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COME SI AMMALA LA MENTE

1. MENTE E MALATTIA

Ma la mente si ammala?

Si intende concentrarsi sui disturbi delle relazioni interpersonali, che non si accompagnano necessariamente alle più
gravi manifestazioni psichiatriche e che neppure diventano dei compiuti disturbi della personalità. Si intende proporre
una visione dell' “ammalarsi della mente” da intendersi come rigidità di una grande parte del funzionamento mentale
quotidiano che allontana una persona da se stessa e dal suo esserci autenticamente nelle relazioni interpersonali. Tale
“inflessibilità” ha a che fare con molteplici modalità di pensare che però hanno tutte in comune delle pregiudiziali
interpretazioni delle esperienze. Alcuni dei modi che la rigidità della mente può assumere sono, per esempio, quelli che
hanno abituato una persona a credere che l'infelicità sia un destino e che le relazioni con gli altri non possono che essere
insoddisfacenti, infelici o umilianti; impediscono di immaginare che si possa cambiare qualcosa nella vita; fanno
inesorabilmente fallire ogni nuova relazione sentimentale; non consentono ad una persona di avere un'adeguata stima di
sé; fanno sentire di essere sempre in difetto; convincono di dover fornire in ogni occasione livelli di prestazione quanto
più elevati; inibiscono la spontaneità; impediscono di vivere il momento presente. La mente che pensa non è certo di per
sé una nemica, ma quando si trova per necessità di sopravvivenza a prevaricare le sue stesse capacità emotive e
percettive, quando diviene una mente ansiosa e dunque ipervigilante, allora la persona diviene orientata verso l'esterno e
tenderà soprattutto a osservare le azioni dell'altro e a reagire di conseguenza. Questo comporta una tendenza alla non
autenticità rispetto alla spontanea modalità di essere, proprio per l'esigenza di non perdere il controllo sulla relazione
con l'altro e al contempo di progredire sulla strada di mantenere il sé quanto più integrato. Come sosteneva Winnicott, la
condizione opposta alla integrazione non è la dis-integrazione ma la non-integrazione, intesa come una condizione
psicologica in cui il sé non rinuncia alla propria soggettività ma l'approfondisce senza assumere come centro dei propri
interessi il comportamento e l'approvazione dell'altro. Si delinea una dicotomia winnicottiana di grande valore euristico,
quella tra “esistere” (insediati nella propria autenticità mentale e corporea) oppure “reagire” (assunzione di una postura
mentale orientata al monitoraggio dell'altro). Le malattie della mente delle quali ci si propone di comprendere l'origine
sono esclusivamente quelle che si mostrano nel modo in cui ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri. L'area
tematica che si è scelto di trattare attraversa pertanto sia quella del campo dei disturbi psichiatrici raccolti nell'asse I del
DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) sia quella caratterizzata nosograficamente dal termine
“disturbi della personalità” raccolti nell'asse II dello stesso manuale. Porre queste distinzioni nasce da differenti motivi:
− tutti i sintomi derivano da specifici atteggiamenti dell'Io, intendendo sottolineare la fallacia di distinguere in
maniera netta tra una patologia caratterizzata da sintomi e una da relazioni disfunzionali. Il complesso e
imprevedibile intreccio dei fattori biologici, psicologici e sociali conduce, attraverso sequenze psicopatogene
molto diverse, a medesimi disturbi psichiatrici o eventi in apparenza simili, se non uguali, possono determinare
esiti assai differenti, di cui solo taluni francamente psicologici. Sintomi psichici possono, o meno, essere
associati con i disturbi delle relazioni, come li si sta considerando;
− il prendere in considerazione un'area più ampia dei disturbi della personalità è conseguente alla considerazione
che entro questa categoria diagnostica non riesce a trovare posto quella diffusa sofferenza che caratterizza
invece persone che hanno una serie di “difficoltà relazionali” pur non avendo quelle specifiche modalità di
esperienza interiore e di comportamento esteriore tipiche dei “disturbi della personalità” propriamente detti,
caratterizzati da disagio clinicamente palese, da compromissione molto spiccata del funzionamento della
persona, in ogni suo contesto, conseguendone così delle deviazioni marcate rispetto alle aspettative della
società e della cultura;
− le malattie della mente che qui si considerano, anche quando non arrivano a determinare dei veri e propri
“disturbi della personalità” possono però condurre a “disturbi delle relazioni” cioè a far sì che le persone che
ne risultano affette stabiliscano delle modalità interpersonali che appaiono funzionare così che le loro vite
possono sembrare sufficientemente integrate (tutta la vita di queste persone è un sintomo).
Al centro di questa analisi vi sono dunque i multiformi disturbi delle relazioni tra persone, persone che, al di là delle
svariate differenze, possiedono però un elemento comune: una malattia della mente, una mente che tende a privilegiare
la percezione delle “esperienze della continuità rispetto alle “esperienze della discontinuità”, che tende a “pensare”
piuttosto che a “provare”, che tende a restare ancorata al “passato” delle precedenti esperienze o a proiettarsi nel
“futuro” desiderato (o temuto) piuttosto che a rimanere nel “presente” percettivo. Le malattie della mente sono anche
quelle in cui la nostra mente ci impedisce di prendere in considerazione che posiamo contribuire significativamente al
benessere come al malessere del nostro corpo e della nostra mente. Abitualmente si pensa che siano gli altri quelli che
non vanno bene, è tipico della follia che il folle sia l'altro e quindi una delle prime operazioni di buon senso che
conviene compiere quando ci si inoltra in questo perturbante territorio è quella di cominciare a guardare se stessi e alle
proprie relazioni, e questo non alla ricerca di cosa va male nell'altro e neppure di cosa va male in sé ma con l'obiettivo
di capire cosa non funziona tra me e l'altro. Il che deve avere poi come successiva conseguenza il capire e il modificare
cosa non va in me, poiché ancora una volta ogni focalizzazione sull'altro è, ai fini della relazione, o del tutto inutile o

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francamente nociva. In termini psicologici e fuori da relazioni con altri marcatamente disturbati, se c'è qualcuno da
cambiare non è l'altro: siamo noi. Iniziando chiedendoci cosa la mente ci illumina e cosa ci oscura, impegnandoci a
comprendere la radicale differenza tra quel che si può trasformare e va dunque trasformato e quel che invece non si può
davvero cambiare e va dunque tollerato. Le malattie della mente derivano dalla trasformazione in senso rigido e
pervasivo della fisiologica e adattiva tendenza del funzionamento mentale verso la costruzione di schemi, cognitivi e
affettivi. Tali schemi mentali possono avere una consistenza sottile (indispensabile per funzionare secondo una buona
partecipazione esperenziale) o acquisirne una più spessa fino ad accrescersi verso dimensioni sempre maggiori in cui gli
schemi risultano essere così stabili e ubiquitari da presentarsi in ogni settore della vita di una persona limitandone in
modo marcato (fino alla psicopatologia dei disturbi della personalità) le possibilità relazionali. Le malattie della mente
sono quelle che la fanno identificare con le emozioni distruttive che la attraversano, che la rendono rigida impedendole
di pulsare come il cuore, di espandersi e contrarsi come il diaframma durante il respiro, di fluttuare percettiva e senza
giudizi. Le malattie della mente sono quelle che non ci fanno giocare con la realtà, poiché non possiamo più vederla
direttamente, ma solo sbirciarla attraverso le lenti deformanti di “schemi”, memorie di relazioni che rappresentano
pregiudiziali modalità di sentire, di pensare, di valutare le esperienze e quindi di relazionarci con noi stessi e con gli
altri. Le malattie della mente sono quelle che ci conducono a relazioni disturbate.

La memoria delle relazioni e gli schemi mentali.

Gerald Edelman ha avanzato l'ipotesi che le strutture neurologiche e le funzioni psicologiche si sviluppino non come
conseguenza di istruzioni o di prescrizioni ma i seguito a processi di selezione naturale di tipo evolutivo ed
esperenziale. Questa è la teoria del darwinismo neuronale, che si determina in conseguenza del determinato valore in
termini di sostegno alla sopravvivenza che un bambino assegna ad una certa esperienza. Le differenze di “valore”
servono a discriminare fra le esperienze e quindi a orientare l'organismo verso la sopravvivenza mediante
l'organizzazione di valori in categorie. Dunque, fin dagli inizi della vita, un essere umano è specificatamente orientato a
stabilire in modo attendibile i significati delle diverse esperienze che attraversa. Noi impariamo ad essere motivati dal
processo di attribuzione di significato in quanto questo rappresenta un grosso vantaggio ai fini della sopravvivenza. Tali
attribuzioni e riattribuzioni di senso (ricategorizzazioni delle esperienze) sono intrinseche ad ogni percezione ed ad ogni
azione. Lo stabilirsi di schemi mentali può quindi essere interpretato come una strategia di sopravvivenza per
compiacere l'altro (il genitore) dal quale originariamente dipendiamo e con il quale dobbiamo creare un legame di
attaccamento in funzione della nostra primaria esigenza di sopravvivere. La memoria delle relazioni, sotto forma di
schemi mentali, può essere rintracciata sia nei comparti espliciti sia in quelli impliciti delle strutture mentali deputate
alla conservazione dei ricordi. Vi è ormai sempre maggiore evidenza che sono le componenti procedurali implicite
quelle chiamate centralmente in causa a proposito della responsabilità di sostenere i funzionamenti mentali maladattivi e
psicopatologici. Loewald ha sostenuto che quel che si interiorizza non sono gli “oggetti” ma “le relazioni con gli
oggetti” cioè le regole del funzionamento relazionale e ha sviluppato modelli originali per dar conto del fenomeno sia
fisiologico sia patologico del mantenimento in età adulta di stili relazionali originati nelle esperienze interpersonali
infantili. Tali esperienze di micro sequenze interattive si costituiscono come le memorie delle relazioni e quindi
diventano informazioni a partire dalle quali gli eventi del passato possono influenzare quelli del futuro: nel cervello non
esiste un deposito in cui le informazioni vengono riposte e ritrovate in caso di necessità, ma l'immagazzinamento delle
memorie consiste in una variazione nelle probabilità di successiva attivazione di un particolare pattern di eccitazione
neuronale. Passando dalla dimensione cerebrale alla dimensione mentale, la psicoanalisi e le moderne scienze cognitive
dello sviluppo concordano nel ritenere che i bambini organizzano e danno forma alle micro sequenze interattive in
rappresentazioni mentali, altrimenti disponibili come schemi affettivi e cognitivi di sé e degli altri e che questi schemi
regolano un ampio spettro di successivi comportamenti. Se nelle esperienze di sviluppo sufficientemente buone tali
rappresentazioni mentali possono essere veridiche organizzazioni della realtà degli schemi intersoggettivi pregressi,
nelle esperienze di sviluppo patologico tali rappresentazioni possono presentare i caratteri di varie distorsioni
patologiche della realtà di sé e dell'altro. Tali rappresentazioni derivano da esperienze del passato di cui costituiscono
una memoria vivente, guidando il soggetto a una certa aspettativa circa lo svolgimento dei successivi processi
relazionali. Noi no abbiamo la sensazione di stare ricordando qualcosa , ma andiamo semplicemente incontro a stati
della mente che percepiamo come parte della nostra realtà presente. Tali stati mentali, influendo su percezioni,
emozioni, convinzioni e comportamenti, tendono a diventare dei modelli mentali, più o meno rigidi o all'opposto
flessibili, attraverso cui un individuo filtrerà le proprie relazioni interpersonali. A proposito di questi fenomeni John
Bowlby ha introdotto il termine concettuale di “modello operativo interno” (IWM), costituito dalle principali
caratteristiche che un individuo attribuisce al mondo (all'altro e a se stesso in quanto “agente nel mondo esterno”).
Concrete esperienze relazionali originarie conducono ogni individuo a sviluppare interiormente uno o più di tali modelli
operativi dell'altro e di sé che determinano le sue aspettative e le sue previsioni e gli forniscono strumenti per costruire
piani di azione. Il concetto di modello operativo comprende elementi attualmente concepiti in termini di immagine del
sé, autostima … Tale modello operativo interno fornisce le linee guida essenziali per il pensare, il sentire, l'agire e il
reagire del soggetto nel mondo, verso gli altri e verso se stesso. Il modello operativo è una sorta di manuale di istruzioni
interpersonali del vivere sociale, far previsioni, programmare. Oltre a Bowlby, altri autori hanno proposto altri

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“modelli” inerenti al fatto che le memorie delle relazioni prendono le forme di regole procedurali, mediante le quali si
determinano aspettative circa il comportamento proprio e altrui, orientando in tal modo la dinamica degli incontri
interpersonali. A ogni livello di rigidità dello schema mentale corrisponde una sempre minore possibilità di fruizione
esperenziale e una sempre maggiore stereotipia relazionale: l'area dei “disturbi delle relazioni” si estende alle forme più
elementari, i disturbi della regolazione delle relazioni, fino alle cristallizzazioni più consistenti, quelle che danno forma
ai veri e propri “disturbi della personalità”, caratterizzati da modalità rigide e pervasive di disadattamento in tutte le
relazioni private e pubbliche di un individuo. E' sempre più diffuso il riscontro di un particolare tipo di disagio
psicologico manifestato da persone per le quali le relazioni interpersonali sono causa ed effetto di grave disagio, con
compromissione di aree importanti di funzionamento affettivo, lavorativo e sociale, tuttavia la definizione del loro
malessere non è facilmente riconducibile a precise categorie diagnostiche. Sono persone che arrivano alla terapia non
per una singola crisi esistenziale ma perchè soffrono da sempre a causa di modi di relazionarsi non soddisfacenti, in
particolare per quanto riguarda la possibilità di costruire legami veramente autentici e intimi. Questo è probabilmente
dovuto al fatto che la particolare qualità delle esperienze originarie tra l'individuo e chi si è preso cura di lui, ha indotto
l'individuo stesso a nascondere la propria autenticità, il proprio “sé essenziale”, conducendolo a distorcere o a celare le
proprie emozioni, percezioni, stati affettivi in funzione della loro accettabilità da parte dell'altro, dunque a mettere di
fatto la propria esistenza in una lifetrap (schemi maladattivi – modello operativo di Young) costituita da modalità di
pensare, di sentire, di agire e di avere relazioni che svuotando una persona della propria vitalità la rendono estranea a se
stessa. Le lifetrap sono “schemi patologici” che veicolano specifiche memorie di esperienze relazionali disfunzionali e
che ingabbiano la vitalità delle persone. I temi delle varie trappole vengono ripetutamente rielaborati e rinforzati
attraverso tutto il corso della vita, tendendo così a differenziarle in modo caratteristico, pur rimanendo aree di
sovrapposizione. Questo “danneggiamento” del senso di sé e delle relazioni con gli altri, fa sì che la limitazione della
piena percezione, a cui taluni schemi conducono, sia assimilabile a una sorta di malattia della mente. L'accostare il
termine “malattia” a quello di “mente” avviene all'interno di una impostazione che guarda alle manifestazioni
psicopatologiche che “veri e propri disturbi di un intero sistema e non mere conseguenze della perdita di una singola
funzione”. Questo significa includere la mente in un sistema mente/corpo considerando inscindibile l'insieme
psicofisico di una persona, caratterizzata da una propria attività autonoma, primaria, immanente e spontanea.
L'organismo non è passivo, ma è un sistema intrinsecamente attivo, anche senza l'intervento di stimoli esterni e lo
stimolo non causa un processo in un sistema altrimenti inerte, bensì modifica dei processi in un sistema dotato di attività
autonoma. Secondo tale impostazione si può parlare di malattia quando la spontaneità è disturbata, intendendo tutte
quelle situazioni relazionali in cui una persona diventa sempre più un automa e il suo comportamento risulta dettato da
una tendenza del tipo “stimolo-risposta” piuttosto che da una negoziazione interattiva tra sé e l'altro.

La psicopatologia

La psicopatologia è materia di studio che comprende una parte statica (si rivolge alla descrizione e alla classificazione
delle forme del disagio psichico) e una dinamica (si orienta a comprenderne le cause). All'interno del territorio della
psicopatologia si intende prendere in esame i disagi delle relazioni tra le persone riconducendone le possibili origini a
disagi della mente e questi a pregressi disagi tra persone. La ricerca di questo tipo di connessioni avviene all'interno
della generale cornice teorica di riferimento fornita dalla cultura psicoanalitica che ha mostrato di possedere delle
capacità di evoluzione determinanti per garantirne la sopravvivenza, a patto di saper stabilire alleanze con le altre
culture emergenti del campo psicologico. Anche la psicologia genericamente definibile come “orientale” rappresenta un
sapere che non può essere escluso da una disponibilità all'integrazione nel progetto di costruire una scienza della mente.
La convenienza di individuare le relazioni interpersonali come luogo di origine dei disagi mentali e anche come luogo
dove i disagi, da lì nati, si manifestano dopo aver fatto ammalare la mente di una persona, nasce da diverse convinzioni:
a) che la mente sia intrinsecamente relazionale (e corporea) e quindi le interazioni tra le persone costituiscano la via
regia per la comprensione delle malattie della mente (ed anche di quelle del corpo);
b) che i disturbi delle relazioni, riguardanti quella infelicità diffusa che intrappola la vitalità delle persone e le conduce
a triturare le loro esistenze in un dolore silenzioso o in comportamenti di autocura più o meno efficaci, siano
enormemente più diffusi dei disagi conclamati e classificati nei manuali;
c) che i disturbi delle relazioni precedono e sottendono tutte le successive manifestazioni patologiche e tutti i successivi
sintomi che il disagio psicologico può assumere;
d) che questa attenzione alle relazioni possa, forse, far superare molti dei limiti ancora presenti nelle diverse teorie circa
la genesi dei disagi mentali, in quanto le osservazioni sulle persone con malattie della mente sono ancora per lo più
condotte secondo classificazioni e ipotesi eziopatogenetiche che risentono marcatamente di un'impostazione di stampo
individualistico e non relazionale.

Psiche in bianco e nero …

Un articolo (Hyler, Gabbard, Schnider) pubblicato su una rivista del settore, nel 1991, ha analizzato i rischi che possono
verificarsi di una determinata rappresentazione filmica delle persone affette da malattie mentali. Lo scopo dello scritto è

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focalizzare l'attenzione sulle immagini di tali pazienti nei film e sottolineare le marcate influenze di tale modalità nel
contribuire a una distorta e stigmatizzante percezione delle persone sofferenti di disagio psichico. Gli autori invitano a
osservare come tali persone sono state raffigurate al cinema e individuano alcune precise categorie di personaggi in cui
vengono incluse le persone malate (es. personalità ribelli; pazzi omicidi; seduttrici ninfomani; spiriti eccelsi ma
incompresi; parassiti narcisistici; film esempio: Psycho; Qualcuno volò sul nido del cuculo). Tale modalità di
raffigurazione è stereotipata, falsificante e danneggia la comprensione di persone che, anzi, vengono ad essere
stigmatizzate proprio a partire dal loro malessere. Risulta necessario comprendere come spesso il pregiudizio vigente
ancor oggi sulla malattia mentale sia stato mediato, ravvisato e mantenuto a mo' di vera fissazione , proprio dal cinema
che, insistendo in maniera abnorme su determinate manifestazioni di squilibrio mentale ha percorso un itinerario ancor
oggi contrario a quelle riflessioni e proposte operative che hanno visto la luce nella legge 180. Il cinema porta avanti
con incredibile solerzia lo stereotipo del malato mentale come eccesso, come esasperazione dell'abnorme e quel che
sconvolge è l'assoluta mancanza di realismo nel connotare i personaggi pazzi. Psycho viene assunto come l'esemplare
paradigma di una fuorviante associazione tra follia e violenza e quindi responsabile di una disinformazione sociale di
grave danno al problema delle persone sofferenti psichicamente. Questo film perpetua il mito che la schizofrenia
significa scissione della personalità in diverse parti, una delle quali può rappresentare una violenta, pericolosa minaccia
per la società. Contro le argomentazioni sostenute in questo articolo si è espresso in seguito William P. Jackson,
sostenendo che gli stereotipi non sono che una delle svariate modalità di esprimere le nostre esperienze umane,
comprese le nostre paure più naturali. Ci si può dunque chiedere se parzialità o pregiudizi verso la follia siano
creati/inventati dal cinema o se invece questo si incarica piuttosto di mostrare quanto di pregiudizialmente stereotipato
esiste nel nostro mondo interno circa la paura delle nostre parti “folli”. Allora tale problema si viene ad aggiungere a
quello di una falsa o cattiva rappresentazione del dolore mentale. Il film sarebbe dunque da intendere come una sorta di
viaggio dentro l'anormale, a partire dal normale, e in tal senso proporrebbe di pensare il sano e l'insano come una
continuità (che non vuol dire negare la differenza che c'è ma pensarla differentemente). Il problema di una sensibile e
corretta rappresentazione della anormalità e della sofferenza psichica non si esaurisce nella complessità dei rapporti
intercorrenti tra il sano e l'insano né nella loro pericolosità (una insufficiente conoscenza dei nostri fantasmi interni può
condurre a spiacevoli frequentazioni). Se dunque anche Hitchcock non è stato esente da critiche circa la questione della
rappresentabilità cinematografica delle forme del disagio, per chi pensa poi di rappresentare la genesi di quelle forme le
difficoltà sono ancora maggiori. Un'altra modalità di rappresentazione che alcuni film propongono è di tipo opposto,
cioè tralasciando di dare una immagine realistica a eventi patogenetici li lasciano intendere in modi altamente suggestivi
(es. La Luna; Bertolucci). Oltre a ipotesi psicologiche di tipo macro, le rappresentazioni filmiche dei disagi sembrano
privilegiare ipotesi di matrice sociale (es. Fame tossica). Il problema è che sequenze di micro esperienze anche
apparentemente non significative possono condurre allo stabilirsi di pattern radicalmente differenti circa il bilancio tra
fiducia e sfiducia nelle relazioni. Questo affiancare all'importanza attribuita ai macro eventi anche quella per i micro
eventi è ciò che rende così difficile una veritiera rappresentazione delle situazioni psicopatogenetiche. Le innumerevoli
sintonizzazioni o dissintonie che intercorrono tra un bambino e chi si prende cura di lui possono essere solo
parzialmente colte nei diversi setting di ricerca sullo sviluppo.

2 . LE DETERMINANTI PSICOLOGICHE

Per inoltrarsi nella comprensione della genesi della psicopatologia da un punto di vista psicodinamico, bisogna orientare
il cammino secondo alcune precise indicazioni. Si potrebbe osservare che esistono due tipi di negazioni rispetto al fatto
che l'espressione “malattia della mente” abbia qualche corrispettivo nella realtà:
1) prospettiva contemporanea: la malattia di cui un individuo risulta affetto non sarebbe comprensibile ricorrendo
necessariamente a un supposto “livello mentale” ma riguarderebbe la sua parziale incapacità di adattamento, o
un pieno disadattamento, rispetto alle esigenze dell'ambiente. Watson ha cercato di dimostrare che si può,
attraverso il condizionamento, non solo costruire le basi complesse del comportamento, le strutture ed i
conflitti di una personalità malata, ma anche con lo stesso procedimento gettare le basi di un inizio di
modificazioni organiche che possano in seguito giungere ad infezioni e lesioni.
2) prospettiva delle “pretese malattie mentali”: si fonda sull'idea di un'alienazione di colui che noi chiamiamo
sano di mente; la “malattia” sarebbe allora una trascrizione dello stato del gruppo e manifesterebbe tale o
talaltra sua costante; il “malato” farebbe parte integrante del sistema totale. La pseudo-malattia mentale,
trasgressione delle norma, assume al contrario la funzione di una indicazione della norma.
Contro tali opposti punti di vista, si tratta di ribadire la consistenza concreta dei disturbi, dei disagi, delle sofferenze
mentali o comunque si voglia definirli come malattie della mente, fenomeni e non artefatti, sia contro ogni riduzionismo
behaviorista sia contro ogni tentazione del “politicamente corretto” (che pensa di cambiare le cose solo cambiando il
nome delle cose stesse). La qualità mentale del disagio è comunque valutata da un punto di vista olistico: la mente non
domina il corpo ma diventa corpo. Sappiamo che il sistema immunitario, così come il sistema nervoso centrale, è dotato
di memoria e capacità di apprendimento. Si può dire che l'intelligenza è situata non soltanto nel cervello, ma anche in
cellule che sono distribuite in tutto il corpo. Se la mente è definita dalla comunicazione cervello-cellula, questo modello

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della mente si può considerare esteso al corpo intero, pertanto si può affermare che la mente è nel corpo, nello stesso
senso in cui la mente è nel cervello. Questo comporta l'obbligo di considerare che il corpo non è uno spettatore muto di
fronte allo svolgersi delle vicende che si palesano nella continuità circolare tra disagi delle relazioni e disagi delle
menti. Se il corpo sembra non parlare è solo perchè non siamo abituati ad ascoltarlo fino a quando le espressioni della
sua “voce” non prendono la forma di sintomi. Il modo migliore per attraversare il territorio della psicopatologia è quello
di ben “attrezzarsi” mediante il ricorso a una comprensione integrata, la quale rifiuta i limiti di un orientamento
esclusivamente medico e di una prospettiva che tende a ricondurre il disagio unicamente ai fattori del contesto
socioculturale. Anche un'impostazione solamente psicologica, che voglia far a meno di considerare la matrice biologica
di una persona e la società in cui vive, non può fornire spiegazioni attendibili e non metafisiche del perchè la mente
delle persone si ammala. Bisogna tendere a connettere quanto più coerentemente i diversi domini della conoscenza sui
fenomeni mentali, includendo tutte le possibili determinanti di tipo bio-psico-sociale. Per qualsiasi oggetto culturale la
questione non è tanto quella della qualità intrinseca dell'oggetto quanto quella del modo con cui il soggetto lo usa: è
l'individuo che, seguendo il proprio temperamento e la propria storia, si assume la responsabilità di un uso tossico
oppure vitale delle cose. I nuovi luoghi della civiltà di massa o i nuovi “oggetti culturali” si prestano tutti a essere
utilizzati per operazioni psichiche, quasi delle autocure, poiché con tali “oggetti”, reali o di fantasia, si possono
instaurare modalità relazionali che possono costituire potenti esperienze di riconoscimento che, successive a quelle
originarie, inadeguate, costituiscono fattori protettivi o fattori di rischio per il successivo sviluppo normale o patologico
delle relazioni.

La prospettiva psicodinamica classica: traumi e conflitti

Secondo il modello psicoanalitico classico di Freud, si può dire che la malattia mentale è essenzialmente “l'espressione
di un conflitto, di cui essa segnala il senso: c'è malattia mentale perchè c'è disagio” e tale disagio è sintomo del conflitto
sottostante. Nella prima teoria di Freud (seduzione precoce), l'impatto tossico dell'altro (del seduttore) era la forza
causale nella formazione della psicopatologia. Questa teoria venne poi abbandonata a favore della seconda teoria
psicopatogenetica freudiana (conflitto) in cui accade che gli altri significativi sono in gran parte diventati altri
fantasticati, estrapolazioni derivate dalle pulsioni innate del soggetto, per il quale sono cruciali le fantasie relative agli
altri più che le azioni degli altri. In questa teoria l'impatto degli eventi con gli altri reali si è affievolito (anche se non del
tutto sparito) recedendo sullo sfondo. Si è iniziato a pensare che il contenuto della mente del paziente derivasse da
fantasie primarie basate sul corpo e connesse alla costituzione personali. La psicoanalisi è così diventata intrapsichica e
si è iniziato a pensare che la vita mentale sorgesse in una mente individuale e monadica, essendo solo secondariamente
coinvolta nelle relazioni con gli altri. Quindi, nella primigenia impostazione freudiana la patologia psichica era
interpretata come conseguenza di eventi traumatici mentre poi modificò la sua teoria sulla genesi delle nevrosi
ipotizzando in Io impegnato a ridurre i perenni conflitti tra le pulsioni e le varie strutture psichiche. Mondo
intrapsichico, ruolo preponderante delle fantasie primarie interne, conflitti legati al contrasto tra pulsioni e principio di
realtà che si oppone alla loro spinta a ricercare delle soddisfazioni immediate, conflitti derivanti dallo scontro tra Eros
(pulsione di vita) e Thanatos (pulsione di morte) … questo è lo scenario psicoanalitico classico, prevalente nella prima
metà del XX secolo, dominato prima dalla personalità di Freud e successivamente anche da quella di Melanie Klein
che ha dato origine ad una scuola che ha prodotto considerazioni e osservazioni in una prospettiva rigorosamente
intrapsichica e monopersonale, dominata dall'interpretare l'altro fuori dalle relazionalità con me, nonché caratterizzata
da un modello esplicativo della psicopatologia di tipo conflittuale.

