a perdere fiducia nell'approccio di Freud. A questa generale
insoddisfazione diede una risposta John B. Watson che nel 1913 rivoluzionò con le sue teorie il campo della
psicologia.
Watson si rivolse alle procedure sperimentali adottate dagli psicologi che studiavano l'apprendimento negli
animali, e grazie al suo contributo l'attenzione della psicologia si spostò dal pensiero all'apprendimento.
Il comportamentismo (o behaviorismo) si incentra sullo studio del comportamento osservabile anziché
della coscienza o delle funzioni mentali. Tre tipi di apprendimento che hanno influenzato l'approccio
comportamentista (o behaviorista) dagli inizi fin verso la metà del XX secolo, e che continuano a esercitare
notevole influenza anche sulla psicologia odierna: il condizionamento classico, il condizionamento operante
e l'apprendimento per imitazione o modellamento.

Il condizionamento classico
All'inizio del XX secolo, il fisiologo russo e premio Nobel Ivan Pavlov scoprì, in modo alquanto accidentale,
un tipo di apprendimento poi definito condizionamento classico. Nell'ambito di uno studio sull'apparato
digerente, il gruppo di Pavlov iniziò a somministrare ai cani da esperimento della carne in polvere, per
stimolarne la salivazione. In breve tempo, i ricercatori si accorsero che i cani iniziavano a salivare non
appena vedevano la persona che portava il cibo; col proseguire dell'esperimento, la salivazione incominciò
a manifestarsi ancora prima, non appena il cane udiva da lontano i passi della persona che veniva a nutrirlo.
Stimolato da questi risultati, Pavlov decise di sottoporre le reazioni dei cani a uno studio sistematico. Nel
primo dei molti esperimenti che la sua équipe condusse, un campanello veniva fatto suonare alle spalle del
cane subito prima di somministrargli la carne in polvere. Dopo un certo numero di ripetizioni della
procedura il cane iniziava a salivare non appena udiva il suono del campanello, prima ancora di ricevere la
carne in bocca.
Poiché in questo esperimento la carne in polvere provoca la salivazione in modo automatico, cioè in
assenza di precedente apprendimento, essa viene definita stimolo incondizionato (SI) e la risposta di
salivazione da essa sollecitata è detta risposta incondizionata (RI). Quando, per un certo numero di prove,
la somministrazione della carne in polvere è preceduta da uno stimolo neutro, come il suono di un
campanello, tale suono (stimolo condizionato o SC) acquista la capacità di evocare, da solo, la risposta di
salivazione (risposta condizionata o RC). Più aumenta il numero di volte in cui i due stimoli, campanello e
carne, sono presentati abbinati, più aumenta la frequenza delle risposte di salivazione evocate dal solo
campanello.

Se invece il suono del campanello non è più seguito dal cibo (se allo SC non segue più lo SI), allora le
salivazioni (RC) diminuiscono gradualmente fino a scomparire del tutto, questo fenomeno prende il nome
di estinzione.

Il condizionamento classico può portare alla formazione di una paura patologica, come dimostra
l’esperimento di Watson sul piccolo Albert.

Il condizionamento operante
Edward Thorndike iniziò un lavoro di ricerca che portò alla scoperta di un altro tipo di apprendimento.
Thorndike si interessò agli effetti delle conseguenze sul comportamento. Egli formulò la legge dell'effetto:
un comportamento seguito da effetti gratificanti per l'organismo sarà ripetuto, mentre un comportamento
seguito da effetti dannosi o spiacevoli verrà scoraggiato.
B. F. Skinner (1904-1990) introdusse il concetto di condizionamento operante, così detto in quanto riferito
al comportamento che opera sull'ambiente. Ridenominando la «<legge dell'effetto» di Thorndike col
termine «principio del rinforzo», Skinner distingueva fra due tipi diversi di rinforzo.

Il rinforzo positivo (positive reinforcement) indica il rafforzamento della tendenza a produrre una certa
risposta in virtù della presentazione di un evento piacevole, chiamato «rinforzatore positivo» (positive
reinforcer). Ad esempio, un piccione privato dell'acqua tenderà a ripetere quei comportamenti (operanti)
che hanno come conseguenza il suo ottenere l'acqua.

Il rinforzo negativo (negative reinforcement) consiste sempre nel rafforzamento di una risposta ma
attraverso la rimozione di un evento spiacevole, ad esempio la cessazione di una scarica elettrica.
Il modellamento
Spesso l'apprendimento ha luogo anche in assenza di rinforzi. Noi tutti apprendiamo tramite l'osservazione
e l'imitazione degli altri, un processo detto modellamento (modeling).
Negli anni Sessanta, diversi lavori sperimentali dimostrarono che osservare qualcuno mentre svolge certe
attività può incoraggiare, o scoraggiare, vari tipi di comportamento, come la condivisione, l'aggressività e la
paura. Bandura e Menlove (1968), ad esempio, si servirono di una terapia basata sul modeling per far
superare a dei bambini la paura dei cani. Dopo aver osservato una persona (il modello) che senza timore si
dedicava a varie attività con un cane, bambini che inizialmente temevano quest'animale in seguito si
mostrarono decisamente più disponibili ad avvicinarsi a un cane e a toccarlo. È possibile che i figli di
persone che soffrono di fobie, o abusano di particolari sostanze, acquisiscano modalità comportamentali
simili ai genitori anche attraverso l'osservazione.

La terapia comportamentale
Approccio terapeutico emerso negli anni Cinquanta, nella sua forma originale la terapia comportamentale
si avvaleva di procedure basate sul condizionamento classico e su quello operante per trattare problemi
clinici. Questo tipo di terapia è chiamato anche modificazione del comportamento, termine spesso
preferito dai terapeuti che utilizzano il condizionamento operante come strumento terapeutico. La terapia
del comportamento rappresentò il tentativo di modificare comportamenti, pensieri e sentimenti
applicando in un contesto clinico i metodi usati e le scoperte effettuate dagli psicologi sperimentali.

Un'importante tecnica della terapia comportamentale, ancora utilizzata per trattare fobie e disturbi di
ansia, è la de sensibilizzazione sistematica. Sviluppata da Joseph Wolpe nel 1958, essa è costituita da due
componenti fondamentali:
1. Un profondo rilassamento muscolare
2. L'esposizione graduale a una serie di situazioni temute dalla persona, a partire da quelle che le
causano meno ansia per arrivare progressivamente a quelle più ansiogene.

Wolpe ipotizzò che, man mano che la persona viene esposta a paure via via più forti, la risposta d'ansia che
gli è usuale viene gradatamente sostituita da uno stato o da una risposta antagonista alla paura.

A partire dagli anni Sessanta, anche il modellamento è entrato a far parte della terapia comportamentale.

L'IMPORTANZA DELLA COGNIZIONE.


Ancora oggi il comportamentismo continua manifestare la sua influenza, ma molti critici ricercatori hanno
messo in luce i limiti di un approccio focalizzato sul comportamento.
Oltre a comportarsi in un certo modo, gli esseri umani pensano anche, e provano emozioni, sentimenti.
Le prime teorie comportamentiste non lasciavano molto spazio alla cognizione e all’emozione.
A partire dagli anni 60, lo studio della cognizione ha cominciato ad assumere un ruolo di ri roba ciao lievo:
molti ricercatori si sono resi conto che i modi in cui le persone pensano le situazioni (ovvero le valutano),
può influenzare il comportamento in maniera radicale.

LA TERAPIA COGNITIVA.
La terapia cognitiva si basa sull’idea che le persone non solo si comportano in un certo modo, ma pensano
anche provano sentimenti ed emozioni.
Tutti gli approcci cognitivi pongono l’accento sul fatto che il modo in cui le persone elaborano
cognitivamente se stesse e il mondo è un fattore determinante nei disturbi psicologici.
Nella terapia cognitiva, il terapeuta tipicamente comincia con l’aiutare i clienti a diventare più consapevoli
dei loro pensieri disadattativi. I terapeuti sperano che, modificando i propri pensieri, le persone saranno in
grado di modificare i loro sentimenti, emozioni, comportamenti e sintomi.
Alle radici di questo tipo di terapia vi sono:
- La terapia cognitiva di Beck
- La terapia comportamentale razionale-emotiva di Ellis.

Secondo la tesi fondamentale di quest’ultimo approccio, le reazioni emozionali prolungate nel tempo sono
causate da affermazioni che le persone continuano a ripetere a se stessi e che talvolta riflettono assunti da
taciti, cioè convinzioni irrazionali, su ciò che è necessario per dare senso alla vita. Lo scopo è eliminare le
convinzioni autolesive del paziente: una persona depressa può ripetersi molte volte al giorno “non valgo
niente, sono un vero fallimento”.
Secondo la visione di Ellis, le persone interpretano ciò che accade intorno a loro e tali interpretazioni
possono volte causare uno stato di profondo turbamento emotivo; quindi, l’attenzione del terapeuta
dovrebbe concentrarsi su queste convinzioni, piuttosto che sulla ricerca delle cause nella storia passata del
paziente o sul suo comportamento manifesto.

Ellis elencò una serie di convinzioni irrazionali che le persone possono produrre; in seguito, passò dalle
specifiche convinzioni al concetto più generale di demandingness, il “livello di richiesta”, quell’insieme di
pretese o “dover essere” che le persone impongono a sé stessi e agli altri. Questo tipo di atteggiamento
interiore fa sì che, di fronte alle difficoltà e alle delusioni, anziché impegnarsi in qualche comportamento
che possa portare all’esito voluto, la persona semplicemente pretende che le cose si adeguino ai suoi
desideri. Per Ellis questa è una richiesta non realistica, improduttiva, che crea quel genere di sofferenza
emozionale e di disfunzione comportamentale che porta le persone a cercare l’aiuto di un terapeuta.

CAPITOLO 2.
GLI ATTUALI PARADIGMI DELLA PSICOPATOLOGIA
PARADIGMA: Quadro di riferimento concettuale o approccio metodologico al cui interno opera lo
scienziato. Insieme degli assunti fondamentali, la prospettiva generale, che definisce i criteri per
concettualizzare e studiare un particolare tema, i metodi che saranno usati per accogliere interpretare i
dati, la visione generale del problema.
I paradigmi specificano quali problemi saranno studiati il modo in cui l’indagine sarà condotta.

I paradigmi più utilizzati sono: il paradigma genetico, il paradigma delle neuroscienze e il paradigma
cognitivo-comportamentale.

La visione attuale della psicopatologia è molto sfaccettata, per questo motivo l’approccio più attuale alla
psicopatologia e al trattamento implica di solito l’integrazione di più paradigmi. Inoltre, nessun paradigma
da solo offre una concettualizzazione ‘’completa’’ della psicopatologia, piuttosto ciascuno di essi offre un
contributo importante rispetto all’eziologia e al trattamento.

IL PARADIGMA GENETICO.
Oggi sappiamo che quasi tutti i comportamenti sono, in certa misura, ereditabili e, ciò nonostante, i geni in
operano in totale isolamento dall’ambiente. Piuttosto, l’ambiente plasma l’espressione dei nostri geni e i
geni plasmano l’ambiente.

L’interpretazione più accreditata della relazione che lega geni e ambiente è rappresentata dalla frase
nature via nurture ossia la natura attraverso la cultura. I ricercatori stanno scoprendo in che modo le
influenze ambientali (stress, relazioni interpersonali e fattori culturali) agiscono sui nostri geni attivandone
alcuni e disattivandone altri, in che modo i nostri geni influenzano il corpo e il cervello. Sappiamo che senza
geni non vi sarebbe comportamento possibile, ma anche senza l’ambiente l’espressione dei geni sarebbe
impossibile.

GENI: ogni cromosoma è composto da molti geni che veicolano l’informazione genetica (DNA), la quale
viene trasmessa dai genitori ai figli. Bisogna specificare che il numero dei geni non è così importante,
piuttosto è la sequenza in cui i geni sono ordinati nel DNA e il modo in cui vengono espressi a rendere unico
un individuo.
ESPRESSIONE GENICA. L’attività dei geni è più importante del loro numero e ciò che i geni fanno produrre
proteine che a loro volta determinano il funzionamento del corpo del cervello. Alcune di queste proteine
accendono oppure spengono altri geni, dando luogo ad un processo che prende il nome di espressione
genica. Anche quando possediamo il gene per la malattia x, ciò non vuol dire che finiremo necessariamente
per ammalarci di quella malattia. Quello che importa il modo in cui i nostri geni interagiscono con
l’ambiente.

Per quanto riguarda la maggior parte dei disturbi mentali, la vulnerabilità individuale non dipende da un
unico gene, piuttosto l’origine della psicopatologia appare poligenica: ciò significa che l’essenza della
vulnerabilità risiede in più geni, i quali possono agire in momenti diversi dello sviluppo, e attivarsi oppure
disattivarsi nell’interazione con l’ambiente che circonda la persona. Quindi non si eredita la malattia
mentale tramite i nostri geni, ma la si sviluppa attraverso l’interazione dei nostri geni con l’ambiente.

L’ereditabilità indica in che misura la variabilità di un comportamento (o di un disturbo) all’interno di una


configurazione può essere spiegata da fattori genetici. Vi sono due aspetti dell’ereditabilità da tenere
presenti:

1. L’ereditabilità è un parametro statistico il cui valore può variare tra 0,0 e 1,0. Più alto è il valore del
parametro e maggiore è l’ereditabilità del carattere in esame.
2. Il termine ha senso soltanto rispetto a una vasta popolazione e non ad un singolo individuo

Oltre ai geni, nella ricerca genetica sono importanti i fattori ambientali:


• Fattori ambientali condivisi: tutti gli elementi condivisi dai membri di una stessa famiglia (reddito,
stato coniugale dei genitori).
• Fattori ambientali non condivisi: comprendono tutti gli elementi che differiscono dai singoli
membri della famiglia (relazioni amicali, specifici eventi personali).

Questi elementi contribuiscono a spiegare perché due fratelli siano molto diversi, pur appartenendo la
stessa famiglia.
Le ricerche di genetica del comportamento suggeriscono che le esperienze ambientali uniche, quindi non
condivise, hanno un’influenza molto maggiore sull’eventuale sviluppo di malattie mentali che non le
esperienze condivise.

Due approcci generali rientrano nell’ambito del paradigma genetico:

1) LA GENETICA DEL COMPORTAMENTO:


Studio del grado in cui i geni e i fattori ambientali influenzano il comportamento. Non studia il
modo in cui i geni o l’ambiente influenzano il comportamento
Genotipo. Corredo genetico di un individuo, formato dai geni che esso ha ereditato dai genitori,
non è osservabile direttamente ad occhio nudo, Non è comunque un’entità statica: i geni si attivano
e si disattivano.
Fenotipo. Insieme di tutte le caratteristiche comportamentali manifeste, esteriormente osservabili
nell’individuo. Si modifica nel corso del tempo del prodotto dell’interazione tra genotipo e
ambiente (intelligenza è un indice del fenotipo).

2) LA GENETICA MOLECOLARE.
Tenta di identificare particolari geni e le loro funzioni.
L’INTERAZIONE GENI-AMBIENTE.
Come sappiamo, geni e ambiente interagiscono. Le esperienze nel corso della vita influenzano il modo in
cui i nostri geni vengono espressi e i geni influenzano i nostri comportamenti in modo tale da portarci a
scegliere esperienze differenti.
Il concetto di interazione geni-ambiente implica che la sensibilità di una persona ad un evento ambientale
è influenzata dai suoi geni.

Ad esempio, una persona con il gene XYZ potrebbe rispondere al morso di un serpente sviluppando una
fobia verso questi rettili; il che non accadrebbe, invece, in una persona priva di quel gene. Questa semplice
reazione richiede comunque l’intervento sia di geni (il gene XYZ) sia di uno specifico evento ambientale (il
morso del serpente).

Lo studio di come l’ambiente modifica l’espressione o la funzione genica rientra nell’importante disciplina
definita epigenetica, che significa “al di sopra, o al di fuori, del gene” e si riferisce a “marcature” chimiche
che si attaccano al DNA di ogni gene inattivandolo o schermandolo. Sono queste marcature epigenetiche a
controllare l’espressione genica, e l’ambiente ne può influenzare direttamente il funzionamento.

L’INTERAZIONE RECIPROCA GENI-AMBIENTE.


Un’altra modalità con cui geni possono influenzare la psicopatologia sta nel promuovere nella singola
persona l’esperienza di particolari tipi di ambiente. Questo concetto prende il nome di interazione
reciproca geni-ambiente e si fonda sull’idea che i geni possono predisporci a ricercare particolari ambienti,
che poi fanno aumentare il rischio di sviluppare un certo disturbo.
Quindi, un certo tipo di eventi stressanti, detti eventi “dipendenti”, sembra essere influenzato più dai geni
che da sfortunate circostanze ambientali.

IL PARADIGMA DELLE NEUROSCIENZE.


Il paradigma delle neuroscienze afferma che i disturbi mentali si associano a processi cerebrali anomali. Si
basa quindi sulla relazione tra il funzionamento del cervello e psicopatologia.

Le aree di studio sono:


- I neuroni e i neurotrasmettitori
- La struttura e la funzione del cervello
- Il sistema neuroendocrino.

IL PARADIGMA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE.
Il paradigma cognitivo-comportamentale trae le proprie radici dei principi dell’apprendimento e dalle
scienze cognitive.

LE INFLUENZE DELLA TERAPIA COMPORTAMENTALE.


Una delle principali nozioni derivate dal comportamentismo è che un comportamento problematico
continuerà a essere prodotto se riceve un rinforzo.
Una volta identificata la fonte del rinforzo, è possibile mettere a punto un trattamento su misura tale da
cambiare le conseguenze del comportamento problematico. Se si appura che un comportamento
problematico viene rinforzato dall’attrarre attenzione, il trattamento potrebbe consistere nell’ignorare quel
comportamento. In alternativa, si potrebbe far seguire al comportamento problematico un periodo di time-
out, ovvero la persona viene rilasciata per un certo tempo in una situazione in cui non sono disponibili
rinforzi positivi.

Un’altra tecnica usata per far aumentare la frequenza del comportamento desiderato consiste
nell’associare contingentemente un rinforzo positivo al comportamento prodotto.
Nel caso di un bambino che rifugge contatto sociale, si può somministrare un rinforzo positivo ogni volta
che il bambino sceglie di giocare con gli altri.

Le tecniche operanti come il rinforzo sistematico dei comportamenti desiderati e l’estinzione di quelli
indesiderabili, si sono dimostrati particolarmente efficaci nel trattamento di molti problemi dell’infanzia.
Una volta che le contingenze di rinforzo rimodella non comportamento, l’obiettivo principale sta nel
mantenere gli effetti del trattamento.
Varie ricerche indicano che il rinforzo intermittente (cioè il fatto di ricompensare una data risposta non
tutte le volte che viene prodotta, ma soltanto alcune volte) rende il nuovo comportamento più duraturo.
Molti programmi basati sulle tecniche operanti smettono di applicare lo schema rinforzo continuo una volta
che il comportamento desiderato si è stabilizzato e compare regolarmente.

Un’altra tecnica operante efficace è l’attivazione comportamentale (BA behavioral activation) usato nella
terapia della depressione e finalizzata ad aiutare una persona a impegnarsi in compiti che creano
opportunità di ricevere rinforzi positivi.

Un’altra tecnica è detta desensibilizzazione sistematica e implica due componenti:

1) un profondo rilassamento muscolare;


2) l’esposizione a una serie di situazioni temute, a partire da quelle meno ansiogene fino a quelle
massimamente ansiogene.

La componente essenziale è l’esposizione, l’assunto teorico di fondo è che l’ansia si estinguerà, se la


persona riesce a confrontarsi per un tempo sufficientemente lungo con l’oggetto o la situazione temuta
senza che si verifichi alcun danno.

L’esposizione può avvenire in vivo (situazioni reali, è più efficace), o si può ricorrere a un’esposizione
immaginativa. In altri casi ancora trattamento utilizzerà entrambi i tipi di esposizione.

Una persona con una fobia dei serpenti: anzitutto si insegna soggetta rilassarsi pavimenti. Poi si fa
compilare la personalista di situazioni che hanno a che fare con i serpenti, ordinandole in modo crescente
rispetto all’ansia o la paura che producono (udire la parola serpente, osservare l’immagine di un serpente,
osservare la fotografi di un serpente, guardare un documentario dei serpenti, osservare un serpente vivo
chiuso in una teca di vetro, osservare un serpente vive libero da vari metri di distanza, osservare un
serpente che si avvicina). Mentre è rilassato, il soggetto viene quindi invitato a immaginare, una per volta,
la progressione delle diverse situazioni ansiogene relative serpenti. Il rilassamento tende ad inibire l’ansia
altrimenti prodotta dall’immaginare le scene di serpenti. Nel corso delle sedute di terapia, il soggetto riesce
a sopportare l’immaginazione di situazioni sempre più stressanti, man mano che progredisce nella
gerarchia di stimoli ansiogeni a cui è esposto.

L’esposizione continua a essere una componente centrale di molte forme di terapia cognitivo-
comportamentale. Quella in vivo (quando praticabile) è più efficace di quella immaginativa. Non è
dimostrato che il training al rilassamento sia davvero necessario per ottenere esiti positivi.

Al comportamentismo e alla teoria comportamentale viene spesso rivolta la critica di minimizzare due
aspetti invece importanti: ciò che si pensa e ciò che si prova in una data situazione. Questi limiti
dell’approccio comportamentale ha indotto alcuni ricercatori a tenere conto di variabili cognitive nei loro
modelli del comportamento o nei trattamenti per disturbi psicopatologici
LE SCIENZE COGNITIVE
Il termine cognizione riassume in sé numerosi processi mentali: percezione, riconoscimento, ideazione,
giudizio e ragionamento.
Le scienze cognitive si occupano di come le persone e gli animali strutturano le proprie esperienze, ne
traggono un senso e mettono in relazione le esperienze presenti con quelle passate, depositate in
memoria.
Gli psicologi cognitivi concepiscono l’individuo come interprete attivo di ogni situazione, e le sue
conoscenze passate costituiscono una sorta di canale percettivo attraverso cui viene vagliata l’esperienza
presente. La persona inserisce ordinò informazione in una rete organizzata di conoscenze acquisite, è
indicata col termine di schema o set cognitivo. Ogni nuova informazione può adattarsi allo schema
preesistente; in caso contrario, la persona può riorganizzare lo schema in modo da far entrare la nuova
informazione, oppure elaborare l’informazione in modo tale che si accordi allo schema.

Un altro contributo importante dato dalle scienze cognitive è lo studio dell’attenzione: le persone affette
da patologie molto diverse come disturbi d’ansia (concentrare l’attenzione su situazioni minacciose), i
disturbi dell’umore, la schizofrenia (hanno difficoltà a tenere concentrata l’attenzione per un lungo periodo
di tempo) hanno problemi di attenzione.

Uno degli strumenti di cui i ricercatori si avvalgono per studiare l’attenzione è il test di Stroop: si presenta
soggetto una lista di parole che consistono i nomi di colori, ciascuna scritta con inchiostro di colore diverso;
il soggetto deve dire più rapidamente possibile il colore dell’inchiostro in cui è scritta la parola che legge. Il
soggetto deve resistere all’impulso naturale di pronunciare la parola che vede scritta. Quest’effetto di
interferenza, misurato dal ritardo con cui il soggetto fornisce la risposta, si spiega col fatto che le parole
“catturano l’attenzione” più del colore di stampa.

Questo test è stato modificato in relazione all’attenzione attratta dal contenuto emozionale delle parole più
che da colori. Si tratta di un’altra versione del test, chiamata Stroop emozionale: in questa versione del test
il soggetto deve ancora dire il colore dell’inchiostro di stampa anziché la parola scritta, ma questa volta le
parole non sono nomi di colori, bensì vocaboli che si riferiscono emozioni (le parole possono essere
minaccia, pericolo, felice, ambizioso e scritte in colori diversi). In soggetti con disturbi d’ansia alcuni
vocaboli catturano a tal punto l’attenzione da rendere loro molto difficile resistere all’impulso di
pronunciarli al posto del colore. Queste persone mostrano effetti di interferenza più intensi con parole che
esprimono minaccia rispetto a parole che non hanno questa valenza emotiva.

I concetti di schema e di attenzione sono, ovviamente, correlati. Se una persona ha un particolare schema
riguardo al mondo (il mondo è pericoloso), è probabile che essa presti attenzione particolare alle cose
minacciose o pericolose presenti nell’ambiente. Tale persona ha più probabilità di interpretare come
minacciosi eventi ambientali di significato ambiguo.

Oggi paradigma cognitivo ha un ruolo centrale nella ricerca sulle cause di una psicopatologia e sui nuovi
metodi di trattamento.

Secondo la loro interpretazione della depressione, il disturbo dell’imputato ad un particolare schema


cognitivo, più precisamente al senso di disperazione (assenza di speranza) che opprime queste persone.
Coloro che soffrono di depressione hanno infatti la convinzione di non riuscire ad influire in alcun modo
sulla realtà che li circonda, indipendentemente da ciò che fanno. Non si sentono padroni del proprio
destino e dal futuro si aspettano soltanto eventi negativi.
IL RUOLO DELL’INCONSCIO.
Freud assumeva che gran parte del comportamento umano fosse inconscio.
Il modo di studiare empiricamente il ruolo dell’inconscio del comportamento umano e in psicopatologia si è
molto modificato nel corso del tempo.
L’inconscio è un argomento scottante degli psicologi cognitivi: ma di recente neuroscienze cognitive hanno
studiato il modo in cui il cervello sostiene comportamenti che avvengono al di fuori della coscienza (ad
esempio, il concetto di memoria implicita fa riferimento al fatto che una persona può essere influenzata dai
precedenti apprendimenti, senza esserne consapevole).

Gli attuali studi sull’inconscio sono molto lontani dall’iniziale concettualizzazione dell’inconscio di Freud.
Per le neuroscienze cognitive inconscio riflette l’efficienza e l’incredibile grado di automatismo del
cervello: attorno a noi accadono semplicemente troppe cose perché possiamo essere continuamente
coscienti di tutto. Il nostro cervello ha quindi sviluppato la capacità di registrare l’informazione per poi
utilizzarla in un momento successivo, anche se noi non ne siamo consapevoli.

LA TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) incorpora le teorie e la ricerca sui processi cognitivi. I
terapeuti che applicano questo approccio prestano molta attenzione gli aspetti più personali della vita del
paziente (pensieri, percezioni, giudizi, auto valutazioni e perfino assunti da acidi, quindi inconsci)
intervengono su di essi nel tentativo di comprendere e modificare i disturbi manifesti o nascosti del suo
comportamento.
Ristrutturazione cognitiva è un termine con cui si indica la modificazione di uno schema di pensiero.

Le persone affette da depressione possono non rendersi conto di quanto spesso pensino se stesse in
termini ipercritici e quelle affette da disturbi d’ansia possono non rendersi conto che tendono a essere
ipersensibili a potenziali situazioni di minaccia.

Il terapeuta cognitivo-comportamentale pensa di poter cambiare il modo di sentire, i comportamenti e i


sintomi di queste persone agendo sulle loro cognizioni. Il lavoro del terapeuta inizia col monitorare tutti i
pensieri che la persona esperisce nella vita quotidiana, ma poi cerca di portare in luce le distorsioni
cognitive profonde e gli schemi precostituiti che possono modulare i pensieri negativi del paziente nella
quotidianità.

LA TEORIA COGNITIVA DI BECK


Beck è una delle figure più eminenti nel campo della terapia cognitivo-comportamentale. Si deve a lui lo
sviluppo di una teoria cognitiva della depressione, fondata sul concetto che individui affetti da questo
disturbo hanno una percezione distorta delle proprie esperienze; tale distorsione percettiva li porta, ad
esempio, a trascurare tutti gli avvenimenti positivi e a focalizzare l’attenzione esclusivamente su quelli
negativi. Questi effetti sull’attenzione sulla memoria sono definiti bias dell’elaborazione delle informazioni
(information-processing biases). Questa terapia (che è stata adottata anche per altri disturbi oltre
depressione) affronta tali distorsioni, cercando di indurre il paziente a modificare sia l’opinione che hanno
su se stessi nel loro modo di interpretare gli eventi.

Lo scopo principale di questa terapia è fornire al paziente l’opportunità per fare esperienze, all’interno
come all’esterno del setting terapeutico, che possano modificare gli schemi mentali negativi e portarlo a far
prevalere il sentimento di speranza sulla disperazione.

Di recente sono state introdotte nella CBT molte innovazioni: terapia dialettico-comportamentale, terapia
cognitiva basata sulla mindfullness; terapia dell’accettazione e dell’impegno: strategia per minimizzare
l’evitamento emozionale: cerca di far capire alla persona che gran parte del potere distruttivo delle
emozioni sta nel modo in cui risponde a esse sul piano cognitivo e comportamentale. Una persona può
apprendere a essere più consapevole delle proprie emozioni, e al tempo stesso evitare le reazioni
immediate, impulsive a una data emozione. Questi nuovi trattamenti differiscono dalla CBT tradizionale per
la focalizzazione sulla spiritualità, sui valori, sulle emozioni e sull’accettazione.

VALUTAZIONE DEL PARADIGMA COGNITIVO- COMPORTAMENTALE


Ciò che contraddistingue il paradigma cognitivo-comportamentale è l’attribuire agli schemi di pensiero un
valore eziologico, ovvero i pensieri sono considerati cause degli altri sintomi del disturbo, ad esempio della
tristezza.

FATTORI CHE INFLUENZANO TRASVERSALMENTE I DIVERSI PARADIGMI


Tre importanti ordini di fattori: emozioni, fattori socioculturali e fattori interpersonali.

EMOZIONI E PSICOPATOLOGIA
Le emozioni influenzano il modo in cui rispondiamo ai problemi e alle sfide dell’ambiente, ci aiutano a
realizzare i pensieri le azioni, sia a livello esplicito sia implicito, inoltre guida il nostro comportamento. Non
sorprende, quindi, che molte forme di psicopatologia coinvolgano disturbo della sfera emotiva.

Le emozioni sono uno stato di breve durata, durano qualche secondo un minuto, o al massimo qualche ora.
Per descrivere un’emozione di breve durata si usa il termine stato affettivo.
Il tono dell’umore, invece, è uno stato emozionale che dura più a lungo.

L’emozione costituita da numerosi elementi e comprende:


1. Una componente espressiva o comportamentale (espressione facciale di emozioni);
2. Una componente esperienziale o soggettiva (ciò che la persona dice di sentire in un dato
momento);
3. Una componente fisiologica (cambiamenti corporei associati all’emozione, modificazioni a livello
somatico)

In alcuni disturbi psicopatologici possono rivelarsi alterate tutte le componenti delle emozioni (pazienti
schizofrenici hanno difficoltà a esprimere le loro emozioni, tuttavia riferiscono di provare emozioni molto
intense), mentre in altri problemi possono riguardare una componente soltanto (le persone con disturbo di
panico provano un’ansia e una paura eccessiva in assenza di un pericolo reale)

Un altro aspetto importante nello studio delle emozioni in psicopatologia è il concetto di stato affettivo
ideale (ideal affect), termine con cui si indica il tipo di stati emozionali che una persona idealmente
vorrebbe provare. Gli stati affettivi ideali variano in relazione a fattori culturali.

FATTORI CULTURALI E PSICOPATOLOGIA


Numerosi studi si sono incentrati sul modo in cui fattori socioculturali, come il genere, l’appartenenza
etnica, la cultura e lo status socioeconomico, possono contribuire all’insorgere dei disturbi psicologici. Lo
studio di queste influenze socioculturali sulla psicopatologia si basa sul presupposto che i fattori ambientali
possono innescare, aumentare o mantenere i sintomi dei diversi disturbi. La gamma delle variabili è
comunque davvero molto ampia.

FATTORI INTERPERSONALI E PSICOPATOLOGIA


Oltre al ruolo della cultura, dei fattori socioculturali e della povertà, ci sono numerosi studi dedicati
all’influenza della qualità delle relazioni interpersonali diversi disturbi. Le relazioni familiari e coniugali, il
sostegno sociale e perfino il contatto sociale occasionale hanno tutti un ruolo nell’influenzare lo sviluppo di
un disturbo.
Oltre alla terapia interpersonale, altri due tipi di trattamento sono:
1) La terapia di coppia
2) La terapia familiare.
In questi ambiti si è cercato di individuare un metodo per misurare non solo la vicinanza e il sostegno, ma
anche il grado di ostilità all’interno della relazione.

Terapia di coppia:
Le persone che vivono le difficoltà di un matrimonio in crisi hanno da due a tre volte più probabilità di
sviluppare un disturbo psicologico. In alcuni casi la crisi della coppia può essere una conseguenza del
disturbo psicologico di uno o di entrambi i partner, ma è anche chiaro che le difficoltà nella relazione
possono innescare molti disturbi psicologici. La terapia di coppia viene usata spesso per trattare i disturbi
psicologici, soprattutto quando questi si inseriscono nel contesto di una relazione difficile fra i partner.

Il terapeuta lavora con entrambi i partner in seduta congiunta, nell'intento di ridurre il disagio nella loro
relazione. Nella maggioranza dei casi il trattamento è incentrato sul migliorare la comunicazione, la
soluzione di problemi, la soddisfazione, la fiducia e i sentimenti positivi.

Terapia familiare:
La terapia familiare è basata sull'idea che i problemi di una famiglia influenzino ogni suo membro e che i
problemi di ogni singolo membro influenzino la famiglia nel suo complesso. Quindi si ricorre alla terapia
familiare per trattare i sintomi specifici di uno dei suoi membri, in particolare nel caso di problemi
dell'infanzia.
Alcuni terapeuti della famiglia si concentrano sui ruoli all'interno della famiglia, cercando di appurare, ad
esempio, se i genitori si assumono adeguatamente la responsabilità del loro ruolo. Talvolta il terapeuta
cerca di capire se un dato componente della famiglia ha finito per assumere il ruolo di «capro espiatorio» o
è accusato ingiustamente di qualche problema nell'ambito familiare. In molti casi l'intervento del terapeuta
consiste nell’insegnare ai familiari strategie che spossano facilitare la comunicazione e la soluzione dei
problemi.

Una caratteristica fondamentale della psicoanalisi è il transfert, con cui si indica la tendenza dell’analizzato
a rispondere, nella relazione con l’analista, in un modo che pare riflettere atteggiamenti e comportamenti
del paziente verso persone importanti del suo passato, più che aspetti reali della sua attuale relazione con
l’analista.

Gli attuali studiosi di impostazione psicodinamica hanno rielaborato il concetto di transfert, sottolineando
l’importanza delle relazioni interpersonali per il benessere psicologico dell’individuo. Ne è un esempio la
teoria delle relazioni oggettuali, che sottolinea l’importanza degli schemi relazionali duraturi che si
stabiliscono nelle relazioni più strette, soprattutto all’interno della famiglia, e che sono influenzati da ciò
che le persone sentono e pensano. Questa teoria travalica il concetto di transfert, ponendo l’accento su
come una persona arriva a concepire, consciamente o inconsciamente, la posizione che assegna al proprio
se in relazione alle altre persone. Una donna può arrivare a vedere se stessa come una persona senza
valore, in base alla relazione con una madre fredda e ipercritica nei suoi confronti.

Dalla teoria delle relazioni oggettuali è scaturita un’altra importante teoria, la teoria dell’attaccamento
(Bowlby e Ainsworth). Questi autori hanno sviluppato un metodo per valutare lo stile di attaccamento nei
bambini piccoli. In breve, la teoria dell’attaccamento sostiene che lo stile, cioè il tipo, di attaccamento di un
bambino nei confronti dell’adulto che lo accudisce può gettare le basi per il suo futuro benessere
psicologico o invece per lo sviluppo di problemi psicologici in età successive.

Gli psicologi sociali hanno integrato entrambe queste teorie nel concetto di sé relazionale, che fa
riferimento al sé in relazione agli altri. Questo concetto ha ricevuto una quantità enorme di conferme
empiriche. Ad esempio, i soggetti forniranno descrizione di sé diversa a seconda della persona alla quale si
chiede loro di pensare.
LA TERAPIA INTERPERSONALE (IPT)
Questa terapia sottolinea l’importanza delle relazioni attuali nella vita della persona e il fatto che problemi
nelle relazioni possono contribuire all’insorgere di sintomi psicopatologici.

Il terapeuta per prima cosa incoraggia il paziente ad identificare e poi esprimere i sentimenti relativi alle
sue relazioni, quindi aiuta il paziente a trovare soluzioni per i suoi problemi interpersonali. Questa terapia si
è dimostrata un trattamento efficace della depressione, ed è inoltre stata usata per trattare disturbi
dell’alimentazione, i disturbi d’ansia e disturbi di personalità.

Nell’IPT quattro aspetti delle relazioni interpersonali vengono valutati, per capire se uno o più di essi
influenzano il manifestarsi dei sintomi:

• Esperienze dolorose irrisolte. Quando l’esperienza di dolore conseguente a una perdita è rinviata nel
tempo o è vissuta in modo incompleto.
• Transizione di ruolo. Il passaggio dal ruolo di figlio a quello del genitore, o quello da lavoratore a quello
del pensionato.
• Conflitti di ruolo. Situazioni in cui i partner di una relazione sentimentale hanno delle aspettative
differenti rispetto alla relazione stessa.
• Deficit interpersonali e sociali. Essere incapaci di avviare una conversazione con una persona
sconosciuta o avere difficoltà a trattare con il proprio datore di lavoro.

In conclusione, il terapeuta aiutata il paziente a capire che la psicopatologia si manifesta in un contesto


sociale o relazionale, e che per ridurre i sintomi psicopatologici e necessario che apprenda a gestire meglio
le modalità con cui si relaziona agli altri.

UN MODELLO INTEGRATO: IL PARADIGMA DIATESI-STRESS


La psicopatologia è una disciplina troppo sfaccettata perché ciascuno degli attuali paradigmi possa da solo
bastare a spiegarla o a trattarla in modo esaustivo.
La maggior parte dei disturbi ha molte probabilità di svilupparsi attraverso l’interazione tra fattori
neurobiologici e ambientali:
Il paradigma diatesi stress ha un carattere integrato in quanto collega tra loro fattori genetici,
neurobiologici, psicologici e ambientali; inoltre non è limitato a una sola scuola di pensiero (ad esempio
cognitivo-comportamentale o genetica o neurobiologica).
È stato introdotto negli anni 70 per spiegare la molteplicità di cause che contribuiscono allo sviluppo della
schizofrenia, e continua a esercitare una forte attrazione per spiegare numerosi disturbi poiché è incentrato
sulle interazioni fra predisposizione allo sviluppo di un certo disturbo (diatesi) e condizioni ambientali o
esistenziali perturbanti (stress).

Il termine diatesi si riferisce ad una predisposizione costituzionale dell’individuo per una malattia, ma può
essere esteso a qualsiasi caratteristica o insieme di caratteristiche individuali che faccia aumentare la
probabilità di una persona di sviluppare un certo disturbo.

Per quanto riguarda l’ambito neurobiologico, sembra esistere una diatesi trasmessa per via genetica. È
chiaro, infatti, che la predisposizione genetica rappresenta una componente importante in molte
psicopatologie

Per quanto riguarda l’ambito psicologico, si può considerare una diatesi per la depressione un particolare
schema cognitivo, come la cronica sensazione di mancanza di speranze e aspettative che si riscontra in
individui affetti da depressione. Fra le altre diatesi psicologiche ci sono la suggestionabilità ipnotica, e
un’intensa paura di ingrassare.

Un individuo con una diatesi per un certo disturbo è esposto ad un rischio maggiore di sviluppare quel
disturbo, ma non è necessariamente detto che lo sviluppi.
L’altra componente del paradigma, lo stress, spiega come una diatesi possa tradursi in un disturbo
effettivo.
In questo contesto, il termine stress si riferisce a una stimolazione ambientale nociva o spiacevole, che può
innescare un processo psicopatologico.
I fattori stressanti (stressor) di natura psicologica comprendono sia gravi eventi traumatici (per via del
lavoro, divorzio, morte del coniuge) sia fattori di stress cronici e sia avvenimenti molto più comuni che
rientrano l’esperienza della maggior parte delle persone (un guasto all’automobile).

Il punto chiave di questo modello è che sia la diatesi che lo stress sono necessari per lo sviluppo di un
determinato disturbo.

Un altro aspetto importante di questo modello sta nel riconoscere che una psicopatologia è difficilmente
riconducibile all’influenza di un unico fattore.

Una diatesi trasmessa per via genetica può essere necessaria all’insorgenza di un disturbo, ma essa è
comunque inserita in una rete di molteplici fattori, ognuno dei quali porta un suo contributo allo sviluppo
della patologia. Questi fattori potrebbero essere: diatesi geneticamente trasmesse relative ad altre
caratteristiche della personalità, esperienze infantili in grado di plasmare la personalità, lo sviluppo di
competenze comportamentali e di strategie di coping, eventi stressanti in cui si va incontro nella vita
adulta, influenze culturali, e numerosi altri fattori.

Occorre notare che, in questa prospettiva, i dati prodotti da ricercatori che adottano paradigmi diversi non
sono fra loro incompatibili.

CAPITOLO 3
DIAGNOSI E VALUTAZIONE
La diagnosi e la valutazione sono i primi passi di cruciale importanza nello studio del trattamento della
psicopatologia.
Formulare una diagnosi corretta consentirà al clinico di delineare le cause e i trattamenti più adeguati per
intervenire. È anche importante per la ricerca del sull’eziologia del disturbo sul suo trattamento.
Per arrivare a trarre la diagnosi corretta, clinici e ricercatori si servono di un’ampia gamma di procedure di
valutazione, a partire dal colloquio clinico.

Ma in generale, tutte le procedure di valutazione clinica sono strumenti formalizzati finalizzati a scoprire
che cosa non va in una persona.

Oltre a contribuire alla formulazione della diagnosi, le procedure di valutazione possono anche fornire
informazioni il cui valore al di là della diagnosi stessa. Di fatto, la diagnosi è soltanto un punto di partenza.

Le tecniche di valutazione più usate comprendono il colloquio, la valutazione psicologica e la valutazione


neurobiologica.

I FONDAMENTI DELLA DIAGNOSI E DELLA VALUTAZIONE.


I concetti di affidabilità e validità sono alla base di qualunque procedura diagnostica o di valutazione.

*AFFIDABILITÀ.
Per affidabilità si intende la coerenza delle misurazioni, costanza delle misura. Esistono vari tipi di
affidabilità:
- Affidabilità interrater: indica il grado di concordanza nel giudizio espresso da due osservatori
indipendenti su uno stesso fenomeno da essi osservato.
- Affidabilità test-retest: misura il grado in cui un soggetto osservato in due momenti diversi (o
sottoposto due volte allo stesso test, magari a distanza di settimane) tende ad ottenere punteggi simili.
(Si variabile intelligenza, no variabile umore).
- Affidabilità della versione alternativa (anziché sottoporre il soggetto per due volte ad uno stesso test,
gli psicologi gli somministrano due versioni diverse del test perché i soggetti possono ricordare le
risposte fornite nella prima prova) indica la coerenza tra i punteggi ottenuti dal soggetto nelle due
versioni del test.
- Affidabilità da coerenza interna valuta se gli item di un test sono tra loro correlati (gli item di un
questionario sull’ansia devono essere collegati tra loro, se davvero costruiscono una misura dell’ansia).

*VALIDITÀ
La validità è un concetto che indica in che grado una procedura di valutazione misura effettivamente ciò
che intende misurare.
La validità è strettamente correlata all’ affidabilità: misure inaffidabili non possono essere valide.
Anche l’affidabilità di una misura, però, non basta a garantirne la validità: l’altezza può essere misurata in
modo affidabile, però non può costituire una misura valida dell’ansia.
Tipi di validità:
- Validità di contenuto indica se una misura rappresenta adeguatamente l’ambito che si sta indagando.
- Validità di criterio viene valutata determinando se una misura è associata in modo costante e
prevedibile a un’altra misura (il criterio). Se entrambe le variabili vengono misurate nello stesso
momento si parla di Validità concorrente,
- Validità predittiva si può stabilire la validità di criterio della misura in questione valutandone la
capacità di prevedere un’altra variabile, misurata in un secondo momento a distanza di tempo. Quindi
validità concorrente e validità predittiva sono due tipi di validità di criterio.
- Validità di costrutto è un concetto più complesso: riguarda l’interpretazione di un test come misura di
qualche caratteristica (costrutto) che non può essere osservata direttamente. Un costrutto è un’entità
di cui si inferisce l’esistenza, come l’ansia. La validità di costrutto fa riferimento ad un preciso quadro
teorico.

CLASSIFICAZIONE E DIAGNOSI
IL SISTEMA DIAGNOSTICO DELLA AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION: VERSO IL DSM-5
Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) è il manuale diagnostico sviluppato
dall’American Psychiatric Association nel 1952, e ad oggi sottoposto a cinque revisioni.
Ad ogni versione del DSM sono stati apportati miglioramenti, quali:
1) criteri diagnostici specifici, cioè i sintomi richiesti per trarre una determinata diagnosi, descritti con
precisione;
2) caratteristiche di ogni diagnosi definite in maniera molto dettagliata rispetto alla seconda revisione di
ogni disturbo vengono descritte le caratteristiche essenziali, quindi quelle associate (come i dati emersi da
ricerche di laboratorio e da risultati di esami fisici).

Il DSM-IV-TR ha introdotto una maggiore enfasi sui fattori culturali, come pure sugli assi per valutare i
pazienti.

Il sistema di classificazione del DSM-IV-TR comprende cinque assi.

Il sistema di classificazione multiassiale richiede una valutazione su ciascuno dei cinque assi e obbliga il
clinico a prendere in considerazione una gamma di informazioni molto ampia.
L’asse I include tutte le categorie diagnostiche, ad eccezione dei disturbi di personalità e del ritardo
mentale , che insieme costituiscono l’asse II.

Gli assi I e II insieme coprono l’intera classificazione dei disturbi mentali.

L’asse III è riportata qualsiasi condizione medica ritenuta rilevante (per molti diagnosi il DSM prevede di
indicare se il disturbo è dovuto ad una condizione medica o all’abuso di una sostanza).

L’asse IV codifica i problemi di natura psicosociale ed ambientali che potrebbero

contribuire al disturbo mentale (problemi lavorativi, abitativi, difficoltà nella relazione interpersonale).

L’asse V su questo asse il clinico indica l’attuale livello di funzionamento adattativo della persona,
utilizzando valori da 0 a 100 sulla scala VGF, ovvero la scala per la valutazione globale del funzionamento.
Questa scala prende in considerazione le relazioni sociali, il rendimento sul lavoro ed il modo di trascorrere
il tempo libero.

Schema pagina 67 libro.

MODIFICHE AL SISTEMA MULTIASSIALE.

Il Sistema multiassiale sviluppato per il DSM-IV-TR subisce delle modifiche nel DSM-5.

I primi tre assi vengono ridotti ad un asse per le sindromi cliniche (diagnosi psichiatriche e mediche).

Il quarto asse viene mantenuto per i problemi psicosociali ed ambientali, ma ne sono stati cambiati i codici.

Il quinto asse non esiste più: al suo posto, ai clinici verrà chiesto di valutare la gravità di un disturbo lungo
un continuum usando scale sviluppate specificamente per ciascun disturbo.

Schema pagina 67 libro.

ORGANIZZARE LE DIAGNOSI IN BASE ALL'EZIOLOGIA.

Il DSM-IV-TR definisce le diagnosi interamente sulla base dei sintomi.

Sono stati molti però i progressi compiuti nella comprensione dell’eziologia (cioè delle cause dei disturbi).
Tuttavia, la base di conoscenze non è ancora abbastanza corposa da permettere di organizzare le diagnosi
attorno all’eziologia.

Il DSM 5 continuerà ad usare i sintomi come base per le diagnosi, anche se sono stati introdotti alcuni
cambiamenti allo scopo di riflettere le maggiori conoscenze sull’eziologia dei disturbi mentali (nel DSM IV,
le diagnosi sono raggruppate in capitoli sulla base della similarità dei sintomi, invece nel DSM 5, i capitoli
sono riorganizzati per riflettere pattern di eziologia condivisa nel DSM IV il disturbo ossessivo- compulsivo
viene classificato come un disturbo d’ansia. L’eziologia di questo disturbo, però, sembra chiamare in causa
influenze genetiche ben distinte rispetto agli altri disturbi d’ansia (capitolo 7).

Per riflettere questa differenza, il DSM 5 prevede un nuovo capitolo intitolato “il disturbo ossessivo-
compulsivo e disturbi correlati” e comprende, oltre al disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo di
dimorfismo corporeo e il disturbo da accumulo (non disposofobia differenza 4/5) , la tricotillomania
(disturbo da strappamento di peli) ed il disturbo da escoriazione (stuzzicamento della pelle).

INTEGRARE LA CLASSIFICAZIONE CATEGORIALE CON UNA VALUTAZIONE DIMENSIONALE DELLA GRAVITÀ.


Nel DSM IV le diagnosi cliniche si fondano su una classificazione categoriale (il paziente in esame è affetto
da schizofrenia oppure no?) Questo tipo di classificazione non tiene conto del fatto che esiste un
continuum tra comportamento normale e patologico.
Sarebbe più utile conoscere la gravità dei sintomi oltre che la loro presenza: nei sistemi diagnostici
dimensionali si definisce il grado in cui una certa entità è presente (esempio: scala da 1 a 10 dell’ansia).

Il DSM 5 mantiene un approccio categoriale alla diagnosi. Per ciascun disturbo, però, le categorie sono
integrate da una valutazione della gravità. Queste valutazioni di gravità non risolvono tutti i problemi
sollevati dalla diagnosi categoriale: queste valutazioni infatti non verranno prese in considerazione se a una
persona non viene prima diagnosticato un disturbo con una diagnosi categoriale.

Il DSM IV includeva la categoria NAS “non altrimenti specificato”, utilizzata quando un individuo soddisfa
diversi criteri diagnostici per un determinato disturbo, ma non tutti.

Nel DSM 5 la categoria NAS è stata sostituita da due opzioni: “disturbo con altra specificazione” e “disturbo
senza specificazione”.

CAMBIAMENTI NELLE DIAGNOSI DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ


Il DSM IV comprende 10 diverse categorie di disturbi di personalità.

Nel DSM 5:
- Nella sezione II (criteri diagnostici e codici) vengono riportati gli stessi 10 disturbi di personalità presenti
nel DSM V (paranoide, schizoide, schizotipico, antisociale, borderline, istrionico, narcisistico, irritante,
dipendente, ossessivo- compulsivo).

- Nella sezione III (proposte di nuovi modelli e strumenti di valutazione) venne invece proposto per la prima
volta un modello alternativo alla diagnosi dei disturbi di personalità, in cui disturbi descritti sono 6
(antisociale, irritante, borderline, narcisistico, ossessivo-compulsivo e schizotipico; un ulteriore diagnosi,
quella di Disturbo di personalità tratto-specifico, fa riferimento ad una condizionein cui si considera
presente un disturbo di personalità, ma non sono soddisfatti criteri per un disturbo specifico). Secondo
questo nuovo approccio i disturbi di personalità sono caratterizzati da compromissioni del funzionamento
della personalità e da tratti di personalità patologici.

NUOVE DIAGNOSI
Nel DSM 5 vengono proposte diverse nuove categorie diagnostiche.

Ad esempio, viene incluso il disturbo dirompente di disregolazione dell’umore per rendere conto del
crescente numero di bambini ed adolescenti che vengono visti dai clinici a causa di un umore
marcatamente altalenante, uniti ad alcuni dei sintomi di episodio maniacale molti di questi giovani non
soddisfano tutti i criteri per la mania (tratto caratterizzante del disturbo bipolare) per loro veniva spesso
erroneamente tratta la diagnosi di disturbo bipolare, visto che nessun’altra categoria sembrava adattarsi ai
loro sintomi.

Altre nuove diagnosi comprendono il disturbo del linguaggio (disturbo da compromissione del linguaggio
nella versione del DSM IV), il disturbo da sintomi somatici (disturbo di somatizzazione semplice nel DSM
IV), il disturbo da ansia di malattia (ipocondria senza sintomi somatici), disturbo del desiderio sessuale e
dell’eccitazione sessuale femminile.

Il disturbo ansioso depressivo misto è stato anticipato ma non confermato come nuova diagnosi nel DSM 5:
è presente solo con lo specificatore “con ansia” per i disturbi depressivi e per il disturbo bipolare e disturbi
correlati.

LA FUSIONE DI ALCUNE DIAGNOSI.


Alcune diagnosi del DSM IV sono state fuse tra loro perché non vi sono differenze sufficientemente evidenti
nell’eziologia, nel decorso o nella risposta al trattamento per giustificare l’apposizione di una diversa
etichetta a condizioni che appaiono simili. es: Le diagnosi di abuso di sostanze e di dipendenza da sostanze
sono state sostituite nel DSM 5 con la diagnosi di disturbo da uso di sostanze.
CRITERI PIÙ CHIARI
Allo scopo di fornire una guida più chiara riguardo alle soglie per le diagnosi, i criteri di molti disturbi sono
stati riscritti: sono state aggiunte regole di durata e di intensità, e sono state aggiunte nuove informazioni.

LA CONSIDERAZIONE DEI FATTORI CULTURALI ED ETNICI.


La malattia mentale è un fenomeno universale.

Tuttavia, diverse influenze culturali agiscono sui fattori di rischio per le malattie mentali, sul tipo di sintomi
che le persone esperiscono, sulla loro volontà di cercare aiuto e sulla disponibilità dei trattamenti.

Le precedenti versioni del DSM furono criticate per la loro scarsa attenzione alle differenze culturali in
psicopatologia.

Nel DSM IV si è cercato di ovviare a questo difetto intervenendo su tre aspetti:

1) fornire un quadro di riferimento generale per valutare il ruolo svolto da cultura e appartenenza etnica
2) descrivere per ciascun disturbo l’influenza di fattori culturali ed etnici
3) riunendo in un’apposita appendice (appendice I) alcune sindromi culturalmente caratterizzate.

Attualmente viene prestata molta attenzione all’influenza che la cultura può esercitare sui sintomi
sull’espressione di un dato disturbo: ad esempio, il clinico deve tenere conto del fatto che le diverse culture
possono elaborare termini specifici per descrivere il disagio (in molte culture comune descrivere il dolore o
l’ansia in termini fisici “mi fa male il cuore” anziché psicologici).

Nel DSM IV erano riportate 25 sindromi culturalmente caratterizzate, invece nel glossario dei concetti
culturali di sofferenza di DSM 5 vengono descritte 9 sindromi culturalmente caratterizzate.

Sono sindromi la cui osservazione è in genere limitata a particolari aree geografiche. Alcuni esempi:
• Amok: episodio di socialismo, caratterizzato da un periodo di incubazione seguito da un’esplosione di
comportamento violento, o anche omicida. Episodi vengono innescati dall’impressione di ricevere
offese e insulti, e sembrano frequenti solo fra i maschi. Sono spesso accompagnati da de persecutorie.
Il termine deriva dalla lingua malese.
• Malattia del fantasma: intensa preoccupazione riguardante la morte o i defunti, osservata in certe
tribù di nativi americani.
• Drat: termine usato in India per definire una forma severa di ansia associata con l’emissione di liquido
seminale.
• Koru: sindrome riportata nei paesi dell’Asia meridionale e orientale, caratterizzata da episodi di intensa
preoccupazione che il pene o i capezzoli femminili possano rientrare nel corpo e causare anche la
morte.
• Shenjng shuairuo (nevrastenia): diagnosi molto comune in Cina. La sindrome caratterizzata da
affaticamento fisico e mentale, vertigini, cefalea, difficoltà di concentrazione e perdita di memoria.
• Taijin kyofusho: fobia caratterizzata da un’intensa paura di offendere gli altri attraverso un contatto
oculare appropriato, il rossore, una deformità fisica o l’odore del corpo. Il disturbo molto comune in
Giappone, ma sono stati osservati casi anche negli Stati Uniti. (Nella cultura giapponese sono severe
per quanto riguarda l’osservanza delle gerarchie delle regole sociali di cortesia: ciò può intensificare il
rischio della comparsa di questi sintomi).
• Hikikomori (ritiro): si osservare in Giappone, Taiwan e Corea del sud, nella quale un individuo (quasi
sempre un ragazzo adolescente) si chiude in una stanza per un periodo di sei mesi più e non socializza
con nessuno al di fuori della stanza.

Alcuni studiosi sostengono l’opportunità di identificare sintomi generali, che si manifestano


trasversalmente nelle diverse culture, e pertanto hanno criticato la scelta da includere nel DSM un elenco
di sindromi culturalmente caratterizzate: per loro molte di queste sindromi non si discostano così tanto
dalle categorie diagnostiche DSM (esempio: Shenjng shuairuo = disturbo depressivo maggiore).

Altri ricercatori invece sostengono che le sindromi culturalmente caratterizzate siano rilevanti, perché i
significati locali personali sono di fondamentale importanza per capire la malattia mentale.

Il DSM IV comprendeva un’appendice su appartenenza culturale diagnosi.

Nel DSM 5 questo materiale viene incorporato nel materiale introduttivo sulla valutazione diagnostica, al
fine di rendere le considerazioni culturali un elemento saliente per i clinici (che spesso non si rendevano
conto dell’esistenza dell’appendice).

CRITICHE SPECIFICHE RIVOLTE AL DSM.


TROPPE CATEGORIE DIAGNOSTICHE?
Il DSM IV contiene quasi 300 categorie diagnostiche.

Un effetto collaterale dell’enorme numero di categorie diagnostiche e il fenomeno definito comorbilità,


che indica la presenza di una seconda diagnosi (tra le persone che soddisfano i criteri diagnostici di almeno
una categoria psichiatrica, il 45% soddisfa i criteri per almeno un’altra diagnosi). Questa sovrapposizione
indica che il sistema compie istruzioni troppo minute tra le sindromi.

Gli autori DSM 5 hanno tentato di combinare in alcuni casi due disturbi in un disturbo unico (abuso di
sostanze e dipendenza da sostanze disturbo da uso di sostanze).

I cambiamenti introdotti nel DSM 5 però, non sono di grande portata e la comorbilità resta un grande
rischio.

L'AFFIDABILITÀ DEL DSM NELLA PRATICA CLINICA.


Per essere davvero utili, i sistemi diagnostici devono avere un elevato grado di affidabilità interrater.

Ma anche quando vengono rispettati i criteri, nel DSM 5 resta comunque un certo margine possibile
disaccordo tra due clinici: dare un giudizio su un umore elevato “in modo abnorme”, crea le condizioni per
verificarsi di bias culturali e per l’insinuarsi nella valutazione delle idee soggettive del clinico su quale sia il
comportamento della persona media.

I clinici possono adottare diverse definizioni di sintomi di “umore elevato”, quindi il conseguimento di
un’elevata affidabilità si presenta ancora come un obiettivo problematico.

QUAL È LÀ VALIDITÀ DELLE CATEGORIE DIAGNOSTICHE?


Un modo per valutare l’efficacia dei sistemi diagnostici è chiedersi se sono utili nell’organizzare osservazioni
diverse.
Le diagnosi hanno validità di costrutto quando permettono di formulare previsioni accurate una diagnosi
deve permettere di prevedere le caratteristiche cliniche correlate e aree di compromissione funzionale.
Deve anche permettere di prevedere cosa ci si debba attendere in futuro (il decorso del disturbo e la
risposta trattamenti differenti). La diagnosi deve essere anche in relazione con le possibili cause del
disturbo.
Quindi, una diagnosi con forte validità di costrutto, deve aiutarci a prevedere uno spettro molto ampio di
caratteristiche.
Nel DSM certe categorie hanno minore validità di altre.
CRITICHE GENERALI ALLA DIAGNOSI DELLE MALATTIE MENTALI.
Una diagnosi può avere anche effetti negativi su chi la riceve: essere definito un malato di mente potrebbe
avere un effetto stigmatizzante.

Molte persone hanno un’opinione negativa di chi soffre di un disturbo mentale, e sono i comportamenti ad
essere considerati in maniera negativa.

Un altro aspetto problematico risiede nel fatto che quando una categoria diagnostica viene applicata, può
accadere che si perda di vista l’unicità e la peculiarità dell’individuo.

A questo proposito le raccomandazioni sono quelle di non usare termini come schizofrenico o depresso per
descrivere un paziente, ma preferire perifrasi come persona affetta da schizofrenia.

Pur prestando maggiore attenzione al linguaggio però, formulare una diagnosi porta di per sé a concentrare
l’attenzione sulla malattia e, così facendo, a ignorare importanti differenze tra un individuo e un altro. La
tendenza a classificare tutto ciò a cui si applica il nostro pensiero fa parte della natura umana, la cosa
migliore in questo caso è sviluppare le categorie e organizzarle in maniera sistematica.

LA VALUTAZIONE PSICOLOGICA
Per trarre una diagnosi ci si avvale di una vasta gamma di misure e di strumenti di valutazione.

La valutazione psicologica viene utilizzata, oltre che per formulare la diagnosi, anche per altre finalità
importanti: identificare gli interventi terapeutici più appropriati, controllare gli effetti del trattamento nel
corso del tempo tramite valutazioni ripetute, eccetera.

A parte il colloquio clinico con il paziente, molte tecniche di valutazione derivano direttamente dai
paradigmi (capitolo 2).

Nella pratica clinica la valutazione psicologica completa di un individuo prevede l’impiego di più tecniche, i
dati ottenuti con i diversi metodi di valutazione si completano a vicenda, fornendo un profilo più completo
dell’individuo esaminato. Tipi di valutazione psicologica:

1) IL COLLOQUIO CLINICO.
Nella valutazione diagnostica in psicopatologia vengono utilizzate sia tipologie di colloquio clinico
formali strutturate, sia tipologie informali e poco o per nulla strutturate.
CARATTERISTICHE DEL COLLOQUIO CLINICO.
L’aspetto principale per cui un colloquio clinico si distingue da una conversazione informale risiede
nell’attenzione che l’intervistatore pone al modo in cui l’interlocutore risponde o non risponde alle sue
domande.
Per condurre un buon colloquio clinico è necessaria molta abilità. Tutti i clinici sono concordi
sull’importanza dello stabilire una buona relazione col paziente: l’intervistatore deve conquistare la
fiducia del soggetto.
I colloqui clinici possono essere strutturati in grado maggiore o minore. Dopo anni di pratica, ogni
clinico sviluppo un suo modo personale di porre le domande, ma, quanto meno è strutturato il
colloquio, tanto più l’operatore dovrà fare affidamento sul proprio intuito e la propria esperienza ne
consegue che i colloqui clinici non strutturati hanno un’affidabilità inferiore rispetto a quelli strutturati
(due operatori possono arrivare a conclusioni diverse riguardo lo stesso paziente).

LE INTERVISTE STRUTTURATE.
Talvolta si ha bisogno di raccogliere le informazioni in forma standardizzata, in particolare quando si
devono formulare le diagnosi in base al DSM.
Per rispondere a questa esigenza, i ricercatori usano l’intervista strutturata, dove l’intervistatore trova
una serie di domande già predisposte ed organizzati in modo prestabilito.
Un esempio è la SCID (Structured Clinical Interwiew) per l’asse I del DSM IV. È un’intervista strutturata con
un organizzazione gerarchica, ovvero le risposte del paziente determinano di volta in volta la domanda
successiva.

L’operatore inizia l’intervista ponendo domande sulle ossessioni, se le risposte determinano un punteggio
di 1, cioè assente, l’operatore passa alle domande relative alle compulsioni. Se di nuovo il punteggio che
emerge dalle risposte è 1, l’operatore segue l’istruzione di passare alle domande riguardanti il disturbo da
stress post traumatico. Se invece le risposte sul disturbo sono positive (punteggio 2 o 3), l’operatore
continua a porre domande attinenti a quel problema.

Questo tipo di intervista strutturata è caratterizzata da un buon livello di affidabilità interrater per la
maggior parte delle categorie diagnostiche.

2) LA VALUTAZIONE DELLO STRESS


Lo stress ha un ruolo centrale in tutti i disturbi, è pertanto importante la sua misurazione nel quadro
generale della valutazione.
Non è un costrutto facilmente definibile e misurabile.
Lo stress può essere concettualizzato come un’esperienza soggettiva di profondo malessere che si
determina in risposta alla percezione di determinati problemi presenti nell’ambiente.
I fattori stressanti, dunque, possono essere definiti come problemi presenti nel contesto di vita
dell’individuo che innescano il senso soggettivo di stress.
Per misurare lo stress sono state sviluppate varie scale e metodi di misurazione, la misura più esaustiva
ed utilizzata è:
IL BEDFORD COLLEGE LIFE EVENTS AND DIFFICULTIES SCHEDULE (LEDS):
È uno strumento di valutazione utilizzato per studiare gli eventi stressanti. Comprende un’intervista che
copre oltre 200 tipi diversi di stress.
Dato che si tratta di un’intervista semistrutturata, l’intervistatore può adattare le domande in modo da
arrivare a coprire anche fattori di stress che potrebbero riguardare solo poche persone.
Intervistatore ed intervistato collaborano a costruire un calendario che comprende i principali eventi
accaduti al soggetto in un dato periodo di tempo.
Successivamente, gli operatori valutano la gravità di ogni evento stressante. L’importanza di un evento
viene valutata nel contesto delle generali circostanze di vita di un individuo.
Vengono esclusi gli eventi che potrebbero essere semplici conseguenze dei sintomi.
Infine, comprende una serie di strategie per individuare in quale momento esatto dell’esistenza si è
verificato un certo evento stressante.
Utilizzando questo strumento i ricercatori hanno trovato degli eventi stressanti che hanno un forte
potere predittivo dell’insorgenza di episodi di ansia, depressione, schizofrenia e perfino del comune
raffreddore.

VALUTARE LO STRESS TRAMITE LISTE DI AUTOVALUTAZIONE


Il LEDS è molto approfondito ma occorre molto tempo per somministrarlo.
Ai clinici spesso serve un modo più veloce di valutare lo stress e perciò fanno ricorso alle liste di
autovalutazione come, ad esempio, la List of Threatening Experiences (LTE) o la Psychiatric Epidemiological
Research Interview of Life Events Scale (PERL)

Queste liste elencano diversi eventi (morte di un coniuge, grave malattia fisica, crisi finanziaria) e ai
partecipanti viene chiesto di indicare se questi eventi li hanno riguardati personalmente nel corso di uno
specifico periodo di tempo.

Un problema di queste misure è la grande variabilità nel modo in cui le persone valutano questi eventi (ad
esempio la morte di un coniuge potrebbe essere un’esperienza terribile o una fonte di sollievo). Influisce
anche la sensazione di essere depressi o ansiosi mentre si completa la misurazione: tali problemi incidono
sull’accuratezza retrospettiva, ed è questa la ragione per cui l’affidabilità test-retest delle liste degli eventi
stressanti può essere bassa.

3) I TEST DI PERSONALITÀ
I test psicologici rappresentano un grado ulteriore di strutturazione del processo di valutazione.
I più comuni di test psicologici sono i test di personalità e i test di intelligenza.
Per quanto riguarda i test di personalità verranno trattati di seguito gli inventari di personalità
autodescrittivi e i test proiettivi di personalità:

• GLI INVENTARI DI PERSONALITÀ AUTODESCRITTIVI


In un inventario di personalità il soggetto deve compilare un questionario a carattere autodescrittivo,
indicando se le affermazioni in esso contenute e tese a valutarne le tendenze abituali, si applicano o
meno alla sua persona.
Nella loro fase di sviluppo, questi test vengono tipicamente somministrati ad un campione numeroso,
per individuare quale sia la risposta parzialmente prevalente in diversi gruppi di persone. Ciò rende
possibile stabilire norme statistiche valide per il test, un processo che prende il nome di
standardizzazione.
Il più noto di questi inventari è il Minnesota Mutliphasic Personality Inventory (MMPI), è definito
multifasico perché fu costruito appositamente per identificare i numerosi tipi di problemi psicologici.
Sviluppo del test: molti clinici compilarono un elenco di affermazioni che essi ritenevano indicative di
vari problemi mentali, quindi si richiese a pazienti a cui era già stato diagnosticato uno specifico
disturbo mentale ed a un vasto gruppo di persone senza alcuna diagnosi di tali disturbi, di valutare in
che misura le centinaia di affermazioni fossero in grado di descrivere la loro condizione personale.
Gli item selezionati per comparire nella versione finale del test furono quelli per i quali pazienti di un
certo gruppo clinico avranno fornito una data risposta con frequenza maggiore rispetto ai soggetti degli
altri gruppi (processo di standardizzazione).
La versione del Test MMPI-2 ha alcune migliorie rispetto alla versione originale, tra cui la validità e
l’accettabilità (la standardizzazione si è avvalsa di un campione molto più vasto).
Gli item vennero organizzati in 10 scale, atte a determinare se per un dato soggetto andasse data una
certa diagnosi.

Il test è composto da 3 scale di validità, più 3 aggiunte successivamente e 10 cliniche di base.

Le scale di validità sono finalizzate a individuare le risposte deliberatamente falsificate, Queste scale
riguardano la validità del test e, dunque, valori fuori norma indicano l’inutilizzabilità dei dati presenti
nel questionario. Possono, inoltre, avere anche un valore clinico interpretabile unitamente agli altri
parametri presenti all’interno del test:
o Scala ?: item che non hanno ricevuto risposta o segnati sia come veri che come falsi
o Scala L (menzogna/lie): il soggetto cerca di produrre una buona impressione, di presentarsi
come dotato di una personalità ideale. Se un soggetto s dichiara d’accordo con molti item della
scala, è probabile che stia cercando di presentare sé stesso sotto una falsa luce. Quando un
soggetto ottiene un alto punteggio sulla scala L o sulla scala F, il suo profilo viene considerato
con scetticismo. Tuttavia, nella maggior parte delle situazioni, le persone non intendono
falsificare le proprie risposte perché sono sinceramente in cerca di aiuto, anzi desiderano
soprattutto essere aiutate
o Scala F (infrequenza): il soggetto cerca di apparire normale, forse per attirare su di sé
particolare attenzione da parte del clinico
o Scala K (correzione): il soggetto è guardigno e sta sulla difensiva nel compilare il test, vuole
evitare di apparire incompetente o disadattato.

Le 10 scale cliniche o di base:


1. scala Hs, ipocondria
2. scala D, depressione
3. scala Hy, isteria
4. scala Pd, deviazione psicopatica
5. scala Mf, mascolinità/femminilità, maschi/femmine
6. scala Pa, paranoia
7. scala Pt, psicastenia
8. scala Sc, schizofrenia
9. scala Ma, ipomania
10. scala Si, introversione sociale

Fondamentalmente, con l’MMPI 2 si indagano tre aree: l’area nevrotica formata dalle scale Hs, D ed Hy,
l’area sociopatica, Pd ed Mf, e l’area psicotica composta da Pa, Pt ed Sc.

I TEST PROIETTIVI DI PERSONALITÀ


Un test proiettivo è uno strumento di valutazione psicologica che prevede la presentazione al soggetto di
una serie di stimoli standard come macchie d’inchiostro o disegni, abbastanza ambigui da consentire
un’ampia variabilità nelle risposte. Questi test si fondano sull’assunto che, essendo gli stimoli ambigui,
saranno i processi inconsci a determinare le risposte della persona, rivelandone gli atteggiamenti, le
motivazioni e i comportamenti più autentici, tale presupposto è definito ipotesi proiettiva.
• TAT Thematic Apperception Test. Test proiettivo in cui si presentano al soggetto, una per volta, delle
immagini in bianco e nero, chiedendogli poi di raccontare una storia su ciascuna di esse. Per questo test
esistono pochi metodi affidabili con cui calcolare il punteggio.
• Il test delle macchie d’inchiostro di Rorschach. È il testo proiettivo più conosciuto. In questa tecnica si
mostrano al soggetto, una per volta, 10 tavole con macchie d’inchiostro e gli si chiede che cosa vede in
ognuna di esse: metà delle tavole sono in bianco e nero con varie sfumature di grigio, 2 presentano
anche chiazze di colore rosso, 3 sono in colori pastello.
Exner ha sviluppato il sistema più diffuso per calcolare punteggi di questo test: tale sistema dà
particolare importanza ai pattern percettivi e cognitivi rilevabili nelle risposte dell’individuo esaminato:
queste risposte sono viste come esemplificative delle peculiari modalità con cui la persona organizza,
dal punto di vista percettivo e cognitivo, le situazioni della vita reale.
Nonostante molte evidenze suggeriscono che il test può essere valido nell’identificare la schizofrenia, il
disturbo borderline di personalità e tratti di personalità dipendente, rimane da chiarire se il test
fornisca informazioni che potrebbero essere ottenute anche modo più semplice, ad esempio tramite
un’intervista.

4) I TEST DI INTELLIGENZA
Un test d’intelligenza o test di QI è uno strumento che intende valutare le capacità intellettive di un
individuo.
Tra i test più comunemente somministrati vi sono:
- Wechsler Adult Intelligence scale 4° edizione (WAIS IV scala per adulti)
- Wechsler Intelligence Scale for Children 4° edizione (WISC IV scala per bambini)
- Wechsler Preschool and Primary Scale of Intelligence IV (WPPS-IV)
- Stanford-Binet 5° edizione (SB5)
Scopi dei test d’intelligenza:
Prevedere il rendimento scolastico, diagnosticare disturbi di apprendimento, individuare le aree di
maggiore o minore preparazione, determinare se un individuo soffre di disturbo dello sviluppo intellettivo,
identificare i bambini più dotati dal punto di vista intellettivo, monitorare nel tempo il progressivo
deteriorarsi delle abilità intellettive nel caso di una forma di demenza.

I test valutano diverse funzioni che si presume siano componenti dell’intelligenza:


- Le abilità linguistiche
- Il pensiero astratto
- Il ragionamento non verbale
- Le abilità visuo-spaziali
- L’attenzione
- La concentrazione
- La velocità di elaborazione

100 è il valore medio: circa il 65% della popolazione ottiene un punteggio tra 85 e 115.
Circa il 2,5% della popolazione consegue un punteggio inferiore a 70 o superiore a 130 (due deviazioni
standard al di sotto o al di sopra del valore medio 100).

I test di intelligenza sono altamente affidabili e hanno una buona validità di criterio. Sono correlati con la
salute mentale: punteggi più bassi all’età di vent’anni sono associati ad un maggiore rischio di
ospedalizzazione per schizofrenia, disturbi dell’umore o dipendenza da sostanze di molti anni più tardi.

Un fattore rilevante in relazione in relazione alla prestazione nel test di QI è detto: minaccia dello
stereotipo: lo stigma sociale connesso con la scarsa prestazione in un test d’intelligenza di fatto interferisce
con il rendimento del soggetto in questo tipo di test (afro-americani sono consapevoli del pregiudizio
relativo ad appartenenza etnica e abilità).

5) LA VALUTAZIONE COMPORTAMENTALE E COGNITIVA


Altri tipi di valutazione si concentrano su caratteristiche comportamentali e cognitive che
comprendono:
- Aspetti dell’ambiente che possono contribuire ai sintomi (collocazione di un ufficio nei pressi di una
strada molto trafficata)
- Caratteristiche peculiari della persona in esame
- Frequenza e forma di comportamenti problematici
- Conseguenze di comportamenti problematici

Il terapeuta raccoglie queste informazioni nella speranza che capire questi elementi cognitivi e
comportamentali serva a individuare gli interventi terapeutici efficaci.

