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Capitolo 2

Comunicare e organizzare
Con “organizzazione” si intende un intreccio di rapporti tra persone che si passano informazioni e si scambiano
messaggi, cioè una rete di comunicazione. L’organizzazione viene vista anche come esercizio e mantenimento di un
complesso di relazioni entro cui è di spicco lo scambio di significati, si tratta di una prospettiva che critica quei modi
di pensare per cui le organizzazioni sarebbero “enti”, “sistemi” di posizioni ecc, tra i quali la comunicazione
interviene in secondo piano come strumento di connessione accanto ad altri processi, come la gerarchia e il controllo,
la divisione e la specializzazione del lavoro, la trasformazione di input in output.
Chiarimenti terminologici
Il termine organizzazione può essere usato in diversi modi:
 “Corso di decisioni e azioni”> quando l’attenzione cade sulla circostanza materiale di una molteplicità di
persone che agiscono insieme per perseguire uno o più scopi o risultati. Il corso di decisioni e azioni fluisce
nel tempo, in ogni momento è altro rispetto a ciò che era prima, si caratterizza come un divenire continuo.
Nel fluire perenne delle cose vi sono delle costanti però (persone, edifici, attrezzature ecc.) e quindi in questo caso
viene utilizzato il termine processo. La distinzione tra i due termini non riguarda gli eventi materiali, bensì i livelli di
analisi da cui si considerano→ la distinzione sta nello sguardo di chi osserva il fenomeno e non rimanda a fenomeni
differenti. La lettura come “processo” assume che all’interno degli eventi si dia una qualche regolarità e si manifesti
intenzionalità da parte dei singoli attori. Cioè il risultato del corso di decisioni e di azioni è anche generato dalle
intenzioni dei singoli attori, cioè dalle molteplici interpretazioni in prima persona.
Inoltre, con il termine comunicazione intendiamo il passaggio di significati tra due o più attori coinvolti nel processo.
La comunicazione nelle organizzazioni
Il comunicare serve il processo, sia in quanto spiega una funzione di ordinamento (ossia istituisce un ordine), sia in
quanto ne sottolinea gli aspetti di regolarità e permanenza. Ponendosi al livello di analisi del processo, un primo
aspetto rilevante per la comunicazione è costituito dal disegno organizzativo, ovvero dall’insieme delle attività e delle
relazioni proprie di un’organizzazione e che ne descrive la fisionomia. Data una dimensione del disegno (es.
gerarchia) si può descrivere il flusso delle comunicazioni come fosse dipendente da essa (distinguendo percorsi top
down, dal capo ai sottoposti, e percorsi bottom up). Questo modo di ragionare tratta la comunicazione come
conseguenza del processo, piuttosto che come elemento costitutivo. Dato un disegno gerarchico si possono osservare
intrecci di comunicazioni assai diversi da circostanza a circostanza. Viene fatta una distinzione tra:
1. Comunicazione formale: quella in senso stretto prevista dal disegno;
2. Comunicazione informale: residuale rispetto alla precedente.
Due assunti riguardanti ogni processo organizzativo relativi al fatto che:
 Ogni processo volto a mettere in essere un prodotto si declina nel tempo;
 Gli attori e gli enti che a vario titolo vi partecipano hanno una collocazione variabile rispetto ai suoi contorni.
Ci si interroga sul modo in cui i diversi aspetti e le diverse fasi del processo si influenzano reciprocamente, ricordiamo
che il corso di azioni comprende relazioni sia causali, sia costitutive. Il comunicare comporta sempre una relazione
costitutiva ma ciò non esclude che esista un rapporto tra comunicazione e agire strumentale e che esso possa assumere
forme assai diverse.
Alcune ulteriori chiavi di lettura del comunicare nelle organizzazioni:
 Un primo elemento rimanda ai partecipanti alla comunicazione: si può comunicare in quanto singoli individui
che si rivolgono ad altri singoli individui, oppure per conto di un ente rivolgendosi ad altri enti o collettività.
Vi sono ovviamente anche circuiti misti (da una persona a un ente e viceversa).
 Un secondo elemento di differenziazione della comunicazione organizzativa fa riferimento alle sue finalità: la
comunicazione può essere in grado di influenzare il corso di azioni in maniera esplicita e diretta oppure può
modificare, ribadire e generare significati che caratterizzano un certo ente.
Infine, le comunicazioni possono essere diversificate in base agli strumenti che impiegano. Si distinguono:
 strumenti diretti: sono quelli che caratterizzano le situazioni comunicative “in presenza” e sono basati sul
rapporto interpersonale;
 strumenti indiretti: fanno riferimento a mezzi e tecnologie che permettono di moltiplicare i contatti di un
messaggio e lo rendono disponibile in tempi e luoghi lontani dalla circostanza della sua produzione.
Facendo ancora riferimento ai partecipanti si possono identificare alcuni circuiti fondamentali che costituiscono
l’ambito della comunicazione aziendale. Tali circuiti derivano dall’incrocio delle diverse tipologie di partecipanti e
dal loro ruolo come emittenti o destinatari della comunicazione. Possibili categorie di partecipanti:
1. singole persone> un operatore, un manager, un professional, un cliente;
2. enti interni> un brand, una marca, un dipartimento;
3. enti esterni> pubbliche amministrazioni o loro parti, altre aziende o loro parti, sindacati, associazioni ecc.;
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4. pubblici esterni> collettività rilevanti e ristrette secondo qualche criterio.
Questa distinzione permette di identificare 7 principali circuiti caratteristici della comunicazione aziendale descrivibili
in base alla direzionalità del flusso comunicativo e al tipo di strumenti che li caratterizzano:
 CIRCUITO A: è il circuito che fa riferimento alla comunicazione interpersonale o in prima persona, è
bidirezionale e può utilizzare particolari tecnologie del tipo uno a uno;
 CIRCUITO B: è moderatamente bidirezionale, non usa media particolari salvo l’impiego relativamente
recente di e-mail. (come quando un relatore parla a una comunità professionale, conventions, convegni ecc);
 CIRCUITO C: comprende i messaggi rivolti da un ente interno a singole persone, è bidirezionale e usa
tecnologie come telefono, e-mail e internet;
 CIRCUITO D: è noto come comunicazione interna, monodirezionale e attrezzato con le più varie tecnologie:
 CIRCUITO E: connette enti interni con enti esterni, bidirezionale e si serve di un’ampia gamma di media
(B2B)
 CIRCUITO F: è quello della pubblicità e del marketing sociale;
 CIRCUITO G: è quello che la riforma dei pubblici servizi ha denominato comunicazione di accesso,
comprende strumenti come la gestione delle lamentele, la customer satisfaction ecc.
La comunicazione interpersonale (quella che costituisce i circuiti A e B) è di grande rilevanza ma apre problemi
psicologici che risiedono nell’organizzazione. (es. interazione capo e dipendente)
Jakobson sostiene che la comunicazione, al di là dei codici e dei canali, comporta sempre un contesto, cioè un
complesso di conoscenze e significati che emittente e ricevente hanno in comune. Il contesto permette di chiarire
ulteriormente la relazione tra comunicazione e organizzazione.
Riguardo l’organizzazione si deve tenere presente che la funzione di ordinamento dei processi è esercitata dai singoli
attori ma avviene entro una cornice simbolica, che sussiste indipendentemente dall’essere nota o consapevole al
singolo attore. Il regolamento di un’azienda è agli atti, cioè quei documenti legittimamente deliberati che influenzano
il corso di azioni solo se i singoli attori sono consapevoli.
Il contesto è appunto una cornice simbolica in quanto viene rappresentato è assunta come uno spartito comune dai
diversi attori coinvolti. Allo stesso modo gli eventi comunicativi in terza persona sono messi in scena da singoli attori
in carne e ossa che riescono a comunicare e a condividere una comune cornice di significati. Cornice che in quel
particolare evento può contribuire a costruire o a ritoccare.
Il circuito C e la comunicazione di raccordo
I processi si declinano nel tempo e i partecipanti possono avere posizioni variabili, soprattutto nelle aziende che
producono servizi ci sono numerose circostanze in cui le persone si collocano sui confini del processo: in ingresso
(studente che si iscrive all’uni) oppure in uscita (studente che si laurea). Queste circostanze si possono classificare
come comunicazioni di raccordo in entrata o in uscita, appunto.
Es. paziente che prenota un intervento al CUP si rivolge ad un addetto demandato a tale compito. L’addetto agisce per
conto di un ente a cui appartiene quindi non si parla solo di comunicazione interpersonale, bensì di un circuito tra un
ente e una persona.
Per quanto riguarda la comunicazione di raccordo in ingresso vanno messi in evidenza tre aspetti:
1. Contenimento> pensiamo al cliente che in banca si appresta a cercare un investimento sicuro e profittevole per
i propri soldi. Il momento è cruciale, il ricevente si trova in una situazione di incertezza mentre l’emittente si
trova in una situazione in cui viene definita la sua identità. Una condizione che facilita l’azione di
contenimento può essere in questo caso: la capacità di costruire in maniera preventiva i significati che
orientano un campo di azione, cioè prefigurare e anticipare i bisogni informativi del cliente così da rendere
facilmente disponibile l’informazione necessaria.
2. Accoglienza> rappresenta il secondo momento significativo sul percorso del servizio, in cui il cliente entra in
rapporto con l’unità operativa per fruire di una prestazione. Prima che la prestazione si avvii, l’utente deve
essere riconosciuto come persona, oltre che amministrativamente, rispetto a impegni eventualmente assunti in
precedenza e confermato nelle sue esigenze e attese.
3. Contrattuale> la fase iniziale si chiude spesso con la stipulazione di un patto dove tempi, orari e condizioni del
servizio e dell’assistenza vengono esitati a fronte di esborsi pecuniari (versamento di una somma), rischi ecc.
Si insiste molto oggi sulla necessità che la funzione contrattuale sia condotta con chiarezza, trasparenza ed
equità.
Le competenze richieste dai compiti di contenimento, accoglienza e contrattuali vengono trattate dalle aziende
inserendole nel piano comportamentale e nell’addestramento relazionale (sorridere, salutare ecc) del personale di
prima fila (commessi, impiegato di sportello ecc).

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Nella comunicazione di raccordo la sfida più ambiziosa consiste nel costruire un ambiente che comunichi, assumono
un’importanza rilevante gli spazi, gli arredi e i dispositivi informativi. Deve esserci però l’impegno a disegnare con
efficacia procedure e percorsi così da renderli semplici e da facilitarne la circolazione organizzativa.
Alcuni intoppi da evitare perché logorano la comunicazione con gli utenti:
 La difficoltà a interloquire con la persona giusta
 Il non capire la ragione delle informazioni richieste o ricevute
 Il ripetere più volte gli stessi rituali
Un aspetto conseguenziale è il saper individuare gli elementi essenziali da ricevere e da trasmettere e archiviarli in
modo da averli a disposizione quando servono. A questo fine possono essere oggi di grande aiuto computer, reti e altri
strumenti informatici.
Es. l’interfaccia di un tipico ufficio della nostra pubblica amministrazione, che dopo l’ennesimo contatto ci viene
chiesto ancora di dichiarare o scrivere nome, cognome e altri dati VS il sito di una moderna azienda di e-commerce,
dove appena stabilito il contatto veniamo chiamati per nome, ci viene dato il benvenuto, ci vengono proposte cose
conformi ai nostri gusti e preferenze ecc.
La possibilità di mantenere e seguire nel tempo il rapporto con il cliente è una delle funzioni proprie della
comunicazione di raccordo in uscita. Essa adempie a una serie di compiti assai varia e multiforme, vi è innanzitutto
una funzione conoscitiva: attraverso uno scambio comunicativo ripetuto è costante si può acquisire una conoscenza
più approfondita del cliente. Per quest’attività, internet e le applicazioni connesse (come e-mail) sono strumenti
particolarmente funzionali poiché il cliente si sente riconosciuto e tenuto in considerazione. Negli anni più recenti la
comunicazione di raccordo in uscita ha avuto un notevole incremento anche in termini di quantità e potenza degli
strumenti e dei canali di comunicazione, ciò si deve anche alle nuove abitudini comunicative che si sono diffuse. Qui
sorge il rischio di come la conoscenza del paziente possa trasformarsi in un controllo che va al di là
dell’organizzazione.
La comunicazione di raccordo persegue l’obiettivo di fidelizzazione della clientela e di massimizzare la qualità della
relazione con il cliente. Vi sono anche circostanze in cui alla comunicazione di raccordo vengono affidate funzioni più
impegnative e complesse. Se pensiamo al contesto della sanità, alla questione del rapporto tra servizio e pazienti
cronici, in questa situazione sono in gioco compiti come informazione, monitoraggio e riabilitazione (o prevenzione
secondaria e terziaria) che presuppongono un controllo sul decorso della sindrome e vengono in larga parte esercitati
comunicando. Le opzioni fondamentali che la prevenzione secondaria e terziaria adotta nei confronti del pz cronico
sono due:
 La prima mantiene la centralità del medico e localizza gli interventi entro la struttura sanitaria;
 La seconda mira a sviluppare l’autonomia del paziente e a decentrare gli interventi dentro le mura domestiche;
In assenza di una strategia precisa si ricade sotto la prima opzione, e si va a consolidare la dipendenza del pz dal
medico.
Esistono però alternative che guardano a programmi di riabilitazione seguendo la seconda strategia, questa permette
una più estesa copertura dell’utenza, una maggiore efficacia riabilitativa, un più drastico impatto sullo stile di vita
degli utenti e un sensibile abbattimento dei costi sanitari. Un esempio è il modello Multifit ispirato dalla teoria
sociocognitiva di Albert Bandura. È costituito da un programma integrato che contempla per una specifica patologia
gli aspetti diagnostici, farmacologici, riabilitativi e psicologici. La gestione del processo è affidata a un infermiere che
opera insieme al medico specialista.
Il circuito D e la comunicazione interna
Le considerazioni fatte riguardo la comunicazione di raccordo ci permettono di capire meglio la distanza tra i singoli
attori e il processo. Possiamo parlare di perifericità in quanto l’attore: cade sui confini temporali del processo (in
ingresso o in uscita) ed è presente in maniera assidua all’interno del corso di azioni. Es. il paziente attraversa il
processo (entra ed esce) e risiede in esso per un determinato periodo di tempo.
Inoltre, possiamo parlare di marginalità, che ha a che fare con il rapporto dell’attore con il patrimonio dell’intelaiatura
istituzionale, cioè patrimonio di simboli e significati. Qualunque processo aziendale acquista la propria fisionomia
grazie a un complesso di regole, norme, competenze, tecnologie, valori, paradigmi che lo caratterizzano. Marginalità e
perifericità non sono dimensioni necessariamente correlate tra loro.
Mediante la comunicazione gli attori esprimono l’intelaiatura istituzionale ed entrano nel circuito della sua
accumulazione, appropriazione e riproduzione. La centralità del comunicare per motivare gli attori, oltre a essere una
circostanza risaputa nella pratica gestionale, ha dato corpo a un particolare armamentario utilizzato dalle aziende a
questo scopo. Prende il nome di comunicazione interna. I principali strumenti della comunicazione interna sono
distribuiti su quattro livelli:

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 Il sistema base e il sistema della motivazione gerarchica> rappresentano gli orizzonti più antichi e tradizionali
della comunicazione interna, l’impianto minimo ereditato da un assetto orientato alla stabilità e alla
centralizzazione.
 Il sistema della motivazione professionale> è il riflesso di un disegno organizzativo più leggero e knowledge
intensive, esso esprime una più ristretta connessione tra l’azienda e il suo ambiente.
 Il sistema per la circolazione dell’innovazione> è rivolto agli assetti a rete o fortemente decentrati, è un
sistema rivolto al cambiamento ma soprattutto a garantire che esso avvenga in tempi brevi.
Si susseguono altri due livelli superiori e inferiori:
o Sistemi di supporto al governo> (superiori) con “governo” si allude a funzioni come controllare, omologare e
giustificare l’autorità.
o Sistemi di supporto alla gestione del saper fare e delle tecnologie> si allude a temi quali coordinamento,
sviluppo professionale, cambiamento e la sua rapidità, intelligenza e creatività delle prestazioni.
L’ordinamento dei livelli riflette una maggiore sensibilità dell’azienda verso il proprio ambiente circostante e ciò è
espresso dal vettore attenuazione delle barriere interno/esterno. Inoltre, vi è l’esigenza di una maggiore integrazione
tra comunicazione esterna e interna, quest’ultima è strettamente coordinata all’attenuazione per via della marcata
interdipendenza dei rispettivi messaggi.
La richiesta di fedeltà del sistema base è incentrata, non a caso, sul modello arcaico della famiglia. Appartenere
all’organizzazione vuol dire fare pare della “grande famiglia”. Da qui, nascono i grandi appuntamenti per gli auguri di
fine anno o per celebrare anniversari e risultati importanti. Dilatandosi ulteriormente la famiglia, i grandi
appuntamenti diventano ingestibili: si ricorre così ai media. Nascono gli house organs, le newsletter… e altri
strumenti che cambiano ed evolvono dal punto di vista formale, della tecnica di stampa, della qualità grafica, ma che
rimangono ancorati all’esigenza primaria di garantire coesione veicolando e ripristinando l’antico patto.
La crisi del sistema base è conseguenza dei suoi stessi caratteri originari: la genericità dei contenuti e l’assenza di
segmentazione sono, in parte, conseguenza del logoramento del patto di fedeltà e della difficoltà per i vertici, dovuta
non solo alla crescita dimensionale, di interloquire direttamente con i dipendenti. Il sistema della motivazione
gerarchica introduce una prima e naturale segmentazione dei circuiti di comunicazione. Mentre il sistema base si
esprime sul piano della simbolizzazione affettiva, la segmentazione gerarchica serve un’elaborazione di contenuti
volta a consolidare le ideologie e il controllo sulle premesse decisionali. Il codice espressivo della gerarchia è
rappresentato dalla prossimità al vertice. Colore che stanno più vicini al padrone sono i capi, poi ci sono i livelli
intermedi, via via fino agli operai e agli esecutori di ruoli semplici. Lo status gerarchico e la capacità di gestire il
lavoro altrui sono criteri di segmentazione che riflettono ancora una logica aziendale basata sul controllo e
sull’omologazione.
Nel sistema della motivazione professionale la comunicazione è chiamata, non tanto a sottolineare identità,
permanenza, vicinanza ecc, ma a rafforzare e premiare i significati connessi alle prestazioni e alle capacità di fare.
Inoltre, esso comporta un modo di comunicare diverso tanto per i canali e i media, quanto per i contenuti. I media
utilizzati sono numerosi e vanno da quelli più tradizionali (come giornali e meeting) a quelli più innovativi (come
posta elettronica e reti telematiche). Ciò che distingue questi media interni da quelli più tradizionali è la loro
specificità e il fatto che sono diretti ad audience limitate e caratterizzate da forte omogeneità anagrafica e
professionali. Il contenuto della comunicazione è modellato sia per quanto riguarda il linguaggio sia la forma.
Diviene evidente che la distinzione tra impresa e ambiente si va logorando, il confine tra dentro e fuori è sempre più
critico: critico perché l’organizzazione è tenuta, oltre ad allineare i fattori produttivi interni, a integrare componenti
esterne. Dai tradizionali modelli funzionali si passa a logiche di rete, ciò comporta conseguenze sul piano della
gestione:
∆ come rapidità nel decidere e nell’adeguarsi ai cambiamenti poiché si opera in presa diretta (just in time);
∆ permeabilità tra i vari ambiti che concorrono il processo, in quanto il loro coordinamento non è solo affidato a
regole e programmi, ma avviene spesso in progress;
∆ delega, si ricorre alla delega e al commitment in quanto sono essenziali per la tutela delle molteplici realtà
periferiche.
Diventa importante la tempestività con cui le aziende seguono e accompagnano l’evoluzione del sapere tecnologico e
la velocità con cui integrano le nuove idee e i nuovi stimoli nel proprio patrimonio.
Tutto ciò permette di assottigliare le barriere tra mondo interno e mondo esterno per garantire la possibilità di tale
scambio. Il sistema per la circolazione dell’innovazione, poiché votato al cambiamento, dovrebbe essere rivolto alla
diversità. La difficoltà sta nell’accogliere e tollerare le tendenze centrifughe evitando che l’insieme degradi e si
decomponga. A questo proposito si può osservare che gli stessi mezzi e forme della comunicazione che possono
accrescere tale difficoltà possono anche contribuire a mitigarla, ci si riferisce alla comunicazione digitale (mobile).

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È facile comprendere come tali sistemi contribuiscano a rompere le rigidità e siano del tutto funzionali a forme di
comunicazione orientate a promuovere la velocità degli scambi e viceversa, essi elevano ulteriormente il rischio di
destabilizzazione dell’organizzazione. Allo stesso tempo, questa comunicazione digitale può contribuire a rafforzare il
senso di appartenenza e il coinvolgimento, accrescendo la motivazione e l’adesione agli obiettivi dell’organizzazione.
Questi equilibri non sono comunque facili da raggiungere soprattutto se l’identità delle organizzazioni è virtuale.
Il circuito F e la comunicazione esterna
Nel considerare le forme della comunicazione interna è stata richiamata la distinzione tra il dentro e il fuori
dell’organizzazione. Il criterio interno verso quello esterno rimane alla base della principale differenziazione tra le
attività attuate da un’organizzazione.
La comunicazione esterna si tende a identificarla come una comunicazione finalizzata a promuovere sul mercato i
prodotti dell’organizzazione per sostenerne l’attività. È rivolta al cliente/utente ed è appunto finalizzata ad accrescerne
il numero e sollecitarne l’acquisto o la fruizione. È, inoltre, veicolata attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a
caratteri generalista. Questa rappresentazione è in realtà parziale e pecca di superficialità. La comunicazione esterna
però focalizzandosi sui prodotti dell’azienda, presentati quasi esclusivamente alla clientela generale, non mostra
attenzione alla modulazione del messaggio in funzione della sua specificità. La comunicazione pubblicitaria è indicata
tra gli strumenti più importanti soprattutto per le imprese orientate al consumatore finale. In questo impiego,
prettamente strumentale, ci si riduce alla diffusione di informazione sui prodotti per incrementarne il consumo e
ottenere un risultato economico, e ciò dà un’idea ingenua di cosa significhi veramente comunicare all’esterno per
un’organizzazione. Risulta infatti che l’attività di comunicazione nell’assoluta maggioranza dei casi non rientra in un
piano strategico (cioè finalizzata alla vendita e all’incremento dei numeri) ma è realizzata per affrontare di volta in
volta problemi contingenti.
Ad ogni modo la messa a punto di una comunicazione è il risultato di un processo complesso e articolato che prevede
un insieme di operazioni preliminari e successive all’atto comunicativo in sé. Queste operazioni fanno riferimento
all’attività di ricerca necessarie per acquisire conoscenze sui destinatari a cui ci si intende rivolgere e per precisare al
meglio gli obiettivi che si vogliono perseguire. A seguire si possono mettere a punto i modi e i canali per diffondere le
informazioni e infine si possono mettere in atto azioni di monitoraggio per la verifica della corretta implementazione
della comunicazione e dei risultati raggiunti. Bisogna comunque riconoscere l’impossibilità di comunicare a tutti nello
stesso modo. Infatti, ai giorni nostri ciò che viene proposto non è un prodotto ma un’esperienza. Ciò permette
l’assottigliamento delle barriere tra interno ed esterno dell’organizzazione.
Internet è il luogo virtuale dove può realizzarsi l’incontro tra organizzazione e i suoi pubblici secondo una modalità
interattiva.
Si può dubitare che per un’organizzazione l’informazione sui beni o sui servizi sia la finalità più importante, quando
in realtà ciò che primariamente è oggetto di comunicazione per l’organizzazione sono i simboli, mediante i quali essa
si rende riconoscibile ai suoi pubblici e si differenzia dalle altre organizzazioni. La comunicazione esterna per
un’organizzazione ha una valenza strategica.
La cura della relazione e la ricerca di fiducia possono anche essere lette positivamente come tentativo di ridurre le
distanze tra l’organizzazione e i suoi interlocutori e di sollecitare la partecipazione di questi ultimi.
Non si può escludere una lettura in senso strumentale come ad esempio quella seduttiva, che è la forma di
comunicazione in cui convivono una forte esposizione dell'emittente e una pesante pressione sul ricevente, per mezzo
di un contatto particolarmente enfatizzato e di una ricca elaborazione formale del messaggio. Si cerca di indurre
quindi i destinatari a mettere in atto un certo comportamento, curando il contatto attraverso modalità di particolare
efficacia e impatto in cui ciò su cui verte la comunicazione è presentato in maniera particolarmente curata da farne
emergere la bellezza o la rilevanza. L'emittente è indotto a esporsi molto, proponendo una propria immagine come
dotata di valore e sintonica con quella dei propri interlocutori.
Il circuito G e la comunicazione d’accesso
È importante la relazione e la partecipazione tra gli interlocutori quando si tratta di comunicazione esterna. Il circuito
G è quello in cui la partecipazione diviene una richiesta esplicita dell’organizzazione ai suoi pubblici, la cui finalità è
raccogliere informazioni sulla relazione o sui prodotti proposti, dando la parola ai consumatori perché possano
effettivamente intervenire su di essi, anche se indirettamente.
Ora è l’organizzazione a porsi in ascolto nei confronti di un messaggio prodotto dai consumatori/pubblico. La
comunicazione d’accesso (circuito G) risulta un circuito bidirezionale. Vi è uno scambio sostanzialmente.
I modi in cui si concretizza la comunicazione di accesso sono riconducibili a due forme fondamentali:
∆ la prima è quella in cui il singolo cittadino/utente/consumatore si rivolge all’organizzazione per esprimere un
giudizio, per avanzare un reclamo, per notificare un problema o una richiesta.
∆ La seconda è rappresentata dalle indagini campionarie mediante cui sono raccolte le opinioni degli utenti.