Carenze e sviluppo del bambino

Altri autori (Winnicott, Anna Freud, Kohut, Bowlby) formularono delle modalità alternative di comprensione della
genesi della psicopatologia , riconducibili comunque a fattori di carenzialità dell'ambiente quanto a capacità di
rallentare, inibire o distorcere lo sviluppo del bambino. Michael Balint aveva riconosciuto la presenza di tre “scuole
psicoanalitiche” (Vienna, Londra, Budapest), ricorrendo al termine “opinioni” a proposito delle idee che mettevano in
contrasto le differenze delle tre “scuole” per sottolineare che il problema con cui la psicoanalisi doveva confrontarsi era
quello di come ottenere “dati attendibili” a riguardo dello sviluppo del bambino. Egli riteneva necessario affiancare alla
“ricostruzione del comportamento infantile mediante i dati della vita dell'adulto” anche l' “osservazione diretta del
bambino”. Questo è un punto ancora scottante delle divergenze all'interno degli psicoanalisti. Secondo l'ala più
tradizionale tutte le informazioni che si ottengono fuori dalla stanza di analisi non sono autenticamente significative.
Altri psicoanalisti ritengono che questo modo di pensare conduca in una strada senza uscita e per evitare questo rischio
occorre abbracciare la necessità di consolidare con altro materiale le loro osservazioni e aprire un dialogo con le altre
scienze (soprattutto biologia e neuroscienze cognitive). Inoltre, Balint, a proposito delle reazioni emotive dei bambini
considerava che si è sopravvalutato tutto ciò che dava l'idea di rumore, forza, violenza, mentre è passato in secondo
piano tutto quello che accadeva in silenzio. Egli voleva attirare l'attenzione su quella che è molto probabilmente la più
precoce fase della vita mentale extrauterina per sostenere che non è narcisistica ma diretta verso gli oggetti ed è altresì
una relazione oggettuale passiva (sarò amato e soddisfatto senza alcun obbligo di ricambiare nessuno). La soddisfazione

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di questa esigenza di base avviene in modo tranquillo tanto che il sentimento di piacere che ne deriva può essere un
riposante senso di benessere. La mancata soddisfazione di questo bisogno determina invece quello che Balint definirà il
difetto fondamentale, che ha le seguenti caratteristiche:
a) tutto quanto avviene all'interno di questo livello appartiene ad un rapporto esclusivo tra due persone (non esiste una
terza persona);
b) questo rapporto duale ha una natura sua particolare, completamente diversa da quella delle modalità di rapporto del
livello edipico;
c) la natura della forza dinamica che agisce a questo livello non è di tipo conflittuale;
d) per descrivere i fatti che avvengono a questo livello il linguaggio dell'adulto spesso risulta inutile e fuorviante.
Balint sottolinea che la forza che si sviluppa dal difetto fondamentale, per quanto sia estremamente dinamica, non ha
l'aspetto di una pulsione e neppure quello di un conflitto; è' un difetto, è qualcosa di storto nella psiche, una specie di
deficit che va colmato. Egli osserva che nell'ambito delle scienze esatte si è utilizzato il termine difetto per denotare
delle condizioni che ricordano quanto si sta descrivendo. L'uso dell'aggettivo fondamentale è invece determinato dal
voler ricordare che lo sconvolgimento strutturale riguarda la totalità bio-psicologica dell'individuo implicando a diversi
livelli sia la psiche che il corpo. Balint quindi sposta l'attenzione dai conflitti intrapsichici alle carenze dell'ambiente.
William Ronald D. Fairbain elaborò invece una prospettiva teorica che offre l'espressione più pura e chiara dello
spostamento dal modello strutturale delle pulsioni al modello strutturale delle relazioni e quindi una comprensione della
psicopatologia per cui il bambino modella, struttura e distorce la sua esperienza, il suo comportamento, la sua
percezione di sé per conservare le migliori relazioni possibili con il genitore. Egli individua nella dolorosa esperienza di
non essere amato e conosciuto intimamente un fondamento generale della psicopatologia. La madre sarebbe non solo
incapace di amare, ma anche di riconoscere l'amore del figlio per lei: la genesi del disagio sarebbe riconducibile a un
legame con un “oggetto” non disponibile a soddisfare dei bisogni (di qualità diversa da quella delle pulsioni individuata
da Freud). Harry Stack Sullivan mette in evidenza una complessa dinamica interpersonale che, se non può dirsi
pienamente interattiva nel sistema diadico-sistemico di fatto anticipa i più recenti modelli intersoggettivi per la cruciale
importanza accordata all'ansia. Per Sullivan è decisivo, ai fini dello sviluppo normale o patologico, il modo in cui i
bisogni del bambino vengono percepiti. Alla base dei comportamenti umani vi è una incessante tensione per il
raggiungimento di due obiettivi, la condizione di soddisfazione e la condizione di sicurezza: la necessità a perseguire il
raggiungimento di tali condizioni fa assumere a queste stesse il valore di sistemi motivazionali. La ricerca delle
soddisfazioni è una risposta ai bisogni prevalentemente biologici mentre la ricerca della sicurezza riguarda più
strettamente la componente culturale dell'uomo, il suo essere animale sociale, per il quale su tali bisogni di
soddisfazione sono esercitate certe influenze condizionanti, determinate dai fenomeni interpersonali miranti alla ricerca
di sicurezza. Attraverso il conflitto tra bisogni di soddisfazione e bisogni di sicurezza (fra quello che l'uomo è
naturalmente e quel che socialmente deve essere) si sviluppa la personalità. Un limite di questa impostazione è dato dal
pensare ai bisogni di soddisfazione come eccessivamente legati alla corporeità, mentre grazie alle successive
elaborazioni teoriche di altri autori è possibile collocare in tale ricerca di soddisfazione anche quella del riconoscimento
della propria identità. I bisogni di soddisfazione operano nella direzione di suscitare negli altri tendenze complementari:
comportano un aumento delle tensioni nel bambino e provocano una serie di attività, le quali inducono nel caregiver
una tensione sperimentata come tenerezza, che conduce ad altrettante attività, volte al soddisfacimento del bisogno. Tale
soddisfacimento porterà a una diminuzione della tensione e a uno stato di benessere nel bambino. Questa interazione
interpersonale (guidata dal cosiddetto “teorema della tenerezza”) è caratterizzato dal proficuo instaurarsi di un “circolo
virtuoso”: il bambino che raggiunge uno stato di benessere grazie all'intervento della madre rinforzerà, con espressioni
di soddisfazione, il sentimento di tenerezza e compiacimento da lei provato, il che accrescerà di conseguenza le
attenzioni e le premure del bambino stesso. Questo tipo di circolarità relazionale conduce non solo a uno stato di
benessere ma anche all'acquisizione da parte del bambino di una sicurezza circa la propria competenza interpersonale
nella capacità di raggiungere i propri scopi. Se i segnali di bisogno conducono ad uno stato di angoscia del caregiver,
tale da addirittura impedire (al limite) la soddisfazione del bisogno, al bambino ne conseguirà l'esperienza di
insicurezza, di diversa intensità, sulla propria competenza interpersonali circa la capacità di avere relazioni
soddisfacenti. La relazione circolare si ripete, ma in questo caso si crea un circolo vizioso, in quanto ad accrescersi non
è la sensazione di benessere e di euforia ma quella di disagio e, successivamente, di angoscia. Per Sullivan la sicurezza
è libertà dall'angoscia e l'insicurezza è legata alla reazione dell'altro rispetto alle manifestazioni dei propri bisogni da
parte del soggetto. Il bisogno di sicurezza diverrà prioritario nel guidare le strategie comportamentali del soggetto: il
bambino si troverà a cimentarsi con l'angoscia proveniente dalle reazioni della madre al suo comportamento e si
sforzerà di modulare il suo stesso comportamento in modo tale da evitare l'insorgenza di tali sentimenti negativi, al fine
di sostenere invece un flusso di “positività” nei suoi confronti (corrente di approvazione). Il bambino diventa attento a
tutte le azioni che determinano un'emozione spiacevole nei genitori e quindi in lui (si accoda alla loro lunghezza d'onda
emotiva) arrivando a “trascurare selettivamente” quegli aspetti del sé che non sembrano importanti o addirittura non
appaiano graditi ai suoi genitori, arrivando a sacrificare altri fattori in nome del mantenimento della costanza
relazionale, privilegiando innanzitutto il bisogno di sicurezza, con l'attenzione costante a quanto nell'altro, e quindi in
lui, può o no determinare l'angoscia. La ricerca dell'approvazione scaturisce dal tentativo di liberarsi dall'angoscia e di
soddisfare il bisogno di sicurezza. Dato che il bisogno di sicurezza è gerarchicamente superiore a quello di

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soddisfazione, la ricerca di soddisfazione è sottoposta, entro certi limiti, a modifiche, per soddisfare il bisogno primario
di sicurezza. Queste complesse esperienze sottendono al processo di adattamento del bambino verso la ricerca di
approvazione e di accettazione e dunque anche di sicurezza. Tali vicende interpersonali hanno come conseguenza quella
di determinare, a livello psicologico individuale, l'insorgenza di quello che corrisponde ad un falso sé, tanto più elevato
quanto più il soggetto ritiene conveniente deformare il proprio sé al fine di rendersi accettabile per l'altro. Inoltre il
bambino dipende per la soddisfazione dei propri bisogni e dunque viene garantita quella “prossimità psichica” che
consente che la soddisfazione avvenga “in sicurezza”, piuttosto che nell'angoscia e che, addirittura, non avvenga per
nulla. Queste dinamiche non terminano con l'infanzia, ma avranno una forte determinante sui comportamenti che
perdurerà per tutta la vita. Queste prime esperienze che il bambino fa della tenerezza e dell'approvazione materna, così
come dell'angoscia e della disapprovazione, si stabiliscono grazie a una forma di comunicazione che Sullivan chiama
“empatia” o “legame empatico”. Grazie a questo intenso rapporto affettivo, biunivoco e reciproco, la soddisfazione di
un membro del binomio viene avvertita immediatamente, empaticamente, dall'altro così come l'angoscia e
l'insoddisfazione. La comunicazione avviene a livello non verbale, mediante differenti canali comunicativi (tensione
muscolare, odori del corpo, timbro della voce). La valutazione del grado di angoscia presente nelle figure di riferimento,
consente una sorta di “manuale di istruzioni” per l'attività del bambino, così si potrà intendere il “me buono” riferendosi
a quelle aree di esperienza che hanno incontrato l'approvazione della madre. Il “me cattivo” si riferirà a tutte le
interazioni che hanno prodotto ansia e disapprovazione. La situazione più drammatica è riferita al “non me”, dove
un'angoscia molto intensa presente nella reazione della figura di riferimento genera un'esperienza di angoscia nel
bambino che non riesce ad integrarla e la loro entità saranno quelle che sosterranno future manifestazioni
psicopatologiche. Il bisogno dell'adulto di status, di fama, di potere è un modo di riappropriarsi in altre forme delle
mancate originarie soddisfazioni del bisogno di riconoscimento sacrificato al ricercare la sicurezza (sicurezza di
attaccamento). Se la ricerca per soddisfazione del bisogno di sicurezza prevale sulla soddisfazione di altri bisogni, la
persona tenderà a instaurare relazioni disfunzionali in quanto miranti ad avere appunto sicurezza e non la
soddisfazione dei diversi altri bisogni emozionali. Tra i capostipiti della svolta verso la comprensione della
psicopatologia per carenza, va annoverata Helene Deutsch che pubblica un articolo ormai entrato nella storia della
psicoanalisi per aver introdotto il concetto di personalità “come se”. L'autrice differenzia un'originale forma di disturbo
della personalità che caratterizza individui capaci di “simulare un'esperienza affettiva” come se la provassero
veramente. Sono persone incapaci di avere un'autentica vita emotiva e affettiva e quindi obbligate a recitarla. Si tratta di
uno svuotamento dei propri sentimenti a favore di quelli dell'altro. L'origine della patologia del paziente “come se”
viene spiegata ricorrendo a espressioni quali carenze di “calore”, “atmosfera priva di sentimenti”, assenza di qualcuno
che l' “amasse”, “carenza affettiva”. Ma è con gli scritti di Winnicott che l'origine del disagio psicologico non solo
viene ricondotto alla carenza di cure genitoriali sufficientemente adeguate per soddisfare i bisogni del bambino, ma
anche le qualità della dinamica relazionale che viene messa in evidenza apre la strada alle successive formulazioni in
termini di “sintonizzazioni” e di “intersoggettività”. Egli considerava impossibile comprendere la psicopatologia se si
prendeva in considerazione l'individuo come una persona “isolata”, non ha senso parlare di “un bambino” ma soltanto
di “una coppia madre-bambino” legati da una specifica relazionalità nella quale nessun comportamento di uno dei due
membri è intellegibile senza comprendere anche il comportamento dell'altro. Anna Freud stessa arriva a sostenere
apertamente la possibilità di disturbi psichici di origine non conflittuale, anche se concorde a sostenere l'ubiquità del
modello conflittuale. Ella era determinata a proporre due tipi di psicopatologia infantile: una di tipo conflittuale e una
basata su arresti dello sviluppo in conseguenza di carente sostegno ambientale. Un autore che provoca un vero e proprio
balzo nell'evoluzione delle teorie psicoanalitiche è certamente Heinz Kohut che esplicita una dicotomia di grande
efficacia emotiva ed euristica. Secondo Kohut il funzionamento dell'uomo mira in due direzioni: potremmo parlare di
Uomo Colpevole se le mete sono dirette verso l'attività di pulsioni (psicologia caratterizzata dalla logica del conflitto e
della colpa) e di Uomo Tragico se le mete sono verso la realizzazione del sé (psicologia che ruota introno alla fedeltà o
al tradimento di quello che era il progetto più profondo del sé). Christopher Lasch produrrà una delle opere più
importanti per la comprensione dell'età moderna (La cultura del narcisismo) e con la trilogia bowlbiana siamo di fronte
al più completo e sistematico delinearsi di una teoria dello sviluppo nettamente opposta a quella freudiana.
L'attaccamento viene ad essere considerato il sistema motivazionale gerarchicamente primario su tutti gli altri e la realtà
degli incontri originariamente stabili tra bambino e genitore definisce la qualità dei legami in termini di sicurezza di
attaccamento, i cui deficit costituiscono invece fattori di rischio per lo sviluppo di differenti tipologie di psicopatologie.

Differenze tra modelli

In modi differenti per obiettivi e tematiche, diversi autori si sono proposti di rintracciare gli spartiacque fondamentali
presenti all'interno della cultura psicoanalitica. Per il modello che postula la patologia come derivata da carenze,
l'acquisizione del principio di realtà non passa attraverso la perdita dell'onnipotenza originaria in seguito a sue
successive frustrazioni, ma avviene naturalmente se il sé ha ricevuto gli adeguati supporti allo sviluppo. Secondo
questo modello il concetto di onnipotenza primaria è errato e fuorviante, in quanto attribuisce al bambino fantasie
dell'adulto: non si tratta di passare dalla onnipotenza alla realtà ma di acquisire una realistica conoscenza di se stessi
attraverso le differenti dinamiche relazionali, nelle quali si determinano riconoscimenti e quindi acquisizioni della

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conoscenza di sé. Diversi autori, in una prima fase della loro elaborazione operano mantenendo una distinzione tra le
patologie spiegabili in termini di dinamiche conflittuali e quelle riconducibili a carenze dell'ambiente durante lo
sviluppo. Altri invece costruiscono un modello implicitamente relazionale (senza mai pienamente dichiararlo). Altri
ancora sostengono la possibilità di far coesistere i due modelli proponendo un modello misto. Un autore che si è
cimentato per dimostrare l'interdipendenza tra situazioni di deficit di sviluppo e conflitti dinamici quanto a capacità di
determinare l'insorgenza della patologia dell'adulto è stato Morris Eagle che ha sostenuto che i difetti e i conflitti non
rappresentano alternative dicotomiche o opposte, ma differenti prospettive complementari sulla patologia. La sua
convinzione è che le considerazioni formulate dai sostenitori dell'uno o dell'altro schieramento non sono incompatibili
ma sono semplicemente modi diversi di guardare allo stesso fenomeno generale. Egli teme che individuare la forza
causale della psicopatologia in eventi di reale carenza, non mediata dalle fantasie del mondo interno, significa ritornare
alle posizioni pre-psicoanalitiche (Charcot e Janet). Pur ritenendo che la posizione di Eagle tenda a sottovalutare i
contributi innovativi dei modelli che attribuiscono maggiore importanza a dinamiche carenziali, rispetto a quelle
conflittuali, nella genesi delle sequenze psicopatogene non si può che concordare con lui su determinati punti critici
sollevati nei confronti dei modelli psicoanalitici di matrice pulsionale:
a) il primo punto è rivolto verso quelle teorizzazioni che affermano che le patologie degli adulti derivino da modalità di
funzionamento adeguato in precedenti età dello sviluppo. Il problema fondamentale e più grave che una concezione
della patologia adulta in termini di blocchi dello sviluppo è che solleva l'errata convinzione che alcune patologie adulte
siano sostanzialmente un “blocco” , una regressione di una particolare fase normale dello sviluppo. Si basa inoltre su
vaghe analogie tra supposti stati infantili e patologie adulte, senza far luce né sull'uno, né sull'altro.
b) il secondo punto critico riguarda l'eccessiva importanza accordata da svariati autori ai fattori costituzionali
c) il terzo punto è nei confronti di quei modelli che di fatto propongono una inaccettabile “adultomorfizzazione”
dell'infanzia e una meno proponibile “infantilizzazione” del paziente durante il trattamento.
Si può ben accettare l'invito di Eagle a “smettere di proporre teorie eziologiche della patologia basate principalmente o
esclusivamente sul trattamento di pazienti adulti. Il modello che ora si propone si basa sui dati emersi nell'ambito di
pluridecennali studi condotti secondo la propsettiva della cosiddetta infant research.

Una nuova ipotesi: le dissintonie

Rispetto alla tripartizione tra ipotesi traumatiche, conflittuali o carenziali alla quale si era soliti riferirsi, è lentamente
emersa una quarta ipotesi, quella cosiddetta delle dissintonie, nata non solo in ambiente clinico, ma originariamente in
ambiente di ricerche, solo negli anni '90, raccoglie ora i consensi della corrente psicoanaltica più avanzata, che deriva
dalla matrice relazionale: modello interpersonale propriamente detto; la teoria dell'attaccamento, la psicologia del sé e la
sua corrente intersoggettiva; la teoria dei sistemi motivazionali, il modello relazionale inteso in senso stretto. La
maggior parte di questi modelli sembra attualmente convergere verso un unico, coerente centro di attrazione che,
all'interno della cornice dell'attaccamento, incrocia i dati provenienti dalla clinica, di stampo intersoggettivo diadico,
con i dati derivati dalla cosiddetta infant research. I nomi con cui vari autori si riferiscono a questa “area quasi comune”
sono diversi: propsettiva diadico-sistemica, intersoggettivismo, costruttivismo sociale, modello relazionale nel quale
Mitchell ha proposto di far rientrare quattro aree che rappresenterebbero i modi di base attraverso i quali opera la
relazionalità:
1) il comportamento presimbolico non conscio (adattamenti interpersonali dovuti a reciproche influenze e mutue
regolazioni; i contributi per la comprensione di tali scambi relazionali provengono dalla teoria
dell'attaccamento, dall'interpersonalità, e dall'infant research);
2) La permeabilità affettiva (esperienza condivisa di intensi affetti; Sullivan; Loewald; Ogden; Bromberg)
3) L'organizzazione dell'esperienza nella configurazione sè/altro (Fairbain, Kohut; Aron)
4) L'intersoggettività ( Sullivan; Loewald; Ogden; Bromberg; Fairbain, Kohut; Aron)
Uno dei maggiori contributi dell'infant research è costituito nella scoperta che durante tutto il corso della vita le
relazioni interpersonali sono regolate da processi fondamentali, originariamente non verbali. E' Louis Sander che
coglie l'importanza di non guardare al bambino isolato dalla relazione con la madre, ma anzi di assumere per questo tipo
di osservazioni una prospettiva sistemica: secondo la teoria generale dei sistemi, un sistema è formato da una serie di
componenti interdipendenti, che si regolano reciprocamente attraverso meccanismi di feedback (sono di due tipi, quelli
che tendono a correggere le deviazioni dall'omeostasi e quelli che le amplificano, conducendo a introdurre cambiamenti
nel sistema stesso), che consentono ai sistemi di autoorganizzarsi. A Sander va anche il merito di aver bene evidenziato
come all'interno di tali “sistemi viventi” ognuna delle persone che li costituisce (es. bambino e sua madre) oltre che
svolgere funzione di agente regolatore dell'altra, dalla quale viene al contempo anche regolata, è altresì capace di
autoregolarsi, così come pure l'altra persona svolge funzioni autoregolatorie, che sono indipendenti dalla regolazione
interattiva in atto. Entrambi i tipi di regolazione sono sempre in atto, parallele e interagenti, e sono rivolte a monitorare
e modulare gli stati interni come la relazione esterna. Per affrontare il problema di come il sistema permetta lo sviluppo
nell'individuo del senso di identità e di controllo degli eventi, Sander ricorre al principio di “corrispondenza delle
specificità” (Weiss) che stabilisce una specie di risonanza tra due sistemi sintonizzati tra loro, in base alle loro proprietà
corrispondenti. Questo principio sta alla base del concetto di Sander di “momento di incontro”: la corrispondenza delle

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specificità tra due sistemi sintonizzati rende ciascun partner consapevole dello stato dell'altro. Nel momento di incontro,
due stati di consapevolezza sono posti a confronto, si crea una corrispondenza tra il modo in cui ciascun partner conosce
se stesso e il modo in cui è conosciuto dall'altro. Questo tipo di corrispondenza favorisce lo sviluppo di un senso di
identità e di sé agente. Nel momento di incontro avviene un riconoscimento reciproco, che influenza la capacità di agire
in prima persona sulla propria autoregolazione. Se tale riconoscimento non avviene il “momento di incontro” non si
determina, la persona non sente rafforzati ma indeboliti il proprio senso di identità e la propria capacità di azione,
entrambi i componenti del sistema non ampliano il proprio sviluppo e si apre la strada per deviazioni psicopatologiche.
Questo modello (sistemico-diadico) si differenzia radicalmente da ogni altro modello psicoanalitico poiché non postula
particolari contenuti psicologici ritenuti universalmente importanti nello sviluppo della personalità e della patogenesi.
Questa è una teoria di processo per indagare e comprendere i contesti inetrsoggettivi: è il maggior o minor equilibrio
dinamico delle auto ed eteroregolazioni, mediante scambi verbali o non verbali, che giunge comunque a determinare
tematiche di estrema rilevanza (es. definizione di sé) in particolare per quanto concerne lo svilupparsi di un adeguato
sense of agency, l'autostima, la possibilità di entrare in intimità con, o rimanere separato da , l'altro, la capacità di
superamento e di mantenimento della solitudine, nonché quella dell'espansione diadica della consapevolezza. Secondo
tale modello di equilibrio/disequilibrio tra i processi di autoregolazione e regolazione interattiva si ritiene che il sistema
sia in equilibrio quando non vi è prevalenza di una delle due modalità di regolazioni sull'altra, mentre un eccessivo
monitoraggio del partner a spese dell'autoregolazione, orienta il sistema verso una vigilanza interattiva, orientando il
sistema verso il polo dello squilibrio. Adeguata autonomia e adeguata relazionalità vengono in tal senso
contemporaneamente e costantemente co-costruite o de-costruite, con una dipendenza quasi istantanea dalle rispettive
risposte diadiche. Daniel Stern introduce il concetto di “sintonizzazione degli affetti” e con questo un nuovo modello di
comprensione dello sviluppo normale e patologico tra sintonie e dissintonia è ora disponibile in alternativa a quelli
precedenti di traumi, conflitti e carenze. Se la sintonia conduce allo sviluppo normale di un bambino, la costanza di
esperienze di dissintonia apre la strada ai processi di psicopatologia. Stern dà particolare risalto al concetto di
sintonizzazione, usato per definire una specifica categoria comportamentale. La sintonizzazione degli affetti consiste
nell'esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitarne l'esatta
espressione comportamentale. I comportamenti di sintonizzazione riplasmano l'evento e spostano l'attenzione su ciò che
sta dietro al comportamento, sulla qualità dello stato affettivo. La sintonizzazione rappresenta il modo migliore per
comunicare stati interni o indicare la propria partecipazione; l'imitazione comunica la forma, la sintonizzazione dei
sentimenti. Tuttavia, non sembra esistere una vera e propria dicotomia fra sintonizzazione e imitazione; i due processi
sembrano situarsi ai due estremi di uno spettro. Sintonia non solo con gli affetti comunemente intesi ma in particolare
con quelli che Stern chiama affetti vitali: egli ritiene che sia necessaria questa distinzione in quanto molte qualità dei
sentimenti non trovano posto nella terminologia esistente o nella nostra classificazione di affetti. I bambini sono
certamente in grado di percepire queste qualità dell'esperienza che rivestono grande importanza ogni giorno e in ogni
momento della loro vita: il bambino è costantemente immerso in questi affetti o sentimenti vitali, poiché da parte delle
figure genitoriali vi sono mille variazioni possibili di qualsiasi comportamento e ciascuno si accompagna a un diverso
affetto vitale. Scoprire gli affetti vitali e sintonizzarsi con essi permette ad un essere umano di essere con un altro. Il
processo che conduce a tale condivisione di esperienze interiori è bifasico e se la seconda fase è quella della
sintonizzazione, è però necessario che sia preceduta da una prima fase, quella dello “scoprire gli affetti vitali, presenti
momento dopo momento: è questa la fase del riconoscimento, processo che precede e rende possibile una eventuali
sintonizzazione. Per tale priorità temporale i riconoscimenti o gli eventuali disconoscimenti sono dunque i micro eventi
di base che possono condurre attraverso una successiva sequenza di tappe, la prima delle quali è quella della
sintonizzazione o della dissintonia, allo sviluppo normale o a quello patologico. Gli eventi psicopatogeni, cioè i
disconoscimenti e le dissintonie, vanno quindi considerati come eventi:
1. reali (teoria dell'attaccamento di Bowlby) e non fantasmatici;
2. relazionali, conseguenti ad una situazione tra due persone;
3. non subiti passivamente, ma caratterizzati da un certo grado di bidirezionalità;
4. di dimensioni micro;
5. non deterministici, ma probabilistici
6. l'ambiente all'interno del quale occorrono quegli eventi è un “sistema vivente” formato da due persone in
interazione
E' comunque imprescindibile inquadrare la psicopatologia nella cornice dello “sviluppo di una persona” da intendere
come “capacità di sviluppo delle relazioni” sottolineando che, nelle fasi originarie dello sviluppo, non c'è espansione
della coscienza che si determini fuori dall'espansione della relazionalità. Intrinseco a ciò è superare una visione dello
sviluppo come ristretto a fasi cronologicamente definite (infantile e adolescenziale) ma intenderlo in una prospettiva
life-span (tutto il corso di vita è sviluppo): le conseguenze di traumi, conflitti, carenze o disconoscimenti-dissintonie
possono essere considerate in termini di disarmonie, più o meno gravi, dello sviluppo o di vere e proprie interruzioni
dello sviluppo, che vanno darwinianamente comprese come manovre di adattamento dell'individuo a un ambiente
sfavorevole. Traumi, conflitti, carenze o disconoscimenti-dissintonie sono comunque sostenuti in modo sempre
sovrapposto ad elementi naturali e/o culturali, senza tralasciare il coinvolgimento di ulteriori e non meglio definibili
elementi “personali” che potremmo però dire non appartengono né alla genetica né all'ambiente ma ad un'altra

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dimensione.

“Daimon” e “genius”

James Hillman scrive che il paradigma dominate per interpretare le vite individuali (il gioco reciproco tra genetica e
ambiente) omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo “me”. Se si accetta l'idea di
essere l'effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, ci si riduce a mero risultato. Quanto più
la propria vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i genitori hanno fatto
o hanno omesso di fare, tanto più la biografia di una persona sarà la storia di una vittima. Hillman vuole opporsi al
diffondersi della mentalità della vittima, di cui nessuno di noi può liberarsi. Egli introduce la “teoria della ghianda”:
piuttosto che prendersela con i genitori per quello che hanno fatto o non fatto, si dovrebbe riconoscere l'esistenza di un
“nucleo centrale della propria personalità” che è il depositario del destino individuale e allinearsi ad esso, poiché
costituisce quel germe, quella ghianda da cui poi sorta la quercia che è la vita (qualunque essa sia); lottare contro le
origini, contro il seme, non è possibile e anzi genera sofferenza. I nomi a cui egli ricorre per designare la “ghianda”,
originaria ed enigmatica “forza della vita umana” sono molti (daimon, genius, anima, destino, vocazione, carattere) e
tutti dicono qualcosa sulla sua sfuggente natura senza che nessuno riesca a essere però esaustivo della sua qualità
specifica. Per comprendere l'insorgenza di quel particolare tipo di psicopatologia che prende le forme dei
comportamenti che vengono definiti genericamente antisociali, egli fa ricorso a otto modelli interpretativi:
1) condizionamenti dovuti a traumi infantili (determinante psicologica)
2) tare ereditarie (area dei fattori biologici)
3) particolare ethos di gruppo (determinante sociale)
4) rinforzi positivi di comportamenti negativi (determinante psicologica)
5) il karma
6) la prevalenza della parte “ombra” presente in ciascun uomo (determinante psicologica)
7) la carenza di qualche fondamentale caratteristica umana (determinante psicologica)
8) la chiamata del male
Riferendosi al karma e alla chiamata del male sembra voler sottrarre del tutto la persona dall'essere ingabbiata in un
determinismo bio-psico-sociale ed evidenziare i limiti della comprensione psicologica. Inoltre, per quanto riguarda lo
studio delle vie di sviluppo è necessario fare i conti anche con la presenza di eventi casuali o eventi che si determinano
seguendo la teoria del caos. Vanno anche ricordati i principi di equifinalità (percorsi anche molto differenti tra loro
possono condurre al medesimo esito patologico) e di multifinalità (medesimi eventi possono determinare differenti esiti
psicopatologici o addirittura non determinare alcuna manifestazione patologica). Per tale ghianda, Hillman non intende
utilizzare il termine “sé”:
a) tale espressione è ormai troppo carica di cultura psicologica rispetto al fine che egli intende perseguire (restituire il
mistero nel territorio della scienza psicologica che da quello invece vuole allontanarsi, riconducendo la psicologia verso
il mito, ma soprattutto allontanandola da quella che egli chiama “la superstizione parentale”).
b) riduttività con cui si è soliti connotarlo. Gli esseri umani cercano instancabilmente di decifrare il codice dell'anima, di
penetrare i segreti della sua natura. Ma se la natura dell'anima fosse non naturale e non umana? Si apre la possibilità di
affrontare il tema di una dimensione spirituale a cui non bisogna credere ma della quale si può fare esperienza. Secondo
Giorgio Agamben, genius non è solo spiritualità, non riguarda le cose che siamo abituati a considerare più nobili e alte.
Tutto l'impersonale in noi è geniale, genius è la nostra vita in quanto non ci appartiene. Genius è la nostra, personale,
parte impersonale, che esita di fronte a qualsiasi individuazione: il modo unico, specifico, con cui ognuno di noi viene a
patti con il suo genius, definisce il proprio carattere. La specificità di una persona non sta nel suo daimon, nel suo
genius; quel che decide non è un'essenza ma una “relazione” che se prende le forme di un “momento di incontro” e non
di frode, può condurre a vivere la vita a modo proprio. Ci si potrebbe chiedere se i nomi scientifici di daimon e genius
non siano i concetti di resilienza e di autoregolazione. Il concetto di resilienza (particolare e imprevista resistenza
dimostrata da alcune persone di fronte ad aventi negativi e fattori di rischio) va di pari passo con quello di vulnerabilità,
che renderebbe altre persone particolarmente e imprevedibilmente prone a manifestare svariate forme di disagio. Quello
che conduce al benessere o al malessere psichico non è determinabile in modo univoco poiché ciò che si attiva in
circostanze particolari, forse ha a che fare con le capacità intrinsecamente e imprevedibilmente autoregolatrici di una
persona che sono idiosincratiche per ogni specifica persona e non dipendono completamente da regolazioni determinate
da altri.

Monodirezionalità vs. bidirezionalità

La volontà di effettuare considerazioni sulla possibilità di isolare una determinata sequenza di eventi come “causa
necessaria e sufficiente ad indurre stati patologici della mente” obbliga a circoscrivere una particolare categoria di
eventi (traumatici) come quelli in grado di indurre gravi esperienze interne nella generalità delle persone e quindi
caratterizzati proprio dall'essere relativamente sopra-individuali. Nell'attuale impostazione del problema delle sequenze
psicopatogenetiche appare diffusa la sensibilità a distinguere tra “evento” (caratteristiche puntiformi, ben individuabili

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nel tempo e nello spazio) e “situazione” (mutevole complesso dei rapporti nei quali l'uomo viene a trovarsi, situato, in
relazione agli altri, alle condizioni ambientali e a se stesso). Questi due concetti segnano le tappe dell'evoluzione della
moderna psichiatria, che ha introdotto la necessità di una comprensione degli eventi dal punto di vista del soggetto
riconoscendo che il problema (salvo per eventi estremi) non sta nell'accadere di un evento ma nella situazione di
relazione che si stabilisce tra quel soggetto e quel che è accaduto. Si ritiene che sia sempre l'individualità a decidere il
senso ultimo dell'accadimento. Ai poli estremi si pongono da un lato l'immagine dell'evento concepito come un
impersonale proiettile che colpisce dall'esterno il soggetto, dall'altro lato l'evento come momento rivelatorio dei modi di
essere del soggetto. Considerando queste polarità estreme e poco generalizzabili, due modelli si confrontano
realisticamente per la comprensione delle modalità di insorgenza della psicopatologia.
Modalità monodirezionale (genotipo-ambiente). Nella sua accezione medica tale modello potrebbe comprendere
anche quello della pallottola, intesa come evento totalmente esterno, cioè dell'evento biologico che modifica il
comportamento dal funzionamento fisiologico verso una variante patologica. Declinato in modo meno rigidamente
deterministico, per questo modello la mente si ammala come conseguenza di una specifica predisposizione individuale
della malattia (diatesi) che si palesa solo in presenza di fattori ambientali esterni o intrapsichici sfavorevoli, siano essi
generici o specifici. In presenza di una certa quantità di stress il soggetto, che a causa della sua diatesi non è in grado di
fronteggiare adeguatamente la nuova situazione, svilupperà il disturbo psicopatologico correlato al suo specifico fattore
costituzionale. I fattori appartengono all'uno o all'altro campo (individuo/ambiente) in gioco: sottostima l'opera di
incessante, reciproco, influenzamento tra elementi appartenenti ai due diversi campi che non restano rigidi ma si
modificano nel corso del tempo.
Modalità bidirezionale di tipo sistemico. I fenomeni non possono essere compresi se vengono studiati in modo isolato
e seguendo una logica deterministica e lineare. Anteporre lo studio delle relazioni a quello delle identità degli esseri è
stata una delle direttive del programma scientifico di von Bertalanffy, il quale considera che i fenomeni da studiare non
possono essere compresi finchè non li si incornicia in una globalità, in un insieme, in un sistema definito “vivente” per
differenziarli da quelli “chiusi” di competenza della fisica. Le ricerche compiute in questa direzione hanno messo in
luce che nel contesto di una relazione tra “individui reciprocamente significativi” ognuno dei partner si autoregola, oltre
che svolgere funzione di agente regolatore dell'altro partner, dal quale al contempo viene anche regolato. Ha quindi
preso forma un modello sistemico-diadico della intersoggettività, nel quale si può riconoscere pienamente anche il
contributo dell'individuo nei meccanismi con cui regola i propri stati interni e le relazioni. Uno dei maggiori contributi
dell'infant research alla comprensione della genesi della psicopatologia consiste nell'aver individuato che i principi
regolatori dell'interazione rimangono costantemente presenti, a livello implicito non verbale, nel corso della vita in tutte
le esperienze interattive. L'individuo e il suo ambiente si trovano in un rapporto di mutua e continua interazione,
reciprocità ed interdipendenza; l'ambiente e l'individuo si adattano l'un l'altro e si influenzano reciprocamente. L'insieme
individuo-ambiente rappresenta un sistema che concorre a definire e a determinare le proprie parti, essendo da esse a
sua volta definito e determinato. Si tratta comunque di accettare di mantenere, senza risolverla, una prospettiva
contraddittoria in cui riconoscere l'esistenza di componenti di essenzialità/peculiarità appartenenti all'uno e all'altro dei
due campi, ma al contempo ribadire che tali componenti di essenzialità/peculiarità si determinino all'interno di quello
specifico sistema.