Le informazioni necessarie alla valutazione cognitiva o comportamentale vengono raccolte attraverso


diversi metodi, tra cui:

• L'OSSERVAZIONE DIRETTA DEL COMPORTAMENTO


I terapeuti di indirizzo comportamentale hanno studiato il comportamento in una grande varietà di
setting, ma il loro lavoro non si limita alla pura osservazione.
Nell’osservazione del comportamento formalizzata, il ricercatore suddivide in più parti la sequenza del
comportamento, nell’ambito di un sistema interpretativo che si rifà alle teorie dell’apprendimento, per
cui tiene conto degli antecedenti e delle conseguenze di un particolare comportamento.
È difficile poter osservare un comportamento nel momento stesso in cui avviene: perciò molti terapeuti
creano situazioni artificiali nel loro studio o in laboratorio, in modo da poter osservare il
comportamento di un paziente, o di un’intera famiglia, in determinate condizioni Barkley riproduzione
di un soggiorno domestico in laboratorio per poter osservare madri e bambini iperattivi valutazione
comportamentale che porta a raccogliere dati utili per valutare gli effetti del trattamento.

• AUTOSSERVAZIONE
Spesso i terapeuti cognitivo comportamentali chiedono alle persone di osservare e registrare da sé i
propri comportamenti e le proprie reazioni, un approccio definito auto monitoraggio.
È una tecnica che viene usata per raccogliere informazioni come dati sull’umore, le esperienze
stressanti, gli stili di coping, i pensieri del soggetto.
Un altro metodo di auto osservazione è l’Ecological Momentary Assessment EMA, che richiede al
soggetto di raccogliere i dati in tempo reale, anziché, come dei metodi più tradizionali, ricordare gli
eventi di un particolare periodo per poi riferire pensieri allora esperiti.
I metodi per eseguire questa tecnica vanno dalla compilazione di appositi diari in particolari momenti
della giornata (segnalati da un bip su uno speciale orologio da polso) a fornire ai soggetti degli
smartphone che segnalano al paziente quando deve stilare il rapporto e che gli consentono di inserire
le risposte direttamente nel dispositivo. Le teorie attuali sui disturbi d’ansia e sulla depressione
propongono che le reazioni emotive a un evento siano innescate in parte dai pensieri che quell’evento
sollecita, pensieri che hanno scarse probabilità di essere recuperati con esattezza da un richiamo
retrospettivo.
Da un numero considerevole di studi emerge però che l’auto monitoraggio può alterare il
comportamento, ovvero la consapevolezza che esso richiede influisce sul comportamento. Questo
fenomeno è chiamato reattività, fenomeno per cui il comportamento cambia in conseguenza del fatto
di sapere di essere osservato. Il comportamento desiderabile diventa più frequente quando è
automonitorato, mentre i comportamenti che si vorrebbero ridurre diventano meno frequenti, quindi
l’intervento terapeutico può trarre vantaggio dalla reattività derivante dall’auto monitoraggio.

I QUESTIONARI SULLO STILE COGNITIVO


I questionari cognitivi sono usati per individuare gli obiettivi del trattamento e per determinare se gli
interventi clinici contribuiscono a modificare pattern di pensiero eccessivamente negativi.
Dysfunctional Attitude Scale (DAS) è un questionario autodescrittivo sviluppato sulla base della teoria
di BECK e comprende anche item del tipo “se commetto un errore gli altri penseranno meno bene di
me”. I suoi punteggi consentono di distinguere tra persone che soffrono di depressione e persone che
non ne soffrono, e i suoi punteggi diminuiscono in seguito ad interventi terapeutici mirati ad alleviare la
depressione.
La valutazione cognitiva si incentra sulla percezione soggettiva di una data situazione, poiché lo stesso
evento può essere percepito in maniera diversa da persone diverse e comportare quindi diversi livelli di
stress (trasloco).

• LA VALUTAZIONE NEUROBIOLOGICA
Nel corso della storia gli studiosi di psicopatologia hanno presunto che alcuni sintomi fossero dovuti a
disfunzioni del cervello o di altre parti del sistema nervoso, o che quanto meno riflettessero tali
disfunzioni.
Tipi di valutazione neurobiologica:
IL BRAIN IMAGING “VEDERE” IL CERVELLO.
Molti problemi comportamentali possono derivare da disfunzioni cerebrali, motivo per cui sono state
sviluppate apparecchiature che consentono di osservare in modo diretto alla struttura ed il
funzionamento del cervello:
1) Tomografia assiale computerizzata TAC. Aiuta a valutare le anomalie strutturali del cervello. Un
fascio di raggi X opera a 360° la scansione di una sezione di una sezione orizzontale del cervello del
paziente, un sensore misura la quantità di radiazioni che penetra tessuti cerebrali, rilevando
differenze anche minime nella densità dei tessuti. Un computer collegato allo scanner usa questi
segnali per costruire un’immagine bidimensionale molto dettagliata, della sezione trasversale del
cervello, quindi la macchina procede alla scansione di un’altra sezione trasversale del cervello.
Le immagini ottenute possono rivelare aumento di dimensioni dei ventricoli cerebrali o
localizzazione di tumore o di coaguli di sangue.
2) Risonanza magnetica MRI. Tecnica superiore alla TAC per la migliore qualità dell’immagine e
perché non richiede quella piccola quantità di radioattività che è richiesta dalla TAC. Il paziente è
posto all’interno di un grande magnete circolare, che provoca il movimento degli atomi di idrogeno
contenuti nelle molecole del corpo. Quando il campo magnetico viene disattivato, gli atomi
ritornano alle loro posizioni iniziali, generando un segnale elettromagnetico. Tali segnali vengono
letti dal computer e tradotti in immagini dei tessuti cerebrali.
3) Risonanza magnetica funzionale fMRI. Rappresenta un ulteriore progresso: consente ai ricercatori
valutare sia la struttura sia il funzionamento del cervello, fornendo così un’immagine del cervello al
lavoro, non soltanto della sua struttura.0 Misura il flusso ematico nel cervello, un segnale definito
BOLD (effetto dipendente dal livello di ossigenazione del sangue): quando i neuroni sono attivi, cioè
quando scaricano impulsi, l’afflusso di sangue dell’area cerebrale aumenta l’entità del flusso
ematico in una particolare regione del cervello è un buon indice dell’attività neurale in quell’area.
4) Tomografia a emissione di positroni PET. Altra procedura più costosa e invasiva, che consente di
ottenere misure sia della struttura (ma con meno precisione rispetto alle MRI e fMRI) sia della
funzionalità cerebrale.

Una delle sostanze utilizzate dalle cellule nervose viene marcata con un isotopo radioattivo a vita breve,
quindi iniettata nel circolo sanguigno del paziente il computer analizza i dati li converte in immagini di
attivazione cerebrale. Le immagini sono a colori, e anche più vivide e calde rappresentano aree cerebrali in
cui i tassi metabolici della sostanza misurata sono più alti.

fMRI e PET sono utilizzate per studiare i processi di funzionamento anomali che potrebbero essere associati
a vari disturbi mentali (come la mancata attivazione della corteccia prefrontale nei pazienti affetti da
schizofrenia durante un compito cognitivo).

L’ANALISI DEI NEUROTRASMETTITORI


Misurare la quantità di un particolare neurotrasmettitore non è semplice.

- Negli studi post mortem, il cervello viene prelevato dal cadavere del paziente ed è possibile misurare
direttamente la quantità di specifici neurotrasmettitori in particolari aree cerebrali.

- Ricerche su soggetti vivi: uno dei metodi più usati è l’analisi dei metaboliti derivanti dalla degradazione
enzimatica dei neurotrasmettitori: la degradazione di un neurotrasmettitore produce un metabolita, quasi
sempre un acido. Questi sottoprodotti di neurotrasmettitori sono presenti nelle urine, nel sangue e nel
liquido cerebrospinale CSF, che è il liquido che si trova nel midollo spinale e nei ventricoli cerebrali.

Alti livelli di un particolare metabolita indicano presumibilmente alti livelli di un certo neurotrasmettitore,
così come bassi livelli del metabolita indicano bassi livelli del trasmettitore.

MA: queste misure non riflettono direttamente la quantità dei neurotrasmettitori nel cervello, potrebbero
riflettere la quantità di neurotrasmettitori in qualunque parte del corpo.

Una misura più precisa dei metaboliti a livello cerebrale si può ottenere tramite un prelievo del liquor, cioè
il liquido cerebrospinale, ma anche in questo caso la quantità dei metaboliti riflette l’attività dell’intero
cervello e del midollo spinale, piuttosto che quella delle regioni direttamente coinvolte nella patologia.

Un altro problema degli studi sui metaboliti è che si tratta di studi correlazionali, studi soggetti a molti
limiti, di cui il più importante è l’impossibilità di stabilire relazioni causali.
Uno dei metodi per raccogliere dati sperimentali sull’effettivo contributo causale dei neurotrasmettitori
all’insorgere di un disturbo consiste nel somministrare sostanze che fanno aumentare, o diminuire, i livelli
dei neurotrasmettitori: una sostanza che fa aumentare il livello di serotonina dovrebbe alleviare la
depressione, mentre una sostanza che fa diminuire tale livello dovrebbe innescare i sintomi del disturbo
problemi etici a questo tipo di studi.

I risultati ottenuti in questo campo non sono stati finora così potenti da consentire di utilizzare questi
metodi e i metodi di Brain Immaging per la diagnosi dei disturbi mentali.

LA VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA.
Distinzione tra:
Neurologo: medico specialista delle malattie o dei problemi che colpiscono il sistema nervoso, come l’ictus,
la distrofia muscolare, eccetera;
Neuropsicologo: è uno psicologo che studia gli effetti delle disfunzioni cerebrali sul pensiero, le emozioni e
il comportamento. Il loro lavoro è complementare.

I test neuropsicologici sono spesso usati insieme alle tecniche di brain imaging, oppure prima, poiché
quest’ultime sono più costose. Si utilizzano per rilevare disfunzioni cerebrali e per contribuire identificare
specifiche aree del comportamento fortemente alterate dalle disfunzioni cerebrali. Si basano sull’assunto le
funzioni psicologiche differenti (memoria, linguaggio) fanno riferimento ad aree differenti del cervello.

Due batterie di uso più comune: i 3 test di Halstead-Reitan:

1. Tacticle Perfomance Test: Tempo. Ad occhi bendati, il soggetto cerca di inserire i blocchi di forma
diversa negli spazi corrispondenti su una tavola, servendosi prima della mano che usa
preferenzialmente, poi dell’altra, infine di entrambe.
2. Tacticle Perfomance Test: Memoria. Dopo che ha complicato il testa tempo, si chiede al soggetto
di disegnare memoria da tavola con i diversi blocchi nella posizione corretta. Questo test ed il
precedente test sono sensibili alle pressioni al lobo parietale destro.
3. Speech Sounds Perception Test (test di percezione fonetica) il soggetto ascolta una serie di parole
prive di senso, ognuna formata da due consonanti cui interposto un suono e lungo, quindi deve
individuare la parola che ha udito scegliendole in un elenco di alternative. Questo test misura il
funzionamento dell’emisfero sinistro, in particolare delle aree parietali e temporali.

Molto utilizzata è anche la batteria di Luria-Nebraska, che comprende 269 item suddivisi in 11
sezioni e consente di determinare abilità motorie sia fondamentali e complesse, la capacità di
cogliere ritmo e tono, funzioni tattili e cinestetiche, abilità verbali e spaziali, abilità linguistica
ricettive quell’espressiva, abilità di lettura, scrittura e aritmetiche, la memoria e i processi
intellettivi.
Il quadro complessivo contribuisce identificare eventuali lesioni alle aree frontali, temporali,
sensomotorie e a parieto-occipitali dell’uno o dell’altro emisfero.
La somministrazione richiede due ore e mezza, la validità di criterio è molto buona e ha il vantaggio
di controllare l’influenza del livello di istruzione del soggetto, così che una persona meno istruita
non riceva un punteggio più basso unicamente per via del livello inferiore distruzione.

LA VALUTAZIONE PSICOFISIOLOGICA.
La psicofisiologia è la disciplina che studia le modificazioni fisiologiche associate a eventi di ordine
psicologico.
I ricercatori studiano le modificazioni fisiologiche (misure come la frequenza cardiaca, la tensione
muscolare, il flusso sanguigno nei vari distretti corporei e l’attività elettrica del cervello le cosiddette onde
cerebrali) che si verificano durante una condizione di paura, di depressione, di sonno.
Come le tecniche di Brain imaging, anche le tecniche di valutazione qui descritte non sono abbastanza
sensibili da essere usate della diagnosi, ma possono fornire informazioni importanti.

Metodi: allo scopo di comprendere aspetti della natura delle emozioni, spesso si valuta l’attività del sistema
nervoso autonomo, mediante la misurazione di variabili elettriche e chimiche.

1) Elettrocardiogramma ECG: misura la frequenza cardiaca.


Ogni battito genera variazioni di potenziale elettrico registrate per mezzo di elettrodi applicati al
torace, i quali trasmettono i segnali ad un apparecchio detto elettrocardiografo.
2) Risposta elettrodo termica o conduttanza cutanea, altro modo per misurare l’attività del sistema
nervoso autonomo. L’ansia, la paura, la rabbia fanno aumentare l’attività del sistema nervoso
simpatico, il quale a sua volta stimola l’attività delle ghiandole sudoripare. La maggiore attività di
queste ghiandole fa aumentare la conduttanza elettrica della pelle, proprietà che viene rilevata
determinando il flusso di corrente che attraversa la pelle quando una corrente a basso voltaggio
viene fatta passare fra due elettrodi applicati ad una mano. Quando vi è l’attivazione delle
ghiandole sudoripare, questo flusso di corrente aumenta in misura sensibile ciò è considerato un
indice dell’attivazione del sistema simpatico e una misura dell’attivazione emozionale.
3) Elettroencefalogramma EEG: misura dell’attività elettrica cerebrale, gli elettrodi applicati sul cuoio
capelluto registra l’attività elettrica nell’area cerebrale sottostante. Viene utilizzata anche per
misurare l’attenzione e lo stato di vigilanza.

Come delle tecniche di Brain Imaging, un quadro più completo del funzionamento fisiologico di un individuo
si ottiene tramite valutazioni condotte mentre il soggetto impegnato in comportamenti di attività cognitiva.

UN RICHIAMO ALLA CAUTELA SUI METODI DI VALUTAZIONE NEUROBIOLOGICA.

Fare sul libro. Una valutazione completa deve includere una molteplicità di metodi (colloqui clinici, metodi
psicologici e metodi neurobiologici).

LA DIVERSITÀ CULTURALE ED ETNICA E LA VALUTAZIONE CLINICA.

CAPITOLO 4
METODI DI RICERCA IN PSICOPATOLOGIA
Dal momento che vi sono ancora domande senza risposta, è importante perseverare nella ricerca tramite
l’applicazione di validi metodi scientifici.

LA SCIENZA E I METODI SCIENTIFICI


Il termine scienza indica la ricerca sistematica di conoscenza tramite l’osservazione.
Il metodo scientifico comporta formulare una teoria per poi sottoporre a verifica mediante la raccolta
sistematica di dati.
Una teoria è un insieme di proposizioni con cui si intende spiegare una particolare classe di osservazioni. In
genere le teorie scientifiche si propongono di identificare relazioni di causa-effetto.
Una teoria consente di generare ipotesi più specifiche, cioè di formulare previsioni riguardo ciò che
dovrebbe avvenire posto che la teoria sia vera.
Una buona teoria richiede che le idee siano enunciate in maniera chiara e precisa, poiché solo così le ipotesi
saranno passibili di verifica sistematica, grazie alla quale si può arrivare anche a smentire le previsioni dello
scienziato.
Le teorie, infatti, per quanto plausibili possano sembrare, devono poter essere falsificate, cioè confutate ed
eventualmente respinte.
La scienza progredisce mostrando l’erroneità delle teorie già proposte, e non provandone la correttezza.
Nel sottoporre a verifica una teoria occorre prendere in considerazione un insieme di principi:
- Ogni osservazione scientifica deve essere replicabile
- Ciò dipende dall’utilizzo di strumenti di misura dotati di forte affidabilità e validità
- Occorre anche individuare il disegno di ricerca più idoneo, scegliendolo entro una vasta gamma di
disegni possibili
- Non bisogna trascurare le questioni etiche.

LO STUDIO DEL CASO CLINICO.


Lo studio del caso clinico è forse il metodo più comune per analizzare il comportamento umano, e consiste
nello studiare una persona per volta, registrando dettagliatamente le informazioni raccolte.
Per essere completo, uno studio di questo tipo deve raccogliere informazioni sui momenti più significativi
dello sviluppo della persona, sull’anamnesi familiare, la sua storia clinica, il livello d’istruzione raggiunto,
esperienze lavorative, le eventuali relazioni coniugali, nonché informazioni dettagliate circa il grado di
adattamento, la personalità, l’ambiente di vita e di eventuali esperienze terapia.

Poiché mancano dell’oggettività e del controllo che contraddistinguono gli altri metodi di ricerca, gli studi di
casi clinici hanno una validità talvolta discutibile.
L’obiettività dello studio di casi clinici è limitato dal paradigma a cui il clinico aderisce, e che influenza il tipo
di informazioni raccolte e considerate.
Nonostante la relativa assenza di controllo, lo studio del caso clinico ha un ruolo importante nello studio del
comportamento patologico, in particolare, questo metodo può essere utilizzato per:

1) Fornire una descrizione dettagliata di un fenomeno clinico:


Poiché l’indagine è ristretta ad un’unica persona, lo studio di un caso clinico offre una ricchezza di
particolari molto superiore a quella che si ottiene di norma con gli altri metodi di ricerca. Ciò si
rivela utile quando lo studio riguarda un fenomeno clinico raro oppure per fornire una descrizione
dettagliata degli effetti di un nuovo tipo i trattamento.
2) Confutare un’ipotesi di presupposta validità universale:
Gli studi di casi clinici possono smentire una relazione ritenuta universalmente vera. Se
consideriamo, ad esempio, l’affermazione che gli episodi di depressione siano sempre preceduti da
un evento stressante, e supponiamo che si trovasse un solo caso in cui la depressione non è
correlata allo stress, questa teoria dovrebbe essere rigettata.
Mentre possono dimostrare falsa un’ipotesi, gli studi di casi clinici non possono portare prove a
favore di una particolare teoria, in quanto non forniscono strumenti per poter escludere ipotesi
alternative.
3) Generare ipotesi da sottoporre poi a verifica tramite ricerche controllate:
Nonostante non possa portare prove a conferma di una teoria, gli studi di casi clinici possono
tuttavia essere utili ad una generazione di nuove ipotesi riguardo all’eziologia e al trattamento dei
disturbi.

IL METODO CORRELAZIONALE
Gran parte della ricerca in psicopatologia è condotta in base al metodo correlazionale.

Gli studi di correlazioni permettono di rispondere a domande del tipo: “La variabili X e la variabile Y variano
insieme (co-variano, cioè sono correlate)?”. In questi studi ci si pongono domande sulla relazione tra un
certo disturbo ed un’altra variabile, ad esempio: la schizofrenia è correlata alla classe sociale?

Negli studi correlazionali le variabili studiate vengono misurate così come si presentano in natura, una
caratteristica che distingue questo metodo da quello sperimentale, in cui certe variabili vengono
manipolate e controllate da ricercatore.
Differenza tra studio correlazionale e sperimentale:
- Correlazionale: ad esempio in una ricerca sul ruolo dello stress, le persone vengono sottoposte a
interviste relative alle esperienze che di recente hanno causato stress
- Sperimentale: in questo caso, invece, il ricercatore può creare in laboratorio condizioni che provocano
stress nei partecipanti

La differenza fondamentale tra i due metodi risiede nel fatto che una variabile sia manipolata oppure
no dal ricercatore. Gli psicopatologi si affidano ai metodi correlazionali quando per ragioni etiche sia
impossibile manipolare una variabile.

COME SI MISURA LA CORRELAZIONE


Per stabilire se tra due variabili vi è correlazione, il primo passo consiste nel raccogliere coppie di
osservazioni, cioè di misure, delle variabili in esame.
Una volta ottenute tali coppie di osservazioni, si può procedere a determinare la forza e il tipo di relazione
esistente fra i due set di dati, calcolando il coefficiente di correlazione indicato con r.
Questo parametro statistico, che può assumere qualunque valore tra +1.00 e -1.00, misura sia la grandezza
sia la direzione della relazione fra le due variabili considerate. Più è alto il valore assoluto di r, più forte
rapporto fra le due variabili.

LA SIGNIFICATIVITÀ STATISTICA E CLINICA


La grandezza del coefficiente di correlazione ci dice quanto è forte la relazione fra due variabili.
Ma per valutare in termini più rigorosi l’importanza delle correlazioni individuate, gli scienziati si servono
del concetto di significatività statistica (viene valutata attraverso diversi parametri statistici).
• Una correlazione è statisticamente significativa quando è poco probabile che sia dovuta
unicamente al caso.
• Una correlazione è invece statisticamente non significativa quando è possibile che sia prodotto
unicamente dal caso, per cui essa non trova l’esistenza di una relazione davvero importante fra le
due variabili considerate.

Oltre alla significatività statistica, è importante considerare la significatività clinica.


• Si ha significatività clinica quando una relazione fra le variabili è sufficientemente forte da essere
anche rilevante da un punto di vista clinico.
Per poter considerare clinicamente significativo l’effetto di un trattamento, un ricercatore può stabilire che,
nel gruppo sottoposto al trattamento, i sintomi devono diminuire del 50% oppure che al termine del
trattamento i pazienti siano equiparabili a coloro che non hanno il disturbo.
Quindi, il ricercatore deve valutare non solo sono effetto è statisticamente significativo, ma anche se
quell’effetto è abbastanza rilevante da essere significativo ai fini della previsione o del trattamento di un
disturbo clinico.

IL PROBLEMA DELLA CAUSALITÀ.


Benché molto usato, il metodo con relazionale a un grave inconveniente: non permette di stabilire relazioni
di causa-effetto tra le variabili per il problema della direzionalità e della terza variabile
Un valore elevato del coefficiente di correlazione ci dice solo che due variabili sono correlate l’una all’altra,
ma non se una delle due sia causa dell’altra.
• Con direzionalità si intende il fenomeno per cui la correlazione fra due variabile ci dice solamente che
esse sono in relazione tra loro, ma non se una è causa dell’altra o viceversa. Sebbene la correlazione
non implichi causalità, determinare se 2 variabili sono correlate o no può permettere la disconferma di
ipotesi causali poiché la causalità implica correlazione.
• È possibile che la causa di una correlazione sia una variabile diversa dalle due prese in considerazione,
detta terza variabile.

Uno dei modi per superare il problema è rifarsi al concetto che la causa deve precedere l’effetto
Gli studi longitudinali permettono di verificare se le ipotetiche cause sono presenti prima della comparsa
del disturbo.
Nettamente contrastante è l’impostazione degli studi trasversali, in cui cause ed effetti vengono valutati
nello stesso periodo di tempo.
Gli studi longitudinali hanno costi assai elevati, questo problema può essere superato mediante studi di
soggetti ad alto rischio, in cui vengono selezionati e inseriti nel campione soltanto gli individui con un
rischio di sviluppare la patologia in età adulta più alto della media della popolazione.
Anche se uno studio di soggetti ad alto rischio permette di identificare una variabile che precede lo sviluppo
della schizofrenia, i ricercatori si troverebbe comunque di fronte a un altro inconveniente, detto problema
della terza variabile: è possibile che la correlazione sia dovuta a un terzo fattore, non previsto (questi
fattori sono denominati fattori di confusione)

UN ESEMPIO DI STUDIO CON RELAZIONALE: LA RICERCA EPIDEMIOLOGICA


Per epidemiologia si intende lo studio della distribuzione delle diverse patologie all’interno di una
popolazione.
Nella ricerca epidemiologica si raccolgono dati relativi alla frequenza di un disturbo ed
i suoi correlati entro un campione numeroso, rappresentativo della popolazione di riferimento.
Si ottiene così un quadro complessivo del disturbo e di quante persone ne soffrono.
La ricerca epidemiologica si concentra su tre aspetti di un dato disturbo:
1. La prevalenza, cioè la percentuale della popolazione che manifesta disturbo nel momento attuale o
nell’intero arco della sua esistenza.
2. L’incidenza, cioè il numero di nuovi casi del disturbo rilevati in un dato periodo di tempo, di solito in un
anno.
3. I fattori di rischio, cioè le variabili correlate con la probabilità di sviluppare il rischio.

Gli studi epidemiologici dei fattori di rischio sono, di solito, sodico relazionali, in quanto analizzano la
relazione tra particolari variabili senza alcuna variabile venga manipolata.
È importante che siano rappresentativi della popolazione studiata.

UN ALTRO ESEMPIO DI RICERCA CORRELAZIONALE: LA GENETICA DEL COMPORTAMENTO E LA GENETICA


MOLECOLARE
La ricerca nell’ambito della genetica del comportamento si fonda principalmente su tre approcci
metodologici, finalizzati a scoprire se la predisposizione allo sviluppo di un disturbo mentale sia ereditaria:
1) Studio della famiglia (confronto tra i membri di una stessa famiglia) metodo usato per studiare la
predisposizione genetica a un disturbo fra gli appartenenti di una stessa famiglia, essendo noto il
numero medio dei geni condivisi da due persone legate da un determinato grado di parentela.
(50% dei geni in comune parenti di primo grado; 25% del patrimonio genetico in comune parenti di
secondo grado). Si inizia raccogliendo un campione di soggetti a cui è stato diagnosticato il disturbo
che si vuole esaminare; tali soggetti sono detti casi indice o probandi. Quindi si esaminano i loro
parenti determinare la frequenza con cui manifestano stesso disturbo. Se esiste una
predisposizione genetica la patologia in esame, allora i parenti di primo grado di probandi dovranno
manifestare disturbo con frequenza maggiore di quella che si riscontra nella popolazione generale.
2) Studi di gemelli (confronto tra coppie di gemelli): in questo metodo si mettono a confronto coppie
di gemelli monozigoti MZ oppure dizigotici DZ. I gemelli MZ sono geneticamente identici, i gemelli
DZ condividono soltanto il 50% dei geni, esattamente come qualsiasi coppie di fratelli. Gli studi di
gemelli si basano sull’identificazione di casi per i quali è stata tratta la diagnosi di un certo disturbo
mentale; quindi, si esamina l’altro gemello per verificare l’eventuale presenza dello stesso disturbo.
Quando entrambi gemelli manifestano la patologia in questione, si dice che sono concordanti. La
concordanza dovrebbe risultare maggiore nelle coppe di gemelli MZ che nei DZ. Quando ciò
avviene, la caratteristica di studio è definita ereditabile.
3) Studi su adottati questo metodo si applica ai bambini che sono stati adottati nella prima infanzia e
sono stati allevati lontani dalla famiglia d’origine e dai loro genitori biologici. È un metodo poco
frequente, ma ha il vantaggio di offrire risultati più certi perché il bambino non è allevato da
genitori affetti da un dato disturbo. Se si trovasse un’elevata frequenza di agorafobia tra bambini
cresciuti lontano dai genitori biologici affetti da questo disturbo, sarebbe una forte conferma
dell’ereditabilità di questa patologia.
Un altro metodo che si applica a soggetti adottati è il cross fostering, in cui i bambini crescono
separati dai genitori biologici, ma in questo caso è uno dei genitori adottivi a soffrire del disturbo in
esame. Questo metodo viene utilizzato per esaminare le interazioni gene-ambiente.

Da uno studio è emerso che i figli di un genitore biologico con disturbo antisociale di personalità allevati da
una famiglia adottiva problematica avevano maggiori probabilità di sviluppare lo stesso disturbo rispetto ad
altri due gruppi di adottati: 1) adottati che avevano un genitore biologico con disturbo antisociale di
personalità ma erano stati allevati in una famiglia adottiva non problematica e 2) adottati che non avevano
un genitore biologico con disturbo antisociale di personalità ma erano stati allevati in una famiglia adottiva
problematica.

Pertanto, i geni e l’ambiente avevano agito in maniera sinergica, accrescendo il rischio del soggetto di
sviluppare disturbo in questione.

Studio di associazione
Grazie agli studi di genetica molecolare vengono identificati specifici geni o combinazioni di geni che
possono essere associati con la presenza di un particolare disturbo in una vasta popolazione di individui. Un
metodo di cui si avvale la genetica molecolare è il cosiddetto studio di associazione: in questo tipo di studio
i ricercatori esaminano la relazione tra certi alleli e certi tratti o comportamenti in una popolazione.
Un tipo particolare di studio di associazione è lo studio di associazione genomica (GWAS): avvalendosi di
computer estremamente potenti i ricercatori esaminano tutti i 22.000 geni degli individuo del campione
allo scopo di isolare differenze tra i gruppi nella sequenza dei geni tra persone con la diagnosi di un certo
disturbo e un gruppo di controllo

L’ESPERIMENTO
L’esperimento è lo strumento più potente per determinare l’azione di natura causale. Esso implica
l’assegnazione casuale dei partecipanti a gruppi sottoposti a condizioni differenti, la manipolazione di una
variabile indipendente e la misurazione di una variabile dipendente.

LE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEL DISEGNO SPERIMENTALE


1. il ricercatore manipola una variabile indipendente
2. i partecipanti sono assegnati a caso a due gruppi che rappresentano condizioni diverse
3. i ricercatori misura una variabile dipendente, cioè una variabile che, in base alle attese derivanti
dall’ipotesi formulata, dovrebbe variare a seconda della condizione della variabile indipendente.
4. le differenze tra i gruppi rispetto alla variabile dipendente costituiscono l’effetto sperimentale.
LA VALIDITÀ INTERNA
La validità interna dipende da quanto l’effetto sperimentale è attribuibile alla variabile indipendente.
Poiché uno studio abbia validità interna per includere almeno un gruppo di controllo (gruppo non
sottoposto al trattamento sperimentale, necessario per stabilire se gli effetti dell’esperimento sono dovuti
alla variabile indipendente). L’inclusione di un gruppo di controllo non è sufficiente da sola a garantire la
validità interna di un esperimento. È importante anche l’assegnazione casuale.

LA VALIDITÀ ESTERNA
La validità esterna indica il grado in cui i risultati di una ricerca possono essere estesi e generalizzati al di là
del particolare studio da cui sono emersi.

UN ESEMPIO DI RICERCA SPERIMENTALE: LA RICERCA SUGLI ESITI DEI TRATTAMENTI.


La ricerca sugli esiti dei trattamenti si propone l’obiettivo di rispondere alla domanda: il trattamento
funziona?
Uno studio sugli esiti di un trattamento deve fondarsi sui seguenti criteri:
1. Chiara definizione del campione, fornendo ad esempio una descrizione precisa dei criteri diagnostici
2. Chiara descrizione del trattamento che viene offerto
3. Inclusione disegno sperimentale di un gruppo di controllo od il trattamento di confronto
4. Assegnazione randomizzata di pazienza al gruppo di trattamento o a quello di controllo
5. Misure dell’esito che siano valide ed affidabili
6. Un campione sufficientemente grande da condurre test statistici.

Gli studi in cui i soggetti sono assegnati a caso al gruppo che riceve il trattamento in esame oppure gruppo
di controllo (che può consistere nell’assenza di trattamento, oppure in un placebo che mostra un confronto
più preciso*, o ancora in un trattamento differente) sono detti trial controllati randomizzati (RCT)
In questo tipo di esperimento la variabile indipendente è il trattamento, mentre variabile dipendente è
l’esito osservato il paziente.

*Se un ricercatore decide di utilizzare un gruppo di controllo placebo, di solito si fa ricorso al cosiddetto
esperimento in doppio cieco, ovvero né i ricercatori né i pazienti sanno quali soggetti ricevono il principio
attivo e quali invece il placebo. In questo modo si cerca di evitare, nelle valutazioni trattamento, ogni
possibile distorsione dovuta ad attese soggettive.

Con il termine effetto placebo si fa riferimento all’osservabile miglioramento delle condizioni fisiche o
psicologiche del paziente, dovuto non tanto ad uno specifico principio attivo del trattamento quanto alle
aspettative del paziente stesso di trarne beneficio.

Gli esperimenti controllati randomizzati sono concepiti in modo da determinare l’efficacia di un


trattamento, cioè stabilire se il trattamento funziona in condizioni il più controllate possibili.

Una ricerca può anche non fornire informazioni esatte su come questi trattamenti funzionano su campioni
più bassi (a volte viene criticata la validità esterna degli esperimenti controllati randomizzati).

Si ha quindi bisogno di determinare non soltanto l’efficacia del trattamento, ma anche la sua efficienza,
cioè quanto bene funziona nel mondo reale, nella realtà quotidiana. Gli studi sull’efficienza dei trattamenti
possono comprendere individui affetti da una gamma di problemi più ampia e una supervisione meno
intensiva da parte dei terapeuti.

Gli studi di efficienza forniscono un solido sostegno alla terapia cognitivo- comportamentale dell’ansia della
depressione, nonché a diverse psicoterapie quali complementi alla farmacoterapia per il disturbo bipolare.

Centinaia di studi hanno dimostrato che alcuni trattamenti psicologici sono efficaci, malgrado ciò, molti
terapeuti riferiscono di non utilizzare i trattamenti supportati empiricamente.
Vi è un notevole scarto tra scienza e pratica, e per ridurre questo scarto si fa ricorso a diverse metodiche.
La disseminazione è il processo inteso ad agevolare, nella pratica clinica quotidiana, l’adozione di
trattamenti efficaci, il più delle volte offrendo ai clinici linee guida sui migliori trattamenti disponibili
unitamente a una formazione su come condurre questi trattamenti

GLI ESPERIMENTI ANALOGICI


Il metodo sperimentali è ritenuto il più efficace per determinare le relazioni di causa- effetto.
Vi sono però molte situazioni in cui non può essere usato per individuare le cause del comportamento
patologico.

La ricerca sulle cause del comportamento patologico può ricorrere in alcuni casi all’esperimento analogico:
il ricercatore cerca di creare o di osservare il laboratorio un fenomeno correlato a quello che interessa (cioè
di produrre un suo analogo) allo scopo di poter sottoporre ad analisi approfondite. Un esempio di questo
tipo di studi analogici utilizza gli animali come modelli del comportamento umano.
Questi esperimenti possono avere una buona validità interna, ma il problema della validità esterna
permane perché a questo punto i ricercatori non stanno più studiando il fenomeno a cui sono
effettivamente interessati.
La chiave per interpretare i risultati di questi studi sta nella validità dell’analogia.

GLI ESPERIMENTI SUL CASO SINGOLO


Non sempre un esperimento richiede l’utilizzo di gruppi di individui. In un esperimento sul caso singolo si
studia come un singolo individuo risponde alle manipolazioni della variabile indipendente.
A differenza dei tradizionali studi di casi clinici, questi disegni sperimentali possono avere un’altra validità
interna.
In un tipo di esperimento sul caso singolo chiamato disegno a inversione o disegno ABAB, un qualche
aspetto del comportamento del soggetto deve essere accuratamente misurato secondo una precisa
sequenza:
1. Durante un periodo iniziale (baseline) A
2. Durante una prima introduzione il trattamento B
3. Durante una fase in cui si stabiliscono le condizioni di baseline A
4. Infine, durante la reintroduzione del trattamento B

Se nel periodo sperimentale il comportamento del soggetto differisce da quello di baseline; se il


comportamento si inverte, tornando allo stato iniziale, dopo la sospensione del trattamento; e se, infine il
comportamento torna a investirsi quando il trattamento viene di nuovo reintrodotto, allora vi saranno ben
pochi dubbi sul fatto che la manipolazione, e non fattori casuali non controllati, è all’origine dei
cambiamenti osservati.
L’aspetto negativo di questo disegno sperimentale è la potenziale mancanza di validità esterna: il fatto che
un certo trattamento abbia dimostrato di funzionare su un particolare individuo non significa
necessariamente che sia efficace anche su altri: i risultati potrebbero dipendere da aspetti peculiari di
quella persona.

L’INTEGRAZIONE DEI RISULTATI DI MOLTEPLICI STUDI


Avendo visto i pro e i contro dei diversi metodi di ricerca, è ovvio che non esiste un disegno di ricerca
perfetto.
Anzi, per sottoporre a verifica una teoria spesso necessario ricorrere a una serie di studi differenti.

Quando emerge un risultato interessante, un obiettivo prioritario è quello di replicarlo con decine di studi
diversi ripetendo il lavoro, per vedere se dal nuovo studio emerge lo stesso pattern di risultati.

A volte questi studi danno risultati simili, ma il più delle volte emergono differenze.
Un ricercatore che voglia trarre conclusioni generali da una serie di ricerche deve leggere i vari studi
sull’argomento, esaminarli attentamente, quindi estrarne il significato complessivo.
Lo svantaggio di tale approccio è che i pregiudizi del singolo ricercatore e le sue impressioni soggettive
possono avere un ruolo significativo nel determinare il tipo di conclusioni a cui giunge.

Il metodo della meta-analisi è stato sviluppato per fornire una parziale soluzione a questo problema.

1. Il primo passaggio consiste in un’estesa ricerca nella letteratura specializzata, in modo da individuare gli
studi più rilevanti.
2. Poiché gli studi diversi utilizzano test statistici differenti, la meta-analisi riunisce e riduce ad una scala
comune tutti i risultati, utilizzando un parametro chiamato effect size (dimensione dell’effetto). Viene
calcolato l’effect-size entro ogni studio.
3. Viene calcolato l’effect size medio nei vari studi.

CAPITOLO 5
I DISTURBI DELL’UMORE
I disturbi dell’umore comportano alterazioni della sfera emozionale gravi e invalidanti (dall’estrema
tristezza e distacco emotivo come nella depressione, allo stato di estrema esaltazione e irritabilità della
mania).

Il capitolo disturbi dell’umore presente nel DSM IV è stato eliminato nel DSM5.
Nel DSM 5 vi sono due capitoli separati:
• Disturbo bipolare e disturbi correlati
• Disturbi depressivi.

QUADRI CLINICI ED EPIDEMIOLOGIA DEI DISTURBI DELL’UMORE


Vi sono due ampie categorie di disturbi dell’umore:
1. Quelli che coinvolgono soltanto sintomi depressivi e
2. Quelli che coinvolgono sintomi maniacali (disturbi bipolari).

DISTURBI DEPRESSIVI
I sintomi principali della depressione sono uno stato di profonda tristezza e incapacità di provare piacere.

La tristezza fa parte dell’esperienza comune, molte persone affermano di sentirsi depressi, ma il più delle
volte tali esperienze non hanno un’intensità e una durata tali da giustificare una diagnosi clinica.

Quando una persona sviluppa un disturbo depressivo, la sua mente può riempirsi di recriminazioni rivolte
contro sé stessa.

La depressione comporta anche sintomi fisici, come stanchezza, scarsa energia, dolori: questi sintomi
possono essere così gravi da convincere la persona di soffrire di una grave malattia, nonostante non vi sia
una base organica evidente.
Sebbene queste persone si sentano esauste, possono avere notevoli difficoltà a prendere sonno e possono
svegliarsi spesso durante la notte.

Le persone depresse possono trovare i cibi privi di sapore e non sentire più appetito o, al contrario, provare
un notevole aumento dell’appetito. Vi è la scomparsa dell’interesse sessuale.

In alcuni casi si ha un rallentamento dei pensieri e dei movimenti e quindi si parla di rallentamento
psicomotorio, mentre in altri casi la persona non riesce a stare seduta, continua a camminare avanti e
indietro, agitando e torcendo le mani quindi si parla di agitazione psicomotoria.
In queste persone si può manifestare una grave perdita dell’iniziativa: il ritiro sociale è un sintomo molto
comune nella depressione. Queste persone possono trascurare il loro aspetto fisico e, quando arrivano al
fondo dell’abbattimento, sentendosi privi di speranza, possono arrivare a concepire pensieri suicidi.

IL DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE (DDM o MDD-Major Depressive Disorder)


Criteri diagnostici (per effettuare diagnosi di disturbo depressivo maggiore):
cinque o più dei seguenti sintomi sono presenti nella maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, almeno
da 2 settimane.
Almeno uno dei sintomi è umore depresso oppure perdita di interesse o piacere.

1. Umore depresso nella maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, come riportato dall’individuo come
osservato da altri
2. Marcata diminuzione di interessi o piacere per tutte o quasi tutte le attività per la maggior parte del
giorno, quasi tutti i giorni
3. Perdita di peso o modificazione dell’appetito quasi tutti i giorni
4. Dormire troppo o troppo poco (insonnia o ipersonnia) quasi tutti i giorni
5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi tutti i giorni
6. Faticabilità o mancanza di energia quasi tutti i giorni
7. Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati quasi tutti i giorni
8. Ridotta capacità di concentrarsi o di prendere decisioni quasi tutti i giorni
9. Pensieri ricorrenti di morte, ricorrenti di azioni suicidare senza organo specifico un tentativo di suicidio
o un piano specifico per commettere suicidio

I sintomi sono presenti quasi ogni giorno, per la maggior parte del giorno, per almeno due settimane non
sono dovuti a una normale condizione di lutto.

Il disturbo depressivo maggiore è definito disturbo episodico, perché i sintomi tendono a essere presenti
per un certo periodo di tempo per poi scomparire. in una ridotta percentuale di persone la depressione si
cronicizza: la persona non recupera mai del tutto e non ritorna livello di funzionamento precedente al
disturbo.

Il verificarsi di un episodio, anche se vi è stata una remissione, fa aumentare la probabilità che ne insorga
un altro, il numero degli episodi esperiti da uno stesso soggetto è mediamente di quattro, e ogni nuovo
episodio aumenta la probabilità di una successiva recidiva del 16%.

IL DISTURBO DEPRESSIVO PERSISTENTE (DISTIMIA)


I sintomi depressivi che persistono per ≥ 2 anni senza remissione sono classificati come disturbo depressivo
persistente, una categoria che unifica i disturbi precedentemente definiti disturbo depressivo maggiore
cronico e disturbo distimico.

Le persone affette da disturbo distimico o distimia si sentono cronicamente di umore depresso: più della
metà del tempo, per un periodo di almeno due anni (o di un anno nel caso di bambini e adolescenti), sono
tristi o traggono scarso piacere dalle abituali attività e passatempi.

Inoltre, presentano almeno due degli altri sintomi della depressione.

Criteri diagnostici:
1. Scarso appetito o iperalimentazione
2. Insonnia o ipersonnia
3. Bassa autostima
4. Scarsa energia
5. Difficoltà concentrarsi o prendere decisioni
6. Sentimenti di disperazione
Durante la malattia la persona non è mai stata senza presentare i sintomi per più di due mesi per volta.

EPIDEMIOLOGIA E CONSEGUENZE DEI DISTURBI DEPRESSIVI


La depressione maggiore è uno dei disturbi psichiatrici più comuni popolazione Usa, 16,2%.

La distimia è un disturbo più raro della depressione maggiore, 2,5%.

Il disturbo depressivo maggiore è circa due volte più frequente tra le donne che tra gli uomini

Un altro fattore rilevante lo status socioeconomico: il disturbo è tre volte più diffuso nelle classi più
disagiate che in quelle più abbienti.

Emigrati meno depressi delle persone emigrate in una seconda generazione: la resilienza (cioè la capacità di
far fronte in maniera positiva le difficoltà e agli eventi negativi, delle persone che emigrano ha un effetto
protettivo nei confronti della depressione.

IL DISTURBO AFFETTIVO STAGIONALE (SAD): LA DEPRESSIONE INVERNALE


I criteri per la diagnosi del sottotipo stagionale del disturbo depressivo maggiore specificano che la persona
deve aver sperimentato episodi depressivi per due inverni consecutivi, con una remissione dei sintomi
durante l’estate.
Gli episodi depressivi invernali si chiamano winter blues.
Si ritiene che il SAD sia correlato a modificazioni del livello di melatonina nel cervello.
La melatonina è una sostanza particolarmente sensibile all’alternanza di luce e buio e viene rilasciata
soltanto durante la notte o nei periodi di oscurità. Le persone con disturbo affettivo stagionale mostrano
durante l’inverno una maggiore variazione dei livelli di melatonina rispetto alle persone che non soffrono di
questo disturbo.
Il SAD risponde agli antidepressivi e alla terapia cognitivo comportamentale.

DISTURBO DISFORICO PREMESTRUALE


CRITERI DIAGNOSTICI:
Nella maggioranza dei cicli mestruali dell’ultimo anno, vi deve essere la manifestazione di almeno cinque
dei seguenti sintomi nell’ultima settimana precedente la mestruazione e il loro miglioramento qualche
giorno dopo l’inizio della mestruazione:
1. Labilità affettiva
2. Irritabilità
3. Umore depresso, sentimenti di disperazione, pensieri di autosvalutazione e diminuito interesse per le
attività abituali
4. Difficoltà a concentrarsi
5. Mancanza di energia
6. Cambiamenti dell’appetito: iperalimentazione o desiderio intenso di cibi particolari
7. Dormire troppo o troppo poco
8. Sensazione soggettiva di oppressione e di perdita di controllo
9. Sintomi fisici come dolenzia o gonfiore alle mammelle, dolori articolari muscolari, gonfiore addominale.

I sintomi devono portare ad un grado significativo di disagio o di compromissioni del funzionamento.

Non devono essere la semplice esacerbazione di un altro disturbo d’ansia, dell’umore, o di un disturbo di
personalità.

Devono essere confermati da resoconti quotidiani per due cicli mestruali consecutivi.

Se una donna presenta sindromi premestruale dopo l’inizio dell’uso di ormoni esogeni, i sintomi possono
essere dovuti all’uso di ormoni piuttosto che alla sottostante condizione di disturbo disforico premestruale.
DISTURBO DA DISREGOLAZIONE DELL’UMORE DIROMPENTE (può essere diagnosticato solo per ragazzi di
età compresa tra i 6 e i 18 anni)
Criteri diagnostici:
1. Gravi e ricorrenti esplosioni improvvise di collera in risposta a fattori di stress comuni (esempio
espressioni verbali o comportamentali di rabbia sproporzionate per intensità e durata all’episodio che li
ha provocate)
2. Le esplosioni di collera non sono adeguati al livello di sviluppo
3. Esplosioni di collera tendono a verificarsi almeno tre volte alla settimana
4. Tra uno scoppio di collera e l’altro persiste per la maggioranza dei giorni un umore negativo,
osservabile dagli altri
5. I sintomi sono presenti per almeno 12 mesi e la loro remissione non supera mai i 3 mesi ogni volta
6. Le esplosioni improvvise di collera e l’umore negativo si manifestano in almeno due ambienti (a casa, a
scuola con i coetanei) e sono piuttosto gravi in almeno uno di questi contesti
7. Età di 6 anni o più (o un livello di sviluppo equivalente)
8. Esordio prima dei 10 anni
9. Ultimo anno non c’è mai stato un periodo che durasse più di un giorno in cui l’umore fosse elevato o si
manifestassero almeno altri tre sintomi maniacali
10. Questi comportamenti non si manifestano nel corso di un altro disturbo psicotico dell’umore, e non
sono attribuibili a un altro disturbo mentale
11. Questa diagnosi non può coesistere con il disturbo è oppositivo provocatorio, il disturbo esplosivo
intermittente o il disturbo bipolare, mentre può coesistere con disturbi, tra cui il disturbo depressivo
maggiore, il disturbo da deficit di attenzione con iperattività, il disturbo della condotta e il disturbo da
uso di sostanze.

I DISTURBI BIPOLARI
Nel DSM 5 si individuano 3 forme di disturbo bipolare:
- Il disturbo bipolare I
- Il disturbo bipolare II
- Il disturbo ciclotimico

Ognuno di questi disturbi è caratterizzato da sintomi maniacali


I diversi tipi di disturbo bipolare si distinguono in base:

- alla gravità e alla

- durata dei sintomi maniacali.

Questi disturbi sono definiti bipolari perché la maggioranza degli individui che manifestano i sintomi della
mania esperiscono, nel corso dell’esistenza, anche quelli della depressione (mania e depressione sono
considerate due polarità opposte).

L’episodio depressivo non è necessario per la diagnosi di disturbo bipolare I, mentre lo è per quella di
disturbo bipolare II.

La mania è uno stato di forte esaltazione o irritabilità accompagnato da ulteriori sintomi.

Durante un episodio maniacale le persone agiscono e pensano in modi altamente insoliti rispetto alle loro
modalità normali.
Il soggetto può diventare più chiassoso; talvolta produce un flusso incessante di commenti che può essere
pieno di giochi di parole, rime ed esclamazioni su qualsiasi stimolo attragga la sua attenzione. Questo flusso
di parole può essere difficile da interrompere e la persona può saltare rapidamente da un argomento
all’altro, dato questo che riflette la fuga dalle idee.

Durante un episodio maniacale il soggetto può diventare socievole fino all’invadenza e fin troppo sicuro di
sé: spesso purtroppo incurante delle possibili conseguenze disastrose dei suoi comportamenti, che possono
andare da rapporti sessuali a rischio, a spese superiori alle sue possibilità, a guida imprudente.

Può arrivare a smettere di dormire, restando tuttavia pieno di energia.

I tentativi degli altri di correggere questi eccessi possono scatenare la sua rabbia.

L’episodio maniacale tende a manifestarsi in modo rapido e improvviso nell’arco di un giorno o due.

DSM 5. Criteri per diagnosticare l’Ipomania (ipo: meno)

Indica un cambiamento della funzionalità che non causa gravi problemi. La persona con ipomania può
sentirsi più socievole, incline al flirt, energica e produttiva.

IL DISTURBO BIPOLARE I
In passato definito disturbo maniaco depressivo. I criteri per la diagnosi di disturbo bipolare I comprendono
un singolo episodio maniacale* nel corso dell’esistenza del soggetto.

Una persona che riceve una diagnosi di disturbo bipolare I può, oppure no, manifestare al momento
sintomi maniacali: un soggetto viene dunque diagnosticato affetto da disturbo bipolare I anche se ha
manifestato sintomi maniacali per una settimana molti anni prima.

Gli episodi di disturbo bipolare tendono a essere ricorrenti anche più di quelli depressivi legati al DDM, in
più della metà dei soggetti con disturbo bipolare I di solito si verificano 4 o più episodi nell’arco
dell’esistenza.

IL DISTURBO BIPOLARE II
Forma più lieve di disturbo bipolare, il disturbo bipolare II viene diagnosticato se la persona ha avuto
almeno un episodio di depressione maggiore e almeno un episodio di ipomania* (e nessun episodio
maniacale nell’arco dell’esistenza)

*EPISODIO MANIACALE E IPO MANIACALE (stessi sintomi, durata diversa)


Criteri diagnostici:
• Umore chiaramente elevato o irritabile per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
• Aumento abnorme dell’attività dell’energia.
• Almeno tre dei seguenti sintomi devono mostrare un evidente cambiamento rispetto alla condizione
normale (quattro, se l’umore è soltanto irritabile):

1. Aumento delle attività finalizzate o agitazione psicomotoria


2. loquacità insolita; eloquio rapido
3. Fuga delle idee: o impressione soggettiva che i pensieri si susseguano rapidamente
4. Diminuito bisogno di dormire
5. Aumento dell’autostima; convinzione di possedere talenti, poteri o abilità speciali
6. Distraibilità, ovvero attenzione facilmente distratta
7. Eccessivo coinvolgimento in attività dalle probabili conseguenze negative, come spese avventate,
comportamenti sessuali a rischio, guida imprudente.
8. I sintomi sono presenti per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno
EPISODIO MANIACALE:
• I sintomi devono durare almeno una settimana e richiedono l’ospedalizzazione o includono psicosi
• I sintomi causano disagio o compromissione del funzionamento significativi

EPISODIO IPOMANICALE:
• I sintomi durano almeno quattro giorni
• I cambiamenti nel funzionamento sono chiaramente osservabili dagli altri, ma la compromissione
funzionale non è marcata
• Non sono presenti sintomi psicotici

IL DISTURBO CICLOTIMICO (O CICLOTIMIA)


È il secondo disturbo cronico dell’umore (l’altro è il disturbo depressivo persistente). Anche in questo caso i
criteri diagnostici proposti dal DSM5 prevedono che i sintomi siano presenti per almeno due anni negli
adulti (e per un anno nei bambini o negli adolescenti).

Il soggetto presenta sintomi frequenti ma lievi di depressione, alternati a sintomi lievi di mania.

Benché i sintomi non raggiungano la gravità a cui arrivano negli episodi maniacali o depressivi conclamati,
questi soggetti e le persone che vivono a stretto contatto con loro notano tipicamente fluttuazioni
dell’umore.

Nei momenti di depressione questi soggetti possono sentirsi tristi, provare un senso di inadeguatezza,
isolarsi dagli altri e dormire 10 ore a notte.

Nei momenti di umore elevato diventano esuberanti e chiassosi, provano una fiducia in sé esagerata, non
sentono alcuna inibizione sociale, amano la compagnia e dormono pochissimo.

Criteri diagnostici:
Per almeno due anni (un anno, se si tratta di bambini o di adolescenti):
• Numerosi periodi con sintomi ipomaniacali che non soddisfano i criteri per l’episodio maniacale
• Numerosi periodi con sintomi depressivi che non soddisfano i criteri per l’episodio depressivo maggiore
• I sintomi non scompaiono per più di due mesi ogni volta.
• I sintomi causano un grado significativo di disagio o di compromissione funzionale.

EPIDEMIOLOGIA E CONSEGUENZE DEI DISTURBI BIPOLARI


Il disturbo bipolare I è molto più raro della disturbo depressivo maggiore DDM. 0,6%.

I disturbi bipolari colpiscono con la stessa frequenza sia gli uomini che le donne, mentre gli episodi
depressivi sono più comuni tra le donne.

Circa due terzi delle persone che hanno ricevuto una diagnosi di disturbo bipolare soddisfano i criteri per un
disturbo d’ansia associato, e più di un terzo riporta una storia di abuso di sostanze.

Il disturbo bipolare I è tra le forme più gravi di psicopatologia.

I tassi di suicidio sono elevati sia nel caso di disturbo bipolare I sia nella II.

I soggetti affetti da disturbi bipolari sono ad alto rischio per molte altre patologie, comprese le malattie
cardiovascolari, il diabete, l’obesità e le disfunzioni tiroidee.

I soggetti affetti da ciclotimia hanno un rischio elevato di sviluppare episodi di mania e di depressione
maggiore. Anche se non arriva episodi maniacali conclamati, la cronicità dei sintomi rende questo disturbo
un grave fardello per la persona.
SOTTOTIPI DI DISTURBI DEPRESSIVI E DISTURBI BIPOLARI
I disturbi dell’umore sono molto eterogenei: ovvero, individui che hanno ricevuto una stessa diagnosi
possono presentare quadri sintomatici differenti.

Si possono distinguere entro il DDM e i disturbi bipolari un gran numero di sottotipi.

Le specificazioni ad andamento stagionale e a cicli rapidi si riferiscono alla periodicità con cui si manifestano
gli episodi, mentre gli altri sottotipi descrivono caratteristiche dell’episodio attuale di depressione maggiore
o di mania.

Tutti sottotipi sono applicabili sia al DDM sia ai disturbi bipolari, fatta eccezione per la specificazione a cicli
rapidi che rientra criteri diagnostici solo dei disturbi bipolari e la specificazione con manifestazioni
melanconiche che si utilizza solo degli episodi di depressione (nel disturbo bipolare).

EZIOLOGIA DEI DISTURBI DELL’UMORE


Nessuno di questi disturbi può derivare da una singola causa, piuttosto da diversi fattori.

FATTORI NEUROBIOLOGICI NELL’EZIOLOGIA DEI DISTURBI DELL’UMORE


Gli studi più accurati su gemelli MZ (monozigotici, o identici) e DZ (dizigotici, o fraterni) hanno fornito stime
di ereditabilità per il DDM pari al 37%, ovvero, circa il 37% della varianza in coppie di gemelli rispetto
all'insorgere di un disturbo depressivo è attribuibile a influenze genetiche.

Il disturbo bipolare è tra i disturbi mentali che presentano un'ereditarietà più alta.

Uno studio di comunità effettuato su gemelli in Finlandia, nel quale sono state utilizzate inter viste
strutturate per verificare le diagnosi, si è trovata una stima di ereditabilità del 93%. Gli studi su adottati
confermano l'importanza dell'ereditabilità nel disturbo bipolare. L'ereditabilità risulta elevata anche per il
disturbo bipolare II

Le ricerche di genetica molecolare si propongono di identificare gli specifici geni coinvolti nei disturbi
dell'umore.

Poiché i disturbi dell'umore - e in generale la maggior parte dei disturbi mentali sono assai complessi ed
eterogenei, è altamente improbabile che queste condizioni patologiche possano trovare spiegazione
nell'attività di un singolo gene. La maggioranza dei ricercatori oggi è convinta che questi disturbi si
riveleranno correlati a un insieme di geni, in cui ogni singolo elemento genetico apporta solo un minimo
contributo al rischio di sviluppare il disturbo. Probabilmente a causa degli effetti molto piccoli apportati dai
singoli geni, studi di associazione genomica (GWAS, genome-wide association studies) condotti su un
campione di oltre 18 000 persone non sono riusciti a identificare geni specificamente associati con il DDM e
molti dei geni specifici identificati in studi meno vasti non sono stati confermati da repliche. In studi che
hanno coinvolto migliaia di persone sono stati identificati vari polimorfismi genetici associati al disturbo
bipolare, tuttavia questi polimorfismi possono spiegare solo una parte molto piccola del rischio per il
disturbo. Alcuni di questi polimorfismi genetici paiono sovrapponibili a quelli coinvolti nella schizofrenia

Un approccio differente consiste nel considerare se un dato gene potrebbe far aumentare il rischio di
sviluppare la depressione in presenza di particolari fattori di rischio ambientali. Questo approccio ha
permesso di scoprire che un polimorfismo del gene per il trasportatore della serotonina pare in effetti
correlato al DDM.

FATTORI SOCIALI NELLA DEPRESSIONE

FATTORI PSICOLOGICI NELLA DEPRESSIONE


NEVROTICISMO: Tratto di personalità che corrisponde alla tendenza a reagire gli eventi con emozioni
negative superiori alla media. Diversi studi longitudinali suggeriscono che possa essere un fattore predittivo
dell’insorgere di un disturbo depressivo, e si associa anche all’ansia e alla distimia.

LE TEORIE COGNITIVE
Secondo le teorie cognitive, pensieri convinzioni negativi sono fra le cause principali della depressione.
Tre teorie cognitive si disturbi dell’umore:
1) Teoria di Beck: Beck associa la depressione ad una triade negativa: una visione negativa di sé, del
mondo e del futuro. Le persone che soffrono di depressione hanno acquisito durante l’infanzia
schemi di pensiero negativi in conseguenza di eventi gravemente stressanti. Questi schemi non
sono pensieri coscienti: sono un insieme di convinzioni sottostanti il livello della coscienza che
operano in modo da influenzare il significato attribuito dalla persona le proprie esperienze, senza
che essa ne sia consapevole. Uno schema di pensiero negativo si attiva ogni volta che la persona
vive una situazione simile quella che in origine ha accusato la formazione dello schema stesso. Una
volta attivati gli schemi negativi sono la causa di distorsioni cognitive, cioè tendenze ad elaborare
le informazioni secondo particolari modalità negative (centrare eccessivamente l’attenzione sui
feedback negativi e non notare, o non ricordare, i positivi). Le conclusioni che tali persone traggono
su sé stesse, quindi, confermano lo schema sottostante, e ciò a sua volta contribuisce a mantenere
attivo lo schema stesso, come in un circolo vizioso.

2) La Hopeleness theory (La teoria della disperazione) secondo questa teoria il più importante tra i
fattori scatenanti la depressione è la disperazione, caratterizzata dal fatto che: l’individuo si aspetta
che non si verificherà alcun esito desiderabile, è convinto che nessuna risposta da parte sua possa
far cambiare la situazione. Secondo questo modello, la disperazione contribuisce all’insorgere di un
solo tipo di depressione (depressione da disperazione). La disperazione è innescata da eventi
negativi che hanno conseguenze importanti sull’individuo o sulla validazione che l’individuo dà di se
stesso. Vi è l’attribuzione dell’evento e del suo significato per la persona a fattori stabili e globali.
(Con una presunta incapacità nel far qualcosa). Subentrano altri fattori cognitivi, ad esempio la
bassa autostima, che promuovono l’insorgere della disperazione minando la fiducia della persona
nelle sue possibilità di far fronte alle difficoltà nella vita. Ciò porta alla disperazione, e al sotto tipo
di depressione caratterizzato da disperazione, definito da sintomi specifici.

Depressione da disperazione sintomi:


− Diminuita motivazione
− Tristezza
− Tendenze suicide
− Calo di energia
− Rallentamento psicomotorio
− Disturbi del sonno
− Scarsa capacità di concentrazione
− Pensieri negativi.

3) La teoria della ruminazione: a differenza della teoria di Beck e quella della disperazione, che
tendono a focalizzarsi sulla natura dei pensieri negativi, questa teoria postula che il rischio di
depressione possa aumentare a causa di una particolare modalità di pensiero, la ruminazione.
Questa è definita come la tendenza a ritornare di continuo con la mente alle esperienze ai pensieri
tristi, o continuare a rimasticare sempre gli stessi materiali. La forma più dannosa e continuare a
chiedersi perché un certo episodio è potuto accadere. La tendenza a questo tipo di pensiero
permette di prevedere l’esordio di episodi di DDM, anche in persone inizialmente non affette da
depressione.
Le donne sembrano tendere a rimuginare più degli uomini (ciò può spiegare i tassi più alti di
pressione che si riscontrano il sesso femminile rispetto a quello maschile).

FATTORI SOCIALI E PSICOLOGICI NELL’EZIOLOGIA DEL DISTURBO BIPOLARE.


La maggioranza delle persone che nel corso dell'esistenza manifestano un episodio maniacale fa esperienza
anche di un episodio di depressione maggiore.

DEPRESSIONE NEL DISTURBO BIPOLARE


I fattori scatenanti episodi depressivi nell'ambito di questo bipolare appaiono molto simili a quelli che
fanno precipitare gli episodi di pressione maggiore (gli eventi negativi sembrano avere un ruolo importante
come anche fattori quali nevrotici, gli stili cognitivi negativi, l'espressione delle emozioni e la mancanza di
supporto sociale sono predittivi dei sintomi di depressione anche nel disturbo bipolare.

FATTORI PREDITTIVI DELLA MANIA


Due tipi di fattori predittivi dell'aumento dei sintomi maniacali del tempo:
− Sensibilità alla ricompensa. Secondo questo modello la mania riflette un disturbo nel sistema cerebrale
della ricompensa. Le persone con disturbo bipolare descrivono se stesse in uno specifico questionario
di autovalutazione come altamente sensibili alle ricompense. Eventi segnati dal successo possono
comunque portare a un peggioramento dei sintomi maniacali perché portano sul piano cognitivo a
cambiamenti della fiducia in se stessi, che crescendo poi a dismisura portano alla rincorsa di obiettivi
troppo ambiziosi.
− Disturbi del sonno. Esistenza di uno stretto intreccio tra disturbo maniacale e disturbi del sonno e
alterazioni dei ritmi circadiani (dalle privazione di sonno può precedere l'esordio di episodi maniacali).
Preservare il sonno può ridurre sintomi di un disturbo bipolare.

INTEGRAZIONE DEI FATTORI DI RISCHIO BIOLOGICI E SOCIALI PER LA DEPRESSIONE: LE CITOCHINE

IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI DELL'UMORE


TERAPIE PSICOLOGICHE DELLA DEPRESSIONE

LA PSICOTERAPIA INTERPERSONALE (IPT)


Questa terapia è incentrata sul concetto che la depressione sia strettamente legata a problemi nelle
relazioni interpersonali.
La terapia si focalizza sull'esame dei principali problemi interpersonali, come cambiamenti di ruolo,
conflitti, lutti e isolamenti sociali.

Il lavoro del terapeuta e della persona si concentra su uno o due di questi temi, allo scopo di aiutare la
persona a identificare i propri sentimenti al riguardo, a prendere decisioni importanti e a intraprendere
cambiamenti per risolvere i problemi a essi collegati.

Come le terapie cognitivo-comportamentali, anche la IPT è una psicoterapia breve. Le tecniche includono la
discussione dei problemi interpersonali del paziente, l'esplorazione dei suoi sentimenti negativi e
l'incoraggiamento ad esprimerli, il miglioramento della comunicazione sia verbale che non verbale e della
capacità di risolvere problemi, il suggerimento di nuove e più soddisfacenti modalità comportamentali
LA TERAPIA COGNITIVA depressione
Sulla base della teoria cognitiva secondo la quale all’origine della depressione vi sono schemi e bias
cognitivi negativi, Beck e i suoi collaboratori hanno elaborato una terapia cognitiva finalizzata a modificare
queste modalità di pensiero disadattive.

Il terapeuta insegna al cliente che il nostro pensiero può influenzare moltissimo il nostro umore, e che il
colloquio negativo che porta avanti con sé stesso ogni giorno contribuisce a farlo sentire depresso.

Per renderlo consapevole di questo collegamento fra i suoi pensieri e il suo umore, il terapeuta chiede
talvolta al cliente di effettuare un automonitoraggio quotidiano, cioè di tenere per tutta la settimana una
registrazione completa dei suoi pensieri negativi, così da diventare più consapevole del fatto che quei
pensieri influenzano il suo umore.

Il terapeuta cerca di aiutare la persona affetta da depressione a cambiare le proprie opinioni riguardo se
stessa e agli eventi che accadono.

Il terapeuta cerca di portarla a trovare prove che contraddicono questa ipergeneralizzazione, ad esempio
vedere capacità che la persona non prende in considerazione o a cui non attribuisce valore. Inoltre, il
terapeuta insegna all'individuo a monitorare il proprio dialogo interno e a identificare modalità di pensiero
che contribuiscono alla depressione. Il terapeuta istruisce quindi la persona a mettere in discussione le
proprie convinzioni negative e ad apprendere strategie che promuovono la formulazione di assunti reali
stici e positivi. Spesso il terapeuta chiede al cliente di esercitarsi a mettere in discussione i pensieri più
negativi e di considerare se questo sia il modo più accurato di vedere la situazione.

Beck pone particolare enfasi sulla ristrutturazione cognitiva (cioè sul lavoro di persuasione che il terapeuta
deve compiere per portare la persona a concepire pensieri meno negativi).

La terapia di Beck include anche una tecnica comportamentale, detta attivazione comportamentale (BA,
behavioral activation), in cui le persone vengono incoraggiate a impegnarsi in attività piacevoli che possono
portarli a concepire pensieri positivi su di sé e sulla propria vita. Questa terapia allevia i sintomi del DDM e
con alcune modifiche, si rivela efficace anche nel trattamento della DISTIMIA.

Un recente adattamento della TC è la terapia cognitiva basata sulla mindfulness (MBCT) che è focalizzata
sulla prevenzione delle ricadute.

La MBCT è basata sull’assunto che una persona diventa vulnerabile alle recidive a causa della ripetuta
associazione tra umore triste e modalità di pensiero negativo, autosvalutazione e disperazione, che ha
luogo nel corso degli episodi di depressione maggiore.

Di conseguenza, quando è di umore triste una persona che ha già sofferto di depressione inizia a pensare
con le stesse modalità negative di quando era in piena crisi depressiva. La riattivazione di queste modalità
di pensiero, a sua volta, intensifica la tristezza. Quindi nelle persone con una storia di depressione maggiore
la tristezza ha molte probabilità di crescere sempre più, contribuendo all'insorgere di altri episodi di
depressione maggiore.

Lo scopo della MBCT è insegnare alle persone a riconoscere quando incominciano a sentirsi depresse e a
cercare di adottare quella che può essere definita una prospettiva <<decentrata»>, cioè considerare i
propri pensieri semplicemente come «<eventi mentali»>, anziché un aspetto cruciale di sé stessi o un
riflesso accurato della realtà. In altre parole, mediante un'ampia gamma di strategie che comprendono
anche la meditazione, la persona apprende col tempo a sviluppare un distacco dai pensieri e dai sentimenti
legati alla depressione. Si ritiene che il raggiungimento di questa prospettiva sia in grado di prevenire
l'escalation delle modalità di pensiero negativo che possono sfociare in un episodio depressivo.
In uno studio multicentrico soggetti con una precedente storia di depressione furono assegnati a caso a un
gruppo trattato con MBCT oppure a un gruppo sottoposto a «trattamento tradizionale»>. In base ai risultati
emersi da questo studio, la MBCT era più efficace del «trattamento tradizionale» nel ridurre il rischio di
ricaduta nei soggetti che avevano già sofferto tre o più episodi di depressione maggiore. La MBCT non
sembra invece proteggere dalle ricadute i soggetti che in passato hanno avuto soltanto uno o due episodi di
DDM. Questa può essere una ragione per cui gli esperimenti controllati randomizzati (RCT) non hanno
confermato l'efficacia delle terapie basate sulla mindfulness. Questo trattamento sembra dunque utile
soprattutto con i soggetti affetti da una forma di DDM con ricadute frequenti.

LA TERAPIA DI ATTIVAZIONE COMPORTAMENTALE (BAT)


Come detto sopra, l'attivazione comportamentale è una componente della teoria di Beck.

Man mano che i sintomi della depressione si sviluppano, il ritiro sociale l'inerzia diventano sempre più
frequenti, e fanno diminuire ancora di più i già bassi livelli di rinforzo positivo. Le terapie di attivazione
comportamentale cerca perciò di stimolare la partecipazione del paziente ad attività che possono portargli
rinforzi positivi, in modo da rompere il circolo vizioso depressione-ritiro-evitamento sociale.

LA TERAPIA COMPORTAMENTALE DI COPPIA


La depressione è spesso collegata a problemi di relazione, compresi i conflitti coniugali e familiari. In questo
approccio il terapeuta lavora con entrambi i membri della coppia per migliorare la loro comunicazione e la
reciproca soddisfazione nella relazione. I risultati indicano che quando la persona che soffre di depressione
si trova ad affrontare anche problemi di coppia, questa terapia è efficace nell'alleviare i sintomi depressivi
quanto una terapia cognitiva individuale o quanto un trattamento con farmaci antidepressivi.

Uno dei vantaggi sta nel mitigare la conflittualità tra i partner molto di più della terapia individuale.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DEL DISTURBO BIPOLARE


La terapia farmacologica è una componente necessaria del trattamento del disturbo bipolare, ma a essa si
possono affiancare anche trattamenti psicologici con lo scopo di alleviare molti dei problemi sociali e
psicologici associati al disturbo.

Gli interventi psicoeducativi aiutano le persone a conoscere i sintomi del propri disturbo, il decorso
prevedibile del quadro sintomatico, i fattori psicologici e biologici che possono scatenarne i sintomi e le
varie strategie d trattamento. Inoltre, possono aiutare le persone che soffrono di questo disturbo a seguire
in modo corretto un trattamento farmacologico come il litio. Oltre ad aiutare le persone a seguire con
costanza la terapia farmacologica, sono efficaci nell’evitare l’ospedalizzazione.

Anche altri tipi di terapie sono finalizzati alla costruzione di abilità con cui affrontare il disturbo bipolare e
ridurne i sintomi. Fra queste:
• Terapia cognitiva: si avvale di molte tecniche utilizzate anche nel trattamento del DDM con l’aggiunta
di tecniche finalizzate a rilevare i sintomi precoci degli episodi maniacali
• Terapia focalizzata sulla famiglia (FFT): si propone di educare l'intera famiglia sui vari aspetti del
disturbo, migliorare la comunicazione tra i membri e sviluppare le loro capacità di risolvere problemi.

METODI BIOLOGICI DEL TRATTAMENTO DEI DISTURBI DELL'UMORE


Per trattare il disturbo depressivo e quello maniacale si utilizzano numerose terapie biologiche, le più
comuni sono: la terapia elettroconvulsivante e la terapia farmacologica e anche la stimolazione
transcranica:
- Terapia elettroconvulsiavante della depressione (TEC) Consiste nell'induzione deliberata della crisi
convulsiva con temporanea perdita di coscienza, inviando dal cervello del paziente una corrente
elettrica, su un solo lato della fronte. Il paziente si risveglia senza ricordare nulla del trattamento e
prima viene sedato.
- Terapia Farmacologica dei disturbi depressivi
I farmaci rappresentano il più diffuso e il meglio studiato fra tutti i trattamenti dei disturbi depressivi.
Esistono 3 classi principali di farmaci antidepressivi:
• Inibitori delle monoamminoossidasi (I-MAO) (meno usati)
• Antidepressivi triciclici
• Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) → i più prescritti

Stimolazione magnetica transcranica nel trattamento della depressione


Prevede che sul cuoio cappelluto del soggetto venga applicata una bobina elettromagnetica, quindi si
utilizzano pulsazioni intermittenti di energia magnetica per aumentare l’attività neurale nella corteccia
prefrontale dorsolaterale. Il trattamento dura in genere 30 minuti, con applicazioni quotidiane per un
periodo di 5-10 giorni

Trattamento farmacologico del disturbo bipolare


I farmaci che riducono i sintomi maniacali sono detti stabilizzatori dell'umore. Il litio è stata la prima
sostanza ad essere identificata ed è quello più utilizzato. Sebbene il farmaco possa alleviare la
sintomatologia, la maggioranza delle persone continua a esperire sintomi maniacali e depressivi come
minimo lievi anche dopo la sua assunzione.

Oltre al litio, altre due classi di farmaci vengono utilizzati per il trattamento degli episodi maniacali acuti:
• Farmaci anticonvulsivanti (antiepilettici) come il valproato di sodio (Depakin)
• Antipsicotici come l’olanzapina (Zyprexa)
Gli stabilizzatori dell’umore usati per trattare gli episodi maniacali contribuiscono ad alleviare anche i
sintomi depressivi. Tuttavia, molte persone continuano a esperire sintomi depressivi anche quando
assumono uno stabilizzatore dell’umore come il litio. In questi casi spesso si aggiungo alla terapia farmaci
antidepressivi.
In secondo luogo, nelle persone che soffrono di disturbo bipolare, gli antidepressivi possono provocare un
moderato aumento del rischio di episodi maniacali se non vengono assunti congiuntamente a uno
stabilizzatore dell’umore.

IL SUICIDIO
• Ideazione suicidaria: Pensieri di uccidersi, molto più comune dei tentativi di suicidio.
• Tentativi di suicidio: Comportamenti tesi a causare la morte del soggetto ma che non raggiungono lo
scopo.
• Suicidio: Comportamenti tesi a provocare la morte del soggetto che riescono nel loro intento.
• Autolesionismo senza intenti suicidi (NSSI): Quei comportamenti che sia provocare un danno fisico
immediato senza però l'intenzione di uccidersi.

EPIDEMIOLOGIA DEL SUICIDIO E DEI TENTATIVI DI SUICIDIO


È una di tali complessità e nessuna singola teoria può sperare di darne una spiegazione completa.

È possibile che i dati di suicidio siano compromessi da sottostime grossolane, data l’ambiguità di alcune
morti, ad esempio, molte morti un apparenza accidentali possono invece essere causate da un intento
suicida. Dagli studi epidemiologici sulla condotta suicidaria si rilevano i seguenti dati:

• Negli Stati Uniti il tasso di suicido è circa di 1 su 10000 abitanti per anno
• A livello mondiale, circa il 9% delle persone riferisce di avere avuto idee suicide almeno una volta nella
vita, e il 2,5% di aver compiuto almeno un tentativo di suicidio. Il tasso dei tentativi di suicidio negli
Stati Uniti è circa il doppio che negli altri paesi.
• I tassi di suicidio sono più alti nelle regioni in cui è più diffuso il possesso di armi da fuoco.
• La probabilità di commettere suicidio è 4 volte più alta negli uomini che nelle donne
• Le donne hanno più probabilità degli uomini di compier tentativi di suicidio che non si concludono con
la morte
• Gli uomini in genere scelgono di spararsi o di impiccarsi, mentre le donne tendono a servirsi dei
sonniferi, un mezzo meno letale che forse può spiegare perché fra le donne il tasso dei suicidi portati a
termine sia più basso
• Il tasso di suicidio aumenta fra gli anziani
• L’essere divorziati o vedovi fa aumentare di 4 o 5 volte il rischio di suicidio
• Negli USA il tasso di suicido tra gli adolescenti e i bambini sta drammaticamente aumentando

DISTURBI PSICOLOGICI.
Molte persone che soffrono di un disturbo dell'umore arrivano a concepire idee suicide, e alcuni anche a
metterle in pratica. Più della metà dei tentativi di suicidio viene commessa da persone che nel momento in
cui compiono questo atto si trovano in uno stato di depressione. Fino al 90% delle persone che tentano il
suicidio soffre di un disturbo mentale. Circa il 5-7% delle persone che hanno ricevuto una diagnosi di
disturbo bipolare e il 5% di quelle con diagnosi di schizofrenia finiscono col morire suicidandosi. Anche i
disturbi del controllo degli impulsi, i disturbi da uso di sostanze, il PTSD e il disturbo borderline di
personalità si associano a un rischio maggiore di condotta suicidaria. Anche disturbi meno gravi come il
disturbo di panico e i disturbi dell’alimentazione si associano a un elevato rischio di suicidio.