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In entrambi i casi si danno delle condizioni di realizzazione perché tali vie di comunicazioni costituiscano davvero
strumenti di partecipazione e non si rivelino mere finzioni. Principalmente si tratta di condizioni tecniche. Ma accanto
a questi vanno considerati anche le condizioni organizzative che rendano effettivo l’ascolto dei pubblici. Sono aspetti
relativi alla capacità di gestire le informazioni ottenute, usandole per intervenire sull’organizzazione e sul suo
sviluppo, ed evitando un impiego burocratico-adempitivo dei dati. Fare ciò significa essere in grado di tradurre le
osservazioni in termini di funzionamento organizzativo, ossia di considerarne le ricadute sul piano dei processi e di
intervenire su di essi, magari modificando il disegno dell’organizzazione.
Capitolo 3
L’organizzazione come cultura
“Cultura organizzativa” è un’espressione rappresentativa di un insieme di idee che si sono imposte all’attenzione degli
studiosi delle organizzazioni rinnovando la passione per la ricerca e riscontrando una grande popolarità. Questa forza
innovativa è stata tale da cambiare profondamente il modo di interpretare e concepire le organizzazioni. L’approccio
cultura ha infatti dato un nuovo sguardo sulle organizzazioni, definendole forme espressive, cioè insiemi di significati
condivisi e socialmente costruiti all’interno dei quali sistemi strutturati di simboli condizionano comportamenti,
pensieri, emozioni, azioni dei soggetti e la vita organizzativa.
Più cause hanno contribuito all’irrompere dell’approccio culturale e al suo successo: la frustrazione di numerosi
studiosi davanti al predominio di un paradigma neopositivista, l’utilizzo di metodi quantitativi tesi a misurare
fenomeno oggettivi. A ciò la visione simbolico-interpretativa (o approccio culturale) ha risposto offrendo loro la
possibilità di impiegare ed esplorare nuove metodologie volte alla comprensione e interpretazione dei contesti
organizzativi. Inoltre, anche la crisi delle aziende occidentali, che si confrontavano con l’irrompere nei mercati
internazionali della potenza e concorrenza giapponese, è stato ciò che ha favorito la nascita dell’approccio culturale.
Infine, una terza causa è associata a una tendenza socioculturale che ha portato a concepire il proprio lavoro e il
successo personale in termini di “qualità della vita” con la valorizzazione delle componenti estetiche ed emotive. Il
bisogno di rispettare la propria soggettività ha permesso di costruire un substrato che ha sollecitato la sensibilità di
ricercatori e attori organizzativi verso l’approccio simbolico-interpretativo.
Ancora oggi è poco sostenibile affermare l’esistenza di una sola prospettiva per lo studio delle organizzazioni come
forme espressive.
Le organizzazioni sono culture: la metafora culturale
I primi tentativi di definire cultura in ambito accademico sono legati al nascere di due discipline: sociologia e
antropologia. È proprio l’antropologia che sposta il suo interesse progressivamente sulla comprensione degli elementi
che rendono unici e diversi i gruppi tra di loro. I gruppi vengono considerati come culture e dato che le organizzazioni
sono composte da gruppi, anch’esse sono culture.
Questa prospettiva si colloca all’incrocio di tre discipline principali appunto: la psicologia, la sociologia e
l’antropologia. Sebbene Schein fosse uno psicologo, sono state le altre due discipline a rivestire un ruolo rilevante
nella costruzione della conoscenza sulle culture organizzative e ad attivare processi di contaminazione incrociata.
L’idea di cultura, negli studi organizzativi, non era comunque un’idea nuova. Infatti, se ne trovano tracce nei lavori di
Selznick che condusse una ricerca presso la TVA, l’Ente autonomo per la ricostruzione della vallata del Tennessee
negli Stati Uniti e concettualizzò la duplice dimensione che appartiene a qualsiasi sistema cooperativo: organizzativa e
istituzionale. Sono dimensioni analizzabili in maniera separata ma che si presentano fenomenologicamente fra loro
intrecciate. La prima (organizzativa) designa l’organizzazione come uno strumento concepito razionalmente per
raggiungere degli obiettivi. La seconda indica, invece, che l’organizzazione è anche una realtà naturale e adattiva,
prodotto delle esigenze e dei bisogni degli individui. L’organizzazione viene vista da Selznick come un’istituzione
quando si impregna di valori: “istituzionalizzazione significa infondere valori al di là delle esigenze tecniche del
compito immediato.”
L’ipotesi è che un’organizzazione assume un carattere e acquista un’identità propria e distintiva attraverso il
consolidamento di esperienze collettive di successo. L’acquisizione di questo carattere distintivo è un modo con cui le
istituzioni assegnano gratificazioni ai propri dipendenti e raggiungono l’integrazione. L’idea di carattere è
assimilabile a quella di cultura organizzativa.
Il carattere e i valori organizzativi fondano l’identità dell’organizzazione, ossia la percezione che l’organizzazione ha
di sé stessa e delle ragioni del suo esistere.
Qualche decennio dopo la studiosa Linda Smircich, lungo un’operazione di ricostruzione storica dell’idea di cultura
negli studi organizzativi, ha distinto tre modi diversi di intendere la cultura:
1. Variabile indipendente esterna all’organizzazione;
2. Variabile dipendente interna all’organizzazione;
3. Metafora di base (root metaphor) di ciò che è un’organizzazione, è quella più originale proposta
dall’approccio culturale.
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I teorici che interpretano la cultura come una variabile indipendente esterna sostengono che norme e valori sono
costruiti dal contesto istituzionale e fatti propri dall’organizzazione attraverso processi di isomorfismo istituzionale
assorbendo pratiche consolidate. In virtù di tali processi, le regole istituzionalizzate esterne che incarnano i principi
della razionalità vengono incorporate in forma di programmi per il raggiungimento di obiettivi, sistemi per il
miglioramento della qualità, facendo sì che le organizzazioni siano socialmente ricompensate con risorse economiche
e ottengano legittimità sociale.
Quando invece la cultura organizzativa viene vista come una variabile dipendente interna all’organizzazione,
l’interesse si rivolge ad aspetti gestionali. La cultura è composta, ad esempio, di storie, riti e miti, che se
accuratamente manipolati e tra loro mescolati producono un circolo virtuoso: aumento della motivazione individuale e
della volontà di cooperare dei membri; coesione sociale interna e fedeltà diffusa all’organizzazione; incremento
dell’efficacia totale del sistema.
Infine, se la cultura è intesa come metafora di base allora l’organizzazione è cultura; non possiede o ha una cultura che
si esprime come avviene nei due approcci precedenti. L’organizzazione è cultura che si esprime nel modo di interagire
dei suoi membri, nel tessuto delle decisioni che sono prese e delle azioni intraprese nella quotidianità della vita
organizzativa. La cultura è assimilabile a una cornice di significati in grado di dare senso a ciò che accade nelle
organizzazioni.
È quindi possibile sostenere che, l’approccio culturale non abbia fatto altro che prendere in prestito da altre discipline,
soprattutto dall’antropologia, un insieme di concetti e categorie già pronti all’uso e quindi di fatto non abbia elaborato
granché.
Cultura e culture organizzative
Per chi aderisce a una chiave simbolico-interpretativa, uno degli autori di riferimento è l’antropologo Clifford Geertz
che, in un passaggio in cui richiama Max Weber, sostiene che l’uomo è un animale sospeso in una rete di significati,
cioè in una cultura, che egli stesso ha intessuto (costruito) il più delle volte in maniera inconsapevole.
La cultura organizzativa è quell’insieme di significati che racchiudono assunti, valori e credenze che un gruppo ha
inventato e scoperto, imparando ad affrontare situazioni problematiche di adattamento all’ambiente esterno e di
integrazione interna. Tali valori, assunti trovano espressione visibile nei comportamenti, nei linguaggi verbali. Schein
ha giustamente sostenuto che non si può ritenere di essere in presenza di una cultura se tali sistemi di significati non
vengono ritenuti validi e soprattutto trasmessi anche ai nuovi membri entrati a far parte dell’organizzazione. Quindi
l’interiorizzazione del sistema di significati è ciò che permette all’individuo e ai novizi di orientarsi all’interno
dell’organizzazione, senza dover ogni volta inventare soluzioni per risolvere i problemi quotidiani.
Una cultura ha la funzione di generare modelli:
 Cognitivi, che permettono la categorizzazione e l’interpretazione di ciò che accade in un’organizzazione;
 Emotivi e affettivi, con ricadute sull’impegno e l’energia che i singoli sono disposti a spendere nell’azione.
Secondo quanto sostiene Perrow all’interno dell’organizzazione vi sono tre forme di controllo:
1. La gerarchia;
2. I programmi per raggiungere un obiettivo;
3. Le premesse ideologiche dell’azione, cioè l’insieme dei valori condivisi per la necessità interna di perseguire
un bene, non per obbedienza o per paura.
L’idea di cultura organizzativa è in parte simile al concetto di comunità di pratica. Ciò che accomuna le due nozioni è
la sottolineatura dell’importanza dei processi di socializzazione dei nuovi membri e l’idea di organizzazione come
artefatto culturale. Tuttavia, gli studiosi delle culture organizzative tendono a focalizzare l’attenzione sulle dimensioni
comunitarie. Viceversa, i teorici della comunità di pratica sottolineano l’importanza delle attività pratiche, in primo
luogo quelle lavorative.
Un’altra differenza consiste nel fatto che una cultura organizzativa contiene al suo interno più comunità di pratica.
Alcuni ricercatori ritengono che all’interno della stessa organizzazione possano convivere più culture, le sottoculture.
Si formano perché molto probabilmente alla radice si trova la tendenza di uomini e donne ad accostarsi a persone
simili. Le sottoculture dei gruppi di lavoro si possono trovare ovunque.
Sono state distinte:
∆ Le sottoculture di sostegno rispetto alla cultura generale e dominante (corporate culture)
∆ Le sottoculture che si oppongono alla cultura generale (controculture)
∆ Le sottoculture che convivono con la cultura generale (ortogonali)
Fra gli studiosi che interpretano la cultura in modo multiprospettico occorre ricordare Martin; l’autrice ha identificato
tre paradigmi interpretativi con i quali ha letto una medesima organizzazione, la OZ Company (OZCO) nome di
fantasia assegnato a un’azienda operante su scala mondiale.
Il primo paradigma, quello dell’integrazione, descrive la cultura come un insieme di valori comuni, coerenti e
reciprocamente rinforzantisi che generano armonia, consenso diffuso e assenza di conflitti.
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La seconda prospettiva è quella della differenziazione, costituita da mancanza di consenso, da sottoculture
(controculture).
Infine, la terza prospettiva è quella della frammentazione, che tende a mettere in dubbio la stessa esistenza della
cultura, concentrandosi sugli aspetti di ambiguità, incoerenza e disordine che caratterizzano la vita organizzativa.
Proprio per quest’ultima visione l’organizzazione è una giungla o un’anarchia dove il consenso e il dissenso, l’ordine
e il disordine coesistono, e dove una stessa manifestazione culturale può dare luogo a più interpretazioni in continua
evoluzione.
Simbolismo interpretativo, costruttivismo e implicazioni per lo studio delle organizzazioni
Sostenere che la cultura è una “rete di significati intessuti dall’uomo” implica assumere una visione costruttivista della
realtà. Il mondo sociale, come quello organizzativo, sarebbe così costruito in virtù delle interpretazioni condivise che
gli attori attribuiscono alle loro esperienze comuni, e la cultura sarebbe un insieme di simboli che veicolano codici di
significati condivisi. Tale visione potrebbe erroneamente indurre a ritenere che la realtà sia un “fatto sociale”,
qualcosa di afferrabile e misurabile. Viceversa, i costruttivisti ritengono che la realtà, e quindi l’organizzazione, non
sia oggettiva ma oggettivata, cioè socialmente costruita in modo tale da sembrare oggettiva. Gli studiosi impegnati
nell’analisi delle culture organizzative non conducono indagini volte alla scoperta di leggi che misurano e spiegano i
fenomeni in termini di relazioni probabilistiche, bensì realizzano etnografie che interpretano i significati attribuiti
dagli attori alla loro vita organizzativa. Realizzare etnografie comporta osservare, descrivere e interpretare i processi
organizzativi, fino ad arrivare alla stesura di una monografia.
L’etnografia è il metodo di ricerca utilizzato nell’ambito dell’approccio culturale, essa oltre che metodo, è una
prospettiva di stampo interpretativo per lo studio delle organizzazioni o delle attività dell’organizzare. Se si adotta una
prospettiva costruttivista, allora di per sé le organizzazioni non esistono, sono un’invenzione delle persone e degli
studiosi che le raccontano.
La cultura organizzativa: categorie analitiche e forme espressive
Pettigrew ha sostenuto che l’idea di cultura organizzativa, in quanto concetto unitario, manca di un sufficiente
mordente analitico e Trice e Beyer hanno suggerito l’utilità di distinguere i contenuti fondamentali della cultura dalle
forme simboliche ed espressive. I contenuti fondamentali possono essere declinati lungo le seguenti categorie:
1. Il logos> si riferisce all’insieme di credenze che indicano le interpretazioni adottate dai soggetti nei confronti
di quanto accade.
2. L’ethos> sono i valori che corrispondono a giudizi di preferibilità e che assumono una valenza deontologica,
rispondendo alle domande in merito a ciò che è giusto o sbagliato.
3. Il pathos> si riferisce al modo particolare di percepire e sentire la realtà attraverso tutti i sensi.
4. L’aisthesis> si tratta di una specificazione della dimensione precedente, in quanto si riferisce alle percezioni
di ciò che è bello e di ciò che è brutto.
5. Il genus> il campo simbolico organizzativo è leggibile anche in termini di genere: valori, regole, modi di fare
si declinano anche in relazione al fatto di appartenere al sesso maschile e femminile.
6. La polis> il riferimento è alla dinamica del potere, in quest’area si esplicita anche chi sono i nemici e gli
amici, chi sono gli alleati esterni o viceversa coloro dai quali occorre difendersi.
7. Il methodos> si riferisce al sapere che cosa e come fare, così come che cosa non fare all’interno
dell’organizzazione.
Queste concezioni trovano espressione nelle espressioni simboliche indicative dei contenuti culturali: linguaggio, miti,
storie, saghe, riti e artefatti. Si tratta di simboli, ossia forme astratte ma anche azioni che esprimono una molteplicità di
significati tali da suscitare emozioni e spingere l’uomo all’azione.
 Il linguaggio> cioè l’insieme di segni vocali che caratterizzano e stabilizzano l’esperienza umana, comunica
un tessuto sociale e ha il potere di condizionare i processi di azione, percezione e di pensiero. Ogni cultura
organizzativa tenderà a sviluppare un linguaggio.
 I miti> sono narrazioni in forma drammatizzata di vicende passate più o meno reali che hanno la funzione di
legittimare sia le azioni contenute negli episodi raccontati, sia le idee che ispirano quelle condotte. I miti
sospendono le regole della logica e collocano gli eventi oltre la possibilità di una qualche verifica.
 Le storie e le saghe> le storie sono collezioni di aneddoti ed episodi che caratterizzano la quotidianità della
vita organizzativa, inoltre, offrono risposte ad alcuni dilemmi organizzativi. Le saghe organizzative
raccontano la vicenda di nascita, sviluppo ed evoluzione di un’organizzazione.
 I riti e le cerimonie> i riti sono azioni che necessitano di un consumo di risorse, cioè attività caratterizzate da
un certo grado di progettazione ed elaborazione formale, realizzate mediante interazioni sociali e a beneficio
di un pubblico e con conseguenze sociali di rilievo. Insiemi compositi di riti danno origine alle cerimonie.
Trice e Beyer hanno classificato i più frequenti riti che si registrano nella vita organizzativa: riti di passaggio,
segnano il transito a ruoli o a status nuovi per gli individui; riti di esaltazione, che motivano i membri della
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cultura organizzativa a comportarsi como coloro che sono stati premiati; riti di degradazione, che
ridefiniscono identità e potere dei soggetti coinvolti; riti di ricomposizione e contenimento dei conflitti, che
svolgono la funzione di ridurre il rischio di una possibile escalation conflittuale che in realtà non risolvono i
problemi; riti di integrazione, che avvicinano le distanze tra ruoli spesso separati dalle funzioni e dalla
gerarchia; riti di rinnovamento, in base ai quali si propaganda l’intenzione di avviare dei programmi di
cambiamento. I riti e le cerimonie si distinguono dai rituali.
 Gli artefatti> si tratta dei prodotti tangibili, concreti, della vita organizzativa che hanno portato alcuni studiosi
a rivolgere lo sguardo alla forma degli edifici, alle decorazioni interne, alle fotografie, ai ritratti e ai quadri che
possono ornare le pareti, alle uniformi, ai colori utilizzati, alla logistica e al design degli uffici.
Capitolo 4
Conoscere e apprendere nelle organizzazioni
Il tema della conoscenza organizzativa richiede il confronto con una variegata costellazione di riferimenti e approcci.
Il punto di vista adottato
L'approccio da cui ci muoviamo concepisce le organizzazioni come contesti sociali in cui l'efficacia e l'efficienza dei
processi produttivi sono connessi alla soggettività degli attori presenti e alla concretezza e affidabilità delle loro
azioni, alle culture di cui sono portatori e alla capacità di attribuire significato agli eventi e alle problematicità
incontrate. L’accento viene posto non solo sugli aspetti strutturali, ma anche sulla realtà organizzativa come artefatto
socialmente costruito per avviare i processi di cambiamento personale e organizzativo, di apprendimento
trasformativo e di sé.
La psicologia del lavoro e delle organizzazioni cerca di descrivere e comprendere il rapporto tra attori e organizzativi
e pressioni interne ed esterne storicamente presenti e come da esso derivino interpretazioni e corsi di azione, prese di
decisione e trasformazione dei contesti operativi di appartenenza. Tale orientamento può essere rintracciato nell’ampio
e articolato approccio di una teoria della pratica centrata sullo studio delle pratiche lavorative, della produzione e
riproduzione di concreti sistemi di attività, dei significati che le persone attribuiscono alla loro esperienza lavorativa e
organizzativa. Le organizzazioni complesse sono sistemi di attività con articolazioni al loro interno e interrelazioni
con altri sistemi di attività. Assumere tale visione significa affrontare la complessità delle relazioni interne ed esterne e
capire come i sistemi di attività sono generati, quali trasformazioni attraversano, come operano in differenti contesti
spaziali e temporali. L’agire può essere letto sulla base dei saperi pratici, delle culture operative, di regole e routine
diffuse, che costituiscono un tessuto in grado di influenzare corsi di azione e orientare identità.
Infine, per concludere questa breve selezione storica di contributi rilevanti legati alla produzione di conoscenza e
all'apprendere nelle organizzazioni, è opportuno citare i lavori italiani di Tomassini e di Lanzara. Al primo si deve un
attento lavoro di rilettura storica e critica del legame tra organizzare, apprendere e conoscere nelle sue progressive e
varie manifestazioni, con l'aggregazione dei principali concetti di apprendimento nelle categorie degli schemi
gerarchici, trasformativi, ricorsivi, contestuali/riflessivi. Al secondo va il merito di avere elaborato un approccio alle
organizzazioni connotato dalla consapevolezza dei fattori di complessità e di profonda mutazione dei contesti.
Dimensioni di cornice: mutazioni lavorative, articolazioni della professionalità e sfide alla soggettività
La prima dimensione di cornice riguarda il progressivo configurarsi di una mutazione degli scenari contemporanei:
crisi, occupazione, fenomeni di disuguaglianza, collasso ecologico, trasformazioni demografiche, geopolitiche e
migratorie. I contesti operativi e organizzativi sono in profonda trasformazione, con mutamenti rapidi e tuttora in
corso delle forme di rapporto tra soggetto ed esperienza lavorativa. Si tratta di profonde, radicali quanto rapide
trasformazioni del mondo tecnologico e scientifico e quello che è importante sottolineare è il cambiamento che esse
introducono di fatto nel panorama lavorativo e organizzativo. Ad esempio, disporre di un robot per la realizzazione di
un intervento chirurgico o la produzione di una scocca di autovettura, cambia il ruolo del lavoratore la stessa
organizzazione del lavoro, richiedendo nuove e inedite competenze una diversa flessibilità. Da un lato si apre la
possibilità di mettere il “sapere al lavoro al centro della scena organizzativa”, sapendo che il vantaggio competitivo
per istituzioni, imprese e organizzazioni, pubbliche e private, diventa la capacità di “creare valore con le risorse
umane”, sostenendo forme di apprendimento e di condivisine di pratiche professionali e lavorative. Dall’altro lato, su
un versante più microsociale, inerente alle transazioni tra soggetti e al loro rapporto con quotidiani ambiti e oggetti di
investimento e di relazione, assistiamo a ricorrenti e diffuse dinamiche depressive, di contrazione e inibizione delle
energie di disponibilità, di fiducia, di speranza. Il confronto con aspetti di incertezza, precarietà, possibile
strumentalizzazione, che spesso sono associati alla presenza dell’inatteso, genera esiti di imprevedibilità, ambiguità,
provvisorietà e instabilità.
La seconda dimensione di cornice riguarda l’evoluzione delle caratteristiche di professionalità, dei saperi a esse
connessi e delle condizioni del loro esercizio nell’ambito lavorativo e delle organizzazioni. A fronte di contesti
lavorativi ha elevati variabilità, imprevedibilità e scarsa governabilità, gli operatori si confrontano con problemi che
non rientrano in schemi e strutture cognitive già acquisite: devono saper scegliere tra le varie incertezze, quelle che
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possono essere considerate pertinenti al problema posto in quel momento e in quelle condizioni, attraverso criteri che
sono imprevedibili.
In sintesi, l'evoluzione della o delle professionalità introduce rispetto ai temi dell'apprendere, della gestione della
conoscenza, una decisa attenzione alla capacità professionale intesa come interpretazione intelligente delle situazioni,
come disposizione all'ascolto della realtà e alla costruzione ideologica dei possibili significati a essa attribuiti.
Emerge il rapporto tra produzione di conoscenza e condizioni di utilizzo della stessa in determinati contesti pratici,
nonché del ruolo svolto dal sapere pratico e dalle differenti tipologie di conoscenza generate nelle organizzazioni.
La terza dimensione di cornice riguarda l'esperienza degli attori organizzativi e la sollecitazione o sfida alla loro
soggettività, derivante dalle evoluzioni dell'attuale scenario. Possiamo considerare la soggettività come l'intreccio
dinamico degli aspetti di responsabilità, temporalità, intenzionalità, immaginazione e progettualità attraverso i quali le
persone costruiscono la propria identità e si mettono in relazione con i propri contesti. L'organizzazione
contemporanea è caratterizzata da ritmi sempre più veloci, da pressioni al risultato, dall'esigenza di costanti processi di
decostruzione e ricostruzione di equilibri consolidati, senza perdere la capacità negativa considerata condizione per
stare dentro situazioni in cui si sperimenta la sospensione temporanea di senso di certezza e di approdi sicuri.
Un rinnovato scambio tra soggetti organizzazione non appare né scontato né automatico e ripropone domande su
quanto realisticamente nei contesti organizzativi, sia riconosciuto il valore della soggettività. Numerosi sono ancora i
fenomeni di disinvestimento, chiusura, disincanto, opportunismo e rassegnazione. Da qui l'esigenza di affrontare la
sfida dell'insostenibilità della vita lavorativa, alimentando un processo costante di rimessa in discussione
dell'organizzazione e della disposizione a stare dentro contesti in cui la qualità della vita lavorativa non esclude aspetti
di criticità ma li assume trovando più soddisfacenti equilibri per attraversarli. Un contributo a ciò lo dà per esempio la
WOP (work and organizational psycology).
Apprendere e conoscere nei contesti organizzativi.
La svolta pratica secondo la sociologia del lavoro e delle organizzazioni
L’idea di fondo, che riconfigura il discorso sul rapporto tra conoscenza e organizzazioni, e genera differenziate
conversazioni all’interno di una molteplicità di comunità professionali, risiede nella strutturale rilevanza attribuita al
conoscere in pratica. Esso può essere preliminarmente rappresentato come esperienza del significato, intesa con
processo di negoziazione all’interno di un sistema di azione, mediante la capacità di combinare partecipazione a esso e
reificazione. Gherardi individua un framework teorico-concettuale che ha costituito lo sfondo per lo svilupparsi del
discorso sulla pratica e conversazione scientifica inerente a un approccio all’apprendimento e alla conoscenza
organizzativa basato su sapere pratico. Esso comprende riferimenti:
 all’Activity Theory → che enfatizza gli aspetti sociali, materiali e simbolici per mezzo dei quali prende forma
un sistema di attività
 all’Actor-Network Theory → centrata sulla configurazione di ecologie razionali che danno vita a processi di
traduzione in pratica del reciproco rapporto tra conoscenza e azione
 alla teoria dell’apprendimento situato e del connesso costrutto di comunità di pratica
 ai workplace studies in cui lavoro e organizzazione sono socialmente organizzati a partire dall'interazione tra
soggetti, oggetti e tecnologie
 all’approccio culturale ed estetico. che valorizza non solo le dimensioni politiche di significato connesse e
incorporate negli oggetti e nelle pratiche ma anche la sensorialità del nostro conoscere l'organizzazione.
Emerge un'idea di pratica come modalità, relativamente stabile e socialmente riconosciuta, dell'ordinare elementi
eterogenei quali persone, conoscenza, artefatti e tecnologie in un insieme coerente. Le pratiche lavorative vengono in
tale ottica rappresentate come sistemi di azione sufficientemente stabili e condivisi che tengono insieme persone,
strumenti in uso, culture di riferimento, conoscenze situate e diffuse, a partire da convergenze provvisorie e interazioni
precarie, generate da processi che acquistano progressiva durata e consistenza temporale. La conoscenza si produce e
circola all'interno di tali campi di pratiche. Si tratta di un conoscere connesso all'azione, prevalentemente preriflessivo
e tacito, proprio perché è inscritto nel corpo delle pratiche, depositato nel flusso delle esperienze, in modo per lo più
implicito e inconsapevole.
Il passaggio è in questo caso dal riconoscere in pratica al conoscere una pratica, facendo attenzione ai processi
attraverso i quali la conoscenza pratica si istituzionalizza. L'immagine conseguente è quella di una conoscenza
organizzativa come tessitura dell'apprendere nei luoghi di lavoro, divenendo le pratiche occasione e spunto per
l'intreccio delle molteplici forme dall'organizzare, dell'apprendere, del conoscere in azione.
Gherardi identifica tre caratteristiche delle pratiche situate che i soggetti impiegano per conferire significato e
riconoscibilità sociale al loro sistema di azione, valorizzando le dimensioni di conoscenza tacita incorporata e
depositata nelle pratiche che condividono.
o La prima si riferisce alla dimensione indessicale, che corrisponde alle espressioni che risultano comprensibili
a partire dal concreto contesto in cui sono prodotte e usate. Dal punto di vista etnometodologico ciò equivale a
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cogliere significati impliciti che sostengono la reciproca comprensione dei soggetti all'interno dei loro contesti
di azione.
o La seconda caratteristica individuata è quella dell’accountability, cioè la capacità dei partecipanti di offrire
motivi, argomentazioni e spiegazioni e di rendere le loro pratiche osservabili e dicibili.
o La terza caratteristica delle pratiche è la reflexivity, cioè il processo che interroga i modi attraverso i quali i
soggetti conferiscono significato alla realtà e lo rendono accessibile ad altri, contribuendo a costruire il
proprio ambiente organizzativo.
È proprio su queste dimensioni di tessitura sociale che si fonda l'emergente prospettiva del gestire le conoscenze e
dell'apprendere nei contesti organizzativi e di lavoro, connessa all'attivazione di opportuni momenti di azione
riflessiva. L'enfasi richiamata sul costrutto di “conoscere in pratica” evidenzia la necessità di fare riferimento alle
dimensioni di conoscenza tacita e alle modalità della sua produzione e circolazione: essa richiede un approccio olistico
e qualitativo, per coglierne le condizioni di significatività in un dato contesto, necessita di un tempo consistente di
intercettazione e monitoraggio, al fine di individuare i modi della sua riproducibilità che coinvolgono aspetti operativi,
tecnici, etici ed estetici, attraverso i quali i soggetti in un dato contesto danno al loro mondo un ordine, provvisorio e
minacciato dalla fragilità, ma progressivamente più stabile, di complessa accessibilità. L'apprendimento diventa
metafora dei processi di costruzione e negoziazione di significati che i soggetti attribuiscono alla loro esperienza e
storia organizzativa, traducendoli progressivamente in routine, convenzioni e procedure istituzionalizzate.
È importante sottolineare le caratteristiche di una concezione dell'apprendimento connesse all'adozione di una
prospettiva epistemologica sociocostruzionista, conversazionale, narrativa. A fronte di una concezione delle
organizzazioni come campi di pratiche, attorno alle quali si coagulano appartenenze e si sviluppano esperienze di
produzione di senso, di condivisione di emozioni, di formazione di linguaggi, di produzione e diffusione della
conoscenza, si configura un'idea di apprendimento locale funzionale alla promozione dell'attitudine dei soggetti ad
apprendere a partire dalla riflessione sulle pratiche concrete della loro vita lavorativa. Un apprendere che vede uno
spostamento di enfasi dalla prospettiva cognitiva a quella sociale poiché mobilità non solamente processi mentali e
elaborazione di dati e informazioni, ma sollecita il coinvolgimento dell'attivazione di condizioni di contesto e
coinvolge non solo i singoli individui ma anche una comunità di soggetti. Gherardi suggerisce in proposito un
ribaltamento del concetto (da comunità di pratica a pratiche di una comunità) che ne recuperi il legame originario con
le pratiche situate di riferimento. Il senso di tali considerazioni rimanda all'esigenza di apprendere dall'esperienza,
vicino ai concreti processi attraverso i quali i soggetti destrutturano o ristrutturano costantemente i propri campi
conoscitivi e operativi, reinterpretando situazionalmente le proprie competenze. Il tema del passaggio del rapporto tra
dimensioni tacite ed esplicite della conoscenza sollecita una considerazione inerente ai repertori del far apprendere e
allo statuto di riflessività che li caratterizza, sia in riferimento a un ascolto del e nel proprio agire ( reflexive learning);
sia come ricognizione sulla propria soggettività e sul suo intrecciarsi lungo storia e traiettorie lavorative e
professionali (self- directed learning); sia infine in relazione al rapporto tra apprendimento e cambiamento a più livelli
(trasformative learning).
La conoscenza come risorsa anomala nella prospettiva economica
Rischio e responsabilità della creazione di significati
La conoscenza va presa in considerazione partendo da un’aporia, cioè un problema le cui possibilità di soluzione
risultano annullate già in partenza dalla contraddizione. Il nodo dell’aporia risiede nell’identificare la conoscenza
come una qualsiasi altra merce e come una risorsa connotata dalle proprietà di scarsità, divisibilità, escludibilità,
strumentalità. In realtà essa si manifesta come una risorsa “anomala” proprio perché non risponde a queste condizioni,
quindi, non è scarsa, non è divisibile, non è escludibile e non è esclusivamente strumentale. Le sue peculiari
caratteristiche riguardano: la possibilità di creare valore attraverso la moltiplicazione degli usi e delle applicazioni
delle conoscenze di partenza; l’interpretazione delle esperienze; l’autoregolazione dei rapporti tra gli attori sociali.
La disponibilità di conoscenza, la sua produzione, gestione e distribuzione può essere concepita come una filiera i cui
driver sono:
 L’efficacia> è connessa alle interpretazioni che i soggetti danno a eventi e situazioni, e ai significati che in tal
modo sono attribuiti alle diverse esperienze;
 La moltiplicazione> riguarda la possibilità di riusare la conoscenza, riproducendola in nuovi contesti e
situazioni e mobilitando una pluralità di attori;
 L’appropriazione> fa riferimento al valore generato dalla conoscenza e alla sua distribuzione, non solo in
termini di utilità economica ma anche sociale. Ciò verso cui si punta è la costruzione di un equilibrio tra la
produzione di una nuova conoscenza e il riutilizzo e la propagazione di quello che si conosce già. Ma solo una
parte della conoscenza può essere replicata, mentre l’altra parte deve essere reinventata in funzione di persone
e contesti d’uso che sono unici.

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Rispetto ai vantaggi della conoscenza tipici della prima modernità (scienza, tecnologia) vi è una nuova condizione
riflessiva che chiama in causa soggetti a cui è affidato il compito di reinterpretare modalità di innovazione e
generalizzazione assumendo il rischio e la responsabilità della creazione di significati che passano attraverso la
metafora, relativa alla disponibilità di un pensiero, che si confronta con la molteplicità dei punti di vista possibili e si
traduce in una rete di relazioni in cui storie e racconti si trasformano da privati e inaccessibili in pubblici e
confrontabili.
Abitare il mondo come partecipazione a pratiche di attività situata: antropologia ed ecologia della cultura
La socioantropologia culturale e l'etnometodologia applicate all'ecologia della cultura forniscono dei contributi
riguardo l'approccio all'apprendere e alla gestione delle conoscenze nelle organizzazioni. L’oggetto di studio della
socio-antropologia e dell’etnometodologia è l’esplorazione dello strutturale rapporto che connette analisi dei contesti
di pratica, dispositivi materiali della loro costituzione, forme di conoscenza in essi socialmente distribuite e processi di
interazione e azione sociale.
pp.98-106
Capitolo 6
Le risorse personali e la loro espressione nel contesto organizzativo
Negli ultimi decenni la società civile e il mondo delle organizzazioni hanno conosciuto una serie di cambiamenti
(rivoluzione informatica, affinamento delle tecniche di gestione ecc). Negli anni Novanta il quadro politico,
economico e sociale è ulteriormente mutato, con l’estendersi del processo di globalizzazione dei mercati e il passaggio
dall’era industriale all’era postindustriale, che ha portato le organizzazioni a dover ridefinire anche la loro relazione
con il contesto in termini globali.
Negli anni Duemila diventano come non mai rilevanti i temi della convivenza, dell’adattamento, dell’incertezza
lavorativa, della tecnologia e dei network, rendendo sempre più complesso il quadro da fronteggiare. In questa
complessità diventa prezioso il capitale umano (competenze e comportamenti collocati nella persona) e il capitale
sociale (reti di relazioni tra persone). Nel corso di questa lunga transizione si evolvono le scienze sociali, con
particolare riferimento alla psicologia. La scienza psicologica deve rapportarsi con una realtà sempre più variabile e
sapersi muovere in essa, individuando le migliori condizioni di adattamento e di innovazione proattiva, quest’ultima,
volta non solo ad anticipare i rischi ma anche a influenzare la realtà, così da fondare e rendere più probabili gli
sviluppi desiderati.
In questo contesto sorge e si afferma la Psicologia positiva, un movimento culturale e scientifico che si propone di
portare all’attenzione le determinanti positive del comportamento e dell’esperienza umana per promuovere condizioni
di benessere ed efficacia, e prevenire le patologie che sorgono quando la vita è vuota e priva di significato.
La lente della Psicologia positiva: l’individuo come patrimonio di potenzialità realizzative
L’articolo “Positive Psicology. An introduction” può considerarsi il “manifesto” della Psicologia positiva. Già durante
la Seconda Guerra Mondiale si era visto come alcuni individui che in precedenza erano sicuri di sé e di successo
apparivano disperati, mentre altri che avevano mantenuto la propria integrità e continuavano a perseguire uno scopo
riuscendo perfino a dare speranza anche ad altri, nonostante lo sconvolgimento oggettivo e pur senza partire da
condizioni di base favorevoli. Fu allora che si iniziò ad interrogarsi su quali risorse interiori avessero guidato queste
persone. Si tratta di interrogativi che si pongono in antitesi rispetto agli interessi sui quali la psicologia si era a lungo
concentrata a partire dal 1947.
Dal punto di vista culturale, un cambiamento nell’assetto disciplinare della psicologia si venne a creare negli anni
Sessanta con la nascita della Psicologia umanistica, promossa da Maslow, Rogers e May, che si pone come terza forza
in quanto basata sulla necessità di superare gli approcci classici (psicoanalisi e comportamentismo) e di integrarne i
contributi al fine di studiare le determinanti di una vita piena e sana. Tale prospettiva si venne a caratterizzare
soprattutto come proliferazione di movimenti terapeutici di autoaiuto piuttosto che ancorarsi alla ricerca empirica.
L’articolo introduttivo da cui si è fondata la Psicologia positiva diede un prezioso contributo in quanto ribadiva di
comprendere non solo ciò che è ma anche ciò che potrebbe essere, e vengono tracciati alcuni temi principali che
verranno ripresi e trattati dagli articoli successivi.
Il primo tema riguarda l’esperienza positiva: che cosa rende un momento migliore di un altro? Ci si focalizza
sull’esperienza ottimale, cioè il pieno benessere e la completa autorealizzazione della persona; sulla relazione tra
emozioni positive e salute oppure sullo studio delle componenti cognitive, emozionali e motivazionali delle
caratteristiche positive.
Un secondo tema concerne proprio la personalità positiva: la gioia e l’infelicità possono essere viste come stati, cioè
proprietà delle esperienze, oppure possono essere considerati in relazione ai tratti e riportati a caratteristiche stabili
delle persone.
Il terzo tema, infine, ha a che fare con il riconoscimento del contesto sociale in cui le persone e le loro esperienze sono
inserite e con l’affermazione dell’importanza di prendere in considerazione le comunità e le istituzioni positive nel
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perseguimento del buon vivere. Il compito fondamentale della nostra vita diventa, in questa prospettiva, potenziare le
nostre risorse e qualità nei maggiori ambiti del vivere: il lavoro, l’affettività e la cura dei figli.
Dalla psicologia positiva allo studio delle risorse personali nel contesto organizzativo
Vari sono i movimenti che a partire dalla psicologia positiva hanno dato contributi all’ambito lavorativo e si sono
ricollegate a una generale tendenza emergente: quella delle risorse personali nel contesto organizzativo.
Le risorse fanno riferimento a caratteristiche della persona che sono generalmente di aiuto nel fronteggiare lo stress
ma anche nel raggiungere risultati significativi, aventi valore per l’individuo stesso. Ma possono essere intese come
aspetti del sé generalmente collegati alla capacità personale di adattamento e alla percezione delle proprie capacità di
esercitare un controllo e impattare sul proprio ambiente.
In tale ottica, un contributo particolarmente rilevante è stato apportato dal movimento POB (Positive Organizational
Behavior). Gli autori del movimento ritengono che spostare il focus sulle risorse e introdurre nuovi costrutti di tipo
positivo possa costituire un buon ponte tra la ricerca organizzativa e le nuove tendenze culturali. Il POB viene definito
come lo studio e l’applicazione dei punti di forza e delle capacità psicologiche orientate positivamente che possono
essere effettivamente misurate, sviluppate e gestite per il miglioramento della performance negli odierni contesti di
lavoro. La principale differenziazione rispetto alla psicologia positiva consiste nella scelta di focalizzarsi su
dimensioni personali malleabili che possano essere sviluppate mediante appositi programmi di intervento. Si tiene in
considerazione la distinzione fra tratti e stati.
Il lavoro di questi autori ha avuto come principale prodotto il costrutto di capitale psicologico, riferito ad alcune
dimensioni di natura psicologica che, più delle altre, consentono all’individuo di riuscire professionalmente e operano
in stretta sinergia: l’efficacia personale lavorativa (la convinzione di saper gestire il proprio ruolo
nell'organizzazione), l'ottimismo (tendenza a leggere positivamente la realtà in cui si opera), la resilienza (capacità di
adattarsi e riprendersi rapidamente dagli eventi stressanti) e la determinazione (capacità di perseverare flessibilmente
verso il raggiungimento dei propri obiettivi). Altri autori si sono occupati dello studio delle risorse personali facendo
riferimento a dimensioni differenti come: efficacia personale generalizzata (convinzione di poter ottenere successo in
un'ampia varietà di contesti) e autostima basata sull'organizzazione (convinzione di poter soddisfare importanti
bisogni personali svolgendo ruoli all'interno di un determinato contesto organizzativo).
Altri autori si sono riferiti alle core self-evaluations (valutazioni nucleari di sé) e alla positività. Judge e colleghi
hanno ricondotto la convinzione di essere all'altezza delle situazioni, la tendenza a ritenere di poter causare
determinare eventi, l'autostima e la stabilità emotiva a una risorsa di base, la core self-evaluations, rappresentativa del
grado di considerazione che le persone hanno di sé stesse, del proprio valore e delle proprie capacità. Mentre con
positività si intende un orientamento uno a disposizione di base e guardare la vita in maniera positiva.
Il concetto di risorse personali e oggi sempre più associato allo studio del potenziale psicologico che emerge e si
affianca all'indagine e alla valorizzazione delle competenze delle persone. Si tratta di dimensioni che sono legate alle
caratteristiche personali e che facilitano il successo individuale e dell’organizzazione. Mentre le competenze sono più
legate al cosa viene fatto e possono perdere rapidamente di validità al variare delle richieste lavorative, le risorse
personali hanno maggiormente a che fare con il come l’individuo affronta le diverse situazioni in cui si trova o può
venire a trovarsi. Dunque, bisogna adattare le competenze ai cambiamenti e rinnovare costantemente la propria
motivazione e interpretare in termini di crescita personale le trasformazioni a cui il proprio ruolo lavorativo sarà
soggetto.
Con il termine “risorse personali” intendiamo tutte quelle dimensioni che concorrono a determinare il potenziale
psicologico e che sono allo stesso tempo sia un bagaglio individuale sia un patrimonio per l’organizzazione,
coltivabile e sviluppabile. Tra di esse, oltre alle dimensioni già citate, possiamo menzionare anche gli orientamenti
preferenziali (cioè i valori e le inclinazioni motivazionali), la hardiness (cioè la resistenza allo stress) e le capacità di
anticipazione, autoregolazione, autoriflessione e apprendimento vicario dette anche capacità agentiche, che fondano
la possibilità di orientare e condurre il proprio percorso in maniera proattiva.
Le capacità alla base dell’agenticità
L’agenticità è riferita a ciò che consente alla persona di autodeterminarsi, promuovendo e valorizzando al meglio le
proprie qualità e creando proattivamente i presupposti per progredire nella propria realizzazione. Il costrutto di
agenticità nasce e si sviluppa all’interno della teoria social cognitiva di Bandura, che rappresenta un punto di svolta
fondamentale nel modo di intendere l’individuo e le sue potenzialità. Questa teoria sostiene che l’individuo è un
agente, ossia in grado di agire in maniera intenzionale su se stesso e sul proprio contesto. In questa prospettiva, i
processi cognitivi umani assumano specifiche proprietà funzionali che consentono agli individui di esercitare un
maggior controllo sui pensieri, sulle motivazioni ecc. Tale controllo permette alla persona di orientare in modo
intenzionale il proprio operato e la propria vita. L’agenticità rappresenta la facoltà umana di agire in modo
trasformativo sugli eventi, affrontandoli in modo proattivo e facendosi così promotori di cambiamento. Tale facoltà
generativa consente a ciascun individuo di creare le condizioni per mettere in atto e sviluppare le proprie capacità, così
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da raggiungere gli obiettivi prefissati e realizzare a pieno la propria persona. Tuttavia, il funzionamento umano è
socialmente interdipendente e fortemente contestualizzato, esito dell’interazione reciproca di tre ordini di variabili:
intraindividuali, comportamentali e ambientali. Questo sistema di relazioni, noto come modello del determinismo
triadico reciproco lascia intendere che le volontà e le azioni individuali non possano venir realizzate solamente
facendo leva sui propri interessi, aspettative e obiettivi, ma che debbano necessariamente tenere conto di vincoli
esterni all’individuo e che possono facilitarne o ostacolarne le intenzioni.
L’agenticità consente l’esercizio dell’intenzionalità individuale e allo stesso tempo risulta ancorata al contesto entro il
quale si muove la persona. La proattività rappresenta oggi una preziosa risorsa in ambito lavorativo, facilitando sia la
crescita professionale individuale sia lo sviluppo organizzativo. Per condurre con successo la propria carriera
professionale e per mettere in atto innovazioni efficaci, l’esercizio dell’agenticità è determinante. Emerge, quindi, la
necessità per gli individui di saper leggere e interpretare il contesto attuale in cui si trovano, di comprendere le
opportunità e i vincoli peer la generazione di cambiamento e di essere in grado di calibrare al meglio le proprie
pianificazioni e azioni per mettere a frutto le proprie capacità e raggiungere gli obiettivi di volta in volta stabiliti.
Secondo Bandura, l’esercizio di agenticità individuale è sostenuto da alcune capacità cognitive, che rappresentano
alcuni meccanismi di base che operano in maniera congiunta: cioè le capacità agentiche.
Bandura ne individua cinque: la simbolizzazione, l’anticipazione, l’autoregolazione, l’autoriflessione e
l’apprendimento vicario.
La capacità di simbolizzazione è fondamentale per l’esistenza e l’esercizio delle altre quattro, consiste nella facoltà
umana di tradurre la propria esperienza in rappresentazioni cognitive, cioè attribuire significati all’ambiente con cui si
interagisce e codificarlo in simboli. La simbolizzazione amplia le capacità di ragionamento e consente di collegare
informazioni ed eventi diversi, elaborare piani di azione futuri ecc. In quanto dimensione abilitante all’elaborazione
cognitiva della realtà, è alla base del funzionamento delle altre quattro.
Anticipazione: prefigurare scenari e azioni (centrata sul futuro)
Grazie alla capacità di anticipazione gli individui sono in grado di svincolarsi dal presente e proiettarsi nel futuro,
elaborando rappresentazioni cognitive delle conseguenze nel breve/lungo termine delle proprie azioni. Frutto di tale
“esplorazione” del futuro sono le aspettative di esito, che rappresentano il fattore chiave della capacità di
anticipazione. Sulla base delle proprie attese per il futuro vengono stabiliti gli obiettivi e si pianificano le attività per
raggiungere quest’ultimi. Avere un goal (obiettivo) da perseguire fornisce la direzione verso cui far tendere il proprio
comportamento, e inoltre, spinge e motiva la persona all’azione.
L’anticipazione correla positivamente con:
∆ Il job crafting (capitolo 8, lavoro): che consiste nella messa in atto di condotte proattive di personalizzazione
del proprio ruolo lavorativo, al fine di rendere le attività svolte più in linea con i propri interessi e le proprie
capacità.
∆ Il work engagement (capitolo 6, lavoro): che definisce una condizione di pieno coinvolgimento nelle attività
lavorative che si traduce in vissuti di energia, dedizione e assorbimento nel lavoro.
∆ La prestazione lavorativa valutata dai capi: ciò attesta il legame fra l’anticipazione degli eventi, utile per la
pianificazione delle strategie più efficaci e alla definizione di obiettivi, e la performance ottenuta sul lavoro.
Vi è, infine, la possibilità di intervenire sulla capacità di anticipazione. A questo riguardo, la metodologia del goal
setting può consentire lo sviluppo della tendenza a proiettarsi nel futuro, prefigurare evoluzioni di possibilità attuali e
anticipare le conseguenze delle proprie azioni. Inoltre, la teoria del goal setting, prevede l’assegnazione di obiettivi
che siano specifici e sfidanti.
Lavorare su questi aspetti impone all’individuo un’approfondita esplorazione delle circostanze future, per fare in
modo di stabilire mete e percorsi di azione che rispettino gli standard richiesti e che siano allo stesso tempo
accessibili.
Autoregolazione: governare le proprie condotte (opera nel presente)
Dopo essersi proiettato nel futuro e aver fissato obiettivi e strategie da percorrere, l’individuo deve necessariamente
tornare alla dimensione del presente e iniziare l’azione verso la direzione delineata. Nel fare ciò egli è in grado di
autoregolarsi, ossia di “governare” il proprio operato in modo autonomo. Gli individui, infatti, possiedono un
meccanismo di regolazione delle motivazioni, emozioni e condotte che consente loro di monitorare costantemente
l’allineamento del proprio funzionamento con gli obiettivi prefissati e di intervenire in caso di azioni improduttive. Per
Bandura l’autoregolazione è strettamente legata a un processo di monitoraggio, attraverso il quale l’individuo valuta il
grado di efficacia del proprio operato. Questa capacità agentica consente di intervenire sui propri stati personali e sulle
proprie condotte in accordo con quanto emerso dal monitoraggio. Grazie a quest’ultimo le autovalutazioni
comportamentali generano delle reazioni affettive nell’individuo che, a loro volta, hanno carattere motivante e vanno a
influenzare direttamente le qualità delle azioni successive. L’elemento chiave della capacità di autoregolazione
consiste nella gestione costruttiva del rapporto fra emozioni e comportamenti: di fronte a prestazioni inadeguate o
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ostacoli, l’individuo è in grado, grazie ad essa, di trasformare le proprie reazioni affettive in una spinta motivazionale
per operare in maniera più appropriata ed efficace.
L’autoregolazione correla positivamente con:
∆ Il job crafting: rende gli individui meglio equipaggiati per affrontare in autonomia attività e progetti nuovi,
più in linea con i propri interessi.
∆ Il work engagement: fa sentire gli individui più ingaggiati nelle attività riducendo allo stesso tempo la
necessità di staccare dal lavoro.
La capacità di autoregolazione può essere rafforzata lavorando sulle emozioni, ed è fondamentale che l’individuo non
si faccia assorbire da vissuti improduttivi ma al contrario, utilizzi le proprie percezioni come guida e risorsa per
l’azione efficace.
Può essere utile, ad esempio, una formazione sulla gestione delle dinamiche emozionali, che da un lato faciliti la presa
di consapevolezza delle proprie reazioni a insuccessi o imprevisti e dall’altro lato, sostenga una ristrutturazione
guidata di tali vissuti. In alternativa si può ipotizzare un lavoro centrato sulle emozioni positive: la tecnica del
feedforward, ad esempio. In una prima fase (di qsta tecnica) viene condotta una rievocazione guidata di un’esperienza
passata di successo lavorativo, nel quale il contributo dell’individuo sia stato determinante; nel descrivere i propri
punti di forza, si va a scatenare una reazione immediata autovalutativa positiva, che alimenta le convinzioni di
efficacia personale e genera un’ampia energia pronta per l’azione. Nella seconda fase, si chiede di tradurre in azioni
concrete le risorse personali descritte, e quindi di riflettere su come poterle sfruttare per affrontare gli obiettivi
lavorativi presenti e futuri. Questa tecnica rende l’individuo consapevole del ruolo motivante svolto dalle emozioni e
lo informa anche sulle risorse su cui capitalizzare il futuro.
Autoriflessione: capitalizzare dalla propria esperienza (si rivolge al passato)
Al termine di una sequenza di azioni orientate a un obiettivo, gli individui sono in grado di elaborare un pensiero sul
proprio operato, così da valutarne l’efficacia. Il giudizio che emerge consente di indentificare le strategie
comportamentali e cognitive migliori, di cui far tesoro in futuro, e quelle invece da evitare perché rivelatesi inefficaci.
La capacità di autoriflessione rappresenta un fondamentale strumento per l’apprendimento individuale.
La valutazione del proprio operato viene effettuata confrontando le conseguenze delle proprie azioni (i risultati
ottenuti) con un elemento assunto come termine di paragone ritenuto rappresentativo di un livello di condotta
adeguato, ad esempio:
∆ Confronto tra risultati e aspettative di esito;
∆ Confronto tra risultati e risultati raggiunti da altri;
∆ Affidandosi a informazioni fornitegli da esperti.
Questo lavoro di analisi consente di perfezionare le proprie strategie lavorative, rafforzare le competenze, sviluppare
giudizi accurati sulle proprie risorse e valorizzare le proprie abilità generando di conseguenza performance future
migliori. Un tipico esempio dell’impiego della capacità di autoriflessione è quello della lesson learned: un gruppo di
lavoro, al termine di un progetto, si riunisce per ripercorrere e rielaborare l’esperienza, e poi formalizzare gli
apprendimenti acquisiti in termini sia di strategie efficaci su cui capitalizzare in futuro sia di azioni improduttive da
abbandonare.
L’autoriflessione correla positivamente con:
∆ Il job crafting: (l’autoriflessione) consente maggiore consapevolezza sui propri interessi lavorativi e sulla
necessità di sviluppo personali;
∆ Il work engagement: (l’autoriflessione) consente maggiore consapevolezza del contributo fornito
personalmente per raggiungere i risultati;
∆ La prestazione lavorativa valutata dai capi: (l’autoriflessione) consente di attuare condotte più efficaci e
produrre performance migliori.
Riguardo la possibilità di sviluppare la capacità di autoriflessione un modo per farlo è attraverso il feedback. La
qualità del feedback, positivo o negativo che sia, influenza la reazione del collaboratore generando in lui
un’approfondita revisione delle proprie azioni. Una valida alternativa è quella di istituire delle attività ad hoc volte a
sviluppare l’autoriflessione (narrazioni scritte circa specifiche mansioni lavorative o sessioni di riflessione guidata con
i propri colleghi).
Apprendimento vicario: capitalizzare dall’osservazione di altri
La capacità di apprendimento vicario si riferisce al fatto che gli individui creano rappresentazioni cognitive delle
azioni altrui e ne assimilano le determinanti sottostanti così da poterle riprodurre (acquisisce le risorse che ritiene
importanti). Il focus di questa capacità agentica è prevalentemente esterno. Secondo bandura si compone di quattro
differenti sottoprocessi:

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1. I processi attentivi, che implicano la regolazione del focus attenzionale durante l’osservazione e determinano
quali informazioni vengono registrate;
2. I processi motivazionali, che promuovono l’apprendimento in virtù del nesso fra le condotte altrui e quelle
proprie;
3. I processi di rappresentazione cognitiva delle azioni osservate, che consentono la memorizzazione per
consolidare l'apprendimento della condotta acquisita;
4. I processi comportamentali, che si riferiscono ai successivi tentativi di mettere in pratica quanto rappresentato
cognitivamente.
La capacità di apprendimento vicario ha un importante valore adattivo, in quanto garantisce una rapida e sicura
acquisizione di conoscenze importanti per l’integrazione sociale e culturale dell’individuo. Un’altra caratteristica che
rende fortemente adattiva la capacità di apprendimento vicario è la sicurezza: essendo l’apprendimento mediato
dall’azione degli altri, l’individuo si muove in un contesto “protetto”, ossia non è esposto a rischi legare al fare
esperienze di nuove strategie di azioni.
L’apprendimento vicario correla positivamente con:
∆ Il job crafting: consente di esplorare in maniera indiretta nuovi progetti così da cogliere quelli più in linea con
i propri interessi;
∆ Il work engagement: permette di avere accesso a strategie lavorative di individui più esperti e ciò rafforza la
percezione di padronanza delle dinamiche lavorative e promuove una maggiore dedizione nel lavoro.
Per sviluppare questa capacità agentica si può procedere stimolando processi di affiancamento e confronto
intenzionale, e una valida opzione di intervento è il peer coaching, che prevede la realizzazione di workshop nei quali
un gruppo di colleghi deve svolgere specifiche attività come discutere di un particolare processo lavorativo,
pianificare le azioni in vista di un nuovo progetto o affrontare un problema. Al termine dell’attività, i partecipanti
vengono stimolati a sfruttare la propria capacità di apprendimento vicario, al fine di arricchire il patrimonio di
conoscenze. Questa tecnica promuove, inoltre, una maggiore attenzione alle modalità altrui di lettura e
fronteggiamento delle situazioni.
Efficacia personale: la convinzione di poter riuscire
Fondamentale nello sviluppo e nell’esercizio delle facoltà individuali è il credere di potercela fare. Un primo aspetto
che si coglie dalla definizione di efficacia personale è la specificità: le convinzioni riguardano ambiti e domini di
azione ben delimitati e sono pertanto da contestualizzare, definendo quali siano questi ambiti e domini. Questo
costrutto è diverso da altri potenzialmente simili, come l’autostima (indica un giudizio di valore complessivo sulla
personale) e il locus of control interno (riferito al ritenere che il corso degli eventi sia sotto il controllo delle proprie
azioni).
Un secondo aspetto da sottolineare riguarda il carattere sociale e cognitivo del costrutto. L’autoefficacia è riferita
all’interpretazione di ruoli e all’attuazione di comportamenti che hanno senso nella dimensione sociale, è quest’ultima
a definire cosa voglia dire successo o no in una determinata attività. Inoltre, è sempre all’interno della dimensione
sociale che l’individui mette alla prova le proprie capacità e giudica di essere più o meno capace in un’attività. Questi
aspetti appartengono comunque alla sfera dei pensieri, delle credenze e delle valutazioni, le quali si strutturano in una
convinzione più o meno forte di poter riuscire.
Infine, l’efficacia personale è collegata alla sfera “esecutiva” del comportamento, in questo senso si pone come uno
snodo fondamentale fra individui e contesto.
Inoltre, le convinzioni di efficacia personale hanno un ruolo chiave nel processo decisionale, ciò implica anche la
riuscita professionale. Rientrano nella dimensione soggettiva (ossia nella sfera delle proprie percezioni, convinzioni e
credenze) ma mantengono uno stretto rapporto con la dimensione oggettiva (cioè con le effettive capacità e
competenze). Le convinzioni sono quindi protagoniste di una dinamica di adattamenti reciproci fra giudizi soggettivi
ed esperienze oggettive.
L’efficacia personale può essere accresciuta intervenendo sull’esperienza e sui processi di pensiero della persona. Più
precisamente può essere sviluppata, secondo Bandura, attraverso quattro modi:
∆ L’esperienza diretta di gestione efficace di una specifica situazione, la persona sviluppa non solo le proprie
competenze ma anche fiducia in sé stesso;
∆ L’esperienza vicaria, che avviene in maniera indiretta mediante l’osservazione di un individuo che funge da
modello e facilita l’apprendimento tramite imitazione;
∆ La persuasione verbale, che opera affrontando e modificando direttamente l’aspetto cognitivo delle
convinzioni di efficacia, senza passare per l’aspetto esperienziale;
∆ Il controllo e la decodifica delle tensioni, che aiuta a comprendere alcuni segnali (tipo l’ansia) in modo meno
catastrofico e più funzionale al raggiungimento dei propri risultati.
Determinazione: la volontà che genera percorsi
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Nell’esercizio dei propri talenti, oltre alla convinzione di poter riuscire è centrale anche la spinta interna alla
realizzazione e al conseguimento di specifici risultati: la determinazione. Dimensione scaturita dal lavoro di Snyder,
psicologo positivo, che la definisce come uno stato motivazionale basato sull’interazione fra tre componenti:
agenticità, obiettivi e percorsi verso di essi.
 Agency: L’agenticità fa riferimento alla determinazione interna e alla forza di volontà necessaria a
raggiungere i propri obiettivi. Rispetto all’efficacia personale è collegata maggiormente all’azione in maniera
più diretta e profonda.
 Goals: Gli obiettivi permettono di distinguere la determinazione da altri costrutti apparentemente affini, come
la perseveranza. La determinazione è rivolta, infatti, a una meta o a un insieme di mete da raggiungere. Gli
obiettivi la rendono specifica e circoscritta.
 Pathways: La capacità di generare percorsi, strategie e alternative in grado di permettere il raggiungimento
degli obiettivi è uno degli elementi distintivi della determinazione. Fondamentale quando le strategie ordinarie
si rivelano inefficaci e si rende necessario cambiare strada.
In sintesi, gli individui con un elevato livello di determinazione sono convinti che esista sempre una via (o più di una)
per raggiungere i propri obiettivi, sono fortemente motivati nel farlo, e riescono a mantenere tale costanza
nell’impegno anche di fronte alle difficoltà.
La ricerca ha mostrato che la determinazione è associata, nei contesti organizzativi, a rilevanti esiti positivi quali la
redditività, la performance lavorativa, la leadership e lo sviluppo di un buon legame con l’organizzazione. Nella
prospettiva della Psicologia positiva la determinazione si propone come una dimensione malleabile. Snyder ha
dimostrato che attraverso interventi con focus sugli obiettivi è possibile incrementare il livello di determinazione
individuale. Luthans e Youssef hanno studiato diversi modi con cui poter sviluppare, nei contesti organizzativi, la
forza di volontà e la flessibilità strategica dei dipendenti. L’intervento per lo sviluppo della determinazione può
operare su tre livelli:
1. Goal setting: l’assegnazione di obiettivi specifici;
2. Pianificazione, verifica mentale e scansione dei percorsi: lo sviluppo delle strategie e dei percorsi;
3. Lo sviluppo della volontà individuale: realizzabile attraverso iniziative partecipative, nelle quali i lavoratori
possano percepire la motivante sensazione di esercitare una forma di controllo sull’organizzazione, e
mostrando fiducia nei lavoratori stessi.
Ottimismo: l’interpretazione positiva del presente e del futuro
Anche l’ottimismo scaturisce dalla Psicologia positiva. Due concetti centrali di questa dimensione sono: i processi
interpretativi e le aspettative. Secondo Seligman, l’ottimismo consiste in uno stile di attribuzione positivo che
interpreta gli eventi positivi attribuendoli a cause interne, permanenti e pervasive, e che riconduce invece gli eventi
negativi a cause sempre esterne, transitorie e contingenti. Gli ottimisti quindi si attribuiscono il merito degli eventi
favorevoli sperimentati (cause interne), giudicano elevate probabilità che tali eventi si protraggano nel tempo (cause
permanenti) e che la natura positiva di questi eventi sia generalizzabile e in grado di coinvolgere positivamente altri
eventi o circostanze (cause pervasive). Gli eventi sfavorevoli, invece, li riconducono a fattori altri da sé come la
sfortuna o la mancanza di supporto (cause esterne), sono ritenuti passeggeri e occasionali (cause transitorie) e non
sono generalizzabili da altre circostanze (cause contingenti). Al contrario, i pessimisti attribuiscono gli eventi positivi
a cause esterne, transitorie e contingenti, mentre danno maggiore enfasi agli eventi negativi che vengono attribuiti a
cause interne, permanenti e pervasive.
Alcuni autori hanno definito l’ottimismo come un’aspettativa positiva orientata al futuro che può essere sviluppata.
Altri autori affermano che la caratteristica principale delle aspettative ottimistiche di esito sia la credenza che con il
dovuto sforzo si possano raggiungere i traguardi che ci si pone. Al contrario, tale credenza manca ed è assente negli
individui con aspettative negative, e ciò inibisce l’azione e la perseveranza.
Differentemente dall’efficacia e dalla determinazione le fonti delle aspettative positive dell’ottimista non si limitano
solo al sé, alle proprie capacità realizzative o generative di piani e percorsi ma si estendono anche ad altre persone,
situazioni e contesti che non sono ancora noti alla persona e rispetto ai quali quest’ultima non ha ancora avuto modo di
costruirsi delle convinzioni di efficacia né di definire obiettivi specifici.
È proprio l’ottimismo che consente di sviluppare una fiducia in una serie di fattori ai quali le convinzioni di efficacia e
la determinazione non possono arrivare interamente. In sintesi, l’ottimismo è un vero e proprio modo di percepire e
pensare sé stessi e le circostanze nelle quali si opera, e si riflette nella maggiore facilità allo sviluppo di una visione
positiva in merito agli eventi di vita. Vi sono alcune evidenze empiriche che ne attestano l’impatto sulla performance
lavorativa. Negli studi pioneristici di Seligman e Schulman, realizzati in una società di assicurazioni, gli autori
rilevarono che i venditori con elevati livelli di ottimismo riportavano un maggior numero di polizze assicurative
vendute. L’ottimismo nella prospettiva della Psicologia positiva è un costrutto di carattere dinamico e malleabile che
può essere sviluppato lavorando su tre piani temporali e adottando tre differenti strategie:
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∆ Il sollievo per il passato> attraverso il ripensamento e l’accettazione dei fallimenti del passato e lasciando
andare gli errori a cui non è più possibile trovare riparo;
∆ L’apprezzamento per il presente> ricercando motivi di gratitudine e contentezza per gli aspetti positivi della
propria vita attuale;
∆ La ricerca di opportunità per il futuro> lavorando sull’individuazione di opportunità di crescita e progresso
anche nel futuro e nell’incertezza che a esso si accompagna.
Nell’attuare queste strategie, l’obiettivo resta il perseguimento di una prospettiva realistica, che non comporti la
completa rimozione della propria responsabilità personale dal proprio stile attribuzionale, e che si configuri anche
come una prospettiva flessibile, consentendo l’utilizzo di differenti stili esplicativi della realtà. Un ottimismo
indiscriminato sarebbe eccessivo e rischierebbe di tradursi in un comportamento irresponsabile.
Resilienza: l’elasticità degli equilibri personali
La resilienza rappresenta la capacità di riprendersi dalle avversità, dall’incertezza, dai fallimenti o anche da alcuni
eventi positivi ma implicanti cambiamenti apparentemente troppo ardui da affrontare. Il termine resilienza deriva
infatti dalla fisica e indica la proprietà di alcuni materiali, quando posti sotto pressione, di modificare la loro forma
senza rompersi. Ciò conferma l’ipotesi che questa dimensione possa modificarsi tramite l’esperienza.
Appare inoltre molto chiaro come la resilienza rimandi all’uso delle strategie di coping efficaci, cioè azioni in grado di
porre rimedio, sul piano emotivo e sostanziale, alle difficoltà. La resilienza può essere considerata anche come un
processo dinamico che comporta un adattamento positivo a un contesto di significativa avversità o rischio.
Alcuni studi hanno fornito evidenze che dimostrano l’associazione fra resilienza ed elementi potenzialmente rilevanti
per la vita lavorativa e desiderabili per le organizzazioni, come flessibilità cognitiva nell’affrontare richieste mutevoli,
apertura a esperienze nuove, stabilità emotiva di fronte alle avversità ecc.
Persone con alti livelli di resilienza si sono effettivamente rilevate in grado di adattarsi meglio di fronte a esperienze
negative e cambiamenti dell’ambiente esterno, e sono inoltre risultate più inclini a sperimentare emozioni positive
anche in situazioni stressanti.
Masten, Luthans e Youssef propongono tre diversi modi per sviluppare il livello individuale di resilienza:
1. Le strategie focalizzate sul rischio> consistono nella riduzione di quei fattori esterni che potrebbero
aumentare le probabilità di esiti indesiderati, e prevedono la realizzazione di programmi di promozione del
benessere organizzativo e di prevenzione dallo stress oppure interventi di assistenza sanitaria.
2. Le strategie focalizzate sulle risorse> operano identificando e rinforzando gli elementi contestuali in grado di
rendere maggiormente probabili gli esiti desiderati, queste strategie rendono le persone meglio attrezzate per
far fronte a eventuali avversità.
3. Le strategie focalizzate sul processo> operano mobilitando il sistema di adattamento necessario per poter
effettivamente utilizzare le risorse individuali e contestuali per affrontare al meglio i fattori di rischio, ad
esempio mediante l’attivazione di dinamiche di apprendimento organizzativo e promuovendo delle aspettative
positive.
L’espressione integrata delle risorse psicologiche e il loro impatto congiunto sulla riuscita professionale
Queste risorse psicologiche si integrano e si intrecciano le une con le altre, e nella condizione ottimale, operano in
sinergia fra loro. Esiste una matrice psicologica comune che lega queste dimensioni: il capitale psicologico o PsyCap
(Psychological Capital) che tiene conto del loro operato sinergico e sta a indicare: “uno stato psicologico positivo di
sviluppo caratterizzato da avere la convinzione di riuscire a mettere in atto gli sforzi necessari per raggiungere
obiettivi sfidanti (efficacia personale), perseverare verso gli obiettivi e, laddove necessario, cambiare strategia per
raggiungerli (determinazione), fare attribuzioni positive sulla propria riuscita presente e futuro (ottimismo) e reagire
ai problemi e alle difficoltà che si presentano e superarle per ottenere il successo (resilienza).”
Il capitale psicologico è riconducibile/ deriva alle capacità agentiche (anticipazione, autoregolazione, autoriflessione e
apprendimento vicario). → Efficacia personale, determinazione, ottimismo e resilienza traggono benefici dalle
capacità agentiche.
Capitolo 7
I climi organizzativi
Il clima organizzativo è un costrutto complesso e di non semplice concettualizzazione. Occuparsi di clima
organizzativo significa attribuire centralità all’uomo e preoccuparsi del versante soggettivo, emotivo, psicologico delle
organizzazioni, nella convinzione che solo conoscendo a fondo i vissuti, gli atteggiamenti, le emozioni, le aspettative e
le difficoltà sarà possibile decidere, impostare e realizzare un’efficace politica di gestione e sviluppo delle risorse
umane. Le prime ricerche sui climi organizzativi si sono focalizzate sulla definizione e operazionalizzazione del
costrutto: considerato come misura multidimensionale (clima organizzativo), individuale (clima psicologico), riferito a
specifici domini (clima di sicurezza) e multilivello. Ricca è anche la letteratura che studia le relazioni del clima con
altri costrutti, antecedenti e conseguenti del clima, come leadership, soddisfazione, cultura ecc. focalizzandosi sulla
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comprensione dei processi e dei risultati. Alcuni costrutti vengono confusi come sinonimi del clima organizzativo
come, ad esempio, la soddisfazione nel lavoro. Un clima organizzativo, essendo una percezione del mondo esterno, è
diverso dal concetto più psicologico di soddisfazione sul lavoro, che è uno stato emotivo interno e individuale. → Il
clima è una descrizione percepita dall’ambiente di lavoro mentre la soddisfazione lavorativa rappresenta la risposta di
valutazione affettiva delle persone in relazione ad aspetti del loro lavoro.
Per misurare il clima vi sono numerosi strumenti presenti in letteratura e ciò non è altro che la dimostrazione di una
carenza di chiare conclusioni di ricerca. L’analisi del clima organizzativo rientra nell’ambito delle action strategies,
ossia quegli interventi organizzativi che hanno il duplice obiettivo di:
∆ Risultare utili al cliente, riesaminando le basi teoriche da cui originano;
∆ Essere partecipatori e condivisi.
Il costrutto di clima
Si ritiene importante precisare, definendoli con chiarezza, alcuni costrutti simili ma diversi che a volte vengono
confusi perché considerati sinonimi. Ci si riferisce al concetto di “clima organizzativo e psicologico”, al concetto di
“cultura organizzativa” e al concetto di “soddisfazione nel lavoro”.
Il punto di riferimento è costituito dal concetto, proposto da Kurt Lewin, di atmosfera sociale inserito nell’ambito
ricerca-azione. L’atmosfera psicologica è un sistema di percezioni e di attribuzioni di significato che i protagonisti di
un campo psicologico giudicano pertinente in uno spazio e in un tempo dato. In studi più recenti il concetto di clima è
una metafora per richiamare alla mente la somiglianza tra le condizioni psicosociali in contesti sociali e le condizioni
metereologiche nelle ragioni geografiche, ciò aiuta ad avere un’idea dell’aria che si respira all’interno di
un’organizzazione, quindi del suo clima.
Nel 1992 Moran e Volkwein distinguono quattro approcci: strutturale, percettivo, interattivo e culturale. Una recente
review sull’evoluzione dei costrutti del clima ha raggruppato gli studi sul clima in quattro principali periodi:
 Gli studi pre-1971> studi pioneristici sulla concettualizzazione e operazionalizzazione del costrutto riferito al
clima psicologico;
 Gli studi tra il 1971 e il 1985> in cui il costrutto si configura come dominio-specifico;
 Gli studi tra il 1986 e il 1999> in cui il costrutto è ancora dominio-specifico ma si focalizza sulla
comprensione dei processi e dei risultati;
 Gli studi tra il 2000 e il 2014> in cui il clima assume una connotazione multilivello.
L’approccio strutturale
I modelli che appartengono alla tipologia di approccio strutturale sono accumunati dal fatto di considerare il clima una
caratteristica dell’organizzazione che esiste indipendentemente dai membri e dalle loro percezioni. Il clima viene
considerato come un insieme di attributi organizzativi misurabili mediante criteri di tipo oggettivo (dimensione, tipo di
struttura, stile di leadership ecc). (Il clima) è una manifestazione oggettiva della struttura organizzativa che dà luogo a
percezioni comuni dei membri di una stessa organizzazione.
Forehand e von Haller Gilmer definiscono il clima organizzativo come un set di caratteristiche che descrivono
un’organizzazione e che:
∆ La distinguono dalle altre organizzazioni;
∆ Sono relativamente durature nel tempo;
∆ Influenzano il comportamento dei membri.
Si tratta quindi di stimoli generati dall’organizzazione che influenzano il comportamento individuale dei membri, tali
stimoli vengono influenzati poi dai valori, dalle capacità e dai tratti di personalità dei membri.
Le determinanti delle percezioni di clima sono:
 La dimensione dei gruppi;  Lo stile di leadership;
 La struttura dell’autorità e delle relazioni tra  La complessità sistemica;
persone e gruppi;  La direzione delle mete organizzative.
Litwin e Stringer con un famoso esperimento teso a indagare l’influenza dello stile di leadership sul comportamento di
gruppo e sulla personalità individuale, giunsero alla conclusione che i climi organizzativi variano in funzione dei
diversi stili di leadership esercitati e hanno effetti diversi sulle motivazioni dei membri, sulla performance e sulla
soddisfazione al lavoro. Secondo questi autori, il clima organizzativo è un insieme aggregato di aspettative e incentivi
ed è anche un costrutto molare (globale) che:
o Consente l’analisi delle determinanti dei comportamenti motivati in complesse ed effettivi situazioni sociali;
o Semplifica i problemi della misura delle determinanti situazionali legati alle percezioni e ai convincimenti
individuali;
o Consente la specifica definizione della situazione globale di influenza, sia dell’ambito esterno, sia dei vari tipi
di ambienti interni all’organizzazione;

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L’approccio percettivo
Con James e Jones questa tipologia di approccio colloca l’origine del clima all’interno dell’individuo. Gli individui
reagiscono e interpretano le variabili situazionali non solo sulla base delle caratteristiche oggettive della situazione o
degli attributi strutturali, ma anche sulla base degli aspetti che sono psicologicamente significativi per loro. Secondo
questo approccio, quindi, il soggetto percepisce e interpreta il contesto organizzativo e crea una sua rappresentazione
psicologica del clima.
La definizione di clima proposta da James e Jones si basa sulla differenza tra il clima organizzativo, inteso come
insieme di attributi organizzativi e dei loro effetti principali, e il clima psicologico, riferito ad attributi individuali
chiamati “processi psicologici intervenienti” attraverso i quali l’individuo trasforma l’interazione tra fattori
organizzativi e caratteristiche individuali in una serie di atteggiamenti, comportamenti. Il clima psicologico risulterà
essere la percezione del clima organizzativo.
Nel 1971 Payne e Pheysey elaborano una teoria basata sul processo causale/circolare del clima, considerato un
elemento che stimola e influenza il comportamento individuale e organizzativo, e che ne è a sua volta influenzato. Sia
il contesto organizzativo sia il clima possono influenzare la loro rispettiva struttura, ma il contesto e la struttura di un
sistema sociale sono più stabili delle persone che li compongono, per cui il contesto organizzativo rimane la chiave
per comprendere l’atteggiamento dei membri dell’organizzazione.
Schneider propose una sua definizione nel quale attribuisce al clima una chiara valenza percettivo-soggettiva e una
connotazione di molarità, di globalità e di totalità.
Joyce e Slocum ripropongono il dualismo tra clima psicologico e clima organizzativo attraverso il costrutto di “mappe
cognitive” spiegano come il mondo soggettivo di un individuo sia una realtà a sé stante, presente nella situazione, che
la influenza e ne è influenzato in un processo di scambio. Con clima psicologico si riferiscono alle descrizioni
individuali di pratiche e procedure organizzative, mentre con clima organizzativo si riferiscono a una descrizione
collettiva di questo ambiente, spesso misurata attraverso la media delle percezioni dei membri dell’organizzazione.
Il limite di questi approcci sta nella loro parzialità, in quanto collocano le origini del clima all’interno dell’individuo
ma non considerano le percezioni che si creano tra i membri dell’organizzazione, né tra i membri e l’ambiente.
L’approccio interattivo
L’approccio interattivo può essere considerato una sintesi dei due approcci precedenti. Il suo assunto di base è che gli
individui interagiscono gli uni con gli altri dando origine a percezioni condivise che diventano l’origine del clima.
Due sono le più famose scuole di pensiero:
1. La fenomenologia di Edmund Husserl> Husserl parla dell’intersoggettività come un processo fondamentale
grazie al quale si costituisce un collegamento sovraindividuale fra le prospettive, le interpretazioni, i valori e
le credenze. Alla base di questa intersoggettività vi è la consapevolezza che gli altri hanno di esperienze simili
alle proprie e si costruisce il proprio self usando gli altri come modelli. Gli individui creano una mappa
cognitiva con la quale possono identificare ciò che vendono e sentono, e attribuire a tutto questo dei
significati. Risulta così un modo comune di percepire e interpretare ciò che succede nell’organizzazione. Il
clima è determinato da percezioni comuni che si evolvono nel corso del tempo e degli eventi.
2. L’interazionismo simbolico di George Herbert Mead> che considera la realtà come una costruzione sociale in
cui gli esseri umani sono attori che utilizzano dei simboli, attraverso i quali comunicano, acquisiscono
gradualmente una propria identità e partecipano a una realtà costruita socialmente. Schneider e Reichers si
ispirano a questo approccio sostenendo che l’individuo e l’ambiente si determinano l’un l’altro e che il
significato delle cose nasce dall'interazione tra le persone. Inoltre, a questo approccio si deve anche il
contributo di Poole e McPhee che propongono una teoria chiamata “strutturazionale” e sostengono che il
clima non sia rintracciabile nelle percezioni personali degli individui ma nelle loro interazioni. Il clima
consente di interpretare e comprendere specifici eventi organizzativi perché è un tramite, nel senso che genera
delle strutture là dove non esistono ed è anche un risultato delle pratiche quotidiane presenti nelle
organizzazioni. Il clima è quindi un atteggiamento collettivo prodotto continuamente con le interazioni fra i
membri. Quello che la prospettiva interattiva non spiega è come l’ambiente influenzi l’interazione tra i
membri.
L’approccio culturale
L’approccio culturale, come quello interattivo, pone al centro dell’attenzione l’interazione tra i membri
dell’organizzazione ma in più evidenzia il ruolo fondamentale che svolge la cultura nella formazione dei processi che
producono il clima. Ci si sposta da un piano “psico” a un piano prevalentemente “socio” e ci si focalizza sul modo
attraverso il quale i gruppi interpretano, costruiscono la realtà, attraverso la creazione di una cultura organizzativa. La
cultura è un insieme di significati condivisi dai membri del gruppo. Nella prospettiva comportamentista la cultura è un
insieme di risposte che il gruppo ha appreso per garantire la propria sopravvivenza nell’ambiente esterno e superare i
problemi di integrazione al suo interno. L’approccio cognitivista ritiene che le culture organizzative si formino con il
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contributo di tutti i membri dell’organizzazione e siano costituite da un insieme di soluzioni ai problemi che
permettono alle persone di interagire con l’ambiente senza particolari sforzi.
La cultura è alla base delle relazioni sociali e serve agli individui per interpretare le loro esperienze e guidare i loro
comportamenti. Schneider è giunto alla conclusione che questi due concetti sono complessi, multidimensionali e
strettamente collegati tra loro. Gli aspetti che li mettono in relazione vengono identificati così:
 Il clima e la cultura si occupano del modo con cui i membri dell’organizzazione danno un senso al loro
ambiente, generando un sistema di significati condivisi;
 Il clima e la cultura sono appresi attraverso un processo di socializzazione e di interazione simbolica tra i
membri del gruppo;
 il clima e la cultura sono tentativi di identificare l’ambiente;
 la cultura ha un alto livello di astrazione e il clima è la sua manifestazione.
È bene prendere in considerazione le differenze e le loro connessioni: la prima differenza è che il clima ha una natura
mutevole, mentre la cultura ha una natura decisamente più stabile; la seconda differenza è che il clima agisce a livello
di atteggiamenti e valori, mentre la cultura opera anche ai livelli superiori (ideologico e filosofico). Inoltre, il clima si
esprime nei gesti, nelle espressioni quotidiane mentre la cultura è quel qualcosa che viene percepito nell’aria, un
insieme di assunti non detti ma presenti, impliciti nell’organizzazione.
Sviluppi recenti
Si rafforza l’idea di un clima collettivo che propone il concetto di “aggregazione climatica” intesa come
l’aggregazione delle percezioni in unità più complesse che si riferiscono sia a differenti gruppi sia alle differenti aree
che costituiscono la geografia dell’organizzazione. I climi collettivi sono percezioni di procedure e norme
organizzative che vengono diffuse attraverso le reti relazionali e influenzano il comportamento organizzativo.
L’interesse sembra essersi spostato sulla ricerca delle relazioni tra il clima e altre variabili organizzative significative.
Una delle più indagate è quella della soddisfazione lavorativa: !! il clima è una descrizione percepita dell’ambiente di
lavoro, mentre la soddisfazione lavorativa rappresenta la risposta di valutazione affettiva delle persone in relazione ad
aspetti del loro lavoro. Il clima è una percezione del mondo esterno, la soddisfazione lavorativa è uno stato emotivo
interno e individuale. Si tratta di un rapporto correlazionale e non di causa-effetto, poiché vivere in un ambiente che
presenta un buon clima è fonte di benessere e soddisfazione ma anche essere soddisfatti del lavoro permette di avere
un atteggiamento positivo verso l’organizzazione di appartenenza. !!
Ricerche-intervento e politiche gestionali
L’analisi del clima rientra nell’ambito delle action strategies che presentano le seguenti caratteristiche essenziali:
∆ ogni intervento deve risultare utile al cliente, riesaminando le basi teoriche;
∆ sono partecipatorie e condivise.
L’action research è un processo di ricerca all’interno del quale si ha equivalenza tra soggetto e oggetto di indagine e
l’obiettivo è pervenire a un cambiamento attraverso il processo medesimo. In quest’ottica la diagnosi del clima
costruisce un positivo punto di innesco per il cambiamento. Attraverso l’action research potranno essere chiariti,
puntualizzati, verificati e quantificati gli elementi chiave dell’organizzazione. Il principio fondamentale dell’action
research è la partecipazione democratica, il ciclo continuo di analisi della situazione e riconcettualizzazione della
stessa, attraverso due idee guida: il miglioramento e il coinvolgimento. L’analisi del clima costituisce per i membri
dell’organizzazione un segnale di grande importanza, ovvero il segnale che vi è una reale volontà politica di prestare
la dovuta attenzione e di dare importanza a tutti i componenti dell’organizzazione, ma solo se fatti e politiche concrete
di gestione seguiranno al primo momento di attenzione e di ascolto si potrà innescare un circolo vizioso nei rapporti
tra dipendenti e organizzazione di appartenenza e determinare la necessità di negoziare le aspettative dei membri.
Estremamente delicato è il ruolo del consulente di processo che in primo luogo dovrà proporsi come facilitatore,
ovvero fungere da catalizzatore e favorire la sistematizzazione e l’emergere organico dei vissuti e delle variabili che li
determinano. Inoltre, l’esperto dovrà:
 possedere conoscenze teoriche e abilità operative nell’utilizzo di strumenti psicodiagnostici di scientificità
provata e nel gestire e interpretare le informazioni raccolte;
 competente di dinamiche organizzative;
 garantire il “rispetto delle regole del gioco”, cioè dell’anonimato, della trasparenza, del coinvolgimento, del
ritorno delle informazioni e dell’utilizzo dei risultati ai fini del miglioramento della qualità della vita
lavorativa delle risorse umane.
 rispettare le leggi e i regolamenti di lavoro;
 rispettare il codice deontologico e professionale dello psicologo;
Strumenti per la valutazione del clima
Per quanto riguarda gli strumenti per la misura del clima, la letteratura ne presenta due tipologie:

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 tailor-made: si fa riferimento a strumenti costruiti su misura per la realtà organizzativa specifica, che è unica e
irripetibile. Solo all’interno di questi contesti specifici trovano il loro modo di essere. Il pregio è che risulta
uno strumento estremamente calzante, il limite è che consente solo analisi intraorganizzative e non possiede
un sufficiente livello di qualità metriche scientificamente validate;
 ready-made: forniscono informazioni utili e scientificamente garantite per capire la reale situazione climatica
di un’organizzazione e consentono di effettuare analisi interorganizzative facendo riferimento a parametri,
condizioni e statistiche nazionali.
Molti sono gli strumenti tailor-made non validati e deboli dal punto di vista psicometrico.
Gli strumenti più utilizzati sono:
 LSOCQ (Litwin e Stringer): lo strumento si compone di 50 item che esprimono nove dimensioni del clima,
misurati su scala Likert a 4 passi. Le nove dimensioni sono → 1. Struttura; 2. Responsabilità; 3. Premi;
4. Rischio; 5. Supporto; 6. Calore; 7. Standard; 8. Identità; 9. Conflitto.
 Work Environment Scale (WES; Moos, Insel e Humphrey): è composta da 90 affermazioni vero/falso riferite a
dieci subscale (coinvolgimento, coesione tra colleghi, supporto dei superiori, autonomia, orientamento al
compito, pressione sul lavoro, chiarezza, controllo, innovazione, comfort fisico) raggruppabili in tre aree:
relazioni, crescita personale e cambiamento organizzativo. Inoltre, può essere somministrata in tre forme: la
forma R o reale, misura la percezione da parte del lavoratore dell’ambiente di lavoro; la forma I o ideale,
misura gli obiettivi lavorativi ideali e i valori che il lavoratore possiede; e la forma E o expected, misura le
aspettative del lavoratore rispetto all’ambiente di lavoro.
 Organizational Climate Measure (OCM; Patterson): è una misura multidimensionale di clima organizzativo e
si basa sul Modello dei valori competitivi, consta di 17 dimensioni generate dalla combinazione dei quattro
orientamenti flessibilità-controllo-interno-esterno, che danno luogo a loro volta ai quattro principali modelli di
gestione dell’organizzazione: human relations model; internal process model; open system model; rational
goal model. Lo strumento è composto da 95 item misurati su scala Likert a 4 passi, gli autori consigliano di
utilizzare le scale separatamente.
Le 17 dimensioni sono: 1. Benessere; 2. Autonomia; 3. Partecipazione e comunicazione; 4. Formazione;
5. Integrazione; 6. Supporto da parte dei superiori; 7. Formalizzazione; 8. Tradizione; 9. Flessibilità e
innovazione; 10. Focus verso l’esterno; 11. Riflessività; 12. Chiarezza degli obiettivi; 13. Sforzi; 14.
Efficienza, 15. Qualità, 16. Pressione a produrre; 17. Performance feedback.
 Majer D’Amato Organizational Questionnaire (M-DOQ 10; D’Amato, Majer): è uno strumento attendibile e
ampiamente validato nelle sue componenti, è di semplice utilizzo sia per la somministrazione sia per lo
scoring. Indaga dieci dimensioni: 1. Comunicazione; 2. Autonomia; 3. Team; 4. Coerenza; 5. Job description;
6. Job involvement; 8. Leadership; 9. Innovatività; 10. Dinamismo/sviluppo.
Le fasi dell’analisi del clima
Per diagnosticare il clima organizzativo occorre fare chiarezza sulle ragioni reali che spingono qualcuno a fare
qualcosa in un determinato momento e occorre definire degli obiettivi realistici, commisurati (proporzionati) alla
realtà organizzativa, agli strumenti e alle risorse disponibili. Prima di iniziare il processo diagnostico bisogna avere la
consapevolezza degli effetti che possono derivare dalla realizzazione di ciascuna fase del processo. Occorre valutare il
rapporto rischi/benefici che risulterà tanto più favorevole se l’intervento sarà progettato ed eseguito correttamente.
Tra i principali aspetti positivi, l’analisi del clima:
 Fornisce informazioni precise sulla realtà organizzativa per poter impostare piani e programmi mirati;
 Stimola i singoli a fare chiarezza circa le loro percezioni individuali;
 Aiuta a razionalizzare i problemi;
 Attiva aspettative e stimola energie;
 Prepara ad affrontare al meglio i cambiamenti;
 Può costruire un elemento di soddisfazione con conseguente aumento di attivazione complessiva da parte dei
dipendenti.
Per quanto riguarda i possibili rischi, l’analisi del clima può:
 Contribuire a scatenare tensioni sopite o comunque latenti;
 Creare resistenze da parte di chi non ha voluto la ricerca;
 Creare frustrazione e sfiducia verso l’organizzazione.
La tempistica
Nella maggior parte dei casi le analisi vengono effettuate in alcuni momenti topici del processo:
o Nelle fasi di stabilità e in assenza di preoccupazioni contingenti;
o Quando l’azienda attraversa un periodo di crisi e di particolare tensione/difficoltà;

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La scelta di quale sia il momento più opportuno spetta al management. Ma si potrebbe sostenere che il momento
ottimale sia o quello in cui l’organizzazione sta funzionando “regolarmente”, oppure il momento nel quale vi sono
tensioni/conflitti/difficoltà.
La procedura
Occorre prestare attenzione a come si rendono operative le azioni che danno corpo alla ricerca-intervento. Volendo
estremizzare l’importanza della procedura, si potrebbe sostenere che la maggiore criticità dell’analisi del clima risieda
nella corretta implementazione e gestione del processo.
Gli step operativi
Step I> Individuazione del gruppo di lavoro: è necessario costruire un gruppo di lavoro misto che comprenderà sia
ricercatori e sia professionisti, ovvero coloro che hanno la competenza della gestione dei processi nell'analisi del clima
e alcuni membri dell'organizzazione. È fondamentale che il gruppo di lavoro rimanga costante per tutto il tempo
necessario alla realizzazione complessiva del progetto e che ognuno abbia ben chiaro quale sia il ruolo proprio di
ciascuno degli altri membri.
Step II> Definizione degli obiettivi generali: dopo la prima fase saranno condivisi gli obiettivi che il progetto si
propone di raggiungere. Risulta di grande utilità far seguire a ogni incontro la predisposizione di uno scritto
riassuntivo contenente principali punti discussi e le decisioni prese.
Step III> Analisi preliminare del contesto organizzativo: si avvia la prima analisi esplorativa della realtà
organizzativa per cogliere gli aspetti che non è possibile conoscere tramite la descrizione effettuata da parte dei
responsabili aziendali. Gli strumenti principali utilizzati in questa fase sono: l'osservazione delle prassi organizzative e
i colloqui con le persone che vi operano, ma si possono anche avviare programmi di interviste individuali
semistrutturate con alcuni testimoni privilegiati selezionati casualmente all'interno di tipologie di dipendenti.
Step IV> La definizione degli obiettivi specifici: il team definirà nel dettaglio, alla luce delle informazioni raccolte, gli
obiettivi che realisticamente potranno essere conseguiti.
Step V> Scelta della popolazione: e doveroso definire la popolazione che sarà direttamente coinvolta nel processo di
raccolta delle informazioni. Talvolta vi sarà la necessità di fare riferimento solo ad alcuni gruppi individuali mentre in
altre situazioni sarà opportuno coinvolgere tutta la popolazione (tutte le risorse umane presenti nell'organizzazione).
Step VI> Messa a punto della metodologia e scelta degli strumenti di rilevazione: si possono individuare due distinti
approcci che possono essere praticati nell'analisi del clima organizzativo: l'approccio quantitativo e l'approccio
qualitativo, il primo ha un carattere descrittivo e si riferisce all'utilizzo di questionari strutturati, inoltre consente la
raccolta di informazioni direttamente da parte dei soggetti; mentre il secondo ha forti potenzialità esplicative e
consente di prendere in carico gli aspetti soggettivi che emergono spontaneamente dall'incontro e dallo scambio tra
ricercatori e intervistati. Si ritiene maggiormente utile adottare un approccio ibrido, ossia costruire procedure
personalizzate in cui trovano spazio strumenti costruiti ad hoc che siano su misura per quella specifica organizzazione
(tailor) e strumenti standardizzati che garantiscono la scientificità del dato (ready).
Step VII> Verifica della funzionalità della procedura e delle tecniche: sarà effettuata su un gruppo campione estratto
dall'organizzazione. Si tratta di una simulazione molto precisa della procedura alla fine della quale i partecipanti
saranno sollecitati a formulare riflessioni e commenti in merito alla comprensione delle domande. Inoltre, consentirà
di verificare sul campo i tempi e le modalità di somministrazione.
Step VIII> Raccolta estensiva dei dati: la popolazione o il campione sarà convocata secondo le modalità ritenute più
opportune dal team, in questa fase i dipendenti parteciperanno attivamente, forniranno informazioni e interagiranno
con il gruppo di ricerca.
Step IX> Elaborazioni statistiche: in questa fase i dati di tipo quantitativo raccolti verranno sottoposti a elaborazione
statistiche atte a evidenziare la rilevanza delle variabili indipendenti individuate a priori dal gruppo di ricerca.
Successivamente si procederà confrontando i risultati dell'organizzazione con i dati a livello nazionale individuando i
punti di forza e le aree di criticità presenti nell'organizzazione.
Step X> Prima lettura dei dati e stesura del report provvisorio: in questa fase vengono avanzate le iniziali ipotesi
interpretative dei dati emersi utilizzando tutte le informazioni disponibili. Il gruppo di ricerca provvederà alla stesura
di un report dettagliato che conterrà le ipotesi.
Step XI> Incontro con i responsabili e committenti: il feedback dei dati salienti emersi dovrà essere condiviso con
tutti i membri dell'organizzazione seppur con diverse modalità. Nella maggior parte delle situazioni si preferisce che il
gruppo dei dirigenti e quello dei rappresentanti sindacali sia nei primi a essere informati.
Step XII> Ritorno delle informazioni ai partecipanti: La restituzione dei risultati della ricerca- intervento sul clima a
tutti i partecipanti costituisce un momento particolarmente importante e tende a conseguire un duplice obiettivo: da un
lato, i dipendenti hanno il diritto e l'esigenza di conoscere la situazione globale presente all'interno della loro
organizzazione per meglio comprendere la realtà nella quale si trovano quotidianamente; dall'altro, e proprio nel

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momento della discussione dei risultati dell'indagine che si possono prefigurare nuove modalità di lettura delle
informazioni.
Step XIII> Stesura del report finale: la stesura del report finale terrà conto di tutte le informazioni raccolte nel corso
della diagnosi del clima e di quanto emerso dalle riunioni con i diversi gruppi aziendali al momento del feedback.
Verranno inoltre effettuate proposte atte a promuovere il cambiamento auspicato e a migliorare con ciò la qualità della
vita di lavoro dei dipendenti tutti.
Step XIV> L’osservatorio permanente: L'implementazione di un osservatorio permanente consentirà alle
organizzazioni di disporre di dati certi e aggiornati che consentiranno prese di decisioni ottimali di politica gestionale
e organizzativa.
Capitolo 8
Gruppi di lavoro
Oggi sebbene persista l'immagine dell'imprenditoria vista come affermazione di un individuo la realtà è molto diversa:
gran parte delle imprese non nasce con una funzione imprenditoriale concentrata in un'unica persona, ma grazie a un
team. Il successo dell'impresa dipende anche dalla competenza a lavorare insieme che le persone che compongono il
gruppo possiedono. Allo stesso modo, i malfunzionamenti dei team sono una delle cause principali di crisi e
fallimento di una nuova iniziativa imprenditoriale.
Definizione di gruppo e lavoro di gruppo
Il gruppo è qualcosa di più è qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: a una struttura propria, fini peculiari e
relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l'essenza è l'interdipendenza tra i suoi membri. A partire
da questa definizione di Kurt Lewin, Quaglino, Casagrande e Castellano propongono una concettualizzazione di
gruppo di lavoro e lavoro di gruppo. Mentre un gruppo è un insieme numericamente ridotto di persone, in interazione
tra di loro, il gruppo di lavoro è una pluralità in integrazione. Nel passaggio tra interazione e integrazione e il
raggiungimento dell'interdipendenza a trasformare un gruppo in gruppo di lavoro, cioè l'acquisizione di
consapevolezza da parte dei membri rispetto a quanto dipendono gli uni dagli altri e si trovano in uno stato di
necessità reciproca. Ciò che caratterizza un gruppo di lavoro è la presenza di collaborazione, resa possibile da tre
elementi:
 La relazione di fiducia tra i membri;
 la negoziazione continua, che tiene insieme le differenze e i diversi punti di vista al fine di elaborarne uno
unico;
 la condivisione delle decisioni prese e la loro concretizzazione in azioni volta al raggiungimento di risultati.
Katzenbach e Smith enfatizzano l'elemento di impegno comune come tratto distintivo dei gruppi di lavoro. Particolare
gli autori individuano i seguenti passaggi come necessari a un gruppo per diventare un gruppo di lavoro:
∆ la leadership diventa attività condivisa;
∆ la responsabilità diventa sia individuale sia collettiva;
∆ il gruppo sviluppa un proprio scopo o una missione;
∆ il problem solving diventa un'attività full time;
∆ l'efficacia viene misurata dai risultati collettivi del gruppo.
Inoltre, il gruppo di lavoro è caratterizzato da due fondamentali e interconnesse dimensioni:
 La dimensione del fare insieme, legata all'operatività dinamica, all'agire con gli altri mettendo in campo piani
di azione e svolgendo compiti in funzione del raggiungimento degli obiettivi attesi e condivisi.
 La dimensione dello stare insieme, caratterizzata dalle relazioni tra i membri e dalle emozioni e dinamiche
psicologiche che ne derivano. Questa dimensione è conseguenza della necessità umana di associarsi in
gruppo per soddisfare bisogni che possono essere soddisfatti solo all'interno di relazioni con altri individui.
Tipi di gruppi di lavoro in organizzazione
Vi sono differenti tipologie per classificare i gruppi di lavoro presenti nelle organizzazioni, ad esempio quella di
Sundstrom e colleghi include sei differenti tipi di gruppo:
o I gruppi action and performing affrontano le emergenze e le crisi (la squadra di pronto intervento dei vigili del
fuoco);
o I gruppi advisory offrono consulenza (i gruppi di controllo della qualità che offrono suggerimenti per
migliorare un prodotto o un servizio);
o I gruppi management hanno compiti di gestione (il consiglio di amministrazione di una società);
o I gruppi production si occupano della realizzazione di un prodotto/servizio (la squadra di operai addetta a una
linea all’interno di uno stabilimento manifatturiero);
o I gruppi project sviluppano idee e sono spesso interfunzionali (un gruppo di esperti di produzione);

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o I gruppi service offrono assistenza e hanno l’obiettivo di garantire risultati di alta qualità in situazioni
prevedibili e ripetute (gli assistenti di volo a bordo di un velivolo)
Truxillo, Bauer e Erdogan evidenziano inoltre come nelle organizzazioni sia possibile distinguere tra gruppi formali e
informali. I primi hanno obiettivi, compiti, ruoli definiti in maniera precisa, dispongono di risorse e hanno una
leadership istituzionale. I secondi si formano in maniera spontanea e gli obiettivi, i compiti, i ruoli avvengono
dall’interno. Infine, le task forces sono gruppi creati ad hoc in riferimento a uno specifico obiettivo, che smetteranno
di esistere quando l’obiettivo sarà stato raggiunto.
Il gruppo di lavoro nella teoria psicologica
Sono stati individuati alcuni fattori essenziali per l’analisi di un gruppo di lavoro. Tra i modelli proposti vi è quello di
Quaglino e colleghi che prevede lo studio di sette fattori principali di analisi di un gruppo di lavoro:
1. Obiettivo: si tratta di una variabile fondamentale in quanto dà senso all’esistenza stessa del gruppo di lavoro.
Per obiettivo si intende l’espressione del risultato atteso dal gruppo di lavoro e dall’organizzazione. È
necessario che l’obiettivo sia chiaro e ampiamente condiviso da tutti. L’obiettivo che un gruppo di lavoro si dà
dovrebbe essere SMART, acronimo che sta per:
o Specifico> l’obiettivo deve essere definito in maniera specifica e non vaga, e se possibile va
quantificato;
o Misurabile> è importante definire a priori in che modo potrà essere misurato e valutato il
raggiungimento dell’obiettivo, attraverso specifici criteri e strumenti di misurazione;
o Attuabile> l’obiettivo deve essere realistico e raggiungibile in base alle capacità e risorse del
gruppo di lavoro;
o Orientato al risultato> la descrizione dell’obiettivo dovrebbe rendere chiaro in che modo
l’obiettivo del gruppo contribuisce al raggiungimento del risultato finale;
o Legato al tempo> è fondamentale determinare i tempi dell’obiettivo.
2. Metodo: può essere definito come il modo di funzionamento del gruppo di lavoro, cioè è una specificazione
delle norme operative che governano l’agire del gruppo. Le principali attività per le quali è fondamentale che
il gruppo di lavoro definisca un metodo sono:
o Analisi delle risorse e dei vincoli: è importante che il gruppo conosca bene ciò di cui dispone
in termini di ciò che può utilizzare per lo svolgimento del compito, e ciò che invece limita e
condiziona il gruppo;
o Discussione: la sopravvivenza del gruppo e il procedere del suo lavoro si basano sul dialogo e
confronto tra i membri, tale discussione deve avere un metodo preciso affinché sia utile;
o Decisione: ai gruppi di lavoro è richiesto di prendere delle decisioni e ci vuole un metodo per
fare ciò;
o Pianificazione del tempo: il gruppo deve predisporre di un’agenda di lavoro, cioè deve
definire le azioni da mettere in campo e i tempi previsti per ognuna di esse poiché il tempo è
l’unica risorsa che non si può recuperare;
o Problem solving: ciascun membro porta nel gruppo diverse modalità di ragionamento (quindi
di problem solving), darsi un metodo serve a creare un modo di pensare che tiene insieme
queste differenze per arrivare a una risoluzione/soluzione comune.
3. Ruoli: possono essere definiti come l’insieme di comportamenti che ci si aspetta da parte di chi occupa una
determinata posizione. I membri portano nel gruppo infatti differenze di competenze, esperienze e approcci. Il
sistema di ruoli si basa sulla valorizzazione di queste differenze al fine di generare innovazione e creatività.
L’assegnazione dei ruoli deve essere quindi fatta tenendo conto della coerenza con gli obiettivi e con i
compiti. Alcune aree di un gruppo di lavoro richiedono di essere tutelate/garantite attraverso ruoli precisi:
o Area del risultato> generalmente tutelata dal ruolo del conservatore, colui che costruisce la
memoria del gruppo e lo aiuta a procedere senza tornare al punto di partenza, e dal ruolo del
realizzatore, colui che spinge alla concretezza mantenendo il gruppo focalizzato sui tempi e
sull’obiettivo;
o Area del lavoro> tutelata dal ruolo del metodologo, colui che in maniera logica orienta il
problem solving e l’organizzazione del lavoro, e dal ruolo del negoziatore, colui che è capace
di aumentare il livello di partecipazione e condivisione;
o Area delle relazioni> tutelata dal ruolo del comunicatore, colui che facilita la comunicazione,
ascolta tutti e verifica che ciascuno possa esprimersi, e dal ruolo del facilitatore, colui che
coinvolge i membri meno partecipativi, attento alle esigenze di tutti;

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o Area delle qualità> tutelata dal ruolo del creativo, colui che ribalta i soliti schemi di
ragionamento e propone nuovi punti di vista, e dal ruolo dell’innovatore, colui che spinge per
cambiare modo e strumenti di lavoro, per cercare nuove soluzioni a vecchi problemi.
4. Comunicazione: rappresenta una condizione fondamentale per il funzionamento del gruppo, in particolare può
essere definita come un processo interattivo, informativo e trasformativo grazie al quale si realizzano il
dialogo e la struttura di relazioni tra le persone. Una comunicazione efficace in un gruppo di lavoro dovrebbe
presentare queste caratteristiche: finalizzata agli obiettivi, orientata alla raccolta di informazioni e dati,
trasparente, coerente con la fase specifica di lavoro in cui il gruppo si trova. Le componenti principali del
processo di comunicazione sono:
o Confronto e scambio> in cui i membri condividono le informazioni possedute, integrano le
differenze e valorizzano tutti i punti di vista;
o Ascolto
o Esposizione> orientata a trasmettere elementi significativi generando interesse, curiosità e
coinvolgimento;
o Feedback> si traduce nel dare o richiedere informazioni di ritorno per verificare la
comprensione dei contenuti comunicati.
5. Clima: (si intende quell’insieme di elementi, sentimenti, percezioni dei membri che descrivono l’atmosfera
che si respira nel gruppo). Alcuni indicatori in grado di esprimere il clima di un gruppo di lavoro sono:
o Sostegno> descrive la fiducia di poter ricevere aiuto concreto, in caso di bisogno, dagli altri
membri e dal leader;
o Calore> riferito alla qualità delle relazioni e al grado di vicinanza tra i membri;
o Riconoscimento dei ruoli> relativo al livello di riconoscimento e accettazione delle differenze
individuali;
o Apertura e feedback> si riferiscono alla possibilità di esprimere nel gruppo le proprie idee, di
accettare il disaccordo come opportunità e non come minaccia.
6. Sviluppo: quando un gruppo si costituisce esistono solo i sistemi di competenza dei singoli membri che
vengono utilizzati dal gruppo. Nel momento in cui si evolve in gruppo di lavoro si avvia un processo
autonomo del gruppo. Tale sistema di competenze comprende:
o Le conoscenze del gruppo> rappresentano il sapere che il gruppo possiede o deve acquisire
per lavorare efficacemente;
o Le capacità> strategica (permette al gruppo di svilupparsi come sistema), innovativa
(permette al gruppo di progredire e arricchire il sistema), informativa (sostiene gli scambi
all’interno del gruppo e all’esterno), operativa (governa l’esecutività).
o Le qualità> di sistema (attitudini che permettono al gruppo di vivere e svilupparsi come unità
differenziata) relazionali interne ed esterne (comprendono le modalità di relazione tra i
membri e con l’ambiente esterno), di azione (si riferiscono alle modalità di lavoro).
7. Leadership: obiettivo, metodo e ruoli possono essere considerate variabili strutturali mentre clima,
comunicazione e sviluppo possono essere considerate variabili di processo. La leadership rappresenta la
variabile di snodo tra le due in quanto capace di supportare aspetti sia strutturali sia processuali nel gruppo di
lavoro. Inoltre, ha la funzione di garantire sopravvivenza e crescita del gruppo stesso. Tali funzioni vengono
svolte da diversi membri del gruppo e questi prendono il nome di leader funzionali, che si distinguono dal
leader istituzionale che è in genere uno solo. Nei gruppi di lavoro ritroviamo principalmente la leadership di
servizio, che permette di considerare il leader e il gruppo come indistinguibili all’interno del processo
relazionale e delle scelte operative. Il leader di servizio, infatti, lavora con il gruppo (e non per...), non si
sostituisce ad esso, stimola il coinvolgimento e le capacità di tutti e ha la funzione di facilitare il lavoro più
che di fornire risposte.
Il ciclo di vita di un gruppo
Qualunque tipo di gruppo passa attraverso un ciclo di vita che si articola in specifiche fasi. Uno dei modelli che
raccoglie il maggior consenso è quello di Tuckman.
La prima fase è definita forming, è il momento in cui il gruppo si forma e i membri si incontrano per la prima volta, le
interazioni tra le persone sono in genere di tipo superficiale, finalizzate allo scambio di informazioni e alla conoscenza
reciproca. La fiducia è bassa, i membri si mostrano spesso ansiosi rispetto a quello che sarà il proprio ruolo.
La seconda fase è quella di storming, durante la quale emergono le differenze personali e i membri del gruppo si
confrontano e si scontrano nel tentativo di comprendere qual è il loro ruolo e come ciascuno si inserisce nella struttura
di potere. Fase definita “periodo di prova”, in cui i componenti si studiano a vicenda per vedere chi emerge come più

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potente. In questa fase potrebbero formarsi sottogruppi, forme di ribellione, conflitti, dinamiche di potere, scontri
aperti. Molti gruppi si fermano a questa fase infatti.
La terza fase è quella definita norming, i membri sono pronti a definire i ruoli più adatti a ciascuno, le relative finalità
e aspettative e a cominciare a sviluppare le norme sulle quali si basa il modo di agire del gruppo. Le persone sono
maggiormente disposte a esprimere le loro opinioni e comincia a costituirsi la fiducia reciproca.
La quarta fase di performing è quella in cui i gruppi passano la maggior parte della loro vita. È il momento in cui i
partecipanti portano avanti i compiti e le richieste che determinano l’esistenza del gruppo stesso. È caratterizzata da
cooperazione e supporto reciproco, le divergenze vengono valorizzate, affrontate e risolte costruttivamente.
L’ultima fase è quella definita adjourning, dove il lavoro è concluso, il gruppo si scioglie e i suoi membri si spostano
verso nuovi compiti e incarichi. Per quanto possa essere un momento difficile di separazione, rappresenta
un’opportunità per le persone per riflettere su cosa è andato bene e su cosa potrà essere fatto diversamente in futuro.
Evoluzioni recenti del modello hanno evidenziato come spesso, giunti alla fase di performing, i gruppi possano entrare
in uno stato di decadenza che può assumere le seguenti forme:
 De-norming: gli standard di comportamento vengono meno con il procedere del progetto;
 De-storming: i disaccordi, i conflitti non emergono spontaneamente ma compaiono lentamente portando con
sé resistenze individuali;
 De-forming: il gruppo di lavoro si disgrega, i sottogruppi si scontrano per assumere il controllo.
Le dinamiche di gruppo
Dinamiche di gruppo è una parola chiave che ha assunto molteplici significati. Una dinamica di gruppo che
frequentemente si riscontra nei gruppi di lavoro in organizzazione è la diffusione della responsabilità. L’origine delle
dinamiche di gruppo va rintracciata nella fatica psicologica.
 Vi è la fatica legata al fare> prendere decisioni, risolvere problemi;
 Vi è la fatica legata alla relazione con gli altri> comunicare, ascoltare, esprimere le proprie idee, sentirsi
osservati, valutati, rimproverati, incolpati ecc.
L’esigenza di limitare il malessere prodotto da queste fatiche può generare dei “modi semplificati” di funzionamento
del gruppo, che possiamo definire dinamiche di gruppo. Inoltre, possiamo definire le dinamiche di gruppo come
risposte involontarie alla presenza del malessere derivante dal fatto di lavorare con gli altri.
La diffusione della responsabilità
Le situazioni di gruppo possono inibire la motivazione a rendersi attivi, infatti, quando si passa da una prestazione
individuale a una prestazione di gruppo l’individuo avverte una minore responsabilità personale rispetto al
raggiungimento dell’obiettivo, questa è la diffusione della responsabilità.
Questo fenomeno include un differente processo psicologico:
 La pigrizia sociale (social loafing): quando ogni componente del gruppo pensa che ciascun altro si impegnerà
meno di quanto potrebbe, anch’egli sarà quindi propenso a limitare il proprio impegno fin dall’inizio;
 Il parassitismo (sucker effect): quando un membro approfitta intenzionalmente del lavoro altrui e non
contribuisce;
 La corsa libera (free riding): quando il soggetto sceglie di disimpegnarsi e di uscire dal gruppo. Tale
abbandono può essere definitivo o momentaneo;
 Lo stare a guardare (bystanding): quando l’individuo non interviene in una situazione in cui potrebbe dare il
proprio contributo;
 Il disimpegno morale (moral disengagement): quando l’individuo prende attivamente parte ad azioni che
contrastano i propri valori etici. Può presentarsi anche in persone senza squilibri psicologici: ci sono diversi
meccanismi di difesa che consentono di preservare l’integrità degli standard che ispirano i nostri giudizi
relativamente a ciò che è buono e cattivo. Caprara elenca:
o La giustificazione morale → con cui si legittimano e nobilitano comportamenti di fatto deprecabili
(malaugurato, che si desidera non accada) e si pongono al servizio di principi considerati superiori
(es. lo facciamo solo per non far fallire l’azienda). Tale processo trasforma la condotta riprovevole in
socialmente e personalmente accettabile ritraendola al servizio di scopi altamente morali.
o L’etichettamento eufemistico → consiste nel dare un'accezione positiva ad un'azione, facendola
apparire meno grave di quello che in realtà e viene mascherata verbalmente.
o Il confronto vantaggioso → un'azione riprovevole viene resa più accettabile confrontandola con una
ancora più riprovevole. Maggiore è la forza del contrasto più alto sarà l’effetto dell’autoassoluzione.
o Lo spostamento delle responsabilità → viene attribuito ciò che si è fatto alla presenza di ordini o
richieste pervenuti dall’alto.
o La sottovalutazione e distorsione delle conseguenze → si minimizzano o negano i risultati negativi
prodotti.
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La ricerca applicata al gruppo
Grazie ai gruppi di lavoro si riesce a comprendere quali sono i fattori e le dinamiche che aumentano l'efficacia delle
organizzazioni. Sundstrom e colleghi hanno definito due criteri di efficacia del gruppo di lavoro: la performance e la
vitalità.
 Performance: fa riferimento al raggiungimento di un risultato atteso che soddisfa le richieste di un cliente
interno o esterno all'organizzazione.
 Vitalità: indica la soddisfazione dei membri del gruppo e il loro desiderio di continuare a lavorare insieme.
I fattori che aumentano l’efficacia sono:
1. La composizione del gruppo> i gruppi sono tutti gli uni diversi dagli altri e hanno forme e strutture differenti.
Tra gli elementi che determinano la composizione del gruppo vi sono:
 Dimensioni del gruppo → i migliori risultano essere i gruppi formati da tre persone, da quattro o più
membri e quelli con soli due membri. Con l'aumentare delle dimensioni del gruppo diventa più
difficile coordinare e motivare i membri verso il raggiungimento di un obiettivo comune.
 Team tenure → indica per quanto tempo i membri hanno fatto parte di uno stesso gruppo e hanno
lavorato insieme un'elevata team tenure influenza positivamente l'efficacia del gruppo.
 Personalità di gruppo → anche le personalità dei singoli membri contribuiscono a influenzare
l'efficacia. È stata trovata la correlazione tra Big Five e l’efficacia dei gruppi di lavoro, uno dei
principali predittori di personalità è l’amicalità di gruppo.
 Diversità di gruppo → le differenze possono essere genere, etnia, età e possono rappresentare un
vantaggio laddove si crea complementarità su determinate caratteristiche come conoscenze o
esperienze.
2. I fattori di processo> una delle principali dimensioni di funzionamento del gruppo di lavoro è quella del fare.
Tra i fattori di processo, o del fare, vi sono:
o competenze di teamwork: un elevato livello di competenze di teamwork tra i membri del gruppo ne
aumenta l'efficacia.
o norme e ruoli: le norme rappresentano le regole di comportamento condivise dai membri che rendono
chiaro che cosa ci si aspetta da ciascuna che cosa ci si deve aspettare dagli altri.
 conflitto: rappresenta un fattore fondamentale in grado di influenzare le prestazioni. Esistono due
tipologie di conflitto, una legata al compito caratterizzata dal confronto e dallo scambio di opinioni,
l'altra legata alle relazioni interpersonali, ai modi di fare e di essere. Il secondo tipo di conflitto è
sempre di ostacolo alla performance mentre il primo è considerato un fattore di efficacia.
3. I fattori affettivi> un'altra dimensione del gruppo di lavoro è quella dello stare (relazioni tra i membri del
gruppo). Tra i fattori affettivi, o dello stare, vi sono:
∆ Coesione: indica il grado in cui i membri desiderano continuare a lavorare insieme in futuro.
∆ Cooperazione: fa riferimento alla sistematica integrazione degli sforzi individuali per il
raggiungimento di un obiettivo comune.
∆ Fiducia: indica la credenza reciproca che gli altri agiranno come ci si aspetta.
∆ Sicurezza psicologica: la percezione che gli individui hanno circa le conseguenze, positive o negative,
delle loro azioni all'interno dell'ambiente di lavoro.
∆ Team efficacy: indica la credenza condivisa che il gruppo sia in grado di realizzare adeguatamente i
compiti e raggiungere gli obiettivi prefissati.
Dal gruppo alla squadra: una proposta research-based
Quali sono le buone pratiche che consentono un gruppo di lavorare con efficacia? Vengono individuati quattro aspetti
principali intorno ai quali queste buone pratiche si raccolgono: l'obiettivo, il metodo, le risorse e i vincoli, il
coordinamento. Questi aspetti fanno evolvere il modello di Quaglino e costituiscono un'importante base di contenuti
per la formazione orientata al team building e al team performance optimization.
L'obiettivo
L'efficacia del gruppo di lavoro dipende dalla definizione dell'obiettivo che ci si propone di realizzare. L'obiettivo è il
fine del gruppo, ciò che lo origina ma anche la sua fine. Tutti sono responsabili della definizione dell'obiettivo, sia chi
convoca il gruppo che lo deve illustrare, ma anche tutti coloro che sono convocati che devono essere sicuri di aver
capito bene. Il lavoro di gruppo potrà avere inizio solo quando tutti si rappresenteranno l'obiettivo allo stesso modo,
ossia quando non esisteranno più tante definizioni individuali dell'obiettivo. Solo con il passaggio dal “mio obiettivo”
al “nostro obiettivo” i singoli individui diventeranno un gruppo di lavoro.
Il metodo
Con il termine metodo si fa riferimento all'insieme di regole che i componenti del gruppo scelgono di utilizzare per
governare le proprie azioni e relazioni. I gruppi tendono a occuparsi delle modalità di lavoro di tipo tecnico ma non
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delle modalità di lavoro di tipo relazionale, così le interazioni risultano disordinate e confuse e di conseguenza
frustranti, e in qualche caso fonte di conflitti interpersonali. I gruppi che si occupano della scelta della modalità di
interazione sono gruppi consapevoli del fatto che vi sono differenti modalità di interazione che avranno un valore
differente. Nella realtà i gruppi spesso non si occupano di questa scelta e talvolta è perché credono che il miglior
metodo di interazione emergerà spontaneamente.
Invece, il gruppo che ha fretta e che inizia a lavorare senza essersi dato un metodo, è un gruppo in cui probabilmente
ciascun componente crede di poter lavorare da solo e si sente autosufficiente e più capace. Se ciascun componente
assume però questa posizione, ovvero propone la propria soluzione al problema, si assisterà a un moltiplicarsi delle
proposte senza che nessuna di esse sia veramente stata elaborata dal gruppo.
Le risorse e i vincoli
Per essere in grado di raggiungere il proprio obiettivo i gruppi hanno bisogno di un insieme di risorse (competenze,
informazioni ambiente di lavoro e strumenti) e allo stesso modo è necessario che siano stati chiaramente individuati i
vincoli (tempo a disposizione, regole da rispettare, protocolli da seguire, budget massimo). Un gruppo senza risorse
non ha la possibilità di raggiungere l'obiettivo e allo stesso modo un gruppo che subisce dei vincoli insormontabili non
sarà messo nella condizione di risultare efficace.
Un ostacolo che frequentemente frena l'efficacia dei gruppi non è l'insufficienza di risorse ma il mancato utilizzo delle
risorse che il gruppo possiede, lo stesso vale per i vincoli. I gruppi efficaci dimostrano una grande consapevolezza a
proposito delle loro risorse e dei loro vincoli: le risorse vengono riconosciute utilizzate al meglio e i vincoli vengono
rispettati.
Il coordinamento
Il coordinamento e il presidio da mantenere attivo per tutto il divenire del lavoro di gruppo. Fare coordinamento
significa:
 ancorare l'obiettivo: nel corso del lavoro di gruppo il risultato da conseguire può di tanto in tanto essere perso
di vista, in queste occasioni fa coordinamento chi ricorda l'obiettivo e lo rende nuovamente chiaro e visibile a
tutti reimpostando la rotta;
 garantire il metodo: cioè proteggerlo e preservarlo dagli assalti che di volta in volta potranno portargli il
desiderio di essere rapidi:
 padroneggiare risorse e vincoli: cioè promuovere la consapevolezza relativa alle condizioni in cui il gruppo è
chiamato a operare.
Inoltre, è importante distinguere tra coordinamento e coordinatore. Il primo fa riferimento all'azione del coordinare
cioè una funzione che non può mancare, il secondo fa riferimento a colui che fa coordinamento ed è un aspetto
secondario.
Evoluzioni e sfide
 I gruppi autogestiti> sono gruppi di lavoratori ai quali vengono riconosciute autonomie e controllo nella
supervisione gestionale del lavoro e delle loro attività, rendendoli supervisori di sé stessi. Poiché si gestiscono
da soli gli vengono affidate diverse tradizionali funzioni di management (come pianificazione del lavoro e
delle tempistiche, risoluzione dei problemi, monitoraggio). Questo tipo di gruppi ha come riferimento un
leader esterno, il quale non interviene nell'attività ma la funzione di facilitarne l'autonomia e l'autogestione. I
vantaggi di scontrati nell'utilizzo di questi gruppi sono: aumento di produttività, di qualità dei risultati e
migliore qualità della vita lavorativa. Allo stesso tempo tali tipologie di gruppo spesso falliscono a causa dei
comportamenti del leader che potrebbe essere troppo coinvolto nelle attività di gruppo o non in grado di
sviluppare autonomia. Hanno più probabilità di successo i gruppi autogestiti che si occupano di compiti
concettuali e non di compiti operativi.
 I gruppi virtuali> sono gruppi di lavoro che non richiedono la presenza fisica dei membri ma che vengono
convocati, gestiti e realizzati virtualmente, per mezzo di tecnologie come internet, instant messaging,
videoconferenze e groupware. I vantaggi di questi gruppi sono: la flessibilità e l'efficienza rese possibili dal
focus sulle informazioni e sulle capacità dei membri più che sulla localizzazione e sul tempo, il risparmio
economico su viaggi e spostamenti, la possibilità di coinvolgere esperti da ogni parte del mondo lavorare su
un progetto per 24 ore al giorno sfruttando le ore lavorative dei diversi fusi orari nel mondo. Tra gli svantaggi
vi sono la scarsità di scambi in presenza e un abbassamento del livello di coesione, fiducia, commitment.
Sembrerebbe quindi importante garantire anche nel caso dei gruppi virtuali dei periodici momenti di
interazione in presenza, soprattutto nelle prime fasi di vita del gruppo.
 I gruppi transculturali> sono quei gruppi nei quali sono riunite persone provenienti da diverse zone
geografiche e sono caratterizzate dall'esposizione dei membri a culture straniere, che favoriscono lo sviluppo a
livello individuale di più elevate apertura mentale e capacità di generare approcci diversi al problem solving,