3. IL PROBLEMA DELL'AUTENTICITA'

Per gli psicoanalisti di orientamento interpersonale/relazionale una questione centrale è quella dell'autenticità.

Essere in sé o fuori di sé

Il mondo è un orizzonte all'interno del quale si muove un ente, l'uomo, che ha pertanto sempre davanti a sé due
possibilità: “di immedesimarsi col mondo” oppure di conquistarsi nella propria autenticità. Attraverso le modalità
fondamentali della “situazione emotiva” e della comprensione, l'uomo prova a “esserci” nel mondo. Heidegger
(filosofo), con il termine “situazione emotiva” intende componente emotiva dell'esistenza che apre all'uomo quella
caratteristica costitutiva del suo esserci che è l' “affettività” declinata nelle situazioni emotive essenziali della paura
(emozione propria dell'esserci che vive nell'inautenticità e nella quotidianità banale dell'uomo) e dell'angoscia
(emozione di chi non si sente estraneo al mondo e non si sente definito da esso). Sulla comprensione si fonda
l'interpretazione, l'asserzione e l'apertura alla comunicazione, cioè al discorso, che nella esistenza in-autentica assume le
forme di chiacchiere, curiosità ed equivoci. La chiacchiera si costituisce nella diffusione e nella ripetizione del discorso,
nelle quali l'incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza, che è un fattore
determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da
comprendere. Con la sua presunzione di possedere sin dall'inizio la comprensione di ciò di cui si parla, impedisce ogni
riesame e ogni nuova discussione. La curiosità non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, ma si prende
cura solo di vedere. Essa cerca il nuovo solo come trampolino verso un altro nuovo. La curiosità è caratterizzata da una
tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. La curiosità cerca di continuo la propria distrazione. Non ha nulla
a che fare con la considerazione dell'ente piena di meraviglia, non le interessa lo stupore davanti a ciò che non si

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comprende. I due momenti costitutivi della curiosità (incapacità di soffermarsi e distrazione) fondano quel terzo
carattere essenziale di questo fenomeno cui diamo il nome di irrequietezza. La chiacchiera fa da guida alla curiosità e la
curiosità è ovunque ed in nessun luogo. La curiosità, per cui niente è segreto, e la chiacchiera, per cui niente è
incompreso, garantiscono a se stessi la presunzione di una vita veramente vissuta. Nella situazione in cui tutto sembra
compreso, afferrato e espresso, ma in realtà non lo è, l'equivoco si è saldamente instaurato tra le comunicazioni.
Chiacchiere, curiosità ed equivoci caratterizzano l'inautenticità degli individui di una società in cui tutti hanno gli occhi
su tutti ma pochi vedono qualcuno all'infuori di sé. Se l'essere in modo inautentico nel mondo è tranquillizzante per le
identità, tuttavia questo stato di essere non conduce alla quiete, ma alla più sfrenata attività per vedere come si comporta
l'altro e soprattutto cosa se ne dirà.

Esistere anziché reagire

Winnicott permette di passare da un livello descrittivo filosofico ad uno interpretativo psicologico della medesima
questione di una vita “vissuta autenticamente”. Per Winnicott le cure del genitore possono essere ricondotte alle
funzioni di holding, che ha anche la qualità dell'handling e di “presentazione degli oggetti”. Il termine holding
(“sostenere”) veicola nell'interazione winnicotiana sia il significato di “tenere in braccio” e di “maneggiare”, sia quello
più di senso psicologico, di supporto dei processi vitali e di sostegno, in cui viene compreso anche un senso di
“contenimento mentale”. Winnicott afferma l'importanza primaria e decisiva della dimensione corporea del sostegno.
Che il prototipo di tutto il prendersi cura del bambino sia il tenerlo in braccio non è in contraddizione con il dire che
“l'origine dei bambini ha luogo quando sono pensati”. Sostegno fisico e psicologico sono da considerare come
indissolubilmente connessi nel promuovere lo sviluppo. A proposito delle cure del genitore, Winnicott individua tre tipi
o stadi, il primo è quello dell'holding che indica tutta la complessa qualità delle cure genitoriali antecedenti il secondo e
il terzo stadio, quelli del “vivere con” che implicano la “presentazione dell'oggetto”, cioè la presenza di “relazioni
oggettuali” e l'emergere del lattante dallo stadio di simbiosi con la madre (la divisione di una fase dall'altra è artificiosa
e viene adottata solo per comodità e chiarezza). Winnicott ipotizza che fra queste fasi di cure non ci sia necessariamente
una sequenza temporale prestabilita. Per comprendere quindi la peculiarità del modello relazionale “vivere con” occorre
dire che gli stadi delle cure genitoriali sono correlate ai due bisogni di base, quello di sicurezza e quello di
riconoscimento. La finalità del “sostenere” è quella di garantire una sicurezza di base al bambino (in accordo con la
teoria dell'attaccamento), individuando nella costituzione di una base sicura l'obiettivo primario da costituire nel corso
dello sviluppo. Fuori da tale esperienza di sicurezza, differenti esperienze di insicurezza sono correlate a vari tipi di
patologia psichica. La finalità del “vivere con” invece, sembrano avere a che fare con il bisogno di riconoscimento del
bambino. In Gioco e realtà (uno dei più importanti scritti di Winnicott e di tutta la letteratura psicologica), Winnicott
tratta esplicitamente della differenza tra due opposte modalità di avere a che fare con gli oggetti. L'entrare in rapporto
con l'oggetto è un'esperienza del soggetto che si può descrivere come un essere isolato. Si da per scontato l'entrare in
rapporto con l'oggetto e si aggiungono nuove caratteristiche, che implicano la natura e il comportamento dell'oggetto: è
questo che crea l'enorme differenza esistente tra il mettersi in relazione e l'usare. L'analista deve prendere in
considerazione la natura dell'oggetto, non come proiezione, ma come una cosa in sé. L'entrare in rapporto può
riguardare esclusivamente il soggetto, mentre l'uso necessita inevitabilmente la presenza dell'oggetto come realtà
indipendente dal soggetto. Compito dei caregivers è quello di riuscire a svolgere la funzione di “ambiente facilitante” il
passaggio evolutivo da modalità relazionali del tipo “entrare in rapporto con l'oggetto” a modalità del tipo “usare
l'oggetto”. Quest'ultima capacità, intesa come essenza del principio di realtà, non è innata ma dipende dal progredire dei
processi maturativi innescati e sostenuti da un “ambiente sufficientemente buono”. Il mettersi in rapporto con l'oggetto
viene per primo, mentre l'uso dell'oggetto viene per ultimo: nel mezzo tuttavia vi è la cosa forse più difficile dello
sviluppo umano, o almeno il più arduo di tutti gli insuccessi che debbono essere sanati. Questa cosa che esiste tra
l'entrare in rapporto e l'usare è il collocamento che il soggetto fa dell'oggetto fuori dell'area di controllo onnipotente del
soggetto stesso, vale a dire la percezione dell'oggetto come un fenomeno esterno, non come un'entità proiettiva. Per
spiegare quali sono le caratteristiche ambientali “facilitanti” e “sufficientemente buone”, occorre considerare la
bipartizione winnicottiana tra “cure del sostenere” (garantiscono la sicurezza del bambino) e “cure del vivere con”
(volte a riconoscere la specificità del bambino). Il riconoscimento del figlio come una “entità per se stessa” è funzione
di quanto il genitore stesso sia in grado di riconoscere il figlio come separato da sé, il che avviene nella qualità di cura
genitoriale del tipo “vivere con” l'altro, che non mira a sostenere e dare sicurezza ma a riconoscere la specificità del
bambino. Il riconoscimento è l'atto fondante della possibilità di un vero, e non proiettivo, incontro tra due persone. Per
riconoscere o disconoscere un altro non ci vuole rumore, forza o violenza, tutto può avvenire nel silenzio degli sguardi,
ma l'impatto di un disconoscimento può essere di una devastazione totale sulla mente dell'altro. Possiamo, quindi,
affermare che livelli differenti di “sostegno” conducono a differenti livelli di coesione e di sicurezza nel bambino e che
differenti livelli del “vivere con” conducono a riconoscimenti differentemente accurati, il che conduce il bambino a
differenti livelli di autenticità. Nel ricercare l'eziologia del falso Sé bisogna privilegiare le osservazioni a riguardo di
quei momenti interattivi durante i quali “periodicamente il gesto dell'infante dà espressione ad un impulso spontaneo; la
fonte del gesto è il vero Sé ed il gesto indica l'esistenza del vero Sé potenziale”. La madre sufficientemente buona va
incontro più e più volte ai diversi “gesti spontanei” del figlio e, in certa misura, dà loro un senso. La madre non

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sufficientemente buona fallisce più e più volte nel rispondere adeguatamente ai gesti e alle espressioni del figlio: ella vi
sostituisce invece il proprio gesto chiedendo al figlio di dare ad esso un senso tramite la propria condiscendenza, che è
lo stadio primario precoce del falso Sé. Il vero Sé diventa una realtà vivente come conseguenza del ripetuto successo
della madre nell'andare incontro al gesto spontaneo. Non è comunque un solo evento, ma il prevalere di ripetute
esperienze di riconoscimento rispetto a quelle di disconoscimento che conduce il bambino a sentire soddisfatto il
proprio bisogno di vedere riconosciuti e validati i propri gesti, le proprie espressioni e quindi l'interezza del Sé. Di
fronte ad esperienze di misconoscimento il bambino inizia a vivere in modo inautentico. L'infante viene indotto ad
essere compiacente e un falso Sé condiscendente reagisce alle richieste ambientali e l'infante sembra accettarle. Tramite
questo falso Sé l'infante si costruisce un sistema di rapporti falsi e, mediante introiezioni, giunge perfino a sembrare
reale. Il falso Sé ha la funzione di nascondere il vero Sé, cosa che attua mostrandosi compiacente verso le richieste
ambientali. Se solo il vero Sé può essere creativo e può sentirsi reale, questo vero Sé non può diventare una realtà senza
essere stato sostenuto e riconosciuto: la quantità di falsità del Sé dà la misura di quanto il gesto spontaneo, che è
l'originario “vero Sé in azione” del bambino, sia stato sostenuto e riconosciuto nella sua specificità e abbia avuto la
possibilità di essere (vivere autenticamente) piuttosto che di reagire (vivere nascosto sotto il manto della compiacenza
del falso Sé). Questo “esistere anziché reagire” è il tratto definitivo essenziale che caratterizza la differenza tra il vero e
il falso Sé. Grazie alle cure che riceve dalla madre ogni infante è in grado di avere un'esperienza personale, e comincia
così a costruirsi quella che si può chiamare una continuità dell'essere. Se le cure materne non sono abbastanza buone,
l'infante non comincia ad esistere realmente (non c'è una continuità dell'essere) e la sua personalità si struttura sulla
base di reazioni agli urti dell'ambiente. L'inautenticità è una condizione nella quale la mente guarda il mondo attraverso
schemi che intrappolano la vitalità e in cui non solo ci si perde ma si dimentica anche di essersi persi. Quel che si può
ulteriormente sviluppare a partire dagli scritti di Winnicott è un'attenzione (e approfondimento) della reciprocità di tale
riconoscimento, sempre presente anche se, nelle fasi originarie dello sviluppo, in modo marcatamente sbilanciato. Noi
godiamo delle infinite benedizioni che i nostri figli ci danno spontaneamente, semplicemente con il loro essere
(everyday blessing). La riflessione winnicottiana sul “riconoscimento dell'altro come oggetto reale”, anche se non
ancora pienamente intersoggettiva, può essere considerata come l'architrave che sorregge, unisce e denota le diverse
teorie interpersonali delle relazioni oggettuali, intersoggettive, diadico sistemiche. Il punto centrale della prospettiva
intersoggettiva è riconoscere l'altro come outside subjet, cioè come oggetto reale, fuori dal controllo onnipotente del
soggetto e dunque come un altro soggetto. Questo è il common point di teorie non certamente sovrapponibili ma di fatto
unite da una specifica condivisione sull'importanza centrale del riconoscimento dell'altro. Acquisire una prospettiva
intersoggettiva significa porre un'attenzione privilegiata alle vicissitudini delle relazioni e quindi al passaggio tra
l'essere un “oggetto di amore” al divenire un “soggetto d'amore”.

4. DISCONOSCIMENTI E DISSINTONIE

Un modo nuovo di guardare le cose

La sequenza che genera disagio inizia con un mancato riconoscimento a cui segue il senso di vuoto: si stabilisce a
questo punto un circolo vizioso, poiché se io sono vuoto, l'altro avrà sempre più difficoltà a riconoscermi perchè non si
può vedere quello che non c'è. Il bambino, con il suo comportamento, stimola l'ambiente e soprattutto la madre a
rispondergli con certe reazioni. Il riecheggiamento e il feedback (meccanismi così definiti da Balint) possono essere
descritti come il contributo che la madre offre agli stimoli e alle reazioni che partono da lei. Il bambino arriva così a
conoscere com'è sulla base dell'esperienza di un'altra figura. Non c'è alcuna possibilità di sviluppare un Sé sano quando
non si verifica un feedback adeguato a intervalli accettabili. Questa descrizione coglie alcuni elementi cruciali:
1) la circolarità dell'interazione (il bambino interagisce con l'ambiente che interagisce con lui);
2) la possibilità che da tale interazione, sempre presente, si determinino circoli virtuosi (=sviluppo sano) oppure
circoli viziosi (= disagio della mente);
3) gli eventi potenzialmente di sviluppo o psicopatogenetici sono micro eventi;
4) tali eventi devono comunque ripetersi più e più volte “ad intervalli accettabili” per determinare l'innesco dei
feedback positivi o negativi che siano;
5) il riconoscimento è il fattore determinante per lo sviluppo sano;
6) l'esperienza del riconoscimento o del disconoscimento avviene sempre in una situazione di contemporanea
reciprocità (io sono riconosciuto, o disconosciuto, solo da chi io riconosco come colui che mi può riconoscere;
se chi io riconosco e mi può riconoscere non svolge questa funzione allora io non mi conosco, non so chi sono
e cosa provo, non acquisto competenza delle mie emozioni e delle mie sensazioni corporee)
Al di là del campo dell'infant research, questa è una delle pochissime descrizioni che si trovano in letteratura
psicoanalitica a proposito di un paradigma interpretativo dello sviluppo normale e patologico che negli anno '60 era
decisamente innovativo: analoghi radicali mutamenti teorici e clinici possono essere ritrovate, esemplarmente elaborate,
solo negli scritti di Erik Erikson e in quelli di Donald Winnicott. Secondo Erikson “ad ogni passo del suo sviluppo
individuale”, ogni uomo è esposto al rischio di sentirsi sradicato prima di tutto interiormente. Tale sradicamento
originario sarebbe dovuto alla non stabilità dell'incontro con un volto familiare, “asilo originario della sua fiducia di

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base”. Nell'uomo tutto si esprime in un incontro altamente individualizzato di occhi, di volti, di menti. Ciò non solo
segna l'inizio di ogni individualità ma resta anche lo scopo ultimo a cui tendono i desideri dell'uomo. Ma lungo la strada
accidentata che tende a questa meta è inevitabile imbattersi, a più riprese, in occasioni nelle quali l'uomo sente né di
conoscere né di essere conosciuto, né di avere un volto né di riconoscerne alcuno: ecco il primo sradicamento. Si tratta
di un processo basato su un'elevata capacità cognitiva ed emozionale di lasciarsi identificare come individuo circoscritto
in rapporto ad un universo prevedibile. Anche gli studi etologici possono gettare nuova luce sul potere identificante
degli occhi e del volto che per primi ci hanno riconosciuti. Durante gli anni della crescita e quelli ancora successivi, la
società inserirà l'individuo in ambiti e funzioni assegnandoli ruoli e compiti in cui egli può riconoscersi ed essere
riconosciuto. Erikson caratterizza la persona che si prende cura del bambino nei termini tradizionali di “oggetto d'amore
originario” aggiungendo ulteriormente come il tratto saliente e centrale per promuovere i processi di sviluppo sia che il
volto di tale persona sia capace di riconoscere e di essere riconosciuto. Le prime “risposte” di un bambino al proprio
genitore possono essere meglio comprese se considerate parte di una complessa interazione “composta da molti
elementi particolari di reciproca stimolazione e risposta. All'interno dell'orientamento psicodinamico che postula la
centralità delle relazioni, il modello diadico-sistemico non solo stabilisce che esse si dispiegano fin dai primi momenti
di vita del bambino, ma anche la reciproca bidirezionalità delle relazioni e conseguentemente la coerente individuazione
di specifici fattori eziopatogenetici (quelli della dissintonia). Il riconoscimento reciproco consente la sintonia della
relazione, mentre il disconoscimento conduce alla dissintonia diadica.

Eventi e circostanze psicopatogenetiche nella prospettiva dei sistemi viventi.

Questo modello considera la presenza di un flusso continuo di reciproche influenze interattive tra elementi del
sottosistema individuo e del sottosistema ambiente ed è dunque in questi scambi dinamici che vanno rintracciati gli
eventuali fattori eziopatogenetici. Il determinarsi e il mantenersi nel tempo di particolari caratteristiche negative
conduce al dispiegarsi di una situazione dinamica psicopatogenetica alla quale va imputato l'emergere della
compromissione della regolazione delle emozioni. Fattori eziologici in una prospettiva diadico-sistemica sono
circostanze (relazionali) caratterizzate da disregolazione di funzioni che condurrà successivamente a disregolazione
delle relazioni.

EVENTI E CIRCOSTANZE EVOLUTIVE NEGATIVE


(che conducono a innescare sequenze dinamiche psicopatogene)
DISSINTONIA DIADICA La sintonizzazione degli affetti consiste nell'esecuzione di
comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso
senza tuttavia imitarne l'esatta espressione comportamentale (uso in
senso strettamente sterniano del termine). Shore individua nel dyadic
misattunement l'evento di vita che, se significativo per qualità e se
ripetuto nel tempo, può far deviare verso la patologia lo sviluppo
normale. Il lavoro di Shore si è particolarmente orientato nel ritenere
come essenziale per lo sviluppo normale dell'individuo la sua
capacità di “cope with the stress” e di regolare le emozioni,
correlandola alla maturazione di un sistema di controllo dello stress
che Shore indica come brain stress coping system (BMCS), il cui
sviluppo è esperienza dipendente, in particolare dalla qualità di
attaccamento. Le relazioni di attaccamento si differenziano dall'essere
caratterizzate da differenti gradi di sintonia affettiva: il genitore
regola interattivamente gli stati positivi e negativi del bambino
costruendo assieme a lui le condizioni ambientali facilitanti o
impedenti la maturazione del BMCS, la cui funzionalità è cruciale
per consentire al bambino di espandere la capacità di regolare in
modo flessibile gli stati emotivi stressanti. La dissintonia diadica
conduce quindi a uno stato emotivo stressante prototipico, capace di
alterare la crescita emozionale di un bambino in modi diversi. Lo
sviluppo può essere studiato anche dalla flessibilità delle
modificazioni del bilancio tra modalità di regolazione esterna ed
interna: le situazioni patologiche sono caratterizzate ai loro estremi,
da una dipendenza dall'altro o la ricerca di assoluta indipendenza,
mentre è la flessibilità tra le due che caratterizza lo sviluppo normale.
Perchè tale passaggio flessibile avvenga è necessario che il bambino
abbia fatto l'esperienza di potersi fidare delle sue proprie capacità di
autoregolazione, sulla attendibilità delle proprie capacità di sentire

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che si sono formate nella relazione con il caregiver, considerato a sua
volta affidabile nelle capacità di sintonia. Quando questo non avviene
in modo adeguato per qualità e quantità, si determina una ricaduta
negativa sull'autostima e il sense of agency (essere l'agente promotore
di un'azione). Sintonia diadica e asintonia costituiscono due polarità
di un continuum all'interno del quale si dispongono i differenti gradi
di dissintonia (misattunement). Al cuore di tutte le non sintonie sta
comunque sempre un inadeguato riconoscimento della specificità
della persona, dei suoi affetti vitali, delle sue emozioni e sensazioni
corporee. Tali inadeguatezze possono arrivare a costituire un
disconoscimento, responsabile di determinare non solo esperienze
negative ma veri e propri traumi. Questo modello reputa la
dissintonia come lo stato emotivo stressante prototipico. Possono
essere individuate come esperienze stressanti di diversa e pur
egualmente estrema gravità gli stati di:
1) abnorme allerta (eccesso di stimolazione di un genitore che, lungi
dal tranquillizzare il figlio, gli determina o gli aumenta l'ansietà)
2) trascuratezza (carenze di stimolazione)
3) traumatizzazione (stimolazioni traumatiche)
Shore utilizza la definizione di “trauma relazionale” anche per
evidenziare le negative, drammatiche conseguenze sulle relazioni
successive che si determinano quando una relazione di attaccamento
non solo non emana sicurezza ma addirittura pericolo. Anche Sroufe
utilizza per indicare un genitore che promuove lo sviluppo gli
aggettivi “vigile”, “responsivo” e “sintonizzato”. Pertanto si può
sostenere una teoria della genesi della psicopatologia sia per quanto
riguarda le forme più gravi, sia per una generale difficoltà nella
gestione dello stress, che occorre in altri tipi di disturbi quali quelli
delle relazioni e le nevrosi, basata sulla dissintonia diadica. La
sequenza psicopatogena inizia con:
1) dissintonia diadica (in termini di contenuti e/o carente
quantitativamente)
2) carenza di esperienze relazionali emotivamente adeguate o
esperienze francamente negative o addirittura traumatiche;
3) alterazioni nella regolazione del contesto interpersonale
interattivo con prevalenza autoregolatoria o eteroregolatoria rigida
rispetto all'affidare flessibilmente la regolazione a negoziazioni da
stabilire volta per volta in base al contesto interattivo;
4) interessamento della “zona dove la psichiatria incontra la
neurologia” (sistema limbico) con alterazioni citochimiche e
neuroanatomiche;
5) progressiva riduzione di funzionalità del BMCS;
6) incapacità a gestire lo stress per “incompetenza emotiva”;
7) riduzione dell'apertura al “nuovo”;
8) tendenza a una generale rigidità di funzionamento.
Secondo questo modello, dunque, l'espressione di Winnicott “cure
sufficientemente buone” va intesa come sostenuta da “sintonizzazioni
sufficientemente adeguate per qualità, sufficientemente prolungate
nel tempo ed effettuate al momento adeguato”. Senza questi
attunements una persona non arriva a conoscersi, quindi piuttosto che
agire, modulandosi sul Sé in interazione, si comporta reagendo,
modulandosi sull'altro.
RISPECCHIAMENTO TRAUMATICO Fonagy postula che il meccanismo sotteso all'importanza
tradizionalmente attribuita alle relazioni originarie non sarebbe più da
rintracciare nel determinare la forma delle relazioni successive,
quanto piuttosto nello sviluppare un efficace information processing
control system, un sistema regolatorio (IIM), che rappresenterebbe la
più importante ricaduta evolutiva svolta dalle relazioni con il
caregiver. La sicurezza o l'insicurezza o la disorganizzazione

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dell'attaccamento non veicolerebbero tanto IWM (modello operativo
interno) sicuri, insicuri o disorganizzati ma IIM efficaci, poco efficaci
e per niente efficaci. L'IIM rappresenterebbe un meccanismo, più o
meno funzionante, di elaborazione di nuove espereinze. Le tre
componenti dell'IIM riguardano le funzioni di regolazione dello
stress, dell'attenzione focalizzata e del funzionamento riflessivo.
Queste specifiche capacità concorrono a determinare la generale
capacità dell'individuo di autoregolarsi e di interagire in modo
collaborativo con gli altri. Fonagy si propone di comprendere i
fenomeni di rispecchiamento ricorrendo all'ipotesi che esso sarebbe
sostenuto dal determinarsi di un social bio-feedback training, che
costituirebbe per il bambino un'esperienza di apprendimento cruciale
per lo sviluppo, in quanto l'adeguata maturazione delle capacità
psicologiche dipenderebbero proprio dalla particolare qualità di tale
mirroring genitoriale.
AMBIENTE INVALIDANTE Con il termine “invalidante”, Marsha Lineahan indica un insieme di
particolarità ambientali negative, responsabili di generare e
esasperare la vulnerabilità emozionale nonché le difficoltà nella
regolazione delle emozioni. Una caratteristica che definisce
l'ambiente invalidante è la tendenza della famiglia a rispondere in
modo vago e inappropriato alle esperienze soggettive e, in
particolare, ad essere insensibile ad avvenimenti soggettivi che non
hanno riscontro pubblico. L'ampiezza e la frequenza di discrepanze
tra l'esperienza privata di un bambino e la ricezione del genitore,
nonché le conseguenze affettive e comportamentali sulla diade di
queste discrepanze, sono il terreno di cultura per la formazione nella
mente del bambino di schemi che verranno poi esportati in altri
contesti relazionali. Gli ambienti invalidanti contribuiscono alla
mancata regolazione delle emozioni non insegnando al bambino:
1) a distinguere e modulare l'attivazione emotiva;
2) a tollerare il disagio;
3)a confidare nella propria risposta emozionale come valida
interpretazione degli eventi;
4) insegnando attivamente ad invalidare la propria esperienza
rendendo necessaria una continua ricerca a livello ambientale di
indizi su come comportarsi e cosa provare.
L'evoluzione della specie ha selettivamente equipaggiato gli umani
con le emozioni, come indicatori in grado di guidare efficacemente il
comportamento. Compito del singolo genitore è quello di far
acquisire al suo bambino la competenza emotiva, cioè di sviluppare
la competenza delle proprie emozioni. In assenza della capacità di
riconoscere le indicazioni interne, provenienti dalle emozioni, un
bambino prima e un adulto poi, cercheranno all'esterno delle
indicazioni su come comportarsi. Secondo Linehan, quel che sottende
all'invalidazione dell'esperienza soggettiva da parte di un ambiente è
una poorness of fit, un cattivo adattamento tra bambino e genitore
(Thomas & Chess; Goodness of fit: si produce quando le
caratteristiche, le aspettative e le richieste dell'ambiente in cui il
bambino vive sono conformi e corrispondenti alle sue qualità, alle
sue capacità e al suo stile comportamentale). Il poorness of fit si
produce quando esistono discrepanze tra le condizioni e le richieste
ambientali, da una parte, e le capacità e le caratteristiche del
bambino, dall'altra; in queste condizioni egli svilupperà pattern
comportamentali disadattivi. Anche il genitore ha bisogno di essere
riconosciuto dal bambino: senza questa reciproca funzione del figlio
potrà espletare con minore efficacia la sua funzione nei confronti del
bisogno del figlio. Gli eventi e le circostanze evolutive coinvolti in
uno sviluppo patologico sono sottesi da una carente sintonizzazione,
a sua volta riconducibile a un inadeguato riconoscimento reciproco.

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L'esperienza del disconoscimento sembra dunque poter essere
individuata come l'antecedente comune a diverse circostanze
psicopatogene.

Riconoscimento

“Esse est percipi”

“Essere è essere percepito” è l'espressione classica del cosiddetto “idealismo soggettivo” postulato da George Berkley:
solo quel che viene percepito dalla mente esiste, proprio in quanto viene percepito. Per Berkley non esistono le cose,
ma solo menti e idee: l'esistenza delle cose è subordinata al loro essere percepite. Probabilmente esiste un'età della vita,
quella della prima infanzia, in cui non possiamo non dirci seguaci di questa dottrina immaterialista che ci induce da
bambini a ritenere, per necessità e sia pur inconsciamente, che possiamo esistere solo in quanto c'è una persona che noi
riconosciamo essere quella che può riconoscere la nostra identità, il nostro vero Sé. Quel che si intende mettere in
evidenza è la coincidenza di differenti prospettive psicologiche a proposito della affermazione che la bipartizione
esperenziale originaria è quella tra “essere ignorati o essere riconosciuti”.

Riconoscimento vs. ri-conoscimento

Riconoscimento non è un ri-conoscimento nel senso di conoscere di nuovo: è piuttosto un prendere atto di un certo
oggetto o evento come occupante un posto determinato in una situazione. E' quindi assimilabile, al “riconoscere una
specifica identità”. In questo senso si propone di considerare lo svolgimento del processo di riconoscimento come il
fattore chiave sia dello sviluppo normale sia delle trasformazioni in corso di cure psicoanalitiche e il fallimento di tale
svolgimento, che conduce a esperienze di disconoscimento, come prodromo di derive psicopatologiche.

La percezione

Il livello di partenza del processo conoscitivo di riconoscimento va assegnato alla percezione. Gli studi di fisiologia
della percezione sono orientati a comprendere come il cervello, grazie alla partecipazione collettiva e istantanea di
milioni di neuroni, riesca a combinare “le percezioni sensoriali con l'esperienza passata e con le aspettative per
identificare sia lo stimolo sia il particolare significato che esso ha per l'individuo”. Una dinamica generale delle
percezioni configura un cervello che cerca l'informazione orientando un individuo a guardare e gustare, ad ascoltare e
annusare, a “sentire” con tutti i suoi sensi. Tale ricerca è il prodotto di un'attività cerebrale autonoma, che si svolge
eminentemente nel sistema limbico (parte del cervello che si ritiene sia interessata agli stati emotivi e alla memoria).
Quando l'ordine di ricerca delle informazioni viene trasmesso dal centro alla periferia, il sistema limbico emette anche
un cosiddetto “messaggio di riafferenza”, che mette in stato di allerta tutti i sistemi sensoriali affinchè si preparino a
rispondere alla nuova informazione. L'atto della percezione non è semplicemente la riproduzione di uno stimolo in
arrivo ma un passo nel cammino che il cervello percorre per accrescersi, organizzarsi e prendere contatto con
l'ambiente, che poi modifica a proprio vantaggio. La peculiarità della percezione in un contesto normale di relazionalità
è quella di essere contraddistinta dal riconoscere “qualcuno” che ci riconosce.