FATTORI NEUROBIOLOGICI
Gli studi di gemelli indicano che il tentativo di suicidio ha un’ereditabilità del 48%. Così come bassi livelli di
serotonina appaiono associati alla depressione, esiste un collegamento anche fra serotonina e suicidio. La
disfunzione serotoninergica appare particolarmente importante per capire il suicidio violento

FATTORI SOCIALI
È stato dimostrato che gli eventi economici e sociali influenzano il tasso di suicidio. L’isolamento sociale e la
mancanza di appartenenza sociale sono tra i fattori predittivi più potenti dell’ideazione e dei
comportamenti suicidari. La sensazione di essere soli, senza nessuno a cui potersi rivolgere, sia uno dei
fattori che più influenzano l’insorgere di condotte suicidarie.

FATTORI PSICOLOGICI
Il suicidio può avere molti significati: può avere lo scopo di indurre negli altri sensi di colpa; essere un
estremo tentativo di farsi amare dagli altri o di riparare a colpe che il suicida ritiene di aver commesso;
oppure il modo per liberarsi da sentimenti percepiti come inaccettabili; può derivare dal desiderio di
ricongiungersi con una persona amata e deceduta; oppure essere un modo per sfuggire al dolore o al vuoto
emozionale.

Le variabili psicologiche differiscono da individuo a individuo, ma il fattore di rischio più comune è la


difficoltà nel risolvere problemi (deficit nel problem-solving hanno valore predittivo rispetto ai tentativi di
suicidio). Una persona con difficoltà a risolvere i problemi è più vulnerabile alla disperazione. La
disperazione può essere definita come l’aspettativa che la vita non potrà in futuro essere migliore di quello
che è ora, è fortemente associata al suicidio. Un livello elevato di disperazione si associa ad un aumento ei 4
volte del rischio di suicido.
Reason for Living Inventory: Questionario di autovalutazione composto da item che riguardano i valori
importanti per il soggetto, come la responsabilità nei confronti della famiglia e la preoccupazione per i figli.
Le persone con più ragioni per vivere hanno minori tendenze suicide rispetto a chi di quelle ragioni ne ha
meno.

LA PREVENZIONE DEL SUICIDIO.


Contrariamente all'opinione diffusa di parlare del suicidio renda lo stesso più probabile, i clinici sanno
quanto sia utile parlarne in termini molto aperti e concreti.

Permettere a una persona di parlare liberamente dei suoi pensieri suicidi può aiutarla a liberarsi da un
senso opprimente di isolamento.

TRATTAMENTO DEI DISTURBI PSICOLOGICI ASSOCIATI.


Un modo di affrontare il tema della prevenzione del suicidio è tener conto del fatto che molte persone che
arrivano a togliersi la vita soffrono di un disturbo mentale. Perciò, quando la terapia cognitiva riesce ad
alleviare la depressione di un paziente, diminuisce anche il rischio di suicidio. Anche la terapia dialettico-
comportamentale è un altro metodo che effetti protettivi rispetto alle condotte suicidarie.

I farmaci per il trattamento dei disturbi dell’umore riducono di 3-4 volte il rischio di suicidio.

IL TRATTAMENTO DIRETTO DELLA CONDOTTA SUICIDARIA.


Le terapie di tipo cognitivo-comportamentale sembrano essere le più promettenti nel ridurre la condotta
suicidaria, poiché includono una serie di strategie per la prevenzione del suicidio: il terapeuta aiuta il
paziente a capire quali emozioni o pensieri gli suscitano l'impulso di suicidarsi e lavora insieme al paziente
per aiutarlo mettere in discussione i suoi pensieri negativi e a individuare nuove modalità per sopportare il
distress emozionale.

Le linee guida internazionali assegnano ai loro aderenti il compito di proteggere i pazienti del suicidio,
anche se per farlo sono costretti ad infrangere la regola del segreto professionale che vige nella relazione
terapeuta-paziente. I terapeuti una vota che siano venuti a conoscenza delle tendenze suicide del cliente,
assumano ragionevoli precauzioni

Uno degli approcci con cui si cerca di tenere in vita una persona con tendenze suicide è il ricorso
all’ospedalizzazione, vista come un mezzo per salvare la persona nell’immediato, fino a quando non è in
grado di considerare altri modi per migliorare la propria vita. Molti criticano la pratica
dell'istituzionalizzazione con ricovero coatto e gli interventi con cui si cerca di impedire che le persone si
suicidino vedendoli come una violazione del diritto della persona di compiere libere scelte, anche se ciò
porta alla morte, ma le persone a cui è stato impedito di togliersi la vita in seguito e spesso sono grati per
aver avuto un'altra possibilità.

LA PREVENZIONE DEL SUICIDIO


Esistono molti centri per la prevenzione del suicidio. Questi centri forniscono in genere un servizio
telefonico attivo 24 ore su 24, con cui si cerca di offrire sostegno psicologico alle persone che si suicida.

Vi sono state molte ricerche nell'ambito delle forze armate, al cui interno il tasso di suicidio è molto
elevato, ed è possibile offrire programmi di prevenzione che coinvolgono l'intera comunità.

I programmi prevedevano uno speciale addestramento teso ad incoraggiare la richiesta di aiuto, a far
considerare normale l'esperienza di profondo malessere psicologico, e a sviluppare efficaci strumenti per
far fronte (coping) al distress. Ciò ha portato ad un abbassamento del 25% del tasso dei suicidi portati a
termine.
Oltre a programmi d prevenzione indirizzati al target degli individui ad alto rischio, gli interventi di salute
pubblica orientati alla prevenzione del suicidio cercano di intervenire sulla facilità con cui le persone
possono accedere ai mezzi con cui commettere il suicidio.

Dal momento in cui nella maggioranza dei casi i suicidi tendono a scaturire da una scelta impulsiva, cioè le
persone spesso metto in atto un tentativo di suicido molto in fretta, senza starci troppo a pensare. Più è
difficile dare attuazione pratica a un’idea suicida, e minori sono le probabilità che ciò avvenga. Per questa
ragione, strategie come erigere una barriera su un ponte, in modo che le persone non possano gettarsi giù
sulla spinta di un impulso momentaneo, possono essere molto efficaci.

CAPITOLO 6
I DISTURBI D’ANSIA
Nel gruppo di disturbi definiti disturbi d’ansia, l’ansia e la paura hanno un ruolo rilevante.

L’ansia è definita come il senso di apprensione che si prova nell’anticipazione di un certo problema,
riguarda quindi una minaccia futura.
La paura è invece una reazione ad un pericolo immediato, riguarda quindi una minaccia presente.

Sia l’ansia sia la paura implicano uno stato di arousal, cioè di attivazione del sistema nervoso simpatico,
l’ansia implica un livello moderato di arousal, la paura un livello più alto.

Sono necessarie in quanto hanno un valore adattativo, ma in alcuni disturbi d’ansia, il sistema deputato
alla paura non funziona adeguatamente e la persona prova paura senza che nell’ambiente circostante sia
presente un vero pericolo.

I disturbi d’ansia costituiscono la diagnosi psichiatrica più comune, e particolarmente comuni sono le fobie.

Sono disturbi che comportano costi molto alti, per la società e per gli individui che ne soffrono.

DSM5.

DISTURBI D’ANSIA.
-Fobia specifica
-disturbo d’ansia sociale
-disturbo di panico
-agorafobia
-disturbo d’ansia generalizzato
-disturbo d’ansia da separazione
-mutismo selettivo.

DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO E DISTURBI COLLEGATI.


- Disturbo ossessivo-compulsivo.

DISTURBI COLLEGATI A EVENTI TRAUMATICI E STRESSANTI.


- Disturbo acuto da stress
- disturbo da stress post-traumatico.

QUADRI CLINICI DEI DISTURBI DI ANSIA


Una caratteristica comune a tutti i disturbi d’ansia sono i livelli d’ansia eccessivi per intensità o frequenza.
Fatta eccezione per il disturbo d’ansia generalizzato, i disturbi d’ansia qui descritti implicano anche la
tendenza ad esperire un grado insolitamente elevato di paura.

Per ogni disturbo i sintomi devono soddisfare precisi criteri perché possa essere tratta la diagnosi:

• Devono interferire con le principali aree funzionali dell’individuo, o causare marcato distress;
• Non devono essere causati da un farmaco o da una condizione medica,
• I sintomi d’ansia o paura si distinguono da quelli di un altro disturbo d’ansia.
• I sintomi persistono per almeno 6 mesi o almeno 1 mese per il disturbo di panico.

Ogni disturbo è quindi definito da un diverso insieme di sintomi in relazione all’ansia o alla paura.

LE FOBIE SPECIFICHE
Per fobia specifica si intende una paura sproporzionata, provocata da un oggetto o da una situazione
particolari. La persona riconosce che la sua paura è eccessiva e tuttavia è disposta a fare sforzi notevoli pur
di evitare l’oggetto o la situazione che la provoca.

Criteri diagnostici fobie specifiche:


• Paura marcata e sproporzionata, provocata costantemente da particolari oggetti o situazioni.
• L’oggetto (o la situazione) viene evitato o sopportato con intensa ansia. 3 i sintomi persistono per
almeno sei mesi.

Il criterio del DSM V secondo cui l’individuo riconosce che la sua paura è irrazionale e idealistica, non è più
previsto nella bozza del DSM5.

Due delle forme più comuni di fobia specifica sono la claustrofobia (paura degli spazi angusti chiusi) e
l’acrofobia (paura delle altezze).

Un individuo affetto da una fobia specifica ha molte probabilità di soffrire anche di un altro tipo di fobia
specifica, ovvero tra le fobie specifiche vi è un’elevata comorbilità.

IL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE


Si definisce disturbo d’ansia sociale una paura intensa, irrazionale e persistente, delle situazioni sociali che
potrebbero implicare l’essere sottoposti al giudizio di persone sconosciute o anche soltanto esposti alla loro
presenza.

Criteri diagnostici: disturbo d’ansia sociale:


• Paura marcata e sproporzionata, costantemente provocata dall’esposizione al possibile giudizio degli
altri.
• L’esposizione alla situazione temuta provoca un intensa ansia di ricevere un giudizio negativo.
• Le situazioni temute sono evitate o sopportate con intensa ansia.
• I sintomi persistono per almeno sei mesi.

Le persone che soffrono di questo disturbo in generale cercano di evitare situazioni in cui potrebbero
essere oggetto di valutazione da parte degli altri o mostrare segni di ansia imbarazzo (parlare in pubblico,
conoscere persone nuove, rivolge la parola a persone investite di autorità). Anche se questi sintomi
possono apparire simili alla timidezza, le persone che soffrono di disturbo d’ansia sociale mostrano una
tendenza più forte a evitare situazioni sociali, provano disagio maggiore ed esperiscono tali sintomi per
periodi più lunghi della loro vita, in confronto alle persone timide.
Il disturbo d’ansia sociale insorge solitamente durante l’adolescenza, quando le interazioni sociali
acquistano più importanza, ma in alcuni casi sintomi hanno il loro esordio genitale infantile. Se non viene
adeguatamente trattato, il disturbo tende a cronicizzare.

La gravità del disturbo d’ansia sociale è ampiamente variabile: per esempio, alcune persone possono tenere
di parlare in pubblico e non temere affatto situazioni sociali differenti, in altri casi invece, i soggetti
riferiscono di avere paura di quasi tutte le situazioni sociali.

Ad un numero maggiore di paure esperite dal soggetto si accompagna una maggiore comorbilità con altri
disturbi, come la depressione e abuso di alcol.

IL DISTURBO DI PANICO
Il disturbo di panico è caratterizzato da ricorrenti attacchi di panico inaspettati, non collegati a situazioni
specifiche e dalla preoccupazione di soffrire di altri attacchi.
Un attacco di panico consiste è un attacco improvviso di intensa apprensione, terrore e sensazione di
disastro incombente, accompagnato da almeno altri quattro sintomi:

Sintomi fisici: palpitazioni, sudorazione profusa, tremori, dispnea o sensazione di soffocamento, asfissia,
dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazione di vertigine, brividi o vampate di calore

Altri sintomi che possono manifestarsi sono:


• Derealizzazione (un senso di irrealtà del mondo)
• Depersonalizzazione (percepirsi come al di fuori del proprio corpo)
• Paura di perdere il controllo o di impazzire
• Paura di morire

Criteri diagnostici disturbo di panico:


• Ricorrenti attacchi di panico inaspettati
• Protrarsi per almeno un mese di preoccupazione per la possibilità di nuovi attacchi, preoccupazione
per le conseguenze di un attacco o modificazioni disadattive del comportamento causate dagli
attacchi.
• L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica.
• Gli attacchi di panico non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale.

L’attacco di panico può essere visto come un mal funzionamento del sistema che presiede alla paura: sul
piano fisiologico, la persona sperimenta un livello di attivazione del sistema nervoso simpatico analogo a
quello che la maggioranza delle persone sperimenterebbe di fronte a una minaccia immediata che
mettesse in pericolo la loro vita.

I criteri diagnostici per il disturbo di panico richiedono anche altri sintomi oltre alla presenza di attacchi di
panico ricorrenti. Perché si possa trarre la diagnosi di disturbo di panico la persona deve esperire attacchi
ricorrenti e inaspettati. Gli attacchi scatenati da situazioni specifiche, ad esempio dalla vista di un seprentr,
sono tipicamente correlati a una fobia e non devono essere consideratisi fini della diagnosi di disturbo di
panico.

Oltre al verificarsi di attacchi di panico inattesi, i criteri del DSM specificano anche che la persona deve
avere paura degli attacchi o cambiare il comportamento a causa degli attacchi per almeno 1 mese.
Quindi, ai fini della diagnosi, la risposta agli attacchi di panico è altrettanto importante degli attacchi stessi.

Gli attacchi di panico che sopraggiungono all’improvviso sono detti non segnalati. Gli attacchi che invece
sono scatenati da specifiche situazioni (vista di un serpente) sono detti segnalati, queste persone sono
molto probabilmente affette da fobia.
AGORAFOBIA
Paura di situazioni da cui potrebbe essere difficile o imbarazzante allontanarsi, nel caso si manifestassero
sintomi d’ansia. Situazioni tipicamente temute sono la folla e i luoghi affollati, come i negozi e i centri
commerciali o anche le chiese. A volte si tratta di situazioni che non lasciano molte vie di fuga, come essere
in treno, attraversare un ponte o trovarsi su strade a lunga percorrenza

Criteri diagnostici agorafobia:


• Paura o ansia marcate relative ad almeno due situazioni in cui sarebbe difficile fuggire o ricevere aiuto,
nel caso che i sintomi imbarazzanti o sintomi analoghi al panico prendessero il sopravvento e
rendessero soggetto incapace di reagire; ad esempio, essere fuori casa da soli, utilizzo dei trasporti
pubblici, trovarsi spazi aperti, trovarsi spazi chiusi, stare in fila oppure tra la folla
• Queste situazioni provocano costantemente paura o ansia
• Queste situazioni vengono evitate, o richiedono la presenza di un accompagnatore, o sono sopportate
con paura e ansia intense

La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti: i sintomi perdurano per almeno sei mesi.

Nel DSM-IV l’agorafobia è classificata come un sottotipo del disturbo di panico; nel DSM5 è invece indicata
come una categoria diagnostica a sé.

IL DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATO (GAD).


La principale caratteristica del GAD è la preoccupazione persistente. Le persone che soffrono di GAD sono
costantemente preoccupate, spesso per cose di scarsa importanza. Il termine preoccupazione fa
riferimento alla tendenza cognitiva a rimuginare su un problema senza riuscire a staccarsene. Spesso la
preoccupazione persiste perché il soggetto non riesce a dare soluzione al problema. Coloro che soffrono di
GAD sono preoccupati in modo eccessivo, incontrollabile e prolungato nel tempo. Gli aspetti della vita su
cui si incentrano le preoccupazioni delle persone affette da GAD sono simili a quelle che angustiano la
maggior parte delle persone: le relazioni, la salute, la loro situazione economica e tutte le scocciature della
quotidianità. Nel GAD le preoccupazioni sono però più intense e persistenti, tanto da interferire con la vita
dell’individuo.

Oltre alle preoccupazioni incontrollabili, gli altri sintomi comprendono la difficoltà a concentrarsi, lo
stancarsi facilmente, l’irrequietezza, l’irritabilità e tensione muscolare

Criteri diagnostici disturbo d’ansia generalizzato:


• Ansia e preoccupazioni eccessive che si manifestano per almeno il 50% dei gironi relative a un gran
numero di eventi o di attività
• L’ansia e la preoccupazione persistente sono associate con almeno 3 dei seguenti sintomi (uno per i
bambini):
- Irrequietezza o sentirsi agitati o con i nervi a fior di pelle
- Facile affaticabilità
- Difficoltà concentrarsi o sensazione di mente vuota
- Irritabilità
- Tensione muscolare
- Alterazione del sonno.

DISTURBO D’ANSIA DA SEPARAZIONE


Non presente nel manuale del capitolo dei disturbi d’ansia, ma in quello dei disturbi dell’infanzia e
dell’adolescenza.

Criteri diagnostici:
1) Paura o ansia eccessiva e inappropriata rispetto allo sviluppo che riguarda la separazione da coloro a
cui è attaccato, come la presenza di tre o più seguenti criteri:
- Disagio quando si prevede o si sperimenta la separazione da casa o dalle principali figure di
attaccamento
- Persistente ed eccessiva preoccupazione riguarda la perdita delle figure di attaccamento o alla
possibilità che accada loro qualcosa di dannoso
- Persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento imprevisto comporti
separazione dalla principali figure di attaccamento
- Persistente riluttanza o rifiuto di uscire di casa per andare a scuola, al lavoro o altrove per paura di
separazione
- Persistente ed eccessiva paura di, o riluttanza a, stare soli o senza le principali figure di
attaccamento a casa o in altri ambienti
- Persistente riluttanza o rifiuto di dormire fuori casa o di andare a dormire senza avere vicino una
delle principali figure di attaccamento
- Ripetuti incubi che implicano il tema della separazione
- Ripetute lamentele di sintomi fisici quando si verifica o si prevede la separazione delle principali
figure di attaccamento
2) La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti, quattro settimane nei bambini e sei mesi o più negli
adulti.

MUTISMO SELETTIVO. Non presente nel manuale del capitolo dei disturbi d’ansia, ma in quello dei disturbi
dell’infanzia e dell’adolescenza.

Criteri diagnostici:
1. Costante incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche in cui ci si aspetta che si parli
2. La condizione interferisce con i risultati scolastici o lavorativi o con la comunicazione sociale
3. La durata della condizione di almeno un mese
4. L’incapacità di parlare non è dovuta al fatto che non si conosce il tipo di linguaggio richiesto dalla
situazione sociale
5. La condizione non è meglio spiegare un disturbo della comunicazione non si manifesta esclusivamente
durante il decorso di disturbi dell’aspetto dell’autismo, schizofrenia o altri disturbi psicotici.

COMORBILITÀ NEI DISTURBI D’ANSIA


Più della metà dei soggetti che soffrono di un disturbo d’ansia soddisfano, nel corso della loro vita, i criteri
anche per un altro disturbo d’ansia.

Questa comorbilità fra i disturbi d’ansia è particolarmente pronunciata per il GAD. Oltre alla frequenza
elevata disturbi d’ansia conclamati, gli individui affetti da un dato disturbo d’ansia molto spesso presentano
sintomi sottosoglia di altri disturbi d’ansia, cioè sintomi che non arrivano a soddisfare i criteri diagnostici
formali.

La comorbilità tra i disturbi d’ansia è spiegata anche dal fatto che i sintomi in base ai quali si effettua la
diagnosi dei vari disturbi d’ansia sono sovrapponibili (l’ansia sociale e la agorafobia implicano entrambi la
paura della folla).

I disturbi d’ansia presentano una elevata comorbilità anche con altri tipi di disturbi (depressivo maggiore,
da abuso di sostanze e di personalità).

INFLUENZE DI GENERE E DEI FATTORI SOCIOCULTURALI NEI DISTURBI D’ANSIA


GENERE
Le donne hanno una probabilità doppia rispetto agli uomini di ricevere una diagnosi di disturbo d’ansia.
Probabilmente a causa di fattori socioculturali come le differenze di ruolo tra i due sessi. Ad esempio, le
donne hanno molte più probabilità degli uomini di subire aggressioni e abusi sessuali già nell’infanzia e poi
nell’età adulta. Questi eventi traumatici possono influire sullo sviluppo del senso di controllo sul proprio
ambiente e quindi la sensazione di avere scarso controllo sull’ambiente in cui si vive può costituire il
terreno per lo sviluppo di disturbi d’ansia. Inoltre, gli uomini sono educati in modo da avere maggior fiducia
nelle proprie capacità di controllo sulle situazioni.

FATTORI CULTURALI
In goni cultura si soffre per disturbi d’ansia, ma i problemi su cui si focalizza l’ansia variano a seconda della
cultura di appartenenza e dell’ambiente in cui si vive.

FATTORI DI RISCHIO COMUNI A DISTURBI D’ANSIA


Esistono alcuni fattori di rischio che aumentano le probabilità di soffrire di più disturbi d’ansia, i diversi
fattori di rischio si combinano nel produrre un’accresciuta sensibilità alla minaccia. I fattori di rischio
generali collegati alla paura sono:
- Condizionamento comportamentale
- Vulnerabilità genetica
- Alterazioni del circuito cerebrale della paura
- Diminuita attività del GABA e della serotonina, aumentata attività della noradrenalina
- Inibizione comportamentale
- Nevroticismo
- Fattori cognitivi, comprese persistenti convinzioni negative, percezione soggettiva di mancanza di
controllo e attenzione a segnali di potenziale pericolo.

IL CONDIZIONAMENTO DELLA PAURA


La teoria comportamentale di disturbi d’ansia è incentrata sui processi di condizionamento.
La teoria Bifattoriale di Mowrer presuppone che lo sviluppo di un disturbo d’ansia avvenga in due fasi:
1. Attraverso un processo di condizionamento classico la persona apprende a temere uno stimolo neutro
(SC stimolo condizionato) che è stato abbinato a uno stimolo intrinsecamente aversivo (SI stimolo
incondizionato);
2. Attraverso un processo di condizionamento operante la persona apprende a ridurre questa paura
condizionata tramite l’evitamento dello SC; la risposta di evitamento si mantiene poiché funge da
rinforzo (in quanto riduce la paura).

Sono stati proposti anche modelli alternativi di questa teoria, uno di questi prende in considerazione le
varie modalità con cui può realizzarsi il condizionamento classico, ovvero:
• Per esperienza diretta
• Vedendo un’altra persona spaventarsi o subire gli effetti nocivi di uno stimolo. Questo tipo di
apprendimento è detto modeling: apprendimento per imitazione di un modello.
• Mediante indicazioni verbali; ad esempio, quando un genitore mette in guardia un bambino sul
fatto che i cani sono pericolosi

FATTORI GENETICI: ESISTE UNA DIATESI GENETICA PER I DISTURBI D’ANSIA?


Gli studi su gemelli suggeriscono un’ereditabilità del 20-40% per le fobie specifiche, il disturbo d’ansia
sociale e il GAD e del 50% circa per il disturbo di panico.
Alcuni geni possono aumentare il rischio per lo sviluppo di vari tipi di disturbi d’ansia. Per esempio, avere
un membro della famiglia affetto da una fobia è correlato a un aumento del rischio di sviluppare non solo
una fobia ma anche altri disturbi d’ansia.
FATTORI NEUROBIOLOGICI: IL CIRCUITO DELLA PAURA E L’ATTIVITÀ DEI NEUROTRASMETTITORI
Un insieme di strutture cerebrali, detto circuito della paura, tende ad attivarsi quando le persone sono in
preda all'ansia o alla paura Questo circuito, è coinvolto nei disturbi d'ansia. Una importante componente
del circuito è l'amigdala. L'amigdala è una piccola struttura a forma di mandorla localizzata nel lobo
temporale, che si ritiene coinvolta nella funzione di assegnare agli stimoli un significato emozionale.
L'amigdala invia segnali a numerose strutture del cervello incluse nel circuito della paura.
Alcuni studi suggeriscono che, nell'osservare immagini di paura. volti arrabbiati (un segnale di minaccia),
individui affetti da disturbi d'ansia differenti rispondono con un'attivazione dell'amigdala maggiore di quella
rilevata nei soggetti che non soffrono di questi disturbi. Quindi, molti dei disturbi d'ansia si spiegherebbero
con un'iperattività nel circuito cerebrale della paura, in particolare nell'amigdala.

La corteccia prefrontale mediale contribuisce a regolare l'attività dell'amigdala; infatti, è coinvolta sia
nell'estinzione delle risposte di paura apprese, sia nelle strategie di regolazione e controllo emozionale.
A quanto è emerso dalle ricerche, soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per i disturbi d'ansia
manifestano una minore attività nella corteccia quando vedono e valutano stimoli minacciosi.
Le vie, ovvero le connessioni neurali, che collegano l'amigdala e la corteccia prefrontale mediale possono
presentare deficit nelle persone con disturbi d'ansia. Questi deficit di connettività tra la corteccia
prefrontale mediale e l'amigdala possono interferire con l'efficienza dei processi di regolazione e di
estinzione dell'ansia.

Numerosi neurotrasmettitori e neuropeptidi sono coinvolti nei disturbi d'ansia, e molte tecniche sono state
usate per individuarne i differenti ruoli. La tecnica di neuroimmagine mediante PET è uno dei mezzi con cui
si indaga la funzione dei recettori per i neurotrasmettitori; i risultati di questi studi indicano
un'associazione fra disturbi d'ansia e malfunzionamenti nei recettori della SEROTONINA e del GABA.
Il GABA è ampiamente distribuito in tutto il cervello e si ritiene abbia un'azione inibitoria sull'ansia.
La serotonina partecipa alla modulazione delle emozioni.

Inoltre, i disturbi d'ansia sono correlati a un aumento nel livello di NORADRENALINA e a cambiamenti nella
sensibilità dei recettori per la noradrenalina.
La noradrenalina è un neurotrasmettitore d'importanza cruciale per l'attivazione del sistema nervoso
simpatico nella risposta di «lotta-o-fuga».
TRATTI DELLA PERSONALITÀ: INIBIZIONE COMPORTAMENTALE E NEVROTICISMO.
Alcuni bambini manifestano inibizione comportamentale, cioè la tendenza ad agitarsi e a piangere quando
si trovano di fronte a giocattoli, persone o altri stimoli, che non conoscono. Questa modalità
comportamentale può essere ereditaria e può creare un terreno favorevole al futuro sviluppo di disturbi
d’ansia.

Il nevroticismo è un tratto di personalità definito come la tendenza a esperire emozioni negative con
elevate frequenza e intensità e reagire agli eventi con affettività negativa, più della media.
Persone con elevati livelli di nevroticismo hanno una probabilità più che doppia di sviluppare un disturbo
d’ansia rispetto a persone con bassi livelli.

FATTORI COGNITIVI
Tre fattori cognitivi:

CONVINZIONI NEGATIVE PERSISTENTI RIGUARDO AL FUTURO


Persone con disturbi d’ansia spesso riferiscono di essere convinti che accadranno loro cose negative. Il
punto non è capire perché all’inizio si producano pensieri così negativi, ma piuttosto perché persistano: una
delle ragioni per cui persistono è che gli individui agiscono e pensano con modalità tali da mantenere
queste convinzioni, ovvero per proteggersi dalle conseguenze che temono, mettono in atto comportamenti
di salvaguardia e arrivano a convincersi di essere ancora in vita solo grazie ai loro comportamenti auto
protettivi. Questi comportamenti permettono dunque ad una persona di mantenere le proprie convinzioni
negative.

PERCEZIONE DELLA MANCANZA DI CONTROLLO


Coloro che pensano di non aver alcun controllo sull’ambiente che li circonda sembrano esposti a un rischio
maggiore di sviluppare un’ampia gamma di disturbi d’ansia, rispetta coloro che hanno la convinzione
opposta. I soggetti con disturbo d’ansia in genere dicono di percepire uno scarso senso di controllo
sorprendente.

L’ATTENZIONE A POTENZIALI MINACCE


Le persone con i disturbi d’ansia prestano maggiore attenzione agli indizi negativi presenti nell’ambiente. I
disturbi d’ansia si associano a un’attenzione selettiva verso stimoli minacciosi.

EZIOLOGIA DEGLI SPECIFICI DISTURBI D’ANSIA


EZIOLOGIA DELLE FOBIE SPECIFICHE
Nel modello comportamentale le fobie sono viste come una risposta condizionata che si sviluppa in seguito
a un’esperienza di pericolo e che si mantiene per effetto di un comportamento di evitamento.
La teoria comportamentale afferma che le fobie possono essere condizionate attraverso l’esperienza
diretta di eventi traumatici, il modeling o indicazioni verbali. Bisogna anche sottolineare che è possibile
dimenticare le esperienze condizionanti che hanno provocato la fobia.
Inoltre, anche tra coloro che hanno vissuto un’esperienza minacciosa non sempre si sviluppa una fobia.
I fattori di rischio come la vulnerabilità genetica, il nevroticismo, le cognizioni negative e la propensione al
condizionamento della paura probabilmente fungono da diatesi, cioè da fattori di vulnerabilità che
facilitano o meno lo sviluppo di una fobia nel contesto di un’esperienza di condizionamento.
Inoltre, solo certi tipi di stimoli e di esperienze contribuiscono allo sviluppo di una fobia.
La versione originale della teoria bifattoriale di Mowrer prevede che gli individui possano essere
condizionati ad avere paura di qualunque tipo di stimolo. In realtà, le fobie tendono a concentrarsi solo su
certi tipi di stimoli. Infatti, le persone di solito non sviluppano fobie verso i fiori, ma sono molto comuni le
fobie che hanno per oggetto gli insetti o altri animali, ambienti naturali e il sangue.
È stata avanzata l’ipotesi che, durante l’evoluzione della nostra specie, gli esseri umani abbiano appreso a
reagire con particolare forza a stimoli che possono rappresentare una minaccia per la vita dell’individuo,
come le altezze, i serpenti e gli esseri aggressivi. Quindi nel corso dell’evoluzione il nostro circuito della
paura può essere stato predisposto dall’evoluzione ad apprendere la paura di particolari stimoli: si parla di
apprendimento predisposto evoluzionisticamente.

EZIOLOGIA DEL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE


Fattori comportamentali: il condizionamento dell’ansia sociale
Le spiegazioni comportamentali sull'eziologia del disturbo d'ansia sociale sono simili a quelle proposte per
le fobie specifiche, nella misura in cui sono fondate su una teoria bifattoriale dei processi di
condizionamento.
Ovvero, una persona può avere un'esperienza sociale negativa (direttamente o tramite modeling o tramite
indicazioni verbali) e così acquisire, mediante condizionamento classico, la paura di situazioni simili, che
poi incomincia a evitare.
La seconda fase implica condizionamento operante: il comportamento di evitamento si mantiene poiché
riduce la paura, ma con l'evitamento delle situazioni sociali si riducono anche le opportunità che la paura
condizionata si estingua.
Pur interagendo con gli altri, questa persona può mostrare comportamenti di evitamento, anche se più
lievi, i cosiddetti comportamenti di salvaguardia o autoprotettivi. Esempi di queste strategie protettive
comprendono: evitare il contatto oculare, lasciare cadere le conversazioni, tenersi in disparte dagli altri.
Sebbene siano messi in atto per evitare feedback negativi, questi comportamenti causano altri problemi: gli
altri tendono a disapprovare i comportamenti evitanti di questo genere e ciò non fa che aggravare il
problema.
Fattori cognitivi: eccessiva focalizzazione su autovalutazioni negative
Vengono descritti diversi modi in cui processi cognitivi possono intensificare l'ansia sociale.
In primo luogo, le persone con un disturbo d'ansia sociale sembrano avere pensieri negativi non realistici
circa le conseguenze dei propri comporta menti sociali; ad esempio, possono credere che gli altri le
rifiuteranno se arrossiscono o se fanno pause mentre stanno parlando.
In secondo luogo, queste persone prestano molta più attenzione al proprio modo di comportarsi in
situazioni sociali e alle proprie sensazioni di quanto non facciano gli altri. Anziché fare attenzione a ciò che
dice l'altro, spesso si preoccupano di come vengono percepiti dagli altri.
Concentrandosi sulla propria performance, spesso queste persone si formano potenti immagini visive,
arrivando a crearsi potenti rappresentazioni negative di come reagiranno gli altri nei loro confronti.
Ovviamente una buona conversazione richiede di concentrarsi sull'altro, e quindi pensare eccessivamente
alle proprie sensazioni e alla valutazione di sé può favorire un certo impaccio nelle interazioni sociali. I
soggetti con disturbo d’ansia sociale formulano valutazioni nettamente negative sulla propria prestazione
sociale, anche quando il loro comportamento non è in realtà inadeguato.
Gli individuo con disturbo d’ansia sociale sono particolarmente severi nel valutare sé stessi.
Rivolgono maggiore attenzione a indizi interni anziché esterni (sociali)

EZIOLOGIA DEL DISTURBO DI PANICO


Fattori neurobiologici
Abbiamo visto che il circuito della paura svolge un ruolo importante in molti disturbi d'ansia; una
particolare componente del circuito della paura, il locus coeruleus, svolge un ruolo di speciale importanza
nel disturbo di panico.
Il locus coeruleus è, a livello cerebrale, la principale fonte di noradrenalina.
L'aumento del livello di noradrenalina è una risposta naturale allo stress; quando si verifica, tale aumento si
associa a una maggiore attività del sistema nervoso simpatico, che si riflette nell'accelerazione del battito
cardiaco e nelle altre reazioni psicofisiologiche che sostengono la risposta di lotta-o-fuga. Le persone con
disturbo di panico mostrano una risposta biologica più intensa ai farmaci che provocano il rilascio di
noradrenalina. Le sostanze che fanno aumentare l'attività nel locus coeruleus possono scatenare attacchi di
panico, mentre quelle che la fanno diminuire, tra cui la clonidina e alcuni antidepressivi, abbassano il rischio
di attacchi di panico

Fattori comportamentali: il condizionamento classico


La teoria comportamentale postula un processo di condizionamento classico. Questo modello poggia su
una osservazione interessante: gli attacchi di panico sono spesso scatenati dalla percezione del proprio
stato di attivazione corporea.
Secondo questa teoria, gli attacchi di panico sono risposte condizionate tramite condizionamento classico a
situazioni che provocano ansia o a situazioni di attivazione fisiologica.
Il condizionamento classico degli attacchi di panico in risposta a sensazioni corporee è stato definito
condizionamento enterocettivo: la persona avverte i sintomi somatici dell’ansia, seguiti da un primo
attacco di panico, da quel momento gli attacchi diventano una risposta condizionata a modificazioni
somatiche

Fattori cognitivi
La teoria cognitiva sulle cause del disturbo di panico è incentrata sulla tendenza del soggetto
all'interpretazione catastrofica delle proprie modificazioni somatiche.
Secondo questa teoria, gli attacchi di panico insorgono quando una persona interpreta le proprie sensazioni
corporee come segni di un disastro incombente. Per esempio, una persona può interpretare la sensazione
di un'accelerazione cardiaca come segnale di un incipiente attacco cardiaco; questi pensieri aggravano
ovviamente la sua ansia, il che dà luogo a un intensificarsi delle sensazioni fisiche, e così via, in un
incessante circolo vizioso.
La propensioni all’interpretazione catastrofica delle proprie sensazioni somatiche si può rilevare prima che
insorga il disturbo d panico, ad esempio attraverso un questionario definito Anxiety Sensitivity Index che
valuta in che misura i soggetti rispondono con paura alle proprie sensazioni corporee

EZIOLOGIA DELL’AGORAFOBIA
Fattori cognitivi: l’ipotesi della “paura della paura”
Lo sviluppo dell’agorafobia sembra essere collegato a una condizione di vulnerabilità genetica e agli eventi
che hanno caratterizzato la vita della persona.
La teoria più accreditata sull’evoluzione di questi sintomi è incentrata sulla cognizione. Il principale modello
cognitivo per spiegare l’eziologia dell’agorafobia è la cosiddetta ipotesi della ‘’paura della paura’’ secondo
la quale l’agorafobia è dovuta ai pensieri negativi circa le conseguenze dell’esperire in pubblico sintomi
d’ansia. I soggetti con agorafobia pensano che essere colti dall’ansia in pubblico avrebbe conseguenze
orribili o socialmente inaccettabili.
EZIOLOGIA DEL DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATO
Fattori cognitivi: perché si produce preoccupazione persistente?
Il GAD tende a presentarsi in associazione con altri disturbi d’ansia. Data l’elevata comorbilità, si ritiene che
molti dei fattori coinvolti nell’insorgenza dei disturbi d’ansia in generale siano importanti nell’eziologia del
GAD.
Tuttavia, il GAD sembra differire dagli altri disturbi d’ansia per alcuni aspetti importanti:
Le persone che soddisfano i criteri diagnostici per il GAD hanno molte più probabilità di sperimentare
episodi di DDM rispetto a coloro che soffrono di altri disturbi d’ansia.
Inoltre, il GAD sembra essere caratterizzato dalla tendenza a esperire un disagio generale, piuttosto che
una specifica, intensa paura.
Piuttosto che con la paura il GAD è correlato con un profilo di malessere generale.
I fattori cognitivi possono spiegare perché alcune persone si preoccupano più di altre:
lo stato di preoccupazione agisce da rinforzo poiché distrae le persone da emozioni e immagini negative
molto più potenti. La preoccupazione è una sorta di continuo ripetere tra sé cose negative che potrebbero
accadere senza tuttavia che ciò implichi forti emozioni. Anzi, la preoccupazione sembra in realtà ridurre i
sintomi di attivazione psicofisiologica. Nel GAD la preoccupazione funge da distrattore all’angoscia collegata
al ricordo dei traumi del passato.

TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA


Solo una piccola percentuale delle persone che soffrono di disturbi d’ansia ricerca un trattamento.

La ragione di ciò va probabilmente a ravvisata nella cronicità dei sintomi, per cui chi soffre di un disturbo
d’ansia può pensare “sono solo una persona ansiosa” e non rendersi conto che un trattamento potrebbe
aiutarlo.

Anche quando il trattamento viene cercato, in molti casi ci si limita a far visita al medico di famiglia, che
meno efficacia di una psichiatra della prescrizione di farmaci.

ASPETTI COMUNI DEI TRATTAMENTI PSICOLOGICI


I trattamenti efficaci per i disturbi d’ansia condividono un elemento cruciale: l’esposizione, cioè il soggetto
deve confrontarsi proprio con ciò che ritiene troppo spaventoso per essere affrontato. I terapeuti di diverso
orientamento teorico sono tutti concordi sulla necessità di confrontarsi con le proprie paure (anche quelli
di formazione psicoanalitica).

In una tipica terapia cognitivo-comportamentale che prevede l'esposizione, il cliente compila con
l'assistenza del terapeuta una lista di oggetti che scatenano la sua paura, cioè situazioni o attività che
possono provocargli ansia o paura. Quindi cliente e terapeuta stabiliscono, insieme, una «gerarchia di
esposizione», ovvero una lista in cui questi oggetti sono disposti in ordine di difficoltà crescente. Le prime
sedute implicano l'esposizione a fattori scatenanti relativamente meno problematici poi, man mano che il
cliente apprende che l'esposizione porta la sua ansia all'estinzione, gli oggetti da affrontare diventano via
via più difficili e impegnativi.

La CBT appare effettivamente efficace, anche in confronto con altri tipi di trattamento. L'esposizione si
rivela efficace nel 70-90% dei soggetti trattati.

Un paio di principi sembrano avere particolare importanza nel proteggere contro le ricadute:

1. Primo, l'esposizione deve includere quanti più aspetti è possibile dell'oggetto temuto; ad esempio, nel
caso di una fobia dei ragni, il trattamento di esposizione dovrebbe focalizzare l'attenzione su varie parti
del corpo del ragno: le zampe pelose, i grandi occhi rotondi e così via.
2. Secondo, la tecnica di esposizione dovrebbe essere applicata nella più vasta gamma di possibili contesti
differenti. Per esempio, potrebbe essere importante sottoporre il cliente a esposizione non solo nel
chiuso di uno studio ma anche all'aperto, in mezzo alla natura.

L'interpretazione comportamentale sostiene che l'esposizione funziona tramite l'estinzione della risposta
di paura. L'estinzione non è un meccanismo di cancellazione, piuttosto l'estinzione implica
l'apprendimento di nuove associazioni con stimoli temuti. E queste nuove associazioni apprese inibiscono
l'attivazione della paura. Quindi l'estinzione implica apprendere piuttosto che dimenticare.

È stata avanzata anche un'interpretazione cognitiva del trattamento di esposizione. Secondo questa
visione, l'esposizione aiuta la persona a correggere l'erronea convinzione di non essere in grado di
affrontare lo stimolo temuto. In questa prospettiva, l'esposizione allevia i sintomi permettendo alla
persona di rendersi conto che, contrariamente a quanto crede, è in grado di tollerare la presenza dello
stimolo temuto senza perdere il controllo. Gli approcci cognitivi al trattamento dei disturbi d'ansia sono
tipicamente incentrati sul mettere in discussione (1) le convinzioni sulla probabilità di conseguenze
negative, durante il confronto con la situazione o l'oggetto ansiogeno, e (2) l’aspettativa di non essere in
grado di far fronte ai sintomi d'ansia. L'esposizione è una componente tipica dei trattamenti cognitivi, per
aiutare la persona ad apprendere che è in grado di far fronte a queste situazioni. Poiché sia i trattamenti
cognitivi sia quelli comportamentali implicano l'esposizione e il training per affrontare in modo diverso le
proprie paure, molti studi suggeriscono che affiancare all’esposizione una terapia cognitiva non ne
incrementa il risultato.

Talvolta si utilizza anche la realtà virtuale per simulare le situazioni temute dal soggetto, come la paura di
volare, le altezze e perfino le interazioni sociali. Il trattamento di esposizione mediante la realtà virtuale
sembra essere molto efficace nell'alleviare i sintomi dei disturbi d'ansia. Alcuni studi randomizzati e
controllati su piccoli campioni sembrano indicare che l'esposizione a queste situazioni simulate sia
altrettanto efficace dell'esposizione in vivo (nella vita reale)

Recentemente sono state sviluppate alcune tecniche di trattamento con l’intento di aiutare le persone ad
acquisire una visione più riflessiva, meno reattiva della loro intensa ansia e di altre forti emozioni. Questi
trattamenti comprendono componenti come la meditazione della mindfulness e lo sviluppo delle abilità
che favoriscono l’accettazione delle emozioni. Tuttavia, la loro efficacia può essere inferiore a quella degli
approcci cognitivo-comportamentali standard.
IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DI DISTURBI D’ANSIA SPECIFICI
IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DELLE FOBIE
I tipi di trattamenti comprendono l’esposizione in vivo agli oggetti temuti. Gli interventi possono essere
molto brevi (anche non più di un paio d’ore).
Benché la desensibilizzazione sistematica sia efficace, l’esposizione in vivo sembra esserlo di più.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DEL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE.


L’esposizione appare efficace anche per il trattamento del disturbo d’ansia sociale.

Al fine di sottoporre le persone a una gerarchia di esposizioni con difficoltà progressiva, in questi casi si
inizia con la pratica di role playing sotto la supervisione del terapeuta durante sedute individuali o in piccoli
gruppi, per poi affrontare l’esposizione a situazioni sociali in pubblico. In seguito ad esposizione prolungata,
l’ansia in genere si estingue.
Il training di acquisizione di abilità sociali, in cui il terapeuta funge da modello comportamentale, può
essere di aiuto per persone con disturbo d’ansia sociale, che spesso non sanno che cosa far o dire nelle
situazioni sociali.
I comportamenti autoprotettivi possono interferire con l’estinzione dell’ansia sociale. In accordo con questa
ipotesi, l’esposizione si rivela più efficace quando la persona con disturbo d’ansia sociale viene guidata a
non fare uso di comportamenti protettivi. Il training non solo richiede di impegnarsi in attività sociali, ma
anche di farlo mantenendo il contatto oculare con gli altri, sostenendo le conversazioni e sforzandosi di
essere completamente presenti.
David Clark ha sviluppato una versione di terapia cognitiva di questo disturbo che per un paio di aspetti è
simile ad altri approcci. Il terapeuta aiuta i soggetti ad apprendere a non focalizzare l’attenzione su se stessi
e a combattere l’immagine negativa che di solito si formano sulle reazioni degli altri nei loro riguardi.
Questo trattamento cognitivo si è dimostrato più efficace della fluoxetina e dell’esposizione abbinata al
rilassamento.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DEL DISTURBO DI PANICO.


Terapia cognitivo-comportamentale. Anche le terapie cognitivo comportamentali del disturbo di panico
sono incentrate sull’esposizione. Un approccio ben validato è la cosiddetta terapia del controllo del panico
(PCT) basata sulla tendenza di chi soffre di questo disturbo a reagire in modo eccessivo alle proprie
sensazioni fisiche. Il metodo si basa sulla tecnica dell’esposizione: il terapeuta spinge il paziente a suscitare
deliberatamente le sensazioni associate al panico. Il soggetto comincia esperire sensazioni come capogiri,
bocca secca, battito cardiaco accelerato (segni di un attacco), ma in condizioni di sicurezza; può quindi
allenarsi a mettere in atto strategie di coping per controllare i sintomi somatici. Il soggetto apprende a non
vivere più le sue sensazioni fisiche come un segnale di perdita del controllo, ma vederle come sensazioni
sostanzialmente innocue e controllabili.

Per trattare il disturbo di panico è stato sviluppato anche un altro metodo cognitivo da Clark incentrato
sull’aiutare il cliente a individuare e affrontare quei pensieri che lo portano a percepire come una minaccia
le proprie sensazioni fisiche.

È stato sviluppato un metodo psicodinamico che prevede 24 sedute, incentrate sull’identificazione delle
emozioni e dei significati connessi con gli attacchi di panico. I terapeuti aiutano i pazienti ad acquisire
consapevolezza su aspetti probabilmente coinvolti con gli attacchi di panico, come problemi di rabbia, di
autonomia o dovuti ad una separazione.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DELL’AGORAFOBIA


Anche i metodi cognitivo-comportamentali per il trattamento dell’agorafobia sono incentrati
sull’esposizione, più precisamente sull’esposizione sistematica alle situazioni temute dalla persona. È
possibile addestrare una persona con agorafobia ad affrontare gradualmente le sue paure: prima le si
insegna ad allontanarsi un poco da casa, poi a guidare fino a un paio di miglia di distanza, stare seduta per 5
minuti in un cinema vuoto e infine a restare seduta in un cinema affollato per tutta la durata del film.
Questo trattamento mediante esposizione si rivela più efficace quando il partner viene coinvolto: viene
incoraggiato a non essere più accondiscendente col desiderio del partner di non voler uscire di casa, quindi
il partner viene istruito a favorire l’esposizione anziché l’evitamento. È un metodo che prevede un supporto
per un trattamento autogestito (il paziente utilizza un manuale per effettuare da solo un graduale
trattamento di esposizione).

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DEL DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATO


L’approccio comportamentale nel trattamento del GAD implica uno specifico training di rilassamento,
finalizzato a favorire uno stato di tranquillità nel paziente. Il metodo può consistere nel rilassare, uno per
volta, vari gruppi muscolare o nel generare immagini con effetto calmante.

Terapia cognitiva: comprende strategie per aiutare chi soffre di questo disturbo a sostenere l’incertezza,
dato che l’incertezza sembra suscitare in questi soggetti maggior disagio rispetto a chi non soffre di GAD.
Questo trattamento appare più efficace della terapia del rilassamento da sola.

Sono state sviluppate alte strategie cognitivo-comportamentali per ridurre lo stato di preoccupazione. Tali
strategie prevedono di limitare la preoccupazione solo a certi periodi programmati, o di tenere un diario
per verificare, in base agli esiti che ha prodotto, se la preoccupazione davvero funziona, o ancora di
focalizzare i propri pensieri sul momento presente, anziché sulle preoccupazioni, e affrontare proprio
quelle paure che probabilmente cercano di evitare per mezzo di uno stato persistente di preoccupazione.

FARMACI PER LA RIDUZIONE DELL’ANSIA


I farmaci che riducono l’ansia sono chiamati ansiolitici. I farmaci più usati per trattare i disturbi d’ansia sono
essenzialmente di due tipi:
• Benzodiazepine (Valium e Xanax)
• Antidepressivi che comprendono:
- Antidepressivi triciclici
- Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI)
- Inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (SNRI)

Le benzodiazepine sono a volte indicate come tranquillanti o sedativi più leggeri.


In generale gli antidepressivi vengono preferiti alle benzodiazepine, poiché queste ultime possono
provocare sintomi di astinenza quando se ne interrompe l’assunzione, il che equivale a dire che le
benzodiazepine causano dipendenza.
Le benzodiazepine possono avere significativi effetti collaterali di tipo cognitivo e motorio, come problemi
di memoria e sonnolenza.
Gli antidepressivi tendono a produrre meno effetti collaterali delle benzodiazepine, tuttavia circa la metà
delle persone in trattamento con triciclici ne sospende l’assunzione a causa degli effetti collaterali come
agitazione, aumento di peso, frequenza cardiaca elevata, ipertensione.
In confronto ai triciclici, gli SSRI tendono ad avere meno effetti collaterali, ciò ha portato gli SSRI e gli SNRI a
diventare i farmaci di elezione nel trattamento della maggior parte dei disturbi d’ansia. Alcune persone,
tuttavia, lamentano effetti collaterali anche in seguito alla loro assunzione come agitazione, insonnia, mal
di testa e diminuzione del funzionamento sessuale.
Quindi, in generale, quando la persona cessa di assumere i farmaci, nella maggioranza dei casi il disturbo
recidiva, ovvero i farmaci sono efficaci soltanto nel periodo in cui vengono assunti.
Le terapie psicologiche sono considerate l’intervento preferenziale nei disturbi d’ansia, con la possibile
eccezione del GAD.
LA COMBINAZIONE DI TRATTAMENTI FARMACOLOGICI E PSICOLOGICI
In generale, l’abbinamento di una terapia con ansiolitici al metodo dell’esposizione porta ad esiti peggiori
rispetto alla sull’esposizione (i pazienti non hanno la stessa possibilità di confrontarsi con le proprie paure).

L’eccezione: disturbo d’ansia sociale. L’abbinamento tra farmaci e terapia cognitivo- comportamentale dà
risultati migliori di quelli ottenuti solo con uno dei due trattamenti.

Diversamente dagli ansiolitici che attenuano le emozioni negative, la D-cicloserina (DCS) è un farmaco che
favorisce l’apprendimento e che è risultato essere un supporto al trattamento di esposizione. La DCS
sembra incrementare gli effetti di un trattamento di esposizione nel disturbo d’ansai sociale e nel disturbo
di panico. Questo farmaco, capace di potenziare l’apprendimento, può rafforzare gli effetti di una
psicoterapia basata sui principi del condizionamento.

CAPITOLO 7
DISTURBO OSSESSIVO- COMPULSIVO e DISTURBI CORRELATI A EVENTI TRAUMATICI E STRESSANTI
I disturbi di tipo ossessivo-compulsivo sono caratterizzati da pensieri e comportamenti ripetitivi così
estremi da interferire con la vita quotidiana.

Gli individui che soffrono di questi disturbi riferiscono di sentirsi ansiosi e spesso sono affetti anche da altri
disturbi d’ansia. Molti dei fattori di rischio per i disturbi d’ansia sono coinvolti anche in questi disturbi,
inoltre vi è anche una sovrapposizione anche nei trattamenti. Tuttavia, questi disturbi presentano alcuni
fattori causali distinti rispetto agli altri disturbi d’ansia.

DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO E DISTURBI CORRELATI


Il DOC, prototipo di questo gruppo, è caratterizzato da pensieri e impulsi ripetitivi (ossessioni) oltre che da
un irresistibile bisogno di impegnarsi in comportamenti, o in operazioni mentali, ripetitivi (compulsioni)

Il disturbo da dismorfismo corporeo e il disturbo da accumulo condividono la presenza di pensieri e


comportamenti ripetitivi.

In tutte e tre queste condizioni i pensieri e i comportamenti ripetitivi producono malessere, sono vissuti con
la sensazione di incontrollabilità e sottraggono alla persona gran parte del suo tempo. Chi soffre di questi
disturbi avverte questi pensieri e comportamenti come inarrestabili.

Oltre che per la somiglianza dei quadri sintomatologici, queste sindromi si caratterizzano anche per la loro
frequente co-occorrenza (circa un terzo degli individui con il disturbo di dimorfismo corporeo soddisfa i
criteri diagnostici per il disturbo ossessivo-compulsivo, così come un quarto delle persone con disturbo di
accumulo).

QUADRI CLINICI ED EPIDEMIOLOGIA DEI DISTURBI DI TIPO OSSESSIVO-COMPULSIVO


Come detto sopra, i disturbi di tipo ossessivo-compulsivo hanno tutti in comune la presenza di pensieri
ripetitivi e irresistibile bisogno di impegnarsi in particolari comportamenti o atti mentali.
Tuttavia, il tema su cui si focalizzano i pensieri e comportamenti assume una forma diversa a seconda del
tipo di disturbo.

DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (DOC)


Criteri diagnostici disturbo ossessivo compulsivo
1. Ossessioni e/o compulsioni
• Le ossessioni sono definite da:
- Pensieri, impulsi o immagini ricorrenti, intrusivi, persistenti, non voluti
- La persona cerca di ignorare, sopprimere o neutralizzare quei pensieri, impulsi o immagini
• Le compulsioni sono definite da:
- Pensieri o comportamenti ripetitivi che la persona si sente spinta a mettere in atto per
prevenire il proprio malessere oppure un evento temuto
- La persona si sente spinta a mettere in atto i comportamenti o i pensieri ripetitivi in
risposta a ossessioni o in base a rigide regole
- Le azioni sono eccessive o hanno poche probabilità do prevenire la situazione temuta

Le ossessioni o le compulsioni causano un notevole dispendio di tempo (ad esempio richiedono almeno
un'ora al giorno) oppure causano un livello di malessere o di malfunzionamento clinicamente significativo.

La diagnosi del DOC è basata sulla presenza di ossessioni e compulsioni. La maggior parte delle persone
con DOC esperisce sia ossessioni che compulsioni.
Le ossessioni sono pensieri, impulsi o immagini a carattere intrusivo e ricorrente, che si rivelano persistenti
e incontrollabili (cioè la persona non ha alcun potere di bloccarli) e che spesso appaiono a chi li esperisce
del tutto irrazionali. Le ossessioni nella maggioranza delle persone con DOC sono di tale forza e frequenza
da interferire con le normali attività della vita quotidiana. Tipicamente la persona passa ore intere nell’arco
della giornata immersa in questi pensieri, immagini o impulsi.
Le ossessioni spesso implicano paura di contaminarsi con germi o malattie. Mentre il desiderio di evitare
cose come germi e malattie è comune alla maggioranza di noi, la paura della persona con DOC può essere
scatenata da stimoli correlati alla malattia anche solo alla lontana. Altri temi su cui spesso si concentrano le
ossessioni sono gli impulsi sessuali o aggressivi, problemi fisici, la religione e la simmetria o l’ordine.

Le compulsioni sono comportamenti o operazioni mentali, ripetitivi e chiaramente eccessivi, che la persona
si sente costretta a mettere in atto per ridurre l’ansia causata da pensieri ossessivi, o per scongiurare una
catastrofe. Molte persone con DOC sentono il bisogno irrefrenabile di ripetere un rituale, se non l’hanno
eseguito con precisione. Benché razionalmente sia consapevole del fatto che non c’è alcun bisogno di quel
comportamento, la persona teme che vi saranno conseguenze terribili se non esegue quell’atto.
Tra le compulsioni più comuni vi sono:
- Cercare di mantenere la pulizia e l’ordine
- Eseguire patiche ripetitive alle quali la persona attribuisce un valore magico
- Controllare in continuazione di avere effettivamente eseguito certe azioni

Si parla spesso di giocatori d'azzardo, mangiatori o bevitori compulsivi. Sebbene questi soggetti riferiscano
di sentire un impulso irresistibile a giocare, mangiare o bere, sul piano clinico il loro comportamento non
viene considerato una compulsione, dal momento che spesso è vissuto con piacere. I soggetti con disturbi
compulsivi considerano i propri rituali stupidi o assurdi, pur non essendo capaci di porvi fine.

Il disturbo ossessivo-compulsivo tenda insorgere prima dei 10 anni oppure nell'adolescenza o inizio e età
adulta.
Leggermente più comune tra le donne che tra gli uomini. È un disturbo cronico.
Tre quarti di coloro che sono affetti da DOC soddisfano, nella resistenza, i criteri diagnostici anche di un
disturbo d'ansia; circa due terzi soddisfano anche i criteri per la diagnosi di depressione maggiore. Molto
comune è anche la co-occorrenza di uso di sostanze. Oltre un terzo dei soggetti con DOC presenta almeno
alcuni sintomi dell'accumulo.
DISTURBO DI DISMORFISMO CORPOREO (DDC)
Criteri diagnostici:
1. Preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni percepiti nell'aspetto fisico
2. Per gli altri il difetto percepito è solo lieve o non percepibile
3. La persona ha eseguito operazioni mentali o comportamenti ripetitivi (controllare la propria immagine
allo specchio, cercare rassicurazioni, curarsi eccessivamente della propria persona) in risposta alle
preoccupazioni sul suo aspetto
4. La preoccupazione non è limitato al peso e al grasso corporeo
Le preoccupazioni causano disagio clinicamente significativo o compromissioni del funzionamento in
ambito sociale, lavorativo o ad altre aree importanti.

Queste persone provano un'intensa preoccupazione perché immaginano, o esagerano, un difetto del
proprio aspetto fisico. Per quanto agli altri possono apparire attraenti, queste persone si percepiscono
brutte o perfino mostruose. Per le donne il focus dell'attenzione tende a concentrarsi sulla pelle, i fianchi, e
nelle gambe, mentre gli uomini tende a concentrarsi sull'altezza, di dimensioni del pene e i capelli.

Le preoccupazioni dei soggetti con DDC hanno un carattere ossessivo in quanto per loro è molto difficile
smettere di pensare alle loro preoccupazioni.
Gli individui con DDC passano dalle tre alle otto ore al giorno a preoccuparsi del loro aspetto.

Al pari delle persone con DOC, anche quelle che soffrono di DDC si sentono obbligate a impegnarsi in
particolari comportamenti. Nel DDC i comportamenti compulsivi più comuni comprendono controllare
l'immagine allo specchio, mettersi a confronto con gli altri, chiede rassicurazioni sul proprio aspetto, fare
ricorso a varie strategie per modificare aspetti del corpo che non piacciono, curandosi molto del proprio
aspetto, cambiandosi spesso d'abito, truccandosi o attraverso l'abbronzatura o l’esercizio fisico.

Altri invece cercano di non confrontarsi col loro supposto difetto evitando gli specchi, le superfici riflettenti
o le luci molto vive.

I soggetti con DDC riferiscono allucinazioni incentrate sull'aspetto fisico (essere convinti che gli altri ridono
alle loro spalle o che guardino fissamente i loro difetti fisici), e possono fare ricorso alla chirurgia plastica,
con scarsi risultati. Possono anche arrivare a pensare al suicidio.

Bisogna fare attenzione a non confondere il DDC con i disturbi dell’alimentazione. Per coloro che soffrono
di DDC svariati aspetti del loro aspetto fisico sono fonte di preoccupazione. Quando la persona accentra la
sua preoccupazione sul peso e sulla forma del corpo è opportuno valutare la diagnosi di disturbo
dell’alimentazione

Leggermente più frequente nelle donne che negli uomini, ma anche fra le donne si tratta di un disturbo
relativamente raro, con l'esordio che avviene nella tarda adolescenza.

DISTURBO DI ACCUMULO
Criteri diagnostici:
1. Difficoltà persistenti a gettare via gli oggetti che si possiedono, o a separarsene, indipendentemente dal
loro valore reale.
2. Bisogno percepito di conservare gli oggetti
3. Disagio associato a gettare via gli oggetti
4. I sintomi portano ad accumulare una grande quantità di oggetti, che ingombrano le aree fondamentali
dell'abitazione o del luogo di lavoro, tanto da comprometterne il normale utilizzo senza l’intervento di
altri.

Il bisogno di accumulare oggetti è solo un aspetto del problema di disturbo di accumulo. L'aspetto più grave
è che essi non riescono poi a separarsi da questi oggetti, anche se privi di valore.

La maggior parte dei soggetti con questo disturbo non sembrano essere consapevoli della gravità del loro
problema, mostrano un attaccamento estremo a ciò che possiedono e oppongono notevole resistenza ai
tentativi di liberarsene.
Questo disturbo può avere conseguenze molto gravi: il disturbo può portare a vivere in condizioni abitative
malsane, molte volte le persone accumulano così tanti oggetti da non poter più utilizzare il frigorifero, il
lavello della cucina o la vasca da bagno. Molti familiari rompono i rapporti con queste persone incapaci di
capire il loro attaccamento agli oggetti.

Molti dei pazienti con questo disturbo tendono a fare acquisti eccessivi e molti non sono in grado di
lavorare, per cui la povertà è una condizione molto comune fra coloro che soffrono di questo disturbo.

Circa un terzo dei soggetti con questo disturbo, più spesso donne che uomini, si possono osservare
comportamenti di accumulo di animali e sentirsi dei salvatori, ma in realtà il numero di animali che queste
persone accumulano supera la loro capacità di poter fornire loro cure, cibo e riparo in misura adeguata.

Il comportamento di accumulo ha inizio durante l’infanzia o la prima adolescenza. Questi primi sintomi
possono essere tenuti sotto controllo dai genitori e dall’ancora limitata disponibilità di denaro, per cui i
quadri più gravi di questo disturbo si manifestano soltanto in una fase successiva della vita.

Tricotillomania (disturbo da strappamento di peli). Non presente sul manuale.


Criteri diagnostici:
1. Ricorrente strapparsi i capelli o peli, che porta perdita di capelli o peli
2. Ripetuti tentativi di ridurre o interrompere lo strapparsi di capelli o peli
3. Lo strapparsi i capelli o peli causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento in ambito sociale, lavorativo o altre aree importanti.

Disturbo da escoriazione (stuzzicamento della pelle). Non presente sul manuale.


Criteri diagnostici:
1. Ricorrente sull'elemento della pelle che causano lesioni cutanee
2. Ripetuti tentativi di ridurre o interrompere il lusso si lamenta della pelle
3. Lo strozzamento della pelle causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento in ambito sociale, lavorativo o altre aree importanti.

Prevalenza life-time:
- DOC e DDC: 2%, più comune tra le donne che tra gli uomini
- Disturbo da accumulo: 1,5%, uguale frequenza nei due sessi
Comorbilità:
- Tutti e 3 presentano comorbilità fra loro, con la depressione e i disturbi d’ansia
- DOC e DDC presentano comorbilità con i disturbi correlati a sostanze

EZIOLOGIA DEI DISTURBI DI TIPO OSSESSIVO-COMPULSIVO e DISTURBI CORRELATI


Vi è un moderato contributo genetico alle tre sindromi del DOC, del disturbo da accumulo e del DDC. Si
stima che l'ereditabilità giustifichi dal 40% al 50% della varianza nella manifestazione di ognuna di queste
condizioni.
Il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo di dismorfismo corporeo e il disturbo da accumulo sono
parzialmente sovrapponibili per quanto riguarda la loro eziologia. Secondo le teorie più recenti, tale
sovrapposizione potrebbe essere dovuta a fattori di rischio genetici e neurobiologici. Ad esempio, le
persone che soffrono di DDC e di disturbo da accumulo spesso hanno una storia familiare di DOC, cosa che
potrebbe dipendere da una vulnerabilità genetica condivisa. Per quanto riguarda il rischio neurobiologico, il
DOC, il DDC e il disturbo da accumulo sembrano coinvolgere alcune delle stesse aree cerebrali.
Gli studi di neuroimaging rivelano che tre aree cerebrali strettamente correlate presentano un livello di
attività insolito nelle persone con DOC: la corteccia orbitofrontale (un'area della corteccia prefrontale
mediale localizzata subito sopra gli occhi), il nucleo caudato (che fa parte dei gangli della base) e il giro del
cingolo anteriore.
Quando a un soggetto con DOC si mostrano oggetti che ne scatenano i sintomi (ad esempio si mostra un
guanto sporco a un soggetto che ha paura della contaminazione), l'attivazione in queste tre aree aumenta.
Un quadro analogo si rileva quando si mostrano a soggetti con DDC fotografie del loro volto. In questi studi
il DDC sembra essere correlato all'iperattività della corteccia orbito-frontale e del nucleo caudato. Quando
le persone con disturbo da accumulo sono poste davanti al dover decidere se tenere o gettare via certi loro
beni, ad esempio vecchie lettere, si evidenzia un'iperattività nella corteccia orbito-frontale e nel giro del
cingolo anteriore più alta rispetto a quella che si rileva in un gruppo di controllo.

Eziologia del disturbo ossessivo-compulsivo


I modelli cognitivo-comportamentali di ossessioni e compulsioni
Molti dei pensieri e dei comportamenti che rovinano la vita a coloro che soffrono di DOC - ad esempio
l'impulso a controllare, a pulire o a riconsiderare un certo pensiero - hanno un valore adattivo quando si
manifestano con moderazione. Pulire, ad esempio, può essere utile per ridurre i germi e il rischio di
contami nazione. Lo scopo principale della teoria cognitivo-comportamentale consiste quindi nel capire
perché quei comportamenti o quei pensieri che inizialmente servivano a scongiurare una minaccia, nella
persona con DOC continuano a manifestarsi ancora molto tempo dopo che la minaccia è scomparsa. Per le
persone con DOC le risposte in precedenza funzionali a ridurre la minaccia diventerebbero abituali, e quindi
difficili da superare una volta che la minaccia scompare, una volta che le persone con DOC sviluppano una
risposta condizionata a un dato stimolo, sono poi più lente a modificare tale risposta dopo che questa non è
più ricompensata. Un particolare modello cognitivo corrisponde bene all'idea che le persone con DOC
continuino a impegnarsi in comportamenti atti a scongiurare una minaccia, anche quando sanno che la
minaccia non sussiste più. Secondo questo modello, il DOC sarebbe correlato a un deficit nella sensazione
intuitiva di sicurezza e di fine della minaccia. Questa sensazione interiore viene indicata con un
neologismo: yedasentience (feeling of knowing) che si riferisce a questa sensazione di consapevolezza.
La yedasentience, è un segnale intuitivo che ci avvisa quando abbiamo pensato abbastanza, pulito
abbastanza, o fatto tutto ciò che dovevamo per preservarci dal caos o da un pericolo. I soggetti con DOC
soffrirebbero di un deficit biologico di tale sensazione. Poiché non riescono a raggiungere questa
sensazione intuitiva di completamento, questi soggetti hanno grandi difficoltà a fermare certi pensieri e
comportamenti. Essi sembrano sapere, a livello razionale, che non c'è alcun bisogno di controllare di nuovo
se il gas è chiuso o di lavarsi di nuovo le mani, ma soffrono di una profonda ansia dovuta alla sensazione
che le cose non siano state completate. Le compulsioni costituiscono rinforzi particolarmente forti perché
aiutano a eliminare questa sensazione di incompletezza, e in questo sono ancora più efficaci delle
autoaffermazioni.
La soppressione del pensiero: un modello cognitivo delle ossessioni
Una teoria differente è stata avanzata per le ossessioni. Secondo questo modello, coloro che soffrono di
DOC si sforzano più intensamente degli altri per sopprimere i pensieri ossessivi, ma così facendo in realtà
peggiorano la situazione. Diverse ricerche hanno dimostrato che i soggetti con DOC tendono a credere che
il pensare a una cosa renda più probabile il suo verificarsi. Persone con DOC, inoltre, spesso riferiscono di
sentire un profondo senso di responsabilità per ciò che succede. In conseguenza di questi due fattori, i
soggetti con DOC hanno più probabilità degli altri di impegnare notevoli energie nella soppressione del
pensiero. In accordo con questa teoria, le persone con DOC riferiscono con maggiore frequenza delle altre
di impegnarsi nella soppressione del pensiero. Purtroppo, sopprimere i pensieri è molto difficile.
Ovviamente la soppressione del pensiero non è un buon metodo per cercare di controllare le ossessioni.

EZIOLOGIA DEI DISTURBI DI DIMORFISMO CORPOREO


Le teorie cognitivo-comportamentali del disturbo di dismorfismo corporeo si incentrano su ciò che succede
alla persona che soffre di questa condizione quando guarda il proprio corpo. Queste persone sembrano
perfettamente in grado di vedere e di elaborare le proprie caratteristiche fisiche, quindi la causa del
disturbo non sembra risiedere in un problema di distorsione percettiva di caratteristiche fisiche. Piuttosto,
coloro che soffrono di DDC sembrano focalizzare l'attenzione più sui particolari che sull'insieme. Questa
tendenza influisce sul modo in cui essi guardano i tratti facciali. Anziché considerare una configurazione nel
suo complesso, questi soggetti prendono in considerazione una caratteristica per volta, il che rende più
probabile che rimangano con centrati su un piccolo difetto. Inoltre, queste persone attribuiscono
all'attrattività un'importanza molto maggiore di quanto non facciano i controlli. In effetti molte persone con
DDC sembrano convinte che il loro valore dipenda esclusivamente dall'aspetto esteriore.

EZIOLOGIA DEL DISTURBO DI ACCUMULO


L'accumulo di beni sarebbe collegato a scarse capacità organizzative, a convinzioni insolite circa il
possesso delle cose e a comportamenti di evitamento.
Vari tipi di problemi cognitivi interferiscono con le capacità organizzative delle persone che soffrono di
questo disturbo. In molti casi queste persone hanno difficoltà di attenzione o di categorizzazione degli
oggetti e nel prendere decisioni. Quando in studi di laboratorio sono sottoposti a un compito di
classificazione, questi soggetti tendono a essere più lenti, a generare molte più categorie di quanto facciano
gli altri e a trovare il compito molto più ansiogeno. Queste difficoltà a concentrare l'attenzione sul compito
che si sta svolgendo, a organizzare gli oggetti e a prendere decisioni influenzano quasi ogni aspetto della
quotidianità che riguardi l'acquisire oggetti, organizzare la casa ed eliminare gli oggetti superflui. Quando
deve decidere quale tra due oggetti di uno stesso tipo sia meglio acquistare, la persona con questo disturbo
spesso supera la difficoltà comprando due, tre o anche più oggetti di quel tipo. Alcune di queste persone
trovano terribilmente difficile passare in rassegna gli oggetti per decidere quali scartare, neppure in
presenza e con l'aiuto di un terapeuta.

Oltre a queste difficoltà con le capacità organizzative, la teoria cognitiva mette in evidenza le credenze
insolite che le persone con disturbo da accumulo nutrono in merito alle cose che possiedono. Queste
persone mostrano un estremo attaccamento emotivo a ciò che possiedono. Esse riferiscono che questi
oggetti sono per loro fonte di conforto, che l'idea di perdere qualche oggetto li spaventa, e che considerano
gli oggetti come il nucleo della loro identità e del senso di sé. Si sentono responsabili nei riguardi di questi
oggetti e non gradiscono che gli altri li tocchino, li prendano in prestito o li spostino. Molti provano un
profondo dolore quando sono costretti a separarsi da un oggetto. Questo forte senso di attaccamento può
essere ancora più intenso quando sia rivolto ad animali. Le persone che raccolgono un numero spropositato
di animali spesso ne parlano come dei loro più intimi amici. Queste convinzioni in merito all'importanza di
ogni singolo oggetto che possiedono interferiscono con qualsiasi tentativo di affrontare il disordine.

Data l'ansia suscitata da tutte queste decisioni, i comportamenti di evitamento sono piuttosto comuni:
molti individui con questo disturbo trovano talmente soverchiante il cercare di organizzare il loro disordine,
da rinviare continuamente il momento in cui mettere mano al loro caos. L’evitamento è considerato uno
dei fattori chiave nel mantenimento dell'accumulo disordinato.

TRATTAMENTO DEI DISTURBI DI TIPO OSSESSIVO- COMPULSIVO

FARMACI
Gli antidepressivi sono i farmaci più utilizzati per il trattamento del DOC e dei disturbi correlati.
Il farmaco SRI più utilizzato nel trattamento del DOC è la clomipramina, uno studio ha mostrato che
riduceva la sintomatologia circa del 50%, risulta efficace sia negli adulti che nei giovani. La maggior parte
delle persone, tuttavia, continua a esperire sintomi perlomeno lievi di DOC nonostante il trattamento con
antidepressivi.
Per il trattamento farmacologico del DDC vengono utilizzati la clomipramina e la fluoxetina, ma come
avviene per il DOC, molte persone continuano a esperire sintomi perlomeno lievi di DDC anche durante il
trattamento con antidepressivi.
Per il trattamento farmacologico del disturbo di accumulo non esistono ancora studi controllati e
randomizzati.

TRATTAMENTO PSICOLOGICO
L'approccio più usato per il trattamento psicologico dei disturbi di tipo ossessivo- compulsivo l'esposizione
di prevenzione della risposta (ERP), una terapia cognitivo-comportamentale che il trattamento di
esposizione (descritto nel capitolo 6) ai rituali compulsivi messi in atto dai soggetti con DOC per ridurre la
propria ansia. È stato adattato per trattare anche il DDC e il disturbo di accumulo.

Disturbo ossessivo-compulsivo: le persone che soffrono di questo disturbo nutrono la credenza che il loro
comportamento compulsivo abbia il potere quasi magico di impedire che accadono cose terribili. Nella fase
dell'ERP prevenzione della risposta, i soggetti sottopongono a un'esposizione intensiva di situazioni che
suscitano i loro comportamenti compulsivi e quindi cercano di trattenersi nell'eseguire i loro soliti rituali (ad
esempio il paziente toccò un piatto sporco quindi si astiene dal lavare le mani).

Si basa sull'assunto che: 1) non eseguire il rituale espone il soggetto all'ansia provocata dallo stimolo, in
tutta la sua intensità; 2) l'esposizione porta all'estinzione della risposta condizionata (ansia).

Dal momento in cui il trattenersi dal mettere in atto i soliti rituali è estremamente spiacevoli per le persone
con DOC, circa il 25% dei pazienti rifiuta di sottoporsi a questo trattamento.
L'ERP è altamente efficace nel ridurre le ossessioni e le compulsioni. L'ERP è più efficace della clomipramina
per il trattamento del DOC, inoltre è efficace per i bambini e gli adolescenti come per gli adulti.