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ossia di osservare le situazioni da diverse prospettive. Nelle sessioni di brainstorming i gruppi transculturali
tendono a generare più idee, dimostrando maggiore novità e creatività.
Capitolo 9
La leadership
Il tema della leadership ha assunto, dalla metà del Novecento, un ruolo di primo piano negli studi organizzativi. Nella
difficile definizione di leadership Bass ha ripreso le formule più ricorrenti: leadership come dimensione della
personalità, strumento per raggiungere i risultati, determinante dei processi di gruppo, esercizio di influenza, forma di
persuasione, relazione di potere, arte di aver seguito. La leadership è l’azione di aver seguito e allo stesso tempo di
conseguire i risultati. Centrale è la relazione con i follower.
Alla difficoltà di definire la leadership si associa il discusso tema della differenza tra leadership e management: sono
da diversi autori ricondotti a nuclei di significato nettamente distinti e tale distinzione appare utile per orientare la
ricerca e la selezione del personale, per governare i momenti di cambiamento, per riflettere sulle risorse di leadership
disponibili ai diversi livelli dell’organizzazione.
Il management considerato come il raggiungimento degli obiettivi organizzativi in maniera efficace ed efficiente,
attraverso la pianificazione, l’organizzazione, la costruzione dello staff, la direzione e il controllo delle risorse
organizzative, non rappresenta un elemento debole. Leadership e management rappresentano un elemento
imprescindibile per l’efficacia organizzativa.
Le differenze tra leadership e management sono riconducibili ad alcuni elementi principali:
- La leadership è una relazione di influenza tesa a realizzare significativi cambiamenti;
- Il management è una relazione di autorità finalizzata a produrre e vendere beni e/o servizi come esito di
un’attività coordinata.
I primi studi: le teorie del grande uomo
Nella prima parte del Novecento lo sviluppo di procedure di valutazione psicometrica consentì di mettere a punto
strumenti adatti allo studio della leadership. Le prime ricerche definite come approccio del “grande uomo” si sono
concentrate su quei leader che sono stati capaci di raggiungere un elevato livello di popolarità. Alla base di queste
teorie vi è l’idea che alcune persone possiedano caratteristiche che le rendono “leader naturali”. L’obiettivo di questi
studi è individuare ciò che definisce questi soggetti “grandi”, differenziandoli da chi invece viene considerato privo di
leadership. L’elenco di caratteristiche prese in considerazione è ampio: lealtà, socialità, iniziativa, mascolinità,
dominanza, autostima, prontezza, adattabilità, estroversione, persistenza, conservatorismo.
Stogdill e Mann hanno realizzato rassegne puntuali della letteratura sulla personalità come fattore determinante della
leadership e hanno concluso che il suo valore nel rendere conto della riuscita del leader appare limitato. Stogdill
ipotizza che la compatibilità tra la personalità del leader e quella dei follower possa giocare un ruolo decisivo.
Considerazioni successive suggeriscono che l’efficacia dei tratti sia da porre in relazione alla specificità della
situazione. Negli ultimi anni si sono registrano molteplici lavori di ricerca sulla relazione tra personalità e leadership
che hanno segnalato l’importante ruolo dell’estroversione.
L’approccio basato sul comportamento
Lewin, Lippitt e White approfondiscono il problema dell’influenza dello stile di leadership sul comportamento del
gruppo, ciò viene considerato come precursore dell’approccio basato sul comportamento. Questi autori coinvolsero
dei gruppi di bambini per ciascuno dei quali era individuato un leader adulto al quale veniva chiesto di agire con uno
specifico stile di leadership: autocratica, democratica o laissez-faire.
Un leader autocratico è quel leader che tende a centralizzare l’autorità, che prende potere dalla posizione e lo gestisce
attraverso il controllo. Un leader democratico è invece chi delega l’autorità agli altri, incoraggia la partecipazione e si
affida alla conoscenza e alla competenza dei follower per portare a termine i compiti. Infine, il leader laissez-faire è
colui che tende a essere passivo nella relazione col gruppo, evitando di agire proattivamente e limitando le sue azioni
all’intervento laddove esplicitamente richiesto dal gruppo.
Il gruppo guidato da una leadership autocratica riscontrò una prestazione migliore quando il leader stesso era presente.
Il gruppo guidato da una leadership democratica aveva riscontrato una prestazione altrettanto buona e rimaneva
positiva anche in assenza del leader. Questo studio di ricerca aveva contribuito significativamente a condurre gli studi
oltre l’approccio dei tratti verso quello dei comportamenti.
Successivamente l’Università del Michigan avvia al termine degli anni Cinquanta un programma di ricerca guidato da
Likert, impegnato nel compito di definire l’efficacia della leadership. L’autore mise a punto un questionario, la Survey
of Organization, e furono realizzate alcune interviste per raccogliere dati sugli stili della leadership. Venne identificati
due stili principali di leadership:
 Centrato sul lavoro (job-centered): rilevato da scale che misuravano l’enfasi sugli obiettivi e la facilitazione
del lavoro;

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 Centrato sulla persona (employee-centered): rilevato da scale che misuravano il supporto ai collaboratori e la
facilitazione dell’interazione.
Likert aveva individuato, inoltre, quattro stili per cogliere le diverse sfumature dell’atteggiamento del management in
azienda, facendo riferimento a quattro distinti modelli: autoritario minaccioso, autoritario benevolente, consultivo e
partecipativo.
Anche Stogdill mise a punto uno strumento per definire lo stile di leadership efficace, noto come Leader Behavior
Description Questionnaire (LBDQ) dal quale emersero due dimensioni principali:
 il comportamento di realizzazione: cioè l’insieme dei comportamenti tesi alla realizzazione del compito;
 il comportamento di sostegno: cioè l’insieme dei comportamenti tesi al riconoscimento dei bisogni dei
collaboratori e allo sviluppo delle relazioni.
Dall’intreccio di queste due dimensioni sono stati individuati quattro stili di leadership.
Leader molto orientati alla realizzazione del compito e poco attenti alle persone fanno quasi sempre ricorso a
comunicazioni unidirezionali e prendono le decisioni senza coinvolgere i collaboratori, mentre leader molto attenti
alle persone e meno orientati alla realizzazione del compito fanno ricorso a comunicazioni bidirezionali e tendono a
condividere il processo decisionale.
Dagli stili di leadership all’approccio situazionale
Il riferimento agli stili di leadership diviene centrale e giunge successivamente all’approccio definito situazionale. Vi
sono due dimensioni principali opposte: l’uso dell’autorità da parte del capo e la discrezionalità concessa ai
subordinati che permettono una distinzione estrema di una leadership centrata sul capo (quando il capo prende la
decisione e la rende nota) e una leadership centrata sui subordinati (i subordinati decidono in maniera indipendente).
Il modello di Tannenbaum e Schmidt riconosce nello stile centrato sul subordinato quello capace di raggiungere il
maggior numero di obiettivi: come, ad esempio, elevare il livello di motivazione dei collaboratori, accrescere la
capacità dei collaboratori di accogliere e affrontare il cambiamento, sviluppare il lavoro di gruppo e sostenere la
crescita dei collaboratori ecc. Il modello evidenzia tre elementi che possono orientare la scelta dello stile:
∆ manager: ciascuno ha un’idea precisa circa la leadership appropriata;
∆ collaboratori: possono variare molto in termini di indipendenza, assunzione di responsabilità, esperienze ecc;
∆ situazione: la cultura organizzativa prevalente in un dato contesto può determinare in una certa misura il tipo
di stile di leadership adottato.
Altri fattori situazionali di influenza sono riconosciuti nella dimensione del gruppo di lavoro, nella dispersione
geografica dei collaboratori, nel livello di preparazione dei collaboratori ecc.
Un contributo successivo è il lavoro di Robert Blake e Hane Mouton sugli stili di direzione. La griglia manageriale o
di leadership segnala il legame forte tra leadership e cambiamento e favorisce la selezione dello stile di azione più
adeguato. Questo modello riconosce la leadership come scelta di uno stile che oscilla tra le due dimensioni:
- interesse per la produzione;
- interesse per le persone.
Entrambi questi interessi sono misurati attraverso un questionario che consente di identificare diverse modulazioni
dello stile di leadership, i cinque principali leader:
 leader debole: ha punteggi bassi in entrambi gli interessi e limita i suoi sforzi al minimo indispensabile per
mantenere la sua posizione;
 leader manipolatore: è interessato alla produzione e può avere la tendenza a trattare le persone in maniera
strumentale;
 leader amichevole: particolarmente interessato alla relazione con le persone ed è orientato a mantenere
un’atmosfera di lavoro amichevole, non ha molto interesse per la produzione;
 leader moderato: ha un interesse intermedio sia per la produzione sia per le persone;
 leader della squadra: ha un elevato interesse per le persone e per la produzione, è teso ad ottenere la
prestazione migliore possibile e a mantenere un buon clima di gruppo.
Tra i cinque stili principali è l’ultimo ad essere considerato quello “ideale” (leader di squadra).
Le variabili situazionali sono centrali invece nel modello di contingenza (contingency theory of leader effectiveness)
di Fiedler. Quest’ultimo riteneva che lo stile di leadership fosse un atteggiamento stabile, solo in parte modulabile,
distinguibile in due distinte tendenze motivazionali:
- la motivazione al compito: distintiva di chi cerca di soddisfare principalmente il proprio bisogni di
realizzazione degli obiettivi dati;
- la motivazione alle relazioni: distintiva di chi cerca di soddisfare principalmente il proprio bisogno di
costruire e mantenere relazioni con i follower.
Per determinare lo stile di leadership, Fiedler mise a punto un questionario Least Preferred Coworker (LPC) per
determinare due tipi di stile: compito e relazione.
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Gli stili devono essere valutati in relazione alle caratteristiche della situazione:
 la relazione tra leader e follower: è la dimensione più importante nel determinare quanto la situazione sia
favorevole per il leader. Più positive sono le relazioni, più facile è per il leader esercitare influenza;
 la struttura del compito: fa riferimento alla maggiore o minore strutturazione del compito stesso, compiti
semplici da comprendere consentono al leader di essere maggiormente influente;
 il potere di posizione: laddove il potere di posizione è elevato, la situazione si connota come più favorevole e
il leader ha maggior influenza.
Questi tre fattori servono a determinare quanto la situazione possa essere favorevole per il leader, Fiedler ha
identificato otto livelli possibili: da 1 (molto favorevole) a 8 (molto sfavorevole). Quando lo stile del leader non
corrisponde a quello richiesto dalla situazione, il leader può modificare la situazione agendo su uno o più fattori per
renderla adatta al proprio stile.
Infine, è il lavoro di Paul Hersey e Ken Blanchard a rappresentare la “consacrazione” del paradigma situazionale. Il
modello propone la variabile della maturità dei collaboratori nell’affrontare il compito assegnato come determinante e
come dimensione cruciale della situazione. Questa viene valutata da bassa ad alta, e il leader può scegliere lo stile più
adeguato tra questi quattro (stili?):
 prescrivere, con collaboratori di basso livello di maturità: fornire istruzioni estremamente dettagliate,
descrivere i modi e tempi per la realizzazione del compito. Il leader è impegnato nell’istruire i collaboratori e
poco orientato alle relazioni;
 vendere, con collaboratori di livello medio-basso: fornire specifiche istruzioni e allo stesso tempo sostenerli
spiegato perché il compito deve essere portato a termine. È importante lavorare sulla relazione;
 coinvolgere, quando il livello è medio-alto: si dedica poco tempo alle informazioni generali e ci si concentra
sull’obiettivo, il leader si occupa di incoraggiare i collaboratori;
 delegare, quando il livello di maturità è alto: fornire ai collaboratori le informazioni da loro richieste,
chiarendo dubbi e limitando le istruzioni. I collaboratori prendono le decisioni senza il leader.
Il modello “path-goal” e la teoria “leader-member exchange”
Robert House è il principale autore della teoria e del modello path-goal, formulato a partire da un precedente lavoro di
Evans e ampliato per includere alcune variabili situazionali. Il modello tenta di individuare alcuni moderatori
situazionali cercando di capire come il comportamento del leader influenzi la prestazione e la soddisfazione dei
collaboratori. Il leader si ipotizza possa fare ricorso e scegliere fra quattro tipi principali per massimizzare la
prestazione e la soddisfazione per il lavoro. Il modello si concentra sulla modalità attraverso cui il leader influenza la
percezione degli obiettivi da parte dei collaboratori e sul percorso da seguire per raggiungere gli obiettivi stessi. I
fattori situazionali sono ricondotti alle caratteristiche:
 dei collaboratori: al locus of control (esterno ed interno), all’abilità dei collaboratori nel portare a termine le
attività necessarie al raggiungimento degli obiettivi;
 del contesto: la struttura del compito e la sua ripetitività, l’autorità formale del leader, il gruppo di lavoro.
Una volta definita la situazione in funzione di questi fattori, il modello consente di individuare lo stile più adeguato
scegliendo fra quattro possibili identificati come:
 direttivo: questo stile è appropriato quando i follower esprimono il bisogno di essere seguiti da vicino
(leadership autoritaria), e può funzionare soprattutto quando il compito è complicato ed ambiguo.
 di sostegno: questo stile è appropriato quando i follower hanno un locus of control interno e sono competenti
ed esperti. Il compito è semplice e l’autorità formale bassa, il leader deve fornire però supporto per il lavoro.
 partecipativo: questo stile è appropriato quando i follower vogliono essere coinvolti, hanno un locus of
control interno e sono abili. Il leader tende a includere i follower nelle prese di decisione.
 realizzativo: questo stile è appropriato quando i follower sono aperti a una leadership autocratica, hanno un
locus of control interno e la loro abilità è elevata. Il compito è semplice e vi è un’elevata autorità. Il leader
pone obiettivi elevati ma raggiungibili e sa riconoscere i successi. Il leader è sia direttivo e sia di sostegno.
È sulla relazione con i collaboratori che si concentra la teoria leader-member exchange (LMX). Le origini di questa
teoria sono individuate nella vertical dyad linkage theory, il cui oggetto di studio era la relazione diadica tra leader e
collaboratori. Grazie alla diade verticale si innescano due tipi di relazioni di scambio tra leader e follower:
- in-group exchange: caratterizzata da reciprocità e condivisione;
- out-group exchange: dove il leader esprime un forte bisogno di controllo;
La teoria LMX invece si concentra sulle determinanti della relazione diadica e sui suoi effetti in termini di
raggiungimento degli obiettivi. Lo scambio tra leader e follower ha un’influenza significativa sulla prestazione
lavorativa, sulla soddisfazione, sul turnover ecc. La qualità del LMX (lo scambio tra leader e membri) risulta minore

32
quando leader e follower sono di genere diverso e quando il numero dei collaboratori per un solo leader è elevato.
L’efficacia della relazione leader e follower sarebbe inoltre legata al supporto organizzativo percepito dai leader stessi.
Dalla leadership transazionale
Il superamento della leadership situazionale apre a un nuovo paradigma, influenzato fortemente dall’aumento
dell’incertezza: il cambiamento, che diviene necessità. È il lavoro di Burns che dà inizio all’utilizzo dell’aggettivo
“trasformazionale”. Bass precisa che i modelli presentati sin qui si concentrano sulla leadership transazionale, ovvero
sulla transazione interpersonale tra leader e collaboratori. I leader sono visti come professionisti impegnati in
comportamenti che mantengono un’interazione di qualità con i loro collaboratori, che utilizzano le leve a loro
disposizione per attivare la motivazione. Le caratteristiche fondamentali della leadership transazionale sono relative
all’uso, da parte del leader, di sistemi di ricompensa contingenti, e all’esercizio di azioni correttive rispetto al proprio
stile di leadership. Diversamente la leadership trasformazionale (o carismatica) enfatizza il comportamento simbolico
del leader, i messaggi visionari e ispirazionali, la comunicazione non verbale, il richiamo ai valori, la stimolazione e la
motivazione dei collaboratori a un livello intellettuale ed emozionale: la fiducia è la merce di scambio di questa
relazione ed è considerata un prezioso elemento di crescita individuale e collettiva.
Questo insieme di contributi, che diviene sempre più centrale dalla metà degli anni 80, è definito anche da alcuni
autori come approccio neocarismatico: all’apparenza affine rispetto agli studi del “grande uomo”, nella maggior parte
dei casi i modelli riferiti a questa cornice si concentrano non tanto su caratteristiche stabili dei soggetti, quanto su
comportamenti distintivi che possono essere oggetto di apprendimento e di crescita. Tale impostazione vale persino
per il carisma che, da alcuni autori, è declinato in azioni e comportamenti specifici legati alla definizione e alla
comunicazione della visione. La leadership è definita come una relazione che si pone in tensione verso la
trasformazione dei collaboratori. Per Burns il leader trasformazionale è colui che riconosce i bisogni dei follower e sa
trasformare i propri follower in nuovi leader. Sono le quattro “I” usate da Bass per descrivere il profilo delle azioni di
leadership a rappresentare il modello di leadership trasformazionale più noto:
 la considerazione Individuale: fa riferimento alla comunicazione personalizzata;
 la stimolazione Intellettuale: è considerata la via per dare energia;
 la motivazione Ispirazionale: fa riferimento all’azione di dotare il lavoro di un significato;
 l’influenza Idealizzante: chiama in causa l’attenzione alla fiducia, divenendo modello di ruolo in cui i
collaboratori possano identificarsi.
La leadership trasformazionale, e il modello di Bass in particolare, hanno attualmente molta influenza non solo nelle
ricerche scientifiche, ma anche nei contesti organizzativi reali. A cui si aggiungono:
 La costruzione del significato e il coinvolgimento attraverso la fiducia;
 La cultura da creare, gestire e modificare attraverso la leadership;
 Il cambiamento da anticipare, guidare, sostenere e consolidare ispirando una visione condivisa e
incoraggiando l’azione;
 L’apprendimento da stimolare e promuovere.
Leadership empowering e team leadership
La caratteristica più significative dei contributi recenti in tema di leadership è il passaggio da una logica di lavoro
improntata al controllo a una prassi delle relazioni ispirate all’empowerment. L’empowerment è divenuto un tema
cruciale negli studi organizzativi. Quinn e Spreitzer evidenziano come l’empowering sia un obiettivo e una
dimensione trasversale del lavoro del leader, da presidiare costantemente, così da favorire una maggiore assunzione di
responsabilità da parte dei collaboratori. Alla leadership è chiesto l’empowering attraverso alcuni comportamenti
principali:
 Fare in modo che i collaboratori ricevano info puntuali e continue sulla prestazione organizzativa;
 Fare in modo che i collaboratori possano apprendere le conoscenze e le competenze adeguate per contribuire
agli obiettivi organizzativi;
 Dare ai collaboratori il potere di prendere decisioni significative;
 Aiutare i collaboratori a comprendere il significato e l’impatto del loro lavoro;
 Riconoscere il contributo dei collaboratori in funzione dei risultati dell’organizzazione.
Il compito principale del leader è quello di accompagnare i collaboratori nel processo di apprendimento e
approfondimento del proprio potere. Una recente meta-analisi segnala l’importanza della leadership empowering nel
sostenere l’apprendimento di gruppo. I comportamenti, infatti, centrati sulla persona sono fortemente legati
all’efficacia del team, alla produttività e all’apprendimento. L’efficacia della team leadership si fonda su un insieme di
comportamenti che possono essere ricondotti ai seguenti:
- Riconoscere i bisogni individuali e di gruppo;
- Identificare i punti di forza del team;
- Costruire e consolidare fiducia;
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- Sviluppare le capacità del team di anticipare e affrontare il cambiamento;
- Delegare e condividere responsabilità;
- Ispirare e motivare il team verso livelli di prestazioni sempre maggiori;
- Riconoscere i risultati raggiunti.
Leadership autentica
Il tema della leadership autentica, risale agli anni ’90 del Novecento, ha acquisito maggiore interesse negli studi
organizzativi ciò è dovuto all’ansietà associata ai cambiamenti sociali, ai grandi fallimenti e alla crisi infinita con i
suoi correlati di incertezza. L’autenticità è un concetto che fornisce un’alternativa di speranza alla paura e
all’insoddisfazione diffuse nei contesti di lavoro rispondendo al bisogno di figure responsabili nei ruoli chiave.
Elementi essenziali di questa leadership sono l’autoconsapevolezza e l’autoregolazione del leader. L’espressione di
una leadership autentica si esprime attraverso alcune azioni fondamentali:
 Possedere capitale psicologico positivo;
 Avere una prospettiva morale positiva;
 Guidare attraverso l’esempio;
 Sostenere la consapevolezza dei follower;
 Promuovere lo sviluppo dei follower;
 Avere obiettivi di prestazione sostenibili.
Questa leadership è efficace se sostenuta e integrata nel contesto organizzativo in cui si esprime, che deve essere
caratterizzato da accesso alle informazioni, disponibilità di risorse, supporto percepito, eque opportunità di apprendere
e di crescere. Occorre che si inneschi un circolo virtuoso in cui la leadership autentica promuove un clima
organizzativo inclusivo che a sua volta alimenta l’autenticità nella relazione tra leader e follower.
A differenza della leadership trasformazionale o carismatica, che si basa su strategie di coinvolgimento e attivazione
(come motivazione, comunicazione persuasiva ecc), la leadership autentica promuove la fiducia nei collaboratori
attraverso un meccanismo di self-disclosure relativo ai punti di forza e a quelli di debolezza, creando un clima in cui
non sono presenti difese.
Leadership e ombra
La riflessione sugli aspetti ombra della leadership evidenzia il nodo del potere che diviene centrale in momenti
particolari del ciclo di vita lavorativo (come nella sfida della successione). Conger descrivendo il lato oscuro dei
comportamenti e delle azioni del leader individua: il senso di onnipotenza e l’eccesso nel potere, che hanno
conseguenze sulle relazioni, sulla visione e sulla comunicazione:
- Le relazioni tra i gruppi di lavoro sono contraddistinte da estreme e continue rivalità;
- La visione diventa allucinazione, rispecchia i bisogni egoistici del leader e non è misurata sulle risorse;
- La comunicazione è fatta di toni eccessivi e di frequenti e insistenti tentativi di manipolazione.
Il nodo del potere è al centro dei contributi psicodinamici in tema di leadership:
∆ il potere cercato, voluto o evitato, è radicato nelle prime esperienze infantili;
∆ la relazione leader-follower può essere letta attraverso la chiave del transfert, come ripetizione delle relazioni
con le figure parentali;
∆ la vita organizzativa è pervasa da paura, invidia, rabbia;
∆ il narcisismo è l’elemento centrale della leadership e può essere “tradotto” nella vita organizzativa in
accezioni più mature o più problematiche, correndo il rischio della chiusura, del travisamento dei dati di
realtà, dell’instaurazione di sistemi di protezione reciproca tra leader e follower; la perdita di potere può essere
vissuta come “non esistenza”, soprattutto all’interno delle imprese familiari;
∆ le fantasie dei follower rispetto al leader, prevalentemente di onnipotenza o accoglienza, contribuiscono a co-
costruire la relazione di leadership.
Sostenere la necessità di una maggiore attenzione alle dinamiche del potere significa agire nella direzione di limitare il
lavoro dell’ombra, ma anche consentire ai leader di lavorare nell’ombra, più che contro l’ombra, di lavorare con
l’ombra: con la difficoltà di ciascuno, ma anche dell’intera organizzazione. La leadership dovrebbe dunque esprimere
la capacità di gestire questa tossicità, attraverso un continuo esercizio di equilibrio.
Conclusioni
Guardando agli studi sulla leadership, il passaggio da una prima fase, che si conclude con la leadership situazionale, a
seconda fase, che ha inizio con la definizione di leadership trasformazionale, è un passaggio radicale da una visione
della leadership strategico-manipolativa, in cui la relazione è sempre al servizio del raggiungimento degli obiettivi e i
follower sono l’elemento debole, verso una teoria più “matura”, che pensa all’azione del leader in termini di sviluppo,
sostegno, apprendimento, partecipazione dei follower. Oggi al centro è posta la fiducia nella relazione tra leader e
follower.

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Capitolo 10
La followership
All’interno di un’organizzazione tutti, fatta eccezione per l’amministratore delegato, sono follower. La followership
domina le nostre vite e le nostre organizzazioni, ma non il nostro pensiero, poiché la nostra preoccupazione rispetto
alla leadership ci impedisce di considerare la natura e l’importanza del follower. (Kelley)
Che cosa si intende per followership?
Il termine followership, derivato da to follow, fa riferimento a un’azione diretta e intenzionale, con l’aggiunta del
suffisso -ship rimanda anche a un processo: il movimento volontario di qualcuno che vede dove qualcun altro è andato
e decide di prendere la medesima strada, seguendolo. Le parole inglesi leadership e followership risultano
complementari e si definiscono a vicenda (leadership> si può fare guida da solo se ha qualcuno che segue;
followership> si può seguire solo se si ha qualcuno che fa da guida). Ciò che sta alla base di questi due concetti è la
relazione. Un aspetto imprescindibile per poter guidare e seguire è la presenza dell’altro. Il follower andrebbe
considerato come l’individuo che sceglie, momento x momento, se e come essere anche seguace. All’interno della
cornice di una buona relazione: mentre il leader cede potere anziché accentrarlo, il follower accetta di assumersi
responsabilità anziché sottrarvisi. Tre sono gli aspetti centrali alla base del legame leader-follower:
 quello tra leadership e followership è un rapporto reciproco e complementare;
 followership e leadership implicano un’asimmetria nella relazione, che può assumere diverse forme ed essere
interpretata secondo diverse accezioni;
 followership e leadership intese come relazioni sono, inoltre, azioni guidate verso un obiettivo che è comune a
chi guida e a chi segue.
Quindi si tratterà di followership solo se gli attori istituiscono una forma di collaborazione tra loro.
La followership in letteratura
Approfondire il tema della followership è fondamentale per tre motivi:
1. diviene cruciale definire la followership e la sua relazione con la leadership. Nel legame reciproco con la
leadership si delinea il profilo di una followership che può essere proattiva e che accoglie l’influenza
proveniente dall’alto, e che è anche capace di esercitarla verso l’alto, supportando l’azione del leader;
2. vi è la necessità di chiarire la relazione tra followership e altre variabili organizzative a livello individuale e
organizzativo, come efficacia della prestazione e benessere;
3. è importante mettere a fuoco le possibili implicazioni per la pratica, provando a declinare le riflessioni
teoriche e le discussioni sulle evidenze empiriche.
Infine, diviene cruciale che il discorso teorico scientifico si traduca in linee guida per azioni capaci di promuovere
dinamiche positive di followership.
Shamir e il ruolo dei follower
Gli studi sulla followership sono partiti da quelli sulla leadership. Shamir riconduce i diversi approcci, fatti sulla
followership, a cinque categorie a seconda del ruolo che questi assegnano ai follower:
 destinatari dell’influenza dei leader> cioè follower come destinatari, fanno riferimento alle teorie tradizionali
che si concentrano sui tratti del leader efficace. In queste teorie l’attenzione è rivolta al leader, e un
comportamento del leader influisce sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei follower che, condividendo la
visione del leader, si sentono più coinvolti nell’organizzazione e mettono maggiore impegno nel lavoro. I
follower non avrebbero un ruolo attivo secondo queste teorie;
 moderatori dell’impatto dei leader> cioè follower come moderatori, alcune caratteristiche dei collaboratori
possono influenzare lo stile del leader. Appartengono a questo gruppo le teorie della contingenza (come la
leadership situazionale);
 sostituti nella leadership> cioè follower come sostituti, comprende le teorie secondo cui esistono situazioni in
cui i follower possono fare a meno dei leader, quando sono ben addestrati e hanno esperienza e conoscenze
specifiche;
 costruttori della leadership> cioè follower come costruttori, i follower hanno un ruolo centrale e la leadership
viene generata da loro;
 leader> cioè follower come leader, è costituita dalle proposte che mettono in discussione la distinzione tra
leader e follower.
Verso uno studio della followership di per sé: il contributo di Crossman e Crossman
Crossman e Crossman si occupano di studiare la followership di per sé, e affermano che:
 un primo insieme di teorie è caratterizzato da individualizzazione e leader-centricità, e si tratta di quei lavori
in cui la leadership è top-down e si occupa di studiare il leader “grande uomo” e le sue caratteristiche uniche.
 il secondo insieme è rappresentato dai lavori in cui la leadership è al centro anche se la prospettiva del
follower diviene più rilevante. Sono compresi lavori che adottano una prospettiva bottom-up che esamina le
35
prospettive dei follower su quello che rende i leader efficaci o inefficaci.
 il terzo insieme è relativo agli studi in cui la leadership è considerata condivisa, collaborativa o collettiva,
sono studi che hanno in comune la decentralizzazione del potere. La leadership può essere interpretata anche
da più leader che emergono nell’ambito delle interazioni all’interno del gruppo. È presente una combinazione
di interdipendenza formale e informale tra leadership e followership, che porta a negare la distinzione tra le
due.
 L’ultimo insieme comprende le teorie che riguardano la followership intesa come un processo totalmente
differente dalla leadership.
La followership di per sé: tipologie e modelli
Il lavoro di analisi sulla followership di per sé risulta molto complesso. Baker individua quattro tematiche ricorrenti
nella letteratura sulla followership:
1. Follower e leader identificano ruoli e non persone con specifiche caratteristiche;
2. I follower sono attivi e non passivi;
3. Follower e leader condividono uno scopo comune;
4. Leadership e followership sono concetti intrinsecamente relazionali.
Crossman e Crossman hanno invece proposto una griglia interpretativa distinguendo tra tipologie comportamentali
descrittive, tipologie comportamentali prescrittive e teorie situazionali.
Tipologie comportamentali descrittive
Alla fine degli anni ’70, Burns distingue tra:
- Follower passivi> coloro i quali forniscono un indifferenziato supporto in cambio di favori;
- Follower partecipativi> che amano far parte del gruppo di lavoro;
- Close followers> che sono leader essi stessi ma subordinati a un capo.
L’attenzione rivolta alle modalità di comportamento risulta centrale negli studi più recenti di Kelley, Chaleff e
Kellerman.
Kelley e il potere della followership
Nei primi anni ‘90, Kelley pubblica il suo lavoro: The Power of Followership nel quale propone che i comportamenti
di collaborazione possano declinarsi lungo due differenti dimensioni:
1. continuum dell’indipendenza/dipendenza del pensiero> i pensatori indipendenti tendono all’innovazione e al
pensiero costruttivamente critico, svolgono il proprio lavoro, azioni autonome, decisioni creative. I pensatori
dipendenti aderiscono alle procedure e ai manuali apportando minime modifiche, accettando acriticamente le
idee dei leader, non hanno un pensiero personale, risultano essere i follower meno efficaci. Nella zona
intermedia tra i due si collocano i follower più tipici che seguono la direzione e non sfidano lo status quo.
2. continuum attività/passività di comportamento> l’individuo in atteggiamento di attività prende l’iniziativa nel
problem solving e nel decison making, partecipa attivamente andando oltre al proprio compito. L’individuo
sul polo della passività è caratterizzato da basso coinvolgimento, scarsa propensione per le interazioni e
motivazione allo svolgimento di nuovi compiti. Dall’ incrocio di queste dimensioni emergono cinque profili
di follower:
∆ passive: manca di pensiero critico, dimostra estrema passività, richiede che sia il leader a
pensare;
∆ alienated: persona passiva, poco motivata, ma indipendente e critica nella modalità di
pensiero;
∆ conformist: individuo attivo, ma dipendente e un pensatore acritico;
∆ pragmatic survivor: in grado di adattare e modificare il proprio comportamento e stile di
followership a seconda della contingenza;
∆ effective: è un follower indipendente e creativo, dotato di coraggio e forte senso dell’etica, si
impegna con passione e costanza;
Kellerman: followership ed engagement
Kellerman ha proposto un nuovo modello fondato sul concetto di engagement. L’autrice classifica i differenti tipi di
follower sulla base del posizionamento lungo un continuum dal “non sentire e fare niente” all’essere
“appassionatamente impegnati e coinvolti”. Ci sono cinque categorie:
 gli isolates> sono distaccati. Sono scarsamente consapevoli di quello che accade attorno a loro, non sono
interessati al leader, né a conoscerli né a rispondere loro. Accettano passivamente lo status quo e non fanno
altro che rendere forte un leader che già lo è.
 i bystanders> osservano ma non partecipano. Decidono di rimanere in disparte e non esprimono alcun tipo di
coinvolgimento. Sono consapevoli di ciò che accade (differenza degli isolates) ma scelgono di non prendervi