I processi di riconoscimento

Louis Sander sostiene che i processi di riconoscimento, ponte tra i processi biologici e quelli evolutivi, consistono
essenzialmente in una sequenza di negoziazione sulla qualità delle connessioni delle interazioni e costituiscono
l'elemento che promuove la progressione sia dei processi di sviluppo naturali sia dei processi di sviluppo terapeutici.
Egli ritiene che l'individualità emerga e si mantenga, all'interno di un sistema evolutivo nel quale vi è una
complementarietà specifica e sincronizzata tra gli stati interni del bambino e la capacità di riconoscerli da parte di chi si
prende cura di lui. Su questo punto gli studi sull'intenzionalità e sull'interpersonalità si incrociano con quelli sul
riconoscimento. La sfida di compiere lo studio su come avvengono i processi di riconoscimento in campi differenti
potrebbe contribuire a far ulteriore luce sui meccanismi comuni alle diverse estrinsecazioni del medesimo processo.
Presente originariamente e in tutte le fasi della vita, il bisogno di riconoscimento è un “bisogno umano vitale” e
rappresenta un elemento costituente di quel complesso, insediato centralmente nel cuore dell'esperienza umana,
definibile come processo di riconoscimento (insieme di una complessa integrazione di “momenti cognitivi” con
“elementi affettivi” che costruisce il decisivo passaggio per la formazione dell'identità, per il prosperare del Sé e per il
dispiegarsi della sicurezza emotiva nell'esprimere bisogni e sentimenti propri). Anche all'esterno dell'orientamento
psicodinamico si possono trovare ulteriori conferme della fondamentale importanza di questo tipo di interazione: basti
pensare alla Social Learning Theory messa a punto da Bandura, e da lui successivamente rivisitata e conseguentemente

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rinominata Social Cognitive Theory. Superando le ristrettezze dei modelli comportamentali, questo modello guarda
all'ambiente come fornitore di responsività agli obiettivi ed ai bisogni del bambino. L'abilità di regolare le emozioni si
sviluppa progressivamente in un processo di apprendimento mediante il quale i bambini arrivano ad identificare
specifici feelings con specifiche espressioni e definizioni verbali. I bambini hanno feelings che non sanno capire o che
non sanno riconoscere. Attraverso un processo di parental labeling (definizione da parte dei genitori), i bambini
imparano a costruire il significato sociale delle loro emozioni. Pertanto si può definire processo di riconoscimento
quella complessa interazione tra due persone, sostenuta da reciprocità di stimoli e di risposte, della quale si può dare
una schematica descrizione come di una successione temporale di differenti, singoli “elementi”, ognuno dei quali
caratterizzante, come componente, la globalità del processo stesso:
1) insorgenza del bisogno di riconoscimento da parte di un soggetto;
2) comportamento da parte dell' “altro riconosciuto come significativo” rispetto al fine di espletare, o no, la
funzione di riconoscimento di tale bisogno;
3) esperienza di riconoscimento, la cui qualità può variare in dipendenza da quanto sia stata adeguatamente, o
meno, espletata la funzione di riconoscimento;
4) successive modalità di relazionarsi del soggetto con se stesso e con gli altri, da intendersi come conseguenze
delle modalità con cui la funzione di riconoscimento è stata messa in atto da parte dell' “altro riconosciuto
come significativo”
Il processo di riconoscimento potrebbe essere considerato una differenziazione della capacità di “dare significato”
altamente specializzata. La tesi che si intende sostenere è quella di attribuire alla funzione di riconoscimento un ruolo
centrale nei processi evolutivi, psicopatologici e terapeutici arrivando in tal modo ad affrontare adeguatamente attrezzati
da un punto di vista psicodinamico, lo studio dello sviluppo, normale e patologico, nonché della tecnica della terapia
psicoanalitica. Senza “attività” e “reciprocità” le capacità della funzione sarebbero annullate.

Lo studio dei processi di riconoscimento come elemento chiave per la comprensione dello sviluppo naturale e di quello
terapeutico

Sono ormai numerosissimi gli studi che testimoniano come tra un bambino e chi si prende cura di lui in modo
significativo si instauri, fin dai primi momenti, un tipo di interazione interpersonale quasi dialogica, in cui il bambino
rivela una grande sensibilità alle espressioni verbali e non, e alle intenzioni a lui rivolte. L'emergenza della
rappresentazione di Sé è resa possibile da interazioni interpersonali ove le esperienze di riconoscimento (sempre
presenti in ogni interazione) siano di qualità tale da costruire quelle potenti impressioni in grado di strutturare l'identità
delle persone coinvolte. L'esperienza di riconoscimento deve avvenire con un altro significativo e all'interno di un
legame di attaccamento (la significatività dell'altro è data proprio dal costituirsi come oggetto ricercato per un legame di
attaccamento). L'interazione tra bambino e caregiver rappresenta il prototipo delle relazioni di riconoscimento: il
bambino esprime nel mondo esterno delle intenzionalità che lo caratterizzano come persona ma, al contempo, cerca
nell'ambiente delle informazioni rispetto alle possibilità di instaurare un legame di attaccamento quanto più sicuro, in
quanto indispensabile prerequisito per la sopravvivenza. Il processo di riconoscimento delle intenzioni del bambino
avviene sulla base di inferenze compiute dal genitore: tali interpretazioni possono essere accurate conducendo in tal
modo il bambino a un realistico riconoscimento della propria intenzionalità, oppure potrebbero essere errate (per
svariati motivi) introducendo della confusione nella sua modalità di percepire se stesso. La più attuale psicologia dello
sviluppo individua nelle attività determinate dalla spontanea tendenza a iniziare delle azioni, quelle che sono
maggiormente responsabili nell'innescare circoli virtuosi o viziosi tra espressione del bambino, riconoscimento da parte
del genitore, nuove espressioni del bambino. In tale modello a feedback, i processi di riconoscimento da parte
dell'adulto si rivolgono non solo verso le espressioni di intenzionalità dal bambino, ma anche verso le sue emozioni e le
espressioni della percezione del processo di riconoscimento stesso. La relazione con un altro significativo è dunque il
luogo dove avvengono quelle specifiche “interazioni di riconoscimento” che sostengono i processi di costituzione
dell'identità, sostenuta originariamente sull'adeguatezza del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni, intese
come prime manifestazioni dell'identità del Sé. Tale senso di identità è fin dall'inizio interpersonale: contiene non tanto
la consapevolezza della propria persona come entità separata, ma come “persona in relazione a un'altra persona”. I
processi di riconoscimento, che avvengono all'interno delle relazioni di attaccamento, conducono infatti a definire delle
linee guida di comportamento nelle relazioni interpersonali. Il tentativo di studiare l'esperienza del riconoscimento, da
considerare come un bisogno umano fondamentale, si incrocia con la necessità di attaccamento, gerarchicamente
primaria (Bowlby). Le relazioni considerate sicure sono quelle in cui il bisogno di riconoscimento è stato soddisfatto
dalla funzione di riconoscimento, espletata dall'altro significativo. La non soddisfazione di tale bisogno introduce nella
relazione una atmosfera di insicurezza, per la discrepanza tra interiorità ed esteriorità, che intaccherà il senso di sé come
centro di iniziative autonome. Per far sintonizzare l'ambiente esterno con l'esperienza interna, il bambino, che non vuole
inizialmente rinunciare né al riconoscimento né all'attaccamento, può manifestare il proprio dissenso, rispetto al
mancato o erroneo riconoscimento, con differenti strategie comportamentali di “negoziazione”, i cui margini
discrezionali costituiranno il prototipo della rappresentazione che il bambino avrà di sé in termini di capacità di
interferire con gli eventi del mondo nonché della correlata disponibilità dell'ambiente a essere modificato dal bambino

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stesso. Non sono possibili infiniti ed equivalenti riconoscimenti ma possono determinarsi differenti gradi di
distanziamento dall'adeguatezza nell'espletamento di tale funzione e quindi della conseguente soddisfazione del
bisogno. Se il grado di distanza, rispetto a un riconoscimento abbastanza buono è, e si mantiene, elevato, tali negoziati
risultano fallimentari, per la scarsa disponibilità recettiva verso essi da parte dell'ambiente esterno, i comportamenti del
bambino possono assumere toni di protesta fino a giungere a espressioni di manifesta aggressività. Tali modalità di
indurre l'altro a modificare, o ad attuare, il riconoscimento, possono essere rischiose rispetto al mantenimento del
legame, così che una delle strategie più diffuse è quella di adattare il proprio giudizio rispetto all'esperienza non
riconosciuta, di “modificarne il nome” per farlo quanto più coincidente con quello attribuito dall'altro.

Ipotesi neurofisiologiche sulle capacità di riconoscimento

Le ricerche sullo sviluppo normale e patologico consentono a Sandler di assegnare alla funzione di riconoscimento
(attiva e bidirezionale) un ruolo centrale nei processi evolutivi, psicopatologici e terapeutici in quanto costituisce il
ponte tra i processi biologici e quelli relazionali. Restano però da approfondire le basi neuronali che sottendono
all'esplicarsi della capacità di svolgere tale funzione. Gli studi di Vittorio Gallese hanno portato a individuare una
popolazione di neuroni, definiti “neuroni a specchio”, che consentirebbero quella particolare esperienza (“simulazione
incarnata”) mediante la quale l'attribuzione di intenzioni, l'empatia e l'imitazione avrebbero grazie all'attivazione
“automatica, preriflessiva e inconscia” di tale sistema. La spiegazione dell'imitare non richiederebbe, pertanto,
necessariamente di implicare l'uso di alcuna “teoria della mente” o rappresentazione simbolica, ma potrebbe essere
compresa ricorrendo esclusivamente all'ipotesi di attivazione automatica di questi neuroni di fronte all'osservazione di
azioni. Quella individuata da Gallese sembra dunque essere la base neuronale comune sottesa a vari tipi di interazione
sociale, da quelle connesse alla capacità più elementari fino a quelle maggiormente sofisticate, che rendono possibile i
diversi gradi di riconoscimento degli altri umani come nostri simili. Perchè i neuroni mirror siano attivati durante
l'osservazione di un'azione, questa deve consistere nell'interazione tra la mano di un agente e un oggetto: inefficace è
l'osservazione d'azioni eseguite mediante l'impiego di utensili (vedi esperimento con bambino e robot).

Conseguenze del disconoscimento

In questa prospettiva, la psicopatologia non viene più ad essere intesa né secondo il modello del trauma (originaria
impostazione freudiana), né secondo il modello del conflitto (successive e classiche formulazioni freudiane) e neppure
secondo il modello della carenza (modelli proposti dai teorici delle relazioni oggettuali e della psicologia del Sé). Non si
tratta di escludere questi modelli ma è comunque conveniente poter disporre di un ulteriore modello, quello della
dissintonia, basata sul mancato riconoscimento da parte del caregiver, nei confronti di una particolare condizione,
fisica e/o patologica, cognitiva e/o affettiva, riguardante il bambino stesso. Un riconoscimento non è in alcun modo
sintomo di rispecchiamento. Una sistematizzazione di tutto quanto detto conduce dunque a formulare una precisa
sequenza psicopatogena di come si ammala la mente e quindi di come si determinano i disturbi delle relazioni:
1) alterazioni dei processi di riconoscimento interpersonale;
2) alterazioni di sintonia diadica, di validazione ambientale, di “fitting” relazionali, fino a veri e propri traumi
relazionali;
3) riduzione (fino alla scomparsa) della capacità di conoscere le proprie emozioni;
4) disarmonie della coordinazione relazione (carenza del meeting-in-time che determinano sia alterazioni della
sicurezza dell'attaccamento, sia sviluppo di uno schema); le alterazioni della sicurezza dell'attaccamento
conducono a:
5) alterazioni di funzioni (dei sistemi di controllo cerebrale e dell'IIM); lo sviluppo di uno schema (epistemologia
del mondo interpersonale) conduce ad una:
6) riduzione della pienezza esperenziale e di conseguenza causa alterazioni relazionali.

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IL MODELLO RELAZIONALE.
DALL'ATTACCAMENTO ALL'INTERSOGGETTIVITA'.

1. UNA GERARCHIA INTERAZIONALE

Le caratteristiche della mente umana condivise dalle teorie relazionali sono:


a) le menti umane sono fenomeni interattivi;
b) una mente umana è un ossimoro;
c) la soggettività si sviluppa sempre nel contesto dell'intersoggettività;
d) di continuo processiamo e organizziamo in pattern ricorrenti l'enorme complessità di noi stessi e del nostro mondo.
Dire che una “mente individuale” è un ossimoro significa che nessuna mente individuale umana può sorgere sui generis
e sostenersi in modo del tutto indipendente dalle altre menti. Ciò non smentisce il fatto che le menti individuali vengano
alla luce da e per mezzo dell'interiorizzazione di campi interpersonali e che sviluppino proprietà emergenti e motivi
propri. All'inizio c'è la matrice relazionale, sociale e linguistica nella quale noi scopriamo noi stessi e nella quale siamo
formati, precipitati, come psiche individuali con spazi interiori di cui facciamo esperienza a livello soggettivo. Questi
spazi soggettivi iniziano come microcosmi del campo relazionale nei quali le relazioni interpersonali macrocosmiche
sono interiorizzate e trasformate in un'esperienza eminentemente personale che sono, a loro volta, regolate e trasformate
generando nuovamente delle proprietà emergenti, che a loro volta creano nuove forme interpersonali che poi alterano i
pattern macrocosmici di interazione. I processi relazionali interpersonali generano processi relazionali intrapsichici che
riplasmano processi interpersonali che riplasmano poi quelli intrapsichici più e più volte. C'è un ulteriore concetto,
estremamente importante e provocatorio: le nostre menti organizzano le nostre esperienze secondo principi diversi e
strutture di organizzazioni mutevoli. Gli schemi organizzativi emergono in modo sequenziale nel corso dello sviluppo,
ma nell'esperienza adulta operano in modo simultaneo su un continuum che va dalla coscienza all'incoscienza. Mitchell
presenta quattro modi (o categorie) diversi per inquadrare e comparare prospettive diverse sulla (e resoconti diversi
della) relazionalità. Il modo 1 riguarda quello che le persone realmente fanno l'una all'altra (comportamento non-
riflessivo, pre-simbolico, i modi in cui i campi relazionali sono organizzati attorno all'influenza reciproca e alla
regolazione reciproca); il modo 2 che è un'esperienza condivisa di affetti intensi che attraversano confini permeabili; il
modo 3 che è un'esperienza organizzata in configurazioni sé-altro; il modo 4 che è l'intersoggettività, il riconoscimento
reciproco di persone che agiscono in modo autoriflessivo. Diversi autori tendono a dare più importanza e a collocare il
loro centro di gravità concettuale sull'una o l'altra dimensione. Mitchell spera di dimostrare che il progetto di
giustapporre diverse dimensioni relazionali in una gerarchia di pattern organizzativi sempre più sofisticati è utile per
una sintesi critica dei concetti relazionali, per riflettere a fondo sulle implicazioni cliniche dell'interazione nella
situazione analitica e per esplorare alcune delle scelte che i clinici compiono ogni giorno rispetto a cosa dire o non dire
di quello che provano o fanno.

MODO 1: COMPORTAMENTO NON-RIFLESSIVO

Le persone che si relazionano tra loro in modo ricorrente co-costruiscono pattern comportamentali di interazione che
implicano un'influenza reciproca. Sullivan si era interessato molto al fenomeno di cosa fanno realmente le persone l'una
con l'altra, chi fa cosa a chi. Nella metodologia relazionale, le relazioni intime si costruiscono in una complessa
coreografia di comportamenti nella quale i partecipanti si mandano segnali e si rispondono in modo ciclico. Sebbene si
focalizzino sul comportamento, gli autori che esplorano questo tipo di approccio non sono affatto “comportamentisti”,
ma tendono a considerare una strada promettente, quella connessa a un esame attento di ciò che le persone realmente
fanno l'una all'altra. Questo modo di interazione è stato dimostrato con assoluta chiarezza dagli infant researchers
contemporanei, che hanno indicato il modo complesso in cui la madre e il bambino si mandano messaggi per mezzo di
comportamenti e gesti. I pattern di influenza reciproca sono in genere preconsci (al di fuori della consapevolezza, ma
passibili di conoscenza) o inconsci (al di fuori della consapevolezza). Questa organizzazione è stata in genere
caratterizzata come presimbolica o preriflessiva poiché le azioni e le interazioni funzionano senza una
concettualizzazione organizzata del sé e dell'altro. A questo livello le azioni di ogni partecipante si sono sviluppate, per
mezzo di microadattamenti, in modo complementare rispetto a quelle dell'altro. La ricchezza dei recenti approcci dei
sistemi dinamici deriva dal fatto che essi esplorano la dialettica tra complessità e unità, differenze e continuità,
cambiamento e ripetizione. In ogni sistema dinamico (diade madre-bambino; analista-analizzando) c'è una continua
ripetizione del patterning e un continuo cambiamento. Le interpretazioni analitiche spesso riflettono un riduzionismo
che semplifica le complesse tessiture dell'esperienza per sottolineare il carattere coattivo della coalizione a ripetere. Gli
approcci sistemici incoraggiano a vedere il patterning ricorrente e allo stesso tempo ad apprezzare le novità e la

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creatività presenti nella ripetizione. Essi forniscono una ricca visione del processo che indebolisce le tendenze che
cercano di ridurre tutte le interazioni affettivamente dense a cause singolari.

MODO 2: PERMEABILITA' AFFETTIVA

Gli affetti sono contagiosi e, al livello più profondo, gli stati affettivi sono spesso transpersonali. Gli affetti intensi
tendono a generare affetti corrispondenti nelle altre persone. All'inizio della vita, e ai livelli inconsci più profondi per
tutta la via, gli affetti sono evocati a livello interpersonale per mezzo di dense risonanze che si generano tra le persone
stesse, senza riguardo per chi, specificatamente, sta sentendo cosa. Questo livello affettivo fondamentale e senza confini
dell'esperienza è stato notato ed esplorato da molti autori analitici di tradizioni diverse. Le esperienze del Modo 2, nel
quale le risonanze affettive dirette emergono in diadi interpersonali, sono state esplorate nella recente letteratura
psicoanalitica sulla interpenetrabilità delle esperienze di transfert-controtransfert. Secondo molti autori, anche gli affetti
dell'analista possono essere una finestra sulle esperienze affettive più profonde e spesso dissociate del paziente.

MODO 3: CONFIGURAZIONE SE' – ALTRO

Le esperienze interpersonali sono organizzate in configurazioni che implicano il sé in relazione con gli altri. A questo
livello simbolico di organizzazione, le interazioni co-costruite sono separate e diversamente aggregate, in modo conscio
o inconscio, a seconda delle persone implicate. La teoria delle relazioni oggettuali interne di Fairbain ha giocato un
ruolo centrale e generativo nel dare il via a questo approccio all'interazione; essa ha introdotto due principi di valore
inestimabile che sono stati poi ampiamente sviluppati nella letteratura recente. Primo, la formazione del sé e quella
dell'altro-oggetto sono inseparabili. Secondo, noi siamo molteplici, non un singolo Sé che combatte contro impulsi
rifiutati, ma organizzazioni del sé discontinue e multiple unite da un senso illusorio di continuità e coerenza che ha
caratteristiche sia consce che inconsce. Nella teoria relazionale contemporanea queste organizzazioni molteplici sono
molto più che rappresentazioni (cognitive) del sé; sono in realtà versioni del sé, unità funzionali complete con un
sistema di credenze, un'organizzazione affettiva, un'intenzionalità agente e una storia evolutiva.

MODO 4: INTERSOGGETTIVITA'

Essere pienamente umano (nella cultura occidentale) significa essere riconosciuto come soggetto da un altro essere
umano. Vi è una tensione profonda e continua tra i nostri sforzi tesi a fare a modo nostro, che sono espressione della
nostra soggettività, e il nostro dipendere da un'altra persona, in quanto soggetto autonomo, che ci garantisce il
riconoscimento di cui abbiamo bisogno. Nel Modo 4 le persone, sia se stessi sia gli altri, diventano agenti più complessi
dotati di un'intenzionalità autoriflessiva e che dipendono da altri agenti per essere complete. Tradizionalmente, la
teorizzazione del processo analitico collocava la relazione analitica in un ruolo minore e sussidiario, o la trascurava del
tutto. Tale relazione non era intesa come esito del coinvolgimento di due persone, ma come un medium nel quale il
contenuto mentale di una persona si dispiegava ed era interpretato da un'altra persona che operava come un funzionario
più o meno generico e oggettivo. Da quando il processo analitico è compreso e rappresentato in modo diverso, alla
relazione analitica tra i due partecipanti è attribuito un ruolo trasformativo fondamentale. I teorici delle relazioni
oggettuali e della psicologia del Sé hanno sostituito metafore psicoanalitiche classiche con metafore post-classiche che
lo assimilano a una presenza materna. Le due influenze dominanti sullo sviluppo della tradizione clinica della
psicoanalisi interpersonale sono state quelle di Harry Stack Sullivan ed Erich Fromm. La tradizione di recente venuta
alla ribalta come Psicoanalisi relazionale riflette una sintesi di queste due diverse correnti in una visione più ampia e
multidimensionale dell'intersoggettività umana. Dalla tradizione interpersonale essa ha preso un'umanità e un'enfasi
preziose sul coinvolgimento personale e l'autenticità, fenomeni che sono stati teorizzati in modo insufficiente e che
mancano sia di un fondamento evolutivo sia di una rigorosa cornice concettuale operativa che ne guidi l'applicazione
costruttiva. Dalle tradizioni delle relazioni oggettuali ha ricavato una prospettiva evolutiva sofisticata e un fondamento
razionale per una disciplina costruttiva, ma ha risentito del fatto che tale tradizione non lascia spazio a forme più attive
di coinvolgimento personale dell'analista. Uno dei contributi più importanti alla teorizzazione delle dimensioni
intersoggettive della relazionalità offerte dal Modo 4, è venuto dalle psicoanaliste femministe relazionalmente orientate:
Jessica Benjamin e Nancy Chodorow. Prima di loro la teorizzazione psicoanalitica tendeva a rappresentare
l'obbiettivo dello sviluppo come il raggiungimento di separazione e autonomia, e la madre (e per analogia, l'analista)
come un oggetto dei bisogni del bambino. Ma le due psicoanaliste hanno dimostrato che una visione più significativa
della salute, tanto per il bambino quanto per il paziente di una psicoanalisi, implica il raggiungimento di un senso di
soggettività e agency nel contesto del riconoscimento da parte di chi, e dell'identificazione e della relazionalità con, una
madre (analista) che è un soggetto autonomo.

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SENTIMENTI “NELL'ARIA”

Le relazioni del paziente con gli altri sono diventate uno dei focus maggiori dell'indagine psicoanalitica. Le relazioni
importanti sono enormemente dense e complesse e hanno molti aspetti diversi che è utile esplorare in molti modi
diversi. La gerarchia interazionale a quattro livelli è utile per classificare alcuni dei fenomeni relazionali che vengono
sottoposti con profitto all'esame analitico (vedi caso di Charles e Sarah).

IL PROFONDO LEGAME TRA AFFETTO E PROCESSO

Fra gli aspetti più spinosi dell'esperienza umana con cui bisogna scendere a compromessi ci sono il nostro profondo
legame con gli altri (campo interpersonale) e il profondo radicamento degli altri nelle nostre menti (mondo interno). A
causa della relazionalità pervasiva delle nostre vite emotive, sulla nostra esperienza affettiva abbiamo un controllo di
gran lunga inferiore a quello che vorremmo. Le nostre emozioni e i nostri comportamenti hanno, in una certa misura,
nelle discontinuità, negli spazi presenti tra se stessi e gli altri, una caotica vita propria. Per la maggior parte della sua
storia, la tecnica psicoanalitica si è basata sulla premessa che la psiche e i processi mentali del paziente potessero essere
“analizzati” indipendentemente dalle loro interazioni con i sentimenti e i comportamenti dell'analista. Si presumeva
infatti che l'analista potesse essere messo a fattore, o tenuto costante, attraverso una tecnica appropriata. Nella cornice
operativa proposta da Mitchell, i concetti tradizionali sono ricontestualizzati come componenti di un campo interattivo
più complesso. Gli affetti non sono sostanze che risiedono nelle nostre menti, ma processi transpersonali e interattivi
organizzati in modo variabile con i comportamenti, le unità esperenziali del sé e dell'altro, e, a livelli di organizzazione
più elevati, sono uniti in un senso soggettivo di agency. La gerarchia interazionale sottolinea la natura bipersonale
complessa e caratterizzata da una trama dell'esperienza emotiva, nella quale sono contemporaneamente presenti molti
elementi. La psicoanalisi clinica contemporanea è diventata un misto di caratteristiche tradizionali e innovative. Si
pensa che l'analista co-crei il processo indipendentemente da quello che cerca di fare e in questo modo si accetta la
presenza di momenti più aperti e meno disciplinati di interazione con il paziente. Nella tecnica tradizionale il rigore
della situazione analitica era mantenuto per mezzo degli sforzi dell'analista tesi a evitare l'interazione; nella tecnica
relazionale contemporanea il rigore è mantenuto tramite la riflessione continua dell'analista sull'interazione, ritenuta
inevitabile e tramite una condotta interattiva finalizzata a massimizzare la ricchezza del processo analitico. Si pensa che
il cambiamento analitico abbia inizio nei cambiamenti del campo interpersonale presente tra l'analista e paziente quando
nuovi pattern relazionali vengono co-creati interattivamente e successivamente interiorizzati, generando così nuove
esperienze sia con gli altri sia in solitudine.

AFFETTO: CONTROLLATO E INCONTROLLATO

Secondo la teoria relazionale attuale, non è possibile che l'analista agisca senza rimettere anche in atto, in un modo o
nell'altro, qualcosa del passato del paziente. Ciò che è cruciale è una continua autoriflessione sulle riverberazioni dense
e molteplici che il passato ha nel presente, e un coinvolgimento in forme di interazione che sembra possano
incrementare al massimo la vitalità in via di sviluppo e il senso di libertà del paziente (vedi caso di Becky).

LE SCELTE DELL'ANALISTA

L'analista si lascia coinvolgere in modo profondamente personale dal paziente e da questo coinvolgimento emergono
nuove comprensioni e nuove esperienze interpersonali e intrapsichiche. Molte sono le cose che l'analista deve prendere
in considerazione per chiarire cosa deve fare in ogni momento del processo analitico. Una delle decisioni più importanti
da prendere riguarda cosa dire di quello che prova e fa. La complessità di questi giudizi è stata a volte trascurata. Non è
necessario stabilire delle linee-guida comportamentali del tipo “interpretare” o “non interpretare”; è invece necessario
sviluppare delle linee-guida concettuali che aiutino i clinici a riflettere accuratamente sulle implicazioni di tutte le scelte
che fanno. L'ampia gamma di concetti relazionali che sono entrati nella letteratura analitica degli anni recenti è molto
promettente, a questo riguardo. Mitchell ritiene importante che si trovino modi per integrare criticamente contributi
diversi così da poterne scoprire le convergenze ed evidenziarne le differenze, sia rispetto alle relazioni umane in
generale sia rispetto alle caratteristiche uniche delle situazioni analitiche particolari.

2. TEORIA DELL'ATTACCAMENTO E RELAZIONALITA'

Sin dalla metà del ventesimo secolo, la psicoanalisi si è impegnata a risolvere i problemi della relazionalità umana. Per
decenni il mainstream psicoanalitico ha considerato gli autori interpersonali assolutamente “non psicoanalisti”.
BOWLBY E LA PSICOANALISI DEL SUO TEMPO

Bowlby considerava i suoi contributi come una sfida diretta ai principi di base della teoria freudiana. Egli si identificava
profondamente in uno scienziato, elaborava ipotesi suscettibili di verifica e i suoi legami con altri scienziati rendevano

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estremamente persuasiva la sua posizione. Per l'establishement psicoanalitico dei suoi tempi, tutto questo era però
semplicemente troppo. Ma c'è stata un'altra questione che ha contribuito a creare l'ampio scisma tra la teoria
dell'attaccamento di Bowlby e la psicoanalisi. Il linguaggio della psicoanalisi è psicodinamico, la cui caratteristica
distintiva è il fatto che si focalizza sull'interiorità e sulla descrizione degli stati soggettivi consci e inconsci. Bowlby
aveva una sensibilità più comportamentale, le cui radici si trovavano nell'etologia, che gli forniva potenti concetti
esplicativi per capire quello che osservava nelle reazioni dei bambini alla separazione e alla perdita. Egli era interessato
a quello che Darwin pensava dell'adattamento degli animali alle condizioni e alle nicchie ambientali (a differenza di
Freud che era interessato a sviluppare le implicazioni sulla psicologia umana della dimostrazione darwiniana della
continuità tra le forme meno evolute e quelle più evolute della vita animale). Bowlby considera Freud un pre-
darwiniano perchè secondo lui Freud non aveva capito l'importanza del principio della “selezione naturale” nella teoria
dell'evoluzione della specie. Bowlby si interessava a quello che gli animali fanno per massimizzare le loro possibilità di
sopravvivenza e Darwin si prestava all'analisi comportamentale di quello che fanno realmente insieme i piccoli degli
animali e le loro madri. Le nozioni chiave che percorrono tutto il suo lavoro sono:
a) il bambino nasce con una predisposizione ad attaccarsi ai suoi caregiver;
b) il bambino organizzerà il suo comportamento e il suo pensiero per mantenere queste relazioni di attaccamento, che
sono fondamentali per la sopravvivenza psicologica e fisica;
c) il bambino spesso manterrà relazioni di questo tipo anche a scapito del proprio funzionamento;
d) le distorsioni nel sentimento e del pensiero che emergono dai primi disturbi dell'attaccamento si verificano più
spesso come risposta all'incapacità dei genitori di appagare i bisogni di conforto, sicurezza e rassicurazione emotiva del
bambino.
Il lato positivo di questa enfasi in gran parte comportamentale è che le sue idee sono state applicate, con straordinaria
efficacia, alla tradizione di ricerca empirica che Mary Ainsworth e Mary Main si sono impegnate a sviluppare. Il lato
negativo dell'enfasi che Bowlby poneva sui comportamenti è lo sviluppo relativamente scarso delle dimensioni
psicodinamiche della sua teoria. La teoria dell'attaccamento è stata applicata in modo più produttivo alla ricerca che non
al lavoro clinico. Il concetto bowlbiano di “modelli operativi” è stato uno sforzo precoce, astratto e poco sviluppato
delle vicissitudini delle esperienze di attaccamento.