Gli approcci cognitivi al trattamento del DOC si in centrano sul mettere in discussione le credenze del
cliente riguardo a ciò che accadrà se non si impegna nei suoi rituali e a mettere alla prova il suo stesso
eccessivo senso di responsabilità. Alla fine, per mettere alla prova le credenze del soggetto, questi approcci
ricorrono all'esposizione.

Disturbo di dimorfismo corporeo: i principi fondamentali dell’ERP vengono adattati al trattamento dei
sintomi nel DDC. Ad esempio, per l'esposizione, si chiede pazienti con DDC di interagire con persone che
potrebbero criticare il loro aspetto. Per quanto riguarda la prevenzione della risposta, si chiede a questi
pazienti di evitare di compiere le attività a cui ricorrono di solito per rassicurarsi sul proprio aspetto
(guardarsi allo specchio). Queste tecniche comportamentali vengono abbinate a strategie per intervenire
sulle caratteristiche cognitive del disturbo quali la valutazione eccessivamente critica delle proprie
caratteristiche fisiche e la convinzione che il valore di una persona dipenda dal suo aspetto esteriore.
L’ERP porta a una riduzione significativa dei sintomi di questo disturbo, inoltre, i trattamenti che prevedono
anche la componente cognitiva sono più efficaci di quelli esclusivamente comportamentali, anche se
entrambi gli approcci producono effetti duraturi.

Disturbo di accumulo: Il trattamento di questo disturbo si basa sulla tecnica del ERP che si utilizza anche nei
casi di DOC. La procedura di esposizione è incentrata sulla situazione che le persone con questo disturbo
temono di più, ovvero doversi liberare di ciò che possiedono, la prevenzione della risposta incentrata
sull'inibizione dei rituali di queste persone eseguono per ridurre l'ansia, come contare condivide in gruppi i
propri oggetti. Anche in questo caso l’esposizione prevede il passaggio attraverso una gerarchia di stimoli,
che sottopongono il cliente a situazioni progressivamente sempre più difficili con l’avanzare della terapia.
La terapia cognitivo comportamentale dà buoni risultati nella cura di questo disturbo.

Nonostante gli elementi comuni, il trattamento viene in molti modi adattato ai sintomi specifici del disturbo
da accumulo. Molti di coloro che soffrono di questo disturbo non si rendono conto della gravità dei
problemi prodotti dai loro sintomi. E il trattamento terapeutico non può avere inizio fino a quando la
persona non diventa consapevole del suo problema. Per facilitare questo, si utilizzano strategie
motivazionali per aiutare il cliente a trovare le ragioni per cambiare. Una volta che la persona ha deciso di
cambiare, allora il terapeuta può aiutarla a prendere decisioni sugli oggetti. Il terapeuta affianca alle sedute
nel suo studio anche visite a casa del cliente.

Spesso questo disturbo causa un grave deterioramento delle relazioni familiari. I parenti spesso si
impegnano in vari modi per aiutare queste persone a liberare la loro vita dal disordine, per poi ritrovarsi
sempre più frustrati e arrabbiati davanti al fallimento dei loro tentativi. Molti ricorrono a strategie
coercitive, compresa l'eliminazione degli oggetti approfittando di un momento in cui la persona è assente,
ma spesso queste strategie hanno l'unico effetto di ingenerare sfiducia e animosità. L'approccio terapeutico
a livello familiare inizia quindi col costruire una relazione basata sulla comunicazione su questi aspetti
problematici. I familiari, quindi sono guidati a esprimere le loro preoccupazioni su questi aspetti per iniziare
a dialogare e a stabilire delle priorità con la persona che soffre del disturbo.

DBS o stimolazione cerebrale profonda: un trattamento per il DOC ancora in fase di sviluppo
Alcune ricerche hanno valutato l'efficacia del trattamento con DBS, o stimolazione cerebrale profonda, che
implica l'impianto di elettrodi nel cervello, per le persone affette da forme croniche di DOC che non
rispondono neppure a molteplici trattamenti farmacologici. Per trattare il DOC, gli elettrodi sono in genere
impiantati nel nucleo accumbens oppure in una regione al margine dello striato ventrale. Il trattamento
resta però sperimentale, poiché l'impianto di elettrodi nel cervello può comportare complicazioni.

IL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO E IL DISTURBO ACUTO DA STRESS.


Il disturbo post-drammatico e il disturbo acuto da stress vengono diagnosticati solo in seguito ad un grave
evento traumatico.
I criteri diagnostici di questi disturbi incorporano anche elemento causale dei sintomi, in contrasto con
tutte le altre categorie diagnostiche del DSM, basate interamente sulla sintomatologia.

DISTURBI CORRELATI AD EVENTI TRAUMATICI E STRESSANTI:


- Disturbo da stress post-traumatico
- Disturbo da stress acuto

IL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO (PTSD)


Criteri diagnostici:
A. La persona è stata esposta a un evento che ha implicato morte o minaccia di morte, gravi lesioni,
violenza sessuale reale o minacciata, in uno o più dei modi seguenti:
- Sperimentando direttamente l'evento traumatico
- Essendo testimone dell’evento
- Venendo a sapere che una persona cara ha subito una morte violenta o accidentale, o la minaccia
di tale morte
- Avendo subito un’esposizione estrema o ripetuta a dettagli aversivi dell’evento, non però
attraverso i media
B. Almeno uno dei seguenti sintomi di intrusione:
- Ricordi involontari ed intrusivi e spiacevoli dell'evento traumatico (nei bambini gioco ripetitivo
incentrato su aspetti riguardanti il trauma)
- Sogni angoscianti ricorrenti correlati all'evento
- Reazioni dissociative (flashback) in cui la persona sente o agisse come se l'evento si stesse
ripetendo
- Intenso o prolungato disagio o reazioni fisiologiche in risposta a stimoli che richiamano alla mente
l'evento traumatico
C. Almeno uno dei seguenti sintomi di evitamento degli stimoli associati all'evento traumatico:
- Evitare gli stimoli interni collegati all'evento traumatico (ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti)
- Evitare gli stimoli stati collegati all'evento traumatico, tutto ciò che suscita ricordi, pensieri o
sentimenti spiacevoli relativi all'evento traumatico
D. Almeno 2 alterazioni negative di aspetti cognitivi e dell'umore:
- Incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell'evento traumatico
- Esagerate e persistenti aspettative di se stessi, agli altri, o al mondo
- Biasimo persistente in eccesso di sé o di altro in relazione all'evento traumatico
- Persistente stato emotivo negativo
- Marcata diminuzione di interessi o partecipazioni in attività significative
- Il distacco o di estraneità verso gli altri
- Incapacità di provare emozioni positive
E. Almeno 2 delle seguenti alterazioni dell’arousal e della reattività associati all'evento traumatico:
- Comportamento irritabile o aggressivo
- Comportamenti imprudenti e autodistruttivi
- Iper vigilanza
- Esagerate risposte di allarme
- Problemi di concentrazione
- Alterazioni del sonno
F. I sintomi sono iniziati o peggiorati in seguito all'evento traumatico e sono perdurati almeno un mese.
G. Tra u bambini al di sotto dei 7 anni, la diagnosi richiede che siano soddisfatti i criteri A, B, E ed F, ma
solo un sintomo delle categorie C oppure D

Il disturbo da stress post-traumatico (DSPT o PTSD, post-traumatic stress disorder) è caratterizzato da una
intensa risposta a un grave evento stressante, risposta che comprende un notevole aumento dell'ansia,
ricordi ricorrenti dell'evento traumatico, emozioni e pensieri negativi, evitamento degli stimoli associati al
trauma e sintomi di elevata attivazione fisiologica. Benché già da tempo fosse noto che traumi vissuti
durante i combattimenti possono produrre potenti effetti negativi sui soldati, furono le conseguenze della
guerra nel Vietnam a stimolare la creazione di questa nuova categoria diagnostica.
I criteri diagnostici definiscono il trauma grave come un evento in cui la persona deve essere stata
direttamente coinvolta in, oppure ha assistito a, un evento che ha implicato morte o pericolo di morte,
oppure lesioni gravi o violenze sessuali.
Mentre il trauma da combattimento è per gli uomini il tipo di evento più comune all'origine di un PTSD, per
le donne è lo stupro: almeno un terzo delle donne che hanno subito una violenza sessuale soddisfa i criteri
per la diagnosi di PTSD.
L'esposizione al trauma, tuttavia, è solo il primo elemento di cui questa diagnosi tiene conto. Oltre al
trauma, la diagnosi di PTSD richiede la presenza di un insieme di sintomi. Nel DSM-5 i sintomi del PTSD sono
raggruppati in quattro categorie principali.
• Riesperienza intrusiva dell'evento traumatico. Molte persone con PTSD fanno sogni o incubi in
cui rivivono il trauma notte dopo notte. Altre sono perseguitate da ricordi dolorosi e intrusivi,
spesso evocati da indizi sensoriali che, per quanto trascurabili, sono però in grado di suscitare
un'ondata di attivazione psicofisiologica (arousal).
• Evitamento di stimoli associati con l'evento. La maggioranza delle persone con PTSD si sforza
di evitare di pensare a ciò che è successo, e alcune cercano di evitare qualsiasi cosa faccia loro
ricordare l'evento. Sebbene, a quanto loro stesse riferiscono, la maggior parte di queste
persone faccia di tutto per evitare di ricordare e di rivivere l'evento, la strategia dell'evitamento
in genere non funziona: la maggioranza afferma di ricordare l'evento fin troppo bene e troppo
spesso.
• Altri segni di pensieri e stati dell'umore negativi sviluppatisi in seguito al trauma. Molte
persone con PTSD si sentono profondamente distaccate dagli amici e da qualunque attività
svolgano, per cui non c'è nulla nella vita che dia loro gioia. Mentre si pongono mille domande
su quanto è accaduto e lottano contro i sensi di colpa, molte di loro si convincono di essere
persone cattive, mentre altre arrivano a credere che nessuno al mondo sia degno di fiducia.
• Sintomi di aumento dell'attivazione fisiologica e della reattività. Spesso la persona con PTSD si
sente continuamente in guardia e tiene sotto costante controllo l'ambiente in cerca di possibili
pericoli. Studi di laboratorio hanno confermato che le persone con PTSD di mostrano livelli più
elevati di arousal, come rivelano le misure delle risposte fisiologiche a immagini attinenti al
trauma. Questo aumento dell'attivazione fisiologica può manifestarsi nella tendenza di queste
persone a sobbalzare quando qual cosa le spaventa, ad abbandonarsi a esplosioni di collera per
eventi di poco conto, e ad avere grandi difficoltà ad addormentarsi o a dormire per l'intera
notte.

I sintomi del PTSD possono svilupparsi subito dopo il trauma, ma a volte non compaiono se non ad anni di
distanza dall'evento iniziale. Una volta che si è sviluppato, il PTSD tende a cronicizzare.
Fra i soggetti con PTSD sono comuni i pensieri di suicidio, come lo sono gli incidenti da autolesività non
suicidaria
È stato proposto che l'esposizione prolungata a eventi traumatici, come nel caso di abusi ripetuti
nell'infanzia, possa portare a una gamma di sintomi più ampia di quella che il DSM individua come criteri
per la diagnosi di PTSD. Questa sindrome è stata definita PTSD complesso. I sintomi sarebbero presenza di
emozioni negative, compromissione delle relazioni e concetto di sé negativo. Tuttavia, è stato evidenziato
che il trauma prolungato può portare a sintomi di PTSD più gravi ma non sembra dar luogo a un sottotipo
distinto, con una specifica sintomatologia. Sulla base di queste evidenze, il DSM-5 non include una
particolare diagnosi né uno specificatore per il PTSD complesso.
Oltre al disturbo da stress post-traumatico, il DSM prevede la diagnosi di disturbo da stress acuto (ASD,
acute stress disorder). Come per il PTSD, la diagnosi di ASD viene tratta quando i sintomi si manifestano in
seguito a un evento traumatico. A parte la loro durata, più breve, i sintomi del disturbo acuto sono molto
simili a quelli del PTSD; questa categoria diagnostica è applicabile solo quando i sintomi durano da 3 giorni
fino a 1 mese (deve presentare almeno 9 sintomi): (mentre per il PTSD i sintomi devono perdurare almeno
1 mese)
Questa categoria diagnostica non riscuote lo stesso grado di consenso del PTSD. I dubbi sono dovuti a due
aspetti principali. In primo luogo, alcuni studiosi hanno criticato l'introduzione dell'ASD, sostenendo che
tale categoria patologizzi le reazioni a breve termine a traumi gravi, reazioni che in realtà sono molto
comuni. In secondo luogo, la maggioranza di coloro che soddisfano i criteri per la diagnosi di PTSD non
sviluppa i sintomi previsti dal DSM-IV-TR per la diagnosi di ASD nel primo mese successivo al trauma.
Tuttavia, coloro in cui si manifesta l'ASD sono esposti a un rischio elevato di sviluppare il PTSD nell'arco di
due anni in seguito al trauma. Infatti, trattare l'ASD può essere utile a prevenire lo sviluppo del PTSD.

Il PTSD presenta un'elevata comorbilità con altri di sturbi. Le condizioni che si associano più di frequente al
PTSD sono gli altri disturbi d'ansia, la depressione maggiore, l'abuso di sostanze e il disturbo della condotta.
Sul totale di coloro che sono esposti a un grave trauma, le donne hanno una probabilità doppia rispetto agli
uomini di sviluppare un PTSD. Questo dato è in accordo con il rapporto fra i generi osservato nella
maggioranza dei disturbi d'ansia. Le donne possono anche trovarsi esposte a circostanze diverse da quelle
cui sono esposti gli uomini; ad esempio, hanno molte più probabilità di subire aggressioni sessuali durante
l'infanzia e l'età adulta.
Anche i fattori culturali possono influenzare in vari modi il rischio di sviluppare il PTSD: alcuni gruppi
culturali possono essere esposti con maggiore frequenza a eventi traumatici e, di conseguenza, manifestare
un tasso più alto di PTSD. Questo discorso vale per le minoranze etniche negli Stati Uniti. La cultura può
anche influire sul tipo di sintomi che si osservano nel PTSD: l'ataque de nervios, individuato per la prima
volta a Portorico, implica sintomi fisici e paura d'impazzire in conseguenza di forti eventi traumatici, per cui
è simile al PTSD.
DISTURBO DA STRESS ACUTO (ASD)
Il disturbo acuto da stress è una reazione intensa, sgradevole e anormale che inizia poco dopo un evento
traumatico e dura meno di un mese. Se i sintomi persistono per oltre un mese, viene diagnosticato un
disturbo post-traumatico da stress (DPTS).
ll disturbo da stress acuto viene diagnosticato quando una persona è stata esposta direttamente o
indirettamente a un evento traumatico. Inoltre, deve avere anche presentato per un periodo variabile da 3
giorni fino a 1 mese almeno 9 dei seguenti sintomi:
• Ricordi ricorrenti, incontrollabili e intrusivi dell’evento
• Incubi ricorrenti dell’evento
• Sensazione che l’evento traumatico sia ricorrente, come nelle rievocazioni
• Intenso stress psicologico o fisiologico quando riporta l’evento alla mente (ad esempio ingresso in
luoghi simili, suoni simili a quelli uditi durante l’evento)
• Incapacità persistente di provare emozioni positive (come felicità, soddisfazione o affetto)
• Senso alterato della realtà (ad esempio stordimento o sensazione di tempo rallentato)
• Perdita del ricordo di una parte importante dell’evento traumatico
• Sforzi per evitare pensieri, sentimenti o ricordi associati all’evento
• Tentativi di evitare fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti e situazioni) associati
all’evento
• Sonno disturbato
• Irritabilità o esplosioni di rabbia
• Eccessiva attenzione ai potenziali pericoli (ipervigilanza)
• Difficoltà di concentrazione
• Risposta esagerata a rumori, movimenti improvvisi o altri stimoli (sobbalzi)

Inoltre, i sintomi causano notevole malessere o interferiscono notevolmente con il normale funzionamento.

EZIOLOGIA DEL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO.


NATURA DEL TRAUMA: GRAVITÀ E TIPO DI TRAUMA.
La gravità del trauma influenza l’eventuale sviluppo successivo del PTSD. Fra colo che si sono trovati esposti
a eventi traumatici, hanno maggiori probabilità di sviluppare un PTSD quelli che hanno vissuto un trauma
più grave.
Oltre alla gravità, anche la natura del trauma sembra influire sullo sviluppo di un PTSD. I traumi inflitti da
altri esseri umani sembrano avere maggio probabilità di causare un PTSD rispetto ai traumi dovuti a disastri
naturali, probabilmente perché mettono in discussione l’idea che nutriamo sulla bontà umana.
FATTORI NEUROBIOLOGICI: L'IPPOCAMPO E GLI ORMONI
Il PTSD sembra essere correlato con la disregolazione del circuito della paura, come per i disturbi d’ansia. Il
PTSD sembra essere specificamente correlato con la funzione dell'ippocampo. L'ippocampo è un'area
cerebrale nota per il suo ruolo nei processi di memoria, soprattutto la formazione di ricordi associati alle
emozioni. Gli studi di neuroimaging dimostrano che nei soggetti con PTSD l'ippocampo ha un volume
ridotto rispetto a controlli senza il disturbo.
Avere un ippocampo più piccolo della media possa essere un fattore che predispone all'insorgenza del
PTSD. Dal momento in cui l'ippocampo svolge un ruolo cruciale rispetto alla capacità di collocare i nostri
ricordi autobiografici nello spazio, nel tempo e nel contesto, e di organizzare la nostra personale narrazione
di quei ricordi, è possibile che la difficoltà a organizzare i ricordi e a contestualizzarli crei il terreno
favorevole allo sviluppo del PTSD.
Cominciamo con il considerare il concetto di contesto: le persone che soffrono di PTSD sembrano provare
una notevole paura quando esperiscono stimoli, anche fuori contesto, che fanno loro ricordare il trauma
vissuto. Per le persone con PTSD gli indizi che segnalano di trovarsi in un ambiente sicuro sembrano non
funzionare: la paura resta intensa quanto lo è stata al momento del trauma iniziale. Secondo una teoria, i
deficit dell'ippocampo potrebbero far aumentare il rischio che la persona esperisca questo tipo di paura,
indipendentemente dal fatto di trovarsi in un contesto sicuro o invece pericoloso.
Passiamo ora a considerare la natura dei ricordi nel PTSD. Anche se ha ricordi molto intensi, innescati da
odori, suoni o altri stimoli sensoriali, la persona con questo disturbo spesso ha notevoli difficoltà a
organizzare quei ricordi in una narrazione coerente dell'evento traumatico vissuto. I deficit di memoria
verbale si possono spiegare con la riduzione di volume dell'ippocampo. Poiché altre regioni cerebrali sono
coinvolte nell'elaborazione dei ricordi delle sensazioni fisiche, è possibile che la persona con PTSD conservi
memorie molto vivide degli aspetti sensoriali del trauma. Questa teoria ci aiuta a capire come una persona
possa avere difficoltà a descrivere l'evento traumatico vissuto e allo stesso tempo essere ancora torturata
dai ricordi di quell'evento.
In conclusione, i deficit dell'ippocampo potrebbero contribuire alla vulnerabilità psicologica del PTSD in due
modi:
1. In primo luogo, i deficit dell'ippocampo potrebbero far aumentare il rischio che una persona risponda
agli stimoli che le rammentano il trauma anche quando questi si verificano in un contesto sicuro.
2. Secondo i deficit dell'ippocampo possono interferire con l'organizzazione di una narrazione coerente
dell'evento traumatico.

Strategie di coping
Quando si trovano a dover affrontare un evento traumatico, alcune persone sembrano essere all'altezza
della sfida e mostrano straordinarie capacità di ripresa (resilienza). È evidente che il modo in cui un
individuo affronta il trauma e poi le sue conseguenze è un buon predittore della possibilità che insorga un
PTSD.
A quanto emerge da vari tipi di ricerche, coloro che affrontano il trauma attraverso strategie di evitamento
del pensiero, hanno poi maggiori probabilità di sviluppare un PTSD. Gran parte di queste ricerche si è
incentrata sui sintomi di dissociazione (come il sentirsi distaccato dal proprio corpo o dalle proprie
emozioni, oppure essere incapace di ricordare l'evento).
Per incoraggiare i clinici a tenere conto delle strategie di coping, il DSM-5 include lo specificatore «con
sintomi dissociativi» al fine di evidenziare i casi in cui il PTSD è accompagnato da sintomi persistenti o
ricorrenti di dissociazione. Circa il 10-15% delle persone soddisfa i criteri per questo specificatore, che è
soprattutto comune tra le persone che hanno subito una storia di abusi nell'infanzia.

Altri fattori protettivi possono aiutare l'individuo ad affrontare in modo più adattivo un trauma grave. Due
fattori che sembrano avere particolare importanza sono un elevato livello intellettivo e un consistente
supporto sociale. Possedere elevate abilità intellettive, che permettono alla persona di dare un senso agli
eventi orribili che ha vissuto, e poter contare sul sostegno di amici e familiari che l'aiutano in quel processo,
sembrano essere fattori importanti nel prevenire lo sviluppo di PTSD in seguito a un evento traumatico.

TRATTAMENTO DEL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO E DEL DISTURBO ACUTO DA STRESS


TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
Antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina SSRI efficaci nel trattamento del PTSD
(interrompendoli si ha una recidiva)

TRATTAMENTO PSICOLOGICO DEL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO.


Esposizione. Nel trattamento del PTSD l’esposizione riguarda ricordi del trauma originale o di elementi che
lo richiamano. Col sostegno del terapeuta, la persona viene incoraggiata a confrontarsi con l’evento, in
modo da poterlo superare e così estinguere l’ansia.
Quando è possibile, il paziente viene esposto direttamente, in vivo, a condizioni che ricordano il trauma, ad
esempio, tornare sul luogo in cui l'evento è accaduto.
In altri casi si ricorre all'esposizione immaginativa, cioè il soggetto richiama deliberatamente alla memoria
l'evento traumatico. Per trattare il PTSD i terapeuti si sono serviti anche della tecnologia della realtà
virtuale, che consente un’esposizione più vivida di quella che alcuni clienti possono essere in grado di
ricreare con la loro immaginazione.

L'esposizione, sia reale sia immaginativa, costituisce un trattamento PTSD più efficace di una terapia
farmacologica o di una psicoterapia di sostegno non strutturata.

Richiedendo un contatto così intenso con gli eventi drammatici vissuti, la terapia di esposizione è difficile da
sostenere sia per il cliente sia per il terapeuta. Ad esempio, donne che hanno sviluppato PTSD dopo aver
subito uno stupro possono trovarsi a dover richiamare con precisione alla memoria i particolari più
spaventosi della loro aggressione.

Nelle fasi iniziali della terapia i sintomi della persona possono perfino mostrare un temporaneo
aggravamento. Spesso il trattamento incontra difficoltà particolari e richiede più tempo quando la persona
ha vissuto traumi ricorrenti, cosa piuttosto frequente nel caso di abusi infantili, poiché quel tipo di
esperienze può interferire con l'apprendere a fare fronte alle emozioni. L'aggiunta di abilità di regolazione
delle emozioni portò a risultati positivi ulteriori rispetto al trattamento di esposizione standard.

Varie strategie cognitive sono state messe a punto per affiancare l'esposizione nel trattamento del PTSD.
Una serie di studi ha dimostrato l'efficacia di interventi finalizzati a stimolare le convinzioni della persona
sulla propria capacità di affrontare il trauma. Trattamenti di rielaborazione cognitiva sono strutturati allo
scopo di aiutare le vittime di stupro o di abusi sessuali infantili a contrastare la tendenza ad
autocolpevolizzarsi e a biasimare sé stesse sembrano essere particolarmente efficaci nel ridurre il senso di
colpa e i sintomi dissociativi

TRATTAMENTO DEL DISTURBO ACUTO DA STRESS


È possibile prevenire l'evoluzione verso un disturbo da stress post-traumatico, intervenendo con un
trattamento precoce su coloro che hanno sviluppato un disturbo acuto da stress (ASD) Alcune terapie
cognitivo comportamentali brevi (cinque o sei sedute), comprendenti procedure di esposizione, sembrano
cogliere questo obiettivo. Un intervento precoce faceva diminuire il rischio che l’ASD evolvesse in PTSD.

CAPITOLO 8
I DISTURBI DISSOCIATIVI E DA SINTOMI SOMATICI.
I DISTURBI DISSOCIATIVI
Vi sono 3 disturbi dissociativi principali: (rientrano nei disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti)
• L’amnesia dissociativa.
• Il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione
• Il disturbo dissociativo dell’identità (DDI)

Si presume che all’origine di tutti i disturbi dissociativi vi sia un meccanismo causale comune, la
dissociazione, che si manifesta nel fatto che alcuni aspetti del pensiero o dell’esperienza restano
inaccessibili alla coscienza.
La dissociazione comporta, quindi, l’incapacità della coscienza di svolgere il suo ruolo normale: integrare
pensieri, emozioni, motivazioni e tutti gli altri aspetti della nostra esperienza cosciente del mondo.

Alcuni lievi stati dissociativi sono molto comuni (esempio di chi, preso dalle sue preoccupazioni, su per la
strada in cui deve svoltare per arrivare a casa).
Diversamente da questi comuni esperienze dissociative, i disturbi dissociativi sono caratterizzati da livelli di
dissociazione molto più gravi.
Ad oggi, i sostenitori delle diverse teorie, sono concordi nel ritenere la dissociazione patologica una
risposta di evitamento, che protegge gli individui dal riconoscere a livello cosciente eventi fortemente
stressanti. Le conoscenze di cui oggi si dispone, sono tuttavia molto inferiori rispetto a quelle possedute
sugli altri disturbi. Il disturbo dissociativo dell’identità è, tra questi disturbi, il meglio conosciuto.

AMNESIA DISSOCIATIVA
Criteri diagnostici:
1. Un'incapacità di ricordare importanti informazioni autobiografiche, di solito di natura traumatica o
stressante, non riconducibile a normale dimenticanza.
2. La condizione di amnesia non è attribuibile agli effetti di una sostanza o a una condizione neurologica o
medica di altro tipo.
3. Specificare “con fuga dissociativa” se presente “un viaggio intenzionale o un vagare disorientato
associati ad amnesia per la propria identità o per altri importanti informazioni autobiografiche”.

Chi soffre di questo disturbo è incapace di ricordare dati personali importanti, di solito riguardanti qualche
esperienza drammatica. L’informazione non va perduta in modo permanente, ma è irrecuperabile per tutta
la durata dell’episodio di amnesia, che può essere breve o protrarsi anche per anni.
In genere l’amnesia scompare all’improvviso così come è insorta, con il completo recupero della memoria e
scarse probabilità di recidiva.
Il più delle volte la perdita di memoria riguarda una parte degli eventi connessi con un’esperienza
traumatica, come aver assistito alla morte improvvisa di una persona cara.
In casi più rari l’amnesia coinvolge tutti gli eventi accaduti in un periodo circoscritto di distress. Durante il
periodo di amnesia il comportamento dell’individuo è normale sotto tutti gli altri aspetti, fatta eccezione
per un certo disorientamento che la perdita di memoria può provocare.

Nel sottotipo più grave di amnesia, la fuga dissociativa, la perdita di memoria e più estesa: l’individuo non
solo perde completamente la memoria, ma lascia all’improvviso la casa ed il lavoro e assume una nuova
identità. Talvolta può cambiare nome, residenza, lavoro e persino tratti della personalità. Più spesso la fuga
ha una durata relativamente breve e consiste in spostamenti limitati, ma che hanno apparentemente uno
scopo.
Come nelle altre forme di amnesia, il recupero è in genere completo; dopo il recupero, l’individuo ricorda
perfettamente la propria vita e le esperienze che ha vissuto, a eccezione degli eventi che sono accaduti
durante la fuga.
I disturbi dissociativi e l’amnesia dissociativa implicano tipicamente deficit della memoria esplicita (capacità
di ricordare a livello consapevole tutto ciò che rientra nella nostra esperienza descrivere la nostra vecchia
bicicletta), ma non di quella implicita (è coinvolta nell’apprendimento basato su esperienze che non
vengono recuperate in modo consapevole il saper andare in bicicletta si basa sul ricordi implicito di come si
usa questo mezzo).
L’amnesia può verificarsi in seguito a un’esperienza gravemente stressante, come un conflitto coniugale,
l’aver combattuto in guerra, l’aver avuto difficoltà finanziarie o lavorative, o aver subito una catastrofe
naturale, ma non tutte le amnesie sembrano essere immediata conseguenza di un trauma.

Nel fare diagnosi di amnesia dissociativa è importante escludere altre condizioni che comunemente
causano perdita di memoria, come la demenza, l'abuso di sostanze e gli effetti collaterali di farmaci. Il bere
pesantemente può causare vuoti di memoria e farmaci come le benzodiazepine, usate nel trattamento
dell'ansia (ad esempio, Valium), e i sedativi ipnotici, usati per trattare l'insonnia (ad esempio, Zolpidem),
possono causare amnesia. Quindi un elemento cruciale in questa diagnosi è valutare se l'episodio sia stato
preceduto da un'eventuale lesione cerebrale, o dall'uso di farmaci o di altre sostanze psicotrope. La
demenza è distinguibile piuttosto facilmente dall'amnesia dissociativa.
- Nella demenza la memoria diminuisce col tempo lenta mente, il deficit non è collegato a stress ed è
accompagnato da altri deficit cognitivi, come l'incapacità di apprendere nuove informazioni.
- L’amnesia può verificarsi in seguito a un'esperienza gravemente stressante, come un conflitto
coniugale, l'essersi sentiti rifiutati, l'avere combattuto in guerra, l'avere avuto difficoltà finanziarie o
lavorative, o avere subito una catastrofe naturale, ma non tutte le amnesie sembrano essere
l'immediata conseguenza di un trauma (Hacking, 1998). Inoltre, occorre notare che fra le persone
che hanno vissuto una grave esperienza traumatica, come la prigionia in un campo di
concentramento, disturbi quali l’amnesia e la fuga dissociative sono rari.

AMNESIA DISSOCIATIVA E MEMORIA


Secondo le teorie psicodinamiche, nella amnesia dissociativa gli eventi traumatici vengono rimossi, vale a
dire che i traumi vengono dimenticati (ovvero dissociati) in quanto fortemente aversivi. I soste nitori della
prospettiva cognitiva hanno messo in dubbio che ciò possa accadere, dal momento che le ricerche con
dotte sia su animali sia su soggetti umani dimostrano che alti livelli di stress di solito incrementano il
ricordo anziché indebolirlo. La noradrenalina, un neurotrasmettitore associato con livelli più alti di arousal,
favorisce il consolidamento e il recupero dei ricordi. È vero, tuttavia, che le caratteristiche dell'attenzione e
della memoria cambiano nei momenti di stress intenso. Quando si è sottoposti a stress si tende a
focalizzare l'attenzione sulle caratteristiche centrali della situazione minacciosa, mentre si smette di
prestarla a quelle secondarie.
Se la risposta più comune a un trauma è un migliore ricordo delle caratteristiche più salienti di ciò che ci
minacciava, come si spiega la perdita del ricordo dell'evento traumatico che sembra manifestarsi
nell'amnesia dissociativa? Una risposta potrebbe consistere nel fatto che l'amnesia dissociativa implica
modalità insolite di risposta allo stress; ad esempio, livelli estremamente elevati di ormoni dello stress
potrebbero in qualche modo interferire con la formazione dei ricordi. Lo stress cronico, come quello
provocato da abusi ripetuti, potrebbe avere sulla memoria effetti più dannosi dello stress acuto. Secondo
alcuni studiosi, i fenomeni dissociativi possono interferire con la memoria. Ovvero, in presenza di un grave
evento traumatico, i ricordi possono essere conservati in una forma che risulta inaccessibile alla coscienza
quando, più tardi, la persona ritorna a uno stato più normale.

DISTURBO DI DEPERSONALIZZAZIONE/DEREALIZZAZIONE.
Criteri diagnostici:
1. La presenza di persistenti o ricorrenti esperienze di depersonalizzazione, derealizzazione o entrambe:
Depersonalizzazione: Esperienza di irrealtà, distacco, di essere un osservatore esterno rispetto ai
proprio pensieri, sentimenti, sensazioni, corpo o azioni.
Derealizzazione: Esperienza di irrealtà o distacco rispetto all'ambiente circostante.
2. L'esame di realtà rimane integro.
3. I sintomi non sono attribuibili all’uso di sostanze o a un altro disturbo dissociativo, a un altro disturbo
psicologico o a una condizione clinica.

Nel disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione, la percezione che la persona ha di sé e di ciò che la


circonda risulta alterata in misura grave e sconvolgente.
Ad innestare tali percezioni alterate è di solito una situazione stressante.
A differenza degli altri disturbi dissociativi, questo disturbo non implica un’alterazione della memoria.
Nel corso di un episodio di depersonalizzazione, l’individuo perde all’improvviso il senso di sé (ciò si associa
ad esperienze sensoriali insolite gli altri possono apparire deforma drasticamente diversa dal solito o la
propria voce può suonare estranea.
L’individuo può avere l’impressione di essere fuori dal proprio corpo, come se si vedesse dall’esterno; a
volte si percepisce come un automa)
Nel corso di un episodio di derealizzazione, si ha la sensazione che il mondo sia divenuto irreale.
Questo disturbo insorge, di solito, nell’adolescenza; una volta insorto, assume un decorso cronico, cioè
dura per lungo tempo.
Spesso presenta comorbilità con i disturbi di personalità.
I criteri diagnostici specificano che i sintomi possono presentarsi insieme ad altri disturbi, ma che tali
sintomi non devono essere completamente attribuibili ad un’altra condizione patologica. Quindi è molto
importante poter escludere tutte le condizioni che di solito implicano questi sintomi, come la schizofrenia, il
disturbo da stress post-traumatico e il disturbo borderline di personalità.

DISTURBO DISSOCIATIVO DELL’IDENTITÀ (DDI).


Criteri diagnostici:
1. Grave alterazione dell'identità caratterizzata da almeno due o più identità o stati di personalità distinti
(alter-ego). In alcune culture può essere descritta come un'esperienza di possessione.
2. Comprende una marcata discontinuità nel senso di sé, nel pensiero, nei comportamenti, negli stati
affettivi, nella percezione e/o nei ricordi. Tale alterazione può essere osservata da altre persone oppure
riferita dal paziente.
3. Ricorrenti vuoti nella rievocazione di eventi quotidiani, di importanti informazioni personali e/o eventi
traumatici non riconducibili a normale dimenticanza.
4. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito
sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
5. Il disturbo non è una parte normale di una pratica culturale o religiosa largamente riconosciuta, e non
sono attribuibili a sostanze o a una condizione medica.

Per trarre la diagnosi di DDI occorre che una persona manifesti almeno due personalità distinte, ossia modi
di essere, pensare, sentire e agire totalmente indipendenti e che emergono i momenti diversi.
Ognuna di queste identità alternative determina di volta in volta la natura e le azioni della persona, a
seconda di quale identità prende il controllo.
Di solito c’è un identità primaria, che può essere totalmente inconsapevole dell’esistenza degli altri alter-
ego e non avere alcun ricordo di quello che le altre identità fanno ed esperiscono quando hanno loro il
controllo.
Tipicamente è l’identità primaria a cercare un trattamento.
Per la diagnosi è inoltre necessario che l’esistenza degli alter sia cronica, quindi non deve trattarsi di
un’alterazione temporanea come quella derivante dall’assunzione di una droga.
Ciascuna identità può essere molto complessa, con modalità di comportamento, ricordo
e relazioni suoi propri, sono in genere piuttosto diverse fra loro, perfino opposte (casi di identità destrimani
oppure mancine, o identità che portano occhiali con prescrizioni differenti, che amano cibi differenti o che
manifestano allergie a sostanze diverse).
Sia l’identità primaria sia quelle subordinate sono consapevoli di avere delle lacune della memoria.
Talvolta le voci di altre entità possono risuonare nella mente di un alter-ego, che tuttavia ignora a chi quelle
voci appartengono.
Questo disturbo emerge di solito nell’infanzia, ma di solito viene diagnosticato nell’età adulta.
È più grave degli altri disturbi dissociati e recupero può essere meno completo.
È frequente la compresenza di altri disturbi, in particolare il disturbo da stress post- traumatico, la
depressione maggiore e i disturbi da sintomi somatici.
Può essere accompagnato da cefalee, allucinazioni, tentativi di suicidio e comportamenti autolesivi.
Differisce dalla schizofrenia perché le persone con DDI non manifestano disturbi del pensiero e la
disorganizzazione comportamentale che caratterizzano la schizofrenia.
EZIOLOGIA DEL DDI
Attualmente le teorie più accreditate per spiegare il DDI sono due: il modello post-traumatico e il modello
sociocognitivo. Entrambe le teorie in realtà sostengono che gravi abusi fisici o sessuali subiti nell'infanzia
creino il terreno per lo sviluppo del disturbo dissociativo dell'identità. Quasi tutte le persone in terapia per
un disturbo dissociativo dell'identità riferiscono di gravi abusi nell'infanzia. Dal momento che tra quanti
subiscono abusi in età infantile solo pochi sviluppano il DDI, entrambe le teorie si incentrano sui motivi per
cui alcune persone sviluppano il DDI in seguito a un abuso e altre no.
Il modello post-traumatico
Secondo il modello post traumatico, alcune persone hanno molte probabilità di servirsi della dissociazione
quale strategia di coping rispetto a un evento traumatico, tendenza che è ritenuta un fattore cruciale nello
sviluppo di alter in seguito a un'esperienza traumatica. Alcune evidenze indicano che i bambini che
ricorrono alla dissociazione hanno più probabilità di sviluppare sintomi psicologici dopo l'evento traumatico
Essendo però il DDI un disturbo raro, occorrerebbero studi longitudinali per indagare le possibili relazioni
tra sviluppo del DDI e stile di coping fondato sulla dissociazione, ma nessuno studio di tal genere è stato
mai condotto.
Il modello socio-cognitivo
L'altra teoria, il modello socio-cognitivo, postula che le persone che hanno subito abusi cerchino una
spiegazione per i loro sintomi e il loro disagio, e che le identità alternative appaiono in risposta alle
suggestioni del terapeuta, all'esposizione alle informazioni dei media sul DDI o ad altre influenze culturali).
Un'implicazione importante di questo modello è che il DDI potrebbe avere un'origine iatrogena, cioè
essere il prodotto del trattamento, in quanto la persona apprende a mettere in scena i sintomi nell'ambito
di un trattamento psicoterapeutico. Ciò non significa, comunque, che il DDI venga considerato come una
forma di inganno consapevole; il punto non è tanto stabilire se il DDI è reale, ma piuttosto come si sviluppa.
Molti manuali raccomandano di utilizzare per il trattamento del DDI tecniche terapeutiche che rinforzano
l'identificazione di identità alternative da parte del cliente, ad esempio interrogare i clienti riguardo a
queste identità mentre sono sotto l'effetto dell'ipnosi o del pentothal sodium. Il rinforzo e le tecniche
suggestive possono favorire in persone vulnerabili lo sviluppo di falsi ricordi e dei sintomi del DDI.

I sintomi del DDI possono essere rappresentati in un «gioco di ruolo»


È un dato ormai accertato che è possibile manifestare i sintomi del DDI in una sorta di «gioco di ruolo». In
uno studio i soggetti, tutti studenti universitari, i furono sottoposti a ipnosi e ricevettero l'istruzione di
lasciar emergere una seconda personalità. La maggioranza degli studenti rivelò una seconda personalità e
l'81% di loro adottò un nuovo nome. Agli studenti che manifestarono una seconda identità fu poi chiesto di
sostenere due volte un test di personalità, uno per ciascuna delle personalità adottate. I punteggi dei test
furono notevolmente diversi per le due personalità. Questi risultati indicano che il DDI può essere
«rappresentato» come in un gioco di ruolo.
Le identità alternative hanno ricordi condivisi, anche quando riferiscono amnesia
Una delle caratteristiche che definiscono il DDI è l'incapacità di un'identità di ricordare le informazioni
conosciute da un'altra identità. Un modo per verificare se le identità alternative condividono contenuti
della memoria è sottoporre le persone a test di memoria implicita. In un test di memoria esplicita, il
soggetto apprende nel corso di una prima seduta una lista di parole che poi deve ricordare durante una
seduta successiva. Nei test di memoria implicita, lo sperimentatore determina se la lista di parole produce
sulla successiva performance del soggetto effetti più sottili. Ad esempio, se la lista includeva la parola
lullaby [ninnananna], i soggetti possono riuscire più rapidamente a identificare lullaby come la parola che
completa il frammento composto dalle lettere <<l_l_a_y». Le persone con DDI sembrano avere ricordi più
accurati di quanto tendono a riconoscere esplicitamente.
TRATTAMENTO DEL DDI.
A prescindere dall’orientamento teorico, fra i medici sembra esservi ampio accordo su alcuni principi
riguardanti il trattamento del disturbo dissociativo dell’identità, tale principi comprendono un
atteggiamento improntato a empatia e gentilezza, finalizzato ad aiutare il paziente a funzionare come
un’unica personalità integrata.
Scopo del trattamento dovrebbe essere convincere il paziente che la scissione in personalità differenti non
è più necessaria per far fronte ai traumi subiti.
Inoltre, in accordo con l’assunto che il DDI sia un mezzo per evitare una condizione di forte stress, il
trattamento può aiutare il paziente ad apprendere come affrontare le situazioni stressanti quotidiane.
Anche se condividono questi principi comuni, i diversi approcci terapeutici presentano anche importanti
differenze.
Si tende a preferire la terapia psicodinamica per trattare il DDI e gli altri disturbi dissociativi, più spesso di
quanto non avvenga per altri disturbi psicologici. Lo scopo primario è superare la rimozione, poiché si
ritiene che il DDI sia una conseguenza di eventi fortemente drammatici, del cui ricordo la persona cerca di
bloccare l’accesso alla coscienza.
Purtroppo, alcuni terapeuti, ed in particolare quelli di formazione psicodinamica, si servono dell’ipnosi
come mezzo per aiutare i pazienti con diagnosi di disturbi dissociative ad accedere ai contenuti rimossi
(questi soggetti sono particolarmente suscettibili all’induzione ipnotica). Quando si trova nello stato
ipnotico, il paziente viene incoraggiato a risalire fino agli eventi traumatici dell’infanzia, questa tecnica è
definita regressione temporale. La speranza è che, accedendo a quei ricordi drammatici, il paziente si renda
conto che nel presente non sussistono più le minacce della sua infanzia e che la sua vita adulta deve cessare
di essere governata da quei fantasmi del passato.
Tuttavia, il recupero di ricordi drammatici attraverso la regressione temporale può di fatto aggravare i
sintomi del DDI.
Data la rarità dei casi di DDI, non esistono studi controllati sugli esiti dei trattamenti.
I dati a disposizione riguardano: il numero delle diverse identità maggiore è il numero, più lunga si è rivelata
la durata del trattamento.
Il DDI presenta spesso comorbilità con ansia e depressione, che talvolta possono essere alleviate da terapie
farmacologiche con antidepressivi; questi farmaci, tuttavia non hanno alcun effetto sul disturbo dissociativo
dell’identità in quanto tale.

I DISTURBI DA SINTOMI SOMATICI


Nel DSM5 è presente il capitolo “disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati”, che comprende:
- Disturbo da sintomi somatici
- Disturbo da ansia di malattia.
- Disturbo di conversione (Disturbo da sintomi neurologici funzionali).
- Disturbo fittizio.
In realtà non vi rientra.
I disturbi da sintomi somatici sono caratterizzati da un’eccessiva apprensione per sintomi fisici o per la
salute.
Nel DSM5 elimina il requisito che i sintomi non abbiano una spiegazione medica. Chi soffre di questi
disturbi tende a ricercare con grande frequenza e cure mediche, talvolta sostenendo anche spese ingenti.
Di più specialisti e può sottoporsi a diverse cure farmacologiche. Spesso queste persone restano
insoddisfatte dalle cure che ricevono e giudicano i propri medici incompetenti e indifferenti ma, nonostante
ciò, essi continueranno a cercare trattamenti con grande insistenza, a vedere sempre nuovi medici e a
richiedere nuovi esami.
DISTURBO DA SINTOMI SOMATICI
Criteri diagnostici:
1. Almeno un sintomo somatico che causa disagio o compromette il funzionamento nella vita quotidiana.
2. Eccessiva concentrazione di pensieri, sensazioni e comportamenti intorno ai sintomi somatici o alle
preoccupazioni per la salute, come indicato da almeno uno dei seguenti fattori:
- Ansia per la salute
- Preoccupazioni sproporzionate riguardo alla gravità dei sintomi
- Eccessivo dispendio di tempo e di energie nelle preoccupazioni per la salute.
3. Durata di almeno sei mesi.
4. Specificare se predomina il dolore

Il disturbo da sintomi somatici implica notevole distress o dispendio di energia in relazione a uno o più
sintomi somatici.

Alcuni individui possono avere una moltitudine di sintomi, che coinvolgono apparati diversi; per altri, il
problema principale può consistere nel dolore (rischio di dipendenza da antidolorifici).

I sintomi somatici possono esordire o intensificarsi in seguito ad un conflitto o a un evento stressante.

Ad un osservatore esterno può sembrare che l’individuo si serva del sintomo somatico per evitare qualche
attività spiacevole o per attrarre su di sé l’attenzione e simpatia, ma chi soffre di questo disturbo non ha
alcuna percezione di ciò, anzi sente i propri sintomi come totalmente fisici. Il disagio causato dai sintomi è
del tutto autentico.

DISTURBO DA ANSIA DI MALATTIA.


Criteri diagnostici:
1. Preoccupazione o alto livello d’ansia di avere o contrarre una grave malattia.
2. I sintomi somatici non sono presenti o, se presenti, sono solo di lieve intensità.
3. Eccesso di comportamenti legati alla paura della malattia (esami clinici o ricerca di assicurazione
medica) o di comportamenti di evitamento mal adattativi (evitare di prestare cure ai parenti malati).
4. La preoccupazione per la malattia persiste per almeno 6 mesi,

La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale.


Il disturbo d’ansia da malattia implica la paura di avere una malattia importante dal punto di vista clinico, a
fronte di una totale assenza di sintomi somatici.

Questo disturbo richiama abbastanza la diagnosi di ipocondria, definita come la paura infondata di avere
una malattia grave. Tuttavia, non sono equivalenti: il disturbo d’ansia da malattia viene diagnosticato solo
quando la persona non presenta alcun sintomo somatico, o solo sintomi minimi.

Sia il disturbo da sintomi somatici sia il disturbo da ansia di malattia implicano una notevole ansia
incentrata sulla salute. quando la paura di una grave, malattia si accompagna a sintomi somatici, la
categoria diagnostica più appropriata è il disturbo da sintomi somatici.
Poiché le persone affette da intense paure circa la loro salute, ma prive di sintomi somatici sono molto
poche, ci si aspetta che le diagnosi di disturbo da ansia di malattia interesseranno un numero limitato di
casi.

DISTURBO DI CONVERSIONE (DISTURBO DA SINTOMI NEUROLOGICI FUNZIONALI)


Criteri diagnostici:
1. Uno o più sintomi di alterazione della funzione motoria volontaria o sensoriale.
2. I sintomi sono incompatibili con una condizione medica riconosciuta
3. I sintomi causano disagio significativo o compromissione del funzionamento oppure richiedono una
valutazione medica
Il disturbo di conversione implica sintomi neurologici che non trovano una spiegazione medica, come cecità
o paralisi improvvise. I sintomi sembrano indicare un danno neurologico, ma gli accertamenti clinici non
evidenziano alcuna alterazione a livello degli organi o del sistema nervoso.

I soggetti possono provare paralisi parziale o totale degli arti inferiori o superiori; convulsioni e alterazioni
della coordinazione motoria; sensazioni di pizzicore, formicolio o brividi; in sensibilità al dolore e anestesia,
cioè generale perdita della sensibilità.
Anche la visione può presentare alterazioni gravi che vanno dalla cecità, parziale o totale, alla visione a
tunnel, in cui il campo visivo ristretto lateralmente, come se la persona stesse guardando attraverso un
tubo.
Afonia, perdita della voce tale che persona può solo bisbigliare; anosmia, perdita dell’olfatto, sono altri
possibili sintomi del disturbo neurologico funzionale.
Alcuni soggetti non ricollegano i propri sintomi ad una condizione di stress che stanno vivendo.

Nel passato questo disturbo era definito isteria. Il termine conversione fu introdotto da Freud, secondo il
quale l’ansia ed il conflitto psicologico si convertono in sintomi fisici.

DISTURBO FITTIZIO
Criteri diagnostici:
Disturbo fittizio provocato a sé
1. Falsificazioni di segni e sintomi fisici o psicologici, o autoinduzione di un infortunio o di una malattia,
associato a un inganno accertato
2. L’individuo presenta se stesso agli altri come malato, menomato o ferito
3. Il comportamento ingannevole è palese anche in assenza di evidenti vantaggi esterni
4. Il comportamento non è meglio spiegato da un altro disturbo mentale, come il disturbo delirante o un
altro disturbo psicotico.

Disturbo fittizio provocato ad altri (precedentemente, disturbo fittizio per procura)


1. Falsificazioni di segni e sintomi fisici o psicologici, o autoinduzione di un infortunio o di una malattia, in
un altro individuo, associato a un inganno accertato
2. L’individuo presenta un’altra persona (vittima) agli altri come malata, menomata o ferita
3. Il comportamento ingannevole è palese anche in assenza di evidenti vantaggi esterni
4. Il comportamento non è meglio spiegato da un altro disturbo mentale, come il disturbo delirante o un
altro disturbo psicotico.

Nel valutare i sintomi somatici di un paziente, i medici devono sempre tenere in considerazione la
possibilità di trovarsi di fronte ad un caso di simulazione o di disturbo fittizio. Queste due condizioni
possono entrambe coinvolgere sintomi fisici.
Nella simulazione, una persona finge intenzionalmente dei sintomi fisici per evitare qualche responsabilità,
ad esempio un lavoro o il servizio militare, oppure per ottenere qualche ricompensa, come un premio o
un'assicurazione. Ciò non avviene nel disturbo fittizio, in cui l'unico scopo spesso sembra essere quello di
assumere il ruolo di malato.
Nell'operare la diagnosi differenziale tra simulazione e di sturbo di conversione, i medici cercano di
determinare se i sintomi siano prodotti a livello consapevole oppure inconsapevole. Nella simulazione i
sintomi fisici sono sotto il controllo volontario, cosa che non accade invece nel disturbo di conversione.

Nel disturbo fittizio la persona produce intenzionalmente determinati sintomi fisici (o talvolta psicologici)
allo scopo di assumere il ruolo di malato. Le persone possono inventarsi dei sintomi, ad esempio riferire un
dolore acuto, ma a volte pur di assumere il ruolo di malati sono disposti anche a compiere azioni fuori
dall'ordinario, come infliggersi ferite, assumere sostanze nocive o iniettarsi sostanze tossiche.
A volte il disturbo fittizio riguarda una persona che provoca in un’altra una malattia organica (disturbo
fittizio per procura o sindrome di Munchausen per procura).
Quando questo tipo di disturbo può riguardare un genitore che provoca nel figlio una malattia organica, la
motivazione sembra risiedere nel bisogno patologico di essere considerato un buon genitore, instancabile
nel provvedere ai bisogni dei figli.

EZIOLOGIA DEI DISTURBI DA SINTOMI SOMATICI E DISTURBI CORRELATI


Fattori neurobiologici che aumentano la consapevolezza dei sintomi somatici e il disagio a essi associato
Noi sentiamo le risposte fisiologiche del nostro corpo mentre svolgiamo un esercizio fisico. Quindi, il punto
fondamentale per capire i disturbi da sintomi somatici non è tanto stabilire se le persone provino delle
sensazioni fisiche, ma stabilire perché alcune persone siano più acutamente con sapevoli di queste
sensazioni e derivino da esse un forte disagio.
I modelli neurobiologici spiegano i disturbi correlati a sintomi somatici in relazione alle regioni cerebrali
attivate da sensazioni somatiche spiacevoli. Il dolore e le sensazioni fisiche spiacevoli, come il calore,
incrementano l'attività neurale in particolari regioni cerebrali: l'insula anteriore e il giro del cingolo
anteriore. Queste regioni hanno forti connessioni con la corteccia somatosensoriale, un'area cerebrale
coinvolta nell'elaborazione delle sensazioni corporee. L'iperattività di queste regioni è stata messa in
relazione con una maggiore propensione allo sviluppo di sintomi somatici e con valutazioni di maggiore
spiacevolezza di uno stimolo doloroso standardizzato. In alcuni individui queste regioni cerebrali, coinvolte
nella valutazione delle sensazioni fisiche spiacevoli, possono essere iperattive, una caratteristica che
potrebbe spiegare la maggiore vulnerabilità a esperire e a notare i sintomi somatici e il dolore.
È ben noto che il dolore e i sintomi somatici possono essere intensificati dall'ansia, dalla depressione e
dagli ormoni dello stress.
La depressione e l'ansia sono direttamente correlate all'attività del giro del cingolo anteriore. Anche il
dolore emozionale, come quello provocato dal ricordo della rottura di una relazione, può attivare il giro del
cingolo anteriore e l'insula anteriore.
Il coinvolgimento di queste regioni cerebrali nell'esperienza fisica o emozionale del dolore può spiegare
perché il dolore può essere intensificato dalle emozioni e dalla depressione.

Fattori cognitivo-comportamentali che aumentano la consapevolezza dei sintomi somatici e il disagio a


essi associato
Come le teorie neurobiologiche, anche quelle cognitivo-comportamentali sono incentrate sui meccanismi
che possono contribuire a un'eccessiva focalizzazione sui sintomi somatici e allo sviluppo di ansia marcata
riguardo alla salute.
Una volta che un sintomo somatico si è sviluppato, due variabili cognitive appaiono particolarmente
importanti: l'attenzione alle sensazioni corporee e l'interpretazione di quelle sensazioni (attribuzioni).
Le persone con una preoccupazione eccessiva per i sintomi somatici concentrano automaticamente
l'attenzione sugli stimoli che possono indicare disturbi fisici.
Chi ha la tendenza a preoccuparsi eccessivamente per la propria salute mostra anche una tendenza a
interpretare nel modo peggiore i propri sintomi fisici. Un minimo segno fisico viene interpretato come il
segno di una catastrofe incombente.
L'esatta forma assunta dal bias cognitivo può variare, ma una volta che questi pensieri negativi si sono
instaurati, l'aumento dell'ansia e dei livelli di cortisolo che ne consegue può esacerbare i sintomi somatici e
il disagio a essi associato. Concentrare l'attenzione sul corpo può anche far aumentare la consapevolezza di
sensazioni fisiche insolite che altrimenti sarebbero passate inosservate.
Nel disturbo da sintomi somatici, invece, l'individuo crede che i sintomi indichino una malattia lunga e
molto grave (ad esempio, cancro o AIDS).
La tendenza a preoccuparsi eccessivamente per la pro pria salute può derivare da precedenti esperienze di
sintomi somatici o da atteggiamenti familiari interiorizzati dalla persona. In accordo con l'ipotesi che queste
influenze infantili abbiano un ruolo nell'insorgere di bias cognitivi, le persone con disturbo da sintomi
somatici riferiscono di avere fatto da bambini molte assenze da scuola per malattia.
La paura che una certa sensazione fisica sia segno di una grave malattia ha buone probabilità di portare a
due importanti conseguenze sul piano comportamentale.
In primo luogo, l'individuo può assumere il ruolo di malato ed evitare in questo modo compiti lavorativi e
sociali e l'esercizio fisico, e ciò può portare a un aggravamento dei sintomi, in quanto finisce per limitare
comportamenti salutari.
In secondo luogo, la persona può cercare rassicurazione, dai medici o dagli altri membri della famiglia, e
questo comportamento di ricerca d'aiuto può essere rinforzato se il soggetto riesce a con centrare su di sé
attenzione e simpatia. Spesso chi è affetto da questi disturbi sperimenta depressione e insicurezza nelle
relazioni interpersonali, quindi può trovare particolarmente gratificanti l'attenzione e la simpatia che riceve
per «<essere malato».

Interpretazione psicodinamica del disturbo di conversione


Il disturbo di conversione occupa una posizione centrale nelle teorie psicodinamiche, in quanto la sua
sintomatologia offre una chiara dimostrazione del ruolo dell'inconscio.
La teoria psicodinamica postula che i sintomi fisici siano la risposta a un conflitto psicologico inconscio.
Secondo la teoria psicodinamica, questa forma di disturbo di conversione potrebbe implicare due tipi di
processi: l'elaborazione inconscia di stimoli percettivi e (2) la motivazione a manifestare sintomi clinici.
Le neuroscienze hanno ampiamente confermato che gran parte dell'elaborazione da cui dipende la nostra
percezione visiva avviene al di fuori della coscienza. Prendiamo come esempio la cecità inspiegabile. A
livello cerebrale, il nostro sistema visivo consiste di un insieme di moduli. Se questi moduli non sono
coordinati in modo da produrre una consapevolezza totale, il cervello può elaborare alcuni stimoli visivi così
che la persona può produrre una buona performance in alcuni test visivi, senza allo stesso tempo essere
cosciente di «vedere» certi stimoli.
La seconda parte del modello si focalizza sulla motivazione, vale a dire che alcuni individui sono motivati a
sembrare ciechi. Tale motivazione a esibire certi sintomi può essere del tutto al di fuori della coscienza.
In conclusione, le interpretazioni psicodinamiche del disturbo di conversione sono incentrate sull'idea che è
possibile non avere consapevolezza di certe percezioni, ed essere motivati a mostrare certi sintomi.

Fattori socioculturali nell'eziologia del disturbo di conversione


I sintomi del disturbo di conversione sembrano essere influenzati da fattori sociali e culturali. Ad esempio, i
sintomi del disturbo sono più comuni nelle aree rurali e nelle classi socioeconomiche più svantaggiate
L'influenza dei fattori sociali trova sostegno anche nei numerosi casi documentati di «isteria di massa»>, in
cui un gruppo di persone che vivono a stretto contatto, ad esempio compagni di scuola o colleghi di lavoro,
sviluppano sintomi inspiegabili dal punto di vista medico per i quali sarebbe giustificata una diagnosi di
disturbo di conversione.

TRATTAMENTO DEI DISTURBI DA SINTOMI SOMATICI.


Uno dei maggiori ostacoli al trattamento di questi disturbi sta nella scarsa propensione di chi ne soffre a
rivolgersi agli specialisti della salute mentale.

I pazienti potrebbero risentirsi quando il medico li indirizza da uno specialista della salute mentale.

Non è una buona idea per un medico cercare di convincere questi pazienti che loro sintomi siano cacciati da
fattori psicologici: nella grande maggioranza, i sintomi somatici e dolorosi hanno sia componenti fisiche sia
psicologiche, quindi non ha senso che il medico discuta col paziente la fonte dei suoi sintomi.

Anziché cercare di indirizzare i pazienti servizi psichiatrici, molti programmi innovativi prevedono di
formare i medici generici a trattare nel modo corretto chi soffre di un disturbo da sintomi somatici.
TERAPIE COGNITIVO COMPORTAMENTALI.
Questi metodi sono finalizzati ad aiutare il paziente a:
1. Individuare e modificare le emozioni che prova con i problemi somatici
2. Modificare i pensieri relativi ai sintomi fisici
3. Modificare i comportamenti in modo da smettere di assumere il ruolo di malato e ottenere maggiori
rinforzi da interazioni sociali di tipo diverso.

Tecniche come il training di rilassamento si sono dimostrate efficaci nel ridurre la depressione in ansia,
riduzioni che a sua volta porta a una diminuzione di sintomi somatici.

Strategie cognitive messe in atto: training per prestare meno attenzione al proprio corpo, aiutare il
paziente a identificare, mettere in discussione i pensieri negativi sul proprio corpo.

La terapia cognitivo comportamentale è risultata altrettanto efficace degli antidepressivi nel ridurre i
sintomi dell’ansia la malattia.

TRATTAMENTO CON ANTIDEPRESSIVI PER I DISTURBI DA SINTOMI SOMATICI ACCOMPAGNATI DA


DOLORE
Sono utili per trattare un disturbo del sintomi somatici, quando il sintomi più rilevante è il dolore. Alcuni
farmaci depressivi in basse dosi, in particolare l’imipramina, sono superiori ad un placebo nel ridurre il
dolore cronico e il distress ad esso associato.

CAPITOLO 9
SCHIZOFRENIA
La schizofrenia è una psicosi caratterizzata da pensiero disorganizzato, in cui le idee non sono collegate fra
loro in maniera logica, percezione distorta, difficoltà a focalizzare l’attenzione, mancanza di espressività
emozionale, alterazioni comportamentali.

Capitolo del DSM5 “Disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici”. Comprende:
• Schizofrenia.
• Disturbo schizotipico (di personalità).
• Disturbo schizoaffettivo.
• Disturbo delirante.
• Disturbo schizofreniforme
• Disturbo psicotico breve.

Criteri diagnostici SCHIZOFRENIA.


A) Due (o più) dei seguenti sintomi, ciascuno presente per un periodo di almeno 1 mese. Almeno uno di
questi sintomi deve essere l’1, il 2 o il 3
1. Deliri
2. Allucinazioni
3. Eloquio disorganizzato
4. Comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico
5. Sintomi negativi
B) A partire dall’esordio del disturbo si è manifestato in declino delle capacità lavorative e relazionali, e
nella capacità di prendersi cura di se stessi.
C) Segni continuativi del disturbo persistono per almeno 6 mesi o durante la fase prodromica o residuale ci
sono sintomi negativi oppure due o più dei sintomi 1-4 in forma attenuata.
QUADRO CLINICO DELLA SCHIZOFRENIA.
La gamma di sintomi che danno adito ad una diagnosi di schizofrenia è vasta, anche se i soggetti con questo
disturbo manifestano di volta in volta solo alcuni di questi sintomi in un determinato momento. I sintomi
della schizofrenia sono ascritti a te vaste dimensioni: positiva, negativa e disorganizzativa.

SINTOMI POSITIVI.
I sintomi positivi comprendono eccessi distorsioni, come le allucinazioni e deliri. In genere gli episodi acuti
di schizofrenia sono caratterizzati da sintomi positivi.

DELIRI.
Convinzioni contrarie alla realtà dei fatti e nutrite malgrado le evidenze che le contraddicono, sono comuni
sintomi positivi della schizofrenia.

- Inserzione del pensiero. La persona crede che pensieri estranei vengano posti nella sua mente da una
fonte esterna (una donna potrebbe credere che il governo avrebbe inserito un microchip nel cervello in
modo da poter immettere pensieri nella sua mente).

- Diffusione del pensiero. La persona crede che i suoi pensieri vengano trasmessi o diffusi, così che ne
vengono a conoscenza anche gli altri. Un uomo che cammina per strada guarda con sospetti passanti,
credendo che siano in grado di sentire ciò che pensa, anche se non dice niente ad alta voce.

- La persona crede che i suoi sentimenti o i suoi comportamenti siano controllati da una forza esterna. Può
credere che il suo comportamento sia controllato dai segnali emessi dai ripetitori della telefonia mobile.

- Deliri di grandezza. La persona manifesta un senso esagerato della sua importanza, del suo potere, delle
sue conoscenze o della sua identità. Ad esempio, una donna può credere di essere in grado di fare cambiare
direzione del vento semplicemente muovendo le mani.

- Deliri di persecuzione. La persona è convinta che le altre persone stiano complottando contro di lei, con
dispositivi sofisticati, e allo scopo di screditarla. La persona controlla sempre se ci sono microspie e quando
incontro sconosciuto, lo interroga a lungo per stabilire se faccia parte del complotto contro di lei.

- Idee di riferimento. La persona incorpora eventi ordinari all’interno di un sistema delirante e legge un
significato personale delle più comuni attività. Le persone con questo sintomo potrebbero pensare che
frammenti di conversazione colti per caso si riferiscano a loro, che la frequente presenza di una certa
persona per strada che esse percorrono abitualmente significa che sono sorvegliati, e che quello che
vedono in televisione le riviste faccia in qualche modo riferimento al loro.

ALLUCINAZIONI E ALTRI DISTURBI DELLA PERCEZIONE.


Spesso le persone con schizofrenia riferiscono che il mondo appare loro diverso, in qualche misura, o
perfino irreale.

Le distorsioni più drammatiche della percezione sono le allucinazioni, esperienze sensoriali in assenza di
alcuno stimolo ambientale rilevante. Sono spesso più uditive che visive (schizofrenici riferiscono di sentire
una voce estranea che ripete i loro pensieri; altri sostengono di sentire delle voci che litigano e altro ancora
delle voci che fanno commenti sul loro comportamento). Per molte persone queste allucinazioni sono
esperienze spaventose o estremamente sgradevoli.

Diversi studi sostengono gli individui che hanno allucinazioni acustiche operano l’attribuzione erronea
percependo come altrui la propria voce.
Quando gli individui con schizofrenia riferiscono di sentire delle voci, vi è una maggiore attività nell’area di
Broca, un’area della corteccia frontale implicata nella produzione del linguaggio e nell’area di Wernicke,
un’area della corteccia temporale che sostiene la capacità di comprensione del linguaggio.

Quindi, potrebbe esservi un problema di connessione tra le aree del lobo frontale preposte alla produzione
dell’eloquio e le aree del lobo temporale preposte alla comprensione dell’eloquio

SINTOMI NEGATIVI.
I sintomi negativi consistono in deficit comportamentali come diminuzione della motivazione, delle
relazioni sociali, del piacere e dell’espressione delle emozioni.
Questi sintomi tendono a perdurare oltre l’episodio acuto e hanno effetti profondi sull’esistenza degli
individui con schizofrenia.

ABULIA o apatia, si manifesta con una mancanza di motivazione e un apparente disinteresse per le
consuete attività quotidiane, oppure con l’incapacità di portarli a termine, compresi gli impegni lavorativi
scolastici, gli hobby o le attività sociali. Le persone con abulia possono non essere motivate a guardare la
tivù o a uscire con gli amici, spesso trascorrono gran parte del tempo sedendo senza far nulla. Le persone
con schizofrenia possono avere problemi di motivazione per certi aspetti della vita, ma non per altri, infatti
si sono mostrati motivati per attività che riguardavano il diminuire la noia piuttosto che le attività che
avevano a che fare con l’acquisire nuove conoscenze.

ASOCIALITÀ: Con questo termine si fa riferimento al fatto che alcuni individui schizofrenici presentano gravi
compromissioni nei rapporti sociali. Hanno pochi amici, scarsa abilità sociali e sono poco interessati a stare
insieme agli altri è possibile che non desiderino avere relazioni profonde con familiari, amici o partner, e
che preferiscano trascorrere molto del loro tempo da soli. Quando sono con altri tendono a relazionarsi
solo in modo superficiale e per breve tempo e appaiono distaccate ed indifferenti rispetto all’interazione
sociale.

ANEDONIA: Perdita di interesse per l’esperienza del piacere o una riferita diminuzione di tale esperienza. Si
riferisce a due tipi di esperienze piacevoli:
- Piacere consumatorio, cioè l’entità di piacere esperito nel qui e ora o in presenza di qualcosa di
accattivante. Ad esempio, il piacere che si prova mentre si mangia un buon pasto è un piacere
consumatorio.
- Piacere anticipatorio, si riferisce al piacere che ci aspettiamo o prevediamo che ci derivi dai eventi futuri.
Ad esempio, il piacere che ci si aspetta di trovare al momento in cui ci si laurea è un piacere anticipatorio.

Le persone affette da schizofrenia sembrano avere un deficit di piacere anticipatorio ma non di piacere
consumatorio.

APPIATTIMENTO DELL’AFFETTIVITÀ: con questo termine si fa riferimento a una mancanza di


manifestazione delle emozioni. Un paziente con questo sintomo fissa lo sguardo nel vuoto, ha i muscoli
mimici immobili, gli occhi privi di vita. Quando parla ha un tono di voce incolore, senza guardare chi gli sta
parlando.
Questo concetto si riferisce solo all’espressione esterna delle emozioni e non all’esperienza interiore del
paziente, che non è affatto impoverita. Individui con schizofrenia riferiscono di esperire le emozioni con la
stessa, o perfino con una maggiore, intensità rispetto alle persone che non presentano questo disturbo.

ALOGIA Con questo termine si fa riferimento ad una significativa riduzione della quantità di eloquio. Le
persone con questo disturbo non parlano molto: rispondono ad una domanda con una o due parole, ed è
improbabile che elaborino poi la risposta fornendo ulteriori dettagli ad esempio, se si chiede ad una
persona con alogia di scrivere un’esperienza felice, questa potrebbe rispondere “sposarsi” senza riuscire ad
aggiungere altro anche se sollecitata a espandere quell’informazione.
SINTOMI DISORGANIZZATI.
Comprendono l’eloquio e il comportamento disorganizzato.

ELOQUIO DISORGANIZZATO o disturbo formale del pensiero. Si riferisce all’incapacità di organizzare le idee
e di parlare in modo che un ascoltatore possa comprendere. Benché nei colloqui il soggetto schizofrenico
faccia ripetuti riferimenti ad un tema o a talune idee centrali, le immagini e i frammenti di pensiero non
sono connessi; è difficile capire cosa esattamente egli cerchi di dire.

Talvolta l’eloquio reso confuso da ciò che viene chiamato allentamento dei nessi associativi o
deragliamento, nel qual caso il paziente può riuscire in qualche modo a comunicare con un ascoltatore, ma
ha difficoltà a rimanere argomento. A volte, la persona con questo sintomo sembra lasciarsi andare alla
deriva sulla scia di una serie di associazioni evocate da un’idea proveniente dal passato.

Le stesse persone affette da schizofrenia, quando parlano di questo Stato, dicono che i pensieri si fanno
confusi, che cominciano a parlare di qualcosa ma non arrivano mai a fondo. Si smarriscono divagando nella
direzione sbagliata e vengono catturati dalle cose più disparate, che a volte sono connesse con quello che
vogliono dire, ma in un modo che non riescono a spiegare che il guaio sia fatto che hanno troppi pensieri.

L’eloquio disorganizzato non è associato con problemi della produzione del linguaggio ma è associato con
problemi a livello delle funzioni esecutive, cioè il problem solving, la capacità di pianificare e quella di
operare associazioni tra pensieri ed emozioni e collegato anche alla capacità di percepire informazioni
semantiche.

IL COMPORTAMENTO DISORGANIZZATO
Può assumere diverse forme. Persone con questo sintomo possono avere inesplicabili attacchi di
agitazione, esibire un abbigliamento inconsueto, comportarsi in maniera infantile o sciocca, ammassare
generi alimentari o raccogliere l’immondizia. Sembrano perdere la capacità di organizzare il proprio
comportamento e renderlo conforme agli standard collettivi. Hanno inoltre difficoltà nell’esecuzione di
attività della vita quotidiana.
Nel DSM-5 una manifestazione del comportamento disorganizzato è definita CATATONIA: le persone con
questo sintomo possono gesticolare ripetutamente, attuando sequenze di movimenti delle dita, della mano
del braccio peculiari e talvolta complesse, che spesso, nonostante la loro stranezza, appaiono finalizzate ad
uno scopo. Alcune persone manifestano in insolito incremento del livello complessivo di attività; può
esserci molta eccitazione, un’agitazione sfrenata degli arti e grande dispendio di energia simile a quello che
si osserva nella mania.

All’estremo opposto c’è l’immobilità catatonica le persone assumono e mantengono posizioni inconsuete
per periodi di tempo molto lunghi, gli arti dei pazienti catatonici possono presentare anche la cosiddetta
flessibilità cerea, se qualcuno sposta il braccio il paziente in posizioni strane, questo lo manterrà per lunghi
periodi di tempo. Questa forma di schizofrenia si osserva raramente, probabilmente perché la terapia
farmacologica agisce con efficacia su questi processi motori patologici.

La schizofrenia e il DSM-5
Il DSM-5 richiede almeno 6 mesi di sintomi continuativi perché si possa arrivare alla diagnosi del disturbo. Il
periodo di 6 mesi deve includere almeno un mese di episodio acuto o fase attiva, definito dalla presenza di
almeno due dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento
disorganizzato e sintomi negativi. Il tempo rimanente richiesto per poter formulare la diagnosi può
includere un periodo precedente o uno successivo alla fase attiva.
Il cambiamento più grande introdotto nel DSM-5 è stato l’eliminazione dei sottotipi di schizofrenia
Un altro cambiamento è stato l’inserimento dei gradi di gravità per ognuno dei 5 sintomi.
La schizofrenia fa parte del capitolo del DSM-5 intitolato “Disturbi dello spettro della schizofrenia e altri
disturbi psicotici”.
Altri due disturbi psicotici di breve durata sono:
- Disturbo schizofreniforme: i sintomi sono uguali a quelli della schizofrenia, ma durano da 1 a 6 mesi →
(≥ 1 mese e non più di 6 mesi)
- Disturbo psicotico breve: consiste in deliri, allucinazioni o altri sintomi psicotici che durano almeno 1
giorno ma < 1 mese, con successivo ritorno al normale funzionamento premorboso, è spesso causato
da uno stress di estrema gravità come la perdita di una persona cara

Per i due disturbi i sintomi sono uguali a quelli della schizofrenia, ma devono comprendere allucinazioni,
deliri o eloquio disorganizzato

Inoltre, sono compresi anche:


- Disturbo schizoaffettivo: consiste in una combinazione di sintomi della schizofrenia e dei disturbi
dell’umore. Il DSM-5 richiede per la diagnosi un episodio depressivo o uno maniacale.
- Disturbo delirante: una persona con questo disturbo è angosciata da persistenti deliri di persecuzione
oppure di gelosia delirante, cioè l’infondata convinzione che il proprio coniuge o amante si è severi.
Altri deliri sono quelli di erotomania (convinzione di essere amati da una persona che, di solito, è
completamente estranea e con uno status sociale più elevato) e i deliri somatici (convinzione di avere
una possibile patologia medica). Il disturbo delirante è caratterizzato da false credenze fermamente
mantenute che persistono per almeno 1 mese, senza altri sintomi di psicosi.

Infine, nelle “Condizioni che necessitano di ulteriori studi” è inclusa una condizione detta sindrome di
psicosi attenuata

TRATTAMENTO DELLA SCHIZOFRENIA.


Un problema che si presenta con qualsiasi tipo di trattamento della schizofrenia e che alcuni pazienti non si
rendono conto della loro condizione e rifiutano ogni tipo di cura. Coloro che mancano di questa
consapevolezza, e perciò non ritengono di avere una malattia, non sento il bisogno di ricorrere ad un
supporto specialistico, in particolare se questo comporta il ricovero o l’assunzione di farmaci. Di
conseguenza i familiari devono affrontare serie difficoltà per indurre il loro congiunto ad intraprendere un
trattamento e questa è una delle ragioni per cui essi ricorrono, talvolta come ultima risorsa, al ricovero
coatto.

TERAPIE FARMACOLOGICHE.
Negli anni Cinquanta si trovò che alcuni sintomi della schizofrenia venivano alleviati da una classe di farmaci
denominati globalmente farmaci antipsicotici, o anche neurolettici perché producono effetti collaterali
analoghi ai sintomi di certe malattie neurologiche.
i trattamenti farmacologici hanno reso possibile ad alcune persone con schizofrenia condurre la propria
esistenza al di fuori dell'ospedale. Come vedremo, però, anche i farmaci hanno i loro limiti.

FARMACI ANTIPSICOTICI DI PRIMA GENERAZIONE (NEUROLETTICI).