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parte.
 i partecipants: sono in qualche modo coinvolti. Indipendentemente dal fatto che supportino o no
l’organizzazione e i suoi leader sono abbastanza interessati da scegliere di investire parte delle proprie risorse
nelle attività che svolgono. Non seguono il leader, ma la propria volontà di fare bene il lavoro.
 gli activist: si sentono fortemente coinvolti dal leader e dall’organizzazione e agiscono di conseguenza. Sono
appassionati e coinvolti, lavorano sodo dalla parte del leader supportandolo o contro di esso.
 i diehards: sono pronti a morire per la causa, sia essa un individuo, un’idea o le due cose insieme.
Caratterizzate da profonda abnegazione, queste persone possono garantirla al leader o ai mezzi per
distruggerlo. (devozione estrema-> mettono a rischio la loro vita).
Potter, Rosenbach e Pittman: l’iniziativa dei follower
Loro individuano nell’iniziativa l’aspetto cruciale per esprimere comportamenti di followership realmente efficaci.
L’iniziativa si esplica su due versanti:
1. performance iniziative (PI): ha a che fare con la prestazione fornita e include 4 comportamenti:
 svolgere il proprio lavoro con  riconoscere nella propria persona una
completezza; risorsa;
 operare efficacemente con gli altri;  abbracciare il cambiamento.
2. relationship iniziative (RI): riguarda la relazione e comprende:
 identificarsi con il leader come partner in  comunicare in modo onesto
success  negoziare le differenze.
 costruire fiducia
Dall’incrocio di queste due dimensioni derivano quattro stili di followership:
 subordinate (bassa PI e bassa RI): può comunque svolgere il proprio lavoro, senza però riuscire a fornire un
apporto personale alle attività
 politician (bassa PI e alta RI): collaboratore dotato di sensibilità alle dinamiche interpersonali, riesce a
sintonizzarsi con il leader, risulto meno coinvolto sul compito
 contributor (alta PI e bassa RI): svolge il proprio lavoro con entusiasmo e competenza affrontando il
cambiamento come una sfida positiva, ma è debole sul fronte relazionale
 partener (alta Pi e alta RI): alto commitment sia rispetto alla prestazione sia rispetto alla relazione
Tipologie comportamentali prescrittive
Studi di Chaleff sui comportamenti dei follower pongono l’accento sul coraggio. Descrive 5 dimensioni nelle quali il
coraggio espresso dal follower può declinarsi:
1. fornire supporto al leader e fare il possibile per contribuire al suo successo;
2. assumersi la responsabilità per la meta condivisa;
3. sfidare costruttivamente il leader, il gruppo;
4. partecipare a ogni trasformazione che sia necessaria per migliorare la relazione con il leader e la performance
organizzativa;
5. prendere una chiara posizione in senso morale per mantenere un atteggiamento etico;
Poi ne aggiunge una sesta: il coraggio di rivolgersi alla gerarchia rendendo noti il proprio pensiero e le proprie
convinzioni. Due tra queste dimensioni definiscono gli assi della tipologia proposta dall’autore:
- in virtù del coraggio di supportare il leader, il collaboratore non esita a lavorare duramente e assumersi nuovi
incarichi;
- grazie al coraggio di sfidare, il collaboratore si sente insoddisfatto preoccupato per comportamenti del leader o
del gruppo.
The courageous follower assessment è lo strumento di autovalutazione elaborato da Chaleff che permette di collocarsi
tra i seguenti profili:
 resource: (basso supporto e bassa sfida) è un follower che si limita a fare il minimo indispensabile;
 individualist: (basso supporto e alta sfida) follower indipendente che tende a pensare per sé distinguendo la
propria linea di azione e pensiero da quella del gruppo
 implementer: (alto supporto e bassa sfida) si limita a eseguire ciò che gli viene richiesto
 partner: (alto supporto e alta sfida) con il proprio comportamento costituisce frequenti occasioni di stimolo e
sfida per il leader.
Ci sono inoltre contributi che fanno riferimento ai comportamenti che un collaboratore dovrebbe esibire e forniscono
alcune indicazioni per una followership efficace. Alcuni tra questi sono riferibili alla dimensione del supporto (es:
offrire sostegno al capo, dimostrare apprezzamento), altri fanno riferimento alle dimensioni dell’iniziativa e del
comportamento proattivo (es: prendere l’iniziativa), altri sono riconducibili agli aspetti di accettazione del ruolo
(chiarire il proprio ruolo), altri alla comunicazione efficace con il leader(es: tenere il leader informato).
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Teorie situazionali
Sono teorie che si sono occupate di descrivere la followership in relazione alle caratteristiche del contesto in cui la
relazione leader-follower prende forma.
Alla ricerca di una definizione univoca
Gli elementi che ricorrono nelle diverse concettualizzazioni di followership sembrano 3:
1. un’asimmetria: che è sottesa al rapporto tra ruoli e che può essere più o meno riequilibrata dall’influenza che
il follower è in grado di esercitare. Il potere non si individua come proprietà stabile ma dipendente dalle
relazioni e dal contesto in cui si attua.
2. la condivisione tra leader e follower in un obiettivo comune: alcuni pensano che sia grazie alla presenza di una
meta comune tra leader e follower che la relazione può strutturarsi in modo più equilibrato.
3. la possibilità per il follower di esercitare un’influenza sul leader: alcuni concordano sulla natura relazionale
della followership e dei ruoli di leader e follower per cui leadership e followership sono concepibili al meglio
come ruoli in relazione, relazione in cui la followership è in grado di costruire, arricchire e ispirare la
leadership.
La relazione con il leader si struttura come un legame di influenza reciproca. I comportamenti di followership
differiscono dagli altri in quanto non riguardano attività indipendenti di coloro che occupano posizioni subordinate ma
sono comportamenti che gli individui mettono in atto nella relazione con il loro leader. La differenza dei follower nei
confronti dei leader può essere costruita in vari modi: i follower possono costruire il loro ruolo basandosi su forti
differenze di status oppure possono riconoscersi come partner, partecipanti. Alcuni sostengono che i leader potrebbero
essere condotti in vario modo fuori strada proprio da coloro a cui dovrebbero mostrare il cammino. Il leader tende ad
amare chi lo ama, follower adulatori potrebbero essere più ascoltati di altri e pericolosamente rinforzare le eventuali
tendenze narcisistiche del capo, con conseguenze negative per il gruppo di lavoro e per l’organizzazione.
Gli studi sul campo
Pochi sono oggi i lavori di ricerca in tema di followership, vi sono lavori realizzati con ricerche qualitative e
quantitative.
Ricerche qualitative
Per quanto riguarda gli studi esplorativi, trasversale ai diversi lavori è la finalità di individuare le dimensioni attorno
alle quali si costruisce l’idea di una buona o cattiva followership, lavorando su una base empirica rappresentata da
narrazioni e linguaggio quotidiano.
Ricerche quantitative
Alcuni studi quantitativi si sono proposti di individuare gli antecedenti di uno stile di followership efficace,
considerando la relazione della leadership e la possibile influenza di alcune dimensioni di personalità. I follower sono
più o meno obbedienti o disposti a chiarire le loro idee e opinioni per caratteristiche personali ma anche in base a
come percepiscono la relazione con il loro leader o capo, dimensione a cui l’organizzazione dovrebbe prestare
attenzione.
Prospettive per la formazione e per la ricerca
Tra le principali implicazioni pratiche dello studio della followership vi è quella di rendere la conoscenza della
leadership più completa e organica. In questo senso l’identificazione delle qualità proprie di una followership efficace
rispetto a quelle proprie di una buona leadership, sarebbe di particolare importanza per quei lavoratori a cui, in quanto
middle-managers, è costantemente richiesto di essere sia leader sia follower efficaci. Potrà risultare utile definire la
leadership e la followership nei loro aspetti positivi e nei loro rischi, stimolare le persone a sviluppare una realistica
visione di sé stessi migliorando la capacità autocritica e aumentando la probabilità che esse si confrontino con i loro
errori in modo onesto e aperto.
Uno strumento per la formazione e la ricerca: la versione italiana del questionario sulla followership di Kelley
Il questionario di Kelley è uno strumento di self-assessment (questionario proposto per la followership), composto da
20 item, in formato likert a sette punti (da mai a sempre). È un questionario compilabile in circa 10 minuti. Viene
descritto come strumento di autodiagnosi, dove le persone devono rispondere a come si comportano realmente in
specifiche situazioni di collaborazione. Ciò dovrebbe consentire a chi lo compila di determinare lo stile di
followership che più frequentemente mette in atto fornendo punti di riflessione sui punti di forza e sulle aree che
richiedono un miglioramento. Il questionario ha un duplice obiettivo: quello di consentire alle persone di identificare
lo stile di followership, più frequentemente messo in atto e quello di individuare i punti di forza così come quelli che
richiedono miglioramento. Questo questionario è stato validato in italiano da Gatti.
Capitolo 11
Cambiamento e sviluppo organizzativo
Per promuovere sviluppo, evoluzione e crescita è fondamentale la capacità di favorire e sostenere programmi di
cambiamento, sia pianificati sia come reazioni a eventi improvvisi. Le organizzazioni cambiano perché sottoposte a
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molteplici spinte verso il cambiamento, tali spinte possono essere esterne o interne. La globalizzazione, le nuove
tecnologie, le pressioni sociali e politiche ecc. sono spinte esterne che sollecitano gli attori organizzativi, quest’ultimi
si muovono verso una condizione in cui la rapidità, la tempestività e la gestione dell’urgenza sono caratteristiche
fondamentali per mantenere la posizione sul mercato.
Le spinte interne invece sono principalmente connesse alle risorse umane, alcune non sono facilmente individuabili
come la soddisfazione e la motivazione lavorativa, altre sono identificabili come la partecipazione lavorativa e
l’aumento dell’assenteismo.
Le definizioni di cambiamento
Ehi la letteratura offre numerose proposte per la definizione di cambiamento, ma è notevole che vi è una confusione
sul concetto di cambiamento organizzativo. Il cambiamento è un intervento volto ad affrontare un problema a una
situazione critica, agendo sul sistema tecnico o sociale. I suoi contenuti possono riguardare: le attrezzature e i flussi di
lavoro, il sistema gestionale, i piani strategici e operativi, la cultura organizzativa, i processi e l'ambiente di lavoro, la
struttura e le strategie organizzative.
Alcuni autori definiscono il cambiamento come:
1. l'adozione da parte di un'organizzazione di una nuova idea, intenzione o comportamento;
2. Il movimento di un'organizzazione dal presente stato ha uno stato futuro/desiderato per aumentare la sua
efficacia.
Si deduce che per cambiamento si intende un mutamento pianificato compiuto per modificare il funzionamento del
sistema organizzativo. Per alcuni autori quando si verificano mutamenti non pianificati all’interno del contesto
organizzativo, non si può parlare di un vero e proprio cambiamento.
I modelli di cambiamento
Tre numerosi modelli ricordiamo: il modello evolutivo di Greiner, il modello gestionale di Lussier, il modello
sistemico e il modello di cambiamento di Lewin.
Quest'ultimo è stato spesso accusato di essere troppo lineare e caratterizzato da una certa rigidità nella spiegazione del
processo di cambiamento, rappresenta però la teoria più citata che ha dato via al filone di studi sul cambiamento
sociale e organizzativo.
Il modello di Lewin
Lo studioso definisce il cambiamento come una temporanea instabilità che agisce sull'equilibrio esistente, e considera
il suo modello come una teoria più della stabilità che del cambiamento. Partendo da un'ipotetica situazione di
equilibrio le spinte al cambiamento iniziano ad agire scontrandosi con le resistenze che vengono poste al cambiamento
stesso. Quando le spinte riescono a sconfiggere le resistenze, si verifica la fase di scongelamento (unfreezing) che
porta al cambiamento vero e proprio (change) e alla successiva fase di ricongelamento (refreezing). Il nuovo status
quo può venire nuovamente minacciato da altre spinte che si scontrano con nuove resistenze attivando un altro
processo di cambiamento.
Lo scongelamento si verifica con le diminuzioni della prestazione, della motivazione e della soddisfazione. Quando lo
scongelamento è avvenuto vengono attivate specifiche azioni di cambiamento che coinvolgono gli attori e i compiti.
Solo se sarà stato raggiunto un nuovo equilibrio avrà luogo la terza fase, quella di ricongelamento, in cui i
cambiamenti desiderati sono rinforzati e stabilizzati fino alla loro istituzionalizzazione come parte di una normale
routine.
Il modello di Lussier
Lussier integra la proposta di Lewin, proponendo un modello di cambiamento composto da 5 fasi che mettono in
evidenza gli aspetti gestionali del cambiamento. Sottolinea l'attenzione necessaria per sensibilizzare e
responsabilizzare tutti gli attori organizzativi. Le 5 fasi sono:
 definire il cambiamento> chiarire se l'obiettivo del cambiamento è diretto agli aspetti strutturali tecnologici o
sociali;
 identificare le resistenze al cambiamento> comprendere la fonte e l'intensità delle resistenze messe in atto
dagli attori;
 pianificare il cambiamento> progettare e sostenere il cambiamento garantendo la supervisione;
 promuovere (attivare) il cambiamento> attraverso la divulgazione del bisogno e della necessità del
cambiamento;
 controllare il cambiamento> accertarsi se esso sia attivato e mantenuto nel tempo.
Il modello sistemico
L'approccio sistemico è basato sull'assunto che ogni tipo di cambiamento può avere un impatto a cascata all'interno
dell'organizzazione che viene vista come sistema composto da parti in stretta interazione tra di loro. Questo modello
prevede l'azione congiunta di tre componenti:

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 L'input fa riferimento alla missione e alla visione dell'organizzazione; ogni cambiamento deve derivare da un
piano strategico. La missione rappresenta lo scopo generale dell'organizzazione, mentre la visione rappresenta
l'obiettivo a lungo termine che descrive che cosa un'organizzazione vuole divenire e indica la direzione verso
il cambiamento. Infine, il piano strategico determina la direzione e le azioni necessarie per realizzare i
risultati programmati, questo viene definito sulla base della forza dell'organizzazione che è influenzata dalle
opportunità e dalle minacce presenti nell'ambiente esterno.
 Gli oggetti del cambiamento rappresentano quegli aspetti che possono essere appunto oggetto di mutamento.
Il particolare può essere diretto a:
o gli aspetti organizzativi (politica aziendale, procedure, ruoli, strutture)
o i fattori sociali (cultura organizzativa, funzionamento del gruppo di lavoro, interazioni interpersonali)
o i metodi (processi, piani strategici, tecnologie)
o gli attori organizzativi (le loro conoscenze, competenze, atteggiamenti e motivazioni)
 Gli output costituiscono i risultati attesi del processo di cambiamento. Il raggiungimento di tali risultati
dipende dal piano strategico scelto adottato e dalla strategia scelta.
Ogni cambiamento in una singola componente dell’organizzazione ha effetti sulle altre, inoltre, il cambiamento non
può avere successo se non comprende e coinvolge gli attori organizzativi. Infine, gli output possono essere di tre tipi,
passando da un livello macro a uno micro lungo un continuum: organizzativo, di gruppo o individuale.
Le resistenze al cambiamento
Quasi il 70% delle iniziative di cambiamento organizzativo tende a fallire. Si può parlare di fallimento quando
l'organizzazione non cambia nella direzione desiderata, Ehi cambia parzialmente o cambia per poi ritornare nella
posizione originaria. La comprensione dei fenomeni che si oppongono al cambiamento è di fondamentale importanza
per l'organizzazione. Alcuni autori (Brown, Manning e Ludema) sostengono l'importanza di comprendere i processi e i
meccanismi che mantengono la stabilità all'interno dell'organizzazione, questa comprensione permette di fare luce
sulle pratiche e sulle procedure di intervento per la realizzazione del cambiamento. In particolare, mettono in evidenza
l'importanza di un'analisi attenta dell'identità organizzativa, e quindi degli aspetti legati alla cultura che tende a
conservare la stabilità organizzativa di fronte al cambiamento. Il termine resistenza al cambiamento è utilizzato
solitamente in relazione agli effetti che il cambiamento stesso genera negli attori organizzativi, questi effetti sono ad
esempio emozioni che vanno dalla completa accettazione e dal supporto attivo al completo rifiuto. Comprendere ed
elaborare queste emozioni durante il processo di cambiamento costituisce una strategia vincente per gestirlo. Il merito
di aver dato il via alle prime ricerche sulle resistenze al cambiamento si deve agli studi di Lewin, per quest'ultimo
l’azione al cambiamento è preceduta da una lotta tra spinte e resistenze. Analizzare le resistenze come feedback del
processo di cambiamento può aiutare a comprendere come procedere nel raggiungimento degli obiettivi, riconoscendo
che la dimensione difensiva non è altro che un fatto fisiologico perché rappresenta una normale reazione a una
situazione che sta cambiando.
Alcuni autori evidenziano come la resistenza al cambiamento abbiano una duplice componente: cognitiva e affettiva.
Queste due componenti giocano un ruolo diverso a seconda dello stadio in cui si trova il processo di cambiamento.
Piderit propone un modello soggettivo e multidimensionale delle resistenze al cambiamento individuando, oltre queste
due componenti, anche una componente comportamentale: le resistenze hanno un forte impatto sulle emozioni che
possono, a loro volta, influenzare ciò che si pensa razionalmente del cambiamento e il comportamento a favore o a
sfavore del mutamento.
Le resistenze individuali
Le tre principali fonti di resistenze che l'individuo può attivare di fronte a un possibile cambiamento organizzativo
sono:
1. L'incertezza è l'insicurezza per il nuovo> gli individui tendono a resistere al cambiamento quando
percepiscono una minaccia alla propria sicurezza e a ciò che sarà di loro nel futuro. Sono classificabili in
psicologiche, quando l'individuo percepisce una minaccia alla propria identità occupazionale ed economiche,
quando la propria competenza esperta è minacciata e si teme una riduzione dello stipendio una retrocessione a
un aumento del carico di lavoro non corrisposto da un aumento degli incentivi.
2. La selezione percettiva delle informazioni> gli individui hanno la tendenza a selezionare le informazioni
coerenti con le loro opinioni e gli schemi consolidati e utilizzati abitualmente. Si attivano le resistenze quando
il cambiamento minaccia queste credenze.
3. Le abitudini> il cambiamento può creare situazioni poco prevedibili in grado di mettere in discussione le
routine, gli schemi mentali individuali e i comportamenti consolidati.
Alcuni individui sono più predisposti di altri a resistere al cambiamento e ciò è dovuto a tratti di personalità, come
distress, ansia e malessere. Mentre si sono evidenziati esiti positivi come la soddisfazione e l'incremento di
commitment organizzativo. Altri studi hanno analizzato il ruolo degli stili di coping in relazione al cambiamento
40
organizzativo e hanno evidenziato che chi presenta uno stile di coping focalizzato sul problema riporta punteggi più
elevati di partecipazione al processo di cambiamento, mentre l'attivazione di meccanismi di difesa come la
dissociazione all'isolamento determinano comportamenti di difesa nei confronti del cambiamento organizzativo.
Alcuni autori hanno identificato sei fonti di resistenza al cambiamento:
 riluttanza a perdere il controllo;
 rigidità cognitiva;
 basso livello di resilienza;
 intolleranza al periodo di aggiustamento a seguito di un cambiamento;
 preferenze per bassi livelli di stimoli e di novità;
 riluttanza ad abbandonare vecchie abitudini.
Queste sei fonti di resistenza vengono valutate e misurate attraverso la scala RTC di Oreg, composta da 17 item su
scala Likert riconducibili a quattro sotto dimensioni:
- routine seeking (RS)> riluttanza ad abbandonare le abitudini consolidate;
- emotional reaction (ER)> reazione emotiva connotata da stress legata alla partecipazione al cambiamento;
- short-therm focus (st F)> tendenza a individuare gli svantaggi a breve termine connessi al cambiamento
piuttosto che individuare vantaggi a lungo termine
- cognitive rigidity (CR)> rigidità del pensiero nel considerare idee e prospettive alternative allo status quo.
Le resistenze di gruppo
Le dinamiche legate al potere e ai conflitti la struttura e la cultura organizzativa rappresentano le principali fonti di
resistenza attivate dal gruppo di fronte ad azioni di cambiamento:
o Le dinamiche legate al potere e ai conflitti> quando il cambiamento è percepito come occasione per conferire
maggiore potere ad alcuni individui a discapito di altri, ciò porta a forti resistenze di opposizione.
o La struttura e la cultura organizzativa> una struttura organizzativa burocratica e centralizzata risulta
maggiormente resistente ai tentativi di cambiamento.
Riconoscere e fronteggiare le resistenze, che siano individuali o di gruppo, e compito di coloro che decidono e
progettano il cambiamento. Per fronteggiare in modo strategico le resistenze è fondamentale innanzitutto individuarne
l’origine, inoltre, è necessario informare i dipendenti sui possibili vantaggi, cercando di ridurre e contenere gli
svantaggi rischi percepiti. L'importanza della comunicazione dell'informazione durante un processo di cambiamento
organizzativo è ormai riconosciuta da tutti coloro che si occupano di cambiamento.
La ricerca-azione per lo sviluppo organizzativo
La gestione del cambiamento avviene attraverso l’approccio denominato sviluppo organizzativo (Organizational
Development; OD). Viene definito come un tentativo guidato dal top managment, condotto in un lungo arco
temporale, volto a migliorare l’azione di sviluppo dell’organizzazione. Questa definizione sottolinea tre condizioni
fondamentali per intervenire efficacemente nell'evoluzione dei sistemi sociali:
1. la possibilità di usare il tempo come risorsa non stringente;
2. la lettura dell'organizzazione come cultura;
3. l'utilizzo della scienza comportamentale applicata in particolare della ricerca- azione.
Le definizioni
La ricerca-azione (RA) è un modo di intervenire all'interno del contesto organizzativo, con un intento trasformativo,
prendendo le mosse da una domanda espressa dall'organizzazione attraverso qualche suo rappresentante oppure
proposta dal ricercatore/consulente stesso (domanda provocata). Nel primo caso, ossia quando la domanda è espressa
spontaneamente da un committente, la questione dell’avvio della RA è fondativa, ed è rilevante il modo in cui si arriva
a una visione condivisa delle questioni sulle quali si intende ricercare. Nel secondo caso, la questione diventa
l’identificazione di un attore che nel tempo giochi il ruolo del “cliente primario” della RA, ossia di iniziatore e
facilitatore del processo. Si tratta di incontrare il contesto organizzativo per creare un’autentica curiosità di un cliente
primario per una questione poco conosciuta, sottovalutata o di moda.
RA è un modo di conoscere nella relazione e attraverso la relazione. Perché la conoscenza diventi fonte di energia in
grado di orientare e sostenere i futuri comportamenti degli attori organizzativi impegnati in un cambiamento, la sua
produzione dovrà essere congiunta e affondare le radici nell’azione pratica. L’ipotesi è che si conosce a partire dalla
riflessione sulla pratica, insieme al ricercatore, il quale la osserva e la interpreta insieme al suo “autore”. Consideriamo
gli attori organizzativi i soli detentori di una conoscenza pratica, situata, tacita. Il ruolo della RA è di renderla
esplicita, condizione senza la quale non si può verificare se si intende cambiare i processi organizzativi consolidati e
interiorizzati. La conoscenza è conoscenza in relazione, si definisce all’interno della comunità di ricerca, nei momenti
formali di lavoro e in quelli informali. All’interno di queste relazioni, fondamentale è l’interrogazione del ricercatore
circa il suo rischio di colludere con il cliente primario, accettando, senza interrogarla, la definizione della domanda
iniziale e della natura dei problemi. L’agente di cambiamento deve fare i conti col fatto che gli attori organizzativi non
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sono sempre così desiderosi di essere coinvolti, travolti come sono dalle loro attività. Il rischio è che la RA diventi una
nuova “cosa da fare”, un compito imposto a “cavie” inconsapevoli.
RA è una filosofia, un modo di essere e di vivere che interpreta e vive la partecipazione come testimonianza e come
metodologia. La RA può contemplare anche una sensibilizzazione a livello della comunità collettivamente intesa, a
partire dall’ipotesi di una capacità generativa presente in tutti i soggetti, cittadini organizzativi e cittadini della più
ampia “polis”. È quindi ricerca con, per e attraverso le persone, e non sulle persone. È una scienza delle persone, è la
vita come ricerca, è la ricerca della vita: un atteggiamento che assume la costante interrogazione e ridefinizione circa i
propri comportamenti, intenzioni e scopi. I soggetti partecipanti alla ricerca sono partner ugualitari, su un piano di
equivalenza, non di uguaglianza; giocano il ruolo di co-ricercatori insieme a quello di professionisti riflessivi;
RA è un processo di cambiamento: changing. Con questo intendiamo sottolineare l’importanza dell’attenzione
consapevole a ciò che accade durante il processo di azione conoscitiva, allo stesso modo dell’eventuale processo di
presa di decisione e di implementazione delle decisioni circa i futuri corsi di azione;
RA è anche una metodologia di ricerca, prevalentemente ma non esclusivamente, qualitativa. È una pratica riflessiva e
di cooperazione sin dalle prime battute del processo di ricerca: dall’interrogazione della domanda, nel corso della co-
costruzione di una comune visione del problema e di un comune oggetto sul quale riflettere insieme. Sull’oggetto di
ricerca sarà poi possibile intervenire solo se la comunità di ricerca si sarà nel tempo trasformata in un gruppo. A
differenza della ricerca in laboratorio, la RA si svolge in contesti inevitabilmente attraversati da ambiguità e
imprevedibilità, con interazioni precarie e convergenze non sempre stabili. Lo sviluppo della ricerca è collettivamente
negoziato dai soggetti organizzativi, che sono co-ricercatori. Per la costruzione di questa condizione di libertà e di
cooperazione è quindi fondamentale costruire un setting in grado di
facilitare la nascita e la crescita di rapporti costruttivi e produttivi tra
tutti gli stakeholder del progetto di ricerca, sia che siano nel gruppo di
lavoro di ricerca sia che siano collocati al suo esterno. Ogni RA segue
un ciclo, un processo clinico di indagine che si basa su:
1. Diagnosticare> identificare o definire un problema;
2. Pianificare l'azione> considerare corsi d'azione alternativi;
3. Agire> selezionare un corso d'azione;
4. Valutare> studiare le conseguenze di un'azione;
5. Esplicitare gli apprendimenti> identificare i risultati generali.
È un ciclo che potrà essere reiterato.
Una classificazione dei molti modi con cui gli studiosi hanno nel
tempo descritto teorizzato e praticato la RA:
 La RA classica sperimentale di Lewin;
 L’Action Science di Argyris e Schön;
 Le diverse pratiche di RA partecipativa (Co-operative Inquiry, Action Inquiry, Partecipatory Action Research,
Appreciative Inquiry, Community Action Research);
 La RA postmoderna decostruttivista di Barry e Treleaven.
Le pratiche
La RA classica sperimentale di Lewin è sostenuta, come la maggior parte della psicologia sociale dell’epoca, da
assunti filosofici positivisti: la realtà sociale è “là fuori”, cognitivamente accessibile perché indipendente dal
ricercatore, lo “scienziato” sociale, che è colui che detta la direzione del cambiamento. Opposta alla logica
sperimentale è l’Action Science di Argyris e Schon, poiché si pone l’obiettivo di accedere induttivamente alla cultura
dei partecipanti alla ricerca, operando all’interno del loro contesto naturale. Il processo prevede l’utilizzo di una
metodologia qualitativa di raccolta dei dati, ricorrendo soprattutto all’etnografia e all’osservazione partecipante. Ciò
che viene prodotto è una teoria radicata nel campo che guida i successivi interventi di sviluppo. Gli studiosi che
lavorano in questa tradizione di RA mantengono il più delle volte una posizione neutrale e positivista. Anche in questo
caso, il coinvolgimento degli attori è strumentale alla possibilità di generare apprendimenti di primo e secondo livello.
Il ricercatore riserva per sé il ruolo di esperto, intervenendo a livello dei processi nel corso del cambiamento
conseguente al momento interpretativo e diagnostico. In questa forma di RA, l’enfasi positivista sulla ricerca condotta
per le persone compie una svolta a favore della ricerca realizzata con le persone. Solo attraverso la generazione di una
critica interna sarà infatti possibile avere accesso alle loro realtà culturali più implicite e recondite, e quindi migliorare
l’efficacia organizzativa e le relazioni interpersonali. Considerando le pratiche di RA partecipativa, in esse l’enfasi è
posta sulla dimensione partecipatoria e sul forte orientamento democratico, così come lo screditamento di qualsiasi
affermazione tale per cui la RA può ritenersi moralmente fondata come un modo per migliorare l’efficacia,
l’efficienza e la salute organizzativa o giustificata e abilitata grazie ad analisi oggettivi di “come veramente stanno le
cose”. In queste pratiche il ricercatore si allontana dal ruolo di esperto che osserva in maniera distaccata, per diventare
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un facilitatore, colui che mette in grado di sostenere un processo di autosviluppo e autoconsapevolezza. Può farlo
lavorando in termini consulenziali, soprattutto con le èlite organizzative, a livello del board, nell’ipotesi che solamente
gli individui meglio informati possano partecipare attivamente (ricerca-azione partecipativa, o partecipatoria, secondo
l’etichetta di Park), oppure può farlo a livello della comunità nella sua interezza (ricerca partecipativa, o
partecipatoria, Park). I teorici che si muovono nell’ambito della RA partecipativa sono interessati a generare una
critica dal basso dello status quo e a emancipare le persone da relazioni di potere asimmetriche, sostenendo soprattutto
gli emarginati e promuovendo forme alternative di organizzazione. Centrale in tal senso il ruolo del ricercatore-
facilitatore, che sostiene la possibilità di dare voce, attraverso il dialogo, a quegli individui e gruppi le cui idee in
genere non trovano adeguati canali espressivi: è l’empowerment nell’accezione di Freire. Nella tradizione della co-
operative inquiry, Reason e Bradbury suggeriscono che lo scopo della pratica di RA partecipatoria è dare voce a tutti
gli attori interessati all’oggetto di studio, in tutti i momenti della ricerca. Nelle pratiche di RA decostruttivista i
postmoderni non solo sostengono l’impossibilità di affidare al linguaggio la capacità di arrivare a una
rappresentazione certa della realtà, ma ipotizzano anche che siano i discorsi a costruire gli oggetti che popolano le
nostre (iper)realtà: conoscenza, verità e realtà diventano quindi entità linguistiche costantemente soggette a revisione.
È possibile produrre retoricamente tante realtà quanti sono i modi di descriverle e di spiegarle. I valori dei
postmoderni sono la tolleranza, la polifonicità, più che la democrazia che può produrre accordi che annientano
significati diversi da quelli della maggioranza. L’esclusione dal discorso anche di un solo soggetto implica il dominio
arbitrario di qualcun altro che rende silenziose possibili voci alternative. Ogni cambiamento organizzativo è possibile
solo in virtù di una forza capace di essere egemone, attraverso una particolare forma discorsiva di una versione
socialmente costruita della realtà che esclude alternative possibili.
Un intervento di sviluppo organizzativo ha lo scopo di aiutare i membri di un’organizzazione a comprendere come
essi siano giunti a sviluppare modelli particolari di pensiero che orientano, a volte limitandola, l’azione. Un esempio
di RA postmoderna è testimoniato dal resoconto di Treleaven di una collaborative inquiry che ha decostruito le
narrazioni di genere di un gruppo di donne che lavoravano in un’università australiana. Le co-ricercatrici hanno
riflettuto sui loro modelli di costruzione dei significati e li hanno ricostruiti attraverso l’uso dell’analisi del discorso
per portare alla luce i fattori dati per scontati che davano forma al linguaggio in uso. Ciò è servito a “sconvolgere” i
discorsi dominanti e ha reso possibile portare alla luce “discorsi alternativi. L’etichetta RA è divenuta nel tempo un
termine “ombrello”, piuttosto che un preciso riferimento teorico e metodologico, e di conseguenza rischia di perdere
valore.
Capitolo 12
Prendere decisioni nelle organizzazioni
La vita organizzativa è scandita da una serie di decisioni: le strategie a lungo termine, le caratteristiche della struttura,
l’andamento dei processi, il successo o l’insuccesso del cambiamento, la qualità della vita lavorativa e il clima
relazionale dipendono tutti da piccole e grandi decisioni prese a differenti livelli gerarchici.
Definizione ed elementi costitutivi
Una definizione generale di decisione può essere il processo che comporta l'individuazione e la scelta tra soluzioni
alternative per giungere a una situazione auspicata. Le caratteristiche fondamentali della decisione in organizzazione
costituiscono le sue dimensioni, che si influenzano l’una con l’altra individuando la natura e il tipo della decisione
stessa.
Dimensioni
Le tre principali dimensioni di una decisione sono:
1. Rilevanza: questa dimensione misura l'impatto che la decisione avrà sui processi organizzativi;
2. Temporalità: una decisione può avere un effetto immediato o molto lontano nel tempo, questa decisione
esprime il periodo di tempo in cui si avvertiranno le sue conseguenze (breve medio o lungo termine);
3. Contesto: le condizioni ambientali in cui viene presa una decisione possono variare sensibilmente
influenzando la possibilità di reperire le informazioni necessarie alla definizione del problema e delle possibili
soluzioni. Schermerhorn, Hunt e Osborn distinguono tra situazioni di certezza, in cui si conoscono bene i fatti
e l’esito della decisione può essere previsto in modo accurato, di rischio, in cui si ha una conoscenza parziale
delle informazioni e si possono solo fare delle proiezioni sul possibile esito della decisione, e di incertezza, in
cui non si dispone di informazioni sufficienti nemmeno per una proiezione probabilistica dell’esito della
decisione.
Tipologia
L’interazione tra le tre dimensioni individua 2 grandi famiglie di decisioni:
 Decisioni programmate: affrontano problemi strutturati, ossia di routine, familiari e ben conosciuti
richiedendo di scegliere la procedura standard pianificata in anticipo più adatta ad affrontare la situazione in

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questione. Non hanno una grande rilevanza e hanno effetti a breve termine, inoltre, non comportano
particolari rischi. Vengono anche definite decisioni operative;
 Decisioni non programmate: affrontano problemi non strutturati, ossia situazioni inaspettate su cui si
possiedono poche informazioni e che non è possibile affrontare con le procedure standard, richiedono invece
una soluzione originale e innovativa, costruita su misura. Trattano spesso questioni di grande rilevanza che
possono influire per lungo tempo sull'organizzazione e vengono prese in contesti rischiosi o incerti. Si articola
a sua volta in:
o Decisioni tattiche: Non devono affrontare grandi problematiche che modificherebbero gli obiettivi
organizzativi, ma questioni con effetti a breve-medio termine che richiedono comunque una certa
dose di creatività e improvvisazione;
o Decisioni strategiche: Hanno la più ampia rilevanza e il più alto livello di rischio, in quanto
modificano le strategie a lungo termine (come entrare in nuovi mercati o sviluppare nuovi prodotti),
richiedendo tutta l’attenzione e la creatività di cui dispone l’organizzazione.
Furnham definisce l’azione di prendere decisioni programmate “fare le cose bene” (doing the things right) e prendere
decisioni non programmate “fare la cosa giusta” (doing the right things).
L’evoluzione del concetto di decisione organizzativa: i modelli di decision making
Gli studi sul processo decisionale hanno una radice economica, ma a partire dagli anni ‘50 la psicologia ha raccolto
tale eredità identificando alcuni modelli che individuano i passaggi che l’uomo usa per prendere decisioni.
Il modello razionale
Il primo modello assume che l’essere umano sia un decisore perfettamente razionale, e per questo è stato chiamato
modello razionale, o normativo, o classico. Si tratta di un modello prescrittivo, che indica il processo che i decisori
devono seguire per raggiungere la soluzione che soddisfa il principio della massimizzazione dei risultati. Questo
modello consiste in una serie ordinata di fasi.
La versione proposta di Kreitner e Kinicki prevede 8 passaggi:
1. Ricognizione del problema: si rileva la presenza di un problema;
2. Definizione del problema e degli obiettivi: si analizzano in maniera approfondita i problemi rilevati per
comprenderle le caratteristiche e separare i sintomi dalle cause, inoltre, è possibile stabilire quali possono
essere gli obiettivi delle possibili azioni correttive;
3. Definizione dei criteri della decisione: si definiscono le caratteristiche e i requisiti della situazione desiderata
e si individua il metodo decisionale più adeguato alla situazione;
4. Generazione delle alternative: ehh si cercano un certo numero possibile di soluzioni alternative;
5. Valutazione delle alternative: vengono analizzate accuratamente tutte le alternative anche se stabiliti nella
terza fase;
6. Scelta della soluzione: si identifica la soluzione ottimale;
7. Implementazione della soluzione: si intraprende il corso di azione stabilito attivando le persone e le strutture
competenti;
8. Valutazione e controllo della decisione: si valuta se la decisione presa a raggiungere risultati desiderati e in
caso contrario si ricomincia il processo decisionale per correggere difetti e mancanze. La decisione è un
processo circolare che può essere necessario ripetere per raggiungere l'esito ottimale.
L’efficacia del processo decisionale razionale si basa su diversi presupposti rispetto al decisore:
 Razionalità assoluta del decisore: è una sorta di “scienziato infallibile”, con illimitate capacità di analisi e di
calcolo;
 Indipendenza del decisore dall’ambiente in cui è inserito: le sue capacità non sono influenzate dal contesto;
 Irrilevanza dello stato emotivo: le emozioni e i sentimenti non influenzano le sue capacità;
 Disponibilità totale delle informazioni: è in grado di trovare la soluzione migliore, in quanto dispone di tutte le
info necessarie per individuare ogni possibile alternativa e prevederne le conseguenze;
 Capacità di valutare le informazioni “in parallelo”: può valutare simultaneamente e in modo obiettivo tutte le
informazioni a sua disposizione.
La struttura ordinata del modello razionale continua a essere un punto di riferimento per l’analisi del processo
decisionale anche nei successivi modelli.
Il modello della razionalità limitata
L'incapacità del modello razionale di dare conto di molti dei processi decisionali osservabili sul campo portò gli
studiosi a riflettere sulla validità dei suoi presupposti. Simon dimostrò che la rappresentazione del decisore come
“scienziato infallibile” era inadeguata, e la sostituì con quella di un decisore che dispone di una razionalità limitata e
intenzionale.