BOWLBY E LA PSICOANALISI DI OGGI

La psicoanalisi rifiutata da Bowlby privilegiava la fantasia alla realtà, discendendo dall'abbandono dell'originaria teoria
della seduzione operata da Freud stesso, il quale credeva che gli eventi reali, le seduzioni sessuali infantili, fossero la
causa delle nevrosi. Poi Freud iniziò a pensare che gli abusi reali si verificano e sono importanti solo a volte, mentre il
nucleo delle nevrosi è costituito da fantasie sessuali dell'infanzia. Le fantasie inconsce erano diventate la
preoccupazione centrale della psicoanalisi. Sembra che Bowlby abbia sempre considerato la scelta tra privilegiare gli
“eventi reali” o la “fantasia” come un biforcazione chiave della strada che separa la teoria dell'attaccamento dalla
psicoanalisi. La fantasia per Bowlby era un problema perchè ai suoi tempi, parlare di fantasia, in virtù della connessione
tra questa forma di pensiero e la teoria pulsionale, significava parlare di pattern primitivi distorti che sono imposti alla
vita reale. Egli si era, invece, sempre più convinto del fatto che la vita reale avesse un'influenza determinante sullo
sviluppo. La distinzione tra fantasia e realtà, comunque, nella teorizzazione psicoanalitica attuale non è più così netta.
Alcuni autori psicoanalitici più innovativi non connettono la fantasia alle pulsioni, ma all'immaginazione. La realtà è
incontrata, inevitabilmente, attraverso l'immaginazione e la fantasia. La fantasia e la realtà non sono alternative: esse si
interpenetrano e potenzialmente si arricchiscono a vicenda. I ricercatori e i teorici dell'attaccamento negli ultimi anni
hanno prodotto alcuni dati e concetti notevoli che sono di grande interesse anche per gli psicoanalisti. La costruzione
del setting della “strange situation” di Ainsworth è stato uno degli esempi dell'impatto diretto e fertile dell'immersione
bowlbiana nell'etologia. Recentemente, Main e collaboratori hanno studiato i fenomeni dell'attaccamento nel corso
delle generazioni, esplorando la relazione tra le esperienze di attaccamento precoci di un genitore e lo status
dell'attaccamento del figlio misurato tramite la strange situation. Hanno quindi sviluppato la “Adult Attachment
Interview” per determinare retrospettivamente la natura delle esperienze precoci di attaccamento del genitore, partendo
dal presupposto che quanto migliori sono state queste esperienze, tanto più sicuro è il genitore, tanto più è sicuro
l'attaccamento che il figlio sviluppa nei suoi confronti. Ma i risultati che hanno ottenuto sono stati piuttosto inattesi.
Non è tanto importante il fatto che il genitore sia stato deprivato o allevato bene dai propri genitori, quanto il grado di
coerenza o incoerenza dimostrato in seguito dai suoi ricordi infantili. Ciò che è cruciale non è tanto il contenuto di
quello che è successo, gli eventi o i comportamenti reali, quanto l'organizzazione narrativa per mezzo della quale ha
processato il passato. Le recenti esplorazioni evocative, condotte da Peter Fonagy della “funzione riflessiva” o
“mentalizzazione”, intesa come processo chiave da cui è mediato l'attaccamento sicuro, hanno gettato un altro ponte tra
la tradizione della teoria dell'attaccamento e la teoria evolutiva psicoanalitica. Il punto specifico su cui Main e Fonagy
attirano l'attenzione è la necessità di ascoltare la coerenza, la capacità di riflettere su e di dare un senso alla nostra
esperienza interiore; la necessità di ascoltare anche l'incoerenza, la mancanza di significato, la disorganizzazione e i
momenti in cui non è possibile costruire alcun senso. Bowlby doveva lottare con altre dicotomie che sono state superate
dalla psicoanalisi dei nostri giorni e in particolare dal pensiero relazionale contemporaneo: il contrasto tra l'intrapsichico

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e l'interpersonale e la collocazione dell'agente terapeutico nell'insight o nella relazione. Gli autori relazionali
contemporanei tendono a considerare la comprensione interpretativa dell'analista come parte della forma specifica
dell'esperienza analitica di attaccamento positivo e, per converso, credono che l'esperienza di attaccamento offerta
dall'analista contenga dimensioni interpretative e metainterpretative. Da quando Bowlby ha presentato la sua
rivoluzionaria teoria dell'attaccamento sono state introdotte ed elaborate altre prospettive relazionali centrate sulla
permeabilità affettiva, sulle configurazioni di sé e oggetto e sull'intersoggettività.

IL MONDO INTERNO DELLA PERDITA

(Descrizione del caso di Connie)

L'ATTACCAMENTO E LA PERMEABILITA' DEI CONFINI DELL'INTIMITA' (MODO 2)

(Vedi analisi dell'esperienza di Connie verso il proprio figlio)


Secondo Loewald noi organizziamo la nostra esperienza simultaneamente su diversi livelli e delinea un “processo
primario”, organizzato introno a una densità primaria dell'esperienza nel quale non esistono dicotomie, e un “processo
secondario” nel quale si applicano le categorie abituali del vivere convenzionale. Winnicott, crede che le esperienze
soggettive precoci del bambino, incluse quelle transizionali, siano soffuse di onnipotenza e illusione. Loewald, invece,
crede che molte esperienze del processo primario, in particolare quelle del non-differenziazione tra il sé è gli altri, non
siano affatto illusorie. Per Loewald il processo primario e quello secondario costituiscono forme di organizzazione delle
esperienze alternative, ugualmente valide e ugualmente “reali”. Il compito della psicoanalisi non è quello di trasformare
il processo primario in quello secondario, né quello di rimuovere la fantasia e la distorsione, ma quello di aprire le
connessioni interrotte e potenzialmente arricchenti tra fantasia e realtà. Al livello del processo primario noi non siamo
separati dai nostri altri significativi; nelle esperienze emotive intense noi co-creiamo eventi e condividiamo emozioni
risonanti che non possiamo assegnare in modo chiaro a categorie discrete (come per es. sè-altro, interno-esterno).
Aggiungendo al lavoro di Bowlby le considerazioni loewaldiane relative alla permeabilità affettiva (modo 2) si potrebbe
pensare che i residui delle esperienze di attaccamento, sia nell'infanzia sia durante tutto il corso della vita, non
includono solo modelli operativi cognitivi del mondo interpersonale, ma anche stati affettivi di connessione
indifferenziata con le figure di attaccamento organizzati attorno ad affetti positivi (euforia, calma tranquillizzante) e
attorno ad affetti negativi (depressione, angoscia, terrore).

L'ATTACCAMENTO E LA STRUTTURAZIONE DEL SE' CON GLI ALTRI (MODO 3)

Main nota il passaggio da una prima nozione secondo la quale i disturbi nel mothering generano bambini attaccati in
modo povero o debole alla consapevolezza, più compatibile con la nozione di attaccamento agli oggetti “cattivi”
(propria di Fairbain) che i bambini si attaccano inevitabilmente e in modo potente a qualsiasi persona disponibile. I
contributi etologici-comportamentali di Bowlby sull'attaccamento sono stati accompagnati da un resoconto dei “modelli
operativi” che sono i residui delle esperienze di attaccamento. L'enfasi cognitiva della nozione dei modelli operativi
interni è integrata e arricchita dalla considerazione delle configurazioni sè-altro che derivano dai diversi tipi di
esperienze di attaccamento. Alcuni concetti di Winnicott fanno ulteriormente luce sui modi in cui il sé si struttura per
mezzo delle interazioni con gli altri e, in assenza di certe cure genitoriali, per mezzo di strutture del sé che svolgono il
ruolo dell'altro. L'esperienza “vero Sé”, nei termini di Winnicott, inizia con un “gesto spontaneo” che emerge da un
nucleo di onnipotenza soggettiva; i gesti spontanei all'inizio sono attualizzati dalla “madre sufficientemente buona” e
perciò si consolidano in un senso di bontà e realtà del proprio sé. Bowlby e Ainsworth sottolineavano come, nel
contesto di un attaccamento sicuro, venga fornita una base per esplorare il mondo. Un attaccamento di questo tipo
fornisce anche la sicurezza necessaria ad esplorare il mondo esterno e quello interno delle preferenze personali, dei
desideri e degli impulsi: quelli che Winnicott chiamava “gesti spontanei”. Quando manca la sicurezza fornita da un
attaccamento affidabile, il bambino tende precocemente a svolgere da solo la funzione genitoriale mancante (Sé custode
di Winnicott) e gli sono perciò precluse le opportunità di un abbandono privo di preoccupazione alla propria esperienza
(vedi Connie e il rapporto con il cibo).

ATTACCAMENTO E INTERSOGGETTIVITA' (MODO 4)

Tra le implicazioni più radicali del concetto di campo interpersonale elaborato da Sullivan c'è la nozione per la quale la
mente non è qualcosa che ognuno di noi si porta in giro nella testa avendo la possibilità di controllare quanto rivelare o
nascondere di essa agli altri. La mente è transpersonale e contestuale ed emerge nelle interazioni con le altre menti. Non
importa quanto l'analista si sforzi di essere un semplice osservatore perchè egli è anche e inevitabilmente un
partecipante. Fromm aggiungeva un'enfasi sulla partecipazione analitica come incontro esistenziale. Indipendentemente
da tutto quello che poteva succedere, Fromm credeva che il paziente venisse in analisi per parlare in modo onesto e per
impegnarsi in modo franco. Questi concetti originari (Sullivan e Fromm) sono stati sviluppati dai teorici interpersonali

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successivi in un approccio al processo analitico che sottolinea la relazione presente nel qui e ora tra i due partecipanti.
Se i teorici del gruppo indipendente britannico (Fairbairn, Winnicott, Balint) avevano descritto la relazione analitica nei
termini delle funzioni e delle cure genitoriali carenti, i teorici interpersonali hanno descritto la relazione analitica in
termini meno evolutivi e più intersoggettivi. Nei contributi di Levenson, l'analista è ritratto come inevitabilmente
implicato nel mix di transfert e controtrasfert (vedi rapporto di Connie con l'analista e il marito). Il concetto di
attaccamento si è rifinito sempre di più negli ultimi anni e sono stati delineati vari tipi di attaccamento con qualità
differenti. Fonagy e Target hanno esplorato i modi in cui le esperienze di attaccamento sicuro esitano in un senso
complesso di intersoggettività nel quale, per mezzo dell'esperienza del sé nella mente dell'altro, si perviene a un senso di
sé come soggetto agente, e a un senso dell'altro come soggetto agente presente nella propria mente. Gli autori
relazionali più importanti hanno contribuito in vari modi alla comprensione clinica dei diversi aspetti e delle diverse
implicazioni della relazionalità umana e dell'attaccamento. Loewald suggerisce che l'apparente separazione tra il
soggetto che si attacca e l'oggetto di attaccamento si trova al di sopra di un livello di organizzazione, che segue il
processo primario, per il quale il sé e l'altro esistono a vari gradi di non-differenziazione reciproca. Loewald suggerisce
che le relazioni oggettuali sane consistono non tanto in una chiara separazione del sé dagli altri quanto in una capacità
di contenere, in tensioni dialettiche, differenti forme di relazionalità che si arricchiscono a vicenda. Fairbairn ha
esplorato gli aspetti psicodinamici degli attaccamenti a figure genitoriali fisicamente o emotivamente assenti e i modi in
cui queste figure si stabiliscono come presenze interne: la devozione a queste figure ci allontana da nuove relazioni.
Winnicott ha illuminato i modi sottili in cui un attaccamento sicuro facilita lo sviluppo di un senso personale di sé e ha
chiarito come l'assenza di funzioni genitoriali adattive di questo tipo precluda uno sviluppo del genere. Sullivan ha
contribuito alla comprensione dei modi in cui le vicissitudini delle esperienze precoci di attaccamento si manifestano
nelle relazioni del presente, inclusa quella di transfert e controtransfert con l'analista. A questo punto dell'evoluzione
delle idee psicologiche, la teoria dell'attaccamento e quella psicoanalitica, anziché fornire percorsi alternativi, ci offrono
la straordinaria possibilità di una convergenza che porta ricchezza a entrambi i modelli.

3. LA RICERCA DELL'OGGETTO SECONDO FAIRBAIRN (TRA DUE PARADIGMI)

Una delle lezioni più chiare che occorre imparare dall'enorme corpus dell'erudizione freudiana è che i grandi teorici
possono essere letti in molti, molti modi diversi. Una seconda lezione è che probabilmente è sbagliato aspettarsi che un
grande innovatore comprenda realmente la rivoluzione di cui è parte. Dal momento che si trovano a condividere una
concezione del mondo mentre lottano per farne nascere un'altra, difficilmente questi autori riescono a comprendere a
pieno la portata delle loro innovazioni. Freud ha compreso solo in maniera incompleta la rivoluzione che lui stesso stava
attuando. Fairbairn operava con le convenzioni concettuali e linguistiche che erano la moneta corrente intellettuale dei
suoi giorni. Ma era anche un visionario e cercava di affrontare quelli che reputava problemi basilari per mezzo della
comprensione psicoanalitica dell'esperienza umana che aveva caratterizzato il suo training. Fairbairn è importante
perchè ha fornito un resoconto precoce e radicale della relazionalità che è divenuto sempre più influente negli ultimi
decenni. Sono i suoi concetti che hanno fornito i termini più ampiamente utilizzati per descrivere il Modo 3
(configurazioni sè-altro). Per Fairbairn stesso era impossibile prevedere tutte le implicazioni di quello che aveva scritto
e Fairbairn è stato letto in molti modi diversi. Mitchell vuole suggerire una lettura di Fairbairn come un autore che
cerca strenuamente di passare dalle categorie di pensiero della psicoanalisi tradizionale a una teoria relazionale della
mente radicalmente diversa. Il fatto che Fairbairn si collochi tra due paradigmi diversi ha contribuito al suo tentativo
difficile e coraggioso di risolvere il controverso problema della motivazione alla base dell'interiorizzazione.
Considerando attentamente alcune delle tensioni interne al lavoro di Fairbairn si avrà un'idea più completa della portata
e della multidimensionalità della svolta relazionale in psicoanalisi.

RICERCA DELL'OGGETTO: PULSIONE O FONDAMENTO?

Greenberg sostiene che tutte le teorie psicoanalitiche devono contenere (implicitamente o esplicitamente) una teoria
delle pulsioni. Sostiene che sebbene Fairbairn presentasse la sua teoria delle relazioni oggettuali come alternativa alla
teoria pulsionale tradizionale, una lettura attenta rivela che nella visione di Fairbairn è nascosto un concetto di pulsione
e che dunque siamo in presenza di una specie di teoria cripto-pulsionale. Greenberg crede che, a meno che una teoria
non abbracci un ambientalismo completo e perfettamente naif, un concetto di pulsione è essenziale. I presupposti
relativi alla pulsione definiscono l'apporto dell'individuo all'interazione con gli altri. Senza pulsioni l'individuo sarebbe
un pezzo di stucco totalmente passivo, plasmato dalle influenze sociali esterne. Da questo punto di vista, i teorici che
rifiutano la teoria freudiana, necessariamente la sostituiscono con una teoria pulsionale alternativa per spiegare ciò che
porta l'individuo a interagire con gli altri e il modo in cui l'individuo registra queste interazioni e ne è plasmato. La
ricerca dell'oggetto di Fairbairn è una specie di pulsione, più o meno nel senso in cui Bowlby considerava
l'attaccamento una pulsione. Ma Greenberg argomenta che la nozione di “ricerca dell'oggetto” di Fairbairn non può
essere considerata in sé una pulsione (nel senso di motivazione) perchè troppo vaga e indeterminata. Tutte le teorie
psicoanalitiche ci dicono che gli individui cercano gli oggetti. Il problema è “perchè lo fanno?”. Secondo Freud gli
oggetti vengono cercati perchè servono a scaricare la libido e l'aggressività. Per Sullivan cerchiamo gli oggetti per

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soddisfare varie tendenze integrative. In sé la ricerca dell'oggetto non significa nulla, in quanto riafferma ciò che è
ovvio e non fa nessuna di quelle asserzioni motivazionali specifiche che rendono interessante e utile una teoria, con tutti
i rischi che ne conseguono. Un oggetto può diventare significativo, psicologicamente parlando, solo perchè serve a
raggiungere alcuni obiettivi, ci dà un certo tipo di gratificazione, soddisfa alcuni bisogni. Ogni teoria delle relazioni
oggettuali presuppone alcuni bisogni di base per la soddisfazione dei quali noi cerchiamo gli oggetti. Secondo
Greenberg, Fairbairn ha sostituito la complessità del sistema a due pulsioni di Freud con un sistema semplicistico
monopulsionale. Mitchell, invece, crede che Fairbairn fosse a caccia di qualcosa di più fondamentale che non ha mai
sviluppato in modo chiaro e completo. Secondo Mitchell, sostenere che abbiamo bisogno di un concetto di pulsione per
descrivere quello che un individuo cerca nelle interazioni con le altre persone presume che l'individuo in quanto
individuo sia l'unità di studio più appropriata. Si parte dal presupposto che l'individuo, nel suo stato naturale, è
essenzialmente solo e poi è stato portato a interagire per alcuni scopi o bisogni. Fairbairn stava cercando di pervenire a
una comprensione diversa della natura degli esseri umani come esseri fondamentalmente sociali, non come portati a
interagire ma come radicati in una matrice interattiva che coinvolge gli altri ed è il loro stato naturale. Per Fairbairn la
ricerca dell'oggetto, nella sua forma più radicale, non è il veicolo per la soddisfazione di un bisogno specifico ma
l'espressione della nostra natura profonda, la forma per mezzo della quale diventiamo esseri specificatamente umani.
Definire gli esseri umani come relazioni è piuttosto diverso dall'affermare che la ricerca dell'oggetto è una pulsione
specifica. Gli esseri umani, fin da quando sono bambini, cercano altre menti umane con cui interagire, non per la
soddisfazione di qualche bisogno discreto, ma perchè siamo programmati a rispondere visivamente al volto umano,
olfattivamente agli odori umani, uditivamente alla voce umana e semioticamente ai segni umani. Noi siamo designati a
essere attirati in un'ampia gamma di interazioni reciprocamente regolatrici (modo 1) e di affetti condivisi (modo 2) con
altri esseri umani. Fairbairn è stato tra i primi a intuire che stabilire e mantenere le relazioni con gli altri è tanto
fondamentale per la natura dell'organismo quanto lo è respirare ossigeno. Greenberg legge Fairbairn come un autore
che offre un sistema motivazionale, necessariamente basato sulle pulsioni come quello di Freud ma meno ricco e
complesso di quest'ultimo. Una lettura a questa strettamente connessa ma che dimostra un maggior apprezzamento per
il modello di Fairbairn sostiene che questo autore ci offre qualcosa di nuovo e utile, ma anche del tutto compatibile e
integrabile con la teoria classica e il modello pulsionale. Una prospettiva “bipersonale” potrebbe affermare che il modo
migliore per comprendere le persone non è in isolamento, ma nel contesto delle loro relazioni con gli altri, passati e
presenti, interni ed esterni, reali e fantastici. Una prospettiva di questo tipo include gli individui ma li pone in un
particolare contesto che è il contesto preferenziale per comprendere quello che di loro è più interessante,
psicoanaliticamente parlando. Sostenere un modello ibrido che combina prospettive mono e bi personali vuol dire fare
confusione tra livelli concettuali diversi. Un modello di questo tipo toglie le persone nella loro individualità dal modello
bipersonale e poi afferma che abbiamo bisogno di un ibrido monopersonale-bipersonale per riportare gli individui nel
modello. Ma gli individui sono sempre stati presi in considerazione nel modello bipersonale. Cosa significherebbe avere
un modello bipersonale senza gli individui? Fairbairn aveva capito molto bene che gli esseri umani cercano il piacere, e
non era questo che metteva in discussione. Quello che in realtà egli voleva dire è che Freud aveva fermato il suo
resoconto, la sua comprensione della ricerca del piacere, troppo presto. Affermando che il principio di piacere è un
principio motivazionale fondamentale, il principio motivazionale fondamentale della teoria delle pulsioni, Freud non lo
aveva compreso nel suo contesto appropriato, il campo delle relazioni oggettuali. Secondo Fairbairn, la spiegazione
migliore non è dire che la ricerca del piacere, sotto forma di scarica pulsionale, è una proprietà fondamentale della
mente, ma che la ricerca del piacere, come tutti gli altri processi dinamici, si verifica nel contesto della ricerca
dell'oggetto, che il piacere è un medium potente necessario a stabilire e mantenere i rapporti con gli altri. Proprio
questo riordinamento delle priorità è ciò che rende il modello di Fairbairn un sistema di riferimento esplicativo così
potente delle dinamiche al cospetto delle quali il modello edonico di Freud era fallito. Se la ricerca del piacere non è
possibile, le persone cercano il dolore perchè questo spesso offre il canale alternativo più diretto per raggiungere gli
altri. Un modello ibrido basato sul duplice principio per il quale le persone fondamentalmente cercano sia il piacere sia
gli oggetti è di certo un sistema di riferimento possibile, ma non è più quello di Fairbairn. Il modello ibrido esclude la
ricerca del piacere dal modello di Fairbairn e la usa come fondamento su cui risuscitare il modello pulsionale
tradizionale. L'ibrido psicoanalitico è una versione che si basa su una lettura di Fairbairn secondo la quale la “ricerca
dell'oggetto” è un motivo discreto che spinge un organismo individualmente costituito che si realizza solo tramite
scambi con altre menti.

CONFINI E PROBLEMI DI INTERIORIZZAZIONE

Il fatto che Fairbairn si collochi tra due paradigmi diversi diventa più chiaro se si considera il suo coraggioso tentativo
di risolvere quello che evidentemente reputava il controverso problema della motivazione alla base delle
interiorizzazioni precoci. Fairbairn credeva che le persone fossero fondamentalmente orientate alla realtà, rivolte alle
persone reali presenti nel mondo interpersonale e continuava a combattere con il problema del come e del perchè queste
esperienze reali con persone reali vengano per prima cosa stabilite all'interno della mente. La critica più comune rivolta
al lavoro di Fairbairn è stata indirizzata proprio alla sua convinzione per cui l'interiorizzazione ha luogo, all'inizio,
perchè gli oggetti precoci sono “cattivi” o “insoddisfacenti”, omettendo di chiarire in che modo vengono interiorizzate

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le esperienze “buone”. Fairbairn è partito con il piede sbagliato nel tentativo di risolvere questo problema perchè non
aveva compreso a pieno le implicazioni che discendevano dal considerare la mente individuale in un contesto
relazionale che coinvolge altre menti. Chiedersi quale sia il motivo alla base della prima interiorizzazione significa
partire dalla premessa che tra l'interno e l'esterno ci sono una differenziazione ed un confine fondamentale. Se qualcosa
che viene dall'esterno si trova all'interno allora si deve spiegare in che modo è finita lì. Klein pensava che il confine
fosse regolarmente attraversato in virtù dei processi introiettivi-incorporativi e proiettivi-espulsivi guidati dalla fantasia,
mentre Fairbairn pensava che l'interiorizzazione potesse essere spiegata solo in termini di atti difensivi specifici. Gli
autori psicoanalitici stanno cimentandosi con il problema delle tensioni centrali presenti tra identità e differenziazione
almeno da quando Freud ha affermato che, all'inizio, l'investimento oggettivo e l'identificazione sono indistinguibili.
Fairbairn ha preso la nozione di identificazione primaria di Freud per “significare l'investimento di un oggetto che non è
stato ancora differenziato dal soggetto investitore”. Ma non gli ha mai dato un significato di rilievo nella sua
spiegazione della derivazione precoce dei nostri mondi interni. Se Fairbairn avesse dato un peso maggiore a queste
identificazioni, avrebbe potuto considerare le identificazioni primarie come residui di relazioni oggettuali
evolutivamente precoci, forse percettivamente distinte, ma affettivamente e psicologicamente indifferenziate.
Esperienze intensamente emotive con gli altri potrebbero implicare, all'inizio della vita e, a livello inconscio, per tutta la
vita, una diffusione dei confini presenti tra il sé e l'altro, così che non è possibile sapere precisamente chi è chi. Queste
intense esperienze emotive sono processate simultaneamente a livelli diversi o in modi differenti. L'enfasi che Klein e
Fairbairn ponevano sul legame che unisce l'individuo con gli oggetti esterni è stato un importante antidoto al precedente
concetto freudiano di un narcisismo primario privo di oggetti. Questo movimento verso una visione del bambino come
essere che fin dall'inizio è in relazione con gli oggetti è stato subito connesso a una visione per la quale il bambino è
separato dagli oggetti che cerca. Questa tendenza utile e importante è stata sviluppata nel lavoro di alcuni infant
researcher. La mente è organizzata in modo multiplo e variabile secondo diversi gradi di differenziazione e
sofisticazione. La discriminazione percettiva è molto differente dall'incastro affettivo. Occorre spostarsi verso un modo
più sofisticato di pensare alla dialettica tra unione e differenziazione, un modo nel quale queste condizioni non siano
considerate opposte ma unite in forme diverse a vari livelli. Dunque è possibile combinare la nozione di Loewald di
un'unità affettiva primaria con l'ipotesi di Stern di una differenziazione percettiva precoce negli oggetti.

IMPULSI

I teorici e i clinici che valutano positivamente l'eclettismo nelle idee psicoanalitiche sottolineano spesso l'utilità della
teoria delle pulsioni per spiegare il carattere perentorio di alcune esperienze, il senso di esse “spinti” da impulsi potenti
e dai sensi di colpa che sono in relazione con questi impulsi. Questi impulsi sono la manifestazione mentale diretta di
pulsioni sessuali e aggressive e i sensi di colpa sono reazioni interiorizzate di derivazione sociale a questi impulsi. La
relazionalità è importante ma lo sono anche gli impulsi basati sul corpo. Un modello ibrido sembra il quadro di
riferimento migliore per assegnare un peso appropriato a entrambe queste dimensioni fondamentali. Ciò che questa
linea di pensiero non coglie è che la relazionalità radicale di Fairbairn ha fornito una spiegazione non solo delle
relazioni, ma anche degli impulsi e dei sensi di colpa, diversa da quella della teoria delle pulsioni classica. Per
Fairbairn, sia gli impulsi che i sensi di colpa sono relazioni. Quando si aggiunge la spiegazione degli affetti condivisi
fornita da Loewald (Modo 2) alla spiegazione del legame con gli oggetti cattivi di Fairbairn ne emerge una spiegazione
estremamente convincente sia degli impulsi sia dei sensi di colpa (vedi caso di George, abbandonato dalla moglie e che
scopre in analisi le implicazioni di una sua relazione precoce con uno zio). Fairbairn parlava di pazienti che identificano
i loro genitali con l'oggetto eccitante, un oggetto esterno al loro sé centrale che li alletta e dà loro piacere e al quale si
arrendono. I pazienti di questo tipo illustrano l'utilità di non attribuire alle relazioni oggettuali una posizione distinta ma
paritaria rispetto a quella della ricerca del piacere, della sessualità e dell'aggressività, in uno spirito di eclettismo. Tra le
implicazioni più radicali della prospettiva che Fairbairn stava sviluppando c'è la nozione per cui le esperienze della
sessualità e dell'aggressività non rappresentano l'erompere nella psicologia di un elemento puramente biologico, ma
sono plasmate dalle relazioni oggettuali precoci.

SENSO DI COLPA

(Vedi caso di Will con moglie e amante)


L'assunto psicoanalitico tradizionale sarebbe che il senso di colpa relativo a un atto compiuto in età adulta maschera un
senso di colpa edipico infantile relativo a desideri sessuali proibiti. Questo modello suggerisce che per dar sollievo alla
sofferenza bisogna interpretare il crimine fantastico infantile che si trova dietro i sensi di colpa. Fairbairn pensava che il
senso di colpa fosse spesso il veicolo di un potente legame oggettuale sottostante e che quindi ogni tentativo di mitigare
quel senso di colpa determina soltanto una rimozione ancora più profonda dell'attaccamento all'oggetto interno che ne è
alla base. I sensi di colpa possono essere compresi come una conseguenza dei tradimenti reali e inevitabili generati da
lealtà conflittuali verso altri significativi molteplici e molteplici versioni di sé. Fairbairn pensava che gli oggetti interni
fossero sostituti compensatori di relazioni cruciali mancanti con altri significativi, i progressi più o meno grandi e la
salute possono essere rappresentati come una sorta di esorcismo. Secondo Mitchell, questo può essere giusto ma non

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sufficiente. Mitchell crede che le esperienze buone e amorevoli (e non solo quelle cattive e piene di odio) lascino residui
dentro di noi e che a volte questi residui non sono pienamente integrabili gli uni con gli altri perchè contengono
esperienze connotate da affetti intensi e sono organizzate in versioni diverse e multiple del sé con gli altri. L'uso più
completo che si possa fare del contributo di Fairbairn è quando si esplorano i modi in cui i residui del passato possono
coesistere, interpenetrare e arricchire l'esperienza presente, così come il pensiero di Fairbairn, dopo mezzo secolo,
arricchisce la nostra esperienza attuale.

4. INTERSOGGETTIVITA' (tra espressività e riservatezza nella relazione analitica)

Viviamo in un'età della psicoanalisi nella quale molti dei fondamenti del modello classico della mente e della teoria
della situazione analitica sono diventate insostenibili. Le ragioni che hanno determinato questa situazione sono molte e
sono dovute a sviluppi sia interni che esterni alla psicoanalisi. IL cambiamento centrale, di enorme impatto, è il fatto
che la relazione analitica non è più vista come la sala operatoria sterile in cui credeva Freud. La relazione analitica non
è diversa quanto voleva Freud da altre relazioni umane. Si tende a pensare sempre più che il coinvolgimento
intersoggettivo di analista e paziente sia il vero fulcro e il vero veicolo del cambiamento caratteriale profondo che la
psicoanalisi facilita. In questi ultimi anni l'attenzione si è spostata su molte dimensioni della relazionalità presente
nell'interazione tra l'analizzando e l'analista. Lo studio della inevitabile partecipazione dell'analista al processo analitico
ha spinto a interessarsi dei sentimenti appassionati che gli analisti provano nei confronti dei loro pazienti. Questo
argomento ha un'importanza clinica centrale perchè illustra come nelle interazioni di transfert-controtransfert
convergono i vari modi della relazionalità. Una delle caratteristiche di maggiore impatto della letteratura post classica è
che essa a volte ha avuto un tono palesemente emancipatorio. Ciò in contrasto con il fatto che la teoria classica della
tecnica, nelle sue pratiche antisettiche, era ampiamente proibitiva. All'analista studente dei tempi classici era più utile un
atteggiamento di generale e pervasiva riservatezza (neutralità, anonimato, astinenza. Quando sei in dubbio, non
rispondere, non parlare, non esprimerti, non svelare nulla di te. Il silenzio e la piattezza emotiva sono mezzi sicuri). Una
delle caratteristiche più evidenti della letteratura post classica degli ultimi vent'anni è stato un senso di liberazione
(autodisvelamento, ampio assorbimento di rotture della cosidetta cornice e un profondo coinvolgimento emotivo con il
paziente). Dal punto di vista di Mitchell, questi contributi sono stati tutti positivi e hanno fornito opzioni molto
importanti e utili per i clinici analitici e gli hanno dato la possibilità di essere più onesti con gli altri e con se stessi
rispetto a quello che realmente succede nel corso di un’analisi. L’analista non è uno schermo opaco: i suoi sentimenti,
inclusi quelli appassionati, sono inevitabilmente parte del processo e, spesso, anche utili. Uno dei problemi di alcuni
scritti della letteratura clinica post classica è che, nell’impegno emancipatorio ed espressionista, le preoccupazioni
relative alla riservatezza sono associate alle vecchie proibizioni classiche. La rivelazione di sé, sia al paziente sia ai
propri lettori, sembra a volte che sia diventata un fine e una virtù in sé. Questo modo di affrontare la letteratura post
classica ha fatto sì che i critici più conservatori avessero vita facile nel sollevare l’allarme per cui, con l’abbandono dei
principi classici, “tutto può andare bene”. I clinici relazionali sono di solito molto riflessivi e attenti e operano con
grande riservatezza. Un esame della letteratura relazionale suggerisce la presenza di una certa enfasi sull’autoriflessione
disciplinata o su quello che Hoffman chiama “rituale” come sfondo della spontaneità. C’è però una piccola setta, una
varietà di analisti interpersonali classici che Mitchell chiama la scuola del “tutto fa brodo” o dello “spiffera tutto”. A
volte sembra che essi pensino che l’ “autenticità” sia dire tutto quello che passa per la testa. Ma nel caso della
maggioranza di analisti relazionali nostri contemporanei, il lavoro clinico è piuttosto disciplinato e spesso ispirato alla
prudenza. Nella letteratura psicoanalitica per molto tempo mettere in discussione il tema della riservatezza evocava
un’atmosfera di non correttezza. Uno dei maggiori ostacoli a pensare e a scrivere della tecnica relazionale
contemporanea in generale è che si deve elaborare ancora un modo per trattare compiutamente sia l’espressività sia la
riservatezza nella teorizzazione relativa alla tecnica clinica. Questo problema diviene particolarmente acuto quando
iniziamo a pensare al posto occupato dai sentimenti di amore e odio nella relazione analitica.