Per antipsicotici di prima generazione si intendono quelle ampie classi farmacologiche che comprendono i
composti ad azione antipsicotica scoperti per primi. Queste classi di farmaci sono in grado di ridurre i
sintomi positivi e disorganizzati della schizofrenia, ma hanno poco o nessun effetto su quelli negativi,
forse perché il loro meccanismo d'azione primario consiste nel bloccare i recettori D2 della dopamina. Si
ricordi da quanto detto in precedenza che la teoria dopaminergica contribuisce a spiegare i sintomi positivi
ma non quelli negativi. Malgrado l'entusiasmo con cui vengono prescritti, questi farmaci non costituiscono
una cura. Circa il 30% dei soggetti con schizofrenia non risponde favorevolmente agli antipsicotici di prima
gene razione; inoltre, circa la metà di coloro che assumono farmaci antipsicotici interrompe l'assunzione
dopo un anno e circa i tre quarti dopo due anni, perché gli effetti collaterali sono piuttosto spiacevoli A
coloro che rispondono positivamente agli antipsicotici solitamente vengono poi prescritte le cosiddette
dosi di mantenimento del farmaco, ovvero solo la quantità necessaria e sufficiente perché l'effetto
terapeutico possa man tenersi. In breve, anche se alcuni sintomi scompaiono, molte persone con
schizofrenia conducono comunque un'esistenza non soddisfacente.

Fra gli effetti collaterali degli antipsicotici più spesso riferiti vi sono capogiri, vista sfocata, irrequietezza
motoria e disfunzioni sessuali.
Inoltre, alcuni effetti collaterali particolarmente fastidiosi, detti effetti extrapiramidali, assomigliano ai
sintomi del morbo di Parkinson. Le persone che assumono farmaci antipsicotici possono presentare tremori
alle dita, un passo strascicato e scialorrea.
Altri effetti collaterali comprendono distonia, ossia uno stato di rigidità muscolare, e discinesia, ossia
movimenti anomali dei muscoli volontari e involontari; quest'ultima produce, ad esempio, movimenti simili
alla masticazione nonché altri movimenti delle labbra, delle dita e delle gambe.
Un altro effetto collaterale è l'acatisia, una incapacità a rima nere fermi che induce a camminare e ad
agitarsi senza posa.
In un raro disturbo muscolare, detto discinesia tardiva, i muscoli della bocca compiono involontariamente
movimenti di suzione, schioccamento delle labbra e tremore al mento. Nei casi più gravi l'intero corpo può
essere soggetto a movimenti involontari. Questa sindrome si osserva principalmente nei soggetti più
anziani che sono stati trattati con antipsicotici di prima generazione, quando non erano ancora stati
sviluppati farmaci in grado di prevenire lo sviluppo di discinesia tardiva.
Il disturbo colpisce circa il 10-20% dei soggetti trattati a lungo con antipsicotici di prima generazione, e
finora si è dimostrato refrattario a qualsiasi trattamento conosciuto.
Infine, una rara complicazione, detta sindrome maligna da neurolettici, si verifica in circa l'1% dei casi. In
questa condizione, che a volte è fatale, si sviluppa una grave rigidità muscolare accompagnata da febbre. La
frequenza cardiaca si fa estremamente rapida, la pressione arteriosa aumenta e la persona può entrare in
coma.
A causa di questi seri effetti collaterali alcuni clinici ritengono imprudente prescrivere dosi elevate di
antipsicotici per lunghi periodi di tempo. Attualmente le linee guida alla pratica clinica formulate
dall'American Psychiatric Association prevedono che i dosaggi dei farmaci impiegati nel trattamento siano i
più bassi possibile (APA, 2004). Questa situazione pone il clinico in un vicolo cieco: se l'assunzione di
farmaci viene ridotta, aumentano le possibilità di una ricaduta; ma se l'assunzione viene protratta a lungo,
si possono sviluppare effetti collaterali gravi e incurabili.

Farmaci antipsicotici di seconda generazione e i loro effetti collaterali


Nei decenni successivi all'introduzione dei farmaci antipsicotici di prima generazione, vi fu scarso interesse
a sviluppare nuovi farmaci per trattare la schizofrenia. Questa situazione è cambiata circa venti cinque anni
fa con l'approvazione negli Stati Uniti della clozapina (nome commerciale Leponex). I primi studi condotti
su questa sostanza indicavano che essa era in grado di produrre miglioramenti terapeutici in soggetti affetti
da schizofrenia che non rispondevano positivamente agli antipsicotici di prima generazione. Rispetto a
questi, la clozapina è risultata essere un farmaco con minori effetti collaterali, tassi più bassi di recidive e
minori probabilità che i soggetti abbandonino il trattamento.
Ricercatori e clinici capirono ben presto, tuttavia, che anche la clozapina può indurre effetti collaterali. In
una piccola percentuale di persone (circa l'1%) essa può ridurre la funzionalità del sistema immunitario
facendo diminuire il numero dei globuli bianchi, una condizione detta agranulocitosi, che rende le persone
vulnerabili alle infezioni e può essere perfino letale. Per questa ragione coloro che assumono clozapina
devono essere attentamente monitorati con periodiche analisi del sangue. La clozapina può causare anche
convulsioni e altri effetti collaterali come vertigini, affaticamento, scialorrea e aumento ponderale
Nonostante queste difficoltà, l'evidente successo della clozapina stimolò le aziende farmaceutiche a dare
nuovo impulso alla ricerca di altre sostanze che potessero rivelarsi più efficaci rispetto agli antipsicotici di
prima generazione. A queste sostanze, clozapina inclusa, si fa riferimento come agli antipsicotici di seconda
generazione, perché il loro meccanismo d'azione differisce da quello dei farmaci antipsicotici tipici o di
prima generazione. Due antipsicotici di seconda generazione sviluppati dopo la clozapina
sono la olanzapina (nome commerciale Zyprexa) e il risperidone (nome commerciale Risperdal).
I primi studi condotti su queste due sostanze evidenziarono minori effetti collaterali rispetto agli
antipsicotici di prima generazione, con ciò suggerendo che le persone potrebbero essere meno inclini a
interrompere il trattamento. Tuttavia, studi successivi non hanno replicato questi risultati. Secondo una
recente meta-analisi che ha messo a confronto tra loro gli antipsicotici di seconda generazione, tutti
producono all'incirca gli stessi risultati, con alcuni vantaggi nel ridurre i sintomi positivi osservati per la
clozapina e l'olanzapina.
Gli antipsicotici di seconda generazione risultano essere altrettanto efficaci degli antipsicotici di prima
generazione nel ridurre i sintomi positivi e disorganizzati, in particolare in quelle persone che non hanno
avuto una risposta positiva ad almeno due altri tipi di farmaco.
Tuttavia, è stato dimostrato che solo alcune sostanze, non tutte, di seconda generazione erano un po' più
efficaci rispetto a quelle di prima genera zione nel ridurre i sintomi negativi e migliorare i deficit. cognitivi
Tuttavia, uno studio recente non ha trovato differenze tra farmaci di prima e di seconda generazione ad
azione prolungata (cioè iniettabili) riguardo alle ricadute e agli effetti collaterali avversi
Altre ricerche suggeriscono che gli antipsicotici di seconda generazione siano efficaci anche nel migliorare
gli aspetti cognitivi, come l'attenzione e la memoria, di cui sono noti i deficit in molte persone con
schizofrenia e il loro essere associati con scarso funzionamento sociale (Green, 1996). Numerosi studi
suggeriscono che questi farmaci antipsicotici siano più efficaci di quelli di prima generazione nel migliorare
il funzionamento cognitivo.
Più in generale, gli antipsicotici di seconda generazione possono quindi rendere possibile apportare
cambiamenti più vasti e profondi nella schizofrenia e nelle sue conseguenze comportamentali di quanto
non sia possibile ottenere con i farmaci che non influiscono sulle abilità cognitive. Altre evidenze
suggeriscono, tuttavia, che anche i trattamenti psicologici siano efficaci - e forse ancora
di più - nell'alleviare i deficit cognitivi.
Tuttavia le notizie dal fronte degli antipsicotici di nuova generazione non sono tutte buone. Un ampio trial
clinico randomizzato e controllato (detto Clinical Antipsychotic Trials of Intervention Effectiveness, CATIE)
ha messo a confronto tra loro quattro antipsicotici di seconda generazione (olanzapina, risperidone,
ziprasidone e quetiapina) e uno di prima generazione.
I risultati hanno dimostrato:
- In primo luogo, i farmaci di seconda generazione non si sono dimostrati più efficaci dei farmaci di
prima generazione.
- In secondo luogo, i farmaci di seconda generazione non hanno minori effetti collaterali spiacevoli.
- E in terzo luogo, quasi i tre quarti dei soggetti hanno interrotto il trattamento prima che avessero fine i
18 mesi previsti per lo studio.

Benché inizialmente i farmaci di seconda generazione fossero sembrati promettenti, è chiaro ormai che
occorre ancora molto lavoro per migliorare i trattamenti farmacologici per la schizofrenia.
Inoltre, altri studi indicano che gli antipsicotici di seconda generazione possono produrre seri effetti
collaterali. Innanzitutto, anche queste sostanze possono produrre effetti collaterali extrapiramidali.
In secondo luogo, i farmaci di seconda generazione causano incremento ponderale che, oltre a essere
spiacevole, l'aumento di peso è associato ad altri seri problemi di salute, come ipercolesterolemia ed
elevati livelli di glucosio nel sangue, questi ultimi possibile causa di diabete di tipo 2.

Valutazione dei trattamenti farmacologici


I farmaci antipsicotici sono una componente indispensabile del trattamento della schizofrenia e
continueranno indubbiamente a esserlo. Inoltre, il limitato successo della clozapina, dell'olanzapina e del
risperidone - ovvero degli antipsicotici di seconda generazione - ha stimolato la prosecuzione dello sforzo
per trovare nuove e più efficaci terapie farmacologiche per la schizofrenia. Attualmente sono in corso di
sperimentazione nuovi farmaci, ma nessuno dei composti sviluppati finora ha portato progressi davvero
significativi. Quindi possiamo dire di essere ancora lontani dalla «terza generazione» di farmaci
antipsicotici.

TRATTAMENTI PSICOLOGICI
I limiti degli antipsicotici hanno dato impulso agli sforzi per sviluppare trattamenti psicosociali da affiancare
a quelli farmacologici. Le attuali raccomandazioni per il trattamento della schizofrenia compilate dal Patient
Outcomes Research Team (PORT) prevedono terapia farmacologica associata a interventi psicosociali
TRAINING PER LE ABILITÀ SOCIALI.
Si propone di far apprendere agli individui con schizofrenia come gestire con successo un’ampia gamma di
situazioni interpersonali, dal non passa al ristorante, a compilare una domanda di assunzione. Persone
affette da schizofrenia possono non dare per scontate queste attività.

TERAPIE FAMILIARI
Migliorano la comunicazione e le abilità di problem-solving all’interno della famiglia.

TERAPIE COGNITIVO-COMPORTAMENTALI.
Le convinzioni di trattative di alcuni pazienti possono di fatto essere modificate attraverso interventi
cognitivo-comportamentali.

TERAPIE DI RIABILITAZIONE COGNITIVA.


Ha lo scopo di migliorare le funzioni cognitive e quindi influire favorevolmente sul comportamento.

Sono trattamenti che cercano di migliorare le funzioni cognitive di base, come la capacità di apprendimento
verbale

INTERVENTI PSICOEDUCATIVI.
Interventi con i quali si cerca di educare le persone ad affrontare la propria malattia conoscendone meglio i
sintomi, i fattori di innesco biologici e psicologici dei sintomi e le strategie di trattamento.

CASE MANAGEMENT
Il case manager è una figura specialistica nata negli anni 70 nell’ambito della salute mentale per aiutare gli
individui con schizofrenia a orientarsi nel mondo della salute mentale dopo essere stai dimessi dagli
ospedali psichiatrici.
I case manager sono dei mediatori di servizio, riuniscono e coordinano la gamma di servizi medici e
psicologici di cui i soggetti con schizofrenia hanno bisogno per continuare a vivere all’esterno delle
istituzioni con un certo grado di indipendenza e serenità mentale. Può essere definito un gruppo
multidisciplinare che fornisce servizi alla collettività, spaziando dal trattamento farmacologico, al
trattamento per l’abuso di sostanze, all’aiuto nei confronti dei fattori di stress con cui gli individui con
schizofrenia si confrontano regolarmente

TRATTAMENTO RESIDENZIALE.
I casi di trattamento residenziale sono buone alternative per quelle persone che non hanno bisogno di
rimanere in ospedale, ma non stanno ancora abbastanza bene da vivere da sole o con la famiglia sono
residenze protette, dove le persone dimesse dall’ospedale vivono, consuma i pasti e tornano gradualmente
la vita normale svolgendo un lavoro part-time o andando a scuola (riabilitazione occupazionale).

CAPITOLO 10. I DISTURBI DA USO DI SOSTANZE


DISTURBO DA USO DI SOSTANZE
Il DSM-5 contiene categorie specifiche per le diverse sostanze, tra cui alcol, oppiacei e tabacco. Il DSM-5
include anche la nuova categoria del disturbo da gioco d'azzardo nel capitolo dedicato ai di sturbi correlati
a sostanze e disturbi da addiction. Il termine addiction (dipendenza) indica una forma più grave di disturbo
da uso di sostanze.
I livelli di gravità del disturbo definiti nel DSM-5 sono classificati in base al numero di criteri soddisfatti:
- Lieve: 2-3 criteri
- Moderato: 4-5 criteri
- Grave: 6 o più criteri

Due sintomi che spesso accompagnano la forma grave del disturbo da uso di sostanze sono la tolleranza e
l'astinenza.
• La tolleranza si manifesta attraverso (1) la necessità di assumere la sostanza in dosi sempre più alte per
ottenere l'effetto desiderato, oppure (2) la marcata riduzione degli effetti quando la sostanza viene
assunta nella quantità abituale.
• I sintomi di astinenza (withdrawal) sono gli effetti negativi fisici e psicologici che si manifestano quando
la persona smette di assumere la sostanza o ne riduce la quantità. I sintomi di astinenza da una
sostanza comprendono dolori e spasmi muscolari, sudorazione profusa, vomito, diarrea e insonnia.

Criteri diagnostici disturbo da uso di sostanze


Uso disadattivo di una sostanza, tale da causare una menomazione significativa del funzionamento della
persona. Devono essere presenti due o più dei seguenti sintomi nell'arco di un anno:
• La persona non riesce a mantenere i suoi obblighi e impegni sociali.
• L'uso della sostanza è ripetuto anche in situazioni in cui è fisicamente pericoloso.
• Ripetuti problemi di relazione legati alla sostanza.
• La persona continua a usare la sostanza, nonostante i problemi che essa causa.
• Tolleranza.
• Astinenza.
• La sostanza viene assunta per un periodo più lungo o in quantità maggiori di quello che la persona
vorrebbe.
• I tentativi di ridurne o controllarne l'uso non hanno successo.
• La persona dedica molto del suo tempo a cercare di procurarsi la sostanza.
• La persona rinuncia o riduce le attività sociali, ricreazionali e lavorative.
• Il bisogno (craving) di usare la sostanza è forte.

IL DISTURBO DA USO DI ALCOL


Le persone che sviluppano dipendenza fisiologica dall'alcol di solito manifestano sintomi più gravi, come
tolleranza o sindrome da astinenza, rispetto ai soggetti che non presentano tali sintomi. La repentina
astinenza dall'alcol può produrre effetti drammatici in una persona con una pesante e cronica abitudine al
bere, perché il suo organismo si è ormai assuefatto alla sostanza. In particolare, in questi casi la persona
può sentirsi in ansia, depressa, debole, agitata e non in grado di dormire. Può manifestare tremori
muscolari, soprattutto a livello delle dita, del volto, delle palpebre, delle labbra e della lingua; inoltre può
avere frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura corporea elevate.

In casi relativamente rari, una persona che abbia assunto forti quantità di alcol per diversi anni può arrivare
a manifestare delirium tremens quando la concentrazione di alcol nel sangue diminuisce bruscamente. Nel
soggetto si manifestano allora delirio, tremori e allucinazioni, soprattutto visive, ma anche tattili.
L'individuo può arrivare a vedere creature ripugnanti come serpenti, scarafaggi, ragni e simili, arrampicarsi
sulle pareti o sul suo corpo, o riempire la stanza col loro brulichio. Febbricitante, disorientato e atterrito, il
soggetto può arrivare a graffiarsi freneticamente pur di strapparsi quegli animali di dosso.
Il disturbo da uso di alcol è spesso associato all'uso di altre sostanze. Si stima, ad esempio, che l'80-85% dei
soggetti che abusano di alcol siano anche fumatori. Questo livello piuttosto alto di comorbilità può spiegarsi
col fatto che l'alcol e la nicotina sono sostanze con tolleranza crociata: ovvero, la nicotina può indurre
tolleranza per gli effetti di ricompensa dell'alcol e viceversa. Quindi il consumo di entrambe le sostanze può
aumentare per mantenere inalterato il livello di gratificazione. Evidenze emerse da studi su animali
suggeriscono che ciò possa avvenire perché la nicotina influenza l'azione dell'alcol sulle vie cerebrali
governate dalla dopamina, vie che sono associate con gli effetti di ricompensa.

Prevalenza del disturbo da uso di alcol


Il consumo di alcol è forte soprattutto tra i giovani adulti, in particolare ai primi anni di università. Ciò vale
sia per il «bere compulsivo» (binge drinking, definito come l'assunzione di cinque drink in un breve periodo
di tempo, ad esempio in un'ora), sia per il «bere pesante» (heavy use drinking), definito come il bere cinque
drink nella stessa occasione, cinque o più volte in un arco di 30 giorni. Tra gli studenti universitari, maschi e
femmine, i tassi di prevalenza del <<bere compulsivo» e del «bere pesante» sono risultati, rispettivamente,
del 39,5% e del 12,7% nel 2012.
Il bere compulsivo può avere gravi conseguenze. Le stime indicano che negli USA ogni anno muoiono fino a
1800 studenti per incidenti d'auto legati al consumo di-alcool
L'alcol è un problema più per gli uomini che per le donne, sebbene si osservi una certa variabilità a seconda
dell'età.
I tassi di prevalenza dei problemi legati all'alcol differiscono a seconda del gruppo etnico di appartenenza.
Gli adolescenti e gli adulti americani di origine europea e ispanica hanno più probabilità di darsi al binge
drinking rispetto ai coetanei afroamericani. In effetti tra gli adolescenti e gli adulti afroamericani la
frequenza del bere pesante è più bassa che tra gli americani di origine europea, forse a causa di restrizioni
culturali all'uso dell'alcol che vigono nelle comunità afroamericane
I disturbi da uso di alcol presentano comorbilità con diversi disturbi di personalità, con i disturbi dell'umore,
la schizofrenia ei disturbi d'ansia, oltre che con l'uso di altre sostanze.

Effetti a breve termine dell'alcol


Dopo essere stato ingerito e aver raggiunto lo stomaco, l'alcol inizia a essere metabolizzato dall'azione di
enzimi. Quindi passa per la maggior parte nell'intestino tenue e di qui viene assorbito nel sangue. L'alcol
viene poi degradato principalmente nel fegato, che è in grado di metabolizzare in un'ora circa 30 g di
liquore con una gradazione alcolica del 50%.

Gli effetti dell’alcol variano col variare della sua concentrazione nel circolo ematico; questa a sua volta
dipende dalla quantità di alcol ingerita in un determinato intervallo di tempo, dalla presenza o meno di cibo
nello stomaco (il cibo trattiene l'alcol e ne riduce il tasso di assorbimento), dal peso e dai depositi adiposi
del bevitore, oltre che dalla maggiore o minore efficienza della sua funzionalità epatica.

Nelle donne, comunque, la concentrazione di alcol nel sangue raggiunge livelli più alti che negli uomini,
anche tenendo conto della differenza di peso a causa di differenze tra i sessi nel contenuto di acqua nei
tessuti

L'alcol produce i propri effetti interagendo con vari sistemi neurali nel cervello. Stimola i recettori GABA,
azione che potrebbe essere all'origine della sua capacità di alleviare la tensione (il GABA, o acido gamma-
ammino butirrico, è uno dei principali neurotrasmettitori ad azione inibitoria; le benzodiazepine, ad
esempio il Valium o lo Xanax, producono sui recettori GABA un'azione analoga a quella dell'alcol). Inoltre,
l'alcol incrementa i livelli di serotonina e di dopamina; da ciò potrebbe dipendere la sua capacità di
produrre effetti piacevoli. Infine, l'alcol inibisce i recettori del glutammato, il che potrebbe spiegare gli
effetti cognitivi dell'intossicazione, quali il rallentamento del pensiero e la perdita di memoria.

Una recente ricerca ha analizzato gli effetti dell'alcol sia sul cervello sia sul comportamento.
gli effetti dell'alcol sul cervello erano localizzati in aree associate a funzioni quali il prendere decisioni e il
monitoraggio degli errori (più precisamente, il giro del cingolo anteriore e la corteccia orbitofrontale). Ciò
ha suggerito che, alla massima concentrazione alcolemica con sentita dalla legge, le persone abbiano ormai
un'efficienza ridotta nel prendere decisioni inerenti alla guida e non si accorgano di commettere errori.

Effetti a lungo termine dell'abuso prolungato di alcol


Il consumo prolungato di alcol causa effetti avversi su quasi tutti i tessuti e gli organi del corpo. Ad esempio,
l'alcol compromette i processi digestivi e l'assorbimento delle vitamine. Nelle persone di età più avanzata
che hanno fatto abuso cronico di alcol, la carenza di vitamine del complesso B può provocare la sindrome
amnesica, una grave perdita di memoria che investe sia gli eventi recenti sia quelli passati.

Il consumo prolungato di alcol, accompagnato da una riduzione dell'apporto proteico, contribuisce allo
sviluppo della cirrosi epatica, una malattia cronica nella quale parte delle cellule epatiche si riempiono di
grassi e proteine, che ne impediscono il normale funzionamento; alcune cellule muoiono e ciò scatena un
processo infiammatorio; con lo sviluppo di tessuto cicatriziale, il flusso ematico nel fegato viene ostruito.

Tra le altre alterazioni organiche più comuni vi sono: danni alle ghiandole endocrine, al cervello e al
pancreas, in sufficienza cardiaca, disfunzione erettile, ipertensione, ictus ed emorragie dei capillari; queste
ultime sono responsabili del gonfiore e del colorito paonazzo del volto, soprattutto del naso, nelle persone
che fanno abuso cronico di alcol.

Il forte consumo di alcol da parte della madre durante la gravidanza è la principale causa conosciuta di
disabilità intellettiva. Lo sviluppo del feto è rallentato e si possono osservare malformazioni del cranio, del
volto e degli arti, una condizione definita sindrome alcolica fetale (SAF o, in inglese, FAS, fetal alcohol
syndrome). Anche un consumo moderato di alcol può avere sul feto effetti indesiderati, pur meno gravi,
tanto da indurre il National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism a consigliare alle donne in gravidanza
la totale astinenza dall'alcol come unica con dotta davvero sicura.

Benché sia giusto concentrare l'attenzione sugli effetti nocivi dell'alcol, esistono evidenze del fatto che
l'alcol può avere anche effetti benefici sulla salute in alcuni in dividui. Un leggero consumo di bevande
alcoliche (meno

IL DISTURBO DA USO DI TABACCO


La nicotina è il principio attivo del tabacco, capace di indurre dipendenza. Le vie neurali da essa attivate
stimo-lano i neuroni dopaminergici nell'area mesolimbica, che probabilmente sono coinvolti negli effetti di
rinforzo della maggioranza delle sostanze psicoattive.
Prevalenza del fumo di sigaretta e sue conseguenze sulla salute
Tra gli altri problemi di ordine medico associati al fumo di sigaretta e quasi certamente causati, o
esacerbati, da un'abitudine al fumo protratta per lungo tempo, vi sono l'enfisema, il cancro della laringe e
dell'esofago, del pancreas, della vescica, della cervice uterina e dello stomaco; complicanze gravidiche; la
sindrome della morte improvvisa del neonato; la periodontite e un gran numero di malattie cardiovascolari.
Probabilmente le componenti più dannose del fumo da combustione del tabacco sono la nicotina, il
monossido di carbonio e il catrame, che è composto principalmente da vari idrocarburi, molti dei quali
sono noti per essere cancerogeni
Il fumo ha una prevalenza maggiore tra gli adolescenti delle comunità di origine europea e ispanica che non
tra gli adolescenti di origine asiatica o afroamericana. In generale, la prevalenza del fumo è maggiore tra gli
uomini che tra le donne. Tuttavia, nella fascia di età fra i 12 ei 17 anni la prevalenza è all'incirca uguale nei
due sessi. Inoltre, il fumo ha una prevalenza maggiore tra gli appartenenti alle classi socioeconomiche più
basse e molto probabilmente contribuisce alla disparità nelle condizioni di salute che si rileva fra ricchi e
poveri negli Stati Uniti.
Le ricerche dimostrano che l'appartenenza a un parti colare gruppo etnico ha un ruolo importante nella
dipendenza da nicotina, insieme alle intricate interazioni tra fattori comportamentali, sociali e
neurobiologici. È noto da tempo che i fumatori di sigarette afroamericani hanno meno probabilità di
riuscire a smettere e hanno invece più probabilità, se continuano a fumare, di ammalarsi di cancro al
polmone. Perché? Si è trovato che nel loro sangue la nicotina resta in circolo più a lungo che nel sangue
degli americani di origine europea, cioè la sostanza viene metabolizzata più lentamente.

Le conseguenze del fumo passivo


I pericoli per la salute derivanti dal fumo di sigaretta non si limitano ai soli fumatori. Il fumo proveniente
dalla sigaretta accesa, il cosiddetto fumo passivo o fumo ambientale, contiene concentrazioni di
ammoniaca, monossido di carbonio, nicotina e catrame più alte di quelle presenti nel fumo inalato dal
fumatore.
I principali effetti del fumo passivo:
• I non fumatori possono subire danni polmonari, anche permanenti, in seguito all'esposizione
prolungata al fumo di sigaretta. Coloro che vivono con un fumatore sono esposti a un rischio più alto.
Lesioni precancerose sono state osservate nei polmoni di persone che vive vano con fumatori; il fumo
passivo comporta un rischio maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari e cancro polmonare.
Inoltre, alcuni non fumatori manifestano reazioni allergiche al fumo prodotto dalla combustione del
tabacco.
• I figli di donne esposte al fumo passivo durante la gravi danza hanno più probabilità di nascere
prematuri, sottopeso e con difetti congeniti.
• I figli di fumatori hanno maggiori probabilità di soffrire di infezioni alle prime vie respiratorie, asma,
bronchiti e otiti, rispetto ai loro coetanei con genitori che non fumano. Il fumo passivo può causare la
sindrome della morte improvvisa del lattante (SIDS, sudden infant death syndrome).

il modo migliore per prevenire i danni da fumo passivo consiste nel promuovere la creazione di ambienti
liberi da fumo, dato che non esistono livelli di esposizione davvero sicuri.

Le sigarette elettroniche
Le sigarette elettroniche (e-cigarettes) paiono vere sigarette, ma sono fatte di plastica o di metallo e
riempite di nicotina liquida mescolata con altri composti chimici e spesso speciali aromi. Queste sigarette
funzionano a batteria (di qui la «<e» che sta per «<elettroniche»): riscaldando il miscuglio a base di nicotina
liquida, il consumatore può inalare ed espirare il vapore, tanto che negli USA il termine vaping è usato
come sino nimo per «fumare una sigaretta elettronica». Alcuni modelli includono un segmento luminoso
all'estremità del tubetto, in modo da imitare l'aspetto di una sigaretta accesa. Questi prodotti sono
presentati sul mercato come alternative sicure alle vere sigarette, perché non contengono il catrame e il
monossido di carbonio che si formano da una vera sigaretta mentre brucia. Per questa ragione le sigarette
elettroniche spesso non sono neppure chiamate <<sigarette»> ma per loro si usano molti appellativi, come
vape pipes (tubetti-vaporizzatori), vaping pens, hookah pens (penne-narghilé) o e-hookahs. Sebbene sia
vero che questi dispositivi non devono necessariamente contenere nicotina (e infatti molti dei prodotti in
vendita contengono solo vapore acqueo addizionato di aromi), tutti sono fatti in modo da permettere al
consumatore di utilizzare nicotina liquida. Alcuni sostengono che le sigarette elettroniche costituiscano
un'alternativa più sicura rispetto alle sigarette che contengono catrame ed altri composti cancerogeni, e
che possano essere di aiuto alle persone che desiderano smettere di fumare le sigarette vere;

MARIJUANA
La marijuana è costituita dalle foglie e dalle infiorescenze, essiccate e triturate, della canapa indiana, la
Cannabis sativa indica. In genere viene fumata, ma può anche essere masticata, bevuta sotto forma di tè o
unita alla prepara zione di dolci e biscotti cotti in forno. L'hashish, molto più forte della marijuana, viene
prodotto essiccando l'essudato resinoso che stilla dalle cime delle piante di cannabis. Nel DSM-5, la
categoria diagnostica che include i problemi da consumo di marijuana è indicata come “disturbo da uso di
cannabis”
La marijuana (sintetica) contiene composti chimici, creati artificialmente, simili a quelli contenuti nella
cannabis. Tali composti sono di solito spruzzati su materiali vegetali inerti, chiusi in piccoli pacchetti e
venduti col nome di Spice o K2. La marijuana sintetica è stata dichiarata illegale nel 2011, ma fra gli studenti
delle scuole superiori il suo consumo continua ad aggirarsi intorno all'11%.

Prevalenza dell'uso di marijuana


La marijuana è la sostanza illecita più frequentemente usata, inoltre è la sostanza più comunemente usata
in tutti i gruppi di età. La prevalenza è maggiore fra gli uomini che fra le donne, con una percentuale di
uomini circa doppia (11,8%) rispetto alle donne (6,6%).

Effetti della marijuana


Analogamente a quanto avviene per la maggior parte delle sostanze psicotrope, legali o il legali, anche per
la marijuana l'uso non è esente da rischi. Il più importante principio attivo della marijuana è il delta-9-
tetraidrocannabinolo (THC). Il contenuto di THC nella marijuana può variare, ma in genere la cannabis oggi
è più potente rispetto a tre decenni fa. Inoltre, oggi vi è la tendenza a fumare dosi più forti che in passato
(un blunt, cioè un sigaro svuotato e riempito di marijuana, contiene più cannabis di un joint o spinello).

Effetti psicologici
Come per la maggioranza delle so stanze, gli effetti intossicanti della cannabis dipendono, in parte, dalla
concentrazione e dal dosaggio in cui viene assunta. Chi fuma marijuana riferisce che la sostanza lo fa sentire
rilassato e socievole. Si è osservato che dosi forti producono rapidi cambiamenti dello stato emozionale,
riducono l'attenzione, rendono frammentato il pensiero, causano difficoltà di memoria e provocano una
sensazione di rallentamento del tempo. Dosi molto forti inducono tal volta allucinazioni e altri effetti
analoghi a quelli dell'LSD, come un intenso senso di panico a volte dovuto alla convinzione che
un'esperienza vissuta come terrificante non avrà mai fine. Regolare la dose può essere difficile, perché può
passare anche mezz’ora prima che la marijuana, fumata, manifesti i suoi effetti; ciò fa sì che molti
consumatori finiscano per avere effetti molto più forti di quelli desiderati.
Moltissime evidenze scientifiche indicano che la marijuana interferisce con il funzionamento cognitivo,
coinvolgendo aree come la pianificazione, la capacità di prendere decisioni, la memoria di lavoro e la
soluzione di problemi.
Diversi studi hanno dimostrato che l'high dovuto alla marijuana riduce le complesse abilità psicomotorie
necessarie per la guida di un veicolo. Lo scadimento della prestazione, che si verifica dopo che il soggetto
ha fumato una o due sigarette di marijuana contenenti il 2% di THC, può perdurare fino a otto ore dopo che
il soggetto ha cessato di ritenersi sotto l'effetto della sostanza; ciò ingenera il peri colo, molto reale, che un
individuo si metta alla guida di una vettura quando ancora non è in grado di farlo adeguatamente.

Effetti fisici
Gli effetti a breve termine della marijuana comprendono occhi arrossati e irritati, secchezza delle fauci e
della gola, aumento dell'appetito, ridotta pressione intra oculare e un leggero aumento della pressione
arteriosa.
Un dato accertato è che l'uso a lungo termine della cannabis danneggia gravemente la struttura e la
funzionalità del polmone. Anche se i consumatori di marijuana fumano un numero di sigarette molto
inferiore rispetto a chi fa uso di tabacco, la maggior parte di loro inala il fumo più profondamente e lo
trattiene molto più a lungo nei polmoni, Poiché la cannabis con tiene alcuni dei cancerogeni presenti anche
nel tabacco, i suoi effetti nocivi sono molto maggiori di quanto in teoria ci si aspetterebbe unicamente in
base al numero assoluto di sigarette o di pipate. Ad esempio, una sigaretta di marijuana fumata in modo
«classico» equivale a cinque sigarette di tabacco rispetto al contenuto di monossido di carbonio, a quattro
sigarette per quanto riguarda il catrame e a dieci in termini di danno alle cellule epiteliali delle vie
respiratorie.
Quali effetti produce la marijuana sul cervello? All'ini zio degli anni Novanta furono identificati nel cervello
due tipi di recettori per i cannabinoidi, definiti CB1 e CB2. I recettori CB1 sono distribuiti in tutto il corpo e il
cervello, ma hanno densità particolar mente elevata nell'ippocampo, una regione del cervello molto
importante per l'apprendimento e la memoria. Sulla base di un numero sempre maggiore di evidenze, si è
giunti alla conclusione che i problemi cognitivi associati al consumo di marijuana siano riconducibili agli
effetti della cannabis su questi recettori nell'ippocampo.
Inoltre, uno studio condotto mediante PET ha messo in luce che fumare marijuana si associava a un
aumento di afflusso ematico alle regioni cerebrali coinvolte nelle emozioni, come l'amigdala e il giro del
cingolo anteriore. Invece una diminuzione di flusso ematico è stata osservata nelle regioni del lobo
temporale associate all'attenzione uditiva; infatti, i soggetti di questo studio, sottoposti a un test di ascolto
mentre erano «sballati» per aver fumato marijuana, fornirono una prestazione scarsa.

Effetti terapeutici e legalizzazione


Le ricerche con dotte a partire dagli anni Settanta hanno portato a individuare numerose applicazioni
terapeutiche della marijuana, tra cui la capacità di ridurre la nausea e la perdita di appetito che
accompagnano la chemioterapia, di trattare i malesseri che accompagnano l'AIDS e nei casi di glaucoma,
dolore cronico, spasmi muscolari e crisi epilettiche.

OPPIACEI
Gli oppiacei comprendono l'oppio e i suoi derivati, ovvero morfina, eroina e codeina. Le sostanze di questo
gruppo sono tutte in grado di produrre dipendenza, e in dosi moderate alleviano il dolore e inducono il
sonno.
Oggi è molto diffuso l'abuso degli oppiacei che possono essere legalmente prescritti come farmaci per la
terapia del dolore, quali l'idrocodone e l'ossicodone.
L'idrocodone, il più delle volte in combinazione con sostanze come l'acetamminofene (o paracetamolo, il
principio attivo della Tachipirina), entra nella composizione di farmaci ad azione analgesica quali il Vicodin,
molto diffuso negli Stati Uniti.
L’ossicodone si trova in farmaci come il Depalgos e l'OxyContin.
Il Vicodin è uno dei farmaci contenenti idrocodone³ di cui si fa maggiore abuso, l'OxyContin lo è tra quelli
contenenti ossicodone.

Prevalenza dell'abuso e della dipendenza da oppiacei


Oggi i principali consumatori di eroina sono uomini e donne che vivono in aree meno urbanizzate, e che
tipicamente incontrano per la prima volta questa sostanza come farmaco antidolorifico loro prescritto.
Gli oppiacei di cui è più frequente l'abuso sono infatti i farmaci di solito prescritti come antidolorifici,
assunti per scopi non medici. L’abuso dei farmaci antidolorifici da prescrizione è più diffuso tra gli uomini
che tra le donne, ed è alto soprattutto fra gli americani di origine europea e i nativi americani.
Il consumo illecito proviene soprattutto da prescrizioni mediche falsificate, rubate o dirottate nelle mani di
chi controlla il mercato illegale.
Poiché gli effetti dell'OxyContin sono molto simili a quelli dell'eroina, gli esperti temono che i consumatori
divenuti dipendenti dall'OxyContin, e non più in grado di pagarne l'alto prezzo sul mercato illegale,
finiscano per passare all'eroina, che oggi è venduta a un prezzo più basso.

Effetti psicologici e fisici


L'oppio e i suoi derivati producono euforia, sonnolenza, fantasticherie e talvolta mancanza di
coordinazione motoria.
L'eroina e l'OxyContin hanno un effetto iniziale di euforia, il cosiddetto rush, una sensazione calda e soffusa
di benessere che fa immediatamente seguito all'iniezione in vena. Tutte le preoccupa zioni e i timori
spariscono, mentre una grande fiducia in sé si impadronisce per 4-6 ore dell'individuo; ma a questa
sensazione segue poi un down, segnato da una totale mancanza di energia che sconfina nello stato
stuporoso.
Gli oppiacei producono i loro effetti stimolando i recettori neurali degli oppioidi endogeni (l'organismo
produce i propri oppioidi, chiamati endorfine ed encefaline).
L'eroina, ad esempio, nel cervello viene convertita in morfina, quindi si lega ai recettori degli oppioidi a
livello cerebrale. Alcune evidenze suggeriscono che una qualche relazione tra questi recettori e il sistema
dopaminergico sia responsabile degli effetti piacevoli di queste sostanze. Tuttavia, studi su animali
suggeriscono che gli oppioidi svolgano questo genere di effetti agendo su una particolare area cerebrale, il
nucleus accumbens, mediante un'azione forse indipendente dal sistema dopaminergico.
Gli oppiacei inducono chiaramente dipendenza, dal momento che chi li consuma mostra sia tolleranza sia i
sintomi di astinenza. La sindrome di astinenza può iniziare entro otto ore dall'ultima iniezione di eroina,
perlomeno una volta che si è instaurato un alto livello di tolleranza. Nelle prime ore dall'esordio dei sintomi
di astinenza, la persona manifesta in genere dolori muscolari, continui starnuti e sudorazione, lacrimazione
e frequenti sbadigli. I sintomi sono simili a quelli dell'influenza. Entro 36 ore la sintomatologia si aggrava:
possono manifestarsi contrazioni muscolari incontrollabili, crampi, brividi di freddo alternati a vampate di
calore e a sudorazione profusa, tachicardia e aumento della pressione arteriosa. Il soggetto non riesce a
dormire, e manifesta vomito e diarrea. Questi sintomi persistono in genere per circa 72 ore, per poi
diminuire gradualmente nell'arco di 5-10 giorni.
Gli oppiacei comportano una serie di gravi problemi per chi ne abusa.
Molto gravi sono anche le conseguenze sociali dell'uso di sostanze illegali. La droga e la sua costante ricerca
diventano il centro dell'esistenza delle persone tossicodipendenti, e ne condizionano tutte le attività e le
relazioni sociali. Il costo elevato degli oppiacei - i consumatori spesso spendono in oppiacei fino a 200
dollari al giorno - significa che queste persone sono spinte a procurarsi il denaro necessario mediante
attività illegali, come il furto, la prostituzione o lo spaccio di droga.
Un ulteriore problema associato all'assunzione di sostanze per via endovenosa è il fatto che, attraverso la
condivisione delle siringhe, i consumatori vengono a trovarsi esposti ad agenti infettivi come il virus
dell'immunodeficienza umana (HIV), che causa l'AIDS. È importante sottolineare che tra gli scienziati vi è
notevole accordo sul fatto che i programmi di sostituzione/distribuzione gratuita di aghi e siringhe sterili
riducono la condivisione di siringhe infette e quindi la diffusione degli agenti infettivi che si associa all'uso di
queste sostanze.

STIMOLANTI
Gli stimolanti agiscono sul cervello e sul sistema nervoso simpatico, aumentando lo stato di vigilanza e
l'attività motoria. Le amfetamine sono stimolanti di sintesi, mentre la cocaina è uno stimolante naturale
estratto dalle foglie di coca.
AMFETAMINE
Le amfetamine, quali benzedrina, dexedrina e metedrina, producono i loro effetti stimolando il rilascio di
noradrenalina e dopamina, e bloccando la ricaptazione di questi stessi neurotrasmettitori. Le amfetamine
vengono assunte per via orale o endovenosa e possono indurre dipendenza.
La loro azione acuisce lo stato di vigilanza, e le funzioni intestinali e riduce la sensazione di appetito, di qui il
loro uso nelle diete dimagranti. La frequenza cardiaca aumenta e si ha vasocostrizione a livello
dell'epidermide e delle mucose. L'individuo diventa vigile, euforico ed estroverso, e sembra attingere a
riserve illimitate d'energia e di fiducia in se stesso. In dosi più forti le amfetamine possono rendere il
soggetto nervoso, agitato e confuso, provocare palpitazioni, cefalea, vertigini e insonnia. Chi ne fa un uso
molto intenso diventa talvolta sospettoso e ostile, tanto da poter costituire un pericolo per gli altri.
La tolleranza alle amfetamine si sviluppa rapidamente, per cui l'individuo sente il bisogno di assumere la
sostanza in quantità sempre maggiori per ottenere l'effetto stimolante desiderato. In uno studio è emerso
che per lo sviluppo della tolleranza sono sufficienti appena sei giorni di uso continuativo
Metamfetamina
La sostanza stimolante di cui è più frequente l'abuso è un derivato delle amfetamine, detto metamfetamina
(spesso abbreviata in meth), la cui diffusione ha avuto un grande impulso negli anni Novanta del secolo
scorso. Tra il 2006 e il 2012 il numero di individui che riferivano di fare uso di metamfetamina è diminuito
da oltre 700 000 a 440 000
L'abuso tende a essere più frequente tra gli uomini che tra le donne, contrariamente a quanto accade per le
altre amfetamine, rispetto alle quali si rilevano pochissime differenze di genere. La metamfetamina è usata
(e prodotta) nelle piccole città degli Stati Uniti quanto, se non di più, lo è in quelle grandi.
Come le altre amfetamine, anche la metamfetamina può essere assunta per via orale, endovenosa o per via
nasale (cioè sniffandola). Poiché si presenta in forma di chiari cri stalli trasparenti, la droga è spesso
chiamata crystal meth, oppure ice, ghiaccio. Il bisogno (craving) di metamfetamina è particolarmente forte
e spesso si fa sentire per anni dopo che l'assunzione della sostanza è cessata. Il craving è anche un affidabile
fattore predittivo dell'uso. Come avviene con le altre amfetamine, la meth provoca uno «sballo», o rush,
immediato che può durare per ore. Questo stato è caratte rizzato da sensazioni di euforia e da
modificazioni fisiologiche, come l'aumento dell'afflusso ematico al cuore e agli altri organi, e l'innalzamento
della temperatura corporea. Il rush a un certo punto si stabilizza, quindi segue un rapido crollo (crash): non
solo diminuiscono improvvisamente le sensazioni piacevoli, ma l'individuo cade in preda a una forte
agitazione. La dipendenza fisiologica dalla metamfetamina comporta sia la tolleranza sia i sin tomi di
astinenza.
Da quanto emerge da studi su animali, l'uso cronico di metamfetamina provoca danni al cervello, a carico
sia del sistema dopaminergico sia di quello serotoninergico. Uno studio condotto di recente su consumatori
cronici di metamfetamina che rispondevano ai criteri del DSM per la diagnosi di dipendenza, ha trovato che
molti di questi soggetti presentavano danni all'ippocampo. Nei consumatori cronici di meth il volume
dell'ippocampo risultava ridotto, e il dato era correlato a una scarsa presta zione di questi soggetti in un
test di memoria.
Questo studio ha anche dimostrato che le aree cerebrali che contribuiscono alla presa di decisioni adeguate
sono alterate in alcuni in- dividui dipendenti da metamfetamina. Meno chiaro è se queste aree siano state
danneggiate dalla metamfetamina o se fossero già compromesse prima che il soggetto iniziasse ad abusare
della sostanza.
A questo punto è necessario un richiamo alla cautela. Una delle principali difficoltà di questi studi sta nel
riuscire a reclutare, per formare il campione, soggetti che usino sol- tanto la droga che si intende studiare
(in questo caso, la metamfetamina), così che qualsiasi effetto osservato possa essere messo in relazione
solo con quella sostanza e non con altre. Ma è difficile trovare consumatori di meth che a un certo punto
non abbiano fatto uso anche di altre so stanze, in particolare di alcol e nicotina.

Cocaina
La cocaina viene estratta dalle foglie della pianta di coca. Verso la metà degli anni Ottanta fece la sua
comparsa nelle strade americane una nuova forma di cocaina, detta crack. Il crack si presenta sotto forma
di cristalli, che vengono riscaldati, sciolti e poi fumati. Il nome deriva dal suono crepitante della sostanza
quando viene scaldata. Oggi il crack costa meno della cocaina ed è diffuso soprattutto nelle aree urbane.
L'uso di cocaina è aumentato vertiginosamente negli anni Settanta e Ottanta, con una crescita superiore al
260% tra il 1974 e il 1985. Oggi l'uso della cocaina è molto meno diffuso di trent'anni fa, ed è andato
costantemente diminuendo tra il 2002 e il 2012. Anche l'uso di crack sta diminuendo.
La cocaina agisce rapidamente sul cervello bloccando la ricaptazione della dopamina nelle aree
mesolimbiche. La cocaina causa effetti piacevoli, in quanto la dopamina non riassorbita che resta nella
sinapsi facilita la trasmissione neurale. L'esperienza soggettiva degli effetti piacevoli in dotti dalla cocaina è
fortemente correlata con l'entità del mancato riassorbimento della dopamina a livello sinaptico. La cocaina
accresce il desiderio sessuale e produce nella persona sensazioni di elevata fiducia in sé, benessere e
resistenza alla fatica.
Un'overdose può produrre brividi, nausea e insonnia, nonché una crisi di tipo paranoide e terrificanti
allucina zioni di insetti che formicolano sotto pelle.
L'uso cronico spesso porta a irritabilità, compromissione delle relazioni sociali, ideazione paranoide, turbe
del sonno e alterazione delle abitudini alimentari. Alcuni consumatori, sebbene non tutti, sviluppano
tolleranza verso la cocaina, quindi hanno bisogno di dosi sempre maggiori per raggiungere gli stessi effetti;
altri invece possono diventare più sensibili agli effetti della sostanza, probabilmente uno dei fattori che
contribuiscono ai casi di morte anche dopo l'assunzione di dosi abbastanza basse di cocaina. I sintomi da
astinenza prodotti dall'interruzione dell'uso della sostanza sembrano essere molto gravi.
La cocaina è un vasocostrittore, cioè provoca il restringimento dei vasi sanguigni, Dal momento che i
consumatori abituali assumono dosi sempre maggiori della sostanza e in forme più pure, è sempre più
frequente che questi soggetti finiscano al pronto soccorso di un ospedale o che muoiano di overdose,
spesso per infarto del miocardio.
La cocaina accresce anche il rischio di ictus ed è causa di problemi cognitivi, ad esempio difficoltà di
concentrazione e di memoria.
A causa delle sue proprietà di forte vasocostrittore, la cocaina è particolarmente pericolosa in gravidanza,
in quanto può compromettere l'afflusso di sangue al feto.
La cocaina può essere sniffata, fumata in pipe o in sigarette, ingerita e perfino iniettata per via endovenosa
come l'eroina; in effetti, alcuni individui dipendenti dall'eroina mescolano le due sostanze

Allucinogeni, ecstasy e PCP


LSD e altri allucinogeni
Il termine attualmente usato per indicare l'LSD e le altre sostanze con effetti simili è allucinogeni, in quanto
il loro effetto principale è la produzione di allucinazioni. Tuttavia, a differenza delle allucinazioni che
caratterizzano la schizofrenia, in questo caso il soggetto di solito si rende conto che sono indotte dalla
droga. L'uso di sostanze allucinogene è più diffuso tra gli uomini che tra le donne, e tra i giovani nella fascia
di età compresa fra i 12 ei 17 anni;
Non vi sono prove che confermino sintomi di astinenza in caso di sospensione dell'assunzione, mentre la
tolleranza sembra svilupparsi rapidamente.
Oltre a causare allucinazioni, l'LSD può alterare il senso del tempo (che sembra essere rallentato). Una
persona fa uso di LSD può avere rapidi cambiamenti d'umore, ma può anche esperire un'espansione della
coscienza per cui le sembra di apprezzare i suoni e i colori con un'intensità che non ha precedenti. Spesso
chi assume LSD prova un'ansia molto intensa, in parte perché le insolite esperienze percettive e le
allucinazioni provocano la paura di «stare diventando pazzi». In alcuni casi quest'ansia evolve in veri e
propri attacchi di panico, ma in genere scompare quando la droga viene metabolizzata.
A volte possono verificarsi i cosiddetti flashback, ovvero il ripresentarsi a livello visivo delle esperienze
percettive vissute, dopo che gli effetti fisiologici della sostanza sono scomparsi. Nel DSM-5 la categoria del
disturbo percettivo persistente da allucinogeni (HPPD, hallucinogen persisting perception disorder) implica
la ricomparsa di flashback e altri sintomi percettivi sperimentati durante l'uso dell'allucinogeno, anche
quando non si sta più utilizzando la sostanza.

Ecstasy e PCP
L'ecstasy è una sostanza di tipo allucinogeno derivata dall’MDMA (metilendiossimetamfetamina).
L'ecstasy è stata dichiarata illegale nel 1985.
L'ecstasy contiene composti appartenenti alle famiglie degli allucinogeni e delle amfetamine, ma nel DSM-5
rientra nella categoria dei «disturbi indotti da altri allucinogeni». L'MDMA può essere assunta in forma di
pillole, che spesso però sono mescolate con altre sostanze (ad esempio, caffeina) o altre droghe (ad
esempio, LSD, ketamina, polvere di talco), cosa che ne rende gli effetti alquanto intensi. Esiste anche una
versione dell'ecstasy in polvere, più pura, chiamata comunemente molly.
Gli effetti dell'ecstasy sono mediati dalla sua azione sul rilascio e il successivo riassorbimento della
serotonina. Il fatto che l'ecstasy possa o meno causare danni al sistema nervoso è ancora oggetto di
dibattito. Alcune evidenze scientifiche suggeriscono che la sostanza possa avere effetti neurotossici sul
sistema serotoninergico. È difficile dire se tali effetti tossici siano dovuti direttamente all'uso della sostanza,
dato che fino a oggi nessuno studio su soggetti umani ha valutato l'attività serotoninergica prima e dopo
l'uso dell'ecstasy.
A quanto riferisce chi ne fa uso, l'ecstasy favorisce l'intimità e l'introspezione, migliora le relazioni
interpersonali, eleva l'umore e la fiducia in se stessi, intensifica la sensibilità estetica. Ma può anche causare
tensione muscolare, rapidi movimenti oculari, digrigna mento dei denti, nausea, svenimenti, brividi o
sudorazione, nonché ansia, depressione, depersonalizzazione e confusione.
Un'altra sostanza, la fenciclidina (PCP), spesso chiamata polvere degli angeli, rientra nella categoria del
DSM-5 definit disturbo uso di nciclidina», all'interno della più ampia categoria dei «disturbi correlati agli
allucinogeni». Sviluppata per essere usata come tranquillante per cavalli e altri animali di grossa taglia, la
PCP causa spesso intense reazioni. negative, tra cui gravi attacchi di paranoia e di violenza. Reazioni
possibili sono anche il coma e la morte. La PCP agisce a livello cerebrale su una molteplicità di neuro
trasmettitori e il suo uso cronico si associa a un'ampia gamma di deficit neuropsicologici.

Eziologia dei disturbi da uso di sostanze


La dipendenza da una sostanza si sviluppa in alcuni casi attraverso un processo graduale, ovvero l'individuo
deve prima di tutto nutrire un atteggiamento positivo verso una certa sostanza, quindi incominciare a
sperimentarla facendone uso, poi usarla regolarmente, quindi cominciare a usarla pesantemente e infine
abusarne o diventarne dipendente (figura 10.6).
Sembra che fattori che contribuiscono allo sviluppo di un disturbo da uso di sostanze dipendano da quale
particolare fase di questo processo viene presa in considerazione. Per quanto applicabile in molti casi, non
esiste un modello dell'evoluzione di questi disturbi valido in assoluto, per tutti i casi di disturbi correlati
all'uso di sostanze. Per esempio, alcune persone attraversano periodi di uso pesante di una sostanza - ad
esempio l'alcol- per poi tornare a un uso moderato; altre volte non c'è neppure bisogno di un periodo di
uso pesante perché si sviluppi una dipendenza, come nel caso della metamfetamina.

Fattori genetici
Diverse ricerche hanno preso in considerazione la possibilità che esista una predisposizione genetica ai
disturbi correlati all'uso di alcol e di altre sostanze. Diversi studi hanno dimostrato che i figli e i parenti di
persone con problemi legati al bere presentano tassi di disturbo da uso di alcol superiori a quelli attesi (si
veda, ad esempio, Evidenze più solide sull'esistenza di fattori genetici vengono da studi su gemelli, che
hanno rilevato nei gemelli monozigotici una concordanza maggiore, rispetto ai dizigotici, per quanto
riguarda il disturbo da uso di alcol fumo, uso pesante di marijuana e disturbi da uso di sostanze in generale
Gli studi di genetica del comportamento indicano che i fattori di rischio genetici e quelli ambientali condivisi
(si veda il capitolo 2) per i disturbi da uso di sostanze illecite possono essere piuttosto aspecifici, ovvero i
due tipi di fattori appaiono gli stessi qualunque sia la sostanza (marijuana, cocaina, oppiacei, allucino- geni,
sedativi, stimolanti), e ciò sembra valere sia per gli uomini sia per le donne
Ovviamente i geni svolgono la loro azione tramite l'ambiente e le ricerche hanno messo in luce interazioni
geni-ambiente nei disturbi da uso di alcol e di altre so- stanze. Per gli adolescenti i coetanei sembrano
costituire variabili ambientali particolarmente importanti. Ad esempio, un vasto studio su gemelli condotto
in Finlandia ha evidenziato che l'ereditabilità per i problemi legati all'alcol era maggiore tra gli adolescenti
che avevano una maggiore frequentazione di coetanei con l'abitudine di bere, che non tra gli adolescenti
con meno amici bevitori. In questo caso l'ambiente era rappresentato dal comportamento rispetto al bere
nel gruppo dei coetanei. Un altro studio ha trovato che l'ereditabilità sia per l'uso di alcol sia per il fumo era
maggiore tra quegli adolescenti i cui migliori amici avevano l'abitudine di bere e di fumare. In questo caso
l'ambiente consisteva nel comportamento dei migliori amici del soggetto. Un altro studio ha evidenziato
che l'ereditabilità dell'abitudine al fumo era maggiore tra gli adolescenti che frequentavano scuole in cui gli
studenti più popolari fumavano, rispetto agli allievi di scuole in cui gli studenti più popolari non fumavano
La capacità di tollerare grandi quantità di alcol può essere un fattore ereditario che facilita l'insorgere del
di sturbo da uso di alcol. In altre parole, per sviluppare una dipendenza dall'alcol di solito un individuo deve
essere in grado di bere molto. È possibile che in alcuni gruppi etnici, ad esempio gli asiatici, i problemi
associati all'alcol siano meno frequenti a causa di un'intolleranza fisiologica
dovuta a un deficit ereditario, ovvero alla mancanza di un enzima che metabolizza l'alcol, l'alcol
deidrogenasi o ADH. Mutazioni nei geni ADH2 e ADH3, che codificano per proteine che entrano nella
composizione dell'alcol deidrogenasi, sono state associate al disturbi da uso di alcol in generale e in
particolare in alcune popolazioni di origine asiatica

Le ricerche hanno messo in luce anche il meccanismo attraverso cui i fattori genetici possono giocare un
ruolo nell'acquisire l'abitudine al fumo di sigarette. Come la maggior parte delle droghe, la nicotina sembra
stimo lare il rilascio di dopamina e inibirne la ricaptazione. Gli individui più sensibili a questi effetti della
nicotina hanno maggiori probabilità di diventare fumatori rego lari (Pomerlau, Collins, Shiffman et al.,
1993). Alcune ricerche hanno indagato la relazione tra il fumo di siga retta e il gene SLC6A3, che regola la
ricaptazione della dopamina. Una particolare forma di questo gene è stata messa in relazione con una
probabilità minore di diven tare fumatore (Lerman, Caporaso, Audrain et al., 1999), una probabilità
maggiore di riuscire a smettere (Sabo, Nelson, Fisher et al., 1999) e una maggiore sensibilità agli stimoli
riguardanti il fumo (ad esempio, un pacchetto di sigarette) (Wetherill, Jagannathan, Lohoff et al., 2014).
Altre ricerche hanno messo in luce che alcuni geni, come il CYP2A6, contribuiscono al metabolismo della
nico tina, un processo che in alcuni individui è rapido e in altri invece più lento. Se il metabolismo della
nicotina è più lento, ciò significa che la nicotina resta in circolo nel cervello più a lungo. Uno studio
longitudinale condotto su un campione di studenti americani del secondo anno di scuola media ha
dimostrato che gli adolescenti porta tori di geni associati a un metabolismo della nicotina più lento avevano
maggiori probabilità di sviluppare una di pendenza da fumo di sigaretta nei cinque anni successivi
(O'Loughlin, Paradis, Kim et al., 2005). Da altre ricerche è emerso che gli individui con una ridotta attività
del gene CYP2A6 fumano meno sigarette e hanno meno proba bilità di sviluppare dipendenza dalla nicotina
(Audrain McGovern e Tercyak, 2011). Si tratta di un esempio molto interessante di come un determinato
polimorfismo gene tico possa avere una positiva funzione protettiva. Studi GWAS più recenti hanno
identificato degli SNP (poli morfismi a singolo nucleotide; si veda il capitolo 2) che influenzano un
particolare tipo di recettori cerebrali della nicotina associati con la dipendenza dalla nicotina stessa
(Kendler et al., 2012).

Fattori neurobiologici
Forse avrete notato che, nel descrivere gli effetti delle di verse droghe, abbiamo menzionato quasi sempre
lo stesso neurotrasmettitore, la dopamina. Ciò non sorprende, dal momento che le vie dopaminergiche
hanno un ruolo importante nel sistema cerebrale del piacere e della ricompensa. L'uso di una sostanza
psicoattiva porta tipicamente a sensazioni molto gratificanti e piacevoli, sensazioni che sono prodotte
attraverso il sistema dopaminergico. Le ricerche effettuate sia su soggetti umani sia su animali dimostrano
che quasi tutti i tipi di sostanze psicotrope, compreso l'alcol, stimolano le vie dopaminergiche (figura 10.7),
in particolare il sistema mesolimbico (Cami e Farré, 2005; Koob, 2008). I ricercatori si sono quindi chiesti se
la dipendenza da sostanze si possa almeno in parte spiegare con alterazioni delle vie dopaminergiche.
Uno dei quesiti più difficili da risolvere è se alterazioni nel sistema dopaminergico aumentino in alcuni
individui la vulnerabilità a sviluppare una dipendenza da sostanze (un'ipotesi talvolta chiamata modello
della vulnerabilità) o se invece tali alterazioni siano conseguenti all'assun zione di sostanze (un'ipotesi
chiamata modello dell'effetto tossico). Nel caso di alcune droghe, come la cocaina, le evidenze attualmente
disponibili supportano entrambe le ipotesi. Questo aspetto rappresenta quindi un'importante area di
ricerca per il futuro.
Sebbene la ragione principale per cui le persone assu mono sostanze è sentirsi bene, un'altra motivazione
al loro uso è sentirsi meno male. Ciò è particolarmente vero nei casi in cui una persona diventa dipendente
da sostanze come l'alcol, la metamfetamina o l'eroina, la cui astinenza provoca sintomi estremamente
spiacevoli. In altre parole, si continua ad assumere una certa sostanza per evitare le sensazioni spiacevoli
associate all'astinenza da quella so- stanza. Moltissime evidenze raccolte tramite studi su ani- mali
supportano questa spiegazione del comportamento di assunzione di sostanze (Koob e Le Moal, 2008);
queste ricerche ci permettono anche di capire perché le ricadute siano così comuni.
È stata proposta una teoria neurobiologica, detta teoria della sensibilizzazione incentivante (incentive-
sensitization theory), che prende in considerazione sia il bisogno com- pulsivo della sostanza (il craving, che
questi ricercatori definiscono wanting) sia il piacere che il soggetto trae dalla sua assunzione (da essi
definito liking) (Robinson e Berridge, 1993, 2003). Secondo questa teoria, il sistema della dopamina
associato al piacere (cioè al liking) sviluppa un'ipersensibilità non solo verso gli effetti diretti della so-
stanza, ma anche verso gli stimoli collegati alla sostanza stessa (ad esempio aghi, cucchiai, cartine). Questa
sensibi lizzazione agli stimoli associati alla droga inducedl craving (o wanting), che porta le persone a fare di
tutto per procu rarsi la sostanza. Col tempo la sensazione di piacere, il li king, che il soggetto ottiene dalla
sostanza diminuisce, ma il wanting resta molto intenso. Secondo questi ricercatori, ciò che mantiene la
dipendenza è la transizione dal liking a un potente wanting, dovuta agli effetti della sostanza sulle vie
dopaminergiche cerebrali.
Sono molte le ricerche che hanno preso in considera zione la neurobiologia del wanting o craving.
Numerosi studi di laboratorio hanno dimostrato che gli stimoli as sociati a una determinata droga possono
evocare risposte che, nel loro complesso, non sono dissimili da quelle as sociate all'uso effettivo della
droga. Ad esempio, soggetti dipendenti dalla cocaina mostrarono aumenti nel livello di arousal fisiologico,
maggiore intensità del craving e delle sensazioni di high, e aumento delle emozioni negative in risposta a
stimoli associati alla cocaina, che consistevano in registrazioni audio e video di persone che si prepara vano
a iniettarsi la cocaina o a sniffarla, in confronto a con trolli che non avevano una dipendenza da questa
sostanza (si veda ad esempio Robbins, Kuncel, Shiner et al., 2000). Gli studi di neuroimaging hanno
dimostrato che stimoli associati a una determinata droga, ad esempio aghi o E che cosa si può dire degli
aspetti psicologici del cra ving? Gli individui che sentono più forte il bisogno di assumere una certa sostanza
ne fanno effettivamente un uso maggiore, anche se stanno cercando di smettere? rette, attivano le aree
cerebrali della ricompensa e del pia cere coinvolte nell'uso di sostanze.

Dare valore alle ricompense a breve termine più che a quelle a lungo termine
Un modello che combina aspetti psicologici e neurobiologici sottolinea la distinzione tra il valore che le
persone attribuiscono alle ricompense a breve termine (immediate) rispetto a quelle a lungo termine
(ritardate). Le persone con un disturbo da uso di sostanze spesso danno maggior valore al piacere e alla
ricompensa immediati, perfino impulsivi, che derivano dall'assumere una sostanza, piuttosto che alle
ricompense ritardate, come può essere lo stipendio a fine mese guadagnato col lavoro.
Negli esperimenti di laboratorio tesi a valutare se le persone attribuiscono più valore alle ricompense
immediate o a quelle ritardate, tipicamente i partecipanti vengono sottoposti alla scelta tra una ricompensa
monetaria immediata ma piccola (ad esempio 1 dollaro subito) e una ricompensa ritardata ma più grande
(ad esempio 10 dol lari alla fine della giornata). La misura in cui le persone privilegiano la ricompensa
piccola ma immediata può essere calcolata matematicamente, ed è spesso indicata come delay discounting
(non dar peso alle ricompense ritardate). In altre parole, i ricercatori riescono a ottenere una stima del
grado in cui le persone non tengono conto del maggior valore delle ricompense ritardate. Nelle per sone
che hanno una dipendenza dall'alcol e da sostanze come gli oppiacei, la nicotina e la cocaina il valore delle
ricompense ritardate decresce più rapidamente rispetto a quanto accade nelle persone che non hanno una
dipendenza da queste sostanze. Uno studio longitudinale ha trovato che l'entità del delay discounting era
un fattore predittivo del cominciare a fumare nell'adolescenza, e che la validità di tale fattore si protraeva
fino agli inizi dell'età adulta
A livello cerebrale, il dare valore alle ricompense immediate o invece a quelle ritardate coinvolge regioni del
cervello differenti. Si è ipotizzato che tali regioni competano fra loro quando la persona si trova a decidere
se assumere o meno una sostanza. In studi condotti con fMRI, il dare valore a una ricompensa ritardata si è
rivelato associato all'attivazione della corteccia prefrontale; invece il dare valore alla ricompensa immediata
si associa con l'attivazione dell'amigdala e del nucleo accumbens

Fattori psicologici
• Alterazione dell'umore In generale si ritiene che una
delle principali motivazioni al consumo di sostanze stia nel desiderio di modificare l'umore, cioè si ritiene
che il consumo di sostanze risulti rinforzato poiché intensifica le emozioni positive o attenua quelle
negative. Ad esempio, la maggioranza delle persone ritiene che un aumento di tensione (ad esempio, in
seguito a una brutta giornata sul lavoro) porti a un aumento del consumo di alcol.
Studi di laboratorio hanno dimostrato che l'alcol riduce il livello dell'ansia riferito dai soggetti e i suoi
indicatori fisiologici, in particolare quando vi è incertezza circa un possibile evento negativo (ad esempio,
arrivare a casa tardi, dopo essere rimasti fuori a bere con gli amici, cau- serà una discussione con la
consorte?) (Bradford, Shapiro e Curtin, 2013). Inoltre varie ricerche hanno dimostrato che l'alcol riduce non
solo le emozioni negative ma anche quelle positive, in risposta a situazioni ansiogene.
Altre ricerche hanno dimostrato che la ricaduta nell'abitudine di bere alcol è preceduta da eventi stressanti
(Brown, Beck, Steer et al., 1990).
Anche le ricerche sulla capacità della nicotina di ridurre la tensione hanno portato a risultati contraddittori:
alcuni studi indicano che la nicotina effettivamente riduce la tensione, altri non hanno rilevato questo
genere di effetti.
negative potrebbe anche non dipendere dalla nicotina, ma piuttosto dagli aspetti sensoriali del fumo (ad
esempio inalarlo). Nello studio appena descritto i partecipanti esperivano una riduzione delle emozioni
negative sia quando le sigarette fumate contenevano nicotina sia quando non la contenevano.
Da questi studi è emerso che la riduzione della tensione è più probabile in presenza di stimoli distraenti
Come si spiega questo risultato? L'alcol compromette l'elaborazione cognitiva e restringe l'attenzione agli
stimoli più immediatamente disponibili, per cui si ha quella che gli autori chiamano «miopia alco lica»
(Steele e Josephs, 1990). In altri termini, la persona che ha bevuto ha una minore capacità di elaborazione
cognitiva e tende a focalizzarla su uno stimolo distraente immediato, se è disponibile, piuttosto che sui
pensieri che producono tensione; ciò porta a una diminuzione dell'ansia.
I vantaggi della distrazione sono stati documentati anche per la nicotina; più precisamente, fumare durante
un'attività distraente porta a una riduzione dell'ansia, mentre fumare in assenza di un'attività di quel tipo
non si associa a tale riduzione (Kassel e Shiffman, 1997; Kassel e Unrod, 2000). Quando non siano
disponibili attività distraenti, l'alcol e la nicotina possono far aumentare la tensione; ad esempio, una
persona che beve da sola può focalizzare le sue limitate capacità cognitive su pensieri spiacevoli, per cui
incomincia a rimuginare diventando sempre più tesa e ansiosa.
La riduzione della tensione è solo uno dei possibili ef-Fattori di personalità I tratti di personalità che sem
fetti sull'umore prodotti dalle sostanze. Alcune persone possono usare le droghe per ridurre le emozioni
negative, altre invece per aumentare quelle positive quando si sen tono annoiate (Cooper, Frone, Russell et
al., 1995). In que sto caso il maggiore uso di sostanze può derivare da un bisogno elevato di stimolazione,
unito all'aspettativa che la sostanza favorirà le emozioni positive. Questi pattern sono stati confermati nei
soggetti che abusano di alcol e di cocaina.
Le aspettative hanno un ruolo importante in tutto ciò, ovvero le persone pos sono bere alcolici dopo un
evento stressante non tanto perché l'alcol effettivamente allevia la tensione, ma piut- tosto perché si
aspettano che lo faccia. A sostegno di questa tesi vi sono molte evidenze sperimentali secondo cui chi si
aspetta che l'alcol riduca lo stress e l'ansia ha maggiori probabilità di diventare bevitore abituale. Inoltre
aspet- tarsi che l'assunzione di alcol possa ridurre l'ansia porta a bere di più e ciò a sua volta rafforza
ulteriormente le aspettative positive
Analogamente, chi crede (falsamente) che l'alcol li farà ap parire più brillanti ha nelle relazioni sociali una
maggiore probabilità di bere rispetto a chi crede (correttamente) che l'alcol può interferire negativamente
con le interazioni sociali.
In generale, maggiore è il rischio percepito di una sostanza, meno probabile è il suo uso. Ad esempio, la ma
rijuana è la sostanza illecita più diffusa tra gli adolescenti americani ed è anche, nella percezione dei
soggetti di questa fascia di età, la droga con il più basso rischio di causare danni

Fattori di personalità
I tratti di personalità che sembrano avere un valore predittivo rispetto al successivo sviluppo di un disturbo
da uso di sostanze comprendono livelli elevati di affettività negativa, a volte definita emozionalità negativa
o nevroticismo; un desiderio persistente di attivazione fisiologica associato a livelli ele vati di affettività
positiva; il tratto del constraint, termine con cui si indicano il comportamento improntato alla cau tela,
l'evitamento dei pericoli e standard etici conservatori.
L'associazione di punteggi bassi di constraint e alti di emozionalità negativa si è rivelato un buon fattore
predittivo dell'insorgenza di disturbi da uso di alcol, nicotina o droghe illecite, sia nei ragazzi sia nelle
ragazze.

Fattori socioculturali
I fattori socioculturali giocano diversi ruoli nell'eziologia dei disturbi da uso di sostanze. Dal gruppo dei pari
ai geni tori, dai media agli standard comportamentali considerati accettabili da una data cultura, le
influenze dei fattori socioculturali sull'interesse dei singoli per le sostanze psico attive e sui modi di accesso
a esse sono notevoli.
Al livello più generale possiamo prendere in esame, a titolo di esempio, la notevole variabilità che si osserva
fra paesi rispetto al consumo di varie sostanze. Alcune ricer- che cross-culturali suggeriscono che certi
aspetti nell'uso di sostanze siano comuni a paesi e culture differenti. Ad esempio, uno studio sull'uso di
alcol e droghe condotto su studenti delle scuole superiori di 36 paesi in tutto il mondo ha trovato che l'alcol
era la sostanza di uso più comune in tutte le nazioni interessate dall'indagine, nonostante vi fos- sero
notevoli differenze tra paesi rispetto alla proporzione della popolazione studentesca che faceva uso di alcol:
si andava dal 32% nello Zimbabwe al 99% nel Galles (Smart e Ogburne, 2000). In tutti i paesi studiati, tranne
due, al secondo posto nella lista delle sostanze più usate veniva la marijuana. Negli stati in cui l'uso della
marijuana era mag- giore (con oltre il 15% degli studenti delle superiori che l'aveva provata almeno una
volta) anche i tassi di consumo di amfetamine, ecstasy e cocaina erano più alti.
Nonostante questi aspetti comuni, altre ricerche hanno rilevato differenze tra paesi diversi rispetto all'uso
di alcol; ad esempio, i tassi di consumo più elevati sono stati tipica- mente riscontrati nei paesi in cui è più
forte il consumo di vino, come Francia, Spagna e Italia, paesi in cui l'abitudine a consumare regolarmente
bevande alcoliche è ampiamente accettata (deLint, 1978). Perciò gli atteggiamenti culturali e le diverse
modalità di consumo degli alcolici influiscono sulla probabilità che le persone ne facciano un uso pesante, e
quindi arrivino all'abuso. Un dato che appare piuttosto simile nelle diverse culture è che il consumo di alcol
è più forte tra gli uomini che tra le donne. Un'analisi condotta dall'International Research Group on Gender
and Alcohol, a cui hanno collaborato ricercatori di 35 paesi, ha trovato che gli uomini bevevano più delle
donne in Australia, Canada, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Israele, Olanda, Russia, Svezia e Stati Uniti.

Un altro fattore che influenza il consumo di una sostanza è la facilità con cui la si può reperire. Ad esempio,
nei paesi dove per tradizione è forte il consumo di vino, questa bevanda alcolica è presente in molti
contesti, anche nelle mense universitarie, indicano che la maggiore facilità riferita di accedere a particolari
droghe o all'alcol corrisponde a un uso maggiore di queste sostanze (Johnston et al., 2014). Questa è una
delle ragioni per cui gli stati aumentano così spesso il prezzo o le tasse su alcolici e sigarette. Si tratta,
ovviamente, di una tattica che colpisce soprattutto, e in modo sproporzionato, le fasce di popolazione
meno abbienti
Anche l'ambiente familiare è importante. Ad esempio, l'esposizione al consumo di alcolici da parte dei
genitori rende più probabile che anche i figli bevano. la mancanza di un controllo adeguato da parte dei
genitori porta i ragazzi a una più stretta frequentazione con coetanei che abusano di sostanze, e di
conseguenza a un consumo maggiore di sostanze (Chassin, Curran, Hussong et al., 1996; Thomas, Reifman,
Barnes et al., 2000).
Un altro fattore che può influire sull'abuso di sostanze è il contesto sociale in cui la persona vive. Ad
esempio, gli studi condotti sulla vita quotidiana di fumatori hanno messo in evidenza che questi soggetti
hanno maggiori pro babilità di fumare in compagnia di altri fumatori, anziché di persone che non fumano.
Inoltre il fumo è risultato più frequente all'interno o all'esterno di luoghi come bar, ri storanti o a casa
propria, piuttosto che sul luogo di lavoro o a casa d'altri (Shiffman, Gwaltney, Balabanis et al., 2002;
Shiffman, Paty, Gwaltney et al., 2004).
Altri studi hanno dimostrato che avere amici che fumano è un fattore predittivo dell'iniziare a fumare. In
L'in fluenza dei pari si è rivelata importante anche nel promuo vere il consumo di alcol e di marijuana
(Hussong et al., 2001; Stice, Barrera e Chassin, 1998; Wills e Cleary, 1999).
Questi risultati confermano l'ipotesi che le reti sociali - influenzino il comportamento individuale rispetto al
con sumo di alcolo di altre sostanze. Tuttavia altre evidenze indicano che soggetti inclini a sviluppare
disturbi da uso di sostanze possono di fatto scegliersi reti sociali che si conformano alle loro abitudini di
consumo delle sostanze stesse. Sono state quindi proposte due teorie generali per spiegare le relazioni tra
ambiente sociale e disturbi da uso di sostanze: il modello dell'influenza sociale e il modello della selezione
sociale. Uno studio longitudinale, condotto su oltre 1200 adulti allo scopo di identificare il modello che
meglio descrive il consumo di alcol, ha messo in luce risul tati a favore di entrambe le teorie (Bullers,
Cooper e Russell, 2001). La rete sociale del soggetto permetteva di preve derne l'abitudine al bere, ma
anche il consumo individuale di alcol permetteva di prevedere una rete di relazioni sociali connesse col
bere. L'effetto della selezione sociale era co munque più forte, a indicare che le persone spesso scelgono di
sviluppare relazioni con chi, rispetto al bere, ha abitudini simili alle loro. Non v'è dubbio che tali relazioni
sostengano o rafforzino in queste persone l'abitudine al bere.
Un'altra variabile che occorre tenere in considerazione sono i mezzi di comunicazione. Negli spot televisivi
la birra è associata a uomini dall'aspetto atletico, ragazze in bikini, persone belle e giovani che si divertono.
Negli USA, dove la pubblicità alle marche di sigarette è consentita, grandi cartelloni pubblicitari
suggeriscono l'equazione tra il fumare e l'avventura, lo stare bene e l'essere eleganti. Una rassegna di studi
condotti sulla pubblicità del tabacco ha messo in luce che i manifesti pubblicitari di marche di sigarette
erano circa due volte più frequenti nei quartieri abitati prevalentemente da americani di origine africana
che nei quartieri abitati in prevalenza da americani di ori gine europea (Primack, Bost, Land et al., 2007).
La pubblicità riesce davvero a modificare i comporta menti dei giovani rispetto al consumo di sostanze?
Alcune evidenze sembrano indicare di sì. In uno studio longitudi nale condotto su adolescenti che non
fumavano, i soggetti che avevano una pubblicità di sigarette preferita erano esposti a un rischio doppio di
cominciare in seguito a fu mare, o di avere intenzione di farlo (Pierce, Choi, Gilpin et al., 1998). Anche l'altra
faccia della medaglia sembra trovare conferma. Ovvero, la pubblicità degli effetti nocivi del fumo si associa
a una minore probabilità di iniziare a fumare

TRATTAMENTO DISTURBI DA USO DI SOSTANZE


Trattamento del disturbo da uso di alcol
Trattamento dei pazienti ospedalizzati
Il primo passo nel trattamento di un disturbo da uso di sostanze consiste nella disintossicazione.
L'astinenza da una sostanza, ad esempio dall'alcol, può essere molto difficile sia sul piano fisiologico sia su
quello psicologico. Benché la disintossicazione non debba necessariamente avvenire all'interno di una
struttura ospedaliera o comunque residenziale, in questo contesto fortemente controllato può risultare
meno spiacevole.