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Secondo Simon, pur aspirando a decidere nel modo più razionale possibile, gli individui sono limitati da costrizioni
interne ed esterne, a differenti livelli:
 Elaborazione delle informazioni: Le informazioni necessarie per trovare una soluzione ottimale superano la
reale capacità di elaborazione degli individui; perciò, essi tendono ad accontentarsi di una quantità di
informazioni gestibile, riducendo così il numero di alternative generate con l’analisi dei dati. Inoltre, la
valutazione delle informazioni non avviene in parallelo, bensì in modo sequenziale: le possibili soluzioni
vengono valutate l’una dopo l’altra, riducendo la probabilità che una soluzione scartata venga
successivamente ripescata;
 Utilizzo di euristiche: Le euristiche sono strategie generali di comportamento costruite a partire dai dati
immagazzinati nella memoria a lungo termine a seguito delle esperienze passate. Consentono una buona
probabilità di trovare soluzioni soddisfacenti, ma anche errori;
 Principio della soddisfazione: il decisore non dispone sempre di risorse di tempo sufficienti per individuare la
soluzione ottimale, e può accontentarsi della prima soluzione soddisfacente che risponde ad alcuni criteri
minimi, concludendo la fase di valutazione delle alternative.
Il modello proposto da Simon è da ritenersi di tipo descrittivo anziché prescrittivo, poiché è finalizzato a rappresentare
il processo che gli esseri umani seguono realmente nel prendere decisioni piuttosto che quello che dovrebbero
utilizzare per prendere la decisione migliore. Simon corregge quindi il processo del modello razionale in questo modo:
- Ricognizione del problema: Nonostante i segnali provenienti dall’ambiente, in molti casi gli individui tendono
a non accorgersi (per incompetenza) o a ignorare (per il desiderio, conscio o inconscio, di non affrontare un
problema) ciò che sta accadendo, finché la situazione non diviene critica;
- Definizione del problema e degli obiettivi: Questa fase viene spesso trascurata. In particolare, la tentazione di
scambiare gli effetti per le cause è molto forte, soprattutto quando il decisore riceve notevoli pressioni a
trovare una soluzione al più presto;
- Definizione dei criteri della decisione: Frequentemente si verificano gravi fraintendimenti e definizioni
estremamente soggettive dei requisiti che le possibili soluzioni dovranno avere e di quale sia il metodo
decisionale più adeguato;
- Generazione delle alternative: Questa fase è spesso caratterizzata dall’uso di euristiche, ma è anche il
momento in cui l’individuo può esprimere al meglio la sua creatività e produrre soluzioni innovative;
- Valutazione delle alternative e scelta della soluzione: Queste fasi risentono sia della chiarezza con cui sono
stati definiti gli obiettivi, sia del principio della soddisfazione;
- Implementazione della soluzione di scelta: Questo passaggio non è scontato. Le persone impegnatesi devono
possedere adeguate informazioni e competenze, e se possibile aver partecipato al processo decisionale, in
modo da essere consapevoli degli obiettivi e motivate;
- Valutazione e controllo della decisione: È la fase in cui più spesso si ritrova la scarsa obiettività degli
individui. A causa delle priorità personali e delle influenze esterne, la valutazione può cambiare in modo
anche radicale, sopravvalutando i risultati o sottovalutando le conseguenze negative.
Il modello di Simon risulta più adatto di quello classico a dar conto di certe scelte poco ragionevoli in cui si esprime
l’ “irrazionalità” delle organizzazioni.
Altri modelli di decision making
Thompson e Tuden hanno messo a fuoco il tema del disaccordo rispetto agli obiettivi da raggiungere, che determina
ambiguità, e al metodo per conseguirli, che determina incertezza, proponendo una matrice di analisi che individua 4
diverse situazioni e altrettanti modelli decisionali a esse collegate.
∆ Modello razionale: è la situazione che presuppone l’accordo, completo o sufficiente, sugli obiettivi e sui
metodi, ed è quella a cui qualunque processo decisionale vorrebbe tendere, senza riuscire a raggiungerla mai
completamente.
∆ Modello incrementale (o metodo prova/errore): è il modello su cui si basa la decisione quando tutti gli attori
coinvolti nel processo decisionale sono d’accordo sugli obiettivi da raggiungere ma non sul metodo da
utilizzare. Invece di affrontare una decisione rilevante in modo diretto, il decisore scompone la situazione in
una serie di problemi più piccoli per affrontarli uno per volta.
∆ Modello politico: descrive le situazioni in cui c’è accordo sui metodi, ma non sugli obiettivi, spesso
inconciliabili perché ciascun decisore cerca il proprio vantaggio o quello della propria coalizione. Anziché
puntare a risolvere il problema, il processo decisionale consiste nella ricerca di alternative che possano
soddisfare almeno in parte tutte le coalizioni coinvolte, configurando un nuovo “equilibrio politico”
all’interno dell’organizzazione. La ricerca di un compromesso può risultare una modalità ragionevole, a volte
l’unica possibile, per portare a termine un processo decisionale in modo soddisfacente.

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∆ Modello del cestino della spazzatura : quando non esiste accordo né sugli obiettivi, né sui metodi per
raggiungerli. Cohen, March e Olsen hanno definito questi contesti “anarchie organizzative”. Queste
presentano sono caratterizzate da: preferenze ambigue (obiettivi, problemi e soluzioni non vengono
chiaramente definiti e le ambiguità caratterizza ogni momento del processo decisionale), processi non chiari o
non interiorizzati (non esistono a base di dati condivisa di esperienze pregresse per prendere decisioni) e
turnover (la partecipazione del giusto numero di persone al processo decisionale sarà in costante e limitata). In
questo modello le decisioni sono il risultato di una complessa interazione tra 4 correnti di eventi indipendenti:
o Problemi> rappresentano un divario tra la situazione presente e la condizione desiderata;
o Soluzioni> sono le idee che scorrono continuamente all'interno dell'organizzazione; Al contrario di
quanto affermato nel modello razionale, spesso non sono i problemi a essere il punto di partenza per
la generazione delle soluzioni ma, piuttosto, è a partire dalle soluzioni proposte che si costruisce il
problema da risolvere: le soluzioni sono “risposte che cercano domande”;
o Partecipanti> sono le persone che fanno vivere e funzionare le organizzazioni e che forniscono al
processo decisionale valori e comportamenti;
o Opportunità> Sono le occasioni in cui si aspetta che un'organizzazione prenda una decisione. Alcune
si presentano regolarmente, altre sono il risultato di crisi.
Le influenze sul processo decisionale
Le ricerche che hanno analizzato le limitazioni e gli errori propri del processo decisionale hanno prestato attenzione
sia alle caratteristiche individuali, o interne, sia contestuali, o esterne.
Le influenze interne
Le ricerche sulle influenze interne hanno cercato di isolare le più importanti caratteristiche individuali, di tipo
cognitivo ed emotivo. Tversky e Kahneman dimostrarono che il principio dell’invarianza (concetto della teoria
economica secondo cui, nel processo decisionale, le preferenze non sono influenzate da piccole variazioni di
caratteristiche irrilevanti delle alternative) non trova riscontro nella realtà. Mediante un esperimento evidenziarono
infatti che quando un problema viene proposto nei termini di un possibile guadagno, le persone tendono a scegliere
l’alternativa più sicura e a evitare i rischi (decisori riluttanti al rischio) mentre, quando lo stesso problema viene
presentato nei termini di una potenziale perdita, le persone sono più disposte a prendersi cura dei rischi per evitarla
(decisori amanti del rischio). Essi definirono questo fenomeno “effetto di inquadramento” (framing effect): gli
individui affrontano gli stessi problemi in modo diverso a seconda di come vengono descritti. Oltre ai limiti intrinseci
del ragionamento, un
secondo elemento di influenza sono le emozioni. Secondo la teoria della dissonanza cognitiva l’individuo, a seguito di
una decisione portata a termine, può avvertire uno stato di tensione risultante dalla percezione di incoerenza tra i
propri pensieri e i propri comportamenti: nel tentativo di ridurre la dissonanza, egli rilegge le informazioni a
disposizione e ne forza l’interpretazione in modo da giustificare la propria scelta. Tale presupposto ha posto le basi per
studi relativi all’ansietà post-decisionale. Chi è impegnato in un processo di decisione può non riuscire a scegliere in
modo definitivo tra due alternative, continuando anche dopo aver deciso a valutare le caratteristiche positive
dell’alternativa rifiutata e quelle negative di quella scelta, e per questo sperimentare vissuti di ansia, fino a che l’ansia
post-decisionale lo induce a desiderare intensamente di cambiare la propria scelta: si tratta del sentimento del
“rammarico”, che può portare sia a razionalizzare i dati a propria disposizione sia, meno frequentemente, ad
ammettere l’errore e modificare la decisione.
Le influenze esterne
Distinguiamo tra influenze sul processo, che agiscono nella fase di raccolta ed elaborazione delle informazioni
necessarie alla presa di decisione, e influenze sulla persona.
Le influenze sul processo sono determinate da:
- Divisione del lavoro: limita la possibilità di comunicazione tra le diverse funzioni, creando distorsioni e
omissioni nelle informazioni;
- Gerarchia organizzativa: quando devono scambiare informazioni con i superiori, gli individui percepiscono
disagio e tendono a reagire eccessivamente ai loro messaggi. Inoltre, la gerarchia “filtra” i messaggi dal basso
verso l’alto;
- Qualità e accessibilità dell’informazione;
- Limiti di tempo: i decisori sono spinti a essere rapidi nell’analisi e nella valutazione delle informazioni,
finendo col preferire la velocità di esecuzione all’efficacia;
- Comunicazioni informali: il sistema di comunicazione spontanea è più veloce dei canali istituzionali, ma
spesso causa fraintendimenti.
Le influenze sulla persona sono riconducibili a:

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- Incapacità “insegnata”: una formazione mal progettata o erogata con superficialità;
- Responsabilità limitata: non sempre i decisori sono investiti dell’autorità sufficiente per portare a termine un
compito loro affidato, per cui anche se il problema richiede una decisione veloce, devono cercare continue
conferme dall’alto-
Altre “trappole” presenti nel processo decisionale
A metà tra un’influenza interna e un’influenza esterna si colloca il fenomeno dell’intensificazione dell’impegno
(escalation of commitment), che consiste nella tendenza a persistere in un corso d’azione anche se i risultati ottenuti
non solo non sono all’altezza delle aspettative, ma rappresentano uno spreco di energie e risorse. Questo frequente
fenomeno è determinato da 4 categorie di fattori:
 Fattori psicologici individuali e sociali , tra i quali anzitutto l’autogiustificazione e la difesa della propria
immagine, quando le persone responsabili di un processo decisionale si identificano, o vengono identificate,
con la decisione che prendono, perché ciò esprime la loro fiducia nelle proprie capacità decisionali. Altre volte
vi sono la sottovalutazione dei rischi e la sopravvalutazione delle probabilità di successo. Un ultimo fattore è
il paraocchi percettivo: per proteggere la “tranquillità presente”, il decisore seleziona le informazioni che
riceve al fine di confermare la propria scelta, ignorando ogni segnale negativo o considerandolo un errore di
percorso facilmente risolvibile;
 Fattori organizzativi: deficienze nella comunicazione interna o fenomeni di inerzia possono far sì che
un’azienda insista in un corso d’azione sbagliato senza accorgersi dello spreco di risorse o ignorandolo
volutamente;
 Caratteristiche del progetto: quando un progetto non prevede profitti immediati, molti decisori tendono a
portarlo a termine a tutti i costi, considerando perdite e problemi come eventi temporanei e facilmente
correggibili;
 Fattori contestuali: lo sono forti pressioni sociali o politiche, fuori dal controllo dell’organizzazione;
Le decisioni di gruppo
Ci sono delle sostanziali differenze tra le decisioni di gruppo e quelle individuali.
Gruppo versus individuo
Tanti studiosi oggi concordano che non ci sia un approccio in assoluto migliore dell’altro, tra l’approccio individuale o
di gruppo, ma che sia la natura del problema a determinare quale sia il più proficuo. I vantaggi di un processo
decisionale di gruppo consistono principalmente in:
 Qualità della decisione, perché il gruppo porta una somma di conoscenze, informazioni, punti di vista e
approcci superiore al singolo. Per questi vantaggi occorre che il gruppo sia eterogeneo;
 Gestione efficace del tempo, perché, una volta articolato il problema in sottoproblemi, è possibile creare dei
sottogruppi di analisi, accelerando il processo;
 Accettazione e motivazione, perché, se il gruppo che ha preso una decisione è composto dalle persone che
dovranno implementarla, si generano ownership, entusiasmo e impegno.
Le decisioni di gruppo presentano però anche svantaggi, tra cui i più citati in letteratura sono:
 Tempo, in quanto i gruppi sono generalmente meno efficienti degli individui e, qualora sia difficile dividersi
in sottogruppi separati, impiegano un tempo maggiore per prendere una decisione;
 Dispersione di risorse, in quanto sottraendo i componenti dai processi produttivi, i gruppi richiedono un
investimento superiore a quello necessario nel caso di un unico decisore;
 Conflitti, in quanto con più persone aumenta la probabilità di incomprensioni e dissidi;
 Dominio, in quanto uno o più componenti del gruppo possono monopolizzare la discussione, avendo come
scopo primario quello di “vincere”;
 Conformismo, in quanto alcuni membri potrebbero seguire la soluzione del gruppo, anche se non la
condividono, per paura di non essere accettati oppure ostracizzati.
La valutazione dei vantaggi/svantaggi della decisione di gruppo rispetto a quella individuale può essere riferita a 2
indicatori: l’efficacia e l’efficienza.
Decisione individuale Decisione di gruppo
Efficacia Precisione Minore precisione Maggiore precisione
Velocità Maggiore velocità Minore velocità
Creatività Minore creatività Maggiore creatività
Accettazione Minore accettazione Maggiore accettazione
Meno efficace Più efficace
Efficienza Più efficiente Meno efficiente
Rispetto all’efficacia, la decisione individuale ha maggiore velocità, mentre la decisione di gruppo ha maggiore
precisione, creatività e accettazione, per cui nel complesso è più efficace; mentre rispetto all’efficienza la decisione
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individuale è più efficiente.
Alcune tecniche per la decisione di gruppo
il processo decisionale in gruppo e la combinazione di diverse personalità, ruoli e punti di vista, a cui viene chiesto di
convergere in qualche modo, su una scelta unica. Schein ha individuato sei modalità di raggiungimento di una
decisione da parte di un gruppo:
 Decisione per mancanza di risposta: nessuna tra le alternative proposte risulta soddisfacente per tutti, per cui
il gruppo sceglie il male minore;
 decisione per autorità: il leader del gruppo prende una decisione per tutti;
 decisione della minoranza: una piccola parte del gruppo è capace di influenzare l'andamento della discussione
riuscendo a imporre la propria soluzione;
 decisione della maggioranza: si sceglie dopo una votazione ma la presenza di disaccordo può creare delle
coalizioni, i vincitori e i perdenti. Quest'ultimo in seguito alla frustrazione della sconfitta potrebbero
impegnarsi poco nell'implementazione della decisione o sabotarla;
 Decisione per consenso: la discussione porta alla scelta di un'alternativa preferita dalla maggior parte dei
componenti del gruppo, ma accettata anche dai membri dissenzienti, che rappresenta il miglior compromesso
possibile;
 decisione all'unanimità: tutti i membri del gruppo sono d'accordo.
Se raggiungere l’unanimità è raro, molti studiosi ritengono che la condizione migliore sia la decisione per consenso, il
cui risultato è una condivisione sostenibile. Tra le modalità di lavoro proposte per facilitare la presa di decisione in
gruppo, Osborn ha proposto il metodo del brainstorming, che prevede gruppi di 4-8 persone gestiti da un moderatore
che dà inizio alle attività presentando la situazione problematica e chiedendo a ogni partecipante di trovare una
soluzione. La fase di generazione delle alternative segue regole precise: parlare a “ruota libera”, abolire la critica,
partecipare tutti, fare attenzione alla quantità (che stimola la creatività e permette la sollecitazione reciproca tra i
partecipanti), costruire sulle idee degli altri, scrivere tutte le idee (analizzate nella fase successiva di valutazione
critica). Ma molte persone non riescono a superare la propria timidezza, e molte altre spesso dimenticano le loro
proposte mentre aspettano il loro turno per parlare, così che il numero di idee prodotto risulta limitato: è il fenomeno
del blocco produttivo. Sono state messe a punto due tecniche per superare questo blocco: il Gruppo Nominale (NGT)
e il Gruppo Delphi (DGT).
Il Gruppo Nominale (NGT) vuole evidenziare che i partecipanti costituiscono un gruppo solo nel nome, dato che la
maggior parte del lavoro avviene individualmente e senza uno scambio verbale. Il moderatore dà inizio ai lavori
illustrando al gruppo la situazione problematica. Subito dopo, i partecipanti scrivono in modo indipendente tutte le
soluzioni che vengono loro in mente, e poi, a turno, esprimono le loro idee al gruppo. Fatto ciò, i partecipanti danno
un voto (anonimo o palese) a ognuna, scartando quelle col punteggio minore. Il moderatore può decidere di ripetere la
fase di esposizione e di voto per le soluzioni rimaste o scegliere subito quella che ha ricevuto il punteggio più alto.
Una strategia simile, messa a punto soprattutto per i gruppi i cui membri non riescono a incontrarsi di persona, è il
Gruppo Delphi (DGT). Il processo comincia con l’invio da parte del moderatore, anche via web o posta elettronica, di
una spiegazione scritta della situazione problematica e di un foglio bianco, o di un questionario, su cui il partecipante
può scrivere suggerimenti e considerazioni. Tale materiale viene poi rispedito al moderatore che raccoglie e diffonde i
contributi in maniera anonima a tutti i partecipanti, che possono esprimere considerazioni e elaborare le proposte
altrui. Il moderatore raccoglie i feedback e predispone delle sintesi, ripetendo il processo fino a quando non si ottiene
una soluzione condivisa.
Schwenk ha posto l’attenzione, all’interno del gruppo che prende una decisione, sul ruolo della persona o del
sottogruppo che porta un’altra visione, che contesta gli assunti e le conclusioni della maggioranza, e ha messo a punto
una tecnica rivolta alla sua valorizzazione, chiamata l’ “avvocato del diavolo”, che deve analizzare in modo critico le
proposte e le argomentazioni della restante parte del gruppo, scoprendone debolezze e omissioni. Quando l’avvocato
del diavolo ha presentato la propria analisi, il gruppo cerca di controbattere costruttivamente, e l’analisi critica si
ripete finché entrambe le parti non sono soddisfatte delle proposte e delle relative argomentazioni. Mentre, l'avvocato
dell'angelo ha l'obiettivo di sostenere l'idea espressa da un collega riformulandola con parole diverse e ponendo
l'accento su elementi positivi che non sono stati ancora considerati.
Disfunzioni della presa di gruppo: conformismo, pensiero di gruppo e rischio aggiunto
Le disfunzioni più studiate in letteratura sono il conformismo, il pensiero di gruppo e il rischio aggiunto. Con il
termine conformismo si fa riferimento alla tendenza dell'individuo a cambiare le proprie idee o il proprio
comportamento in modo da uniformarsi allo stile degli altri membri del gruppo. Esso si presenta in modalità e
situazioni differenti:
 Influenza informazionale: si manifesta quando un componente del gruppo accetta come vera un'informazione
proveniente dagli altri;
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 Influenza normativa: si manifesta quando l'individuo si conforma alla posizione della maggioranza del gruppo
per mantenere un legame positivo con gli altri e per essere accettato e guadagnarsi l'approvazione esterna;
 L'obbedienza all'autorità: questo tipo di conformismo non viene originato da una condizione di inferiorità
quantitativa ma qualitativa ossia legata alla differenza di status
Un altro fenomeno ancora oggi molto studiato è il pensiero di gruppo, espressione coniata da Janis, le cui ricerche
evidenziarono come in gruppi molto coesi poteva capitare che l'obiettivo di prendere una buona decisione venisse
messo in secondo piano rispetto all'intento di mantenere un alto livello di coesione. Janis individua la lista di
“sintomi” che accompagnano il verificarsi del pensiero di gruppo:
- l'illusione di invulnerabilità> il gruppo altamente coeso si considera potente e invincibile; la fiducia dei
partecipanti li porta ignorare gli esiti potenzialmente disastrosi della loro decisione;
- l'illusione di moralità> i partecipanti credono nella correttezza morale del gruppo e delle sue decisioni, vedono
se stessi come buoni della situazione;
- stereotipi negativi condivisi> i partecipanti condividono credenze e percezioni che li portano a minimizzare i
rischi connessi a una decisione;
- razionalizzazioni collettive> i partecipanti allontanano qualsiasi informazione negativa che vada contro la
decisione del gruppo;
- autocensura> i partecipanti non esprimono non ritengono importanti i propri dubbi o le critiche che vengono
loro in mente riguardo alla decisione;
- illusione di unanimità> i partecipanti credono erroneamente che la decisione del gruppo sia stata raggiunta
all'unanimità assumendo che il silenzio indichi assenso;
- pressione a conformarsi> quando un punto di vista diverso viene espresso, il gruppo preme sul dissidente
perché si uniformi;
- guardiani del pensiero> alcuni partecipanti hanno il ruolo di proteggere osava guardare il gruppo da
qualunque opinione diversa o informazione negativa.
Janis individuò altri elementi determinanti per il manifestarsi del pensiero di gruppo: comportamento del leader, la
struttura dell'organizzazione e il livello di isolamento del gruppo stesso.
Stoner dimostrò che i gruppi erano propensi a rischiare di più rispetto ai singoli membri e definì questo fenomeno
rischio aggiunto. Successivamente egli riformulò il fenomeno definendolo polarizzazione di gruppo, cioè l'interazione
di gruppo “sposta” le posizioni degli individui ma la tendenza al rischio o alla cautela dipende da diversi variabili
quali le preferenze di partenza degli individui, il contesto di riferimento, le informazioni a disposizione e le modalità
con cui è stata portata avanti la discussione.
Le questioni aperte
Le pubblicazioni più recenti in tema di decisione nelle organizzazioni evidenziano un rinnovato interesse per modelli
decisionali di ispirazione razionale.
La rinascita del modello razionale: un nuovo equilibrio tra descrittività e prescrittività
Sebbene la ricerca abbia evidenziato i limiti del modello classico, le organizzazioni continuano ad avere la necessità di
rendere il più possibile razionali i processi decisionali. Vi sono così studiosi che si propongono di aggiornare il
modello razionale con elementi tratti dalle ricerche sul concetto di razionalità limitata. Bordlay ha cercato di superare
la dicotomia tra i modelli prescrittivi e i modelli descrittivi proponendo la teoria della decisione prescrittiva
(Prescriptive Decision Theory PDT) un modello di decisione che, assumendo le influenze interne ed esterne che
intervengono nella decisione, propone 12 passaggi che consentono di prendere una buona decisione.
1. Definire correttamente il problema;
2. utilizzare il brainstorming per identificare tutte le questioni aperte e la sequenza delle diverse scelte da
compiere;
3. condurre un'analisi approfondita degli obiettivi chiave;
4. identificare tutti i fattori che potrebbero influire sul raggiungimento degli obiettivi definiti;
5. riconoscere quali di questi fattori sono controllabili e quali no;
6. specificare, per ogni decisione, un piano di emergenza da attivare in assenza di ulteriori analisi;
7. utilizzare il brainstorming per creare diverse alternative al piano di emergenza;
8. utilizzare il brainstorming per prevedere i possibili esiti dei fattori incontrollabili legati al processo
decisionale;
9. costruire un modello che specifichi i vantaggi di un'alternativa e quanto questa incontri le specifiche
organizzative;
10. identificare fattori controllabili e incontrollabili realmente decisivi;
11. costruire un modello basato solo su questi fattori decisivi;
12. definire la decisione finale integrando al suo interno è migliore aspetti di tutte le alternative analizzate.
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il principale punto di forza della teoria della decisione prescrittiva è rappresentato dalla possibilità di “sintetizzare”
una soluzione capace di trarre i suoi elementi costitutivi da tutte le alternative a disposizione. Ma ci sono troppe
espressioni eccessivamente generiche e presentate senza fornire definizioni operative o descrizioni di metodo. Altri
studiosi sono giunti alla conclusione che il modello razionale può risultare un riferimento utile quando si tratta di
affrontare problemi non troppo rilevanti avendo molto tempo a disposizione. Betsch e collaboratori hanno fatto notare
che l’utilizzo del modello razionale porta necessariamente alla routine e quindi a quello che viene definito errore
recidivo (relapse error): una volta presa una decisione corretta è molto difficile per gli individui cambiare soluzione,
anche a fronte di significativi mutamenti nella situazione affrontata.
La razionalità limitata a rivista: il Naturalistic Decision Making e la razionalità ecologica
Il termine Naturalistic Decision Making (NDM) (presa di decisione naturale) è stato coniato da Klein e collaboratori.
L’obiettivo di questo filone di ricerche è analizzare le modalità con cui le persone ricostruiscono un senso, analizzano
la situazione e pianificano una linea d’azione nei contesti organizzativi reali, caratterizzati da una vera posta in gioco e
da rischi effettivi, impossibili da ricostruire in laboratorio. Questi autori sono più interessati a offrire buone descrizioni
dei processi osservati che a definire modelli capaci di generalizzare principi per la decisione esportabili in altri
contesti. L’unico vantaggio che può derivare da questi studi è l’incremento della consapevolezza di sé, in particolare
rispetto ai propri modi di decidere, da parte degli attori organizzativi tenuti sotto osservazione. Simon, esponendo i
principi della razionalità limitata, aveva rilevato il frequente utilizzo di “scorciatoie mentali” per risolvere
velocemente i problemi complessi, ossia le euristiche, considerandole uno strumento rozzo capace di portare, nella
maggioranza dei casi, a risultati sub-ottimali. Alcuni studiosi hanno fatto notare che una simile valutazione, da parte di
Simon, non tiene conto dell’ambiente in cui avviene il processo decisionale. Todd e Gigerenzer hanno invece assunto
fino in fondo i presupposti di Simon, affermando che la razionalità di una strategia cognitiva può essere valutata solo
in relazione alle
caratteristiche del contesto; in quest’ottica, le euristiche non sono più scorciatoie che conducono a un risultato
subottimale, ma costituiscono frequentemente le soluzioni migliori possibili nella particolare situazione in cui sono
utilizzate. Questo punto di vista fonda il principio della razionalità ecologica, in base al quale le persone, senza
bisogno di essere decisori esperti ma sfruttando solo la propria esperienza, sono in grado di prendere buone decisioni
con una limitata analisi e un contenuto utilizzo di mezzi e risorse.
Questa prestazione è dovuta al fatto che, mentre i modelli razionali aspirano alla massima generalizzabilità,
sforzandosi di ignorare i fattori che ne potrebbero limitare l’applicabilità, le euristiche sfruttano vantaggiosamente le
“irregolarità” nelle strutture dei dati, in particolare le relazioni di dipendenza tra un’informazione e l’altra, che non
rendono possibile l’utilizzo degli algoritmi proposti dai modelli prescrittivi. Tutto ciò rende le euristiche la migliore
strategia possibile all’interno dello specifico contesto in cui sono utilizzate.
L'etica della decisione: il contributo della morale per l'efficacia dei processi organizzativi
Diversi autori ritengono che le decisioni organizzative con una maggiore efficacia sul lungo termine siano quelle che
prendono in considerazione il ruolo dell'etica. Teske e Hallam affermano che sia necessario adottare un approccio
multidimensionale che permetta di discriminare in modo più accurato le decisioni giuste e sbagliate in situazioni
moralmente ambigue. Essi descrivono un sistema di analisi delle situazioni che chiamano scatola grigia (gray box): il
decisore utilizza la situazione passando da una dimensione all'altra, valutando i dati da diversi punti di vista in modo
da raggiungere una decisione orientata a ottimizzare i risultati sul lungo termine. Il modello della scatola grigia
consiste quindi nel passaggio da un punto di vista all'altro per aiutare i decisori a non lasciarsi sfuggire informazioni
importanti. Secondo Teske e Hallam organizzazioni dovrebbero realizzare il proprio processo decisionale in questo
ordine:
o Prima dimensione: contesto economico/finanziario> analisi costi- benefici e si stabilisce se l'alternativa
porterà profitti a breve termine;
o Seconda dimensione: contesto legale/politico;
o Terza dimensione: contesto etico/morale/sociale/ambientale> questa dimensione si riferisce alla
consapevolezza dei decisori rispetto ai propri valori etici e principi guida;
o Quarta dimensione: modello di leadership management dell'organizzazione> in questa dimensione i decisori
valutano se la cultura dell'organizzazione nel suo complesso ha le risorse morali per portare a termine una
decisione presa.
Capitolo 13
Leggere e gestire il conflitto nelle organizzazioni
In questi anni siamo stati colpiti dal crescente livello di conflittualità presente nei contesti organizzativi. Secondo
Bourdieu oggi la paura più diffusa e prevalente è quella di essere inadeguati, soli ed esclusi da relazioni e contesti. In
questa situazione l’altro, con le sue differenze, può rappresentare più facilmente una minaccia. Riconoscere e
mantenere la propria identità nell’ambito di situazioni professionali e organizzative, passa attraverso un dialogo
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impegnativo e un reciproco riconoscimento. Il tema del conflitto assume dunque una rilevanza cruciale nei contesti
organizzativi e lavorativi, così come nei rapporti sociali. Gli aspetti di fatica e la prevalenza delle manifestazioni
distruttive sembrano peraltro assegnare alla dimensione della conflittualità un’attribuzione di senso negativa
(conflitto-guerra e potere-dominio). Proveremo pertanto a configurare una nuova cultura del conflitto, in grado di
riconoscere i propri limiti e il bisogno di dipendenza dall’altro, apprendendo nuove modalità di legame sociale
attraverso l’elaborazione dell’aggressività e delle sue forme distruttive.
Spigolature miniea sul conflitto
La dimensione conflittuale sembra costitutiva di fenomeni emergenti in cui l'intreccio di interessi, differenze,
dinamiche, valenze e significati contestuali assume una progressiva messa in ordine e mobilita l'investimento di
energie soggettive e collettive. Lo scenario organizzativo alimenta e sollecita, infatti, potenti processi di
identificazione e individuazione così come aspetti di significazione e riconoscimento connessi alle culture
organizzative circolanti e alla ricerca dei criteri che soddisfino l'aspettativa di una conferma della propria identità
personale e sociale. Il conflitto diventa quindi variabile inevitabile da attraversare: la posta in gioco per ognuno degli
attori coinvolti è la possibilità di accedere a reti di sostenibilità realisticamente attivabili, di costruire alleanze dotate di
senso, di sperimentare modalità costruttive di rapporto con fisiologici aspetti di autorità e di asimmetria organizzativa.
Si ha una riconfigurazione critica del tema del conflitto, attenta alle valenze in esso presenti e alle condizioni che ne
restituiscono la rappresentazione e un uso orientati alla crescita dei processi organizzativi, lavorativi e professionali.
Origine e sviluppo storico della concezione di conflitto
Etimologicamente la parola “conflitto”, dal latino confligere (urtare, battere insieme), indica un incontro/scontro tra
due entità differenti che “reagiscono” tra di loro. Di per sé tale incontro non ha connotazioni positive o negative,
anche se da sempre è stata enfatizzata ora l’una, ora l’altra. Alle origini del pensiero filosofico il conflitto era
tematizzato soprattutto in riferimento alla questione politica.
Per Eraclito esso è principio della realtà, motore delle cose, tanto che “in ciò che discorda sta l’armonia più bella”.
Anassimandro, al contrario, vede nella separazione e nella lotta tra gli elementi un momento negativo e di ingiustizia.
Questa visione negativa del conflitto verrà riproposta da Platone, Aristotele e Rousseau, che propone un’idea di
società organica e ordinata in cui la conflittualità è malattia e squilibrio della condizione naturale. Tale idea verrà
rifiutata da Machiavelli e Hobbes: per loro le relazioni umane sono per natura portate alla competizione
individualistica, sotto la spinta delle passioni e dell’egoismo, di cui il conflitto è condizione naturale. Solo la ragione
può controllare e incanalare l’egoismo individuale. Ma è con Hegel che il conflitto va oltre la portata politica e diventa
principio metafisico per spiegare la realtà. Nessuna cosa può definirsi se non in relazione a ciò che essa non è: il
negativo è tale perché si contrappone al positivo e viceversa, due estremi interdipendenti e inscindibili, che fanno
guardare in modo nuovo alla relazione alla relazione tra “sé” e “altro da sé” (servo-padrone).
In epoca contemporanea, Simmel, tra i fondatori della moderna sociologia del conflitto, identifica due tendenze
parallele e distinte degli esseri umani:
- la tendenza associativa, che spinge alla socializzazione;
- la tendenza dissociativa, che rinforza l’individualismo.
Ciascuna relazione tra le persone e i gruppi risulta dall’operare di queste due tendenze, per l’autore entrambe
completamente positive. Il conflitto, in questa logica, assume la funzione fondamentale di riconoscimento reciproco
delle parti e di una loro integrazione, perdendo così la caratteristica di minaccia sociale. In prospettiva più
psicosociale, il contributo di Lewin negli anni 30 e 40 ha recuperato l’idea di conflitto come struttura fondamentale
che regola il gioco delle forze psichiche presenti nel campo psicologico dell’individuo. Nella sua teoria sui sistemi
sociali, Luhmann affronta il conflitto concependolo come prezioso indicatore di disfunzioni nel sistema sociale.
Perché ci sia conflitto devono verificarsi due comunicazioni che si contraddicono a vicenda: l’esistenza di una
contraddizione viene comunicata e genera un sistema di reciproche aspettative in merito alle future interazioni tra le
parti. I rischi sono rappresentati non dal conflitto in sé, ma dall’irrigidimento e dal perpetuarsi delle aspettative
reciproche o dalle forme di gestione distruttiva. Per questo, secondo Luhmann, in ogni sistema sociale sono necessarie
istituzioni che diano spazio al conflitto, orientandone lo sviluppo. Per Peirce il conflitto si colloca nella prospettiva
della gestione coordinata dei significati, a partire dalla diversità e unicità dei singoli sistemi e dalle differenze delle
storie da essi raccontate. De Araujo e Carreteiro hanno operato una sintesi interdisciplinare del conflitto, individuando
4 aree concettuali:
 Quella antropologico-filosofica, riconducibile a Kant, Mauss, Hobbes, Hegel;
 Quella sociopolitica, che vede il progressivo strutturarsi di posizioni funzionaliste (conflitto come
perturbatore dell’equilibrio sociale, anormalità da emendare), neo-cripto funzionaliste (enfasi sulla funzione
adattiva del conflitto), post-funzionaliste (conflitto come elemento intrinseco e necessario alla dinamica
sociale);