AFFETTI E INTENZIONALITA’

Un primo passo in questa direzione, secondo i principi relazionali attuali, potrebbe suggerire un approccio piuttosto
semplice e diretto. Sebbene l’amore e l’odio nel modello classico fossero teoricamente esclusi dalla relazione analitica,
sono stati reinseriti in essa dalla teoria relazionale. Poiché la relazione analitica è considerata bi personale, interattiva e
reciproca, l’amore e l’odio appaiono in essa più o meno come si presentano nelle altre relazioni intime. L’amore e l’odio
del paziente, sebbene si basino su relazioni passate e passioni infantili, sono anche reazioni reali agli scambi
interpersonali reali con l’analista. L’amore e l’odio nell’analista sono inevitabili perché i pazienti fanno
alternativamente cose che sono inevitabilmente amorevoli e odiose e anche perchè l’analista finisce per essere
inevitabilmente e necessariamente coinvolto in modo profondamente emotivo nel lavoro con i suoi pazienti. I modi in
cui l’amore e l’odio emergono nella relazione analitica non sono semplicemente quelli in cui questi sentimenti si
presentano in altre relazioni intime. Il problema sembra semplice e diretto solo se si assume che l’amore e l’odio sono
essi stessi semplici e diretti. L’amore e l’odio sembrano tra le cose più naturali di questo mondo. A volte ci prendono
completamente di sorpresa. A volte sembrano naturali perché si presentano nel contesto di relazioni che già

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riconosciamo e comprendiamo come amorevoli o cariche di odio. Questo tipo di esperienze contribuisce a creare
l’impressione che i sentimenti in questione semplicemente emergano, non voluti e spontanei, non costruiti. Sembra che
essi semplicemente compaiono. Ma l’amore e l’odio presenti nelle relazioni a lungo termine non si limitano
semplicemente a comparire. Sono plasmati e coltivati in contesti costruiti lentamente nel tempo. Tutti noi costruiamo
contesti e coltiviamo relazioni nelle quali possono svilupparsi alcuni tipi di amori e odi mentre altri sono preclusi. Uno
degli aspetti più problematici e difficili della metateoria del “linguaggio dell’ azione” di Schafer è la sua idea per cui le
emozioni sono azioni. Questa idea non implica alcun volontarismo, né significa che possiamo decidere su due piedi
cosa provare per una certa persona, ma vuole sottolineare che quello che proviamo si genera nel contesto di quella che i
filosofi chiamano “intenzionalità”, di quello che vogliamo provare, consciamente e soprattutto inconsciamente. Schafer
sostiene che le emozioni sono azioni che “definiscono, così come sono definite da, le situazioni dell’agente; e l’agente
definisce, così come è definito da, queste situazioni, azioni, modi”. Nei termini di Faber, i nostri amori e i nostro odi
includono sempre una dimensione, non di volizione ma semplicemente di volontà, l’elemento che alternativamente
plasma le nostre vite. Può essere difficile cogliere la dimensione dell’intenzionalità in sentimenti come l’amore e l’odio,
perché essi possono sembrare puri e spontanei. In realtà non sono tali. Chiamando “azioni” le emozioni, Schafer indica
la loro sottostante complessità, la loro struttura di azione. Amare o odiare qualcuno implica tempo e lavoro psichico.
Noi non amiamo né odiamo qualcuno a meno che non lo vogliamo, a meno che non sentiamo di avere delle buone
ragioni per farlo, consciamente e soprattutto inconsciamente. L’amore e l’odio, per svilupparsi devono essere coltivati,
nutriti e voluti. L’amore e l’odio non sono semplicemente degli accadimenti spontanei; servono a scopi complessi.
Nell’ultimo decennio, alcuni psicoanalisti relazionali hanno cercato di trovare dei modi per catturare la tensione
presente nella situazione analitica tra il profondo coinvolgimento di entrambi i partecipanti e le differenze nel modo in
cui essi ne sono coinvolti. Una delle distinzioni più importanti tra il ruolo dell’analizzando e quello dell’analista
riguarda le richieste di essere responsabile fatte all’uno e all’altro e ciò rende piuttosto diversa la loro esperienza
dell’amore e dell’odio. Essere irresponsabile è, sotto diversi aspetti molto importanti, il mestiere dell’ analizzando. Si
chiede agli analizzandi di abbandonarsi alla loro esperienza, di mostrare e svelare quello che si trovano a pensare o
sentire. Si chiede agli analizzandi di rinunciare a tutti gli altri intenti coscienti e questo non è facile. Gli analizzandi
all’inizio cercano di realizzare obiettivi di tutt’altro tipo. Si cerca di creare un contesto nel quale l’assenza di intenzioni
coscienti consentirà l’emergere di sentimenti come l’odio e l’amore. Questi sentimenti transferali non mancano di
intenzionalità ma le loro intenzioni, quelle analiticamente interessanti, sono in genere inconsce. Si cerca di creare una
situazione nella quale gli analizzandi possano abbandonarsi alle loro passioni, al di fuori e all’interno della relazione
analitica, in parte perché essi possano imparare più cose su quelle intenzioni inconsce. Si cerca di coltivare
nell’analizzando un’irresponsabilità analiticamente costruttiva. Nel pensiero analitico contemporaneo si reputano molto
importanti anche i sentimenti dell’analista, sia quelli presenti al di fuori sia quelli presenti all’interno della relazione
analitica. E’ importante che l’analista sia consapevole e coltivi i suoi sentimenti, le sue associazioni e le sue reverie. Ma
una parte cruciale di ciò che mantiene analitica la situazione analitica, di ciò che differenzia la relazione analitica da
tutte le altre relazioni, è precisamente che uno dei partecipanti (l'analista) ha la responsabilità di mantenerla analitica
sempre, in tutti i momenti. L'amore e l'odio presenti nella relazione analitica sono piuttosto diversi nel caso dell'analista
e in quello del paziente. Si chiede all'analizzando di amare e odiare in modo irresponsabile, lasciando che i suoi
sentimenti emergano senza esercitare alcuno screening cosciente senza preoccuparsi di quelle che dovrebbero essere le
loro implicazioni e la loro utilità. All'analista si chiede invece di amare e odiare in modo responsabile, lasciando che i
propri sentimenti emergano ma non senza prendere in considerazione le loro implicazioni sul processo analitico. Autori
più tradizionali tendono a pensare che l'amore e l'odio siano incompatibili con il ruolo dell'analista poiché, di fatto, sono
troppo personali. Anche Mitchell crede che il lavoro analitico implichi un certo tipo di disciplina ma non crede in alcun
modo che la propria personalità sia meno presente nel disciplinato lavoro analitico rispetto a quanto non lo sia in altre
attività. Una cosa che non si può mai fare è avere rapporti sessuali con il paziente. La ragione di questo divieto è che
avere rapporti sessuali con un paziente viola le norme culturali accettate degli standard professionali. Mitchell ritiene
che ciò sia vero ma che non esaurisca il discorso. Avere rapporti sessuali e praticare la psicoanalisi sono attività
emotivamente incompatibili. Le sensazioni del sesso sono troppo intense per non perdersi in esse a scapito della
riflessione sulle implicazioni analitiche. Chiunque avesse la capacità di avere un rapporto sessuale sarebbe troppo
coinvolto per essere un buon analista. Il lavoro analitico è comunque pieno di sorprese ed è probabile che l'analista
occasionalmente scopra in se stesso sentimenti inaspettati e potenzialmente distruttivi. Ma né innamorarsi né lasciarsi
andare ad un odio cronico per il paziente sono cose compatibili con la prosecuzione del lavoro analitico. La struttura
della relazione analitica rende perciò possibile alcuni tipi di amore e odio e ne preclude altri. Per essere più precisi si
dovrebbe parlare di forme specificatamente analitiche di amore e odio.

CARING ED EMPATIA

Quando ci coinvolgiamo più profondamente con un'altra persona, quando ci affezioniamo e ci identifichiamo sempre di
più con lei, quello che succede ci interessa e ci sta a cuore (to care) sempre di più, traiamo piacere dai suoi successi e
soffriamo per le sue sconfitte. Gli stessi processi si verificano anche con i pazienti. Il modo in cui ci interessiamo o
meno di un certo paziente è probabilmente il prodotto unico della chimica interpersonale che nasce dal nostro incontro.

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In questo senso il tipo di caring ha a che fare con l'empatia, ma è anche piuttosto diverso da essa, almeno nel modo in
cui ne parlava Kohut. L'empatia, per Kohut, è una metodologia, un modo di pensare che implica sentimenti che
consentono quella che lui chiama “introspezione vicaria” (capacità di immaginare quello che un'altra persona sente in
una situazione data). Il termine “empatia” spesso è usato per riferirsi al caring ma occorre distinguere le due cose. Il
tipo di caring di cui parla Mitchell non è una metodologia e crede che nella situazione analitica non sia possibile fin
dall'inizio. La condivisione degli affetti (modo 2) diventa più ricca e sottile nel tempo e spesso genera un interesse
(caring) sempre più profondo per il fato di un altro individuo (vedi caso di Fred, figlio di genitori sopravvissuti
all'olocausto).

AMORE ED EROTISMO

Vi sono alcune situazioni nelle quali l'amore dell'analista per il paziente diviene più intenso ed eroticamente connotato.
Ma ci sono differenze importanti tra fugaci sentimenti di eccitazione o di desiderio e una passione che può crescere solo
se coltivata. A volte la capacità di tollerare un certo livello di eccitazione sembra analiticamente utile. Ciò che è cruciale
è l'impegno che l'analista profonde per differenziare al meglio qualsiasi piacere egli stesso possa trarre in quella
situazione da quello che è l'interesse analitico del paziente (vedi caso di Gloria). Gli spazi potenziali resi possibili dalla
psicoanalisi hanno un proprio ciclo vitale. Possono essere enormemente utili a livello analitico, ma solo per un po' di
tempo. Poi diventano costrittivi. Vi è bisogno di una grande delicatezza nel trovare un equilibrio costruttivo tra l'amore
coltivato e quello messo in discussione nel transfert e nel controtransfert. Queste decisioni sono il frutto della
collaborazione di entrambi i membri della coppia analitica. Mitchell crede che non sia corretto assegnare al paziente
un'uguale responsabilità per questi giudizi. La responsabilità di prendere decisioni sulle implicazioni costruttive e
distruttive dei vari affetti provati dai partecipanti al processo analitico ricade sull'analista. Una parte di responsabilità
dell'analista è quella di partecipare all', e di godere dell', amore e sembra che questo faciliti il processo analitico. Ma
l'analista non deve godere di questo amore tanto che esso diventi un veicolo del suo proprio piacere e lo distolga dal
benessere del paziente.

ESASPERAZIONE E ODIO

Considerazioni simili si applicano anche all'esasperazione e all'odio presenti nel transfert e nel controtransfert. In certi
momenti del processo analitico, l'aggressività può essere una fonte di crescita molto importante per i pazienti e il tipo di
aggressività che spesso è utile è un odio irresponsabile e privo di riguardo per l'impatto che ha sull'altro, quel tipo di
odio completamente esteriorizzato. Ma alcune forme di odio sono tanto autodistruttive quanto etero-distruttive e minano
nell'analizzando la possibilità di trarre qualche aiuto dal lavoro analitico. Un odio cronico o completamente
esteriorizzato, un risentimento intrattabile presente nell'analista e diretto contro il paziente è incompatibile con un
processo analitico costruttivo. Ma un'esasperazione episodica, e anche carica di odio, è in alcuni trattamenti una strada
cruciale e forse inevitabile che ci porta ai conflitti più profondi del paziente. L'analista ha anche il compito di valutare di
continuo la natura dell'odio del paziente e determinare al meglio se esso favorisce o ostacola il processo analitico (vedi
caso di Helen e caso di Ben). I casi clinici presenti nella letteratura psicoanalitica hanno quasi sempre un lieto fine.
Mitchell non vuole dare l'impressione che l'amore e l'odio tra lui e i suoi pazienti siano sempre andati a buon fine.
Mitchell ha perso dei pazienti perchè il suo amore o il suo odio non erano mai abbastanza chiari o erano troppo intensi
perchè riuscisse a trovare un modo per usarli costruttivamente. Nella riflessione sulle emozioni complesse presenti nella
situazione analitica si possono superare le posizioni polarizzate per le quali l'amore analitico e reale o irreale e i
sentimenti analitici devono essere attentamente nascosti o liberamente espressi. L'amore e l'odio nella relazione
analitica sono molto reali, ma sono anche contestuali. Né la riservatezza né l'espressività in sé sono linee giuda utili per
la gestione dei sentimenti analitici. L'analista deve lottare con queste distinzioni, fare quello che sembrano le scelte
migliori in un dato momento e riconsiderare di continuo i giudizi passati e le loro conseguenze, per espandere e
arricchire il contesto nel quale vengono fatte le scelte del presente.

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MINDFULNESS E CERVELLO

1. UNA CONSAPEVOLEZZA MINDFUL

Essere consapevoli della pienezza della nostra esperienza ci rende consapevoli del mondo interno della nostra mente e
ci immerge completamente nella nostra vita. Il modo in cui prestiamo attenzione al momento presente può influenzare
in modo diretto e benefico il funzionamento del corpo e del cervello, della vita mentale soggettiva, con i suoi
sentimenti e pensieri e delle relazioni interpersonali. Questa forma antica e utile di consapevolezza sembra attivare il
circuito sociale del cervello permettendoci di sviluppare una relazione sintonizzata con le nostre menti. L'espressione
“cervello mindful” è usata per segnalare la nostra consapevolezza, il nostro “prestare attenzione o prenderci cura” in
modo mindful ed è intimamente connessa alla danza tra la nostra mente e il nostro cervello.

TROVARE LA MENTE NELLA NOSTRA VITA QUOTIDIANA

Dalla metà degli anno Ottanta del secolo scorso il mondo occidentale ha rivolto un'attenzione crescente alla
“mindfulness”. Le vite fin troppo impegnate che conduciamo nelle nostre culture, che sono dominate dalla tecnologia e
assorbono tutta la nostra attenzione, spesso producono una frenesia di attività che ci impegna in un fare costante, senza
che ci sia spazio per respirare e semplicemente essere. Le nostre vite frenetiche ci danno poche opportunità per
sintonizzarci con noi stessi. Molti di noi hanno scoperto che questa vita caotica è profondamente insoddisfacente.
Possiamo adattarci e rispondere alla spinta a fare, ma spesso in questo mondo frenetico non riusciamo a crescere. La
mindfulness, nella concezione più generale del termine, propone un modo di essere consapevoli che può servire come
via di accesso a un mondo più vitale di essere nel mondo: noi diventiamo sintonizzati con noi stessi. E' importante
prestare un'attenzione costante e scrupolosa per non patire le conseguenze negative di un comportamento disattento.

DEFINIRE LA MENTE

Un definizione utile, condivisa dagli scienziati della varie discipline è che la mente è “un processo che regola il flusso
di energia e di informazioni”. La nostra mente umana è sia incarnata (implica un flusso di energia e informazione che ha
luogo nel corpo, incluso il cervello) sia relazionale (dimensione che coinvolge il flusso di energia e di informazioni che
ha luogo tra le persone).

ESSERE MINDFUL

La mindfulness, nel senso più generale del termine, riguarda il risvegliarsi da una vita vissuta in automatico e l'essere
sensibili alle novità nelle nostre esperienze quotidiane. Con la consapevolezza mindful, il flusso di energia e
informazioni che è la nostra mente, entra nella nostra attenzione cosciente e noi possiamo comprendere i suoi contenuti
e riuscire a regolare il suo flusso in modo nuovo. La consapevolezza mindful implica più del semplice essere
consapevoli: implica essere consapevoli degli aspetti della mente. Anziché vivere in modo automatico e superficiale
(mindless), la mindfulness ci rende consapevoli e riflettendo sulla mente abbiamo la possibilità di fare delle scelte,
ragion per cui diventa possibile cambiare. Il modo in cui noi focalizziamo la nostra attenzione ci aiuta a modellare
direttamente la nostra mente. Quando sviluppiamo una certa forma di attenzione alle nostre esperienze nel qui e ora e
alla natura della nostra stessa mente, creiamo quella specie di forma di consapevolezza chiamata mindfulness.
ALCUNI EFFETTI BENEFICI

Alcuni studi scientifici hanno dimostrato che applicazioni specifiche della consapevolezza mindful migliorano la nostra
capacità di regolare le emozioni, di contrastare la disfunzione emotiva, di migliorare i pattern di pensiero e di ridurre gli
assetti mentali negativi. Le ricerche su alcune dimensioni delle pratiche di consapevolezza mindful rilevano che esse
rafforzano il funzionamento del corpo. Anche le nostre relazioni con gli altri migliorano, forse perchè la capacità di
percepire i segnali emotivi non verbali degli altri può esserne rafforzata e la capacità di sentire i mondi interni degli altri
accresciuta. Così si finisce per fare esperienza in modo compassionevole dei sentimenti degli altri e possiamo
empatizzare con loro poiché ne comprendiamo il punto di vista. Questa forma di consapevolezza può modellare
direttamente l'attività e la crescita delle parti del cervello responsabili delle nostre relazioni , della nostra vita emotiva e
della nostra risposta fisiologica allo stress.

LA MINDFULNESS NELL'APPRENDIMENTO E NELL'EDUCAZIONE

Ellen Langer ha proposto il concetto di “apprendimento mindful”, un approccio che rende l'apprendimento più
efficace, piacevole e stimolante. L'essenza di questo approccio è offrire il materiale da apprendere in uno stile
condizionale anziché come una serie di verità assolute. In questo modo colui che apprende deve mantenere la propria

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“mente aperta” rispetto ai contesti in cui queste nuove informazioni possono essere utili. Coinvolgere colui che
apprende in questo i istruzione è possibile se gli studenti pensano che il loro atteggiamento plasmerà la direzione
dell'apprendimento. Langer suggerisce che il fulcro dell'apprendimento condizionale è lasciarsi in uno stato sano di
incertezza che darà vita a una capacità a una capacità attiva di notare cose nuove. L'educatore Sternberg ritiene che
questa mindfulness educativa sia di stile cognitivo, che consiste nell'apertura alle novità, nell'attenzione delle differenze,
nella sensibilità ai diversi contesti, in una consapevolezza implicita (se non esplicita) delle molteplici prospettive
esistenti e nell'orientamento al presente. Langer sostiene che non dobbiamo pensare che il suo concetto di mindfulness
abbia il medesimo significato dell'uso storico e moderno di questo termine nelle pratiche contemplative. Siegel usa il
qualificatore “apprendimento mindful” per riferirsi alle importanti concettualizzazioni della Langer sul modo in cui la
mente sembra liberarsi da conclusioni e categorizzazioni premature e da modi routinari di percepire e pensare. Quando
abbiamo una certezza “non sentiamo il bisogno di prestare attenzione. Ma dato che il mondo attorno a noi è in costante
mutamento, la nostra certezza è un'illusione”. Questa forma di mindfulness è uno stato flessibile della mente in cui
notiamo attivamente cose nuove, siamo sensibili al contesto e ci impegniamo nel presente. La forma più antica e
contemplativa della “mindfulness riflessiva (o consapevolezza mindfulness o mindfulness) ha iniziato da poco a essere
studiata in modo intensivo, con nuove scoperte. Le ricerche su entrambe le forme della mindfulness hanno rivelato che,
anche se raggiunte con mezzi diversi, ognuna di esse ha ricadute positive sulla vita delle persone.

CONSAPEVOLEZZA MINDFUL

L'esperienza diretta del momento presente è stata descritta come una componente fondamentale degli insegnamenti del
buddhismo, del cristianesimo, dell'induismo, dell'islamismo, dell'ebraismo e del taoismo. In queste tradizioni religiose
possiamo vedere come l'idea dell'essere consapevoli del momento presente abbia un senso diverso rispetto a quello della
mindfulness cognitiva. Molte forme di preghiera di tradizioni religiose diverse richiedono all'individuo di fermarsi e di
partecipare a un processo intenzionale che permette di mettersi in relazione con uno stato mentale o con un'entità che
esula dal modo di essere quotidiano. La comune sovrapposizione tra l'appartenenza a un gruppo e la preghiera rende
difficile il compito di isolare il processo interno da quello interpersonale, ma di fatto possiamo scoprire che è proprio
questo il punto: fare una pausa per diventare mindful può implicare proprio lo sviluppo di un senso interno di
appartenenza. L'applicazione clinica della meditazione di tradizione buddhista è stato oggetto di uno studio intensivo
volto a indagare i possibili correlati neurali della consapevolezza mindful. Questi studi hanno dimostrato che
un'applicazione efficace della mindfulness secolare può essere insegnata indipendentemente da qualsiasi particolare
pratica religiosa o appartenenza gruppale. Gli studiosi pensano che la pratica del buddhismo sia un modo per studiare la
natura della mente più che una tradizione teistica. E' possibile praticare una meditazione mindful di derivazione
buddhista e abbracciare alcuni aspetti della visione psicologica della mente connessa a questa prospettiva e
contemporaneamente continuare a coltivare la propria fede e la propria appartenenza ad una religione diversa. Nella
pratica contemplativa mindful si focalizza la mente in modi specifici per sviluppare una forma più rigorosa di
consapevolezza del momento presente che può alleviare in modo diretto la sofferenza della propria vita. Secondo
Kabat-Zinn (che ha dedicato “una definizione operativa della mindfulness è che la consapevolezza che emerge se
prestiamo attenzione in modo intenzionale, nel momento presente e in modo non giudicante, al dispiegarsi
dell'esperienza momento per momento. Egli nota che le origini buddhiste della mindfulness e le leggi naturali della
mente rivelano una descrizione fenomenologica coerente con la natura della mente, delle emozioni, della sofferenza e
della sua potenziale remissione basata su pratiche molto rifinite finalizzate a elaborare un addestramento e una cura
sistematica di vari aspetti della mente e del cuore per mezzo della facoltà di attenzione mindful. Bisognerebbe notare
che la mindfulness, riguardo l’attenzione, è di necessita universale. Non ha nulla di particolarmente buddhista. Siamo
tutti mindul a seconda dei momenti: è una capacità intrinsecamente umana. Il contributo della tradizione buddhista è
stato in parte quello di sottolineare dei modi semplici ed efficaci per coltivare e rifinire questa capacità e portarla in tutti
gli aspetti della vita. Le pratiche che sviluppano dei modi di essere mindful permettono all’individuo di percepire la
natura più profonda del funzionamento della mente. Ci sono molti modi per coltivare la consapevolezza mindful,
ognuno dei quali sviluppa una consapevolezza delle facoltà della mente. Le pratiche di consapevolezza mindful possono
essere individuate in una molteplicità di attività umane. In ognuna di queste attività, che le pratica deve focalizzare la
mente in modo molto specifico sulla sua esperienza momento per momento. Le applicazioni moderne del concetto
generale di mindfulness si sono costruite a partire dalle capacità di meditazione tradizionale e hanno sviluppato degli
approcci non meditativi specifici a questo processo umano dell’essere mindful. Un utile punto di vista da cui partire è
che la mindfulness consista in dimensioni importanti dell’autoregolazione dell’attenzione e in un certo orientamento
verso l’esperienza. Alcuni autori hanno sostenuto che i meccanismi della mindfulness consistono in intenzione,
attenzione e in una attitudine specifica, che assieme contribuiscono, ognuna a suo modo, a un processo che permette di
vedere le cose in modo nuove, processo che viene chiamato “ri-percepire”. Uno studio sintetico di molti dei questionari
esistenti sulla mindfulness ha rivelato l’esistenza di cinque fattori che sembrano emergere da varie indagini
indipendenti:
1) non reattività rispetto all’esperienza interna
2) osservare/notare/dedicarsi alle sensazioni, alle percezioni, ai pensieri e ai sentimenti

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3) agire in modo consapevole/non con il pilota automatico, concentrazione/non distrazione
4) descrivere/etichettare con le parole
5) avere un atteggiamento non giudicante rispetto all’esperienza
Eccezion fatta per l’osservazione, questi fattori si sono rivelati i costrutti statisticamente più utili e affidabili per definire
operativamente la mindfulness. Sembra che ne rivelino quattro aspetti relativamente indipendenti. La mindfulness è
promossa da una forma di sintonizzazione interiore. La riflessione sulla natura dei propri processi mentali è una forma
di “meta cognizione”, un modo per pensare al pensiero nel senso più ampio del termine; quando abbiamo una meta
consapevolezza, ciò indica che siamo consapevoli della consapevolezza. La consapevolezza della consapevolezza è un
aspetto di quella che possiamo considerare una forma di riflessione. La consapevolezza mindful implica riflessione sulla
natura interna della vita, sugli eventi della mente che emergono momento per momenti.

VIVERE CON IL PILOTA AUTOMATICO: MINDLESSNESS VS MINDFULNESS

Non c’è niente di male a fantasticare e a lasciare che la nostra mente vaghi dove vuole: la pratica della mindfulness può
focalizzare intenzionalmente la consapevolezza su qualsiasi cosa emerga nella coscienza. Se si vuole permettere alla
nostra mente di fare sogni ad occhi aperti e siamo consapevoli della nostra consapevolezza di questa attività
immaginativa, allora questa sarebbe una reverie mindful. Noi spesso possiamo eseguire dei comportamenti ed essere
persi in un pensare che riguarda qualcosa di diverso rispetto all’attività che stiamo facendo. Abbiamo circuiti neurali
che svolgono questo comportamento automatico di continuo, permettendoci di fare molte cose simultaneamente. Per
alcune persone, questo “vivere in automatico” è un modo routinario di vivere. Se la nostra attenzione è diretta a
qualcosa di diverso rispetto a quello che stiamo facendo per la maggior parte del tempo, allora finiamo per sentirci vuoti
e intorpiditi. Quando il pensare in automatico domina il nostro senso soggettivo del mondo, la vita diventa ripetitiva e
noiosa. Anziché fare esperienza con un senso emergente di novità e scoperta, finiamo per sentirci morti dentro. Vivere
in automatico ci espone anche al rischio di reagire senza mindfulness alle situazioni, senza riflettere sulle varie
possibilità di risposta che abbiamo a disposizione. Spesso reagiamo in modo automatico e queste nostre reazioni danno
vita a riflessi simili nelle altre persone. Una cascata di mindlessness che rinforza questo modo di fare può creare un
mondo privo di interazioni riflessive, un mondo pieno di crudeltà e distruzione. Essere mindful apre le porte non solo
della possibilità di essere consapevoli del momento in modo più pieno ma avvicinando l'individuo a un senso più
profondo del proprio mondo interno, offre l'opportunità di accrescere la propria compassione ed empatia. La
mindfulness è un insieme di abilità che accrescono la capacità di stabilire delle relazioni amorevoli con le altre persone;
accresce la capacità di riempirsi delle sensazioni del momento e di sintonizzarsi con il nostro stato dell'essere. Quando
diventiamo consapevoli anche della nostra consapevolezza possiamo intensificare il nostro focus sul presente. Ci
impegniamo con noi stessi e con le altre persone stabilendo un legame più autentico, riflessivo e attento. La vita si
arricchisce poiché siamo consapevoli della straordinaria esperienza di essere, di essere vivi, di vivere in questo
momento.

COAL E CONSAPEVOLEZZA GENTILE

Oltre alla consapevolezza riflessiva della consapevolezza del momento presente, la mindfulness ci vavvicina al qui e ora
con curiosità, apertura, accettazione e amore (curiosity, openess, acceptance, love = COAL). Per coltivare la
consapevolezza mindful dobbiamo diventare consapevoli della consapevolezza e del fatto che siamo in grado di notare
quanto questi preconcetti “dall'alto verso il basso”relativi a ciò che dovremmo o non dovremmo essere, ci impediscono
di vivere in modo mindful, di essere gentili con noi stessi. Il termine “dall'alto al basso” si riferisce al modo in cui i
nostri ricordi, le credenze e le emozioni plasmano le nostre sensazioni dirette, “dal basso verso l'alto”. Essere gentili con
noi stessi è ciò che ci dà la forza e la risolutezza necessaria a rompere la prigionia dei processi di elaborazione dall'alto
verso il basso e ad affrontare gli eventi della vita, pianificati o no che siano, con curiosità, apertura, accettazione e
amore. L'approccio alla mindfulness come forma di relazione con noi stessi può darci un'idea di come realizzare questo
stato. Intendendo la mindfulness come forma di sintonizzazione intrapersonale è possibile chiarire quali sono i
meccanismi per mezzo dei quali diventiamo i nostri migliori amici con la pratica della mindfulness. La sintonizzazione
è il cuore di tutte le relazioni che implicano il prendersi cura di un'altra persona. Con la consapevolezza mindfulness la
mente entra in uno stato dell'essere in cui le nostre esperienze del qui e ora sonos entite in modo diretto, accettate per
quello che sono e riconosciute con gentilezza e rispetto. Questo è il tipo di sintonizzazione interpersonale che promuove
l'amore. Siegel crede che sia una sintonizzazione intrapersonale quella attraverso la quale la consapevolezza mindful
può promuovere l'amore per noi stessi. E' stato dimostrato che le relazioni interpersonali promuovono la longevità
emotiva e ci aiutano a raggiungere stati di benessere e salute dal punto di vista medico. La consapevolezza mindfulness
è una forma di relazione con noi stessi, una forma interna di sintonizzazione che crea stati di salute simili. Questo può
essere il meccanismo, finora ancora ignoto, per mezzo del quale la mindfulness promuove il benessere.

APPLICAZIONI MEDICHE

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Avvertendo la profonda importanza del potere della mindfulness, Kabat-Zinn ha avviato un progetto finalizzato ad
applicare queste idee antiche alla medicina moderna. Quella che era iniziata come un'ispirazione avuta durante un ritiro
in silenzio ha portato Kabat-Zinn a sviluppare un approccio che oggi viene applicato e insegnato. Il programma MBSR
(Mindfulness Based Stress Reduction) ha avvicinato l'antica pratica della mindfulness a individui con una vasta gamma
di patologie mediche croniche. Il training MBSR può aiutare a ridurre gli stati soggettivi di sofferenza e a migliorare la
funzione immunitaria dei pazienti, ad accelerare la loro guarigione e a coltivare le relazioni interpersonali e il senso
globale di benessere. La MBSR è stata adottata in centinaia di programmi in tutto il mondo e le ricerche hanno
dimostrato che il suo uso determina miglioramenti fisiologici, psicologici e interpersonali in varie popolazioni di
pazienti.

DISCERNIMENTO E IMPLICAZIONI PER LA SALUTE MENTALE

La mindfulness ha influenzato una vasta gamma di approcci alla psicoterapia con nuove ricerche che rivelano
miglioramenti significativi in vari disturbi, con una riduzione dei sintomi e una prevenzione delle ricadute. Può
prevenire le ricadute nei casi di depressione cronica trattati con la terapia cognitiva; è utilizzata come componente
essenziale nel trattamento del disturbo borderline di personalità con la terapia dialettico comportamentale. I principi
della mindfulness sono anche rilevabili nell'applicazione della cosiddetta “terapia dell'accettazione e dell'impegno” del
modello comportamentale contemporaneo. Uno dei primi studi che ha dimostrato che la psicoterapia può modificare il
funzionamento del cervello ha utilizzato i principi della mindfulness nel trattamento di soggetti con disturbo ossessivo-
compulsivo. L'idea generale degli effetti benefici della mindfulness è che l'accettazione della propria situazione possa
alleviare il conflitto interno che si scatena quando le nostre aspettative sulla vita non corrispondono a come la vita è in
realtà. Essere mindful implica percepire ciò che è, anche i propri giudizi e notare che queste sensazioni, queste
immagini, questi sentimenti e pensieri, vengono e se ne vanno. Se si assume una posizione COAL, il resto va da sé. Da
questo modo di essere riflessivo emerge un processo fondamentale chiamato “discernimento” in cui diventa possibile
essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una
forma di disidentificazione dall'attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, delle
immagini, dei sentimenti e dei pensieri (SIFT) arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla
superficie del mare della mente. Nella sua essenza, il discernimento è il modo in cui la mindfulness può contribuire ad
alleviare la sofferenza. Il discernimento ci dà anche la saggezza necessaria a interagire in modo più riflessivo e
compassionevole con le altre persone. Diventando gentili con noi stessi, possiamo esserlo anche con gli altri. Superando
le nostre abitudini mentali automatiche, diventiamo liberi di impegnarci gli uni con gli altri con un senso più profondo
di connessione ed empatia.