GLI ALCOLISTI ANONIMI


Quella degli Alcolisti anonimi (AA) è, a livello mondiale, la più grande e la più nota tra le associazioni di
auto-aiuto per le persone che hanno problemi con l'alcol. Negli Stati Uniti fu fondata nel 1935 da due ex
alcolisti; attualmente l'associazione conta più di 100.000 sedi e più di 2 milioni di aderenti in tutto il mondo.
Nel 2012 oltre la metà delle persone che hanno ricevuto un trattamento per disturbi legati all'uso di alcol o
di altre so- stanze lo hanno fatto tramite un programma di auto-aiuto come quello gestito dall'associazione
degli Alcolisti ano- nimi (SAMHSA, 2013).
Ogni gruppo di AA organizza incontri regolari e frequenti, durante i quali i nuovi iscritti si alzano in piedi per
dichiarare di essere alcolisti, raccontano la propria storia, mentre i membri di più lunga data offrono la
propria tetimonianza su quanto sia migliorata la loro vita attuale. Il gruppo offre all'alcolista sostegno
emotivo, comprensione e consigli, oltre a una rete di relazioni sociali. I membri sono esortati a contattarsi a
vicenda a qualsiasi ora,- se hanno bisogno di compagnia e di incoraggiamento per non ricadere nel bere.
Attualmente sono disponibili pro grammi organizzati sul modello degli AA anche per chi fa uso di altre
sostanze, quali cocaina e marijuana.
Il programma degli AA prevede di infondere in ognuno dei suoi aderenti la convinzione che la dipendenza
dall'alcol sia una malattia da cui non si guarisce mai del tutto, e che quindi richiede una continua vigilanza
per resistere alla tentazione di bere anche un solo bicchiere, pena la ricaduta nel bere incontrollato. Uno
dei principi basilari degli AA è che un individuo, anche se non consuma alcol da 15 anni o anche più, deve
continuare a essere definito un «alcolista»> perché di fatto lo è ancora, anche se al momento la sua
patologia è sotto controllo. Il carattere spirituale degli Alcolisti anonimi è evidente
nel programma dei «dodici passi», riportato nella tabella 10.3; diverse evidenze indicano che credere in
questi prin cipi sia legato al raggiungimento dell'astinenza.
Altri gruppi di auto-aiuto non condividono con gli AA questa forte connotazione religiosa, ma piuttosto
incoraggiano il supporto sociale, la rassicurazione, il conforto e tutto ciò che può aiutare la persona a vivere
la sua vita senza l'alcol. Questo approccio, definito Recupero razionale (Rational Recovery), è focalizzato
sullo sviluppare la capacità dell'individuo di riconquistare fiducia in sé, anziché affidarsi a un potere
superiore
Diversi studi non controllati hanno messo in luce che il metodo degli AA produce effettivamente benefici
significativi.
Tuttavia una rassegna di otto studi clinici randomizzati e controllati ha messo in luce che il programma degli
AA presenta scarsi benefici rispetto ad altri tipi di trattamento, tra cui il rafforzamento motivazionale
(motivational enhancement), il trattamento residenziale, la terapia di coppia o terapia cognitivo-
comportamentale (Ferri, Amato e Davoli, 2008). Inoltre il programma degli AA registra percentuali elevate
di abbandoni, di cui spesso non si tiene conto nel valutare i risultati.

Terapia di coppia
L'approccio comportamentale della terapia di coppia si è rivelato efficace nel determinare una parziale
riduzione del consumo di alcol ancora un anno dopo la conclusione del trattamento, e in generale nel
migliorare la situazione di conflitto all'in terno della coppia (McCrady e Epstein, 1995). L'approccio sembra
essere valido per tutti i tipi di coppie, da quelle convenzionali alle coppie gay e lesbiche (Fals-Stewart,
O'Farrell e Lam, 2009). Questo trattamento combina i vari aspetti su cui interviene la terapia cognitivo-
comportamentale individuale con una speciale attenzione alla relazione di coppia e all'affrontare insieme,
come coppia, i fattori di stress collegati all'alcol.
Trattamenti cognitivi e comportamentali
La terapia della gestione delle contingenze è una terapia di tipo cognitivo-comportamentale per i disturbi
da uso di alcol e di altre sostanze che comporta l'addestramento dei pazienti e delle persone a loro più
vicine a rinforzare i comporta menti che si contrappongono al bere, come l'assumere l'Antabuse (un
farmaco di cui parleremo fra poco) o evitare le situazioni che in passato erano associate al bere. Questa
terapia si basa sull'assunto che le contingenze ambientali possano avere un ruolo importante
nell'incentivare il bere o nel disincentivarlo. Il non fare uso di una certa sostanza (alcol, cocaina, eroina,
marijuana) - cosa che viene veri ficata tramite l'analisi delle urine è premiato con l'assegnazione di buoni
che possono poi essere scambiati dalla persona con cose per lei positive e che perciò desi dera possedere in
maggiore quantità.
Questa terapia comprende anche l'insegnare ai pazienti come trovare un lavoro e altre abilità sociali, e
inoltre uno speciale addestra persone socialmente isolate vengono forniti assistenza e incoraggiamento a
stabilire contatti con altre persone, non associate con l'abitudine al bere.
La prevenzione della ricaduta è un altro trattamento di tipo cognitivo-comportamentale che si è rivelato
efficace nei disturbi da uso di alcol o di altre sostanze. Può essere una terapia a sé stante, oppure fare parte
di un intervento più ampio. In generale lo scopo è aiutare le persone a evi tare la ricaduta nell'abitudine al
bere o all'uso di un'altra sostanza, una volta che siano riuscite a smettere.
La prevenzione delle ricadute è una componente importante di qualsiasi trattamento per un disturbo da
uso di alcol o di altre sostanze. Il grande scrittore americano Mark Twain affermava scherzosamente che
smettere di fumare è facile: lui lo aveva fatto centinaia di volte!
Nel 1985 Marlatt e Gordon svilupparono un approccio chiamato prevenzione della ri caduta allo specifico
scopo di impedire le ricadute in un di sturbo da uso di sostanze. In questo approccio gli individui con
dipendenza dall'alcol vengono incoraggiati a credere che uno <<scivolone>> occasionale non equivale a
una inevitabile ricaduta totale e a considerarlo anzi un'utile esperienza, cioè un'occasione di
apprendimento e non il segno di avere perduto la battaglia.
Questa prospettiva si pone quindi in netto contrasto con quella sostenuta dagli Alcolisti anonimi. Un
approccio non catastrofico alla ricaduta dopo la terapia - cioè al ricominciare a bere - è importante, dal
momento che la grande maggioranza dei soggetti che hanno problemi con T'alcol e che raggiungono
l'astinenza fanno poi esperienza di una o più ricadute nell'arco di quattro anni (Polich, Armor e Braiker,
1980). In questa terapia i soggetti esaminano le fonti di stress sul lavoro, in famiglia e nei rapporti sociali, in
modo da diventare attivi e responsabili nel prevedere le situazioni che potrebbero portarli di nuovo a
eccedere nel bere, così da poter resistere. Le fonti di stress che possono far precipitare una ricaduta nel
disturbo da uso di alcol spesso differiscono nei due sessi. Per le donne sono predittivi una ricaduta i conflitti
nella coppia; per gli uomini il rapporto coniugale sembra invece avere un ruolo protettivo nei confronti di
una ricaduta.
La terapia della prevenzione della ricaduta sembra essere più efficace con certe sostanze piuttosto che con
altre. Una meta-analisi condotta su 26 trial clinici randomizzati e con trollati ha trovato che questo
trattamento si è rivelato efficace soprattutto rispetto all'uso di alcol o di droghe e meno nel disturbo da uso
di tabacco

La moderazione nel bere


Almeno da quando sono stati fondati gli Alcolisti anonimi, è stata opinione diffusa che le persone con un
disturbo da uso di alcol debbano astenersi completamente dal bere se vogliono che il trattamento abbia
successo, poiché si pensa che i forti bevitori siano in capaci di controllarsi, una volta bevuto il primo
bicchiere. quanto sia difficile nella nostra società evitare completa mente l'alcol, può essere preferibile
insegnare a non bere troppo alcol ma a bere con moderazione.
Col termine consumo controllato (controlled drinking), introdotto nell'ambito dei trattamenti del disturbo
da uso di alcol da Mark e Linda Sobell (che hanno sviluppato l'approccio detto guided self-change, guida
all'autocam biamento; Sobell e Sobell, 1993), si intende una modalità di assunzione degli alcolici improntata
alla moderazione. Questo approccio è fondato sull'assunto che le persone abbiano molta più capacità di
controllo sul bere smo dato di quanto esse stesse non credano, e inoltre che sia utile favorire una loro
maggiore consapevolezza dei costi del bere eccessivo e dei benefici che invece trarrebbero dall'astinenza o
dal bere con moderazione. Ad esempio, indurre la persona ad aspettare 20 minuti prima di bere un
secondo o un terzo drink può aiutarla a riflettere sul rapporto costi/benefici del bere eccessivo. I dati
empirici confermano l'efficacia di questo approccio nell'aiutare le persone a moderare l'assunzione di alcol
e a migliorare in generale la propria vita (Sobell e Sobell, 1993). Un recente trial clinico controllato e
randomizzato ha dimostrato che la guida all'autocambiamento si rivela ugualmente effi cace sia nel
trattamento individuale sia in quello di gruppo (Sobell, Sobell e Agrawal, 2009).

Farmaci
Parte dei pazienti trattati per un disturbo da uso di alcol, seguiti a livello residenziale oppure ambulatoriale
da centri specializzati, assume il disulfiram, o Antabuse, un farmaco che scoraggia l'assunzione di alcol
provocando violenti conati di vomito se il soggetto ingerisce bevande alcoliche. Come si può facilmente
immaginare, rispettare un regime a base di Antabuse può essere difficile: perché il trattamento faccia
effetto, la persona deve essere già fortemente motivata a cambiare vita. Ma in un ampio stu dio
policentrico l'Antabuse ha dimostrato di non portare alcun beneficio specifico, e i tassi di abbandono
arrivavano all'80% (Fuller, 1988).
La Food and Drug Administration (FDA) ha approvato un antagonista degli oppiacei, il naltrexone, per
essere uti lizzato nel trattamento del disturbo da uso di alcol. Il far maco blocca l'attività delle endorfine
stimolate dall'alcol, riducendo così il craving per questa sostanza. Le ricerche hanno dato risultati
controversi riguardo al fatto che que sto farmaco sia più efficace di un placebo nel ridurre il bi sogno di
bere, quando costituisca l'unico trattamento somministrato (Krystal, Cramer, Krol et al., 2001). Sembra
però che, associato a una terapia cognitivo-comportamen tale, questo farmaco aumenti l'efficacia del
trattamento.
L'acamprosato, che in Europa è regolarmente in com mercio da circa vent'anni con il nome di Campral, è
stato approvato dalla FDA nel 2004. Una rassegna dei dati emersi da tutti gli studi pubblicati di trial clinici in
doppio cieco e con gruppo di controllo placebo, relativi al trattamento con acamprosato

Trattamenti del disturbo da uso di tabacco


Le leggi che hanno proibito il fumo nei luoghi pubblici probabilmente hanno contribuito a far aumentare il
numero degli ex fumatori.
Uno studio longitudinale su oltre 12000 soggetti ha evi denziato che le probabilità che un certo individuo
smetta di fumare sono molto maggiori se le persone appartenenti alla sua rete sociale (coniuge, fratelli,
amici, colleghi di la voro) smettono anch'esse di fumare (Christakis e Fowler, 2008). Ad esempio, se uno dei
coniugi smette di fumare, le probabilità che l'altro continui a fumare diminuiscono del 70% circa. In breve,
la pressione esercitata dai pari verso L'abbandono dell'abitudine al fumo appare altrettanto effi cace di
quanto lo è stata per incominciare a fumare.
Chi desidera smettere di fumare a volte si rivolge a cliniche specializzate o ricorre ad altre forme di aiuto
specialistico. Si stima che, anche così, soltanto la metà circa di coloro che intraprendono un trattamento
per smettere di fumare arrivi davvero ad astenersi dal fumo al termine del programma. E una percentuale
molto piccola di coloro che sul breve periodo riescono a smettere è ancora in regime di astinenza dal fumo
dopo un anno (Brandon et al., 2007).

Trattamenti psicologici
Probabilmente il trattamento psicologico più diffuso consiste nella semplice raccoman dazione di smettere
di fumare da parte del medico curante. Ogni anno milioni di fumatori ricevono questo consiglio perché
affetti da ipertensione, cardiopatie, malattie polmonari, diabete, oppure al fine di migliorare o mantenere
buono il proprio stato di salute. Vi sono prove del fatto che il consiglio del medico può spingere alcune Un
altro trattamento che sembra efficace è la tecnica del fumo programmato (scheduled smoking, Compas,
Haaga, Keefe et al., 1998). Questa strategia consiste nel ridurre gradualmente nell'arco di alcune settimane
la quantità di nicotina assunta, convincendo il fumatore a lasciar passare più tempo fra una sigaretta e
l'altra. Ad esempio, con questo metodo una persona abituata a fumare un pacchetto al giorno potrebbe
fumare, durante la prima settimana di trattamento, soltanto 10 sigarette al giorno; la seconda settimana
gliene sarebbero consentite soltanto cinque al giorno, mentre durante la terza la quantità dovrebbe
gradualmente scendere a zero. Il soggetto dovrebbe quindi fumare ogni giorno le sigarette che gli sono
consentite, seguendo il programma stabilito dall'équipe degli specialisti e non quando ne sente il desiderio,
per quanto forte. In questo modo il fumare viene a essere controllato dal trascorrere del tempo e non dalle
situazioni, dalla necessità o dai cambiamenti d'umore del soggetto. Tra le persone che riuscivano a
rispettare il programma concordato, il tasso di astinenza era del 44% dopo un anno, un risultato davvero
rilevante
All'età di 18 anni, circa i due terzi di coloro che fumano sigarette si sono già pentiti di avere incominciato, la
metà di loro ha già compiuto almeno un tentativo di smettere e circa il 40% si dimostra interessato a
sottoporsi a un trattamento per uscire dalla dipendenza. Quindi notevoli sforzi si sono concentrati sul
cercare di indurre i giovani a smettere di fumare.
Purtroppo finora questi tentativi non si sono ri- velati molto efficaci: i risultati non persistono oltre i 6 mesi
dal trattamento (Villanti, McKay, Abrams et al., 2010).
Un programma basato su interventi a livello scolastico, chiamato Project EX, comprende uno specifico
addestramento alle abilità di coping e una componente psicoeducativa in cui vengono fornite approfondite
informazioni sugli effetti negativi del fumo. Due studi hanno dimostrato che questo intervento è efficace,
uno condotto negli Stati Uniti dove il programma è stato introdotto dopo opportuni adattamenti alla lingua
e alla cultura cinese. Gli approcci cognitivo-comportamentali, incentrati sulle abilità di problem-solving e di
coping, sembrano essere promettenti

FARMACI E TRATTAMENTI SOSTITUTIVI DELLA NICOTINA


L'obiettivo che i trattamenti sostitutivi della nicotina (ni- cotine replacement treatments, NRT) si pongono è
quello di ridurre nel fumatore il bisogno della sostanza fornendogliela sotto forma diversa dalla sigaretta.
L'attenzione verso la dipendenza da nicotina è un fattore importante, dato che maggiore è il numero delle
sigarette fumate in un giorno e più difficile diventa smettere. La nicotina può es- sere fornita sotto forma di
gomma da masticare, cerotti, inalatori o sigarette elettroniche.

La gomma da masticare alla nicotina oggi è venduta come medicinale da banco. La nicotina contenuta
nella gomma viene assorbita più lentamente e regolarmente di quella presente nel tabacco. L'obiettivo a
lungo termine è che l'ex fumatore sia in grado col tempo di eliminare anche il consumo della gomma, fino a
non sentire più il bisogno della nicotina. Ma poiché la dose di nicotina rilasciata equivale a fumare una
sigaretta all'ora, la gomma causa alterazioni cardiovascolari, ad esempio l'aumento della pressione
arteriosa, che possono essere pericolose per i soggetti cardiopatici. Ciononostante, alcuni esperti ritengono
che l'uso continuo, anche prolungato, della gomma -sia comunque più sano del fumo, perché almeno
consente di evitare le altre sostanze cancerogene contenute nelle si garette (de Wit e Zacny, 2000).

I cerotti alla nicotina, venduti anch'essi come farmaci da banco, consistono in un cerotto di polietilene
fissato al braccio che rilascia in modo lento e costante per via transdermica la sostanza, la quale entra poi
nel circolo sanguigno e quindi raggiunge il cervello. Un vantaggio del cerotto rispetto alla gomma da
masticare consiste nel fatto che è sufficiente applicare un cerotto al giorno e lasciarlo fino al momento di
applicare quello successivo; tale semplicità agevola la compliance del soggetto al pro gramma. Nella
maggioranza dei fumatori il trattamento si rivela efficace in 8 settimane (Stead, Perera, Bullen et al., 2008),
con cerotti sempre più piccoli man mano che il trattamento prosegue. Uno svantaggio è dato dal fatto che,
se una persona continua a fumare mentre utilizza il cerotto, livello di nicotina nel suo organismo può
innalzarsi fino a raggiungere valori pericolosi.
Ma gli NRT non sono una panacea. Nei follow-up a 12 mesi dalla fine del trattamento i tassi di astensione
dalla nicotina sono risultati solo del 50%. Le case produttrici affermano che il cerotto dovrebbe essere
utilizzato soltanto nel contesto di una terapia psicologica per smettere di fumare, e mai per più di tre mesi
consecutivi. Inoltre questi trattamenti sostitutivi della nicotina si rivelano inefficaci con gli ado- lescenti

Attualmente vi è un acceso dibattito intorno alla possi-bile efficacia delle sigarette elettroniche come NRT.
Uno studio longitudinale ha trovato che soltanto il 10% degli utilizzatori delle sigarette elettroniche aveva
smesso di fumare un anno più tardi (Grana, Popova e Ling, 2014). Un sondaggio tramite Internet su oltre
400 persone che avevano fatto uso delle sigarette elettroniche ha trovato che dopo un mese il 22% di loro
aveva smesso di fumare, percentuale che risultava del 46% nel follow-up a un anno di distanza.
Chiaramente sono necessarie altre ricerche, ma dai dati finora disponibili le sigarette elettroniche non
sembrano essere più efficaci delle altre forme di NRT.

Trattamento dei disturbi da uso di sostanze


Cruciale nel trattamento degli individui che fanno uso di sostanze quali l'eroina e la cocaina è la fase di
disintossica zione, che comporta la totale astensione dalla sostanza. Le reazioni causate dall'astinenza
dall'eroina vanno da crisi d'ansia, nausea e irrequietezza relativamente leggere, che possono durare anche
vari giorni, ad attacchi di panico e delirio ben più gravi e terrorizzanti, che dipendono principalmente dalla
purezza dell'eroina che il soggetto stava usando. Il craving spesso può durare anche dopo che la sostanza è
stata eliminata dall'organismo tramite la disintossicazione.
Trattamenti psicologici
Nel primo studio controllato che ha messo a confronto diretto farmaci e psicoterapie si è riscontrato che la
desipramina (nome commerciale Nortimil), un antidepressivo triciclico, e la terapia cognitivo-
comportamentale (CBT) sono entrambe efficaci nel ridurre l'uso di cocaina, nonché nel migliorare il funzio
namento sociale, familiare e psicologico dei soggetti trattati.
In questo studio, i pazienti sottoposti a terapia cognitivo-comportamentale apprendevano a evitare le
situazioni ad alto rischio (come il frequentare persone che facevano uso di cocaina), a riconoscere il
richiamo che la sostanza esercitava su di loro e a sviluppare alternative all'uso della cocaina (ad esempio
attività ricreative insieme a non con sumatori).
Inoltre i soggetti apprendevano strategie per far fronte al craving e per resistere alla tendenza a
considerare qualsiasi «scivolone» nel consumo di cocaina come una catastrofe («addestramento alla
prevenzione della rica duta»; si veda la Scheda di approfondimento 10.4).
L'approccio della gestione delle contingenze, che pre vede l'assegnazione di buoni (voucher), si è rivelato
pro mettente per il trattamento dei disturbi da uso di cocaina, eroina e marijuana.

Terapie sostitutive e terapie farmacologiche


Due metodi largamente utilizzati nel trattamento farmacologico del disturbo da uso di eroina implicano la
som-ministrazione di sostituti dell'eroina, cioè sostanze farmacologiche con struttura chimica simile
all'eroina e capaci di ridurre il craving, oppure di antagonisti degli op-piacei, ovvero sostanze che inibiscono
l'high dell'eroina in chi ne fa uso. Occorre qui richiamare nozioni già presentate nel capitolo 2: si definisce
antagonista una sostanza che riduce l'attività dei neurotrasmettitori, mentre si dice agonista una sostanza
che stimola l'azione dei neurotrasmettitori.
Alla prima categoria appartengono il metadone, il levometadil acetato e la buprenorfina, narcotici di
sintesi sviluppati come sostituti dell'eroina. Poiché anche queste sostanze provocano dipendenza, se un
trattamento ha successo non fa altro che trasformare la dipendenza da eroina in dipendenza da un altra
sostanza. Questa conversione avviene perché i narcotici di sintesi danno una dipendenza crociata con
l'eroina, cioè, agendo sugli stessi recettori del sistema nervoso centrale, diventano sostituti della
dipendenza originale. L'improvvisa interruzione del metadone porta a una specifica sindrome di astinenza,
ma essendo i sintomi meno gravi di quelli dell'astinenza da eroina, il metadone è potenzialmente in grado
di eliminare la dipendenza nei consumatori di eroina.
Il trattamento con antagonisti degli oppiacei implica il ricorso a una sostanza chiamata naltrexone.
La terapia sostitutiva in genere implica che il tossicodipendente si rechi in una clinica o in un centro
specializzato, dove ingerisce il farmaco alla presenza di personale autorizzato, una volta al giorno per il
metadone e tre volte. alla settimana per il levometadil acetato e la buprenorfina.

Prevenzione dei disturbi da uso di sostanze


Metà degli adulti che fumano hanno iniziato prima dei 15 anni e la quasi totalità dei fumatori ha iniziato
prima dei 19 (US Department of Health and Human Services, 2014). Quindi sviluppare dei metodi per
scoraggiare i giovanissimi a provare il tabacco è diventata una prio rità assoluta per i ricercatori e i politici
USA, incoraggiati in tale direzione dalle autorità sanitarie americane e dal National Cancer Institute, la
branca dei National Institutes of Health (NIH) che finanzia queste ricerche. La Legacy Foundation,
un'associazione che si propone di prevenire la diffusione del fumo tra i più giovani, è stata creata grazie
anche ai fondi resi disponibili dall'accordo con cui nel 1998 si è conclusa la class action contro le
multinazionali del ta bacco. L'associazione continua ancora oggi a operare, ed è possibile accedere a molte
informazioni e risorse che rende disponibili online
Le misure che sembrano più promettenti nel persua dere i giovani a stare lontani dal fumo possono rivelarsi
utili anche a dissuaderli dal consumare alcol e altre so stanze. Brevi interventi centrati sulla famiglia
sembrano promettere buoni risultati

Inoltre moltissime scuole americane hanno organizzato specifici programmi per prevenire la diffusione del
tabacco tra i giovani. Questi interventi, che complessivamente hanno avuto successo nel ritardare
l'abitudine al fumo (Sussman, Dent, Simon et al., 1995), hanno in comune alcuni elementi, non tutti
ugualmente efficaci
- Addestramento a resistere alla pressione del gruppo dei pari. Gli studenti imparano a riconoscere la
pressione esercitata dal gruppo dei coetanei e a dire di no. Nel com plesso gli studi suggeriscono che i
programmi di preven zione basati su questo elemento siano efficaci nel ridurre la frequenza con cui i
giovani iniziano a fare uso di ta bacco e sostanze illecite, come pure nel ridurre la quantità del loro
consumo (Tobler, Roona, Ochsborn et al., 2000).
- Correzione di convinzioni e aspettative. Molti giovani ritengono che il fumo di sigaretta sia più diffuso,
e di conseguenza più accettato, di quanto in realtà non sia. Modificare le convinzioni relative alla
prevalenza del fumo di sigaretta si è rivelato una strategia efficace, forse perché i giovani sono molto
sensibili a ciò che fanno e credono i loro coetanei. Stabilire il principio che fumare sigarette (o bere
alcolici) non è un comportamento standard sembra avere un'efficacia significativamente maggiore
dell'addestramento alla resistenza (Hansen e Graham, 1991).
- Immunizzare contro i messaggi dei mass media. Alcuni programmi di prevenzione cercano di
contrastare l'immagine positiva dei fumatori spesso propagandata dai mezzi di comunicazione.
Sofisticate campagne pubbli citarie, pari in forza e attrattiva alle pubblicità che hanno fatto del tabacco
un redditizio prodotto di consumo, possono essere usate con successo per scoraggiare l'abi tudine al
fumo. Ad esempio, la Legacy Foundation ha lanciato la cosiddetta truth campaign, la campagna della
verità, utilizzando strumenti come siti web (www.the truth.com) e spot alla radio e alla televisione, per
infor mare i giovani sulle conseguenze del fumo a livello della salute e a livello sociale, e per svelare i
mezzi che l'indu stria del tabacco usa per trasformare i giovani in con sumatori; tutto ciò nell'intento di
far si che la scelta dei giovani se fumare o meno sia consapevole e informata. Questa campagna ha
avuto una buona accoglienza tra i giovani, e uno studio ha trovato che il riconoscere la verità di quei
messaggi e il condividerli si associavano a una minore diffusione del fumo tra gli adolescenti
(Niederdeppe, Farrelly e Haviland, 2004). Questi risul tati sono particolarmente incoraggianti; infatti è
stato dimostrato che la recettività dei teenager alle strategie pubblicitarie dell'industria del tabacco è
fortemente le gata al fatto che inizino o meno a fumare.
- Leadership nel gruppo dei pari. Per fare arrivare il mes saggio con maggior forza, gran parte dei
programmi per la prevenzione del fumo e dell'uso di altre sostanze coinvolgono giovani dal riconosciuto
status di leader tra i loro coetanei.

CAPITOLO 11. I DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE.


• Anoressia nervosa.
• Bulimia nervosa.
• Disturbo da Binge-eating.

DESCRIZIONE CLINICA DEI DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE.

ANORESSIA NERVOSA.
Criteri diagnostici:
A) Restrizioni di comportamenti che promuovono un sano peso corporeo: restrizione nell'assunzione di
calorie in relazione alle necessità, che porta a un peso corporeo significativamente basso nel contesto di
età, sesso, traiettoria di sviluppo e salute fisica. Il peso corporeo significativamente basso è definito come
un peso inferiore al minimo normale oppure, per bambini e adolescenti, meno di quello minimo previsto.

B) Intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi.

C) Percezione distorta dell’immagine corporea: alterazione del modo in cui viene vissuto dall'individuo il
peso o la forma del proprio corpo, eccessiva ingluenza del peso o della forma del corpo sui livelli di
autostima, oppure persistente mancanza di riconoscimento della gravità dell'attuale condizione di
sottopeso.

I livelli di gravità dell’anoressia si basano sui valori del BMI o indice di massa corporea che si calcola
dividendo il peso in KG per il quadrato dell’altezza in metri:

- Lieve: Range di BMI: ≤ 17


- Moderata: Range di BMI: 16-16,99
- Grave: Range di BMI: 15-15,99
- Estrema: Range di BMI: < 15

Le distorsione dell’immagine corporea può essere valutata attraverso un questionario, l’Eating Disorders
Inventory.

Anche la presentazione di disegni di corpi femminili di diverso peso corporeo serve per la valutazione
dell’anoressia: si chiede ai soggetti di indicare quali si avvicini maggiormente al proprio e quale rappresenta
il loro ideale (le persone con anoressia nervosa sopravvalutato le dimensioni del loro corpo e scelgono una
figura esile come ideale).

Il termine anoressia è in parte inappropriato in quanto gli individui anoressici non perdono appetito o
interesse per il cibo. Anzi, nella maggior parte dei casi, mentre si costringono a patire la fame, gli anoressici
manifestano una sorta di ossessione per il cibo (leggono libri di cucina e cucinano per la famiglia).

Due tipologie di anoressia nervosa:


- Sottotipo con restrizioni. Il decremento ponderale (peso) è ottenuto limitando drasticamente
l’assunzione di cibo;
- Sottotipo con abbuffate/condotte di eliminazione la persona si sottopone regolarmente ad abbuffate e
condotte di eliminazione. Le persone con questo sottotipo presentano in misura maggiore disturbi di
personalità, comportamenti impulsivi, cleptomania, abuso di sostanze (alcolici e stupefacenti), ritorno
sociale e tentativi di suicidio rispetto alle persone che appartengono alla sottotipo con restrizioni.

Solitamente l’anoressia nervosa insorge nella prima fase adolescenziale o in quello intermedio, spesso dopo
una dieta o un evento stressante.

Alle donne con anoressia nervosa vengono spesso diagnosticati depressione, disturbo ossessivo-
compulsivo, fobie, disturbo di panico, disturbi da uso di sostanze diversi disturbi di personalità. Spesso si
ricorre a lassativi; le conseguenze fisiche dell’anoressia nervosa possono portare il lanugo, una fine e soffice
peluria diffusa su tutto il corpo, anche di potassio e sodio presentano alterazioni.

BULIMIA NERVOSA.
Criteri diagnostici:

A) Ricorrenti episodi di abbuffata. Un episodio di abbuffata è caratterizzato da entrambi i seguenti


aspetti:

1. Mangiare, in un determinato periodo di tempo, una quantità di cibo significativamente maggiore di


quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo o in circostanze simili.

2. Sensazione di perdere il controllo durante l'episodio.

B) Ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l'aumento di peso, come vomito
autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva.

C) Le abbuffate e le condotte compensatorie inappropriate si verificano entrambe in media almeno


una volta alla settimana per 3 mesi.

D) I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo.

E) L'alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di anoressia nervosa.

Livelli di gravità della bulimia sono definiti in base al numero di comportamenti compensatori alla
settimana:

- Lieve: 1-3 comportamenti compensatori/ settimana


- Moderata: 4-7
- Grave: 8-13
- Estrema 14 o più

Questo disturbo comporta episodi durante i quali un rapido consumo di grandi quantità di cibo è seguito da
comportamenti compensatori, quali il vomito, il digiuno un’attività fisica eccessiva.

Differenze con anoressia nervosa (sottotipo abbuffate/condotte di eliminazione): non si può diagnosticare
la bulimia nervosa se gli episodi di abbuffata e di condotte di eliminazione si verificano solo in un contesto
di anoressia nervosa e di calo ponderale estremo.

La differenza essenziale tra anoressia e bulimia e proprio la perdita di peso: le persone con anoressia
nervosa subiscono cali ponderali di enorme portata, mentre ciò non accade agli individui con bulimia
nervosa.

Nella bulimia, le abbuffate o crisi bulimiche avvengono generalmente in solitudine; esse possono essere
indotte da stress e dalle emozioni negative che essi stessi suscitano, di solito continuano finché la persona
non si sente piena da scoppiare.
Quando l’abbuffata si conclude, una sensazione di disgusto, di disagio e la paura di aumentare di peso
portano alla seconda fase della bulimia nervosa: le condotte di eliminazione per tentare di rimediare agli
effetti calorici della crisi bulimica.

La bulimia nervosa presenta la comorbilità dell’anoressia nervosa (stessi disturbi associati).

Come l’anoressia, anche la bulimia è associata a diversi effetti collaterali fisici, anche se le persone con
bulimia solitamente hanno un indice di massa corporea (BMI) normale.

Questo indice è calcolato dividendo il peso in kilogrammi per l’altezza di metri elevata al quadrato. Per le
donne, un indice di massa corporea normale si colloca tra 20 e 25.

DISTURBO DA BINGE EATING.


Criteri diagnostici binge eating:
A) Ricorrenti episodi di abbuffata. Un episodio di abbuffata è caratterizzato da entrambi i seguenti
aspetti:

1. Mangiare, in un determinato periodo di tempo, una quantità di cibo significativamente maggiore di


quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo o in circostanze simili.

2. Sensazione di perdere il controllo durante l'episodio.

B) Gli episodi di abbuffata sono associati ad almeno tre o più dei seguenti aspetti:

1. Mangiare molto più rapidamente del normale.

2. Mangiare fino a sentirsi sgradevolmente pieni.

3. Mangiare grandi quantitativi di cibo anche se non ci si sente affamati.

4. Mangiare da soli a causa dell'imbarazzo per quanto si sta mangiando.

5. Sentirsi disgustati verso se stessi, depressi o molto in colpa dopo l'episodio.

C) E presente marcato disagio riguardo le abbuffate.

D) L'abbuffata si verifica, mediamente, almeno una volta alla settimana per 3 mesi.

E) Non sono presenti condotte compensatorie come nella bulimia nervosa.

I livelli di gravità del binge eating sono definiti dal numero di episodi di abbuffata a settimana:
- Lieve: 1-3 episodi di abbuffata/settimana
- Moderata: 4-7
- Grave: 8-13
- Estrema: 14 o più

Il più delle volte gli individui con disturbo da Binge-eating sono obesi (indice di massa corporea superiore a
30).

Non tutte le persone comprese soddisfano i criteri per il disturbo da binge-eating solo coloro che hanno
episodi di abbuffate che riferiscono la sensazione di perdere il controllo rispetto al cibo si qualificano come
aspetti dal disturbo.

È un disturbo associando a compromissione dello svolgimento dell’attività lavorative e sociali, depressione,


ha scarsa autostima, a disturbi da uso di sostanze e a insoddisfazione per la forma del corpo.

IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE.


Per trattare i pazienti con anoressia è spesso necessario il ricovero ospedaliero, in modo da aumentare
gradatamente e monitorare attentamente la loro assunzione di cibo.
Il decremento ponderale può essere così gravi da rendere necessaria l’alimentazione per via endovenosa
per salvare la vita del paziente.
Di complicazioni mediche, come gli squilibri elettrolitici, richiedono anch’essi un intervento medico.
Tanto per anoressia quanto per la bulimia si ricorrere a interventi di tipo sia farmacologico che psicologico.
TRATTAMENTI FARMACOLOGICI.
La bulimia nervosa è stata trattata con diversi antidepressivi, come la fluioxetina (prozac), che si è
dimostrata efficace nel ridurre l’alimentazione incontrollata e il vomito e nel ridurre la depressione e gli
atteggiamenti distorti nei confronti del cibo e dell’alimentazione.

Tuttavia molte persone con bulimia interrompono il trattamento farmacologico, principalmente a causa
degli effetti collaterali del farmaco.

La terapia cognitivo-comportamentale produce meno rischi di abbandono.

La tendenza a recidivare, notevoli in caso di solo trattamento farmacologico, si riduce sempre


antidepressivi vengono somministrati nel contesto di una terapia cognitivo- comportamentale.

Anoressia nervosa. Si è intervenuto con trattamenti farmacologici, che però, non si sono dimostrati efficaci
nel ridurre incrementi ponderali.

Nel disturbo da binge-eating, il trattamento farmacologico non è stato altrettanto ben studiato, ma sembra
che i farmaci antidepressivi non siano efficaci nel ridurre le fate una perdita di peso.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DELL’ANORESSIA NERVOSA.


La terapia per l’anoressia è generalmente considerata un processo a due fasi:
1. Obiettivo immediato. Consiste nell’aiutare l’individuo ad aumentare di peso per evitare complicanze
mediche e la possibilità di morte. Programmi di terapia comportamentale (con rinforzi positivi
dell’aumento di peso).
2. Mantenimento a lungo termine degli incrementi ponderali. Si attua con:
- terapia cognitivo-comportamentale.
- Terapia familiare forma principale di trattamento psicologico per l’anoressia, basata sull’idea che le
interazioni tra i membri della famiglia del paziente possono giocare un ruolo di primo piano nel
trattamento del disturbo. Il terapeuta incontra le famiglie delle persone con anoressia durante i pranzi
di famiglia. Queste sedute durante il pasto hanno tre obiettivi principali: 1) modificare il ruolo di
paziente dell’individuo con anoressia 2) ridefinire il problema dell’alimentazione come interpersonale
3) evitare che i genitori si servono dell’anoressia del figlio per evitare il conflitto.

Una strategia consiste nell’istruire ciascun genitore perché cerchi individualmente di spingersi a mangiare
(l’altro genitore può lasciare la stanza). Ci si aspetta che gli sforzi individuali falliscono, ma a quel punto,
attraverso il fallimento e la conseguente frustrazione, la madre ed il padre possono cominciare a lavorare
insieme per persuadere il figlio a mangiare.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DELLA BULIMIA NERVOSA.


La terapia cognitivo-comportamentale è lo standard più attuale e meglio validato per il trattamento della
bulimia.

In questa terapia alle persone con bulimia vengono incoraggiate a mettere in discussione i canoni sociali
relativi all’avvenenza fisica.

Queste persone sono invitate a rivelare, e in seguito a modificare, le convinzioni che le spingono a digiunare
per evitare di diventare sovrappeso (devono essere aiutato a comprendere che si può mantenere un peso
corporeo nella norma senza alcuna dieta ferrea e che le restrizioni non realistiche dell’apporto alimentare
possono portare ad abbuffate. Si insegna loro che fanno spuntino non deve necessariamente portare ad
una fata, seguito a sua volta da vomito autoindotto o assunzione di lassativi, in una catena di azioni che
conduce ad un autostima ancora inferiore e alla depressione).

Alterare questo approccio tutto o niente può aiutare le persone con bulimia a passare ad una
alimentazione moderata.

L’obiettivo generale del trattamento della bulimia nervosa consiste nello sviluppare comportamenti
alimentari normali.

Un tipo di intervento talvolta utilizzato nel trattamento terapeutico cognitivo- comportamentale prevede
che il paziente porti piccole quantità di cibo proibito da mangiare durante la seduta (E/RP).

Si applicano tecniche di rilassamento per tenere sotto controllo il forte impulso a indurre il vomito.

Le pretese non realistiche e le distorsioni cognitive vengono continuamente messe in discussione.

Il terapeuta e paziente lavorano insieme per identificare quali siano gli eventi, i pensieri e le emozioni che
scatenano l’impulso incontrollato ad abbuffarsi, e successivamente per apprendere le modalità più
adattative con le quali affrontare tali evenienze (gli episodi di alimentazione incontrollata possono seguire
relazioni interpersonali vissute come negative, critiche, contrasti).

La terapia cognitivo-comportamentale è più efficace di qualsiasi trattamento farmacologico disponibile.

Lo è anche la terapia familiare, ma è stata meno oggetto di studio.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO DEL DISTURBO DA BINGE EATING.


La terapia cognitivo-comportamentale è efficace nei confronti del disturbo da Binge-eating.

Si concentra principalmente sulle abbuffate e sulle restrizioni alimentari, dando importanza all’auto-
monitoraggio, all’autocontrollo e alle tecniche di problem solving relative all’alimentazione.

Anche la terapia interpersonale è altrettanto efficace.

INTERVENTI PREVENTIVI PER I DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE.


Intervenire su bambini e adolescenti prima dei disturbi dell’alimentazione insorgano potrebbe contribuire
ad impedire lo sviluppo di tali disturbi.

Sono stati elaborati e attuati tre diversi tipi di interventi preventivi:

1) interventi psicoeducativi. Fornire a bambini e adolescenti informazioni sui disturbi


dell’alimentazione allo scopo di prevenire lo sviluppo di sintomi.

2) depotenziare le influenze sociali. Aiutare bambini e adolescenti a resistere alle pressioni


socioculturali che tendono a imporre la magrezza come modello.

3) individuare soggetti a rischio. Identificare persone che presentino fattori di rischio per lo sviluppo di
un disturbo dell’alimentazione (ad esempio, preoccupazioni eccessive riguardo al proprio peso e aspetto,
restrizioni dietetiche) e nell’intervenire per modificare questi fattori.

CAPITOLO 12.
I DISTURBI SESSUALI.
Genere e sessualità
Da numerosi indici emerge che negli uomini pensieri e comportamenti sessuali sono più frequenti che nelle
donne. Naturalmente si tratta di valori medi, per i quali esistono indubbie eccezioni, e la portata della
maggior parte di queste differenze è assai ridotta. Tuttavia, rispetto alle donne, gli uomini riferiscono di
pensare al sesso, di masturbarsi e di desiderare di fare sesso più spesso, oltre a desiderare un maggior
numero di partner sessuali e ad averne un maggior numero
Oltre a queste differenze nella pulsione sessuale, esistono diversi altri modi in cui i generi tendono a
differire rispetto alla sessualità. In confronto agli uomini, le donne tendono a provare maggiore vergogna
per eventuali difetti del loro aspetto e questa vergogna può interferire con la soddisfazione sessuale. Nelle
donne la sessualità appare più strettamente connessa alle condizioni generali della relazione. Ad esempio,
le donne tendono a riferire una minore pulsione sessuale e una minore tendenza a masturbarsi quando non
sono all'interno di una relazione; Oltre la metà delle donne che presentano sintomi di disfunzioni sessuali
ritiene che tali sintomi siano causati da problemi nella relazione. Rispetto alle donne, gli uomini tendono
maggiormente a vivere la loro sessualità in termini di potere.
Ma è importante riconoscere anche gli aspetti comuni, oltre che le differenze, nella sessualità dei due
generi. Ad esempio, in un'indagine condotta su oltre 1000 donne, molte riferirono - in completa analogia
con gli uomini - che le loro motivazioni principali nell'avere rapporti sessuali erano l'attrazione sessuale e la
gratificazione fisica. Sarebbe un'esagerazione sostenere che l'unica ragione per cui le donne hanno rapporti
sessuali sia quella di promuovere l'intimità della relazione. Tuttavia, è interessante notare come vi siano
degli studi dai quali emerge che alcune differenze di genere sono notevolmente coerenti anche in culture
diverse tra loro.

IL CICLO DELLA RISPOSTA SESSUALE


Nel ciclo della risposta sessuale umana Kaplan ha identificato quattro fasi.
1. Fase del desiderio: Questa fase si riferisce all'interesse o desiderio sessuale, spesso associato a fantasie
o pensieri che stimolano l'eccitazione.
2. Fase dell'eccitazione: Durante questa fase, uomini e donne presentano una maggiore irrorazione
sanguigna dei genitali. Questo afflusso di sangue ai tessuti si manifesta nell'uomo come ere zione del
pene e nella donna come turgore dei seni e modificazioni a livello vaginale, quali un'accresciuta
lubrificazione.
3. Fase dell'orgasmo: In questa fase si raggiunge il picco di piacere sessuale, con modalità che da migliaia
d'anni affascinano i poeti e il resto dei comuni mortali. Nel maschio vi è la sensazione di inevitabilità
dell'eiacula zione, che in effetti si verifica quasi sempre (in casi rari alcuni uomini possono raggiungere
l'orgasmo senza eiaculare e viceversa). Nella femmina vi sono contra zioni delle pareti esterne della
vagina. In entrambi i sessi vi è un generale incremento di tensione musco lare.
4. Fase della risoluzione: Quest'ultima fase consiste nel rilassamento muscolare e nella sensazione di
benessere generale che solitamente seguono un orgasmo. Nell'uomo si ha un concomitante periodo
refrattario, durante il quale l'erezione non è possibile. La durata del periodo refrattario varia nei diversi
individui e anche nello stesso individuo in diverse occasioni. Le donne sono spesso in grado di
rispondere quasi immediata mente a nuove stimolazioni con l'eccitazione sessuale, una capacità che
consente orgasmi multipli.

Dati più recenti mettono in dubbio la validità della distinzione tra fase del desiderio e fase dell'eccitazione
nelle donne. Vale a dire che, sebbene il modello appena presentato suggerisca che il desiderio precede
l'eccitazione, molte donne riferiscono che in loro desiderio ed eccitazione si presentano insieme e non sono
distinguibili (Graham, 2010). Inoltre, circa un terzo delle donne riferisce che in loro il desiderio segue
(anziché precedere) l'eccitazione fisiologica.
Vi è anche qualche dubbio riguardo al modo in cui Kaplan ha definito la fase dell'eccitazione basandosi su
modificazioni biologiche. È possibile che per le donne la sensazione soggettiva di eccitazione non rispecchi
l'eccitazione biologica.
Mentre tendono a essere fortemente correlate negli uomini, l'eccitazione biologica e quella soggettiva
vanno considerate separata mente nelle donne.

Imparare dalla storia: omosessualità e disforia di genere


Fino al 1973, l'omosessualità veniva classificata nel DSM come uno dei disturbi sessuali. Nel 1973 la
Commissione Nomenclatura della American Psychiatric Association, in seguito alle pressioni di
professionisti della salute mentale e di gruppi di attivisti, raccomandò di eliminare la categoria
«omosessualità» e di sostituirla con quella di «disturbo dell'orientamento sessuale». Questa nuova
diagnosi doveva essere applicata agli uomini e alle donne omosessuali <<disturbati dal loro orientamento
sessuale, in conflitto con esso o desiderosi di modificarlo». Il cambiamento proposto fu approvato, ma non
senza le veementi proteste di diversi noti psichiatri, convinti che l'omosessualità riflettesse una fissa zione a
uno stadio precoce dello sviluppo psicosessuale e che dunque fosse intrinsecamente anormale.
Quando nel 1980 venne pubblicato il DSM-III, la commissione nomenclatura aggiunse una nuova categoria
detta omosessualità ego-distonica; tale categoria si riferiva a quelle persone che si eccitano in modo
omosessuale, che trovano in questo tipo di eccitazione una fonte persistente di profondo disagio, e che
desiderano diventare eterosessuali. La categoria «omosessualità ego-distonica» venne lasciata cadere nelle
edizioni successive del DSM. Al suo posto, la categoria generica di «disturbo sessuale non altrimenti
specificato», che si riferisce a un «persistente e intenso disagio riguardo al proprio orienta mento
sessuale», è stata inclusa nel DSM-IV e nel DSM-IV-TR. La nuova categoria non specifica un orientamento
sessuale, ma, piuttosto, è applicabile quando una persona prova disagio riguardo al proprio orientamento,
eterosessuale o omosessuale che sia.
Benché non includa più una categoria diagnostica specifica per l'omosessualità, il DSM-5 continua a
includere la categoria della disforia di genere, cosa che ha provocato una controversia analoga. Alcune
persone, di solito fin dalla prima infanzia, sentono profondamente dentro di sé di appartenere al sesso
opposto. La presenza di genitali normali non è sufficiente a convincerle di essere così come gli altri le
vedono. Un uomo può guardarsi allo specchio, vedere il corpo di un individuo biologicamente maschio e,
malgrado ciò, affermare di essere donna. È possibile allora che egli cerchi di modificare chirurgicamente il
suo corpo per farlo corrispondere alla sua identità di genere, Il DSM-5 prevede una diagnosi di disforia di
genere per coloro che esperiscono una forte e persistente identificazione con il sesso opposto.
La disforia viene diagnosticata solo quando il desiderio di appartenere al sesso opposto provoca un marcato
disagio e la compromissione di importanti aree funzionali dell'individuo.

DISFUNZIONI SESSUALI.
Il DSM5 suddividere disfunzioni sessuali in tre categorie:
1. Disturbi che riguardano la sfera del desiderio, dell’eccitazione e degli interessi sessuali.
2. Disturbi dell’orgasmo.
3. Disturbi da dolore sessuale.

Vengono fornite diagnosi separate per gli uomini per le donne.

I criteri diagnostici di tutte le disfunzioni sessuali specificano che la disfunzione deve essere persistente il
ricorrente e deve causare distress clinicamente significativo o problemi nello svolgimento delle normali
funzioni quotidiane.

Una diagnosi di disfunzione sessuale non viene formulata se si ritiene che il disturbo sia dovuto
esclusivamente ad una condizione medica, o a un altro disturbo psicologico (come una grave depressione).

• DISTURBI CHE RIGUARDANO LA SFERA DEL DESIDERIO, DELL’ECCITAZIONE E DEGLI INTERESSI


SESSUALI.
− Disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile.
− Disturbo del desiderio sessuale ipoattivo maschile.
− Disturbo erettile.

DISTURBO DEL DESIDERIO SESSUALE E DELL’ECCITAZIONE SESSUALE FEMMINILE.


Criteri diagnostici:
A) Diminuita, assente o ridotta frequenza di almeno tre dei seguenti fattori per sei mesi o più:
- Interesse per l’attività sessuale;
- Pensieri e fantasie sessuali;
- Dare inizio attività sessuale e rispondere positivamente ai tentativi del partner di iniziare;
- Eccitazione/piacere sessuale durante il 75% degli incontri sessuali;
- Interesse/attivazione sessuale sollecitati da stimoli interni o esterni;
- Sensazioni genitali o non genitali durante il 75% degli incontri sessuali.

Per gli uomini le diagnosi incluse nel DSM considerano separatamente interesse sessuale ed eccitazione:
DISTURBO DEL DESIDERIO SESSUALE IPOATTIVO MASCHILE
• Fantasie sessuali o desiderio di attività sessuale persistentemente carenti o assenti, alla valutazione del
clinico.

DISTURBO ERETTILE
Criteri diagnostici:
In almeno il 75% delle occasioni sessuali per un periodo di almeno sei mesi:
• Incapacità di raggiungere o mantenere un’erezione fino al completamento dell’attività sessuale
Oppure
• Una marcata riduzione della rigidità erettile interferisce con la penetrazione e il piacere

• DISTURBI DELL’ORGASMO: presenta diagnosi separate per gli uomini e per le donne:
− Disturbo dell’orgasmo femminile.
− Eiaculazione precoce.
− Eiaculazione ritardata.

DISTURBO DELL’ORGASMO FEMMINILE


Si riferisce alla persistenze assenza o ridotta intensità dell’orgasmo dopo l’eccitazione sessuale.
Le donne differiscono nella loro soglia dell’orgasmo. Mentre alcune raggiungono l’orgasmo rapidamente e
senza molta stimolazione clitoridea, altre hanno bisogno di una stimolazione clitoridea prolungata. Infatti,
non sorprende che circa un terzo delle donne riferisce di non raggiungere sempre l’orgasmo con il proprio
partner.
Il disturbo dell’orgasmo femminile viene diagnosticato solo se l’assenza di orgasmo è persistente tale da
causare sofferenza soggettiva.
Nelle donne i problemi a raggiungere l’orgasmo sono distinti dai problemi relativi all’eccitazione sessuale.
Le donne che soffrono di questo disturbo si eccitano e provano piacere durante l’attività sessuale, anche se
poi hanno difficoltà ad arrivare all’orgasmo.

Criteri diagnostici:
A) in almeno il 75% delle occasioni sessuali per un periodo di almeno sei mesi:
− Marcato ritardo, infrequenza o assenza dell’orgasmo
Oppure
− Intensità notevolmente ridotta della sensazione orgasmica.
Il DSM 5 descrive due disturbi dell’orgasmo negli uomini:
EIACULAZIONE PRECOCE
Definita come una eiaculazione che si verifica troppo rapidamente. Il DSM-5 definisce ‘’precoce’’
l’eiaculazione che si verifica meno di un minuto dopo l’introduzione del pene. La scelta del criterio di un
minuto è stata basata su studi condotti in vari paesi, dai quali è emerso che mediamente l’eiaculazione
avviene 5 minuti dopo l’introduzione del pene.
Criteri diagnostici:
− Tendenza a eiaculare durante l’attività sessuale con un/a partner entro un minuto dall’inizio
dell’attività in almeno il 75% delle occasioni sessuali durante un periodo di almeno sei mesi.

EIACULAZIONE RITARDATA
È la disfunzione sessuale maschile meno comune, in quanto meno dell’1% degli uomini ne riferisce i
sintomi.

Criteri diagnostici:
• Marcato ritardo, in frequenza o assenza dell’orgasmo in almeno il 75% delle occasioni sessuali per un
periodo di almeno sei mesi.
• DISTURBI DA DOLORE SESSUALE.
• Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione.

DISTURBO DEL DOLORE GENITO PELVICO E DELLA PENETRAZIONE


È definito dalla presenza di dolore ricorrente o persistente durante il rapporto sessuale. Questa categoria di
disturbi sessuali si concentra su diagnosi che riguardano unicamente le donne.
Le donne che hanno questo disturbo spesso soffrono di vaginismo, definito come la contrazione
involontaria della muscolatura nel terzo più esterno della vagina, tale da rendere impossibile la
penetrazione.
Il primo passo da compiere nel formulare la diagnosi consiste nell’accertarsi che il dolore non sia causato da
un problema medico.
La maggior parte delle donne con questo disturbo presenta normali livelli di eccitazione sessuale e può
avere orgasmi in seguito a stimolazione orale o manuale che non comprenda la penetrazione.

Criteri diagnostici:
Persistenti o ricorrenti difficoltà durante un periodo di almeno sei mesi in presenza di almeno uno dei
seguenti fattori:
- Incapacità di avere un rapporto/penetrazione vaginale;
- Marcato dolore vulvovaginale o pelvico durante la penetrazione vaginale o i tentativi di avere un
rapporto;
- Notevole paura o ansia riguardo al dolore o alla penetrazione;
- Marcata contrazione della muscolatura del pavimento pelvico durante tentativi di penetrazione
vaginale.

Dolore persistente o ricorrente durante il rapporto sessuale. Alcune donne possono riferire il dolore
durante l’atto della penetrazione, anche dopo.

DISFORIA DI GENERE. NUOVA CATEGORIA DEL DSM-5.


Criteri diagnostici:
DISFORIA DI GENERE NEI BAMBINI
A) Una marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso da un individuo e il genere assegnato, della
durata di almeno 6 mesi, che si manifesta attraverso almeno sei dei seguenti criteri:
1. Un forte desiderio di appartenere al genere opposto o insistenza sul fatto di appartenere al genere
opposto.
2. Nei bambini, una forte preferenza per il travestimento con abbigliamento tipico del genere opposto o per
la simulazione dell'abbigliamento femminile; nelle bambine, una forte preferenza per l'indossare
esclusivamente abbigliamento tipicamente maschile e una forte resistenza a indossare abbigliamento
tipicamente femminile.
3. Una forte preferenza per i ruoli tipicamente legati al genere opposto nei giochi del “far finta” o di
fantasia.
4. Una forte preferenza per giocattoli, giochi o attività stereotipicamente utilizzati o praticati dal genere
opposto.
5. Una forte preferenza per compagni di gioco del genere opposto.
6. Nei bambini, un forte rifiuto per giocattoli, giochi o attività tipicamente maschili, e un forte evitamento
dei giochi in cui ci si azzuffa; nelle bambine, un forte rifiuto di giocattoli, giochi o attività tipicamente
femminili.
7. Una forte avversione per la propria anatomia sessuale.
8. Un forte desiderio per le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie corrispondenti al genere
opposto.
B) La condizione è associata a sofferenza clinicamente significativa o a compromissione del funzionamento
in ambito sociale, scolastico o in altre aree importanti.
DISFORIA DI GENERE NEGLI ADOLESCENTI E NEGLI ADULTI
A) Una marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso da un individuo e il genere assegnato,
della durata di almeno 6 mesi, che si manifesta attraverso almeno due dei seguenti criteri:
1. Una marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso da un individuo e le caratteristiche sessuali
primarie e/o secondarie.
2. Un forte desiderio di liberarsi delle proprie caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie a causa di una
marcata incongruenza con il genere esperito/ espresso di un individuo.
3. Un forte desiderio per le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie del genere opposto.
4. Un forte desiderio di appartenere al genere opposto.
5. Un forte desiderio di essere trattato come appartenente al genere opposto.
6. Una forte convinzione di avere i sentimenti e le relazioni tipici del genere opposto.
B) La condizione è associata a sofferenza clinicamente significativa o a compromissione del funzionamento
in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

EZIOLOGIA DELLE DISFUNZIONI SESSUALI


Masters e Johnson (1970) delinearono una teoria delle cause delle disfunzioni sessuali basata su studi di
casi tratti dalla loro pratica clinica. Masters e Johnson distinsero fra cause attuali e cause remote
Le cause attuali sono sostanzialmente due: le paure legate alla prestazione e l'adozione del ruolo di
spettatore.
Le paure legate alla prestazione si riferiscono alla preoccupazione per il livello della propria prestazione
durante il rapporto sessuale. Il ruolo di spettatore si riferisce al fatto di porsi nell'esperienza sessuale come
un osservatore piuttosto che come un partecipante. Queste due preoccupazioni, fra loro corre late,
impediscono di avere le risposte sessuali naturali. Masters e Johnson ipotizzarono che queste cause attuali
delle disfunzioni sessuali avessero uno o più antecedenti biografici, come influenze socioculturali, cause
biologiche, abusi sessuali o preferenze omosessuali. Il lavoro di Masters e Johnson mise in rilievo che il
funzionamento sessuale è complesso e multifattoriale, e avviò i ricercatori allo studio sistematico dei fattori
di rischio delle disfunzioni sessuali. Passiamo ora a esaminare le cause delle disfunzioni sessuali.

Fattori biologici
Come si è già detto, il primo passo da compiere nel trarre una diagnosi di disfunzione sessuale consiste
nell'escludere condizioni mediche quali fattori causali. Il DSM-5 include diagnosi separate per le disfunzioni
sessuali causate da condizioni mediche. Questa sud divisione delle diagnosi ha suscitato critiche, perché alle
disfunzioni sessuali spesso contribuiscono sia cause biologiche sia cause psicologiche. Le cause biologiche
possono includere malattie come il diabete mellito, la sclerosi multipla, lesioni del midollo spinale, forte
consumo di alcol prima dell'attività sessuale, dipendenza cronica dall'alcol e il fumo di sigaretta in dosi
massicce.
Farmaci quali gli antipertensivi e in particolare gli antidepressivi come il Prozac e lo Zoloft, ossia gli inibitori
selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), hanno effetti sulla funzione sessuale, quali orgasmo
ritardato, diminuzione della libido e minore lubrificazione.
Oltre a queste cause cliniche di ordine generale, alcuni fattori biologici potrebbero essere specificamente
correlati a determinate disfunzioni sessuali. Ad esempio, alcune donne con disturbo del dolore genito-
pelvico e della penetrazione sembrano possedere una ipersensibilità al dolore su base neurologica.

Fattori psicosociali
Alcune disfunzioni sessuali possono essere ricondotte a uno stupro, all'abuso sessuale nell'infanzia o a
esperienze sessuali degradanti. L'abuso sessuale durante l'infanzia è associato a livelli più bassi di desiderio
ed eccitazione, e negli uomini a un tasso doppio di eiaculazione precoce rispetto a quello riscontrato nella
popolazione maschile.
Oltre al ruolo delle esperienze traumatiche è importante considerare i vantaggi delle esperienze positive:
molti individui con problemi sessuali mancano di conoscenze e abilità specifiche perché non hanno avuto
opportunità di apprendimento e di maggiore consapevolezza riguardo alla propria sessualità.

Problemi relazionali di più ampia portata spesso interferiscono con l'eccitazione e il piacere sessuali.
Nelle donne, le preoccupazioni relative all'affetto del partner nei loro confronti appaiono specificamente
correlate con la soddisfazione sessuale.
Nelle persone che tendono a provare ansia rispetto alla relazione con il/la partner, i problemi sessuali
possono esacerbare preoccupazioni soggiacenti relative alla stabilità del rapporto. Come è facile aspettarsi,
coloro che provano rabbia nei confronti del partner hanno minori probabilità di desiderare di avere
rapporti sessuali con questa persona. Anche nelle coppie che sono soddisfatte in altri ambiti del rapporto,
una comunicazione mediocre può contribuire alla disfunzione sessuale. Per un numero indefinito di ragioni
- imbarazzo, desiderio di non ferire i sentimenti del partner, paura e così via - un partner può non
esprimere all'altro le proprie preferenze anche quando questi intraprende attività non stimolanti o
addirittura sgradevoli.
Ansia e depressione accrescono il rischio di disfunzioni sessuali. Le persone depresse hanno probabilità più
che doppie, rispetto alle persone non depresse, di avere una disfunzione sessuale. A rischio di disfunzioni
sessuali sono anche le persone con il disturbo di panico, che spesso sono spaventate da sensazioni fisiche
intense come frequenza cardiaca elevata e sudorazione copiosa e depressione presentano comunemente
comorbilità con i disturbi da dolore sessuale e con il disturbo del desiderio sessuale e della eccitazione
sessuale femminile
Se è evidente che depressione e ansia hanno effetti negativi sull'attività sessuale, diversi studi indicano che
anche un basso livello di attivazione fisiologica generale può interferire con l'eccitazione sessuale. Meston
e Gorzalka (1995) hanno studiato il ruolo dell'attivazione fisiologica assegnando delle donne a due diverse
condizioni, una che prevedeva attività fisica e una che non la prevedeva, e successivamente chiedendo loro
di guardare filmati erotici. Coerentemente con il ruolo positivo che si supponeva avesse la maggiore
attivazione, l'attività fisica facilitava l'eccitazione sessuale.
Di conseguenza non c'è da stupirsi se, dopo un'intera giornata di lavoro, cura dei figli, impegni sociali o di
altro tipo, le coppie esauste possono avere problemi con la sessualità. Il troppo stress e la spossatezza
chiaramente ostacolano il funzionamento sessuale.
Pensieri negativi, come il timore di una gravidanza o di contrarre l'AIDS, atteggiamenti negativi riguardo al
sesso o problemi con il partner sono tutti elementi che interferiscono con il funzionamento sessuale.
Per molte donne anche pensieri negativi intrusivi sul loro peso o il loro aspetto fisico incidono sulla
capacità di trarre piacere dal sesso. Ma, come per primi hanno indicato Masters e Johnson, particolarmente
importanti sono i pensieri concernenti la prestazione sessuale, sia per gli uomini sia per le donne (Carvalho
e Nobre, 2010). Si consideri che nella prestazione sessuale la variabilità è comune; una giornata stressante,
un contesto che distrae, un problema del rapporto o un numero indefinito di altre questioni possono fare
diminuire la reattività sessuale. La questione chiave potrebbe essere il modo in cui le persone pensano alla
loro diminuita risposta fisica quando questa ha luogo. Una possibilità è che le persone che in colpano se
stesse della diminuita prestazione sessuale avranno maggiori probabilità di sviluppare problemi ricorrenti.

Nell'indagare le fonti dei pensieri negativi, Masters e Johnson riscontrarono che molti dei loro soggetti con
disfunzioni sessuali avevano appreso una visione nega tiva della sessualità dal loro ambiente sociale e
culturale. Alcune religioni e culture, ad esempio, scoraggiano la sessualità praticata per trarne piacere, in
particolare al di fuori del matrimonio. Altre culture disapprovano l'iniziativa sessuale e comportamenti
sessuali da parte delle donne, e ammettono l'attività sessuale solo se finalizzata alla pro creazione.

TRATTAMENTO DELLE DISFUNZIONI SESSUALI.


La natura pluridimensionale delle disfunzioni sessuali spesso richiede che si intervenga combinando
tecniche diverse.

INTERVENTI DI RIDUZIONE DELL’ANSIA.


Molte delle disfunzioni sessuali sono dovuti agli aspetti ansiogeni della situazione sessuale, per cui le
tecniche di esposizioni graduali, come la desensibilizzazione sistematica e la desensibilizzazione in vivo
hanno avuto molto successo, specialmente se associate all’addestramento in abilità specifiche.

Anche i programmi psicoeducativi (riguardo al proprio corpo e alla sessualità) sono molto efficaci per
ridurre l’ansia.

PROCEDURE PER MODIFICARE ATTEGGIAMENTI E PENSIERI


Gli esercizi di focalizzazione sensoriale aiutano la persona a concentrarsi sulle sensazioni fisiche, così da
contrastare la tendenza distruttiva a pensare alla propria performance o a dubitare della propria attrattività
durante il sesso. Altri interventi cognitivi cercano di mettere in discussione quei pensieri perfezionistici,
fondati su eccessive richieste a se stessi, che spesso sono una delle cause dei problemi di cui soffrono le
persone con disfunzioni sessuali. Un terapeuta potrebbe cercare di ridurre la pressione a cui un uomo con
disfunzione erettile si sente sottoposto mettendone in discussione la convinzione che la penetra zione sia
l'unica vera forma di attività sessuale. Donne ipercritiche sul proprio aspetto possono essere addestrate a
considerare in termini più positivi il proprio corpo e la propria sessualità.

ADDESTRAMENTO ALLA COMUNICAZIONE


Di particolare utilità per una vasta gamma di disfunzioni sessuali è incoraggiare i partner a comunicarsi ciò
che preferiscono e ciò che, invece, non gradiscono. L'addestramento alla comunicazione espone i partner a
situazioni potenzialmente ansiogene, come l'esprimere le proprie preferenze in fatto di sesso, con il
risultato di produrre un effetto desensibilizzante. L'addestramento alla comunicazione è particolarmente
opportuno quando la disfunzione sessuale è specifica per una data relazione e non era stata un problema
con i partner precedenti.
Masturbazione guidata
La tecnica della masturbazione guidata venne ideata da LoPiccolo e Lobitz (1972) per accrescere il
benessere e il piacere che le donne traggono dalla sessualità.

Nella prima fase la donna esamina attentamente il proprio corpo nudo, compresi genitali, identifica varie
aree con l’ausilio di disegni. Successivamente, viene istruita toccare i propri genitali e a localizzare aree
erogene. Qui, accresce l’intensità della masturbazione ricorrendo a fantasie erotiche. Fino a raggiungere
l’orgasmo, può anche utilizzare un vibratore durante la masturbazione.

Infine, il partner entra a far parte della situazione, osservandola masturbarsi, poi facendo per lei quello che
lei fino a quel momento ha fatto per se stessa, e da ultimo avendo un rapporto sessuale in una posizione
che consente di stimolare i genitali della donna manualmente o con un vibratore.

Efficace nel trattamento del disturbo dell’orgasmo e nel trattamento del disturbo del desiderio sessuale.

TERAPIA DI COPPIA.
Le disfunzioni sessuali sono spesso parte di una relazione in crisi. Le coppie che vivono questa situazione
hanno bisogno di un addestramento specifico per incrementare le proprie capacità di comunicazione non
attinenti alla sfera sessuale. Talvolta una terapia incentrata su tematiche non sessuali, come difficoltà
relative ai parenti acquisiti o all’educazione dei figli, si rivela necessaria appropriata, sia da sola in
associazione ad una terapia specificamente sessuale. Le terapia comportamentale di coppia migliora molti
aspetti del funzionamento sessuale delle donne che presentano disfunzioni sessuali nel contesto di un
rapporto di coppia in crisi.

FARMACI E TRATTAMENTI FISICI.


Occorre sempre tenere presente che molte disfunzioni sessuali sono profondamente inseriti in un quadro
complesso di conflitti interpersonali, e quindi cercare di risolvere con un approccio strettamente medico
non rappresenta la soluzione migliore.

Nonostante ciò, è stato un enorme incremento di approcci farmacologici alle disfunzioni sessuali.

Ad esempio, una depressione fa parte del quadro clinico e contribuisce a ridurre la pulsione sessuale, i
farmaci antidepressivi possono essere d’aiuto. Tuttavia, una complicazione dal fatto che alcune di queste
sostanze attive interferiscono con la risposta sessuale. Talvolta, viene usato un secondo farmaco per
contrastare gli effetti collaterali del primo sulla funzione sessuale lo Zyban agisce sulla riduzione di libido
causata da farmaci quali gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.

Eiaculazione precoce.
Per il trattamento viene spesso usata la tecnica della compressione, nella quale per ridurre rapidamente
l’eccitazione il partner viene addestrato a comprimere i temi tra glande e fusto.

Questa viene praticata prima della penetrazione, e poi durante la penetrazione viene ritratto e la
compressione ripetuta quando necessario.

Farmaci antidepressivi come gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina si sono dimostrati utili
nel trattamento delle eiaculazione precoce.

Trattamento disturbo erettile.


Si utilizzano inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE-5), come il Viagra. Sebbene questi farmaci possano
produrre effetti collaterali come cefalea e dispepsia, la maggior parte degli uomini sarà disposto a tollerarli
per ottenere sollievo dai propri sintomi sessuali.

DISTURBI PARAFILICI.
I disturbi parafilici sono definiti disturbi nei quali l’eccitazione sessuale viene suscitata in modo ricorrente, e
per un periodo di almeno 6 mesi, da oggetti inusuali oppure da attività sessuali di natura inusuale.
Vi è una deviazione (para) rispetto a ciò che suscita attrazione (philia)
Il DSM differenzia i disturbi sulla base della fonte dell’eccitazione sessuale.
Poiché alcuni di questi comportamenti stanno diventando sempre più comuni, si è aperto un ampio
dibattito circa l’opportunità e la correttezza di diagnosticare come disturbi alcune parafilie.
Il DSM-5 mantiene queste etichette, ma a esse aggiunge il termine disturbo per sottolineare che le diagnosi
devono essere tratte solo quando la specifica attrazione sessuale causa alla persona notevole disagio o
compromissione funzionale, oppure se le attività sessuali vengono praticate con persone non consenzienti.
Poiché alcune di queste persone ricercano partner non consenzienti, o comunque violano i diritti altrui
infrangendo la legge (disturbo esibizionistico e pedofilico), questi disturbi possono avere conseguenze
penali.
Nella maggior parte dei casi le persone con disturbi parafilici sono maschi ed eterosessuali. Per molti
disturbi parafilici l’esordio avviene tipicamente nell’adolescenza, ma per il disturbo da sadismo sessuale e
quello da masochismo sessuale l’esordio tende ad avvenire all’inizio dell’età adulta.
Nella maggior parte dei casi chi presenta un disturbo parafilico, soddisfa i criteri anche per altri disturbi
parafilici, ma anche disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e disturbi da uso di sostanze.
Tra i disturbi parafilici abbiamo:
• Disturbo feticistico.
• Disturbo del travestitismo.
• Disturbo pedofilico
• Disturbo esibizionistico.
• Disturbo voyeuristico.
• Disturbo frotteuristico.
• Disturbo da masochismo sessuale.
• Disturbo da sadismo sessuale.
• Disturbo parafilico con altra specificazione.

DISTURBO FETICISTICO
È definito dall’uso di un oggetto inanimato o di una parte non genitale del corpo per raggiungere
l’eccitazione sessuale. Con il termine feticcio si fa riferimento all’oggetto di questi impulsi sessuali, ad
esempio scarpe o piedi femminili.

Chi è affetto da questo disturbo, quasi sempre un maschio, ha impulsi sessuali ricorrenti e intensi nei
confronti di questi feticci, e la presenza del feticcio e marcatamente preferita o addirittura necessaria per
l’eccitazione sessuale. Feticci comuni sono capi di vestiario, capi in pelle e articoli associati ai piedi. Oltre
che agli oggetti inanimati, alcune persone traggono eccitazione sessuale da parti del corpo non sessuali
come capelli, unghie, mani o piedi.

La persona con disturbo feticistico prova un’attrazione compulsiva verso l’oggetto, tale attrazione viene
esperita come involontaria e irresistibile

Alcuni vivono il loro feticismo in solitudine e in segreto accarezzandolo, baciandolo, odorandolo oppure
semplicemente guardando l’oggetto adorato, oppure usandolo per masturbarsi. Altri riescono a
raggiungere l’orgasmo solo se un partner indossa il feticcio, e il disagio che ciò provoca nel partner è uno
dei modi in cui questa condizione emerge a livello diagnosticabile.

Criteri diagnostici:
• Durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, desideri o comportamenti ricorrenti, intensamente
eccitanti sessualmente, che comportano l’utilizzo di oggetti inanimati o di parti del corpo non genitali.
• Gli oggetti sessualmente eccitanti non sono limitati a capi di abbigliamento femminile usati per
travestirsi oppure a strumenti progettati della stimolazione tattile dei genitali, come un vibratore.
• Le fantasie, gli impulsi sessuali o i comportamenti causano disagio significativo o compromissione del
funzionamento dell’individuo.

DISTURBO PEDOFILICO E INCESTO


Secondo il DSM, il disturbo pedofilico (dal greco antico pedos, «fanciullo», e philia «attrazione») viene
diagnosticato quando degli adulti traggono gratificazione sessuale dal contatto sessuale con bambini
prepuberi, oppure quando i loro desideri ricorrenti e intensi di contatto sessuale con bambini prepuberi
causano disagio a loro stessi o ad altri.
Il criteri del DSM-5 specificano che il soggetto cui viene diagnosticato questo disturbo deve avere almeno
16 anni e almeno 5 anni più del bambino. Alcuni possono soddisfare i criteri diagnostici del disturbo anche
in assenza di atti concreti, se l'attrazione sessuale è tale da causare loro un disagio significativo. Come nella
maggior parte dei disturbi parafilici, una forte attrazione controlla il comportamento. Talvolta un uomo con
disturbo pedofilico si accontenta di accarezzare i capelli del bambino, ma può anche manipolarne i genitali,
incoraggiare il bambino a manipolare i suoi e, più raramente, tentare la penetra zione. Le molestie possono
ripetersi per settimane, mesi o anni.
In genere le persone con disturbo pedofilico molestano bambini che conoscono, come figli di vicini o di
amici di famiglia. Nella maggior parte dei casi, il disturbo pedofilico non comporta altra violenza che l'atto
sessuale, ma talvolta la violenza può andare oltre, come testimoniano alcune sordide vicende portate
all'attenzione della pubblica opinione dai media. Poiché nel disturbo pedofilico una palese violenza fisica si
manifesta solo raramente, spesso il molestatore di bambini nega di aver imposto le sue attenzioni alla
vittima. L'abuso sessuale infantile comporta per sua stessa natura un terribile tradimento della fiducia del
bambino e gravi conseguenze psicologiche.
Per metà si tratta di maschi adolescenti. Le persone con questo disturbo possono avere orientamento
etero oppure omosessuale, benché la maggioranza sia eterosessuale. Gli uomini eterosessuali con disturbo
pedofilico sono per la maggior parte sposati o lo sono stati.
La diagnosi di disturbo pedofilico non viene formulata unicamente in base all'at trazione sessuale, ma è
tratta solo quando l'adulto agisce sulla base dei suoi impulsi sessuali verso i bambini, oppure quando quegli
impulsi raggiungono una tale frequenza o intensità da causare uno stato di malessere nella persona o chi le
è vicino.