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 Quella psicoanalitica, che genera istanze pulsionali contrarie che creano conflitto alla radice della costituzione
del soggetto, del senso di colpa, del configurarsi dei legami sociali attraverso processi di sublimazione dei
desideri e rinuncia alla loro totale soddisfazione, dei processi di idealizzazione e/o identificazione per superare
divisioni, delle dinamiche della vita di gruppo;
 Quella psicosociologica, orientata al superamento di una razionalità aziendalistico-efficientistica, per
soddisfare l’aspettativa di “organizzazione richiesta” superando i problemi dei singoli e riducendo i conflitti,
che sono in realtà una manifestazione di potenzialità per l’espressione della soggettività, assumendo le
dimensioni di negatività, canalizzandole per l’innovazione e la creazione.
Le concezioni di conflitto in ambito organizzativo rispecchiano e si intrecciano con quelle di conflitto interpersonale e
sociale. I diversi paradigmi hanno proposto nel tempo differenti interpretazioni:
 Una vede il conflitto come deviazione pericolosa e fatto nocivo, con conseguenze distruttive e disfunzionali. È
proprio dell’ottica funzionalista e dello scientific management taylorista-fordista progettare regole, procedure
e strutture allo scopo di rimuovere l’insorgenza di conflitti e mantenere un ordine e un controllo razionale. Il
paradigma delle Human Relations prefigura l’impiego di strumenti sociali (es cooperazione) per sviluppare
una rete di relazioni capace di accrescere la soddisfazione e la produttività delle persone, prevenendo in tal
modo il conflitto;
 Negli anni 50, con il paradigma interazionista, si afferma il concetto di conflitto come aspetto ineludibile nelle
organizzazioni, fenomeno da gestire in modo da trarne il massimo beneficio per l’organizzazione,
prefigurando conseguenze non sempre negative, ma anche positive, e interrogandosi rispetto a situazioni in
cui non emerge conflittualità e sollecitandone l’esplicitazione;
 Negli anni 90, con l’affermarsi del paradigma culturale, il conflitto viene visto come condizione strutturale:
l’organizzazione è un insieme articolato in condizione naturale di conflitto dinamico. Il management ha la
funzione di promuovere e arbitrare i contenziosi, valorizzando il conflitto;
 Le concezioni più recenti, nel paradigma della complessità, sostengono il ruolo centrale del conflitto,
considerato come determinante nei sistemi complessi per il raggiungimento degli obiettivi e per l’innovazione
organizzativa. Ne vengono rappresentate valenze distruttive e costruttive.
Nell’insieme delle teorie del conflitto sociale, interpersonale e organizzativo, è possibile individuare alcuni elementi
comuni e ricorrenti:
 Percezione del conflitto: le origini del conflitto possono essere reali o immaginarie. Non tutti i conflitti
percepiti sono reali. L’evoluzione di una relazione conflittuale dipende in buona parte dal modo in cui viene
percepito il conflitto e quindi dalla posizione assunta, che può essere di negazione della sua presenza, di
rifiuto ad ammettere la differenza o di elaborazione nella reciprocità;
 Dimensione relazionale: il conflitto esiste entro l’interazione tra due o più parti/agenti;
 Minaccia per il Sé: affinché si possa parlare di conflitto non è sufficiente che vi siano tra le parti differenze
nella visione del mondo, ma è necessario altresì che esse reputino minacciose e destabilizzanti le visioni del
mondo altrui rispetto alle proprie;
 Densità emotiva: le dinamiche conflittuali influenzano fattori emotivi e affettivi.
Il conflitto organizzativo: chiavi di lettura prevalenti
Si definisce il conflitto in base alle dimensioni in cui si esprime rispetto alle cause o ai meccanismi che lo fanno
precipitare.
Alcune variabili in gioco
Nel conflitto organizzativo, i modelli strutturali trattano gli aspetti relativi ai “parametri” del sistema (norme,
incentivi, procedure standardizzate, etc.) e le condizioni maggiormente stabili nel contesto organizzativo che
influenzano e danno forma al processo e alle dinamiche conflittuali; i modelli processuali si focalizzano invece sulla
sequenza temporale degli eventi che accadono durante la genesi e lo sviluppo del conflitto.
Thomas divide le variabili strutturali in 4 categorie:
1. predisposizioni comportamentali (lo “stile” dei soggetti coinvolti);
2. pressioni sociali;
3. struttura degli incentivi (comprende il grado di conflitto di interessi tra le parti);
4. ruoli e procedure.
Lo stesso autore si focalizza poi sulle variabili che possono facilitare/ostacolare la collaborazione nel tempo.
Tosi e colleghi nello spiegare la nascita di un conflitto uniscono a fattori individuali (valori, atteggiamenti, etc.) altri
che riguardano maggiormente la sfera strutturale, riprendendo fattori istituzionali, tra cui citano il grado di
interdipendenza, il bisogno di consenso, le differenze di status, e fattori organizzativi, tra cui citano la
specializzazione, la differenziazione, il goal setting, le regole, le procedure, il livello di omogeneità/eterogeneità, la
partecipazione, la scarsità delle risorse. Altri autori sottolineano maggiormente aspetti processuali nello sviluppo del
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conflitto organizzativo, come Pondy, uno dei primi a teorizzare il conflitto organizzativo come un processo che si
sviluppa secondo specifiche fasi: latenza, riconoscimento, percezione emozionale, manifestazione aperta-fase
comportamentale, conseguenze, gestione o esitamento e condizioni per l’emergere di nuovi conflitti.
Non necessariamente tutti i conflitti seguono la sequenzialità di queste fasi, ed è possibile parlare di
istituzionalizzazione del conflitto, individuando condizioni e regole per una sua gestione.
I livelli del conflitto
Una prima classificazione delle tipologie e dei livelli in cui il conflitto nelle organizzazioni può presentarsi è quella di
Rahim:
 Intrapersonale: conflitto che origina dal contrasto tra le richieste dell’organizzazione e le caratteristiche
personali e professionali del soggetto e che può assumere 3 forme:
1. conflitto tra persona e ruolo;
2. conflitto intrinseco all’emissione (al soggetto viene richiesto da una persona o da un gruppo
di ricoprire due ruoli contraddittori);
3. conflitto tra le emissioni (provocato da emissioni di ruolo contraddittorie provenienti da
individui/gruppi diversi).
 Intragruppo: conflitto tra membri che appartengono allo stesso gruppo di lavoro;
 Intergruppi: conflitto tra diversi gruppi di lavoro entro una stessa organizzazione.
Una seconda classificazione è quella proposta da Ferrari, che ha cercato di indagare il conflitto più inconsapevole,
creato e mantenuto in vita dagli attori organizzativi in un gioco di reciproche complicità, individuando i seguenti
livelli di funzionamento sociale in cui il conflitto si manifesta:
- Intrapsichico: strettamente connesso al concetto di sé; in questo livello è compreso anche il conflitto generato
dalle reciproche aspettative di ruolo;
- Interpersonale (sia a livello duale, sia nei gruppi): conflitto che coinvolge due o più persone. I conflitti a
questo livello possono generare soluzioni creative ed essere produttivi, ma possono anche creare grave
disagio, stress e infelicità. In questo livello l’autore comprende anche i conflitti sorti dalla valutazione delle
prestazioni e del merito delle organizzazioni (quando il giudizio espresso sull’operato di una persona è diverso
dal giudizio sulla persona stessa) e quello causato da comportamenti considerati patologici (essere in
competizione per le risorse, nascondere know-how e informazioni, sfruttare il lavoro altrui, non contribuire
col proprio lavoro per timidezza);
- Nei gruppi di lavoro: conflitto strutturale e permanente tra esigenze dei membri e del gruppo;
- Intergruppi: si manifesta tra gruppi appartenenti alla stessa organizzazione, in cui le istanze individuali
passano in secondo piano, prevalendo le identità sociali.
L’ultima classificazione è quella proposta da Shepard, che distingue 3 livelli nella ricerca sul conflitto:
∆ istituzionale, o livello macro: strutture, ruoli ecc.
∆ relazionale, o livello intermedio: persone, gruppi, divisioni ecc.
∆ microsociale, costituito dalla disputa.
Circa la “direzione” del conflitto, in letteratura si trova frequentemente la distinzione tra conflitto orizzontale, che si
manifesta tra attori che sono allo stesso livello dell’organigramma, e conflitto verticale, che riguarda invece persone e
gruppi appartenenti a livelli gerarchici diversi.
L’oggetto del conflitto
Qual è l’oggetto del conflitto? Una categorizzazione recente riguardante l’oggetto del conflitto distingue tra
 task conflict (conflitti connessi al compito), e quindi distribuzione e allocazione delle risorse, punti di vista
opposti sulle procedure, giudizi e interpretazioni discordanti di eventi e situazioni;
 relationship conflict (confitti relazionali), e quindi stili e gusti personali, preferenze politiche, valori di
riferimento.
Il conflitto e la vita organizzativa: alcuni punti di attenzione
Nell’ultimo decennio è stato analizzato il rapporto tra conflitto e altre variabili della vita organizzativa, quali:
organizational committment, soddisfazione lavorativa, turnover, salute versus stress, benessere organizzativo. Sullo
sfondo rimane il conflitto nella sua dimensione relazionale e contestuale, per spiegare il significato che assume per i
soggetti e le ricadute per la vita organizzativa.
Esiti e ricadute del conflitto
La questione che sta guidando gli studi di molti autori in questi anni riguarda le possibili ricadute del conflitto per la
vita organizzativa. Una teoria molto accreditata ipotizza che un certo livello di conflitto sia funzionale
all’organizzazione, mentre una sua insufficiente o eccessiva presenza causerebbe effetti negativi. Per comprendere
quali elementi spingano il conflitto in una direzione piuttosto che in un’altra, risulta imprescindibile richiamare in

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scena le variabili come: culture organizzative e valori connessi, modalità di gestione dei gruppi di lavoro, dinamiche
relazionali ecc.
Conflitto, soddisfazione e benessere
Un tema molto dibattuto è il rapporto tra conflitto e soddisfazione lavorativa, definita come un sentimento di piacere
che deriva dalla percezione che la propria attività è in grado di soddisfare valori personali importanti. In una recente
meta-analisi, De Dreu e Weingart hanno evidenziato una correlazione tra il conflitto in gruppi di lavoro e la
soddisfazione lavorativa; secondo gli autori si tratta di un circolo ricorsivo entro il quale le due dimensioni si
influenzano a vicenda e in cui si può ipotizzare il coinvolgimento di una terza variabile: la stabile differenza
individuale. Queste risultanze sono state recentemente riprese da Guerra e colleghi, considerando il ruolo della cultura
dell’organizzazione.
De Dreu, Van Dierendonck e Dijkstra sottolineano come il malessere psicofisico possa portare i lavoratori a
sperimentare una minore soddisfazione e un minor impegno lavorativo, producendo nel tempo conflittualità verso il
contesto. L’ipotesi che ci giunge è che il livello di benessere/malessere lavorativo e della connessa soddisfazione non
solo siano portatori di conflitto, ma possano, in certe condizioni, diventarne esito. Il conflitto a certi livelli
evocherebbe, infatti, emozioni come rabbia, disgusto, paura, portando una minaccia alla stima di sé, sino a deteriorare
il clima sul lavoro, con possibili influenze sul sistema fisiologico.
Gli effetti negativi che il conflitto ha su soddisfazione lavorativa e benessere si riducono quando il conflitto è gestito
attraverso problem solving e si rafforzano quando viene gestito con l’evitamento e l’inazione. In sintesi, gli studi
evidenziano come conflitto e benessere lavorativo si influenzino reciprocamente, in maniera cruciale. Da questi
emerge che:
 Il conflitto che si esaspera sul luogo di lavoro riduce la soddisfazione lavorativa e minaccia benessere e salute
connesse alla relazione;
 Gli effetti negativi si riducono quando il conflitto è gestito attraverso il problem solving e si accentuano con
l’evitamento;
 Le variabili individuali moderano la relazione tra conflitto e salute influenzando le strategie di gestione del
conflitto.
Conflitto ed efficacia personale-collettiva
Nelle ultime 3 decadi sono stati prodotti molti studi che hanno esaminato gli antecedenti e le conseguenze della self-
efficacy. L’efficacia personale viene intesa come un giudizio personale sulla propria capacità di portare a termine con
successo un compito scelto. Essa influenza la scelta dell’individuo tra diverse attività, il livello di perseveranza a
fronte di problemi e la performance. L'efficacia collettiva si riferisce alla percezione dei membri della competenza di
gruppo. De Dreu e Beersma sottolineano come, relativamente agli effetti che il conflitto può avere su efficacia e
produttività, individuali e collettivi (del team), in letteratura emergano due prospettive:
1. Secondo l’information-processing perspective, la relazione tra conflitto ed efficacia individuale avrebbe una
forma di U rovesciata, concependo come funzionale per il benessere organizzativo la presenza di una quota di
conflitto che non deve essere né troppo elevata, né troppo bassa;
2. La conflict typology framework sostiene invece che, mentre il conflitto relationship interferisce con i compiti
di performance, causando minore efficacia e innovazione, il conflitto task conduce i soggetti a considerare più
prospettive e diverse soluzioni dei problemi e, prevenendo il raggiungimento di un consenso prematuro, può
aumentare la qualità del processo di presa di decisione e l’efficacia personale e di gruppo.
Conflitto e team di lavoro
Nel gruppo ci si muove sempre tra cooperazione e conflitto. Il conflitto a volte può essere funzionale e produrre un
incremento della performance. De Dreu, Van Dierendonck e Dijkstra pongono al centro del loro discorso la cultura
organizzativa del conflitto: essa determina come i contrasti vengono visti e valutati, quali strategie di gestione del
conflitto sono ritenute adeguate o meno.
Desivilya e Yagil hanno preso come riferimento i pattern di gestione del conflitto elaborati da Rahim e Magner:
- dominio (alto interesse per sé, basso interesse per l’altro)
- sottomissione (basso interesse per sé, alto interesse per l’altro)
- compromesso (moderato interesse per sé e per l’altro)
- integrazione (alto interesse per sé e per l’altro)
- evitamento (basso interesse per sé e per l’altro).
Hanno poi analizzato i due maggiori antecedenti alla base dei modi di gestione dei conflitti all’interno dei gruppi di
lavoro: le percezioni dei membri della natura dei conflitti (task versus relationship) e le loro reazioni emozionali. I
risultati ottenuti:
1. la scelta di modalità cooperative (integrazione e compromesso) è positivamente associata a esperienze ed
emozioni positive;
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2. la scelta di pattern “dominio” è inaspettatamente connessa sia a emozioni negative sia positive;
3. i pattern evitamento sono associati solo a emozioni negative.
Questo studio mette l’accento sulla centralità dello stato emotivo nel determinare la modalità di gestione del conflitto
a livello intragruppo.
Conflitto, culture organizzative e prospettive di gestione
Per diversi autori la variabile cruciale per comprendere il conflitto organizzativo è la cultura organizzativa, definita
come l’insieme di valori centrali, norme di comportamento, artefatti e pattern comportamentali che governano il modo
in cui le persone interagiscono nell’organizzazione e investono energie nel lavoro. Da qui si definisce il livello di
tolleranza dei membri circa discussioni ed opinioni diverse. Guerra e colleghi hanno analizzato l’influenza dei tipi di
conflitto, task e relationship, sulla soddisfazione e sul benessere dei membri del gruppo, considerando il ruolo di
mediazione che la cultura dell’organizzazione gioca in questa relazione. Sono stati studiati due tipi di organizzazioni
che producono servizi:
- organizzazioni private con una cultura altamente goal oriented
- organizzazioni pubbliche con una bassa cultura goal oriented, l'orientamento culturale di chi lavora nel
pubblico è il support orientation.
Emerge che la cultura organizzativa media le relazioni tra il tipo di conflitto, sul compito o sulla relazione, e le
reazioni affettive dei lavoratori: nelle organizzazioni private l’alto orientamento al risultato allevia i potenziali effetti
negativi del conflitto in merito al compito (task), mentre in quelle pubbliche la cultura orientata al supporto e al
servizio condiziona e rinforza la valenza minacciosa del conflitto relazionale.
Capitolo 15
Le emozioni nella vita organizzativa
La centralità delle emozioni è data per scontata da quanti ogni giorno lavorano nelle organizzazioni.
Le parole della psicologia: affetto, emozione, sentimento e umore
La prima teoria sulle emozioni si deve allo psicologo William James, il quale sosteneva che i cambiamenti fisici
stimolano i sentimenti (se ridiamo siamo contenti). Non c’è accordo fra i ricercatori in merito alla definizione di
un’emozione e a ciò che la costituisce. Ma si può definire distinguendola da altre “parole delle emozioni”:
 Affetto (affect): utilizzato in letteratura come sinonimo di “sentimento”, o di “emozione”, è un termine
generico e include le emozioni;
 Emozione: è uno stato affettivo intenso e di breve durata associato a una causa esterna o interna al soggetto.
Le emozioni hanno un carattere dinamico, si caratterizzano per una fase iniziale, a cui seguono un’evoluzione
e un’attenuazione. Hanno una natura ambivalente e sono spesso intrecciate tra loro (l’odio può mescolarsi
all’amore). Sono accompagnate da modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti
caratteristici a seconda di ciò che si prova e della situazione sociale in cui ci troviamo.
 Sentimento (feeling): secondo Fineman, è l’elemento più soggettivo di ciò che si prova, ossia ciò che sentiamo
in maniera autentica e intima. Nell’ambito della prospettiva costruttivista i sentimenti, cioè ciò che sentiamo,
si distinguono dalle emozioni, cioè da ciò che mostriamo. La prospettiva psicodinamica, invece, non tiene
conto di questa distinzione. Alcuni autori descrivono i sentimenti come stati emotivi che esplicitano la
posizione personale in un determinato contesto o in una relazione. Altri li definiscono come sensazioni
personali che assumono carattere di emozioni quando sono messi in atto in situazioni sociali secondo regole e
norme. Altri ancora distinguono in base alla durata e all’intensità:
∆ sentimenti> + duraturi, - intensi;
∆ emozioni> - durature, + intense.
 Umore (mood): si tratta di uno stato affettivo con intensità minore ma durata maggiore rispetto alle emozioni.
Alcune persone sono di umore stabile mentre altre sono umorali, perché sperimentano un cambiamento
repentino nei loro sentimenti e stati d’animo.
Emozioni, sentimenti, umori e affetti, come sostiene Bowlby, non sono entità discrete. Le emozioni si esprimono in
forma di trame emozionali (emotional texture), intrecci di emozioni diverse. Questi intrecci emotivi mettono in
evidenza il carattere continuamente dinamico e mutevole delle esperienze emotive.
Le emozioni nelle organizzazioni
In ambito organizzativo, l’idea che gli individui siano portatori di una vita emotiva compare soprattutto a partire dagli
studi sulla Western Electric Company di Hawthorne, vicino Chicago, dove alcuni antropologi e psicologi sociali,
coordinati da Mayo, condussero alcune ricerche empiriche e sottolinearono l’importanza della “logica dei sentimenti”.
Dagli anni 30 e per lungo tempo in letteratura per riferirsi alle emozioni si è parlato di “stato morale dei lavoratori”.
Mayo legittima l'idea che le persone che lavorano nelle organizzazioni possiedono dai sentimenti che possono
modificare i comportamenti sia positivamente che negativamente.

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L’interesse degli studiosi per le emozioni nella psicologia delle organizzazioni si è dispiegato in due direzioni
principali. Lungo la prima è stato dato rilievo ad alcune attitudini che possiedono una componente affettiva. In
particolare, le ricerche sulla soddisfazione lavorativa hanno alimentato una letteratura di matrice cognitivista, per
comprendere come l’attività svolta dal singolo influenzi la soddisfazione e quindi i risultati organizzativi.
La seconda direzione è rappresentata invece dalla lettura psicodinamica delle organizzazioni, sviluppata dagli studiosi
radunati interno al Tavistock Institute of Human Realations di Londra. Le ricerche pioneristiche avviate da Jaques
prima e da Menzies poi descrivevano dinamiche organizzative centrate intorno alle diverse configurazioni delle
angosce primarie che le persone rivivono all’interno dei contesti lavorativi. Dalla metà degli anni 80 gli studiosi delle
organizzazioni hanno riscoperto l’interesse per i sentimenti e le emozioni, testimoniato anche dalla nascita nel 2001 di
Emotion, rivista internazionale dell’American Psychological Association.
Le organizzazioni come arene emotive
A partire dagli anni 80 la relativa marginalità dell'interesse per la vita emotiva è venuta meno. Nell'ambito degli studi
organizzativi due prospettive, quella psicodinamica e quella costruttivista, hanno rivitalizzato il dibattito scientifico
intorno alle emozioni che gli individui provano nel loro agire organizzativo. Viene utilizzata la metafora delle
organizzazioni come “arene emotive”. Le organizzazioni sono arene in cui le emozioni sono rappresentate a favore di
un pubblico. Attraverso questa metafora si intende mettere in evidenza due concetti:
- Gli individui emozionati costruiscono l’organizzazione e ciò che essa può raggiungere e produrre;
- Questi attori organizzativi compiono azioni modellate e modificate in virtù delle forze emotive da cui sono
animati;
L’approccio psicodinamico
Gli antichi greci per indicare “emozione” utilizzavano il termine pathos che ha due significati principali:
1. Una caratteristica dell’esperienza o di una rappresentazione artistica che evoca pietà o compassione;
2. Un’esperienza non desiderata, incontrollabile e non soggetta a giudizio… qualcosa di inevitabile, di cui si
soffre.
La prospettiva psicodinamica recupera l’antico significato di emozione associandolo a quello derivante da più recente
francese émotion, che nel XVI (16) secolo significava “movimento” e nel XVII (17) “agitazione”. Ne consegue una
visione plastica e dinamica delle emozioni.
In psicoanalisi le emozioni sono un impulso profondo che spinge all’azione.
Le emozioni rappresentano il collante dei gruppi, ma sono anche le forze che portano alla distruzione. In quest’ottica
un comportamento sbagliato è sempre il prodotto di una qualche emozioni e non il risultato di un’intenzione errata
perché viziata in partenza dalla scarsità di elementi conoscitivi.
L’ansia è l’emozione posta in primo piano negli studi classici psicodinamici nei contesti organizzativi. Si tratta dei
lavori di quegli studiosi che, alla fine della 2 guerra mondiale, radunati presso il Tavistock Institute di Londra,
elaborarono l’approccio psicodinamico allo studio dei sistemi sociali, delle organizzazioni e dei gruppi. Il riferimento
va alle ricerche di James e Menzies che hanno fondato il paradigma delle difese contro l’ansia. L’idea centrale per
questi autori è che il lavoro in sé è un attivatore di ansie. Quando un individuo deve affrontare un compito lavorativo
insieme ad altri, si attivano in automatico due tipi di ansie:
1. Ansie paranoidi: le forme più primitive di angoscia, paura di essere annientati e distrutti;
2. Ansie depressive: profondi timori di non essere capace, di fallire e perdere così la stima delle persone intorno.
Per proteggersi da tali ansie le persone ricorrono a meccanismi di difesa individuali e collettivi. Gli individui, secondo
gli autori, costruiscono la struttura organizzativa per difendersi da tali ansie.
Jaques sostiene che le istituzioni sono il mezzo di cui i loro singoli membri si servono per rafforzare i meccanismi
individuali di difesa contro l’ansia, e in particolare contro il riaffiorare delle prime ansie paranoidi e depressive, e che
uno dei più importanti elementi di coesione che lega gli individui in associazioni umane istituzionalizzate è quello
della difesa contro l’ansia psicotica; in tal senso si può pensare che gli individui esteriorizzino quegli impulsi e oggetti
interni che altrimenti darebbero origine a un’ansia psicotica, e li facciano confluire nella via delle istituzioni sociali di
cui entrano a far parte; ciò implica che dovremmo aspettarci di trovare nei rapporti di gruppo manifestazioni di
irrealtà,
scissione, ostilità, sospetto, e altre forme di comportamento disadattivo, che costituirebbero la controparte sociale di
quelli che apparirebbero come sintomi psicotici in individui che non hanno sviluppato la capacità di usare il
meccanismo di associazione in gruppi sociali per evitare l’ansia psicotica. Qui l’autore sottolinea la visione
strumentale dell’organizzazione: gli individui, secondo Jaques, si utilizzano reciprocamente, caricando tra loro le
relazioni di significati che “disturbano” la relazione stessa.
L’organizzazione offre meccanismi di difesa dalle forme di angoscia primaria, ma nelle sue dimensioni di struttura e
modalità di coordinamento e controllo delle attività, ossia nella sua parte più formale e tangibile, produce un effetto
controintuitivo, ossia diventa essa stessa fonte di ulteriore ansia. È questa l’elaborazione di alcuni studiosi che si
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rifanno soprattutto a Freud. Freud concepisce le emozioni in termini dinamici, potendo esse cambiare oggetto e
trasformarsi sia in altre emozioni, sia soprattutto in altre forme d’ansia. Per questi autori entrare in organizzazione
implica il riattivarsi di antiche ansie primarie, e stare in organizzazione genera nuove angosce, accentuate nel contesto
postindustriale soprattutto dall’incertezza dell’ambiente. L’organizzazione produce così un circolo ansiogeno vizioso e
distruttivo.
Hirschhorn ha elaborato il concetto di “sistema dei normali danni psicologici” per descrivere l’insieme di “offese” che
gli attori organizzativi subiscono quando tentano di collaborare: accade infatti che i soggetti si utilizzino a vicenda e
pertanto si “offendano” reciprocamente attribuendo agli altri poteri, ruoli, atteggiamenti e desideri che non possiedono
alcun fondamento reale e che sono piuttosto il risultato di meccanismi di proiezione messi in atto da loro stessi per
difendersi dalle minacce percepite.
Un ulteriore autore, Baum, ha trovato nelle organizzazioni burocratiche delle caratteristiche che le rendono luoghi
dove l’ansia può attecchire facilmente e diventare un disturbo tossico. Una specificità della burocrazia è il massiccio
ricorso alla gerarchia, che concentra il potere nelle mani di pochi e parallelamente definisce in modo ambiguo le
responsabilità. Questi due aspetti creano uno spazio psicologico vuoto che viene colmato dalle fantasie che alimentano
emozioni intense. Nel proporre questa visione, Baum si discosta dalla teoria delle relazioni oggettuali e ritorna
all’impostazione freudiana, tale per cui sono le fantasie a generare emozioni e non viceversa.
Dalla burocratizzazione e dalla gerarchia consegue cattiva organizzazione. In un’organizzazione burocratica, ma non
solo, i soggetti tendono a creare immagini del proprio capo e della relazione con lui che ricalcano le figure di autorità
incontrate nei primi anni di vita, e che rimandano a sentimenti forti (es. delusione, sospetto, rivalsa) contribuendo a
disegnare una relazione segnata dall’incomprensione.
“La vita organizzativa” di Quaglino illustra i principali contributi dell’approccio psicodinamico. I sentimenti e le
emozioni possono sia contribuire al raggiungimento di un risultato rilevante, sia inibire l’azione organizzativa. Ciò che
sembra costituire un tratto comune alle prospettive ad esso appartenenti è l’idea che il fallimento (o il successo) delle
organizzazioni dipenda dalla capacità di elaborare e contenere le emozioni.
L’approccio costruttivista
Secondo l’approccio costruttivista le emozioni sono apprese nei contesti sociali e organizzativi, e alla loro espressione
sono associate reazioni corporee, anch’esse apprese (“inculcate”), ma con un significato che dipende dalle particolari
circostanze e dalle interazioni discorsive degli attori organizzativi. Nella prospettiva costruttivista il lessico e le
narrazioni sono centrali perché veicolano significati emotivi. Le espressioni verbali e le parole con cui esplicitiamo le
emozioni sono cariche di significati sociali. Ciò comporta che si attribuisca un valore positivo o negativo alle
emozioni in relazione al contesto culturale in cui esse si presentano.
I costruttivisti affermano che le emozioni sono qualcosa che si impara a mostrare, esibire ed esprimere in relazione
alle circostanze e al calcolo dell’interesse personale. Per affrontare questi temi gli studiosi hanno elaborato diversi
concetti.
Hochschild elabora l’emotional labour, che fa riferimento alle emozioni che le persone devono gestire e mostrare al
fine di ricevere una retribuzione e che sono sfruttate dalle organizzazioni per ottenere un profitto. Lo distingue
dall’emotion work, che fa riferimento alla gestione e al controllo dei sentimenti per creare una facciata accettabile nei
contesti sociali.
Secondo la studiosa, il primo (emotional labour) implica due compiti:
1. Non mostrare emozioni incoerenti con le regole organizzative;
2. Mostrare emozioni richieste dall’organizzazione.
Tale lavoro implica uno sforzo per sopprimere le emozioni negative e amplificare quelle positive. Per fare ciò
vengono utilizzate due tecniche:
o Surface acting (recitazione superficiale): indica l’operazione di “mettersi la maschera”, mentre ciò che si
prova rimane invariato e spesso è in contraddizione con ciò che viene mostrato, esprimere ciò che non si
prova;
o Deep acting (recitazione profonda): in base alla quale una persona modifica consciamente e realmente i
propri sentimenti per poter esprimere le emozioni richieste, attuando una trasformazione interna, sopprimere e
modificare ciò che si prova.
Secondo la Hochschild, entrambe le modalità rappresentano una forma di alienazione. La distinzione tra emotional
labour e emotion work non è uguale per tutti gli autori. Infatti, secondo Fineman, l’ emotion work è quello sforzo
psicologico che gli individui sostengono per gestire la discrepanza tra i sentimenti più sinceri che provano e le
emozioni lecite nei contesti organizzativi.
Nello svolgimento di determinate professioni le emozioni sono parte del compito e della funzione.
I modi attraverso i quali le organizzazioni controllano le emozioni sono molti, per esempio forme di ricompensa e
promozione oppure la socializzazione alla cultura organizzativa o esercizio del controllo da parte dei pari. Quando la
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tensione tra ciò che si prova e ciò che si mostra diventa insostenibile il rischio è la caduta nel burnout, nello stress
lavorativo e nell’alessitimia (un insieme di deficit della competenza emotiva ed emozionale, palesato dall'incapacità di
mentalizzare, percepire, riconoscere e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi).
Nei contesti organizzativi, alcune aree emotive (emotional zones) sfuggono al controllo. I setting organizzativi sono
infatti socialmente costruiti secondo le categorie di pubblico/privato, esposto/protetto, indifeso/sicuro, back stage/front
stage. Alcune di queste aree sono per es. la cucina di un ristorante, la sala professori, il corridoio per gli studenti, e
così via, posti dove si possono manifestare senza imbarazzo i sentimenti più autentici, offrono ai soggetti la possibilità
di sottrarsi alla fatica emotiva e al lavoro emozionale in spazi sicuri e protetti, nascosti alla vista di coloro ai quali
offrono un servizio (capi). L’utilizzo di Internet nei contesti di lavoro ha aperto nuove aree emozionali. Nell’approccio
costruttivista la riflessione teorica è stata supportata da 3 testi di Fineman, che rappresentano il punto di arrivo di un
percorso di circa un ventennio.
Lungo il sentiero delle trame emozionali: ulteriori sviluppi
In psicologia del lavoro e delle organizzazioni l'interesse per le emozioni si è diffuso soprattutto nei discorsi sulle
competenze e sulla salute occupazionale. A partire dagli anni ’90 si è data enfasi alla capacità di provare passioni e di
esprimere i mostri sentimenti allontanandosi da un’immagine del mondo del lavoro che legava l’efficienza alla pura
razionalità. Il concetto di Intelligenza emotiva si è affermato come un punto di riferimento imprescindibile e viene
definita, da Salovey e Mayer, come l’abilità di identificare, comprendere e monitorare le proprie e altrui emozioni, e di
usarle per guidare i propri pensieri e le proprie azioni. Le ricerche hanno evidenziato che l’intelligenza emotiva può
contribuire a spiegare la performance, oltre alle abilità cognitive e altri tratti di personalità.
L'altro ambito in cui è sempre più diffusa la riflessione sulle emozioni è quello della salute e del benessere al lavoro.
Qui oltre l'emotional Labor e l'emotion work, hanno offerto contributi importanti le ricerche sulla regolazione delle
emozioni. James Gross ha proposto un modello (process model of emotion regulation) riguardo le strategie che i
lavoratori usano per gestire le emozioni e sugli effetti di tali strategie sulla salute, sugli atteggiamenti e sui
comportamenti delle persone a lavoro. Il processo di regolazione delle emozioni interviene per aumentare il valore
adattivo delle emozioni attraverso la modulazione della forma espressiva o la trasformazione dell'emozione stessa.
Poiché il lavoro di regolazione è considerato un processo indispensabile per l'adattamento dell'individuo all'ambiente
la ricerca si è concentrata sull’individuare le strategie attraverso cui le persone costruiscono tale adattamento. Gross ha
distinto tra:
 strategie basate sull'antecedente: agiscono nella fase di genesi dell'emozione e cambiano ciò che si prova
agendo sugli eventi-stimolo o sulla valutazione degli stimoli
 strategie basate sulla risposta emotiva: agiscono nella fase di esibizione dell'emozione e influenzano la
risposta comportamentale -> comportano una maggiore attivazione fisiologica e un maggiore sforzo cognitivo
rispetto alle strategie di rivalutazione del significato di ciò che sta succedendo.
Non esiste strategia migliore, perché la regolazione delle emozioni dipende dalle caratteristiche della persona, dal
contesto e dagli obiettivi che la persona ha in quel contesto.

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