INSEGNAMENTO E TERAPIA MINDFUL

Un approccio mindful alla terapia e all'educazione implica un cambimento del nostro atteggiamento nei confronti delle
persone con cui lavoriamo. Il coinvolgimento attivo dello studente nel processo di apprendimento consente
all'insegnante di unirsi nel vantaggio di scoperta che l'insegnamento può essere. L'insegnante non deve alimentare
l'illusione di possedere una conoscenza assoluta. Insieme, l'educatore e lo studente possono affrontare la sfida eccitante
di sviluppare un insieme di conoscenze che comprende la natura della conoscenza, la sua dipendenza dal contesto ed è
attento alle novità e alle distinzioni. Osservare in quest'ottica anche le persone in psicoterapia può sembrare una cosa
nuova per alcuni terapeuti. Partendo dal presupposto che la mindfulness è un insegnamento che reca sollievo alla
sofferenza si userà il termine paziente (che significa etimologicamente, persona che soffre). La mindfulness ha delle
implicazioni dirette perchè è in grado di migliorare la vita delle persone che devono far fronte a fattori di stress e
patologie mediche e psicologiche in setting clinici e nelle scuole. La posizione mindful del terapeuta gioca un ruolo
importante nel favorire l'efficacia di tutto il trattamento. Se in quanto terapeuti abbracciamo l'accettazione e il
discernimento della mindfulness allora riusciamo a diventare per i pazienti dei compagni di viaggio in questo incerto
percorso che è la vita. In quanto insegnanti possiamo unirci agli studenti nel vedere il mondo attraverso le lenti
dell'incertezza creativa e riconoscere profondamente i paesaggi sempre mutevoli dei mondi esterni e interni delle nostre
vite sempre in movimento.

PERCHE' IL CERVELLO MINDFUL?

Esplorare i meccanismi potenziali del cervello correlati alla mindfulness ci permette di cogliere la relazione che c'è tra
la nostra visione comune e quotidiana della mindfulness, l'uso educativo dei concetti della mindfulness cognitiva e l'uso
clinico della consapevolezza riflessiva mindful nella medicina e nelle pratiche della salute mentale. Questi usi a volte
confusi del termine mindfulness possono effettivamente evidenziare l'esistenza di percorsi neurali comuni alle diverse
declinazioni della mindfulness. Chiarire questi meccanismi neurali associati alla mindfulness cognitiva e riflessiva può

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aiutare ad espandere ulteriormente la comprensione scientifica del suo impatto sul benessere fisiologico e psicologico.
Un'altra dimensione importante del cervello mindful è che, comprendendo i meccanismi neurali associati alla
consapevolezza mindful, possiamo essere in una posizione migliore per identificare le sue qualità umane universali e
renderle più accessibili e accettabili a un pubblico più ampio.

COME LO SAPPIAMO?

Siegel ha partecipato a diverse immersioni intensive e dirette nella consapevolezza mindful per sentire la potenza di
questo importante modo di essere nella vita. Questo aspetto del viaggio ci permette di vedere la dimensione interiore
della mindfulness dall'interno. Il secondo modo di conoscere è ugualmente potente, ma diverso: è la prospettiva
scientifica della consapevolezza mindful. Il cervello è un sistema complesso, ed effettivamente non si sa come funziona,
non si hanno le idee chiare su come le sue funzioni siano in relazione con la natura soggettiva della mente e se ne sa
ancor meno su come funzioni la consapevolezza. Ma si hanno molti indizi rispetto all'interazione tra l'esperienza
mentale e la struttura e le funzioni del cervello. La funzione del cervello e la vita mentale non sono entità identiche.
Nell'esplorare la consapevolezza mindful, dobbiamo essere molto umili rispetto a ciò che sappiamo sul ruolo del
cervello e rivolgerci con apertura mentale agli aspetti neurali della mindfulness può solo aiutare a far luce sui processi e
sui mezzi associati alla coltivazione di questa dimensione importante delle nostre vite soggettive. Si può dire che le
funzioni della mente e del cervello sono correlate, ma in realtà non si sa esattamente in che modo l'attività del cervello e
la funzione della mente si creino reciprocamente. Risulta troppo semplicistico dire che “il cervello crea la mente”
perchè adesso si sa che anche la mente può attivare il cervello. Il processo che regola il flusso di energia e informazioni
può stimolare in modo diretto l'attivazione del cervello e alla fine può modificare le sue connessioni strutturali.
Possiamo guardare al cervello per individuare le correlazioni con i processi mentali come la consapevolezza mindful.
Uno dei vantaggi di rivolgersi al cervello per cercare delle correlazioni tra il suo funzionamento e quello della mente è
che possiamo effettivamente apprendere di più sulla mente. Considerare la consapevolezza mindful come una relazione
con se stessi che coinvolge il circuito neurale della nostra vita sociale ci permette di gettare una luce nuova sui processi
fondamentali dell'esperienza della mindfulness. Ricerche preliminari sulla funzione cerebrale fanno pensare che la
mindfulness modifichi il cervello, perchè promuove la plasticità neurale, il cambiamento delle connessioni neurali in
risposta all'esperienza.

LA MINDFULNESS COME UNA RELAZIONE CHE PROMUOVE L'INTEGRAZIONE

Molto prima di passare del tempo coltivando le nostre menti per mezzo della riflessione, ci siamo evoluti come creature
sociali. Gran parte dei processi che si svolgono nel nostro cervello a riposo, sembrano riguardare circuiti neurali
correlati con la comprensione delle altre persone. Sono i circuiti sociali del cervello quelli che usiamo per primi per
comprendere la mente, i sentimenti, le intenzioni e gli atteggiamenti delle altre persone. Pensando che la
consapevolezza mindful sia un modo per coltivare la consapevolezza che la mente ha di se stessa, sembra probabile che
essa implichi il coinvolgimento di alcuni aspetti dei meccanismi neurali originari necessari ad essere consapevoli delle
altre menti. Quando diventiamo consapevoli delle nostre intenzioni e del nostro focus attentivo, allora è probabile che
stiamo utilizzando proprio quei circuiti del cervello che rivolgiamo alle altre persone. COAL è la posizione mentale dei
genitori che forniscono un attaccamento sicuro. La sintonizzazione interpersonale tipica dell'attaccamento sicuro tra
genitore e figlio corre in parallelo con la sintonizzazione intrapersonale della consapevolezza mindful. La proposta
avanzata da Siegel e i suoi collaboratori è che le relazioni di attaccamento sicuro tra genitore e figlio e la relazione
terapeutica efficace tra clinico e paziente promuovano la crescita delle fibre dell'area prefrontale. La funzione della
corteccia prefrontale è di tipo integrativo: i lunghi assoni dei neuroni prefrontali raggiungono aree distanti e
differenziate del cervello e del corpo. Questo legame di elementi differenziati è la definizione letterale di un processo
fondamentale, quello di integrazione. Per molte ragioni l'integrazione può essere considerata come il meccanismo di
base comune dei vari percorsi che portano al benessere.

In che modo la sintonizzazione promuove l'integrazione?

Quando le relazioni tra un genitore e un figlio sono sintonizzate, il piccolo sente che il genitore percepisce ciò che prova
e ne ricava un senso di stabilità nel momento presente. Nel corso delle interazioni nel qui e ora il bambino si sente bene,
in relazione e amato. Il mondo interno del bambino è compreso con chiarezza dal genitore e quest'ultimo finisce per
entrare in risonanza con lo stato del bambino. Questa è la sintonizzazione. Nel corso del tempo, questa comunicazione
sintonizzata permette al piccolo di sviluppare i circuiti di regolazione del cervello che danno all'individuo una fonte di
resilienza nel corso dello sviluppo. La resilienza assume la forma della capacità di auto regolazione e dell'impegno con
gli altri in relazioni empatiche.

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2. NOZIONI FONDAMENTALI SUL FUNZIONAMENTO DEL CERVELLO

LO SVILUPPO

Il sistema nervoso inizia a svilupparsi nell'embrione come ectoderma (strato più esterno delle cellule che andranno a
formare la pelle). Alcuni gruppi di queste cellule più esterne si ripiegano verso l'interno e formano il tubo neurale
(midollo spinale). Il fatto che i neuroni (cellule fondamentali del cervello) nascano “all'esterno” e poi viaggiano verso
“l'interno” del corpo sostiene, da una prospettiva evolutiva, un'idea filosofica secondo cui il cervello ha origine
nell'interfaccia tra il mondo interno e il mondo posto all'esterno dei nostri sé corporei. Quando pensiamo al cervello
mindful è utile tenere a mente questa interfaccia tra l'interno e l'esterno. Il nostro cervello è la parte superiore di un
sistema nervoso esteso che è distribuito in tutto il corpo. Si tratta di un organo per natura radicato nel corpo. Tutto il
sistema nervoso centrale stabilisce la sua impalcatura, la sua architettura di base, durante lo sviluppo nel ventre della
madre. La metà del nostro materiale genetico è direttamente o indirettamente responsabile della struttura neurale, cosa
che rende i geni importanti per lo sviluppo del sistema nervoso centrale. Più si avvicina il momento in cui il feto dovrà
lasciare l'utero, però, più le connessioni tra i neuroni sono influenzate anche dall'esperienza. Per il sistema nervoso
centrale “l'esperienza” implica l'attivazione di scariche neurali in risposta agli stimoli. I neuroni si attivano quando noi
facciamo un'esperienza. Con l'attivazione di un neurone si crea il potenziale per alterarne le sinapsi favorendo la crescita
di nuove sinapsi, rafforzando quelle esistenti o stimolando la crescita di nuovi neuroni che creano a loro volta nuove
connessioni sinaptiche. Questa crescita utilizza sia i geni sia l'esperienza per produrre cambiamenti nella connettività
dei neuroni: neuroplasticità è il termine usato quando le connessioni tra i vari neuroni cambiano in risposta
all'esperienza.

NEUROPLASTICITA'

L'esperienza può determinare dei cambiamenti strutturali nel cervello. Spesso questi cambiamenti hanno luogo a livello
della microarchitettura finemente sintonizzata del cervello. Sara Lazar ha pubblicato un lavoro che ha rivelato dei
cambiamenti strutturali a seguito di pratiche mindful e questo ci mostra che la crescita del tessuto neurale del cervello
favorita da queste pratiche è realmente significativa e visto che questa crescita è il risultato dell'esperienza si può
pensare che la neuroplasticità sia il cuore di questa scoperta. La consapevolezza mindful è una forma di esperienza che
sembra promuovere la plasticità neurale. Quando focalizziamo la nostra attenzione in modi specifici, stiamo attivando i
circuiti del cervello e questa attivazione può rafforzare le connessioni sinaptiche delle aree coinvolte. Questi mutamenti
neuroplastici creati dalla concentrazione della nostra mente ci aiutano a vedere il nesso tra la pratica della
consapevolezza mindful e la creazione del benessere.

IL CERVELLO NEL PALMO DELLA NOSTRA MANO

Raggiungere la conoscenza di come funziona il cervello può sembrare un'impresa titanica, ma alcune scoperte recenti
rivelano dei principi di base che lo rendono non solo effettivamente comprensibile ma anche accessibile, utile e persino
divertente. Per le esplorazioni del cervello mindful abbiamo bisogno di conoscere le nozioni di base sulle localizzazioni
cerebrali. Un utile strumento per visualizzare il nostro cervello (oltre ai diagrammi, alle mappe dei circuiti neurali e alle
immagini reali del suo funzionamento) si trova nelle nostre mani (mettendo il pollice nel mezzo e ricoprendolo con le
altre dita). Il modello della mano è orientato in modo tale che il polso rappresenta il midollo spinale che si trova nelle
nostre schiene, il volto della persona è collocato davanti alle unghie delle dita e la parte più alta della mano è la parte
superiore della testa. Il tronco encefalico (esegue processi di base importanti: regolazione del battito cardiaco e della
frequenza del respiro; gli stati di veglia e di sonno; gli aspetto della risposta attacco-fuga-freezing) è il palmo della
mano, le aree limbiche ( impegnate nell'attaccamento, nella memoria, nella comprensione del significato, nella
creazione degli affetti, delle sensazioni interne e delle emozioni; contiene l'ipotalamo, principale regolatore degli
ormoni) il pollice e la corteccia (permette di mediare i processi più complessi – percezione, pianificazione, attenzione –
ed è divisa in molti lobi che svolgono funzioni diverse) è rappresentata dalle dita ricurve. La regione prefrontale
mediale connette i processi del corpo, del tronco encefalico, della corteccia e i processi sociali in un'unità funzionale. Le
connessioni sinaptiche estese in tutto il corpo ci mettono in relazione anche con le altre persone. Secondo un approccio
neurobiologico interpersonale allo studio dei modi in cui la vita sociale promuove il benessere, l'integrazione neurale è
l'esito di relazioni sintonizzate. L'integrazione neurale, la coordinazione e l'equilibrio del cervello grazie a cui le diverse
aree sono connesse tra loro per formare un tutto funzionale, sembra essere promossa dalla sintonizzazione delle
relazioni di attaccamento sicuro. Sembra che la consapevolezza mindful promuova questa integrazione neurale per
mezzo di una forma di sintonizzazione intrapersonale. La consapevolezza dell'esperienza che facciamo momento per
momento ci dà la possibilità di sentire e accettare direttamente la nostra esperienza mentale. Questo stato di
consapevolezza può coinvolgere in uno stato integrato coerente varie regioni del cervello. L'integrazione neurale può

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essere essenziale per creare un equilibrio basato sull'auto-regolazione.

INTEGRAZIONE NEURALE, MINDFULNESS AUTO-REGOLAZIONE

Il concetto di integrazione neurale è una prospettiva molto ampia, macrosistemica, sul funzionamento del cervello.
Nelle neuroscienze è possibile concentrarsi di più su un livello microanalitico. La visione macroscopica ci permette non
solo di vedere il cervello e il corpo come un’unità funzionale complessiva ma anche di andare oltre e di esaminare il
modo in cui i segnali che provengono dal cervello/corpo interagiscono con quelli di altre persone nelle relazioni, nelle
famiglie e nelle società. Assumendo una prospettiva neurale sulla sintonizzazione interpersonale e considerando la
mindfulness come una forma di sintonizzazione intrapersonale, è naturale pensare che l’integrazione neurale possa
giocare un ruolo cruciale negli stati della mindfulness. L’integrazione neurale crea probabilmente un funzionamento
cerebrale, mentale e corporeo ottimale in virtù della coordinazione e dell’equilibrio che stabilisce nell’attivazione dei
neuroni. Le funzioni correlate all’attività delle aree mediali della corteccia prefrontale sono:

1) la regolazione corporea che emerge quando le funzioni di freno e acceleratore del sistema nervoso autonomo
sono coordinate ed equilibrate;
2) la comunicazione sintonizzata, che implica la coordinazione degli input che provengono da un’altra mente con
l’attività della propria mente;
3) l’equilibrio emotivo, che implica che le aree limbiche preposte alla generazione degli affetti possano ricevere
un’attivazione adeguata in modo che la vita abbia significato e vitalità, ma non tanto da diventare caotica;
4) la flessibilità di risposta, capacità di fermarsi un momento prima di agire. Un processo del genere richiede la
valutazione degli stimoli presenti, il ritardo della reazione, la selezione tra una varietà di opzioni possibili e
l'inizio dell'azione;
5) l'empatia, che sembra si basi su dei cambiamenti interni mediati dai circuiti della risonanza, nei quali i
mutamenti del sistema limbico e del corpo sono avviati dalla percezione dei segnali di un'altra persona;
6) l'insight, o consapevolezza cosciente di sé, connette il passato, il presente e il futuro;
7) la modulazione della paura, consentita dal rilascio di un neurotrasmettitore inibitore che agisce nelle aree
inferiori del sistema limbico che mediano la paura;
8) l'intuizione, che sembra implicare la registrazione degli input che provengono dalle reti neurali di elaborazione
delle informazioni che circondano i nostri organi interni. La saggezza del nostro corpo è un meccanismo
neurale per mezzo del quale elaboriamo i modi di conoscenza profondi per mezzo dei processi paralleli diffusi
nel nostro corpo che provengono dai nostri organi cavi (cuore, polmoni, intestini);
9) la moralità, nella mediazione della quale vi è la partecipazione della corteccia prefrontale mediale. Prendere in
considerazione il quadro più ampio, immaginare ciò che è meglio in generale e non solo per se stessi, anche
quando siamo soli, è quello che si può chiamare moralità.

SINISTRA E DESTRA

Il cervello è diviso in un lato destro e in un lato sinistro. Nel corso della nostra evoluzione, l'emisfero destro e quello
sinistro hanno assunto funzioni diverse. I benefici di questa asimmetria possono essere dati dal fatto che con una
maggiore differenziazione siamo in grado di raggiungere una complessità funzionale maggiore. Il funzionamento
dell'emisfero sinistro è più facile da ricordare perchè le sue funzioni hanno quattro L: linguistica, linearità, logica e
(pensiero) letterale. L'emisfero destro invece rivela le seguenti caratteristiche: nonverbale, olistico, visuospaziale;
caratterizzato da un insieme di specialità non correlate (memoria autobiografica, mappa integrata di tutto il corpo,
emozioni spontanee grossolane, risposta iniziale empatica non verbale, modulazione dello stress e dominanza
dell'aspetto di allerta dell'attenzione). La coordinazione tra l'emisfero sinistro e destro nel plasmare il nostro tono
emotivo globale può essere una dimensione importante del modo in cui la consapevolezza mindful altera il nostro stile
affettivo. In presenza di funzioni distinte, il cervello può favorire la connessione per realizzare funzioni più complesse e
adattive (integrazione neurale). La creatività emerge non da un emisfero o dall'altro, ma dalla loro integrazione.
Integrare l'emisfero destro e quello sinistro ci aiuta a dare un senso alla nostra vita.

“CERVELLO” E “MENTE”

poiché la mente può essere considerata un'entità sia incarnata sia relazionale, il nostro cervello può essere
effettivamente considerato come l'organo sociale del corpo: le nostre menti si mettono in relazione per mezzo del
circuito neurale dei nostri corpi, circuito programmato per ricevere i segnali degli altri. Per esaminare la relazione della
mente con il cervello dobbiamo stare attenti alle idee preconcette che potrebbero restringere la nostra comprensione e
distorcere in modo sistematico il nostro pensiero. Dobbiamo essere cognitivamente mindful: essere aperti ai contesti,
abbracciare modi nuovi di percepire, distinguere differenze sottili tra le idee e creare nuove categorie di pensiero nella
nostra consapevolezza dei concetti momento per momento. La mente può usare il cervello per creare se stessa, per

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esistere ha bisogno di utilizzare l'attività del cervello per i propri scopi. La mente non è “solo” attività cerebrale; il
flusso di energia e informazioni ha luogo in un cervello collocato in un corpo e nel contesto delle relazioni. Questa
interconnessione tra cervello, mente e relazioni è un triangolo di realtà e si può vedere l'influenza tridirezionale di
queste tre dimensioni irriducibili. Le relazioni plasmano il flusso di energia e informazioni; ma anche l'attività del
cervello plasma direttamente il modo in cui è regolato il flusso di energia e informazioni. L'attenzione al momento
presente può essere plasmata direttamente dalle comunicazioni con le altre persone e dalle attività del cervello. Una
delle sfide maggiori alla nostra capacità di prestare attenzione al momento presente sono i pattern di attivazione
cerebrali dall'alto verso il basso, che ci bombardano con scariche neurali e chiacchiere mentali e ci allontanano dalla
possibilità di essere nel momento.

3. UNA SETTIMANA DI SILENZIO

Siegel descrive la sua esperienza a Boston, per un ritiro di meditazione di una settimana, consapevole che insegnare la
mindfulness alle persone può migliorare di molto il loro benessere fisico e mentale.

SCIENZIATI IN SILENZIO

Le parole sono pacchetti digitali di informazioni che trasmettono a noi stessi e alle altre persone i nostri modelli della
realtà concettuale, il modo in cui vediamo e pensiamo al mondo. Ma il silenzio crea un nuovo equilibrio tra la memoria
e il momento. Il nostro linguaggio normale può essere una prigione, può rinchiuderci nelle nostre ridondanze,
annebbiare i nostri sensi e oscurare la nostra attenzione.

Giorno uno

I partecipanti si immergono nella realtà soggettiva delle loro menti. La forma di mindfulness che apprendono deriva
dalla pratica buddhista della Vipassana, termine spesso tradotto come “vedere con chiarezza”. Osservare il proprio
respiro è il primo passo di un training di consapevolezza minful. Quando si nota che l'attenzione ha divagato,
distraendosi dal respiro, occorre riportarla gentilmente al respiro. Il continuo divagare (proliferazione della mente) è una
parte del tutto naturale della mente e si potrebbe provare a focalizzarsi su metà respiro alla volta. Una volta che si
diventa consapevoli del fatto che le nostre menti sono ostaggio di pensieri selvaggi, è utile tornare con calma a
concentrarsi sul respiro. Dopo la meditazione seduta, subentra una meditazione camminata in cui occorre concentrarsi
sulle sensazioni che si provano passo dopo passo. Se la mente si distrae dalle sensazioni che si provano, si deve tornare
a concentrarsi sulla camminata. La concentrazione sul respiro rafforza il primo passo della mindfulness, che è quello di
indirizzare e sostenere la nostra attenzione. Imparando a mantenere focalizzata la nostra attenzione, possiamo fermare il
flusso costante dei pensieri ribelli, dei concetti che costituiscono i nostri processi mentali e si intromettono
nell'esperienza diretta delle sensazioni. La sensazione è l'accesso all'esperienza diretta. Avvicinarsi alle proprie
sensazione è un modo che ci permette di fare semplicemente esperienza, senza l'interferenza del pensiero.

Giorno due

Le sensazioni sono privilegiate rispetto ai pensieri: qualsiasi cosa ci viene in mente, dalle sensazioni ai pensieri, va
accettata per come si presenta, senza esercitare nessun giudizio. In tutte le nostre attività dobbiamo essere “mindful”,
che significa essere svegli e consapevoli di ciò che accade, quando accade.

Giorno tre

La mente è sempre in flusso, e nulla sembra predittivo di niente. Si dovrebbero abbandonare le aspettative e lasciare che
qualsiasi cosa accada, accada. Il respiro è un punto di ancoraggio, un luogo da cui partire, ma notare i suoni ci dà
un'estensione maggiore. L'osservazione attenta del corpo ci permette di aprire la nostra consapevolezza in modo
intenzionale alle sensazioni predominanti. Semplicemente scivoliamo nella consapevolezza del corpo o dei nostri sensi
e accogliamo tutto ciò che ne deriva.

Giorno quattro

La mente recettiva non è una mente passiva. C'è una qualità di impegno attivo, non solo con l'oggetto della nostra
attenzione, ma con la consapevolezza stessa. Ma questo senso attivo non è l'esito di uno sforzo: ha una qualità fluente,
radicata e intenzionale. Immersi nella mindfulness, non è possibile annoiarsi. Nessun momento è come un altro, passo
dopo passo. Ogni passo è unico. Non vi è posto per qualcosa di diverso dal qui, per nessun momento diverso da quello

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presente.

Giorno cinque

Costruire la consapevolezza mindful ci aiuta a vedere il pensiero come qualcosa che emerge e poi svanisce. Il pensiero
perde il suo potere di sequestrarti e di farti prigioniero. La gentilezza amorevole è una parte fondamentale della
meditazione mindful e mira a riempirci di un rispetto positivo per tutte le creature viventi, noi stessi inclusi, e per tutto il
mondo. E' necessario iniziare con la gentilezza amorevole verso noi stessi perchè, se non riusciamo a provare queste
cose per noi stessi, come possiamo provarle per gli altri?

Giorno sei

I tre flussi palpabili della consapevolezza che confluiscono nel fiume della coscienza sono l'esperienza sensoriale
diretta, il flusso concettuale e l'osservatore. Ognuno di questi tre flussi dà la sensazione di conoscere il momento
presente, un conoscere paradossalmente senza parole, senza concetti, senza sensazioni (SOCK – sensation, observation,
concept, knowing). L'ABCDE (a balance of concept and direct experience) della mindfulness è “un equilibrio di
concetti ed esperienze diretta”.

Giorno sette

L'osservazione impedisce di andare con il pilota automatico. La mindfulness può implicare qualcosa in più del semplice
sperimentare le proprie sensazioni, può includere la capacità di essere consapevoli della consapevolezza, di osservare
l'esperienza. Quando osserviamo, possiamo disinesscare le chiacchiere automatiche e il filtro meno ovvio che le nostre
emozioni e i nostri schemi abituali creano quando ci distanziamo dall'esperienza diretta (YODA – you observe and
decouple automaticity – tu osservi e disinneschi gli automatismi)

La mancanza di contatti durante questo ritiro, ha permesso alla mente di Siegel di essere ancora una volta aperta, di
mettersi in relazione con se stessa. C'è un certo tipo di chiarezza che deriva dal silenzio.

4. LA SOFFERENZA E I FLUSSI DELLA CONSAPEVOLEZZA

Un certo numero di studi ha messo in evidenza i risultati relativi al miglioramento delle funzioni immunitari, cardiache
e interpersonali associato alle pratiche della mindfulness (MBSR – mindfulness Based Stress Reduction).Se
contrastiamo l'emergere dei processi mentali possiamo impegnarci in una grande battaglia interiore che crea sofferenza
mentale. Questa è l'ironia di una consapevolezza mindful: la piena accettazione ne è il fulcro. Senza cercare attivamente
di raggiungere un obiettivo, ci libera dalla sofferenza. Siegel riporta degli esmepi che illustrano questa idea.

METTERSI IN EQUILIBRIO SU UNA SOLA GAMBA

Un esercizio per capire quanto possa essere importante la consapevolezza mindful è quello di mettersi in equilibrio su
una sola gamba. In questo modo si può capire come anche una percezione può essere un impedimento, dall'alto verso il
basso, alla sintonizzazione con noi stessi. Le influenze dall'alto verso il basso sui nostri canali percettivi distorcono la
nostra capacità di percepire i segnali che provengono da noi stessi. I quattro flussi della consapevolezza influenzano la
nostra capacità di essere del tutto nel momento. A volte abbiamo bisogno di ricordare di invitare noi stessi,
completamente, nel rifugio della nostra mente.

FLUSSI DI CONSAPEVOLEZZA

La sensazione è chiara. L'osservazione distinta. La concettualizzazione ha la sua struttura e la sua sensazione unica.
Anche il sapere assomiglia a un processo emergente che fluisce dall'intrecciarsi dei tre flussi, e forse ne diventa uno a
sé. Sento, osservo, concettualizzo e so tutto all'interno della consapevolezza. La mindfulness ha una qualità “essenziale”
o immediata che non è ristretta alle sensazioni fisiche dei primi sei sensi. Questa consapevolezza recettiva ha la qualità
accogliente dell'essere “grato per qualsiasi cosa arrivi” e invito ciò che arriva a entrare, con apertura e sorriso.
L'equilibrio non coincide con simultaneità. L'esperienza immediata suscita un senso del riconoscimento e della
familiarità. Questa “esperienza diretta” può coinvolgere i quattro domini della sensazione, dell'osservazione, della
concettualizzazione e del sapere. Si può utilizzare ognuno di questi flussi per avere consapevolezza dell'altro: posso
sentire il sapere, posso conoscere il sentire. Questi flussi di consapevolezza sembrano scorrere insieme in modo pieno e
libero quando si riesce a entrare in quello stato ricettivo in cui si dà il benvenuto a tutti, in qualsiasi forma si presentino.

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SILENZIO E SORPRESA

Il silenzio crea una rara opportunità per prendersi una pausa e immergersi nella quiete, per diventare intimi con la
propria mente. Nelle nostre vite tanto occupate, le nostre menti sono piene e reattive. Quando iniziamo il viaggio per
sintonizzarci con le nostre menti fermandoci nell'immobilità, entriamo in un nuovo regno dell'esperienza che può
produrre sorpresa in ogni momento. Una sorpresa è che la mente non è mai “vuota”. La mente che medita diventa un
vuoto pieno di attività, piena di immagini e di pensieri, sentimenti e percezioni continuamente generati. La mente è un
ronzio con attività incessante. L'immobilità non è la stessa cosa del vuoto delle attività, è qualcosa di più simile a una
forza che stabilizza. Un'altra sorpresa è fare esperienza della natura temporanea e sempre mutevole dell'attività della
mente. Con l'immobilità diventa possibile staccarsi dalla solidità superficiale per rivelare la qualità aerea dell'attività
mentale. Un'altra sorpresa è come i flussi diversi di consapevolezza si intersechino per creare la tessitura della
consapevolezza del momento. I termini qualità della consapevolezza o natura della consapevolezza rivelano che la
consapevolezza stessa cambia da momento a momento.

IL FIUME DELLA COSCIENZA

Molti studi sottolineano il potere della consapevolezza mindful di promuovere il benessere in molti ambiti della nostra
vita perchè prestare attenzione “in modo non giudicante” (non aggrapparsi ai giudizi inevitabili che la mente crea in
base ai processi “dall'alto verso il basso” delle nostre critiche corticali), intenzionalmente e nel momento presente ci
permette di disinnescare le automaticità (per molti versi il vero significato di “svegliarsi” per diventare padroni del
tempo della propria vita). Un'immagine visiva della consapevolezza mindful può essere quella del mozzo della ruota
della nostra mente che è aperto e sufficientemente ampio da permettere a qualsiasi elemento del cerchione di entrare
nella nostra esperienza cosciente ma non di impadronirsene.

R RAGGIO

MOZZO
CERCHIONE

I quattro flussi della consapevolezza che alimentano il fiume della coscienza nel mozzo della nostra mente ci
permettono di avere la consapevolezza riflessiva di qualcosa. Per molti versi, è ciò che è filtrato dai punti del cerchione
per mezzo delle lenti di questi flussi che poi scorre nella nostra coscienza diretta e ci rende pienamente consapevoli di
quello di cui facciamo esperienza. A volte questa consapevolezza è dominata da uno dei primi tre flussi (sensazione,
osservazione, concettualizzazione); in altri momenti questa consapevolezza è in uno stato di equilibrio e poi sembra
emergere il sapere. Così, forse, equilibrare il quartetto quando filtra i dati nel mozzo recettivo della mente è di fatto ciò
che plasma la natura della “qualità della consapevolezza”. La consapevolezza mindful sembra richiedere un equilibrio
di questi flussi di consapevolezza, sottolineando la possibile importanza di tutti e quattro i flussi per la chiarezza e la
stabilità della mindfulness.