L'incesto è classificato come un sottotipo del disturbo pedofilico. Con il termine incesto si fa riferimento a
relazioni sessuali tra parenti stretti per i quali il matrimonio è proibito. La sua forma più comune è l'incesto
tra fratello e sorella, seguita da quella tra padre e figlia, considerata più patologica.
Il tabù nei confronti dell'incesto è praticamente universale nelle società umane (Ford e Beach, 1951), con la
notevole eccezione dei faraoni egiziani, che potevano sposare le sorelle o altre parenti strette. Nell'antico
Egitto si credeva che il sangue reale non dovesse essere contami nato da quello di persone estranee. Il tabù
dell'incesto risulta molto sensato sulla base delle conoscenze scientifiche attuali. I figli di un'unione padre-
figlia o fratello-sorella hanno maggiori probabilità di ereditare una coppia di geni recessivi, uno da ciascun
genitore. Molti geni recessivi hanno effetti biologici negativi, quali gravi difetti congeniti. Il tabù dell’incesto
ha quindi un significato adattivo da un punto di vista evoluzionistico.
Tipicamente gli uomini che commettono incesto abusano delle figlie pubescenti, mentre gli uomini con
disturbo pedofilico non incestuoso di solito sono interessati a bambini prepuberi.

Criteri diagnostici:
A) durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti,
intensamente eccitanti sessualmente, che comportano contatto sessuale con un bambino di età
prepuberale o con bambini (in genere sotto i 13 anni di età).
B) la persona ha agito sulla base di questi impulsi sessuali per un periodo di almeno sei mesi e questi
impulsi e fantasie causano disagio clinicamente significativo o problemi interpersonali.
C) La persona ha almeno 16 anni ed è di almeno 5 anni maggiore del bambino.

DISTURBO VOYEURISTICO.
Il disturbo voyeuristico è caratterizzato da un intenso e ricorrente desiderio di raggiungere la gratificazione
sessuale attraverso l'osservazione di altre persone mentre sono svestite o impegnate in attività sessuali.
Per alcuni uomini con questo disturbo, il voyeurismo è l'unica attività sessuale; per altri si tratta di quella
preferita ma non assolutamente essenziale per l'eccitazione sessuale. L'atto di guardare furtivamente aiuta
la persona a eccitarsi sessualmente, e talvolta è essenziale per l'eccitazione. Le persone con disturbo
voyeuristico raggiungono l'orgasmo mediante masturbazione, mentre guardano o successivamente quando
ricordano ciò che hanno veduto. Talvolta la persona con disturbo voyeuristico fantastica di avere un
contatto sessuale con la persona osservata, ma il più delle volte questa rimane una fantasia; infatti è raro
che chi è affetto da questo disturbo cerchi di entrare in contatto con la persona osservata. Un autentico
voyeur, quasi sempre un uomo, non trova particolarmente eccitante guardare una donna che si spoglia per
lui. L'elemento del rischio sembra importante, perché il voyeur è eccitato dal pensiero di come la donna
reagirebbe, se sapesse di essere osservata.
Criteri diagnostici:
A) durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti,
intensamente eccitanti sessualmente, che comportano l’atto di osservare una persona ignara mentre nuda,
si sta svestendo o è impegnata in attività sessuali.
B) la persona ha agito sulla base dei suoi impulsi sessuali a discapito di un’altra persona non consenziente,
oppure impulsi e fantasie causano notevole disagio o problemi interpersonali.

DISTURBO ESIBIZIONISTICO.
Il disturbo esibizionistico consiste in un desiderio ricorrente e intenso di raggiungere la gratificazione
sessuale mediante l'esposizione dei propri genitali a un estraneo non consenziente, talvolta un bambino.
Come per il disturbo voyeuristico, sono rari i tentativi di avere un contatto effettivo con la persona
sconosciuta. Molti esibizionisti si masturbano mentre espongono i propri genitali. Nella maggior parte dei
casi c'è il desiderio di imbarazzare o di scioccare chi guarda.
L'impulso a mostrarsi sembra essere travolgente e praticamente incontrollabile per l'esibizionista, e a
quanto pare è scatenato dall'ansia e da uno stato di agitazione oltre che dall'eccitazione sessuale. Nella
tensione del momento, molti descrivono sintomi tipici dell'ansia, come mal di testa, palpitazioni e
derealizzazione. A causa della natura compulsiva dell'impulso, le esposizioni possono essere ripetute con
una certa frequenza, e perfino nello stesso luogo e nello stesso momento della giornata. Al momento
dell'atto, le conseguenze sociali e legali del proprio comportamento sono lontane dalla mente dei soggetti
esibizionisti. Dopo essersi esposti, gli esibizionisti tendono a fuggire e a provare rimorso. In uno studio è
risultato che persone con la diagnosi di disturbo esibizionistico riferivano di essere state arrestate solo una
volta su 150 episodi.
Criteri diagnostici:
A) Durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti,
intensamente eccitanti sessualmente, che comportano l’esposizione dei propri genitali ad un estraneo che
non si aspetta.
B) La persona ha agito sulla base dei suoi impulsi sessuali a discapito di un’altra persona non consenziente,
oppure impulsi e fantasie causano notevole disagio o problemi interpersonali.

DISTURBO FROTTEURISTICO
Nel disturbo frotteuristico i desideri e gli impulsi sessuali sono incentrati sul toccare in modo sessualmente
orientato una persona non consenziente. La persona con questo disturbo può strofinare il pene contro le
cosce o le natiche di una donna oppure può palpeggiarne le mammelle o i genitali. Questi episodi
avvengono tipicamente in luoghi affollati, come mezzi di trasporto pubblico o marciapiedi, che assicurino
una facile via di fuga. La maggior parte degli uomini che presentano questo disturbo riferisce di mettere in
atto le proprie pulsioni frotteuristiche molto di frequente. Il disturbo frotteuristico non è stato oggetto di
ricerche molto estese.

Criteri diagnostici:
A) Durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti,
intensamente eccitanti sessualmente, che comportano il toccare e lo strofinarsi contro una persona non
consenziente.
B) la persona ha agito sulla base dei suoi impulsi sessuali a discapito di un’altra persona non consenziente,
oppure impulsi e fantasie causano notevole disagio o problemi interpersonali.

DISTURBI DA SADISMO SESSUALE E DA MASOCHISMO SESSUALE


Nel disturbo da sadismo sessuale al centro dell'eccitazione sessuale vi è il desiderio di infliggere una
sofferenza fisica o psicologica (come l'umiliazione) a un'altra persona.
Il disturbo da masochismo sessuale è incentrato sul desiderio di essere sottoposto a una sofferenza fisica
o a un'umiliazione.
Alcuni sadici raggiungono l'orgasmo infliggendo sofferenze fisiche e alcuni masochisti raggiungono
l'orgasmo sottoponendosi a sofferenze fisiche. Le manifestazioni del disturbo da masochismo sessuale sono
svariate e includono la costrizione fisica (bondage), il farsi bendare gli occhi, lo sculacciamento, la
fustigazione, le scosse elettriche, le ferite da taglio, le umiliazioni (ad esempio farsi urinare o defecare
addosso, essere costretti a indossare un collare e ad abbaiare come un cane, o essere messi in mostra nudi)
e l'assunzione del ruolo di schiavo con la conseguente sottomissione a ordini e comandi.
La maggior parte dei sadici stabilisce rapporti con masochisti per trarne una reciproca gratificazione
sessuale. Anche se molti riescono ad assumere sia il ruolo dominante sia quello sottomesso, i masochisti
superano numericamente i sadici.
Nella maggior parte dei casi, le persone dedite a comportamenti sadomasochistici si sentono relativamente
a proprio agio con le loro pratiche sessuali, quindi non soddisfano i criteri diagnostici secondo i quali gli
impulsi sessuali devono causare alla persona disagio o compromissione funzionale.
Dal momento che questi disturbi sono diventati molto comuni e tipicamente non comportano disagio o
compromissione funzionale, si è discusso se fosse opportuno mantenere queste diagnosi nel DSM-5
(Krueger, 2010b). Queste etichette diagnostiche sono state mantenute perché alcune pratiche sadiche e
masochistiche possono essere pericolose. Una forma particolarmente pericolosa di masochismo, detta
asfissiofilia o ipossifilia, può avere come esito la morte o il danno cerebrale; in questa pratica l'eccitazione
sessuale è legata a una deprivazione di ossigeno, che può essere ottenuta mediante un cappio, un
sacchetto di plastica o una compressione del petto. In genere, la diagnosi è applicabile quando le
preferenze e gli impulsi sadomasochisti portano a livelli significativi di disagio personale o compromissione
funzionale.
Un altro problema deriva dal fatto che la diagnosi di disturbo da sadismo sessuale viene raramente
applicata in contesti clinici. È possibile che in contesti clinici i medici non traggano la diagnosi, anche in
presenza di sintomi sufficienti, per timore di stigmatizzare il paziente. La diagnosi, di conseguenza, sembra
essere applicata quasi esclusivamente nel contesto forense (Krueger, 2010a).
I disturbi da sadismo sessuale e da masochismo sessuale si riscontrano entrambi sia nelle relazioni
eterosessuali sia in quelle omosessuali. Inchieste hanno rilevato che una percentuale variabile tra il 20% e il
30% dei membri di club sadomasochistici è formata da donne (Moser e Levitt, 1987), e si presume che
un'analoga proporzione tra i generi possa valere anche per le diagnosi dei disturbi da sadismo sessuale e da
masochismo sessuale. Per lo più, sadici e masochisti conducono un'esistenza convenzionale, e alcune
evidenze suggeriscono che i loro livelli di reddito e di scolarità sono superiori alla media. Tra i sadici è
comune l'abuso di alcol

Criteri diagnostici sadismo sessuale:


A) Durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti,
intensamente eccitanti sessualmente, che comportano la sofferenza fisica o psicologica di un’altra persona.
B) La persona ha agito sulla base dei suoi impulsi sessuali a discapito di un’altra persona non consenziente,
oppure impulsi e fantasie causano notevole disagio o problemi interpersonali.
Criteri diagnostici masochismo sessuale:
A) Durante un periodo di almeno sei mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti,
intensamente eccitanti sessualmente, che comportano l’atto di essere umiliato, picchiato, legato o
comunque fatto soffrire
B) Le fantasie, gli impulsi o i comportamenti causano notevole disagio o compromissione funzionale.

EZIOLOGIA
Fattori neurobiologici
Poiché nella stragrande maggioranza dei casi le persone con disturbi parafilici sono maschi, è stata avanzata
l'ipotesi che gli androgeni (ormoni quali il testosterone) svolgano un ruolo specifico in questi disturbi. Gli
androgeni regolano il desiderio sessuale e il desiderio sessuale pare essere insolitamente elevato fra i
colpevoli di reati sessuali che soffrono di disturbi parafilici. Tuttavia, gli uomini con disturbi parafilici non
sembrano avere livelli elevati di testosterone o di altri androgeni.
Abuso sessuale infantile
In molteplici studi condotti su adulti colpevoli di reati sessuali, è emerso che circa i due terzi di questi
soggetti riferivano una storia di abusi sessuali,

Fattori psicologici
Nel caso di alcune parafilie, il cedere all'impulso sessuale può essere visto come un atto impulsivo in cui la
persona perde il controllo sul suo comportamento.
L'alcol fa diminuire la capacità di inibire i propri impulsi, di conseguenza gli incidenti legati ai disturbi
pedofilico, voyeuri stico ed esibizionistico spesso si verificano in un contesto di uso di alcol. A quanto altri
soggetti riferiscono, i loro comportamenti sessuali hanno le più alte probabilità di accadere nel contesto di
stati dell'umore negativi, un dato che suggerisce che in questi casi l'attività sessuale viene usata per
sfuggire a un'emozione negativa.
Se nell'immediato l'atto sessuale può essere innescato da emozioni negative e dalla perdita di controllo sui
propri impulsi, allora non dovrebbe sorprenderci sapere che nelle persone con disturbi parafilici spesso si
osservano tratti della personalità collegati a quei fattori scatenanti.
Le persone con questi disturbi tendono infatti a manifestare una maggiore impulsività e una scarsa capacità
di regolazione delle emozioni.
Anche le distorsioni cognitive e gli atteggiamenti giocano un ruolo nei disturbi parafilici. Uomini con
parafilie che coinvolgono donne non consenzienti possono avere atteggiamenti ostili e mancanza di
empatia verso le donne.
Altri possono giustificare il proprio comportamento sessuale mediante distorsioni cognitive. Ad esempio,
un voyeur può credere che una donna che non ha abbassato la tapparella prima di svestirsi lo abbia fatto
perché vuole che qualcuno la guardi.
Una persona con disturbo pedofilico può credere che i bambini desiderino fare sesso con gli adulti, oppure
può vedersi nei panni di un maestro che innocentemente introduce il bambino ai segreti del sesso. Gli
uomini che si rendono colpevoli di stupro possono gettarne il biasimo sulla donna, dicendo che «si era
meritata una lezione» o che era vestita in modo provocante.
Un'altra linea di ricerca si concentra sui tratti psicologici associati alla pedofilia. Gli uomini con disturbo
pedofilico hanno, in media, un QI leggermente più basso e una maggiore frequenza di problemi
neurocognitivi rispetto alla popolazione generale. Molto comuni in queste persone sono i problemi
scolastici, come pure altri comportamenti criminali.

TRATTAMENTI DEI DISTURBI PARAFILICI


I dati sui trattamenti dei disturbi parafilici sono difficili da interpretare per svariate ragioni. Gran parte degli
studi attualmente disponibili sulla efficacia dei trattamenti per i disturbi parafilici sono stati condotti su
uomini con dannati per reati sessuali e perfino su uomini sottoposti a trattamento per ordine giudiziario. A
parte la mancanza di campioni rappresentativi, i risultati in questo ambito sono altamente variabili;

Strategie per rafforzare la motivazione


Chi ha commesso reati sessuali spesso non ha la motivazione necessaria per cercare di cambiare il proprio
comportamento illecito. La motivazione a sottoporsi a un trattamento può essere minata da fattori come la
negazione del problema, la tendenza a minimizzarne la gravità e la presunzione di riuscire a controllare il
proprio comportamento senza alcuna assistenza specialistica.
Alcuni incolpano la vittima - anche quando si tratta di un bambino - di essere troppo seduttiva. Molti
rifiutano di sottoporsi a un trattamento, e anche tra coloro che lo incominciano la frequenza
dell'abbandono è molto alta. Per rafforzare la motivazione al trattamento, un terapeuta può sostenere la
speranza del cliente di riuscire, attraverso il trattamento, a controllare i propri impulsi sessuali, sottolineare
le possibili conseguenze legali e di altra natura che l'insistenza nello stesso tipo di comportamento sessuale
comporterebbe, e far notare al cliente che le misurazioni dell'eccitazione mediante il pletismografo gli
renderebbero molto difficile «fingere>> di avere superato il problema

TRATTAMENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE.
Terapia aversiva: a una persona con un'attrazione feticistica per gli stivali venivano somministrate scosse
elettriche sulle mani o un farmaco che producesse nausea mentre guardava uno stivale; lo stesso
procedimento si applicava a una persona con il disturbo pedofilico quando guardava una fotografia di un
bambino nudo e così via. In una particolare forma di terapia aversiva, il cosiddetto metodo della «sazietà
masturbatoria>>> (satiation), gli uomini vengono istruiti ad abbinare le loro fantasie parafiliche a uno
stimolo aversivo: masturbarsi per 55 minuti dopo che hanno raggiunto l'orgasmo (Kaplan e Krueger, 2012).
Una variante della terapia aversiva basata su procedure immaginative è la sensibilizzazione covert (covert
sensitization), per mezzo della quale la persona immagina situazioni inappropriate che trova eccitanti e
immagina anche di provare nausea o vergogna nei confronti di ciò che sente e agisce. Studi condotti su
questa tecnica hanno dimostrato che essa riduce l'eccitazione deviante, ma vi sono poche prove del fatto
che queste tecniche da sole siano effettivamente in grado di modificare il comportamento

Le procedure cognitive vengono spesso usate per contrastare le distorsioni cognitive delle persone con
disturbi parafilici. Un esibizionista, ad esempio, potrebbe sostenere che le ragazze a cui si mostra sono
troppo giovani per essere danneggiate dal suo comportamento. Il terapeuta controbatterebbe questa
distorsione sottolineando che più giovane è la vittima, maggiore è il danno che le viene arrecato
Gli approcci attuali integrano gli approcci tradizionali con tecniche come l'addestramento nelle abilità
sociali e l'addestramento al controllo degli impulsi sessuali.

Addestrare all'empatia verso gli altri è un'altra tecnica cognitiva sempre più spesso utilizzata; insegnare a
chi commette reati sessuali a considerare fino a che punto le sue azioni influiscano negativamente sulle
vittime può fare diminuire la tendenza a dedicarsi a tali attività.

Anche la prevenzione delle recidive, strutturata sul modello degli interventi nell'abuso di sostanze, è una
componente importante di molti programmi di trattamento a più ampio spettro. Un terapeuta che si avvale
delle tecniche di prevenzione delle recidive aiuta la persona a identificare situazioni ed emozioni che
potrebbero innescare il comportamento sintomatico.

Trattamenti biologici
Sono stati tentati diversi inter venti biologici sui colpevoli di reati sessuali.
La castrazione, ossia l'asportazione dei testicoli, era ampiamente utilizzata fino a che non divennero
disponibili i trattamenti ormonali.
La castrazione chirurgica oggi non è più un trattamento diffuso, per i gravi problemi di ordine etico che la
accompagnano.
D'altro canto, si usano da tempo diversi farmaci per trattare i disturbi parafilici, in particolare tra coloro che
hanno già subito una condanna per reati sessuali. Di norma, questi farmaci vengono usati quale
integrazione al trattamento psicologico. Negli uomini, la pulsione e il funzionamento sessuali sono regolati
dagli ormoni androgeni (ad esempio il testosterone). Di conseguenza, per trattare i disturbi parafilici
vengono usate sostanze ormonali in grado di ridurre gli androgeni, quali il medrossiprogesterone acetato
(denominazione commerciale Depo-Provera) e il ciproterone acetato (Cyprostat). Vi sono evidenze
ottenute in trial controllati randomizzati che queste sostanze riducano l'eccitazione nei confronti di oggetti
devianti, misurata tramite pletismografia peniena. Malgrado questi risultati promettenti, l'uso indefinito di
sostanze ormonali solleva molti problemi di natura etica. L'uso prolungato di sostanze ormonali è associato
a numerosi effetti collaterali negativi, quali infertilità, problemi epatici, osteoporosi e diabete. È necessario
ottenere un consenso informato rispetto a tali rischi e molti non acconsentono a usare queste sostanze per
lungo tempo.

Oltre ai farmaci che influenzano i livelli ormonali, vengono comunemente usati anche gli antidepressivi
SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). Benché misurazioni effettuate prima e dopo
l'assunzione di questi farmaci indichino che gli SSRI riducono l'eccitazione sessuale nei confronti di oggetti
impropri, i ricercatori non hanno condotto trial controllati randomizzati degli SSRI confrontandoli rispetto a
un gruppo di controllo, e di conseguenza la qualità delle evidenze sperimentali è mediocre.

Il difficile equilibrio fra proteggere la collettività e salvaguardare i diritti civili di chi soffre di disturbi
parafilici
La maggioranza delle persone ha paura dei reati sessuali, perciò non è facile far si che vi sia equilibrio fra il
proteggere la popolazione generale e il rispetto delle libertà civili di chi si è reso colpevole di reati di questo
tipo. La diagnosi di disturbo parafilico, quindi, ha significative implicazioni sul piano dei diritti civili: ricevere
una tale diagnosi può voler dire essere rinchiusi in una struttura psichiatrica.

Provvedimenti giudiziari come ‘’la legge di Megan’’ permettono alla polizia di divulgare informazioni sugli
spostamenti di persone condannate per reati sessuali, se sono considerate un pericolo potenziale (i
cittadini utilizzano la banca dati della polizia per venire a sapere se persone che hanno commesso reati
sessuali vivono nel loro quartiere.

CAPITOLO 13. I DISTURBI DELL’INFANZIA


Per poter diagnosticare come patologico il comportamento disturbato di bambino, occorre prima definire
quale comportamento sia da ritenersi normale per una data età. La psicopatologia dello sviluppo studia i
disturbi dell’infanzia inquadrandoli nel contesto del normale sviluppo lungo tutto l’arco dell’esistenza,
permettendo così l’identificazione di comportamenti che sono appropriati in una certa fase dello sviluppo,
ma che in un’altra vanno considerati manifestazioni di un disturbo.

Nel DSM-5 i disturbi dell’infanzia sono suddivisi in due capitoli: disturbi del neurosviluppo e disturbi del
comportamento dirompente del controllo degli impulsi e della condotta

I disturbi psicopatologici infantili più frequenti sono suddivisi in due vaste categorie:

- Disturbi esternalizzanti. Caratterizzati da comportamenti diretti prevalentemente verso l’esterno, come


l’aggressività, l’insubordinazione, l’iperattività e impulsività. Questa categoria comprende disturbo da
deficit di attenzione/ iperattività, disturbo della condotta, disturbo oppositivo provocatorio.

- Disturbi internalizzanti. Caratterizzati da esperienze e comportamenti improntati alla chiusura in se stessi,


come la depressione, il ritiro sociale e l’ansia questa categoria comprende i disturbi d’ansia e dell’umore
dell’età infantile.

Bambini e adolescenti possono mostrare i sintomi in entrambi gli ambiti.

DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE/IPERATTIVITÀ (ADHD). È un disturbo esternalizzante


Criteri diagnostici del DSM-5 per la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione/iperattività
• A oppure B:
A. Sei (o più) sintomi disattenzione presenti per almeno sei mesi con un'intensità che provoca
disadattamento e più consistenti di quanto ci si aspetterebbe in base al livello di sviluppo; ad esempio la
persona fa errori di distrazione, non ascolta quando le si parla, non segue le istruzioni, si distrae facilmente,
è sbadata nello svolgere le attività quotidiane.

B. Sei (o più) sintomi di iperattività-impulsività presenti per almeno sei mesi con un'intensità che provoca
disadattamento e più consistenti di quanto ci si aspetterebbe in base al livello di sviluppo; ad esempio la
persona si dimena sulla sedia, scorrazza e salta dovunque in modo eccessivo (nell'adulto irrequietezza),
agisce come se «fosse spinta da un motore», interrompe gli altri o si intromette, parla incessantemente.

• Alcuni dei sintomi sopra riportati erano presenti prima dei 12 anni.
• I sintomi sono presenti in due o più contesti, ad esempio a casa è a scuola o al lavoro.
• Compromissione funzionale significativa in area sociale, scolastica o lavorativa.
• Per i soggetti di 17 anni o di età superiore, sono necessari solo cinque sintomi di inattenzione e/o
cinque sintomi di iperattività-impulsività per soddisfare i criteri per la diagnosi.

Il termine iperattivo indica il bambino che è in costante movimento (tamburella le dita, dondola le gambe,
da spinta compagni senza una ragione apparente, prende la parola quando nel suo turno e giocherella con
tutto quello che gli capita tra le mani).

Questi bambini hanno difficoltà a restare concentrati per un tempo adeguato sull’attività che stanno
svolgendo.

Quando questi comportamenti si rivelano esasperati in una certa fase dello sviluppo, persistono in
situazioni differenti e si associano ad una compromissione significativa nello svolgimento delle comuni
funzioni, la diagnosi di ADHD può essere appropriata;

La diagnosi deve essere limitata unicamente ai casi in cui sintomi sono davvero gravi e persistenti.

I bambini con ADHD hanno difficoltà a controllare la propria attività nelle situazioni che richiedono di stare
seduti tranquilli, come in classe durante i pasti. Appaiono incapaci di smettere di agitarsi di parlare, anche
quando viene chiesto loro di stare fermi e tranquilli.
Sono disorganizzati, instabili, invadenti, privi di tatto, ostinati e prepotenti.

Hanno spesso difficoltà ad andare d’accordo con i coetanei e a stabilire rapporti d’amicizia, probabilmente
a causa del loro comportamento aggressivo e invadente e irritante per gli altri.

Sebbene siano socievoli chiacchieroni, questi bambini non afferrano alcuni sottili segnali sociali, ad esempio
non notano quando i compagni di gioco danno segni di stancarsi della loro continua agitazione.

Sfortunatamente i bambini che soffrono di questo disturbo tendono sovrastimare le proprie capacità di
relazionarsi con i pari nelle situazioni sociali.

I bambini con questo disturbo possono mostrare di sapere quali sarebbero le azioni socialmente corretti in
una ipotetica situazione, tuttavia sono incapaci di tradurre tale consapevolezza in comportamenti
appropriati nelle interazioni sociali della vita reale.

L’ADHD nel DSM-5 e comorbilità del disturbo


L’età di esordio è prima dei 12 anni. Gli adulti devono manifestare i sintomi solo in 5 aree, contro le 6
richieste per i bambini

Il DSM5 prevede tre specificatori per indicare i sintomi predominanti:

1. Il tipo con disattenzione predominante. Vi appartengono i bambini i cui problemi consistono


principalmente nella scarsa capacità d’attenzione;
2. Il tipo con iperattività/impulsività predominanti. Vi appartengono i bambini le cui difficoltà derivano
soprattutto dal comportamento iperattivo/impulsivo;
3. Il tipo combinato. Vi appartengono i bambini che presentano entrambi i tipi di problema.

Il terzo specificatore comprende la maggioranza dei bambini con ADHD. Questi bambini hanno maggiori
probabilità, rispetto a quelli degli altri due gruppi, di sviluppare problemi di condotta e un
comportamento oppositivo, di essere collocati in classi speciali per bambini con problemi di
comportamento e di avere difficoltà ad interagire con i coetanei

Differenze tra ADHD e disturbo della condotta: il disturbo della condotta comporta evidenti violazioni delle
norme sociali, e fra i due disturbi ci sono molte caratteristiche in comune.

Le differenze riguardano il fatto che l’ADHD si associa maggiormente ad un comportamento scolastico


inappropriato, deficit cognitivi e di rendimento e a una migliore prognosi a lungo termine.

Invece bambini con disturbo della condotta presentano una compromissione funzionale sia scuola sia
altrove, tendono ad essere molto più aggressivi e ad avere genitori antisociali; inoltre, la loro vita domestica
è segnata da ostilità familiare, tanto che nell’adolescenza per questi soggetti è molto più alto il rischio di
delinquere e di abuso di sostanze.

I disturbi possono anche presentarsi insieme, e allora questi bambini manifestano le caratteristiche peggiori
di ciascuno dei due: esibiscono la forma più grave di comportamento antisociale, hanno le maggiori
probabilità di essere rifiutati dai coetanei, conseguono risultati scolastici peggiori e hanno una prognosi
peggiore.

Frequente è anche la comorbilità dell’ADHD con i disturbi internalizzanti come l’ansia e la depressione

Prevalenza: la prevalenza è aumentata in misura drammatica nell’ultimo decennio, per cui oggi varia fra
l’8% e l’11%. È 3 volte più comune tra i maschi che tra le femmine.

ADHD NELL’ETÀ ADULTA


In passato si pensava che l’ADHD scomparisse con l’adolescenza, una convinzione che però è stata
contraddetta da numerosi studi longitudinali. L’adolescenza porta in alcuni soggetti una riduzione della
gravità dei sintomi, ma i soggetti continuano a soddisfare i criteri diagnostici per il disturbo.

TRATTAMENTO DELL’ADHD.
L’ADHD viene di solito trattato con farmaci e con terapie comportamentali, basati sul condizionamento
operante. La combinazione dei due trattamenti da risultati più efficace rispetto ai soli farmaci o alla sola
terapia comportamentale, e richiede dosaggi più bassi dei farmaci stimolanti.

Anche la terapia comportamentale intensiva (ad esempio programmi estivi di psicoterapia intensiva della
durata di otto settimane) risulta efficace quanto la combinazione del trattamento con farmaci e con terapie
comportamentali.

FARMACI STIMOLANTI.
Il più utilizzato è il metilfenidato o Ritanil, vengono utilizzati anche Adderall, concerta e strattera

I farmaci stimolanti riducono l’impulsività e i comportamenti dirompenti, migliorano le capacità di


concentrazione.

L’80% dei bambini con diagnosi di ADHD ha ricevuto la prescrizione di farmaci stimolanti.
La prescrizione di questi farmaci talvolta continua anche nell’adolescenza nell’età adulta.

IL TRATTAMENTO PSICOLOGICO.
Questi trattamenti comprendono uno specifico training rivolto ai genitori e ai cambiamenti nella gestione
della classe. Il training per gli insegnanti li aiuta a comprendere gli specifici bisogni dei bambini con questo
disturbo, e a far applicare in classe tecniche di tipo operante.

Gli insegnanti dovrebbero variare spesso il modo di presentare i contenuti e i materiali per gli esercizi;
assegnare compiti brevi e fornire immediatamente un feedback sull’esecuzione; avere uno stile vivace e
pieno di entusiasmo, focalizzato sul compito da svolgere; concedere spesso pause e intervalli;
programmare le attività scolastiche nella mattinata.

Gli interventi prevedono di monitorare il comportamento del bambino a casa e a scuola, di rinforzarne i
comportamenti appropriati, ad esempio restare seduto al proprio posto ed eseguire i compiti assegnati.

Sistemi per accumulare punti e tabelloni su cui vengono attaccate delle sterline in relazione al
comportamento adeguato sono componenti tipiche di questi programmi (punti e se ne possono poi essere
spesi in cambio di ricompense).

L’obiettivo di questi interventi è migliorare le prestazioni scolastiche dei bambini, stimolarli a terminare i
compiti a casa e apprendere specifiche abilità sociali.

IL DISTURBO DELLA CONDOTTA.


Il disturbo della condotta è un altro disturbo esternalizzante. Tuttavia, prima di entrare nel merito di questo
disturbo, ne descriveremo brevemente altri due, correlati al disturbo della condotta ma meno conosciuti.

Il disturbo esplosivo intermittente (intermittent explosive disorder, IED) implica ricorrenti esplosioni di
aggressività verbale o fisica, grossolanamente sproporzionate rispetto alle circostanze. Ciò che distingue il
disturbo esplosivo intermittente dal disturbo della condotta è che l'accesso di aggressività contro le altre
persone è del tutto impulsivo e non pianificato in anticipo. Per esempio, un bambino che soffre di IED può
avere un accesso di aggressività perché non ottiene quello che vuole, ma non programma una risposta di
ritorsione aggressiva.
Inoltre, si discute se sia corretto distinguere il disturbo della condotta da un altro disturbo compreso nel
DSM, il DISTURBO OPPOSITIVO PROVOCATORIO (DOP o ODD, da oppositional defiant disorder), o se
questo non ne sia invece un precursore o semplicemente una manifestazione precoce e più lieve
La diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio viene formulata per un bambino che non soddisfa i criteri
per il disturbo della condotta, in particolare non manifesti estrema aggressività fisica, ma esibisca
comportamenti quali perdere facilmente il controllo, litigare con gli adulti, rifiutarsi ripetutamente di
aderire alle richieste degli adulti, compiere azioni deliberate per infastidire gli altri, sia collerico,
suscettibile, dispettoso e vendicativo.

Il DOP presenta in genere comorbilità con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, ma il disturbo


oppositivo provocatorio si distingue dall' ADHD in quanto si ritiene che il comportamento oppositivo non
tragga origine da un deficit dell'attenzione o dall'impulsività. Una delle manifestazioni più evidenti di tale
differenza è che i bambini con DOP sono più determinati nel mettere in atto comportamenti ribelli di
quanto non siano i bambini con ADHD.

I criteri diagnostici del DSM5 sono incentrati sui comportamenti che violano i diritti degli altri ed enormi
sociali fondamentali. Tali comportamenti sono quasi tutti considerati illeciti o illegali. Per essere sintomatici
di un disturbo della condotta, questi comportamenti devono essere più gravi e frequenti delle ragazzate
che sono comuni tra i bambini e gli adolescenti, e comprendono manifestazioni di aggressività e crudeltà
verso persone o animali, la menzogna e il furto eccetera. Spesso il comportamento è contrassegnato da
insensibilità, crudeltà e mancanza di rimorso.

Molti bambini con disturbo della condotta manifestano anche altri problemi, come abuso di sostanze e
disturbi internalizzanti. L’ansia e la depressione sono comuni nei bambini con disturbo della condotta.

Secondo alcuni studiosi occorre distinguere due diversi tipi di decorso dei problemi di condotta:
- Persistente nell’arco di vita. I problemi di condotta iniziano a manifestarsi a tre anni e continuano con
trasgressioni gravi in età adulta.
- Limitato all’adolescenza. Questi soggetti, un’infanzia normale, manifestano levati livelli di
comportamento antisociale durante l’adolescenza e ritornano ad uno stile di vita non problematico nell’età
adulta.

Il DSM-5 include lo specificatore con emozioni prosociali limitate, per la diagnosi nel caso di bambini che
presentano quelli che vengono chiamati tratti di insensibilità e assenza di emozioni (anaffettività). Questi
tratti fanno riferimento a caratteristiche quali la mancanza di rimorso e empatia e senso di colpa, e la
superficialità delle emozioni.

TRATTAMENTO DEL DISTURBO DELLA CONDOTTA.


Il trattamento sembra essere particolarmente efficace quando è rivolto ai molteplici sistemi che
compongono la vita di un bambino (famiglia, coetanei, scuola, quartiere).

INTERVENTI SULLA FAMIGLIA.


Il trattamento del disturbo della condotta implica un intervento sui genitori e sulla famiglia del bambino.

Family check-up (FCU). Programma di intervento che implica tre incontri finalizzati a conoscere, valutare e
offrire ai genitori consulenza riguardo ai loro bambini e al proprio stile genitoriale. È offerto a famiglie con
bambini al di sotto di due anni classificati ad alto rischio di sviluppare problemi di condotta. Questo breve
intervento è associato ad un comportamento meno dirompente anche a due anni di distanza
dell’intervento.

Parent Management Training (PMT).


Programma nel quale è previsto un training per i genitori possa modificare le loro risposte nei confronti
dei figli, in modo da rinforzare costantemente il comportamento prosociale anziché quello antisociale. I
genitori sono istruiti nell’uso di tecniche come il rinforzo positivo quando il bambino esibisce
comportamenti positivi, e il time-out o la perdita di vantaggi premi quando il bambino si comporta invece in
maniera aggressiva o antisociale.

TRATTAMENTO MULTISISTEMICO (MST).


Trattamento rivolto a minorenni che hanno commesso reati gravi.
Prevede di fornire servizi terapeutici intensivi globali a livello della comunità, focalizzando l’intervento
sull’adolescente, la famiglia, la scuola in alcuni casi il gruppo dei pari.

L’intervento si fonda sul presupposto che i problemi di condotta risentano l’influenza di molti fattori
all’interno della famiglia e dell’interazione tra la famiglia e gli altri sistemi sociali.
I terapeuti che applicano questo trattamento si avvalgono di strategie diversificate che utilizzano tecniche
di vario tipo: comportamentali, cognitive, terapia familiare.
La peculiarità di questo trattamento sta nel porre l’enfasi sui punti di forza del soggetto e della famiglia,
nel contestualizzare i problemi di condotta, nell’attuare interventi focalizzati sul presente e orientati
all’azione, ne richiedeva mentre la famiglia un concreto impegno quotidiano.

DEPRESSIONE E ANSIA NELL’INFANZIA E NELL’ADOLESCENZA.


I disturbi internalizzanti, come la depressione in ansia, hanno inizio nell’infanzia e nell’adolescenza, ma
sono molto comuni anche nell’età adulta.

DEPRESSIONE.
Somiglianza con gli adulti: umore depresso, incapacità di provare piacere, senso di affaticamento, difficoltà
di concentrazione e ideazione suicidaria.
Differenza con gli adulti: i bambini provano una più forte auto colpevolizzazione, mentre sono meno
frequenti i risvegli precoci e l’umore prevalentemente depresso al mattino, la perdita di appetito e il calo
ponderale.

TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE NELL’INFANZIA NELL’ADOLESCENZA.


Vi sono preoccupazioni sulla sicurezza dell’uso di antidepressivi con bambini e adolescenti (a causa degli
effetti collaterali).
Nonostante ciò, la terapia con Prozac insieme con la terapia cognitivo- comportamentale risulta essere la
più efficace.
Il Prozac da solo offre scarsi vantaggi sulla terapia cognitivo-comportamentale da sola.
Anche i trattamenti cognitivo-comportamentali nei setting scolastici si rivelano efficaci e si associano a una
riduzione dei sintomi più rapida.

Prevenzione della depressione nei bambini


Due tipi di interventi preventivi:
- Approccio selettivo (il più efficace): i programmi di prevenzione selettivi si applicano a particolari
giovani, selezionati in base a fattori di rischio familiari, ambientali oppure personali
- Approccio generalizzato: i programmi di prevenzione generalizzati sono indirizzati a vasti gruppi di
persone, tipicamente gli studenti di una scuola e cercano di fornire elementi informativi ed educativi
sulla depressione.

ANSIA
Paure e timori sono un’esperienza comune praticamente per tutti i bambini del corso normale sviluppo. Fra
le paure più comuni ci sono quella del buio, di creature immaginarie, e di rimanere separati dai genitori.
Nonostante ciò, non bisogna sottovalutare la gravità dei problemi di ansia possono assumere in alcuni
bambini (oltre alla sensazione negativa dell’essere ansiosi, la loro ansia può anche ostacolarli
nell’acquisizione delle abilità appropriate ai diversi stadi dello sviluppo un bambino che soffre di una
terribile timidezza e che trova insopportabile interazioni con i suoi pari a molte probabilità di apprendere
abilità sociali fondamentali ).

Perché le paure e i timori possano essere classificati come disturbi, il comportamento generale del bambino
deve essere gravemente compromesso.

Differenze con gli adulti: non è necessario che il bambino consideri le proprie paure come eccessive o
irragionevoli, dal momento che i bambini sono a volte incapaci di formulare questo genere di giudizi.

Una percentuale variabile dal 3% al 5% dei bambini e degli adolescenti riceve la diagnosi di disturbo d’ansia

DISTURBO D’ANSIA DA SEPARAZIONE. Non presente nel manuale del capitolo dei disturbi d’ansia, ma in
quello dei disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza.
Criteri diagnostici:
Paura o ansia eccessiva e inappropriata rispetto allo stadio di sviluppo suscitata dal fatto di essere lontano
da persone verso cui esiste un attaccamento, con almeno 3 dei seguenti sintomi che persistono per almeno
4 settimane (nel caso degli adulti devono persistere per almeno 6 mesi):
- Disagio ricorrente ed eccessivo provocato dalla separazione
- Persistente ed eccessiva preoccupazione che qualcosa di brutto possa accadere alle loro figure di
attaccamento
- Persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento imprevisto comporti separazione
dalla principali figure di attaccamento
- Persistente riluttanza o rifiuto di uscire di casa per andare a scuola, al lavoro o altrove per paura di
separazione
- Persistente ed eccessiva paura di, o riluttanza a, stare soli o senza le principali figure di attaccamento a
casa o in altri ambienti
- Rifiuto di dormire fuori casa o di andare a dormire senza avere vicino una delle principali figure di
attaccamento
-ripetuti incubi che implicano il tema della separazione
-ripetute lamentele di sintomi fisici quando si verifica o si prevede la separazione delle principali figure di
attaccamento

2) La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti, quattro settimane nei bambini e sei mesi o più negli
adulti.

Il disturbo di ansia da separazione è caratterizzato dalla costante preoccupazione del bambino che qualcosa
di grave possa accadere ai genitori o a se stesso quando è lontano da loro. A casa, questo bambino segue
come un’ombra uno o entrambi i genitori.

Spesso l’ansia di separazione si osserva per la prima volta da quando il bambino inizia ad andare a scuola.

Un altro disturbo d’ansia comune nei bambini è il


IL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE
Si definisce disturbo d’ansia sociale una paura intensa, irrazionale e persistente, delle situazioni sociali che
potrebbero implicare l’essere sottoposti al giudizio di persone sconosciute o anche soltanto esposti alla loro
presenza.

Le persone che soffrono di questo disturbo in generale cercano di evitare situazioni in cui potrebbero
essere oggetto di valutazione da parte degli altri o mostrare segni di ansia imbarazzo (parlare in pubblico,
conoscere persone nuove, rivolge la parola per sono investiti di un’autorità). Anche se questi sintomi
possono apparire simili alla timidezza, le persone che soffrono di disturbo d’ansia sociale mostrano una
tendenza più forte evitare situazioni sociali, provano disagio maggiore ed esperiscono tali sintomi per
periodi più lunghi della loro vita, in confronto alle persone timide.

Il disturbo d’ansia sociale insorge solitamente durante l’adolescenza, quando le interazioni sociali
acquistano più importanza, ma in alcuni casi sintomi hanno il loro esordio genitale infantile. Se non viene
adeguatamente trattato, il disturbo tende a cronicizzare.

La gravità del disturbo d’ansia sociale è ampiamente variabile: per esempio, alcune persone possono tenere
di parlare in pubblico e non temere affatto situazioni sociali differenti, in altri casi invece, i soggetti
riferiscono di avere paura di quasi tutte le situazioni sociali.

Ad un numero maggiore di paure esperite dal soggetto si accompagna una maggiore comorbilità con altri
disturbi, come la depressione e abuso di alcol.

Spesso questi bambini giocano solo con i membri della propria famiglia o con coetanei che conoscono bene,
mentre evitano gli sconosciuti si è giovani che adulti. La timidezza può impedire loro di acquisire specifiche
abilità e trattenermi dal partecipare a molte attività praticate con piacere la maggioranza dei coetanei, da
dove questi bambini evitano i campi giochi e tutte quelle attività a cui partecipano gli altri bambini.

Bambini estremamente timidi si possono rifiutare del tutto di parlare in situazioni sociali a loro non
familiari; si parla in questo caso di MUTISMO SELETTIVO.

Criteri diagnostici:
1) Costante incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche in cui ci si aspetta che si parli
2) La condizione interferisce con i risultati scolastici o lavorativi o con la comunicazione sociale
3) La durata della condizione è di almeno un mese
4) L’incapacità di parlare non è dovuta al fatto che non si conosce il tipo di linguaggio richiesto dalla
situazione sociale
5) La condizione non è meglio spiegare un disturbo della comunicazione non si manifesta esclusivamente
durante il decorso di disturbi dell’aspetto dell’autismo, schizofrenia o altri disturbi psicotici.

Questi bambini nei luoghi affollati si tengono attaccati ai genitori e si rivolgono a loro sussurrando, si
nascondono dietro ai mobili, si rannicchiano negli angoli o fanno capricci.
A casa pongono i genitori continue domande sulle situazioni che si preoccupano. Questi bambini hanno di
solito rapporti affettuosi e soddisfacenti con i familiari e con gli amici di famiglia e si mostrano desiderosi di
essere amati e accettati.

I bambini esposti ad esperienze drammatiche possono esibire i sintomi del disturbo da stress post-
traumatico del tutto simili a quelli che si riscontrano negli adulti.
Per i bambini di età superiore ai 6 anni i sintomi ricadono nelle stesse 4 ampie categorie.
Nel DSM5 sono riportati separatamente i criteri diagnostici per i bambini sotto i 6 anni: i sintomi ricadono
nelle stesse 4 categoria, ma vengono manifestati in modi più appropriati al grado di sviluppo dei bambini a
quest’età.

Anche il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è riscontrabile ne bambini e adolescenti, con stime di


prevalenza che variano da meno dell’1% fino al 4%. I sintomi del disturbo sono simili nei bambini e negli
adulti, il disturbo è infatti caratterizzato da ossessioni e da compulsioni. Le ossessioni più comuni in età
infantile riguardano la contaminazione o lo sporco, oltre all’ossessione di essere aggrediti

TRATTAMENTO DELL’ANSIA NELL’INFANZIA E L’ADOLESCENZA.


Nella maggior parte dei casi le paure infantili vengono trattate in maniera simile a quelle degli adulti,
naturalmente con le dovute modifiche alle abilità e alle circostanze tipiche dell’infanzia.
Questi trattamenti si concentrano soprattutto sull’esposizione graduale all’oggetto temuto, con successivo
rinforzo (ricompensa) quando il bambino si avvicina all’oggetto alla situazione temuta.

Rispetto ai trattamenti di esposizione che si utilizzano con gli adulti, le tecniche rivolte ai bambini possono
essere modificate introducendo procedure in cui hanno maggior peso l’imitazione di modelli (modeling, si
guarda un adulto che si avvicina all’oggetto temuto) e la somministrazione di rinforzi

La terapia cognitivo-comportamentale è quindi efficace nel trattare molti casi di disturbi d’ansia nei
bambini. Uno dei programmi di trattamento oggi più utilizzati è il Coping Cat. Questo programma è
incentrato sul confronto con le paure, lo sviluppo di nuovi modi di pensare a ciò che fa paura, l’esposizione
alle situazioni temute e la prevenzione delle ricadute. Questo trattamento è risultato essere efficace sul
breve periodo, a distanza di 7 anni e a distanza di 19 anni.

Anche altre forme di trattamento come la biblioterapia e le terapie assistite dal computer, si sono rivelate
promettenti. Nella biblioterapia si consegnano ai genitori dei materiali scritti e poi sono loro a fare da
terapeuti ai loro bambini. Tuttavia, questo trattamento non risulta essere efficace tanto quanto la CBT di
gruppo.

DISTURBO SPECIFICO DELL’APPRENDIMENTO


Con il termine disturbo specifico dell’apprendimento si intende una condizione caratterizzata da problemi
in un particolare dominio delle abilità scolastiche, linguistiche o motorie, non dovuti ad un disturbo dello
sviluppo intellettivo o a una mancanza di istruzione.

I disturbi dell’apprendimento non costituiscono una categoria formalizzata dal DSM-5, ma piuttosto un
termine generale che gli specialisti utilizzano per raggruppare tre tipi di disturbi definiti dal DSM: il disturbo
specifico dell’apprendimento, i disturbi della comunicazione e i disturbi del movimento:
- Disturbo specifico dell’apprendimento comprende i seguenti specificatori:
o Dislessia
o Discalculia
- Disturbi della comunicazione:
o Disturbo del linguaggio
o Disturbo fonetico-fonologico
o Disturbo della fluenza (non fluidità) con esordio nell’infanzia (balbuzie)
o Disturbo della comunicazione sociale (pragmatica)
- Disturbi del movimento:
o Disturbo di Tourette (uno o più tic vocali e numerosi tic motori che hanno inizio prima di 18
anni)
o Disturbo dello sviluppo della coordinazione (marcata compromissione nello sviluppo della
coordinazione motoria, non riconducibile ad uno disturbo dello sviluppo intellettivo o a un
disturbo come la paralisi cerebrale)
o Disturbo da movimento stereotipato.

DISTURBO SPECIFICO DELL’APPRENDIMENTO.


Né la dislessia né la Discalculia sono considerate disturbi distinti, ma sono piuttosto specificatori (sottotipi)
del disturbo specifico dell’apprendimento.

Eziologia della dislessia


Gli studi su famiglie e su gemelli confermano l'esistenza di una componente ereditaria -nella dislessia).
Inoltre, i geni associati alla dislessia sono gli stessi che controllano le abilità di lettura normali. Perciò questi
geni, detti «generalisti», sono importanti per spiegare le abilità di lettura sia normali che alterate. Sono
state anche indagate le interazioni geni-ambiente in relazione alla dislessia; le evidenze finora emerse
indicano che l'ereditabilità dei problemi di lettura può variare a seconda del livello di istruzione dei genitori.
Infatti, i geni sembrano svolgere un ruolo più rilevante nel determinare la dislessia nei figli di genitori con
un livello di istruzione più alto. Probabilmente le famiglie in cui i genitori hanno un livello di istruzione
elevato danno molta importanza alla lettura e ciò fornisce ai bambini numerose opportunità di leggere. In
questo tipo di ambiente, quindi, il rischio che un bambino sviluppi la dislessia è maggiormente determinato
da combinazioni ereditabili di geni che non dall'ambiente.
I risultati di studi di psicologia, neuropsicologia e neuroimmagine suggeriscono che la dislessia implichi
problemi nell'elaborazione del linguaggio: la percezione del discorso e l'analisi dei suoni del linguaggio
parlato e la loro relazione con le parole scritte (Mann e Brady, 1988); difficoltà a riconoscere le rime e le
allitterazioni, problemi a pronunciare rapidamente il nome di oggetti familiari e ritardo nell'apprendere le
regole sintattiche. Molti di questi processi ricadono nell'ambito di quella che viene chiamata
consapevolezza fonologica, un'abilità che si ritiene sia cruciale per l'acquisizione della lettura.
In passato studi condotti con fMRI hanno dato sostegno all'ipotesi che i bambini con dislessia abbiano un
problema di consapevolezza fonologica. Questi studi di mostrano, infatti, che alcune aree nelle regioni
temporali, parietali e occipitali dell'emisfero cerebrale sinistro hanno un ruolo centrale nella
consapevolezza fonologica, e che queste stesse regioni si rivelano coinvolte e centrali anche nella dislessia (
Ad esempio, uno studio fMRI ha messo in luce che i bambini dislessici mostravano una minore attivazione
nelle regioni temporo-parietale e occipito-temporale dell'emisfero sinistro mentre erano impegnati in
compiti di lettura, come identificare lettere e pronunciare parole.
Studi fMRI più recenti suggeriscono che il problema potrebbe non risiedere nelle aree cerebrali coinvolte
nella consapevolezza fonologica di per sé, ma piuttosto nelle loro connessioni con le altre aree del cervello
che sostengono la produzione del discorso, tra cui l'area di Broca. Quindi, i bambini con dislessia non hanno
problemi di consapevolezza fonologica ma di integrazione di tale consapevolezza in modo da generare
l'abilità della lettura.

Eziologia della discalculia


Esistono evidenze di una moderata influenza genetica sulla variabilità individuale nelle abilità matematiche.
In particolare, il tipo di disturbo delle capacità di calcolo che più probabilmente coinvolge fattori ereditari è
quello che implica problemi di memoria semantica. Inoltre, le evidenze suggeriscono che i geni associati
alla discalculia siano associati anche con le abilità matematiche.
Gli studi fMRI su soggetti con discalculia suggeriscono che in questi individui, a livello cerebrale, le aree del
lobo parietale siano meno attive durante compiti di calcolo. Più precisamente, si ritiene che nella
discalculia sia coinvolta l'area denominata solco intraparietale.
Alcune ricerche hanno indagato la possibile associazione tra discalculia e dislessia, in relazione ai deficit
cognitivi che accompagnano questi due tipi di disturbo specifico dell'apprendimento. Ovvero, si è cercato di
chiarire se i bambini che hanno problemi di consapevolezza fonologica possano avere difficoltà non solo
con la lettura ma anche con i simboli matematici e i numeri. I risultati raccolti suggeriscono che questi due
tipi di disturbo dell'apprendimento siano relativamente indipendenti. I bambini che soffrono sia di
dislessia sia di discalculia hanno deficit di consapevolezza fonologica, mentre quelli che soffrono soltanto di
discalculia non hanno questi deficit. I bambini affetti solo da discalculia hanno difficoltà con i compiti che
richiedono di manipolare grandezze, simboliche o numeriche (ad esempio, sti mare grandezze), mentre i
bambini affetti solo da dislessia non hanno questi problemi.

Criteri diagnostici:
A) Difficoltà di apprendimento e nell’uso di abilità scolastiche, come indicato dalla presenza di almeno
uno dei seguenti sintomi che sono persistente, per almeno 6 mesi, nonostante la messa a disposizione di
interventi mirati su tali difficoltà
1) Lettura delle parole imprecisa o lenta e faticosa
2) Difficoltà nella comprensione del significato di ciò che viene letto
3) Difficoltà nello spelling
4) Difficoltà con l’espressione scritta
5) Difficoltà nel padroneggiare il concetto di numero, i dati numerici o il calcolo
6) Difficoltà nel ragionamento matematico
B) Le abilità scolastiche colpite sono notevolmente e quantificabilmente al di sotto di quelle attese per
l’età cronologica dell’individuo, e causano significativa interferenza con il rendimento scolastico o
lavorativo, o con le attività della vita quotidiana.
C) Le difficoltà di apprendimento non sono meglio giustificate da disabilità intellettiva (disturbo dello
sviluppo intellettivo) acuità visiva o uditiva alterata, altri disturbi mentali o neurologici.
Le difficoltà di apprendimento vengono di solito identificate e trattate nell’ambito del sistema scolastico,
piuttosto che nei servizi psichiatrici.

TRATTAMENTO del disturbo specifico dell’apprendimento


Per trattare il disturbo specifico dell’apprendimento vengono utilizzate diverse strategie sia a livello
d’istruzione scolastica sia nel contesto di lezioni private.

L’educazione fonetica ha l’obiettivo di aiutare i bambini a padroneggiare la conversione di suoni in parole.


Si cerca di insegnare al bambino ad ascoltare, parlare, leggere in maniera logica, sequenziale
multisensoriale, ad esempio leggendo a voce alta sotto attenta supervisione.

Si lavora sul consolidamento dei prerequisiti della lettura, come la capacità di distinguere lettere, prima di
passare all’addestramento alla lettura vero e proprio. La maggior parte dei bambini con difficoltà di
apprendimento ha probabilmente sperimentato molti fallimenti o frustrazioni, che ne hanno intaccato la
motivazione la fiducia in se stessi. Comunque siano strutturati, i protocolli di trattamento dovrebbero
fornire bambini l’opportunità di sperimentare sentimenti di auto efficacia e fiducia in se stessi.
Ricompensare piccoli progressi può contribuire ad accrescere la motivazione del bambino, a cimentarla
concentrare l’attenzione sul compito di ridurre i problemi comportamentali causati dalla frustrazione.

Le persone che soffrono di dislessia spesso riescono ad avere ottimi risultati negli studi superiori se possono
usufruire di particolari supporti didattici.

LA DISABILITÀ INTELLETTIVA (DISTURBO DELLO SVILUPPO INTELLETTIVO).


Il termine ritardo mentale non è utilizzato dalla maggioranza specialisti nel campo della salute mentale, a
causa dello stigma sociale che lo accompagna.

La disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo) è un disturbo con esordio nel periodo dello
sviluppo che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali,
sociali e pratici.

Criteri diagnostici disabilità intellettiva:


A) Deficit nelle funzioni intellettive, come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto,
capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dell’esperienza, confermati sia da una
valutazione clinica sia da test standardizzati.
B) Deficit del funzionamento adattivo (relativamente all’età e al gruppo culturale di appartenenza
dell’individuo) che porta ad un mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di
autonomia e di responsabilità sociale in una o più delle seguenti aree:
-comunicazione
-partecipazione alla vita sociale
-autonomia nello svolgere attività a casa o nella comunità
-necessità di supporto a scuola, sul lavoro o nella vita indipendente.
C) Esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo dello sviluppo.
Il funzionamento adattivo deve essere valutato su una vasta gamma di ambiti differenti.

Il DSM-5 non distingue più tra disabilità intellettiva lieve, moderata e grave in basa solo al punteggio del QI.
Il livello di gravità della disabilità intellettiva viene valutato in tre ambiti: concettuale, sociale e pratico

EZIOLOGIA DELLA DISABILITÀ INTELLETTIVA


Anomalie genetiche o cromosomiche
- Trisomia 21 (sindrome di Down): Una delle anomalie cromosomiche associate alla disabilità intellettiva
è la trisomia 21, caratterizzata da un cromosoma 21 soprannumerario, ovvero dalla presenza nel
corredo genetico di tre copie di questo cromosoma anzi ché due. Questa condizione è anche chiamata
sindrome di Down. La prevalenza stimata della sindrome di Down negli Stati Uniti è di circa uno su 850
nati vivi. Le persone con sindrome di Down manifestano, oltre a disabilità intellettiva, una serie di tratti
fisici peculiari: corporatura bassa e tozza; occhi a mandorla; presenza di plica epicantica (un
prolungamento della plica della palpebra superiore nell'angolo interno dell'occhio); capelli radi, sottili e
lisci; sella nasale larga e appiattita; orecchie di forma squadrata; lingua grossa e corrugata, che talvolta
protrude in quanto la bocca è piccola e il palato è basso; mani piccole e larghe, con dita tozze.
- Sindrome dell’X fragile: Un'altra anomalia cromosomica che può causare disabilità intellettiva è la
sindrome dell'X fragile, la quale implica una mutazione nel gene FMR1 (che controlla la proteina FMRP)
sul cromosoma X. I sintomi fisici associati all'X fragile comprendono una facies caratteristica: orecchie
larghe, non perfettamente sviluppate; viso lungo e sottile. Molti soggetti con questa sindrome soffrono
di disabilità intellettiva; altri possono non avere la disabilità e tuttavia manifestare un disturbo specifico
dell'apprendimento, difficoltà nei test neuropsicologici e instabilità dell'umore.

Malattie legate a geni recessivi


- Fenilchetonuria (PKU): Nella fenilchetonuria (PKU) il neonato, che alla nascita non mostra alcun segno
di difficoltà particolari, ben presto inizia a mostrare gli effetti della mancata attività di un enzima
epatico, la fenilalanina idrossilasi. Questo enzima è necessario per convertire la fenilalanina, un
amminoacido presente nelle proteine, in tirosina, un amminoacido essenziale per la sintesi di alcuni
ormoni come l'adrenalina (o epinefrina). A causa di questa carenza enzimatica, la fenilalanina e il suo
derivato, l'acido fenilpiruvico, non vengono degradati ma si accumulano nei liquidi corporei. Tale
accumulo finisce per provocare un danno cerebrale irreversibile, poiché l'amminoacido non
metabolizzato interferisce col processo di mielinizzazione, cioè la forma zione della guaina di mielina
intorno agli assoni, essenziale per la rapida trasmissione degli impulsi nervosi e quindi per la funzione
stessa dei neuroni.

Malattie infettive
Durante la vita intrauterina, il feto esposto al rischio di sviluppare disabilità intellettive a causa di malattie
infettive contratte dalla madre, come la rosolia, il citomegalovirus, la toxoplasmosi, l'herpes simplex e l'HIV.
Le conseguenze di queste malattie sono più gravi durante il primo trimestre di gravidanza, quando an cora
nel feto non è presente alcuna risposta immunitaria, cioè il suo sistema immunitario non è ancora
sviluppato abbastanza per resistere a un'infezione. Nella madre i sintomi dell'infezione possono essere lievi
o anche assenti, ma gli effetti sul feto che si sta sviluppando possono essere devastanti.
Le malattie infettive possono influire negativamente sullo sviluppo cerebrale del bambino anche dopo la
nascita.

Fattori di rischio ambientali


Diversi inquinanti ambientali possono causare disabilità intellettiva. Fra questi vi sono il mercurio, che può
essere assunto mangiando pesce contaminato, e il piombo, presente in alcune vernici, nello smog e nei gas
di scarico delle automobili che usano benzina al piombo.

TRATTAMENTO DELLA DISABILITÀ INTELLETTIVA (DISTURBO DELLO SVILUPPO INTELLETTIVO).


TRATTAMENTO RESIDENZIALE
In condizioni ottimali, le persone con questo tipo di disturbo vivono in abitazioni assistite dai servizi
territoriali integrati nella comunità, ricevono un’assistenza medica, personale qualificato e appositamente
formato fornisce loro nell’arco dell’intera giornata prestazioni assistenziali ed educativi, a seconda dei loro
specifici bisogni.

Vengono incoraggiati a partecipare attivamente alla gestione e alle faccende di casa, utilizzando al meglio le
proprie capacità. Molti adulti con questo disturbo hanno lavoro e conducono un’esistenza autonoma nella
propria abitazione. Altri, con autonomia limitata, vivono in gruppi di tre o quattro persone in uno stesso
appartamento; in genere, un counselor far loro visita alla sera aiutandoli in ciò di cui hanno bisogno.

TRATTAMENTI COMPORTAMENTALI.
Per migliorare le capacità funzionali delle persone con disabilità intellettiva sono stati sviluppati programmi
d’intervento precoce basati su tecniche comportamentali. Gli educatori definiscono specifici obiettivi
comportamentali, quindi fanno apprendere ai bambini le abilità per ottenerli attraverso piccoli passi
progressivi. questi bambini possono avere bisogno di un programma di apprendimento intensivo per essere
in grado di nutrirsi, lavarsi e vestirsi da soli.

Il terapeuta suddivide il comportamento in questione in componenti più semplici, quindi si applicano i


principi del condizionamento operante per insegnare al bambino le diverse componenti dell’azione.

Quest’approccio operante è chiamato analisi applicata del comportamento.

TRATTAMENTI COGNITIVI.
Molti bambini con disturbo dello sviluppo intellettivo non riescono ad usare strategie di soluzione dei
problemi e quando le usano, spesso non riescono ad applicarle in maniera efficace. Mediante training di
autoistruzione si insegna questi bambini a guidare tramite il linguaggio i propri tentativi di risolvere i
problemi.

Per prima cosa il compito viene eseguito a titolo dimostrativo dall’educatore, che ad alta voce esplicita tutti
i passaggi necessari per risolvere un determinato problema. I ragazzi vengono poi istruiti a eseguire i vari
passaggi del compito spiegandoli con istruzioni semplici, espresse verbalmente o a segni, e poi a produrre
una valutazione del proprio comportamento. I ragazzi ricevono una ricompensa ogni volta che riescono a
verbalizzare e a eseguire il compito correttamente.

PROGRAMMI DI ISTRUZIONE COMPUTERIZZATI.


Le componenti audio e video del computer aiutano mantenere focalizzata l’attenzione anche degli studenti
che si distraggono facilmente; il livello di complessità del materiale può essere calibrato sulle capacità
individuali del soggetto.

Mediante appositi programmi computerizzati persone con disturbo dello sviluppo intellettivo hanno
imparato ad utilizzare un bancomat. Gli smartphone, in quanto sussidi per ricordare recuperare
informazioni istruzioni, possono essere di enorme utilità nella vita quotidiana di queste persone.

DISTURBO DELLO SPETTRO DELL’AUTISMO


Sebbene l'autismo sia stato descritto per la prima volta circa settanta anni fa, il disturbo non venne incluso
formalmente nel DSM fino alla terza edizione del manuale, pubblicata nel 1980. I tassi di prevalenza del
disturbo dello spettro dell'autismo sono andati aumentando per tutti gli ultimi vent'anni.
Nel DSM-5 le quattro categorie diagnostiche distinte-incluse nel DSM-IV-TR (ovvero il disturbo autistico, il di
sturbo di Asperger, il disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato e il disturbo disintegrativo
dell'infanzia) sono state riunite in un'unica categoria, quella di disturbo dello spettro dell'autismo.

Criteri diagnostici del DSM-5 per il disturbo dello spettro dell'autismo


A. Deficit della comunicazione e dell'interazione sociale che si manifestano attraverso i seguenti sintomi.
- Deficit nella reciprocità socio-emotiva, ad esempio incapacità di prendere contatto con gli altri,
incapacità di dialogare, ridotta capacità di condividere con gli altri interessi ed emozioni.
- Deficit dei comportamenti non verbali, come il contatto oculare, l'espressività facciale, il linguaggio del
corpo.
- Deficit nella capacità di stabilire con i pari relazioni adeguate al livello di sviluppo.
B. Pattern di comportamento, interessi o attività limitati e ripetitivi, che si manifestano attraverso almeno
due dei seguenti sintomi.
- Modalità stereotipate o ripetitive nell'uso del linguaggio, nei movimenti o nella manipolazione di
oggetti.
- Rigida aderenza a routine, rituali nei comportamenti verbali e non verbali, o estrema resistenza ai
cambiamenti.
- Fissazione su interessi molto ristretti, ad esempio eccessivo e persistente interesse per parti di oggetti.
- Ipereattività o iporeattività agli stimoli sensoriali, o interesse inusuale verso l'ambiente sensoriale, ad
esempio fascinazione per luci o oggetti che ruotano.
C. Esordio nella prima infanzia.
D. I sintomi limitano o compromettono il funzionamento della persona.

PROBELMI EMOZIONALI E NELLA VITA SOCIALE


I bambini con disturbo dello spettro dell’autismo possono avere gravi problemi della vita sociale e di
relazione.
Raramente si avvicinano agli altri, di solito evitano il contatto oculare, oppure voltano le spalle.
Era alla produzione spontanea di un saluto, oppure un sorriso quando incontrano così separano da un
adulto.
A volte questi bambini stabiliscono in contatto oculare, ma il loro sguardo ha una qualità del tutto peculiare
e insolita. Di solito, lo sguardo dei bambini cerca di attirare su di sé l’attenzione di un’altra persona o di
dirigere su un particolare oggetto l’attenzione dell’altro; tutto ciò di bambini con autismo non avviene: ci si
riferisce a questa situazione definendola problema di attenzione congiunta, ovvero nei bambini affetti da
autismo sono fortemente compromesse le interazioni in cui le due persone coinvolte devono prestare
completa attenzione l’una all’altra, verbalmente o tramite la comunicazione non verbale.

Il gioco fisico, come il solletico e la lotta, può risultare particolarmente sgradito.

DEFICIT DI COMUNICAZIONE.
Alcuni di questi bambini mostrano deficit di comunicazione ancora prima di acquisire linguaggio. Il balbettio
(produzione di suoni del bambino che ancora non usa le parole) è meno frequente in questi bambini.
Bambini affetti da autismo restano molto indietro nella posizione dell’abilità di linguaggio.

Ecolalia: il bambino ripete, di solito con notevole fedeltà, ciò che ha udito dire un’altra persona, anche le
domande di un interlocutore (ecolalia immediata), oppure può ripetere, anche il giorno dopo, ciò che ha
detto la televisione anche se in quel momento sembrava che non gli stesse prestando attenzione (ecolalia
differita).

Un’altra anomalia frequente nel linguaggio dei bambini con disturbo dello spettro dell’autismo è
l’inversione dei pronomi, cioè questi bambini parlano di sé usando i pronomi “lui/lei/tu/il nome proprio”.
L’inversione dei pronomi è strettamente connessa all’ecolalia: quando usano questo il linguaggio ecolalico, i
bambini con questo disturbo fanno riferimento a se stessi nello stesso modo in cui hanno sentito fare agli
altri che parlano di loro, pertanto usano i pronomi in modo scorretto.

Inoltre, i bambini affetti da questo disturbo usano le parole in senso molto letterale possono dire ”non far
cadere il gatto” per intendere “no”, perché uno dei genitori ha usato con tono enfatico queste parole
quando il bambino stava per lasciar cadere a terra il gattino di casa.

ATTI RITUALISTICI E RIPETITIVI.


I bambini con disturbo dello spettro dell’autismo restano profondamente turbati da qualsiasi cambiamento
nella loro routine quotidiana dell’ambiente che li circonda. Dalle loro da bere il latte in una tazza diversa dal
solito o cambiare la disposizione dei mobili in una stanza possono indurre uno scoppio di collera.

Il comportamento di questi bambini può essere pervaso da un carattere ossessivo: quando giocano
possono allineare i giocattoli, col passare degli anni possono sviluppare un interesse ossessivo per gli orari
dei treni o sequenze di numeri.

Possono anche esibire comportamenti stereotipati, movimenti ritualistici delle mani e altri movimenti
ritmici (come dondolarsi incessantemente, agita le mani e camminare sulla punte dei piedi).

Comorbilità
Molti bambini con DSA hanno anche disabilità intellettiva. Lo sviluppo sensomotorio è l’ambito in cui si
dimostrano più forti.
Inoltre, i bambini con DS possono a volte avere abilità particolari che riflettono un talento speciale, come la
capacità di moltiplicare a mente con estrema rapidità cifre molto grandi. Inoltre, possono avere
un’eccezionale memoria a lungo termine.
Il DSA presenta comorbilità anche con l’ansia

Prevalenza
Il DSA fa il suo esordio nella prima infanzia e può dare manifestazioni evidenti già nei primi mesi di vita. Il
disturbo colpisce circa 1 bambino su 68, ed è circa 5 volte più frequente nei maschi che nelle femmine.

Eziologia
Le prime teorie sull'eziologia del DSA ipotizzavano che il suo sviluppo dipendesse da fattori psicologici, ad
esempio da cure parentali insufficienti. Questa prospettiva, erronea e limitata, è stata sostituita da teorie
basate su evidenze sperimentali, che attestano l'importanza di fattori genetici e neurobiologici
nell'eziologia di questo disturbo. Nonostante l'assenza di evidenze empiriche, queste prime teorie
psicologiche hanno goduto di sufficiente diffusione e popolarità da imporre un carico emotivo enorme sui
genitori, ritenuti i primi responsabili dell'autismo di cui soffriva il loro bambino.
Fattori genetici
Le evidenze disponibili depongono a favore di una componente genetica nell'eziologia del DSA, con stime di
ereditabilità che si aggirano intorno allo 0,80. Ad esempio, il rischio di DSA o di ritardo del linguaggio nei
fratelli di persone con DSA è molto maggiore di quanto non sia tra i fratelli di persone senza il disturbo.
Evidenze ancora più forti di una base genetica del DSA provengono dagli studi sui gemelli, che

TRATTAMENTO DEL DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO.


I trattamenti di tipo psicologico si sono rivelati più promettenti dei porci, sviluppati per intervenire
sull’attivismo.
I trattamenti che combinano terapia farmacologica e intervento psicologico, hanno dato pochi risultati
positivi.
I trattamenti di bambini con questo disturbo si propongono di ridurre i comportamenti anomali e di
migliorarne le capacità di comunicazione e socializzazione.

TRATTAMENTO COMPORTAMENTALE
Lovaas sottopose i bambini con DSA a un protocollo comportamentale intensivo basato sul
condizionamento operante. La terapia coinvolse per oltre due anni e per più di 40 ore settimanali tutti gli
aspetti della vita del bambino. Anche i genitori erano sottoposti a trattamenti intensivi.

Pivotal response Therapy (PRT) approccio che si basa sull’assunto che intervenire in un’area cardine
(pivotal) possa indurre dei cambiamenti anche in altre aree.

TRATTAMENTO FARMACOLOGICO.
Il trattamento farmacologico risulta meno efficace del trattamento comportamentale.
Il farmaco più comunemente utilizzato per trattare comportamenti problematici dei bambini con disturbo
dello spettro autistico è l’aloperidolo (Haldol), un antipsicotico utilizzato anche nel trattamento della
schizofrenia. Questo farmaco riduce il ritiro sociale, i comportamenti motori stereotipati e i comportamenti
disadattivi.
Molti bambini, tuttavia, non rispondono bene a questo farmaco ed inoltre ha gravi effetti collaterali come
spasmi muscolari, che però spariscono se si sospende l’assunzione del farmaco.

CAPITOLO 14
IL DISTURBI NEUROCOGNITIVI DELL’ETÀ AVANZATA
Selettività sociale: Negli anziani benessere psicologico non è correlata al numero di attività sociali. La
selettività sociale è il fenomeno secondo cui quando invecchiamo, il nostro interesse si sposta dalla
costante ricerca di nuove interazioni sociali a coltivare quelle relazioni che davvero ci interessano, con la
famiglia e gli amici più stretti.

La ricerca sull’invecchiamento distingue tre tipi di effetti:


- Effetti dell’età, le conseguenze dell’avere una data età cronologica.
- Effetti di coorte, conseguenza dell’essere cresciuti in un particolare periodo storico, caratterizzato da
problematiche e opportunità peculiari modulo esperienze e atteggiamenti soggettivi.
- Effetti del momento della misurazione, fattori di confusione dovuti al fatto che gli elementi di un dato
momento storico possono esercitare un’influenza specifica su una variabile misurata in quel periodo
(soggetti valutati subito dopo il passaggio dell’uragano Katrina potevano dimostrare livelli elevati di ansia).

DISTURBI PSICOLOGICI NELL’ANZIANO.


I criteri diagnostici del DSM non differiscono per gli adulti anziani o più giovani. Tuttavia, il processo
diagnostico stesso va considerato con attenzione.

Il DSM specifica che non si dovrebbe diagnosticare un disturbo psicologico se i sintomi possono essere
spiegati da una condizione medica o dagli effetti collaterali dei farmaci.

Per quanto riguarda gli anziani è molto importante in fase di diagnosi poter escludere queste possibili
spiegazioni alternative problemi medici possono peggiorare il decorso della depressione; problemi medici
come disfunzioni tiroidee, il morbo di Parkinson, la malattia di Alzheimer, sono in grado di produrre sintomi
che simulano la schizofrenia, la depressione o l’ansia; l’angina, l’insufficienza cardiaca congestizia possono
portare a una maggiore frequenza cardiaca, che può essere confusa con un sintomo di ansia; il
deterioramento del sistema vestibolare può spiegare i sintomi di panico, come capogiri e vertigini.
DISTURBI NEUROCOGNITIVI DELL’ETÀ AVANZATA.
I due tipi principali disturbi cognitivi dell’età senile sono:
- La demenza, che comporta un deterioramento delle abilità cognitive
- Il delirium, uno stato di confusione mentale.

LA DEMENZA
La demenza è un termine descrittivo con cui si indica il deterioramento delle abilità cognitive fino al punto
in cui le capacità funzionali complessive dell’individuo ne risultano compromesse.
La demenza può avere svariate cause e la natura dei sintomi dipende dal tipo di demenza.

La difficoltà a ricordare le cose, soprattutto gli eventi recenti, è il principale sintomo di demenza (queste
persone possono lasciare incompiuti lavori che stavano facendo lasciare il rubinetto dell’acqua aperto).
Mentre la demenza progredisce, un genitori diventa incapace di ricordare il nome della figlia, in seguito può
persino dimenticarsi di avere dei figli, o non riconoscerli quando questi vanno a trovarlo.
L’igiene personale può diventare carenti, perché la persona si dimentica di lavarsi. Inoltre i pazienti che
soffrono di demenza facilmente si perdono, anche in ambienti a loro noti.

Le persone affette da demenza possono perdere il controllo dei propri impulsi (utilizzare un linguaggio
volgare, pare nei negozi e tentare approcci sessuali con estranei).

La demenza può essere progressiva, stabile o remittente, a seconda della causa.

La maggior parte delle forme di demenza si sviluppa molto lentamente nel corso di svariati anni: sottili
deficit cognitivi comportamentali possono essere individuati molto prima che si produca una
compromissione cognitiva evidente.
La comparsa di questi segni di declino ben prima che si giunga ad una compromissione funzionale è stata
denominata disfunzione cognitiva lieve

Demenza= disturbo neurocognitivo maggiore. (DSM-5)


Disfunzione cognitiva lieve= disturbo neurocognitivo lieve. (DSM-5)

Il criterio che permette di distinguere tra disturbi lievi o maggiori è se i sintomi interferiscono o meno con la
capacità di vivere in maniera indipendente nella vita quotidiana

DISTURBO NEUROCOGNITIVO LIEVE.


Criteri diagnostici:
A) declino cognitivo lieve, rispetto ai livelli precedenti, in uno o più ambiti diagnosticato sulla base di
entrambi i seguenti criteri:
-preoccupazione del paziente, di una persona vicina o di un medico
-modesta compromissione della performance cognitiva in test strutturati o in una valutazione clinica
equivalente
B) i deficit cognitivi non interferiscono con l’autonomia (ossia con compiti come pagare le bollette o gestire
l’assunzione di farmaci) anche se per mantenere tale autonomia possono essere necessario un maggiore
sforzo, strategie compensatori o organizzative
C) i deficit cognitivi non si presentano esclusivamente durante un episodio di delirium e non sono dovuti a
un altro disturbo psicologico.