SE' E SOFFERENZA

Quando la nostra mente si aggrappa a idee preconcette si crea una tensione tra ciò che è e ciò che “dovrebbe essere”.
Questa tensione crea stress e genera sofferenza. Il ruolo della consapevolezza mindful è quello di permettere alla mente
di “discernere” la natura della mente stessa, risvegliando la persona agli insight per cui le idee preconcette e le reazioni
emotive sono incardinate nel pensiero e nelle risposte riflessive che creano distress interno. Con questa
disidentificazione di pensieri ed emozioni, capendo che queste attività mentali non coincidono con il sé, né sono
permanenti, l'individuo può allora permettere loro di sorgere e scoppiare come bolle in una pentola di acqua bollente.
Quello che resta è l'essenza della sensazione, non la minaccia di una concettualizzazione che imprigiona. Non tutto il

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pensiero e le reazioni emotive abituali sono eventi mentali dall'alto verso il basso, ma in questo modello sono essere che
creano la sofferenza fortuita. La vita è piena di sofferenza, c'è una sofferenza universale. “Sofferenza fortuita” è il
termine utilizzato per il modo in cui le nostre menti creano l'angoscia aggrappandosi a concettualizzazioni e reazioni
automatiche che ci alienano dall'esperienza sensoriale diretta. La qualità della nostra consapevolezza è oscurata quando
viviamo solo dei nostri pensieri e nelle emozioni preconfezionate. Ma diventare consapevoli dei nostri sensi ci porta
direttamente nella natura delle esperienze che facciamo momento per momento. I pensieri e le emozioni vanno bene
nella misura in cui non distruggono la capacità di consapevolezza sensoriale. Una regola per la nostra vita quotidiana è
quella di svegliarci, di tirarci fuori dagli automatismi, di accrescere l'acuità della consapevolezza in modo che la vita sia
più ricca e più presente nel momento. Il risultato di questo risveglio è liberare l'intero essere in modo che diventi più
recettivo rispetto alle cose come sono. La sintonizzazione negli ambiti del mondo esterno (i primi cinque sensi), del
mondo del corpo (sesto senso) e del mondo mentale del sé e degli altri (settimo senso) porta con sé una qualità
riverberante che è sia coerente che stabilizzante. Sintonizzazione significa sentire le cose proprio per come sono
all'interno della consapevolezza. Sentiamo questo stato coerente di sintonizzazione nel nostro ottavo senso relazionale.
E' possibile avvertire l'apparire di questo flusso di benessere mentale flessibile, adattivo, coerente, energico e stabile
(FACES – Flexible, adaptive, coherent, energized, stable) quando nel corso del tempo emerge in sistema integrato.
FACES è il termine utilizzato per riferirsi a questo stato integrato che può essere alla base del benessere. La
sintonizzazione è il processo per mezzo del quale elementi separati sono portati all'interno di un tutto che risuona. Con
consapevolezza, quando ci avviciniamo alle cose per come sono, e con uno stato mentale COAL, diventiamo
sintonizzati internamente. Questo stato riverberante ci permette di raggiungere un flusso FACES che abbraccia tutto ciò
che emerge. La sintonizzazione emerge quando si crea integrazione. Quando la nostra consapevolezza riflessiva
allontana i nostri bias dall'alto verso il basso, i tre flussi della sensazione, dell'osservazione e della concettualizzazione
si amalgamano con il flusso più profondo della conoscenza e noi siamo liberi di scorrere nel nostro equilibrato fiume
della coscienza. Si crea così una disidentificazione con gli oggetti dell'attenzione che riteniamo essere le caratteristiche
distintive di chi siamo. Questa disidentificazione dà vita a un senso emergente del sapere mindful. Questa capacità di
discernimento, creata dall'osservatore, è quella che distingue la consapevolezza mindful dalla nozione di “flusso” in cui
siamo immersi, in modo non consapevole, nelle sensazioni di un'esperienza. Nel flusso perdiamo noi stessi poiché
l'immersione nella sensazione o nel pensiero possono “portarci via” e noi ci perdiamo nell'automaticità del flusso. Nella
vita quotidiana tenere in equilibrio tutti e quattro i flussi può essere l'essenza del vivere mindful. Nel lavoro clinico con
la sofferenza può esserci bisogno di amplificare la capacità dell'osservatore di disinnescare gli automatismi (YODA) per
iniziare il processo. Lo stress e la sofferenza emergono nel corso di tutta la vita. Con la consapevolezza mindful si crea
una nuova possibilità di riformulare la sofferenza mentre non si evita l'esperienza sensoriale. Nulla viene
intenzionalmente bloccato; tutti gli ospiti sono benvenuti. Quando un pensiero preconcetto si presenta alla porta, può
essere visto, osservato, pensato e conosciuto per quello che è. In questo stato di consapevolezza, tutti e quattro i flussi
sembrano contribuire alla tessitura della consapevolezza, a quel”mozzo recettivo” della ruota che è al centro delle
nostre menti.

VERBI AL PRESENTE

(leggere sul testo la descrizione dell'esperienza di Siegel relativa alla mancanza di un “io” nel sentire)

CONSAPEVOLEZZA PRIVA DI SE'

L'assenza di “io” è definito come una forma di consapevolezza priva di scelta. (Leggere esperienza su testo)

IL TEMPO DI SINTONIZZARSI

Non si sa come la consapevolezza priva di sé sia in relazione al conoscere non concettuale. Nello stato di assenza di
scelta della consapevolezza priva di sé, il sentimento è distinto. Nel conoscere non concettuale c'è chiaramente un “io”
che conosce. Anche nella pura recettività possiamo sentire qualcuno dei quattro flussi come predominante. Nelle
occasioni in cui tutto diventa chiaro, anche una recettività priva di sé è di fatto parte della nostra esperienza. Colui che
conosce, il conoscere e il conosciuto diventano un'unica cosa in quello stato “transpirazionale”: respiriamo la vita
attraverso tutte le dimensioni, integrando una sensazione profonda dell'interconnessione del tutto. Questo senso di
appartenenza rimane sullo sfondo delle potenzialità, informando la leggerezza del nostro essere, il “raccogliersi” delle
nuvole che noi chiamiamo esperienza del “sè”. Non dobbiamo prendere tanto seriamente il nostro sé definito in termini
corporei, ma possiamo prenderlo dentro di noi per intero, momento per momento.

SETTANTACINQUE SOSPIRI

(riflessione finale sull'esperienza di Siegel)

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5. SCIENZA E SOGGETTIVITA'

Gli importanti contributi di Robert Walsh fanno pensare che le “discipline della coscienza” offrono un'opportunità di
espandere i nostri modi di conoscere servendosi dell'esperienza pratica, che offre nuove conoscenze che vanno al di là
della comprensione intellettuale. Questo modo disciplinato di focalizzarsi sulla nostra esperienza riconosce che ci sono
nuove conoscenze che vanno al di là della comprensione intellettuale. Questo modo disciplinato di focalizzarsi sulla
nostra esperienza riconosce che ci sono molte variazioni sfumate nella coscienza che possono essere sia oggetto di
un'esplorazione introspettiva sia ampliare per mezzo di training approfonditi. Le discipline della coscienza riconoscono
i limiti del linguaggio e del pensiero astratto e radicano i modi di conoscere nell'esperienza personale diretta.

INDAGINE SULLE SOGGETTIVITA'

Siegel affronta l'argomento del rapporto tra scienza e soggettività passando in rassegna i dati di uno studio che mette
assieme cinque questionari, assemblati indipendentemente l'uno dall'altro e finalizzati a valutare l'esperienza soggettiva
della mindfulness. Questo metodo permette di farsi un'idea di come i ricercatori concettualizzano la mindfulness e di
esaminare se esiste una dimensione centrale di questo costrutti o se esso sia caratterizzato da una molteplicità di aspetti
diversi. Assemblando questi diversi strumenti di misura e somministrandoli varie volte, in momenti diversi, a molteplici
soggetti di ricerca, i ricercatori hanno avuto la possibilità di affrontare questi problemi e di cogliere dei pattern globali
di risposta. I questionari utilizzati in questo studio sono:
− la MAAS (Mindfulness Attention Awareness Scale)
− il FMI (Freiburg Mindfulness Inventory)
− il KIMS (Kentucky Inventory of Mindfulness Skills)
− la CAMS (Cognitive and Affective Mindfulness Scale)
− il MQ (Mindfulness Questionary)
Ognuno di questi strumenti ha un focus specifico, ma in generale cercano tutti di testare i vari aspetti della mindfulness
a partire dall'esperienza soggettiva diretta. L'approccio dettagliato di Bear e collaboratori offre una sintesi della
conoscenza e delle acute osservazioni di tutti i ricercatori che hanno sviluppato i singoli studi. Le domande sono state
somministrate ai soggetti dello studio e quindi correlate con altre misure di dimensioni come la personalità,
l'intelligenza emotiva e la comprensione per se stessi. Dopo aver raggruppato le correlazioni predette tra le varie
domande, sono stati rivelati cinque “aspetti” o dimensioni della mindfulness (vedi capitolo 1). Successivamente, Bear e
collaboratori hanno cercato di capire se questi aspetti sono parte di un'unica dimensione o se sono aspetti indipendenti
della mindfulness. I risultati delle analisi statistiche fanno pensare che la mindfulness sia in realtà composta
effettivamente da aspetti multipli con caratteristiche per certi versi distinte, con alcune sovrapposizioni ma
sostanzialmente indipendenti, almeno basandosi su come i soggetti hanno risposto alle domande. Il fattore dell'osservare
sembra che si sovrapponga troppo con gli altri e che non sia un vero e proprio aspetto separato. Da questo punto di vista
emerge un “modello gerarchico a quattro fattori” che sostiene una “struttura gerarchica della mindfulness nella quale
descrivere, agire in modo consapevole, non giudicare e non reagire possono essere considerati aspetti del costrutto più
ampio di mindfulness. L'aspetto relativo all'osservazione si delinea come una dimensione indipendente statisticamente
valida solo nei soggetti esperti di meditazione mindful. Occorrono comunque ulteriori studi con un numero maggiore di
soggetti per validare la tenuta di questa struttura a quattro o cinque fattori. Il dato per cui l'aspetto dell'osservare non
emerge come dimensione indipendente della mindfulness può essere in parte dovuto al fatto che l'atto di osservare può
essere influenzato tanto da un atteggiamento di autocondanna quanto da un atteggiamento di sollievo. Essere
semplicemente in grado di osservare il proprio mondo interno senza gli altri aspetti della mindfulness può non implicare
le correlazioni predette. L'agire con consapevolezza, il non giudicare e il non reagire sono i predittori della mancanza di
sintomi di sofferenza.

CORRELARE LE DESCRIZIONI DELL'ESPERIENZA DIRETTA E GLI STUDI SUL CERVELLO

Se dobbiamo comprendere davvero le dimensioni essenziali della nostra realtà mentale è molto importante, da un punto
di vista della neurofenomenologia, integrare gli insight raccolto dai resoconti in seconda persona dell'esperienza diretta
di questi studi sulla mindfulness con le esperienze dirette fatte dalla prospettiva in prima persona e le scoperte delle
neuroscienze in terza persona. I nostri assunti dovrebbero essere espressi in modo diretto; quelle influenze concettuali
dall'alto verso il basso, che modellano il modo in cui filtriamo gli input e distorcono in modo sistematico le
interpretazioni che diamo alle nostre percezioni, possono essere conosciute e identificate in una misura tale da
consentirci una visione che sia la più chiara possibile. Le idee vere possono aiutarci a fare ordine nei momenti difficili,
ad alleviare le nostre sofferenze e a promuovere benessere e compassione. Non c'è bisogno di sbarazzarsi dei concetti,
dobbiamo abbracciarli per quello che realmente sono: quadri di riferimento per la conoscenza.

LA MINDFULNESS COME CAPACITA' CHE PUO' ESSERE APPRESA

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Ognuno di noi ha una mente dalle grandi potenzialità. Abbiamo la possibilità di creare un mondo di compassione e
benessere e la capacità di esercitare violenze e provocare distruzioni insensate. Il cervello umano è molto malleabile.
Noi possiamo focalizzare le nostre menti in modo da modificare la struttura e le funzioni del cervello per mezzo delle
nostre vite. Essere consapevoli del presente senza tenersi ancorati ai giudizi è un assetto mentale che ci apre un potente
percorso verso la compassione e il benessere interiore. Questo è ciò che la scienza verifica e quello che è stato insegnato
in migliaia di anni di pratica. La mediazione è l'allenamento della mente. Ci sono molte forme di allenamento mentale
che creano stati di mindfulness che sembrano promuovere lo sviluppo di tratti mindful. I processi attentivi, la
regolazione delle emozioni e la capacità di osservarsi internamente, di fare introspezione e riflettere sono considerate
tutte abilità che possono essere rafforzate e perfezionate per mezzo dell'allenamento. Nonostante un numero elevato di
report scientifici e proposte teoriche suggestive, si sa ancora poco dei processi neurofisiologici coinvolti nella
meditazione e del loro possibile impatto a lungo termine nel cervello. Ci sono alcuni universali nella meditazione, come
la concentrazione sulla consapevolezza del respiro. Ma questo focus inizialmente condiviso successivamente cede il
passo ad altre dimensioni della coltivazione della mente, che variano da una pratica all'altra. La consapevolezza del
respiro aiuta le persone a sviluppare le funzioni di “orientamento e sostegno” dell'attenzione. Ma poi la meditazione
mindful si muove verso uno stato più recettivo in cui a tutto ciò che emerge è permesso di entrare nella coscienza. La
natura non giudicante di questo processo sembra coinvolgere una forma di consapevolezza della consapevolezza che è
più automatica della riflessione su di sé. Anche se la meditazione evolve in uno stato di apertura, essa non è
assolutamente una forma “passiva” e “vuota” di ritiro o di svuotamento della mente. E' possibile pensare che il training
della mindfulness includa i seguenti aspetti:
1) la meditazione che sviluppa la concentrazione su un oggetto come il respiro
2) le tecniche che coltivano una consapevolezza della soggettività in un modo che toglie progressivamente
importanza all'oggetto del focus iniziale
3) una tecnica che guadagna un accesso esperenziale alla consapevolezza riflessiva che si pensa riveli l'aspetto
più puro dei processi mentali
4) con il procedere del training, la soggettività perde importanza, mentre lo stato recettivo assume in sé tutto il
range dell'esperienza
5) questo momento di training favorisce ulteriormente l'accesso alla riflessività, la consapevolezza automatica
della stessa consapevolezza
6) la pratica crea un flusso in cui l'individuo si muove verso il punto in cui l'aspetto fondamentale della
consapevolezza viene pienamente realizzato nel corso della meditazione.

IPSEITA': PRIMI RUDIMENTI

C'è una distinzione significativa tra la funzione narrativa del riferire la storia della propria vita per mezzo delle parole e
l'esperienza sensoriale diretta del momento. Il fatto che la nostra funzione narrativa sia plasmata dal contesto del nostro
raccontare rivela un'influenza profonda dei processi dall'alto verso il basso che possono oscurare l'esperienza diretta.
Nel training di meditazione mindful i meditatori esperti affrontano in modo diretto questo “soggetto”, questo narratore,
in un'immersione nella “consapevolezza pura” o senso della natura essenziale della mente. Il termine “tecnico” per
questa esperienza della vita, privata dagli abbellimenti del nostro sé secondario, sia ipseità, il nostro modo essenziale di
essere al di sotto degli strati di pensiero e reazione, identità e adattamento. “Essenziale” qui implica una qualità
invariante, un'essenza fondata del nostro essere che non è solo funzione dei contesti temporanei che vanno e vengono
nelle nostre vite. L'ipseità è il senso soggettivo minimo dell' “essere io” nell'esperienza (sé minimo o sé nucleare). Un sé
narrativo o autobiografico include giudizi categoriali o morali, emozioni, anticipazioni del futuro e ricordi del passato.
Sembra comunque che questo sé narrativo o autobiografico dipenda in qualche misura dalla ipseità, dato che il sé
narrativo è in parte basato sul senso soggettivo minimo dell' “essere io”. La mindfulness sembra dare l'idea di uno stato
di “perdere importanza” del soggetto o dell'oggetto fino a un punto in cui nessun elemento dell'oggettività o della
soggettività rimanga nell'esperienza. Si può allora intendere l'ipseità come un aspetto della conoscenza profonda che
emerge come flusso di coscienza, un aspetto privo di concetti, ma che può essere perfettamente compatibile con il fatto
di avere un “soggetto” e un “oggetto” che sono esperiti con una sensazione di essenzialità fondamentale, al di sotto
degli strati dall'alto verso il basso, ma ancora con la sensazione di conservare un Io che è soggetto dell'esperienza.

AUTO-REGOLAZIONE

Il trainig mentale che permette all'ipseità libera la mente permettendole di raggiungere nuovi livelli di benessere. Con la
dissoluzione dei pattern automatici, la mente sembra più libera di acquisire nuovi livelli di autoregolazione. Questo è il
potere della mindfulness di alterare le nostre risposte affettive. Essere più vicini a un senso aperto della propria natura
essenziale crea una maggiore “facilità nel regolare le proprie emozioni, così da essere meno disturbati dai propri stati
emotivi. Si dice anche che la mente diventi più sensibile e flessibile e che la coltivazione di stati e tratti positivi sia
perciò ampiamente facilitata”. Le proposte di integrazione di James Austin offrono un esempio di fusione

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dell'esperienza diretta in prima persona con gli insight scientifici del cervello. Secondo Austin si scopre che le
esperienze meditative non solo sono riflesse nelle scoperte delle neuroscienze ma che questi due campi sono tanto
intimamente interrelati che ognuno illumina l'altro. L'esperienza fatta da Austin nelle forme profonde di meditazione
rivela non solo che queste pratiche permettono di trascendere il sé psichico ma anche che i loro insight trasformano i
concetti individuali essenziali su ciò che costituisce la realtà. Molti dei nostri processi mentali nucleari come la
consapevolezza, l'attenzione e la regolazione delle emozioni, incluse le nostre capacità di felicità e compassione,
dovrebbero essere concettualizzati più correttamente come capacità che possono essere apprese e rafforzate per mezzo
di training specifici. Le tradizioni meditative forniscono un esempio avvincente di strategie e tecniche che si sono
evolute nel corso del tempo per accrescere e ottimizzare il potenziale e il benessere umano. Lo studio neuroscientifico
di queste tradizioni è ancora agli inizi ma le prime scoperte promettono sia di rivelare i meccanismi per mezzo dei quali
questi training possono esercitare i loro effetti, sia di sottolineare la malleabilità dei circuiti cerebrali che sono alla base
delle funzioni mentali complesse.

UN MEETING TRA SCIENZIATI

Siegel parla di un incontro in cui hanno partecipato diversi scienziati e nel quale il Dalai Lama ha tenuto il discorso di
apertura. E' chiaro che la comprensione di come la meditazione possa influenzare il cervello è ancora agli inizi. La
meditazione mindfulness è uno strumento potente per mantenere focalizzata la mente e sembra anche che generi una
maggiore capacità di recepire i segnali non verbali delle altre persone. La percezione dei segnali non verbali delle altre
persone attiva un processo cerebrale che sembra coinvolgere l'insula (che trasmette i dati del corpo al cervello e può
essere direttamente coinvolta nell'esperienza di “guardarsi dentro”) e l'attività della corteccia prefrontale mediale,
correlate con l'enterocezione (che si basa sulla capacità della mente di focalizzare la consapevolezza sullo stato interno
del corpo), l'interpretazione e l'attribuzione dei nostri stati mentali interni a quelli di un'altra persona. Nell'emisfero
destro abbiamo una mappa di tutto il corpo. Le espressioni facciali altrui e altri segnali non verbali sono tutti segnali
inviati e percepiti dall'emisfero destro. La pratica di guardarsi dentro, della riflessione, attiva l'insula e le regioni
prefrontali mediali, specialmente dell'emisfero destro. La meditazione mindful modifica la struttura del cervello
responsabile dell'empatia e dell'auto-osservazione. Questo può essere il nesso tra la pratica del guardarsi dentro e il
miglioramento della propria capacità di mettersi in relazione alle altre persone.

ACCRESCERE LA “STRANA PALLA”: ESPANDERE IL TEMPO SOGEGTTIVO E INIBIRE LE RAPPRESENTAZIONI


CORTICALI INVARIANTI

(“strana palla” = ogni cosa che irrompe nelle nostre abitudini percettive e si fa cogliere quasi imponendosi come una
novità)

La sintonizzazione interiore sembra anche modificare la nostra esperienza del tempo. Nella vita di tutti i giorni
facciamo esperienza del fatto che percepiamo ed elaboriamo un certo numero di informazioni per unità di tempo
(densità delle informazioni). Quando appare la “strana palla”, ci focalizziamo in modo più intenzionale su questo
stimolo insolito perchè esso non si accorda con le nostre aspettative preesistenti. Le rappresentazioni invarianti
(influenze dall'alto al basso) ci permettono di valutare rapidamente la natura del nostro ambiente e di muoverci verso
ciò che cerchiamo di raggiungere. Le cose che abbiamo già appreso ci aiutano a diventare elaboratori di informazioni
più efficienti perchè abbiamo rappresentazioni invarianti che continuamente bombardano i nostri input sensoriali con
“so di che cosa si tratta, lascia che ti aiuti con un modello di quello che abbiamo già visto”. Ma per molti versi queste
conoscenze apprese opprimono le nostre esperienze sensoriali grezze infangando le acque della percezione chiara con le
aspettative precedenti. Quando diventiamo adulti, è molto probabile che questi strati accumulati di modelli percettivi e
categorie concettuali limitino il tempo soggettivo e smorzino la nostra sensazione di essere vivi. Senza uno sforzo
intenzionale di stare svegli, la vita ci scorre via. Noi ci abituiamo all'esperienza, percepiamo per mezzo del filtro del
passato e non orientandoci verso le distinzioni nuove del presente. Le nostre rappresentazioni invarianti diradano la
densità delle informazioni perchè stabiliscono filtri che riducono ciò che possiamo realmente vedere. Quando ci
risvegliamo con la consapevolezza mindful è possibile che il fatto di ridurre al silenzio il flusso delle rappresentazioni
dall'alto verso il basso alteri la densità delle informazioni, mentre riusciamo a fare esperienza in modo più pieno delle
sensazioni. In questo modo la consapevolezza mindful può accrescere la densità delle informazioni ed espandere
l'esperienza soggettiva del tempo. La consapevolezza mindful è letteralmente un modo per moderare l'intrusione del
passato sulla nostra esperienza del presente. Quando risvegliamo le nostre menti, espandiamo il nostro tempo
soggettivo. La nostra esperienza del tempo si espande perchè le sensazioni densamente impacchettate di ogni momento
non sono più offuscate e ammutolite. Prendersi una pausa, diventare recettivi, cambia il nostro tempo e la globalità del
nostro senso del mondo e di noi stessi: apre le porte delle sensazioni. La dissoluzione delle nostre rappresentazioni
invarianti dall'alto verso il basso può essere ottenuta con una intenzionalità guidata dalla mindfulness.

6. SFRUTTARE IL MOZZO DELLA RUOTA: L'ATTENZIONE E LA RUOTA DELLA CONSAPEVOLEZZA

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L'attenzione gioca un ruolo centrale nel plasmare il modo in cui agiamo con consapevolezza e riusciamo ad apprendere
a osservare la natura delle nostre vite mentali. Portare intenzionalmente qualcosa all'interno della consapevolezza
significa impegnarsi in un processo di ricerca attiva e intenzionale dei dati percettivi presenti nel campo della
consapevolezza e non limitarsi a registrare gli input che provengono dagli organi sensoriali. Con la consapevolezza
mindful abbiamo qualcosa di più della sola consapevolezza della sensazione. La metacognizione è correlata con
l'attivazione prefrontale mediale, ed è stato dimostrato che la consapevolezza mindful attiva le regioni prefrontali
mediali in misura maggiore delle forme di meditazione in cui il compito è quello di sostenere la propria attenzione su un
bersaglio del mondo esterno o del mondo interno. La mindfulness è molto più di una tecnica di rilassamento: possiamo
diventare stabili e chiari ed essere impegnati e pronti ad agire. E' il senso della presenza, non il rilassamento, che
incarna l'essenza della consapevolezza mindful. Un modo mindful di essere consapevoli può essere mediato da aree del
cervello che vanno al di là delle regioni laterali e posteriori che permettono la consapevolezza semplice e può essere
correlato con le attivazioni integrative delle regioni mediali della corteccia prefrontale (che implica la metacognizione e
l'essere consapevoli della consapevolezza. L'attivazione di queste regioni prefrontali mediali sembra che spinga i
soggetti ad andare al di là degli automatismi, in uno stato più riflessivo che permette di acquisire una prospettiva più
ampia del problema. Le aree prefrontali mediali sembrano giocare un ruolo importante nel liberarci dalle influenze
dall'alto verso il basso, come quelle delle aspettative a priori e delle nostre reazioni emotive. Inoltre danno un contributo
importante all'auto-osservazione e alla metacognizione: possiamo avere un'immagine di noi stessi nel passato, nel
presente e nel futuro e anche elaborare una mappa delle attività della nostra mente. Nella mindfulness percepiamo
attivamente la nostra mente e siamo consapevoli della consapevolezza.

LE DIMENSIONI NEURALI DELL'ATTENZIONE

La ricerca sta iniziando a esaminare le reti attentive potenzialmente coinvolte nella consapevolezza mindful. Non si
hanno dati definitivi che diano indicazioni su come il focalizzare l'attenzione sul momento presente possa utilizzare i
circuiti neurali, né sul perchè questi potenziali meccanismi dell'attenzione determinano tali miglioramenti sul benessere
fisiologico, psicologico e interpersonale. Buona parte delle ricerche sull'attenzione si focalizzano su compiti presenti in
natura. La consapevolezza mindful ha una qualità differente; in uno stato mindful c'è un processo di recettività e
metaconsapevolezza che sembra piuttosto diverso dai processi attentivi guidati da uno stimolo studiati da queste
ricerche. Può essere utile avvalersi di queste ricerche poiché esse rappresentano lo stato dell'arte. L'idea che non esista
un'unica forma di attenzione è ormai generalmente accettata. Tre sono gli aspetti di questo processo che regola il flusso
di energia e attenzione su cui vi è un accordo unanime: un aspetto esecutivo, uno di orientamento e uno di allerta.
L'attenzione è assolutamente centrale per la mente. La meditazione orientata all'insight si basa su un approccio generale
per cui l'attenzione va portata prima di tutto sul respiro. Quando si nota che la propria attenzione si sta spostando su
qualcos'altro (come succede invariabilmente) essa va gentilmente riportata sul respiro. Questa pratica di riportare
l'attenzione sul suo bersaglio sembra che aiuti a sviluppare la capacità di “indirizzare e sostenere” l'attenzione. Dato che
l'attenzione è centrale sia per la mente sia per il comportamento, trovare dei modi per allenarla è un aspetto cruciale
dell'educazione e della terapia. I training attentivi dovrebbero utilizzare modi di focalizzare la mente che permettano di
sviluppare nuovi pattern utili a indirizzare e sostenere l'attenzione.

Allertare

L'allerta implica attenzione sostenuta, vigilanza e stato di allerta, che creano la capacità di incrementare e mantenere
una prontezza di risposta come preparazione verso stimoli di cui si è anticipata la comparsa. Lo stato di allerta può
essere fasico (specifico di un compito dato) o intrinseco, cioè tonico (stato generale di controllo dei livelli di
attivazione). Quando prepariamo le nostre menti a essere aperte a ciò che si presenta, sviluppiamo una forma di allerta.

Orientare

L'orientare è la capacità di selezionare alcune informazioni specifiche a partire da una varietà di opzioni, in un processo
di scanning o selezione.

Attenzione esecutiva

L'attenzione esecutiva ha molte caratteristiche ed è descritta come attenzione selettiva, attenzione supervisionante e
attenzione focalizzata. La risoluzione dei conflitti tra stimoli in competizione è un altro aspetto essenziale del controllo
dell'attenzione esecutiva. “Controllo deliberato” è un'espressione utilizzata per descrivere la natura di questa funzione
esecutiva. E' così che possiamo iniziare a immaginare il potere della consapevolezza mindful di disinnescare il pensiero
abituale automatico nella cornice del controllo dell'attenzione esecutiva. Il controllo deliberato serve come base di
sviluppo di un comportamento più reattivo e più autoregolatorio. I sistemi di controllo deliberato possono contribuire a

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questo sviluppo fornendo la flessibilità attentiva necessaria a gestire gli affetti negativi, a considerare le azioni
potenziali alla luce dei principi morali e a coordinare le reazioni che sono sotto il controllo volontario. I meccanismi
cerebrali associati con il controllo dell'attenzione possono essere migliorati per mezzo di un training e questo
miglioramento può produrre un beneficio rilevabile nelle misure comportamentali di competenza. Data la connessione
tra attenzione e auto-regolazione, la plasticità dei sistemi neurali che sono alla base dell'attenzione esecutiva apre una
finestra che può essere utilizzata per favorire lo sviluppo dell'auto-regolazione nei bambini più piccoli. Lo sviluppo
delle regioni “prefrontali mediali sembra cruciale per il funzionamento emotivo e sociale, poiché formano un nodo
centrale per comprendere come gli aspetti di auto-regolazione della mente correlano con strutture e funzioni del
cervello.

UNA SINOSSI

Esiste una certa sovrapposizione nel funzionamento neurale delle reti frontali attentive delle capacità esecutive e di
allerta e il flusso più posteriore e laterale alla base delle funzioni di orientamento. Sembra che questi tre domini
funzionino come aspetti organizzati della natura eterogenea dell'attenzione. Quando una persona pratica un qualche
training di consapevolezza mindful, le componenti iniziali potrebbero essere quella di indirizzare e sostenere
l'attenzione. Queste funzioni cadrebbero sotto le dimensioni attentive dell'allerta (sostenere) e dell'orientamento
(indirizzare). L'individuo ha bisogno di avere l'intenzione di portare avanti questo compito di orientare e sostenere
l'attenzione e qui risiede l'aspetto esecutivo dell'attenzione. Con l'evolversi del training della mindfulness presto si dà
vita a un processo più recettivo di diventare consapevoli della natura della mente e della consapevolezza stessa.
Ulteriori ricerche sulla consapevolezza mindful sono necessarie per esaminare in modo più completo questi processi
attentivi e fino ad ora non si sa ancora esattamente quali aspetti della plasticità neurale, del cambiamento in risposta
all'esperienza, siano favoriti dalla consapevolezza mindful.

STATI E TRATTI: MINDFULNESS SENZA SFORZO

Con certi approcci la consapevolezza mindful può diventare un modo di essere o un tratto dell'individuo e non solo una
pratica che dà il via a uno stato temporaneo della mente. Lo stato aperto e recettivo dell'essere, l'accettare qualsiasi cosa
venga, può essere avviato anche senza consapevolezza, ma la consapevolezza emergerebbe in seguito, quando la
riflessione si dispiega nell'esperienza momento per momento della persona. Questo processo privo di sforzi può essere
“automatico”. Praticando la consapevolezza mindful e sviluppando la capacità di utilizzare le regioni prefrontali mediali
con uno sforzo intenzionale, questo stato iniziale consapevole, attivato nella corteccia prefrontale mediale, potrebbe
indurre mutamenti neuroplastici che trasformano questa modalità in un tratto. Il tratto della consapevolezza mindful
può allora assumere la qualità priva di sforzi del coinvolgimento della corteccia prefrontale mediale senza i tentativi
attivi, tipici della regione prefrontale laterale, di creare consciamente questo stato: la mindfulness, semplicemente, è
anche senza i nostri sforzi di renderla tale. Anche se possiamo considerare l'idea di un tratto mindful come qualcosa di
non deliberato, ciò non significa che non siamo consapevoli della sua pienezza nel momento. L'assenza di sforzo e la
presenza di consapevolezza non sono in contraddizione. Il passaggio da uno stato deliberato a un tratto privo di sforzi
non riduce la consapevolezza, anche se può modificare la qualità della sensazione di “diventare consapevoli”.
Un'attivazione ripetuta di un insieme di circuiti può accrescere la connettività sinaptica (e l'ispessimento) delle regioni
attivate.

LA RUOTA DELLA CONSAPEVOLEZZA DELLA MENTE: UNA METAFORA PER LA MINDFULNESS

L'immagine metaforica della mente (la ruota della consapevolezza) può servire per esplorare in modo più completo i
diversi aspetti della consapevolezza e i suoi possibili correlati neurali. Sul cerchione esterno abbiamo tutto ciò che può
entrare nel focus della nostra attenzione. Ogni punto del cerchione rappresenta l'oggetto potenziale della
consapevolezza. I raggi emanati dal mozzo centrale della ruota simbolizzano la nostra capacità di focalizzare
l'attenzione su un singolo punto del cerchione. Il mozzo presente al centro della ruota della consapevolezza simbolizza
la spaziosità della mente.

Il cerchione della ruota

I primi cinque sensi acquisiscono le informazioni dal mondo esterno, permettendoci di sentire il dominio fisico della
realtà. Quando diventiamo consapevoli dei primi cinque sensi, portiamo dentro di noi i punti del settore del cerchione
che rappresentano questo piano fisico degli aspetti conoscibili del mondo che si trova all'esterno dei nostri corpi. Il
settore del cerchione relativo al nostro senso senso include invece le sensazioni dei nostri arti, i movimenti del nostro
corpo, la tensione o il rilassamento dei nostri muscoli, lo stato del nostro ambiente interno (inclusi gli organi interni).
Questi aspetti corporei della consapevolezza potenziale servono da sorgente profonda di intuizione e plasmano il nostro
stato emotivo. Noi usiamo il processo enterocettivo per percepire questi importanti input del nostro senso, portandoli

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nella nostra consapevolezza sensomotoria per mezzo dei raggi che vanno dal mozzo della mente al settore del cerchione
relativo al sento senso. Il settimo senso permette di portare al centro del focus dell'attenzione anche gli aspetti mentali
propri e altrui. Questa capacità di percepire la mente può essere

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