DISTURBO NEUROCOGNITIVO MAGGIORE.


Criteri diagnostici:
A) declino cognitivo significativo, rispetto ai livelli precedenti, in uno o più ambiti diagnosticato sulla base di
entrambi i seguenti criteri:
- preoccupazione del paziente, di una persona vicina o di un medico
- significativa compromissione della performance cognitiva in test strutturati o in una valutazione clinica
equivalente
B) i deficit cognitivi interferiscono con l’autonomia.
C) i deficit cognitivi non si presentano esclusivamente durante un episodio di delirium e non sono dovuti a
un altro disturbo psicologico.

Quattro tra le principali forme di demenza (disturbo neurocognitivo maggiore) sono:

MALATTIA DI ALZHEIMER
La malattia di Alzheimer, descritta per la prima volta nel 1906 dal neurologo tedesco Alois Alzheimer,
provoca un deterioramento irreversibile dei tessuti cerebrali; la morte sopraggiunge in genere 12 anni
dopo il manifestarsi dei primi sintomi.
Il sintomo più comune della malattia di Alzheimer è la perdita di memoria. L'esordio della malattia può
essere segnato da difficoltà a concentrarsi e a memorizzare nuovi contenuti, come viene descritto nel caso
di Mary Ann. Queste persone possono lasciare incompiuti i lavori che stanno facendo, perché si
dimenticano di riprenderli dopo un'interruzione; ad esempio, alcuni possono dimenticare il rubinetto
dell'acqua aperto dopo aver iniziato a riempire il bollitore del tè. Questi problemi possono essere trascurati
per anni ma a un certo punto arrivano a interferire con le attività della vita quotidiana.

La perdita di memoria non è l'unico sintomo della malattia di Alzheimer. Molto comune, ancora prima che
diventino rilevabili i sintomi cognitivi, è il manifestarsi dell'apatia con L'aggravarsi della malattia, circa un
terzo delle persone sviluppa un disturbo depressivo conclamato. Col progredire della malattia, i deficit delle
abilità linguistiche e i problemi a trovare le parole si aggravano. Le abilità visuo-spaziali si riducono, fatto
che si può esprimere con un grave disorientamento (stato di confusione riguardo a tempo, spazio o
identità). La persona tende a perdersi facilmente, anche in luoghi conosciuti.

Col progredire del deterioramento cerebrale, la gamma e la gravità dei sintomi comportamentali
continuano a crescere. Le persone all'inizio sono inconsapevoli dei propri problemi cognitivi e possono
incolpare gli altri per la scomparsa di oggetti, fino al punto di sviluppare un vero delirium di persecuzione.
La memoria continua a deteriorarsi e l'individuo diventa sempre più disorientato e agitato. Con l'evolvere
della malattia un genitore può non ricordare più il nome di un figlio o di una figlia, e in seguito può arrivare
addirittura a dimenticare di avere un figlio o una figlia, o a non riconoscerli quando vanno a visitarla. La
persona può dimenticare di lavarsi o di vestirsi in modo adeguato. Le sue capacità di giudizio possono
alterarsi e può avere difficoltà a comprendere le situazioni, a pianificare attività o a prendere decisioni.
Nella fase terminale della malattia la personalità perde la sua vivacità e integrità. Parenti e amici dicono che
la persona non è più lei. Infine la persona è del tutto inconsapevole di ciò che le sta attorno.

I soggetti colpiti da malattia di Alzheimer presentano placche amiloidi (aggregati tondeggianti di piccoli
peptidi, i beta-amiloidi, che si depositano all'esterno dei neuroni) e agglomerati neurofibrillari (ammassi di
filamenti proteici, composti in larga parte dalla proteina tau, che si accumulano negli assoni dei neuroni) in
quantità superiore a quanto ci si aspetterebbe in base all'età. Alcuni producono quantità eccessive di beta-
amiloide, mentre altri sembrano avere deficit nei meccanismi di eliminazione del beta-amiloide dal cervello
Le placche amiloidi sono più densamente presenti nella corteccia frontale e possono comparire da 10 a 20
anni prima che i sintomi cognitivi diventino rilevabili. Le placche possono essere misurate utilizzando uno
speciale tipo di PET. Gli agglomerati neurofibrillari vengono misurati, di solito, nel liquido cerebrospinale,
sebbene possano essere misurati anch'essi tramite PET; sono più densamente presenti nella regione
dell'ippocampo, un'area rilevante per la me moria. Nel corso del tempo, col progredire della malattia,
placche e agglomerati si diffondono anche ad altre aree cerebrali
Le risposte immunitarie alle placche portano a uno stato di infiammazione che nel tempo innesca una serie
di cambiamenti a livello cerebrale. Gli stadi iniziali della malattia sembrano essere caratterizzati da una
perdita di sinapsi colinergiche e glutamatergiche. Col tempo i neuroni iniziano a morire e, man mano che
muoiono, la corteccia entorinale e poi l’ippocammpo si atrofizzano, in seguito l’atrofia si estende ai lobi
frontali, temporali e parietali. Via via che ciò avviene le cavità dei ventricoli diventano più grandi. Il
cervelletto, il midollo spinale e le aree sensoriali e motorie della corteccia sono meno colpiti, il che spiega
perché le persone colpite da Alzheimer appaiono fisicamente normali fino a una fase avanzata della
malattia. Nel 25% circa dei casi di malattia di Alzheimer il deterioramento della corteccia cerebrale finisce
per portare anche a deficit motori.

Nel più vasto studio gemellare relativo alla malattia di Alzheimer è riportata una stima di ereditabilità del
79%. Vale a dire che circa il 79% della varianza nell'esordio della malattia di Alzheimer appare associato al
patrimonio genetico e circa il 21% appare associato a fattori ambientali (

Sono stati fatti notevoli progressi nel chiarire i meccanismi genetici molecolari della malattia di Alzheimer.

Il polimorfismo genetico che fornisce il contributo di gran lunga maggiore allo sviluppo della malattia è il
polimorfismo di un gene presente sul cromosoma 19, ovvero il gene della apolipoproteina e4 o allele
ApoE-4. Il fatto di possedere nel proprio corredo genetico un allele 4 aumenta di circa il 20% il rischio di
sviluppare la malattia di Alzheimer, ma il possedere due di questi alleli rende il rischio della malattia
decisamente più elevato.

DEMENZA FRONTOTEMPORALE
Come suggerito dal nome, la demenza frontotemporale (FTD, frontotemporal dementia) è causata da una
perdita di neuroni nelle regioni frontali e temporali del cervello. Il deterioramento dei neuroni causato
dalla FTD ha luogo principalmente nelle regioni anteriori dei lobi temporali e nella corteccia prefrontale. La
FTD ha inizio tipicamente verso i sessant'anni, e progredisce rapidamente; la morte di solito si verifica entro
5-10 anni dalla diagnosi.
La FTD è una condizione rara, che colpisce meno dell'1% della popolazione.
A differenza dell'Alzheimer, nella demenza frontotemporale non vi sono gravi deficit di memoria.
I criteri diagnostici, proposti di recente da una commissione internazionale, per la variante più comune di
FTD prevedono un deterioramento tale da produrre compromissione funzionale in almeno tre delle
seguenti aree: empatia, funzioni esecutive (la capacità cognitiva di pianificare e organizzare), capacità di
inibire il comportamento, comporta mento compulsivo o perseverativo, iperoralità (tendenza a mettere in
bocca oggetti non commestibili) e apatia.
Negli stadi iniziali le persone più vicine al soggetto possono notare alterazioni nella personalità e nella
capacità di giudizio. Ad esempio, l'uomo d'affari accorto e di successo può cominciare a fare investimenti
terribilmente sbagliati.
Poiché una persona colpita da FTD può all'improvviso iniziare a mangiare smodatamente, a fumare una
sigaretta dopo l'altra, a bere alcol o a mostrare altri sintomi comportamentali, spesso questo disturbo viene
diagnosticato per errore come una crisi della mezza età, o un disturbo psicologico come la depressione o il
di sturbo bipolare o la schizofrenia.
La FTD colpisce i processi emozionali in modo più pro fondo rispetto alla malattia di Alzheimer, portando
anche alla compromissione dei rapporti sociali. Particolari deficit sembrano emergere nella capacità di
regolare le emo zioni. Questo può portare le persone con demenza frontotemporale a violare le
convenzioni sociali. Le persone con FTD non sembrano accorgersi di avere fatto qualcosa di socialmente
inadeguato, per cui non provano alcun imbarazzo in contesti in cui gli altri possono invece sentirsi
imbarazzati. Come facilmente immaginabile, le alterazioni della personalità e delle emozioni, insieme a una
mancanza di capacità intuitive, influiscono pesantemente sulle relazioni interpersonali. La soddisfazione
coniugale è più colpita dalla demenza frontotemporale che dalla malattia di Alzheimer.
La demenza frontotemporale può essere causata da svariati processi molecolari. Uno di questi è la malattia
di Pick, caratterizzata dalla presenza dei corpi di Pick, inclusioni di forma sferica all'interno delle cellule
nervose; ma anche molte altre malattie o processi patologici possono causare la demenza frontotemporale.
Alcune persone con FTD presentano livelli elevati di proteina tau, i filamenti proteici che contribuiscono a
formare gli agglomerati neurofibrillari osservati nella malattia di Alzheimer, mentre altre non presentano
questa anomalia (Josephs, 2008). La demenza frontotemporale ha una forte componente genetica (Cruts,
DEMENZA VASCOLARE
La demenza vascolare viene diagnosticata quando è la conseguenza di una malattia cerebrovascolare. Nel
caso più comune, la persona è stata colpita da ictus, cioè in seguito alla formazione di un trombo che
occlude i vasi sanguigni cerebrali, si è avuto un deficit d'irrorazione cerebrale, con conseguente morte dei
neuroni. Circa il 7% delle persone sviluppa la demenza nell'anno successivo a un primo ictus, e il rischio di
demenza aumenta con il ripetersi degli ictus (Pendlebury e Rothwell, 2009). Il rischio di demenza vascolare
coinvolge gli stessi fattori che influiscono in generale sulle malattie cardiovascolari: ad esempio, alti livelli di
colesterolo «cattivo» (LDL), fumo di sigaretta e ipertensione arteriosa (Moroney, Tang, Berglund et al.,
1999). Ictus e demenza vascolare sono più comuni tra gli afroamericani che tra i caucasici (Froehlich,
Bogardus e Inouye, 2001). Poiché l'ictus e le malattie cardiovascolari possono colpire regioni diverse del
cervello, i sintomi della demenza vascolare possono variare di molto. L'esordio dei sintomi è di solito più
rapido nella demenza vascolare che in altre forme di demenza. La demenza vascolare può essere
concomitante alla malattia di Alzheimer.

DEMENZA A CORPI DI LEWY


La demenza a corpi di Lewy (DLB, dementia with Lewy bodies) è caratterizzata dalla formazione di depositi
proteici, detti corpi di Lewy, nei tessuti cerebrali, corpi che sono la causa del declino cognitivo. La DLB può
essere suddivisa in due sottotipi, a seconda che si verifichi o meno nel contesto del morbo di Parkinson
Circa l'80% dei pazienti con morbo di Parkinson sviluppa la DLB, ma questa forma di demenza si sviluppa
anche in alcuni soggetti che non hanno il Parkinson.
I sintomi di questo tipo di demenza sono spesso difficili da distinguere da quelli del morbo di Parkinson (ad
esempio il passo strascicato) e della malattia di Alzheimer (ad esempio la perdita di memoria). Rispetto alla
malattia di Alzheimer è più probabile che la DLB comprenda rilevanti allucinazioni visive e sintomi cognitivi
fluttuanti (APA, 2013). Pazienti con DLB sono spesso estremamente sensibili agli effetti collaterali dei
farmaci antipsicotici. Un altro sintomo distintivo della DLB è dato dall'intensa attività onirica,
accompagnata da movimenti e vocalizzazioni, tanto da dare l'impressione che il soggetto stia «agendo il
sogno»

Demenze causate da malattie e traumi


Numerose altre condizioni mediche possono portare alla demenza. L'encefalite, termine con cui si indica
qualsiasi infiammazione del tessuto cerebrale, è causata da virus che trano nel cervello. La meningite,
un'infiammazione delle membrane che avvolgono la superficie esterna del cervello, è causata di solito da
un'infezione batterica. Sia l'encefalite sia la meningite possono causare demenza. Il batterio (Treponema
pallidum) che causa la sifilide, una malattia venerea, può invadere il cervello e causare demenza.
Infine il virus della immunodeficienza (HIV), i traumi cranici, i tumori cerebrali, le carenze nutrizionali
(specialmente delle vitamine del complesso B), l'insufficienza renale o epatica e disfunzioni endocrine come
l'ipertiroidismo sono tutte condizioni che possono portare a demenza. Lo stesso accade con l'esposizione
ad agenti tossici (come piombo o mercurio) e con l'abuso cronico di sostanze.

Trattamento della demenza


Purtroppo, nonostante ricerche approfondite condotte in quest'area, non esiste una cura per la demenza
Tuttavia si usano alcuni farmaci per trattare la demenza e altre sindromi correlate. Sono stati sviluppati
anche trattamenti psicologici e approcci basati sugli stili di vita.
Farmacoterapia
Nessun farmaco si è dimostrato in grado di attenuare i sintomi cognitivi della demenza frontotemporale. Le
ricerche si sono concentrate soprattutto sulla malattia di Alzheimer e sul declino della memoria. I farmaci
possono contribuire a rallentare il declino, ma non riportano la funzione mnestica ai livelli precedenti. I
farmaci più comunemente usati per la demenza sono gli inibitori della colinesterasi (farmaci che
interferiscono con la degradazione dell'acetilcolina), fra cui il donepezil (ad esempio Aricept) e la
rivastigmina (ad esempio Exelon). In confronto al placebo, gli inibitori della colinesterasi rallen tano - sia
pure in misura modesta - il declino delle capacità mnestiche in persone con malattia di Alzheimer e con
demenza da corpi di Lewy. Oltre agli inibitori della colinesterasi, anche la memantina (Ebixa), ha dimostrato
di produrre effetti, benché modesti, sulla malattia di Alzheimer in trial con controllo placebo; la memantina
è una sostanza che influisce sui recettori del glutammato, i quali si ritiene abbiano un ruolo nei processi
mnestici. Purtroppo, molti pazienti interrompono l'assunzione di questi farmaci a causa degli spiacevoli
effetti collaterali, come la nausea
Per alleviare i sintomi psicologici, come depressione e agitazione, che di solito si verificano in concomitanza
con la demenza, vengono comunemente usati trattamenti farmacologici. Ad esempio, gli antidepressivi
contribuiscono ad alleviare i sintomi depressivi che possono accompagnare la malattia di Alzheimer
(Modrego, 2010) e la demenza frontotemporale (Mendez et al., 2008). Poiché la depressione produce
maggiore compromissione cognitiva negli anziani che non nei soggetti più giovani trattare i sintomi
depressivi può spesso portare a miglioramenti nei sintomi cognitivi. I farmaci antipsicotici possono fornire
un modesto sollievo all'agitazione e all'aggressività ma d'altro canto accrescono anche il rischio di morte tra
gli anziani con demenza.

TRATTAMENTI PSICOLOGICI E QUELLI BASATI SULLO STILE DI VITA.


Una psicoterapia di sostegno può aiutare questi pazienti e le loro famiglie ad affrontare gli effetti della
demenza. Il terapeuta offre paziente e alla sua famiglia l’opportunità di parlare della malattia. Fornisce
accurate informazioni sulla patologia, aiuta i familiari a prendersi cura del paziente a casa e incoraggia un
atteggiamento realistico, anziché catastrofico, nell’affrontare i molti problemi posti da questo disturbo
cognitivo.
Gli approcci comportamentali sono utili nel compensare la perdita di memoria e nel ridurre la depressione
e il comportamento aggressivo di coloro che sono ancora in uno stato iniziale della malattia di Alzheimer
(sussidi mnemonici come calendari, etichette possono fungere da richiami visivi e rappresentano strategie
utili a contrastare il declino delle abilità mnestiche).

Anche l’attività fisica sembra apportare dei benefici nella migliorare la funzione cognitiva.

I programmi di training cognitivo finalizzati a migliorare la memoria, il ragionamento o la velocità di


elaborazione cognitiva hanno dimostrato di portare moderati benefici alle persone anziane.

Per favorire una maggiore generalizzazione delle abilità cognitive, alcuni ricercatori hanno iniziato a
concentrare gli sforzi sul tentativo di insegnare abilità «meta-cognitive»>, cioè i modi con cui si pensa al
pensare. Per portare l'esempio di un programma meta-cognitivo che ha avuto successo, insegnare alle
persone strategie per facilitare la memoria sembra migliorare la performance in un'ampia gamma di
compiti. Analogamente, un training al multitasking ha apparentemente migliorato non solo la capacità di
affrontare più compiti allo stesso tempo (multitask), ma anche la capacità di tenere a mente le cose e di
mantenere l'attenzione concentrata su un compito
Gli approcci comportamentali si sono dimostrati utili per compensare la perdita di memoria e per ridurre la
depressione e il comportamento agitato e aggressivo di coloro che sono ancora in uno stadio iniziale della
malattia di Alzheimer

Per alleviare la depressione si possono incrementare le attività piacevoli e coinvolgenti. I fattori che
innescano il comportamento aggressivo possono essere identificati e quindi modificati. La musica può
contribuire a ridurre gli stati di agitazione e il comportamento aggressivo. Questi interventi
comportamentali possono costituire importanti alternative agli approcci farmacologici.

IL DELIRIUM.
Il delirium è un termine che significa “uscire dal solco”, cioè deviare dallo Stato usuale. È in genere descritto
come uno stato di coscienza alterato e confuso.
I due sintomi più comuni sono una grande difficoltà a concentrare l’attenzione e profonde alterazioni del
ciclo sonno-veglia (sonnolente di giorno, sveglio e agitato durante la notte, sogni vividi e incubi).
Il paziente, talvolta in maniera improvvisa, ha una grande difficoltà a focalizzare l’attenzione da non riuscire
a mantenere un flusso coerente di pensieri: la persona con delirium può non riuscire a impegnarsi in una
conversazione per via dell’attenzione fluttuante e della frammentazione del pensiero. L’eloquio sconnesso
e incoerente.

Smarrite e confuse, alcune persone possono arrivare ad essere così disorientate da non sapere più che
giorno è, dove si trovano e perfino chi sono.

Le alterazioni percettive sono frequenti, possono scambiare per familiari situazioni che non lo sono (dire di
trovarsi a casa anziché in ospedale).

Le allucinazioni visive sono comuni, ma non sempre presenti.

I pazienti con delirium possono essere mutevoli, strapparsi gli abiti di dosso un momento e il momento
successivo stare seduti immobili e letargici.

Possono anche passare con estrema rapidità da un’emozione all’altra depressione, ansia, paura, collera,
euforia e irritabilità.

Sono frequenti anche manifestazioni come febbre, vampate al volto, pupille dilatate, tremori, tachicardia,
pressione alta e incontinenza di urine feci.

Se il delirium peggiora, la persona può cadere in uno stato stuporoso e letargico.

Il delirium può presentarsi in persone di ogni età, ma è più comune nei bambini e negli anziani.

Negli anziani, sfugge spesso alla diagnosi quando si associa alla demenza.

Importante differenza: quando si parla con una persona affetta da delirium, si può avere la sensazione di
parlare con qualcuno in stato acuto di intossicazione, o con qualcuno in preda a un episodio psicotico
acuto. Mentre il paziente affetto da demenza può non ricordare il nome del luogo in cui si trova, il paziente
con delirium può credere che si tratti di un luogo completamente diverso, magari scambiando un reparto di
psichiatria per un deposito di macchine usate.

Identificare il delirium è di fondamentale importanza: non trattata, questa condizione comporta un tasso di
mortalità elevato.

DELIRIUM
Criteri diagnostici:
A) alterazione della capacità di attenzione e della consapevolezza
B) cambiamento nell’attività cognitive, come un disturbo nell’orientamento, nel linguaggio, nella
memoria, nella percezione e nella pianificazione che non può essere meglio giustificato da una demenza.
C) insorgenza rapida (di solito nel giro di poche ore) nel corso di una giornata
D) i sintomi sono causati da una condizione medica generale.
E) fluttuazioni dell’attenzione.

Eziologia del delirium


Come specificato nei criteri diagnostici, il delirium è causato da patologie mediche. Sono state identificate
varie cause di delirium: intossicazione o astinenza da sostanze, squilibri metabolici e nutrizionali (quali il
diabete non controllato, la disfunzione tiroidea, l'insufficienza renale o epatica, l'insufficienza cardiaca
congestizia o la malnutrizione), infezioni o febbri (come la polmonite o infezioni delle vie urinarie), disturbi
neurologici (come demenza, traumi cranici o epilessia) e lo stress provocato da un intervento chirurgico
importante (Zarit e Zarit, 2011). Uno dei più comuni fattori di innesco del delirium è l'intervento chirurgico
di protesi all'anca.
TRATTAMENTO DEL DELIRIUM.
Un completo recupero dalla delirium è possibile se la causa sottostante viene trattata in modo adeguato e
tempestivo. Il paziente deve essere subito sottoposto ad un esame approfondito, per poter identificare e
trattare tutte le possibili cause reversibili del disturbo (intossicazione da sostanze, infezioni, febbre e
malnutrizione).
L’approccio più comune al trattamento del delirium consiste nel somministrare antipsicotici atipici.

Di solito tale condizione richiede da una a quattro settimane per risolversi; i tempi sono più lunghi nei
pazienti più anziani rispetto ai più giovani.

CAPITOLO 15. PERSONALITÀ E DISTURBI DI PERSONALITÀ.


I disturbi di personalità costituiscono un gruppo molto eterogeneo di disturbi psicologici definiti dalla
difficoltà a formarsi un’immagine di sé stabilmente positiva e a intrattenere con gli altri rapporti profondi e
costruttivi.

Un vero e proprio disturbo di personalità si caratterizza per le modalità estreme, inflessibili e disadattive
con cui questi tratti vengono espressi.

Gli individui affetti da un disturbo di personalità esperiscono, in diversi ambiti della loro vita, gravi problemi
di identità e nei rapporti con gli altri, problemi che si protraggono per anni. I sintomi dei disturbi di
personalità sono infatti pervasivi e persistenti.

L'approccio del DSM-5 alla classificazione


Nel DSM-5 i dieci differenti disturbi di personalità sono classificati in tre gruppi fondati sul concetto che
questi disturbi sono caratterizzati da:
- comportamenti insoliti o eccentrici (gruppo A);
- comportamenti drammatici, emotivi o instabili (gruppo B);
- comportamenti caratterizzati da ansia o paura (gruppo C).

Circa 1 persona su 10 soddisfa i criteri diagnostici per un disturbo di personalità.

I disturbi di personalità tendono a essere più comuni fra le persone con un disturbo psicologico, come il
disturbo depressivo maggiore o un disturbo d'ansia. Secondo le stime ottenute in uno studio, le persone
con un disturbo di personalità hanno sette volte più probabilità di soffrire di un disturbo d'ansia o
dell'umore in confronto a chi non ha disturbi di personalità, e quattro volte più probabilità di avere un
disturbo da uso di sostanze.
L'associazione tra disturbi di personalità e disturbi d'ansia, dell'umore e da uso di sostanze è
particolarmente forte i disturbi del per gruppo B. Ne consegue che i disturbi di personalità sono particolar
mente comuni nei contesti clinici.
Quando vi sia comorbilità, i disturbi di personalità sono associati a sintomi più gravi, scarso funzionamento
sociale e minore efficacia dei trattamenti per molti disturbi mentali. La comorbilità con un disturbo di
personalità è predittiva di esiti peggiori anche per i disturbi d'ansia

Il DSM5 comprende 10 disturbi di personalità:


- Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità
- disturbo narcisistico di personalità
- disturbo schizotipico di personalità
- disturbo evitante di personalità
- disturbo antisociale di personalità e la psicopatia
- disturbo borderline di personalità
- paranoide
- schizoide
- istrionico
- dipendente.

Aspetti problematici dell'approccio adottato dal DSM-5 per la diagnosi dei disturbi di personalità
L'approccio adottato dal DSM-5 per la diagnosi dei di sturbi di personalità presenta alcuni problemi. Per
esempio, un insieme di ricerche continuamente crescente suggerisce che questi disturbi non siano così
stabili come invece implica la loro definizione, e che i tassi di comorbilità fra i disturbi di questo tipo siano
estremamente elevati.

I disturbi di personalità non sono stabili nel tempo


Quando persone con diagnosi di disturbo di personalità furono seguite per un periodo di 16 anni, il 99%
cessò di soddisfare i criteri per la diagnosi. I sintomi dei disturbi di personalità sembrano essere più comuni
durante adolescenza per poi declinare intorno ai vent'anni e ancora di più nelle fasi più avanzate della vita
Questi risultati indicano quindi che molti disturbi di personalità possono non essere duraturi come sostiene
il DSM.
Anche se i sintomi non sono così persistenti quanto implica la definizione di disturbo di personalità, queste
diagnosi sembrano avere un importante valore predittivo rispetto agli esiti a lungo termine.
In primo luogo, anche dopo la generale remissione molte persone continuano a presentare alcuni
sintomi, non però ai livelli richiesti per trarre la diagnosi.
In secondo luogo, anche dopo la remissione molti problemi di funzionamento continuano a persistere.
Una diagnosi iniziale di disturbo di personalità è predittiva di scarso funzionamento e di un'incidenza
maggiore di depressione perfino a 10-15 anni di distanza.
In terzo luogo, anche anni dopo la remissione il rischio di recidiva resta elevato, ovvero i sintomi di un
disturbo di personalità spesso vanno e vengono nel corso del tempo

I disturbi di personalità presentano comorbilità elevata


Un altro grave problema connesso con la classificazione dei disturbi di personalità è legato alla loro
reciproca, elevata comorbilità.
Oltre il 50% delle persone che hanno ricevuto la dia gnosi di un certo disturbo di personalità soddisfa i
criteri anche per un altro disturbo di questo tipo. Alcuni disturbi di personalità implicano problemi tra loro
analoghi.
In conclusione, il sistema adottato dal DSM potrebbe non essere l'ideale per classificare i disturbi di
personalità, data la mancanza di stabilità test-retest e gli alti tassi di co morbilità.
Il modello alternativo del DSM-5 per i disturbi di personalità
Per dare soluzione ai problemi posti dall'approccio tradizionale alla diagnosi dei disturbi di personalità, la
Commissione su Personalità e Disturbi di personalità del DSM-5 ha suggerito un coraggioso cambiamento:
ha raccomandato di ridurre il numero dei disturbi di personalità, di introdurre dimensioni dei tratti di
personalità e di trarre la diagnosi in base a punteggi estremi lungo le dimensioni dei tratti di personalità. I
Per questo motivo nell'appendice del DMS-5 un modello di classificazione alternativo.
Il modello alternativo del DSM-5 comprende solo sei dei dieci disturbi di personalità definiti dal DSM-5.
I disturbi schizoide, istrionico e dipendente di personalità sono stati esclusi dal sistema di classificazione
alternativo perché il loro verificarsi è raro. Escluso dal sistema alternativo è anche il disturbo paranoide di
personalità, che spesso si presenta in sovrapposizione con altri disturbi di personalità.
Ognuno dei sei disturbi di personalità inclusi nel sistema alternativo mostra un livello adeguato di
affidabilità interrater, quando la valutazione sia condotta mediante un'intervista strutturata.
Nel modello alternativo del DSM-5, la diagnosi è basata sui tratti di personalità. Il sistema comprende due
tipi di scale dimensionali: 5 domini dei tratti di personalità e 25 più specifiche sfaccettature del tratto di
personalità. Ciascuna dimensione può essere valutata in base a resoconti autodescrittivi Per esempio, la
sfaccettatura dell'Ansia viene valutata mediante item del tipo. Questi domini e sfaccettature dei tratti di
personalità sono strettamente correlati a un modello molto influente in psicologia, detto il modello a
cinque fattori della personalità (Big Five) (McCrae e Costa, 1990).
15 domini di tratti di personalità e le 25 sfaccettature del DSM-5.
Domini e aspetti
I. Affettività negativa (vs. stabilità emotiva)
1. Ansia
2. Labilità emotiva
3. Ostilità
4. Perseverazione
5. Angoscia di separazione
6. Sottomissione

II. Distacco (vs. estroversione)


7. Anedonia
8. Depressività
9. Evitamento dell'intimità
10. Sospettosità
11. Ritiro
12. Affettività ridotta

III. Antagonismo (vs. amabilità)


13. Ricerca di attenzione
14. Insensibilità
15. Inganno
16. Grandiosità
17. Manipolatorietà

IV. Disinibizione (vs. coscienziosità)


18. Distraibilità
19. Impulsività
20. Irresponsabilità
21. Perfezionismo rigido
22. Tendenza a correre rischi
V. Psicoticismo
23. Eccentricità
24. Disregolazione cognitiva e percettiva
25. Convinzioni ed esperienze inusuali

Nel modello alternativo del DSM-5, la diagnosi di disturbo di personalità viene tratta quando una persona
mostra dall'inizio dell'età adulta compromissione persistente e pervasiva di aspetti soggettivi e
interpersonali del suo funzionamento. Nel porre la diagnosi di disturbo di personalità, il clinico usa il profilo
del soggetto rispetto ai domini dei tratti di personalità e ai punteggi nelle sfaccettature per decidere quale
disturbo di personalità meglio risponde a quel profilo.

Mettere al centro della valutazione i tratti di personalità ha vari vantaggi. Tra i punti di forza di questo
approccio vi sono i seguenti.
- Le persone che soddisfano i criteri per un dato disturbo di personalità possono differire molto tra loro
rispetto ai tratti di personalità e alla gravità dei sintomi. Usando il sistema di valutazione basato sui
tratti di personalità, i clinici possono specificare quali tratti di personalità meglio caratterizzano un
certo cliente. I 25 punteggi dimensionali forniscono un quadro più fine e dettagliato di quanto non
facciano le categorie diagnostiche dei vari disturbi di personalità.
- I punteggi dei tratti di personalità tendono a essere più stabili nel tempo di quanto non lo siano le
categorie dia gnostiche dei disturbi di personalità
- Le dimensioni dei tratti di personalità sono legate a molti aspetti di adattamento psicologico e
perfino a disturbi fisici. Ad esempio, molti disturbi psicologici come l'ansia, la depressione e i disturbi da
sintomi somatici possono essere associati all'acuirsi di tratti di personalità quali l'affettività negativa. Le
dimensioni di personalità sono anche fortemente predittive di importanti aspetti del funzionamento
interpersonale, come la qualità delle amicizie e delle relazioni sentimentali, la performance
professionale.

CRITERI DIAGNOSTICI PROPOSTI DAL DSM-5 PER I DISTURBI DI PERSONALITÀ.


Criteri diagnostici:
A) Compromissione significativa del funzionamento individuale e interpersonale
B) Almeno un tratto/dominio o un sottodominio patologico
C) La compromissione della personalità è persistenti e pervasiva
D) La compromissione della personalità non è riconducibile alla fase evolutiva, al contesto socioculturale,
all’uso di sostanze, a un altro disturbo mentale o a una condizione medica.

Gruppo A: disturbi con comportamenti insoliti/eccentrici


Il gruppo dei disturbi di personalità caratterizzato da comportamenti insoliti/eccentrici comprende il
disturbo paranoide di personalità, il disturbo schizoide di personalità e il disturbo schizotipico di
personalità. I sintomi di questi tre disturbi presentano qualche somiglianza con i tipi bizzarri di pensiero e di
esperienze che si osservano nella schizofrenia. Nel gruppo A dei disturbi di personalità, però, questi tipi
bizzarri di pensiero e di esperienze sono meno gravi che nella schizofrenia.

IL DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITÀ


CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITÀ:
Presenza di quattro o più dei seguenti segni di sfiducia e sospettosità, con inizio nella prima età adulta e
presenti in numerosi contesti diversi:
Sospettare senza fondamento di essere danneggiato/a, ingannato/a o sfruttato/a.
Dubitare senza fondamento della lealtà o dell'affidabilità di amici o di colleghi.
• Riluttanza a confidare negli altri per via della sospettosità.
• Tendenza a leggere significati nascosti nelle azioni benevole degli altri.
• Portare rancore per torti percepiti.
- Reagire con rabbia ad attacchi percepiti al proprio carattere o alla propria reputazione.
- Sospettare senza fondamento della fedeltà del partner.

Le persone con disturbo paranoide di personalità (si veda il caso clinico di Danielle) sono sospettose nei
confronti degli altri, siano essi estranei, conoscenze occasionali o perfino familiari. Si aspettano di essere
trattate male o sfruttate dagli altri, quindi sono molto riservate e continuamente in guardia per cogliere i
segni di pos sibili inganni e abusi. Spesso sono ostili e si arrabbiano in risposta a insulti solo percepiti. I
colleghi di lavoro tendono a considerarle difficili e ipercritiche. La loro vita tende a essere piena di conflitti,
che possono anche essere molto duraturi. Purtroppo i conflitti tendono a perpetuare in queste persone la
paranoia: le loro continue battaglie sono la prova del fatto che non ci si può fidare degli altri.
Questo disturbo è diverso dalla schizofrenia paranoide perché gli altri sintomi della schizofrenia, come le
alluci nazioni, sono assenti, perciò la compromissione del fun zionamento sociale e lavorativo è meno
grave. Assente è anche la disorganizzazione cognitiva caratteristica della schizofrenia. Differisce dal
disturbo delirante per l'assenza di veri e propri deliri. Il disturbo paranoide di per sonalità presenta
comorbilità soprattutto con i disturbi schizotipico, borderline ed evitante di personalità.

IL DISTURBO SCHIZOIDE DI PERSONALITÀ


Lle persone con disturbo schizoide di personalità non sentono alcun desiderio di avere relazioni sociali e
non ne traggono alcun piacere, quindi di solito non hanno amici intimi. Questi individui appaiono fiacchi,
scialbi e solitari, privi di calore e di tenerezza per gli altri. Raramente provano emozioni forti, non sono
interessati al sesso, e poche sono le attività che danno loro piacere. Indifferenti alle lodi e alle critiche, le
persone con questo disturbo sono individui solitari che coltivano i loro interessi in solitudine.
CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO SCHIZOIDE DI PERSONALITÀ
Presenza di quattro o più dei seguenti segni di distacco dalle relazioni sociali e gamma ristretta di
espressioni emotive, che inizia nella prima età adulta ed è presente in numerosi contesti diversi:
• Mancanza di desiderio di relazioni affettive e mancanza di piacere derivato da queste. Quasi sempre viene
data la preferenza al restare da soli, anziché cercare la compagnia degli altri.
• Scarso interesse per il sesso.
- Poche o nessuna attività piacevole.
• Mancanza di amici.
- indifferenza a lodi o a critiche.
- Affettività appiattita, freddezza e distacco

IL DISTURBO SCHIZOTIPICO DI PERSONALITÀ


CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO SCHIZOTIPICO DI PERSONALITÀ
Presenza di cinque o più dei seguenti segni di pensieri insoliti, comportamenti eccentrici e deficit nelle
relazioni interpersonali, con inizio nell'età adulta e presenti in molti contesti diversi:
• Idee di riferimento.
• Credenze strane o pensiero magico, ad esempio credere nelle percezioni extrasensoriali.
• Percezioni insolite.
• Peculiari modalità di pensiero e di eloquio.
• Sospettosità o paranoia.
• Affettività inappropriata o ridotta.
• Comportamento o aspetto strani o eccentrici.
- Mancanza di amici intimi.
• Ansia sociale e paure interpersonali che non diminuiscono con l'aumentare della familiarità.

Il disturbo schizotipico di personalità è caratterizzato da pensieri e comportamenti insoliti ed eccentrici,


distacco interpersonale e sospettosità. Gli individui con questo di- sturbo possono manifestare convinzioni
strane o pensiero magico, ad esempio la convinzione di poter leggere nella mente degli altri e di poter
prevedere il futuro. Sono co- muni anche le idee di riferimento (la convinzione che gli eventi abbiano un
significato particolare e insolito specificamente per loro). Ad esempio, possono sentire che un certo
programma televisivo trasmette un messaggio speciale destinato precisamente a loro. Sono spesso
sospettosi degli altri e preoccupati che gli altri possano far loro del male. Inoltre vanno soggetti a illusioni
ricorrenti (percezioni sensoriali inaccurate), come l'avvertire la presenza di una forza o di una persona che
in realtà non c'è. Il loro eloquio è caratterizzato talvolta da un uso delle parole in solito e poco chiaro;
potrebbero dire, ad esempio, «non è una persona molto parlabile» per indicare una persona con cui non è
facile parlare. Anche il comportamento e l'aspetto possono essere stravaganti; ad esempio, possono
parlare da soli oppure indossare abiti sporchi o trasandati. Inoltre manifestano un impoverimento e un
appiatti mento dell'affettività e tendono a estraniarsi dagli altri. Uno studio sull'importanza relativa di
questi sintomi ai fini della diagnosi ha rilevato che la sospettosità, le idee di riferimento e le alterazioni
percettive erano i più significativi. La maggior parte delle persone a cui viene diagnosticato il disturbo
schizo tipico di personalità non sviluppa deliri (cioè il credere in cose evidentemente assurde), tuttavia, nel
corso del tempo, alcune sviluppano sintomi psicotici più gravi e una piccola percentuale arriva col tempo
alla schizofrenia.
Le ricerche si sono concentrate in gran parte sulle cause dei pensieri strani, dei comportamenti bizzarri e
delle difficoltà interpersonali che si manifestano in questo disturbo di personalità. Come si è detto in pre
cedenza, i fattori genetici e le esperienze avverse vissute nell'infanzia sono probabilmente coinvolti
entrambi nell'insorgere di questo disturbo. Inoltre la vulnerabilità biologica per lo sviluppo del disturbo
schizotipico di personalità sembra sovrapporsi alla vulnerabilità genetica per la schizofrenia.

I DISTURBI DEL GRUPPO B CON COMPORTAMENTI DRAMMATICI/ INSTABILI - il disturbo antisociale di


personalità, il disturbo borderline di personalità, il disturbo istrionico di personalità e il disturbo narcisistico
di personalità sono caratterizzati da sintomi che comprendono comportamenti altamente mutevoli,
esagerata autostima, comportamenti che violano le norme ed espressione esagerata delle emo zioni, per
esempio scoppi di ira. Sulla eziologia dei disturbi di personalità del gruppo B si hanno conoscenze maggiori
che per i disturbi negli altri gruppi.

IL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ E LA PSICOPATIA


Nell'uso informale del linguaggio comune, i termini disturbo antisociale di personalità e psicopatia (talvolta
detta anche sociopatia) sono spesso intercambiabili. Anche se il comportamento antisociale, come
infrangere la legge, è una componente importante di entrambe le condizioni, tra le due sindromi vi sono
però differenze rilevanti. Una differenza consiste nel fatto che il disturbo antisociale di personalità è incluso
nel DSM, mentre la psicopatia non lo è.

IL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ:


CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ
• La persona ha almeno 18 anni.
• Presenza del disturbo della condotta prima dei 15 annidi età.
• Pattern pervasivo di inosservanza e violazione dei diritti degli altri, che si manifesta fin dall'età di 15 anni,
come dimostra la presenza di almeno tre dei seguenti
elementi.
1. Ripetute violazioni della legge.
2. Inganno, menzogne.
3. Impulsività.
4. Irritabilità e aggressività.
5. Inosservanza spericolata della sicurezza propria e altrui.
6. Irresponsabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere un'attività lavorativa
continuativa di far fronte a obblighi finanziari.
7. Mancanza di rimorso.
La caratteristica principale del disturbo antisociale di personalità è un pattern pervasivo di inosservanza e
violazione dei diritti degli altri. Le persone con questo disturbo si caratterizzano per tratti di aggressività,
impulsività e insensibilità. I criteri del DSM-5 specificano la presenza di sintomi del disturbo della condotta.
Le persone con disturbo antisociale di personalità spesso riferiscono una storia personale in cui già nella
prima adolescenza figurano assenze ripetute e ingiustificate da scuola, fughe da casa, menzogne frequenti,
furti, l'appiccare incendi e la distruzione deliberata di proprietà altrui. Da adulte queste persone sono
caratterizzate da un comportamento irresponsabile, che si manifesta sotto forma di incapacità di sostenere
un'attività lavorativa in modo continuativo, di violazioni della legge, irritabilità e aggressività fisica,
inadempienza ai debiti.
Queste persone non attribuiscono alcun valore all'onestà e alla verità e dimostrano una totale mancanza di
rimorso per i propri misfatti, anche quando le loro azioni recano danno ad amici o a familiari.
Le diagnosi di disturbo antisociale di personalità sono circa cinque volte più frequenti tra gli uomini che fra
le donne.
Circa tre quarti delle persone con questo disturbo soddisfano i criteri anche per la diagnosi di un altro
disturbo; molto comune è l'abuso di sostanze. Non sorprende, quindi, che tassi elevati di disturbo
antisociale di personalità si rilevino nei centri di riabilitazione da droghe e alcol (Sutker e Adams, 2001).
Circa tre quarti dei criminali detenuti soddisfano i criteri per il disturbo antisociale di personalità.

LA PSICOPATIA: descrizione clinica


Il concetto di psicopatia è stato introdotto prima della diagnosi di disturbo antisociale di personalità del
DSM. Nel suo libro The Mask of Sanity, Hervey Cleckley (1976) attingeva alla propria vasta esperienza in
ambito clinico per formulare dei criteri diagnostici per la psicopatia. I criteri elaborati da Cleckley si
focalizzano sui pensieri e le emozioni della persona.
Una delle caratteristiche chiave della psicopatia sta nella povertà di emozioni sia positive che negative. Le
persone con psicopatia non provano alcuna vergogna e perfino quelli che appaiono come sentimenti
positivi verso gli altri non sono che una messa in scena. Sono persone capaci di affascinare, quanto meno
superficialmente, e di usare il proprio fascino per manipolare gli altri a proprio vantaggio. L'assenza di
emozioni negative quali l'ansia rende quasi impossibile a queste persone imparare dai propri errori, mentre
la man canza di rimorso le porta a comportarsi in modo irrespon abile, e spesso crudele, verso gli altri. I
comportamenti contro le regole sono messi in atto d'impulso, più per il brivido che procurano che per il
guadagno che ne deriva. Alcuni ricercatori hanno sostenuto che tre tratti fonda mentali soggiacciono a
questi sintomi così diversi: l'audacia, la meschinità e l'impulsività (Patrick, Fowles e Krueger, 2009). Per
valutare la psicopatia la scala più comunemente usata è la Psychopathy Checklist-Revised (PCL-R; Hare,
2003). I punteggi su questa scala composta da 20 item sono basati su un'intervista e sui dati raccolti
dall'esame del casellario giudiziario e della documentazione psichiatrica.
Vi sono due differenze principali fra i criteri diagnostici per il disturbo antisociale di personalità e la
definizione di psicopatia, quale risulta dalla PCL-R. In primo luogo, benché copra molti dei criteri per il
disturbo antisociale di personalità, la PCL-R differisce dai criteri del DSM-5 in quanto include più sintomi
affettivi, come l'assenza di rimorso, l'affettività superficiale e la mancanza di empatia (Hare e Neumann,
2006). In secondo luogo, i criteri del DSM-5 differiscono dai criteri per la psicopatia rispetto al requisito che
la persona deve sviluppare i sintomi prima dei 15 anni di età.
Le interazioni fra geni e ambiente sociale
Studi importanti hanno evidenziato dati a favore del ruolo dell'ambiente sociale quale fattore chiave
nell'eziologia del disturbo antisociale di personalità.
Uno stile genitoriale caratterizzato da negatività, incoerenza e mancanza di te nerezza e affettuosità è
predittivo di comportamenti antisociali
Anche importanti studi prospettici hanno dimostrato che fattori sociali di più vasta portata, come la
povertà e l'esposizione alla violenza, sono predittivi di comportamenti antisociali.
Ad esempio, fra gli adolescenti con disturbo della condotta, quelli che sperimentano condizioni di povertà
avevano una probabilità doppia di sviluppare un disturbo antisociale di personalità, rispetto a quelli che
avevano uno status socioeconomico più alto (Lahey, Loeber, Burke et al., 2005). Vi sono ben pochi dubbi sul
fatto che condizioni avverse vissute nell'infanzia possono creare il terreno per lo sviluppo di un disturbo
antisociale di personalità.
Gli effetti delle condizioni avverse esperite nell'infanzia possono essere particolarmente negativi per
coloro che possiedono una vulnerabilità genetica al disturbo antisociale di personalità.
Numerosi studi hanno dimostrato che un polimorfismo del gene MAO-A è un fattore predittivo della
psicopatia tra i maschi che durante l'infanzia hanno avuto esperienze di abusi fisici o sessuali, o che sono
stati rifiutati dalla madre. Perciò gli effetti sullo sviluppo di un disturbo antisociale di personalità prodotti
dal crescere in un ambiente difficile possono essere amplificati da fattori genetici.
La ricerca su figli adottati ha dimostrato che è molto difficile separare le influenze genetiche,
comportamentali e familiari (Ge et al., 1996). Vale a dire che il comportamento antisociale del bambino
influenzato da una base genetica può provocare, perfino nei genitori adottivi, un inasprimento della
disciplina e mancanza di calore; e a loro volta queste caratteristiche genitoriali possono esacerbare le
tendenze antisociali del bambino. Ciononostante, i risultati di molti studi indicano che le influenze sociali -
come una rigida disciplina e la povertà - sono forti predittori del disturbo antisociale di personalità, anche
dopo avere controllato per i fattori di rischio genetici

Il rischio psicologico: insensibilità agli stimoli minacciosi e alle emozioni degli altri
Le persone con psicopatia sembrano incapaci di imparare dall'esperienza; spesso ripetono gli errori di
condotta che le hanno portate a ricevere severe punizioni, perfino all’essere rinchiuse in carcere. Queste
persone sembrano immuni all'ansia che trattiene la maggior parte di noi dall'infrangere la legge, mentire o
fare del male agli altri. Cleckley ha sostenuto che le persone con psicopatia non imparano a tenersi lontano
dai guai perché sono insensibili agli stimoli di minaccia. Numerose ricerche mettono in relazione la
psicopatia con deficit nell'esperienza soggettiva della paura e del senso di minaccia. In condizioni basali, le
persone con psicopatia hanno livelli di conduttanza cutanea inferiori alla norma; inoltre, le risposte di
conduttanza cutanea sono inferiori sia durante l'esposizione sia durante l'aspettativa di stimoli aversivi
(Lorber, 2004). Bassi livelli di conduttanza cutanea in risposta a stimoli aversivi (forti rumori) all'età di tre
anni si sono dimostrati predittivi di punteggi elevati di psicopatia all'età di 28 anni.
Il modello comportamentale si basa su questi concetti per ipotizzare che la violazione delle regole che si
osserva nella psicopatia derivi da deficit nello sviluppo delle risposte condizionate di paura.

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ


Criteri diagnostici disturbo borderline di personalità
Presenza di cinque o più dei seguenti segni di instabilità nelle relazioni e nell'immagine di sé e segni di
impulsività, con inizio nella prima età adulta e presenti in numerosi contesti diversi:
• Sforzi disperati di evitare un abbandono.
• Instabilità nelle relazioni interpersonali nelle quali gli altri sono idealizzati oppure del tutto svalutati.
• Instabile senso di sé.
• Comportamenti impulsivi autolesivi in almeno due aree, come spese insensate, abbuffate, promiscuità
sessuale, abuso di sostanze, guida spericolata.
• Ricorrenti comportamenti suicidari o comportamenti autolesivi (ad esempio, procurarsi dei tagli).
• Marcata reattività dell'umore.
• Sentimenti cronici di vuoto.
• Ricorrenti scoppi di rabbia intensa o scarsamente controllata.
• In situazioni di stress, una tendenza a esperire transitori pensieri paranoidi e sintomi dissociativi.

Le caratteristiche cruciali del di sturbo borderline di personalità sono l'impulsività e l'instabilità nelle
relazioni interpersonali e nell'umore. Ad esempio, le persone con questo disturbo possono passare in un
attimo da uno stato di beata felicità a forti esplosioni
di rabbia. Anche gli atteggiamenti e i sentimenti nei confronti degli altri possono cambiare molto in fretta.
L’intensa rabbia che caratterizza chi ha un disturbo borderline di personalità spesso ne danneggia i rapporti
con gli altri. Le persone con questo disturbo sono eccessivamente sensibili anche a minimi segnali di stati
emozionali negli altri. Il loro comporta mento imprevedibile, impulsivo e potenzialmente autolesivo, può
comprendere gioco d'azzardo, spese insensate, attività sessuale indiscriminata e abuso di sostanze. Spesso
questi individui non hanno sviluppato un senso di sé chiaro e coerente, e talvolta vivono notevoli
oscillazioni in aspetti basilari della personalità quali i valori, gli ideali e le scelte professionali.
abbigliamento da uomini d'affari per acquistare sgargianti abiti da artista, corredati da un nuovo insieme di
interessi nel campo dell'arte.
Non sopportano di stare da soli, hanno intensi timori di abbandono, esigono costantemente l'attenzione
altrui e sono soggetti a un cronico senso di depressione e di vuoto. Durante periodi di forte stress possono
manifestarsi transitori sintomi psicotici e dissociativi.
Il comportamento suicidario è molto comune nel di sturbo borderline di personalità. Molte persone con
questo disturbo compiono numerosi tentativi di suicidio nel corso della loro vita. Da uno studio di follow-up
condotto su un arco di tempo di 20 anni è emerso che si era suicidato circa il 7,5% delle persone con questo
disturbo. Inoltre, le persone con disturbo borderline di personalità sono particolarmente inclini a
comportamenti autolesivi non suicidari (cutting) come infliggersi tagli alle gambe con lamette da barba o
procurarsi bruciature sulle braccia con le sigarette; comportamenti che, pur essendo dannosi, non
costituiscono probabili cause di morte. Almeno due terzi delle persone con questo disturbo si infliggono
automutilazioni in un qualche momento della loro esistenza (Stone, 1993).

È molto probabile riscontrare comorbilità fra il di sturbo borderline di personalità e il disturbo da stress
post-traumatico, un disturbo dell'umore, un disturbo correlato all'uso di sostanze o un disturbo
dell'alimentazione (McGlashan et al., 2000). Quando sono presenti, le condizioni di comorbilità sono
indicative di una maggiore probabilità che i sintomi del disturbo borderline di personalità si manterranno
per un periodo di vari anni.

Eziologia
La teoria diatesi-stress di Linehan
Secondo Marsha Linehan il disturbo borderline di personalità si sviluppa quando un individuo che ha
difficoltà a controllare le sue emozioni a causa di una diatesi biologica (forse genetica) viene cresciuto in un
ambiente familiare che nega validità all'esperienza emozionale.
Vale a dire, una diatesi di disregolazione emozionale interagisce con esperienze di invalidazione
dell'esperienza emozionale finendo per favorire lo sviluppo del disturbo borderline di personalità. In un
ambiente familiare di questo tipo, i sentimenti non sono tenuti in considerazione e non sono rispettati,
ossia gli sforzi che un individuo fa per comunicare i suoi sentimenti vengono trascurati o perfino puniti.
I due principali fattori ipotizzati, la disregolazione emozionale e l'invalidazione, interagiscono tra loro in
modo dinamico. Ad esempio, il bambino che presenta un deficit nella capacità di regolazione emozionale
pone enormi richieste alla sua famiglia. I genitori esasperati ignorano o perfino puniscono le intense
manifesta zioni emozionali del bambino, il che porta quest'ultimo a reprimere le sue emozioni. Le emozioni
represse si accumulano fino ad arrivare all'esplosione, che allora riceve l'attenzione dei genitori. Così i
genitori finiscono per rinforzare quegli stessi comportamenti che valutano come aversivi.

DISTURBO ISTRIONICO DI PERSONALITÀ


CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO ISTRIONICO DI PERSONALITÀ
Presenza di cinque o più dei seguenti segni di emotività eccessiva e di ricerca dell'attenzione, con inizio
nella prima età adulta e presenti in numerosi contesti diversi:
• Forte bisogno di essere al centro dell'attenzione.
• Comportamento sessualmente seduttivo inappropriato.
• Espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale.
• Uso dell'aspetto fisico per attrarre l'attenzione su di sé.
• L'eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli.
- Espressione delle emozioni esagerata, teatrale.
- • Eccessivamente suggestionabile.
- Le relazioni sono interpretate erroneamente come più intime di quanto in realtà sono.
La caratteristica principale del disturbo istrionico di personalità è un comportamento estremamente
drammatico, accompagnato dalla ricerca dell'attenzione degli altri. Le persone con questo disturbo spesso
si servono dell'aspetto fisico - ad esempio, abbigliamento, trucco o colore dei ca pelli insoliti - per attirare
su di sé l'attenzione. Sebbene l'espressione delle loro emozioni sia enfatica e intensa, si ritiene che
l'emotività di queste persone sia solo superficiale.
Ad esempio, una persona con questo disturbo potrebbe coprire un'altra di lodi e chiamarla «il suo migliore
amico», per poi fare fatica il giorno dopo a ricordare la conversazione avuta con quella persona. Gli
individui con questo disturbo sono egocentrici, eccessivamente interessati al proprio aspetto fisico e alla
capacità di attrarre, e si sentono a disagio quando non sono al centro dell'attenzione.
Possono avere comportamenti sessualmente provocanti e seduttivi in modo inappropriato e sono
facilmente influenzabili dagli altri.
Il loro eloquio è spesso impressionistico e povero di dettagli. Per esempio, potrebbero affermare con forza
un'opinione e poi non essere per nulla in grado di motivarla.

IL DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITÀ


CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITÀ
Presenza di cinque o più dei seguenti segni di grandiosità, bisogno di ammirazione e mancanza di empatia,
con inizio nell'età adulta e presenti in molti contesti diversi:
• Visione grandiosa della propria importanza.
• Eccessiva attenzione al proprio successo, intelligenza, bellezza.
• Convinzione di essere speciale e di poter essere capito solo da altre persone di status elevato.
• Estremo bisogno di ammirazione.
• Forte sensazione che tutto gli sia dovuto.
• Tendenza a sfruttare gli altri.
• Mancanza di empatia.
• Invidia nei confronti degli altri.
• Comportamento o atteggiamenti arroganti
Le persone con un disturbo narcisistico di personalità hanno un'idea grandiosa di se stesse e delle proprie
qua lità, e fantasticano continuamente di futuri successi (come dimostra il caso clinico di Bob). Dire che
sono concentrate su se stesse è un eufemismo, inoltre richiedono l'attenzione quasi costante degli altri. Le
relazioni interpersonali sono disturbate dalla loro mancanza di empatia, dall'arroganza unita a sentimenti
di invidia, dall'abitudine ad ap profittarsi degli altri e dalla convinzione di godere di speciali diritti, con le
conseguenti aspettative che gli altri siano pronti a fare loro favori speciali.
Unioni e collaborazioni spesso sono messe in crisi dal loro enorme bisogno di comandare.
Tendono a cercare partner di status elevato, che prima idealizzano ed esibiscono con orgoglio, per poi
cambiarli non appena abbiano l'opportunità di stare con un partner di status più alto.
Spesso sopravvalutano fama e ricchezza, viste come mezzi per vincere l'ammirazione degli altri. Essendo
così concentrate sul conquistarsi l'ammirazione altrui, queste persone danno molta importanza al loro
aspetto
Pur se trasudano un'eccessiva fiducia in se stesse, queste persone manifestano allo stesso tempo una
vulnerabilità di fondo, che traspare nella loro invidia e nel bisogno di essere ammirate.
Come si crogiolano nei complimenti e nelle lodi, così queste persone tendono a essere iperreattive alle
critiche. Molto spesso sono vendicative e aggressive quando avvertono una competi zione come una
minaccia o quando ricevono una dura critica.

EZIOLOGIA
STILE GENITORIALE
Sono stati sviluppati diversi modelli per spiegare come lo stile genitoriale potrebbe contribuire allo sviluppo
del narcisismo. In un lavoro molto importante, Millon (1986) ipotizzò che genitori troppo indulgenti ali
mentano nei loro bambini la convinzione di essere speciali (perfino più speciali degli altri bambini), e che
le espressioni comportamentali di quel loro essere speciali saranno tollerate dagli altri.

IL MODELLO DELLA PSICOLOGIA DEL SÉ


Nei suoi due libri Narcisismo e analisi del Sé (1971) e La guarigione del Sé (1977), Heinz Kohut sviluppò una
teoria del narcisismo basata sulla psicologia del Sé, una variante della teoria psicodinamica.
Kohut parti dall'osservazione clinica che la persona con disturbo narcisistico di personalità proietta in
superficie uno spiccato senso della propria importanza, un totale assorbimento in se stessa e fantasie di
successo illimitato; ma egli teorizzò che in realtà queste caratteristiche mascherino un'autostima molto
fragile.
Le persone con disturbo narcisistico di personalità cercano di rafforzare il senso del loro valore attraverso la
perpetua ricerca di rispetto e di approvazione da parte degli altri.
L'autostima ipertrofica e la denigrazione degli altri, quindi, sono viste come difese contro sentimenti di
vergogna. Le ricerche sperimentali sostengono l'ipotesi che le persone con dia gnosi di disturbo narcisistico
di personalità provano sentimenti di vergogna più spesso delle persone senza questo disturbo.

IL MODELLO SOCIO-COGNITIVO
Il modello del disturbo narcisistico di personalità sviluppato da Carolyn Morf e Frederick Rhodewalt (2001)
è costruito attorno a due concetti di base: (1) le persone con questo disturbo hanno un'autostima fragile e
ciò è dovuto in parte al fatto che cercano di preservare la convinzione di essere indivi dui speciali; (2) per
loro le interazioni interpersonali sono finalizzate ad alimentare l'autostima piuttosto che ad acquisire
intimità o calore umano. In altri termini, le persone con questo disturbo soggiacciono completamente
all'obiettivo di mantenere una visione grandiosa di se stesse, e questa finalità pervade le loro esperienze di
vita. Come la teoria fondata sulla psicologia del sé, anche questo modello è incentrato sulla fragilità
dell'autostima della persona narcisista, ma pone maggiore enfasi sui meccanismi sociali e cognitivi
sottostanti a questa sindrome.
Secondo questa teoria, quando gli individui con disturbo narcisistico di personalità interagiscono con gli
altri, il loro scopo primario è alimentare la propria autostima. Questo obiettivo influenza sotto diversi
aspetti il loro modo di agire verso gli altri. Innanzitutto, tendono a vantarsi molto; questo spesso funziona
bene all'inizio, ma nel tempo le vanterie ripetute finiscono per essere percepite negativamente dagli altri
(Paulhus, 1998). In secondo luogo, quando qualcun altro fornisce una prestazione migliore della loro in un
compito rilevante per l'autostima, esse denigrano l'altra persona, anche apertamente. Questo quadro
rende facile capire perché le persone con disturbo narcisistico di personalità si impegnano in
comportamenti che alienano la simpatia altrui; il loro senso di sé dipende dall'essere ammirati, e non dal
conquistare o mantenere l'amicizia e l'intimità con gli altri.

Descrizione clinica ed eziologia del gruppo con comportamenti caratterizzati da ansia/paura


Il gruppo dei disturbi di personalità con comportamenti caratterizzati da ansia/paura (gruppo C) comprende
il di sturbo evitante di personalità, il disturbo dipendente di personalità e il disturbo ossessivo-compulsivo
di personalità. Le persone con questi disturbi sono inclini a provare forte preoccupazione e disagio.

IL DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITÀ


Le persone con disturbo evitante di personalità sono così timorose di essere criticate, rifiutate e
disapprovate da evitare occasioni di lavoro o di relazioni interpersonali per proteggersi contro il feedback
negativo. Nelle situazioni sociali esse sono inibite e intimidite da un'estrema paura di dire qualche
sciocchezza, di trovarsi in grave imbarazzo, di arrossire o di mostrare altri segni di ansia. Si ritengono
incompetenti e inferiori agli altri e sono riluttanti a correre rischi o a provare qualche nuova attività.
Nonostante il loro grande desiderio di stringere relazioni intime, spesso
sono impedite dal farlo dalle loro paure.
Il disturbo evitante di personalità spesso si manifesta in concomitanza con il disturbo d'ansia sociale
probabilmente perché i criteri diagnostici di que sti due disturbi sono molto simili. Sembra che vi sia
sovrapposizione tra la vulnerabilità gene tica al disturbo evitante di personalità e quella al disturbo d'ansia
sociale. Alcuni ricercatori hanno sostenuto che il disturbo evitante di personalità possa essere una va riante
con sintomi cronici del disturbo d'ansia sociale.

CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITÀ


Una modalità pervasiva di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità alle critiche come
evidenziato dalla presenza, in molti contesti, di quattro o più dei seguenti elementi a partire dalla prima età
adulta.
• Evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale per timore di essere
criticato o disapprovato.
• È riluttante nell'entrare in relazione con altre persone, a meno che non sia certo di piacere.
• È inibito nelle relazioni intime per il timore di essere umiliato o ridicolizzato. Si preoccupa di essere
criticato o rifiutato.
• È inibito in situazioni interpersonali nuove a causa di sentimenti di inadeguatezza.
• Si vede come socialmente inetto o inferiore agli altri.
• È estremamente riluttante a tentare nuove attività, poiché questo può rivelarsi imbarazzante.

IL DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITÀ


La caratteristica fondamentale del disturbo dipendente di personalità è un eccessivo affidarsi agli altri. Le
persone con questo disturbo provano un intenso bisogno che qualcuno si prenda cura di loro, cosa che le
porta spesso a vivere male lo stare da sole. Queste persone subordinano i propri bisogni al non esporre ad
alcun rischio le relazioni protettive che hanno stabilito. Quando una relazione intima finisce, queste
persone ne cercano con urgenza un'altra che la sostituisca. Esse si vedono deboli e si rivolgono agli altri per
ottenere sostegno e delegare a loro la responsabilità delle decisioni. Il caso clinico di Matthew è un
esempio di disturbo dipendente di personalità. Le persone con questo disturbo temono in modo particolare
di restare sole.
I criteri diagnostici del DSM descrivono le persone con questo disturbo come molto passive (ad esempio,
hanno difficoltà ad avviare progetti o a fare le cose autonoma mente, e delegano agli altri la responsabilità
di prendere decisioni per loro). Tuttavia le ricerche indicano che le persone con questo disturbo sono in
realtà in grado di fare ciò che è necessario per mantenere in essere una relazione intima, il che può voler
dire essere molto sottomessi e passivi, ma può anche voler dire prendere l'iniziativa di fare i passi necessari
per preservare la relazione.
Le persone con disturbo dipendente di personalità hanno molte probabilità di sviluppare depressione in
seguito alla perdita di una persona, quando sono depresse, queste persone mostrano comportamenti
suicidari con maggior frequenza degli altri depressi.
Inoltre sono a rischio elevato di sviluppare un disturbo d'ansia e la bulimia.
Oltre alle influenze dovute alla vulnerabilità genetica e alle avversità vissute in età infantile di cui abbiamo
parlato in precedenza, gli studiosi sostengono che genitori iper protettivi possano rinforzare la dipendenza
dei bambini, mentre uno stile di disciplina autoritario può limitare le opportunità dei bambini di sviluppare
sentimenti di autoefficacia (Bornstein, 1992). I risultati di parecchi studi vanno a sostegno dell'ipotesi che i
tratti della personalità dipendente siano correlati a uno stile genitoriale iperprotettivo e autoritario

CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITÀ


Il disturbo è caratterizzato da un bisogno eccessivo di essere accuditi, come dimostra la presenza di almeno
cinque dei seguenti elementi, con inizio nella prima età adulta e presenti in numerosi contesti diversi:
• Difficoltà a prendere decisioni senza un eccessivo ricorso al consiglio e alla rassicurazione degli altri.
• Bisogno che altri si assumano la responsabilità per la maggior parte dei settori più importanti
dell'esistenza.
• Difficoltà a essere in disaccordo con gli altri per paura di perdere il loro supporto.
• Difficoltà a fare le cose autonomamente, o ad avviare progetti, per mancanza di fiducia in sé.
• Fare cose che non piacciono come mezzo per ottenere l'approvazione e il sostegno degli altri.
• Sentimenti di impotenza una volta soli, per la paura di essere incapaci di prendersi cura di sé.
• Cercare con urgenza una nuova relazione intima, quando ne finisce un'altra.
• Forte paura di dover badare a se stessi e prendersi cura di sé.

IL DISTURBO *OSSESSIVO-COMPULSIVO DI PERSONALITÀ


La persona con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è un perfezionista preoccupato dei minimi
dettagli e di osservare scrupolosamente regole, orari e via dicendo. Sebbene l'ordine e il perfezionismo
siano adattivi sotto certi aspetti, soprattutto facilitando il successo in compiti lavorativi complessi, le
persone con questo disturbo spesso prestano tanta attenzione ai particolari da non riuscire mai a portare a
termine un progetto (come dimostra il caso cli nico di Sarah). Si tratta di persone orientate più verso le
attività lavorative che verso quelle di svago, le quali hanno enormi difficoltà a prendere decisioni (per
timore di sba gliare) e a organizzare il proprio tempo (per timore di concentrarsi sulla cosa sbagliata).
Spesso le loro relazioni interpersonali sono scadenti, perché esigono che tutto venga fatto nel modo giusto,
ossia il loro. In genere sono seri, rigidi, formali e inflessibili, soprattutto su argomenti di natura morale. Non
riescono a disfarsi di oggetti ormai consunti e inutili, anche quando sono privi di qualunque valore affettivo;
spesso sono eccessivamente frugali, a un livello che preoccupa chi li circonda.
Il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è nettamente distinto dal disturbo ossessivo-compulsivo,
mal grado la somiglianza delle denominazioni.
Il primo non è caratterizzato dalle ossessioni e dalle compulsioni che invece contraddistinguono il
secondo. Nondimeno, le due condizioni sono spesso concomitanti e sembra esistere una certa
sovrapposizione tra i loro quadri di vulnerabilità genetica.

CRITERI DIAGNOSTICI DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO DI PERSONALITÀ


Bisogno intenso di ordine e controllo, come dimostra la presenza di almeno quattro dei seguenti elementi,
con inizio nella prima età adulta e presenti in molti contesti diversi:
Esagerata attenzione per le regole, i dettagli e l'organizzazione, spinta fino al punto di perdere lo scopo
principale dell'attività.
• Estremo perfezionismo che interferisce con il completamento dei compiti.
• Eccessiva dedizione al lavoro, fino all'esclusione delle attività di svago e delle amicizie.
• Inflessibilità in tema di moralità e valori.
• Difficoltà a gettare via oggetti privi di utilità e di valore.
• Riluttanza a delegare, a meno che gli altri non si conformino ai suoi standard.
• Avarizia.
• Rigidità e testardaggine.

IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ.


È importante tenere presente che molte persone affette da disturbi di personalità si sottopongono ad una
terapia per un problema diverso dal loro disturbo di personalità (un individuo con disturbo antisociale di
personalità può richiedere un trattamento per problemi di abuso di sostanze).

Approcci generali al trattamento dei disturbi di personalità


La psicoterapia è considerata il trattamento di elezione per i disturbi di personalità. In una meta-analisi è
emerso che la psicoterapia porta effetti piccoli ma positivi, in confronto al trattamento convenzionale,
Spesso alla psicoterapia viene abbinata anche la farmacoterapia. Per esempio, si usano gli antidepressivi
per placare alcuni dei sintomi depressivi o impulsivi che accompagnano i disturbi di personalità.
Le persone che presentano gravi sintomi riferibili a disturbi di personalità possono seguire sedute
terapeutiche settimanali, oppure un programma che rende disponibile un trattamento psicoterapeutico per
diverse ore al giorno, sotto forma sia di terapia di gruppo sia di terapia individuale.

I terapeuti psicodinamici hanno l’obiettivo di modificare il modo in cui il paziente considererei problemi
infantili che si presume siano alla base del disturbo di personalità. Ad esempio, nel caso di un uomo con
disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, essi potrebbero guidarli a comprendere che non è necessario
trasferire nella vita adulta gli strenui tentativi di essere perfetto compiuti nell’infanzia per guadagnarsi
l’amore dei genitori.
Gli studi sui trattamenti di tipo psicodinamico spesso comprendono un’ampia gamma di differenti disturbi
di personalità.

Nella terapia cognitiva dei disturbi di personalità, viene applicato lo stesso tipo di analisi indicato nel
trattamento della depressione (Beck).
Ogni disturbo viene analizzato in termini di convinzioni negative che possono contribuire a spiegare la
sintomatologia complessiva. Ad esempio, intervenire attraverso una terapia con vista su un perfezionista
con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità vuol dire innanzitutto convincere questa persona ad
accettare l’essenza stessa del modello cognitivista, e cioè che sentimenti e comportamenti sono in primo
luogo una conseguenza di ciò che pensiamo. Quindi si compiono analisi approfondita delle distorsioni
presenti nel modo di pensare di tali pazienti, ad esempio la convinzione di non poter fare assolutamente
nulla di buono solo perché si è fallito in una particolare attività il terapeuta. Inoltre ricerca gli assunti o gli
schemi disadattativi che potrebbero essere alla base del modo di pensare di sentire dell’individuo, come
l’attribuire un’importanza cruciale al fatto che ogni sua decisione sia corretta. Oltre a mettere in
discussione i pensieri, questo approccio ai disturbi di personalità incorpora tutta una gamma di altre
tecniche cognitivo-comportamentali.

I tratti che caratterizzano i disturbi di personalità sono probabilmente troppo radicati per cambiare
completamente. Di conseguenza il terapeuta, indipendentemente dal suo orientamento teorico, potrebbe
trovare più realistico modificare il disturbo trasformandolo in uno stile o comunque in un modo più
adattativo di affrontare l’esistenza.
TRATTAMENTO DEL DISTURBO SCHIZOTIPICO DI PERSONALITÀ E DEL DISTURBO EVITANTE DI
PERSONALITÀ
I trattamenti per il disturbo schizotipico di personalità si basano sulla relazione esistente tra questo
disturbo e la schizofrenia. Più specificamente, i farmaci antipsicotici (ad esempio il risperidone, nome
commerciale Risperdal) si è dimostrato efficace nel trattare il disturbo schizotipico di personalità (Raine,
2006). Questi farmaci sembrano particolarmente utili nel ridurre i pensieri bizzarri. Sono disponibili poche
ricerche sugli approcci psicologici al trattamento di questo disturbo.

Il disturbo evitante di personalità sembra rispondere bene agli stessi trattamenti risultati efficaci per il
disturbo d'ansia sociale. Vale a dire che possono essere efficaci sia i farmaci antidepressivi sia il
trattamento cognitivo-comportamentale (Reich, 2000).
La terapia cognitivo-comportamentale può essere applicata per aiutare una persona a mettere in
discussione le proprie convinzioni negative riguardo alle interazioni sociali, insegnandole strategie
comportamentali che le consentono di gestire situazioni sociali difficili e sottoponendola a trattamenti
basati sull'esposizione, in cui la persona gradualmente si esercita a partecipare alle situazioni sociali di cui
ha paura.

TRATTAMENTO DEL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

Qualunque sia la modalità di intervento utilizzata, poche condizioni sono più difficili da trattare del disturbo
borderline di personalità; infatti le difficoltà che queste persone manifestano nei rapporti interpersonali si
ripropongono anche nello studio del terapeuta.

Poiché queste persone trovano straordinariamente difficile fidarsi degli altri, i terapeuti trovano
straordinariamente difficile sviluppare e mantenere la relazione terapeutica. Il cliente alternativamente
idealizza e denigra il terapeuta, un momento esigendo particolare attenzione e considerazione - come
sedute di terapia in orari impossibili e innumerevoli telefonate nei periodi di particolare crisi e il momento
successivo rifiutandosi di rispettare gli appuntamenti; implorando comprensione e sostegno, ma insistendo
nell'asserire che certi argomenti sono fuori discussione.

Il suicidio è sempre un rischio serio, ma è spesso difficile per il terapeuta valutare se una telefonata
disperata alle due del mattino sia una richiesta d'aiuto o un gesto manipolatorio inteso a verificare quanto
sia speciale il cliente per il terapeuta e fino a che punto questi sia disposto ad arrivare per soddisfare i suoi
bisogni. il ricovero in ospedale è spesso necessario per proteggere la persona dal rischio di suicidio. Trattare
questo tipo di cliente è così stressante che molti terapeuti si consultano regolarmente con un collega per
riceverne consigli e sostegno su come affrontare le emozioni susci- tate in loro dalle straordinarie difficoltà
che il tentativo di aiutare un cliente borderline comporta.

La terapia dialettico-comportamentale, sviluppata da Marsha Linehan (1987), combina l'empatia e


l'accettazione propri dell'approccio centrato sul cliente con il problem-solving dell'approccio cognitivo-
comporta mentale, l'addestramento alle abilità sociali e le tecniche di regolazione emozionale. Il concetto
di dialettica deriva dall'opera del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Tale
concetto si riferisce alla costante tensione tra qualunque fenomeno (qualunque idea, evento ecc., chiamato
tesi) e il suo opposto (antitesi), tensione che viene risolta dalla creazione di un nuovo fenomeno (sin Nella
terapia dialettico-comportamentale il termine dialettica viene usato principalmente in due significati.

- Da una parte, esso si riferisce alle strategie apparentemente opposte che il terapeuta deve usare
quando tratta i clienti con disturbo borderline di personalità: accettarli per quello che sono e tuttavia
aiutarli a cambiare.
- Dall'altra parte, esso si riferisce alla comprensione da parte del cliente che non è necessario scindere il
mondo in buono e cattivo; al contrario, è possibile raggiungere una sintesi di questi apparenti opposti.
Ad esempio, anziché vedere un amico come tutto cattivo (tesi) o tutto buono (antitesi), lo si può vedere
come dotato di entrambi i tipi di qualità (sintesi).

Di conseguenza, nella terapia dialettico-comportamentale sia il terapeuta sia il cliente sono incoraggiati ad
adottare una visione dialettica del mondo.

L'elemento cognitivo-comportamentale della terapia dialettico-comportamentale, condotta sia


individualmente sia in gruppo, si esplica in quattro fasi.

1. Nella prima l'attenzione è focalizzata sui comportamenti pericolosamente impulsivi, come quelli
suicidari, allo scopo di favorire un maggiore controllo. Il terapeuta insegna al cliente a individuare gli
stimoli che innescano questi comportamenti e ad applicare strategie di coping quando tali stimoli siano
presenti.
2. Nella seconda fase, il cliente apprende a modulare manifestazioni estreme di emozionalità. In questa
fase spesso si cerca di far apprendere all'individuo a tollerare il malessere emozionale; inoltre si insegna
ai clienti a essere più consapevoli delle proprie emozioni senza giudicarle, e a evitare di precipitarsi in
azioni impulsive.
3. La terza fase è dedicata a migliorare le capacità di relazione interperşonale e l'autostima.
4. La quarta fase è volta a promuovere sia il senso di vicinanza agli altri sia il senso di felicità individuale.

In tutto questo percorso, il cliente acquisisce modalità più efficaci e socialmente accettabili per affrontare i
problemi quotidiani. Fondamentalmente, la terapia dialettico-comportamentale prevede una combinazione
di interventi cognitivo-comportamentali e interventi finalizzati a fornire al cliente validazione e
accettazione.

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