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Psicologia delle organizzazioni

Psicologia del Lavoro


Università degli Studi di Catania
82 pag.

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PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI
CAP 2: COMUNICARE E ORGANIZZARE
Organizzazione è un intreccio di rapporti tra persone che si passano informazioni e si scambiano
messaggi, cioè una rete di comunicazione. L’organizzazione è vista anche come esercizio e
mantenimento di un complesso di relazioni dove è possibile lo scambio di significati. In questo
modo si aboliscono quelle critiche che sostengono che le organizzazioni siano posizioni predefinite
in cui la comunicazione interviene “in seconda istanza”.
CHIARIMENTI TERMINOLOGICI
Il termine organizzazione può essere utilizzato in diversi modi:
 organizzazione come un corso di decisioni e azioni: quando l'attenzione cade sulla
circostanza materiale di una molteplicità di persone che agiscono insieme per proseguire
uno o più scopi. Il corso di decisioni e di azioni cambia nel tempo poiché attraversa
situazioni sempre diverse e uniche -> in questo caso viene utilizzato il termine PROCESSO.
Però può succedere che nel trascorre del tempo qualcosa non cambi, ci appare stabile e
ripetitivo -> in questo caso viene utilizzato il termine ORGANIZZAZIONE.
La COMUNICAZIONE è il passaggio di significati tra due o più attori o aggregati collettivi coinvolti
nel processo.
LA COMUNICAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI: UNA PROSPETTIVA DI LETTURA
Il comunicare serve il processo sia in quanto esplica una funzione di ordinamento (ossia istituisce
un ordine in base al quale considerare il flusso di eventi che caratterizza l'organizzazione), sia in
guantone sottolinea gli aspetti di regolarità e permanenza. Un primo aspetto rilevante per la
comunicazione è costituito dal disegno organizzativo, ovvero dal modo in cui viene rappresentato
l’insieme delle attività e delle relazioni (tra persone, uffici, etc.), che fissa la fisionomia di una
organizzazione.
Data una dimensione del disegno, per esempio la gerarchia, si può descrivere flusso delle
comunicazioni come fosse dipendente da essa (es distinguendo percorsi top down, dal capo hai
sottoposti e viceversa percorsi Button up). Questo modo di ragionare tende però a reificare le
dimensioni del disegno e tratta la comunicazione come conseguenza del processo piuttosto che
come suo elemento costitutivo. Dunque si possono osservare intrecci di comunicazioni diversi da
circostanza a circostanza.
 comunicazione formale: cioè quella prevista dal disegno
 comunicazione informale: residuale rispetto alla precedente
Nella nostra prospettiva invece l’intreccio che la comunicazione assume dice come le persone
interpretano la gerarchia, cioè ordinano secondo il loro punto di vista -> il processo. E la funzione
di ordinamento è sempre esercitata dagli attori che entrano nel corso di azioni pur tenendo conto,
a un certo grado di consapevolezza e di condivisione, dei fatti istituzionali rilevanti (in questo caso
di quale sia il disegno organizzativo). Ricordando che il corso di azioni comprende relazioni causali
e costitutive, possiamo dire che il comunicare, in quanto passaggio di significati, comporta sempre
una relazione costitutiva (se parlo con qualcuno per spiegargli cosa fare, il parlare non causa, bensì
costituisce lo spiegare). Ma ciò non esclude che esista un rapporto tra comunicazione e agire
strumentale in forme diverse. Consideriamo due esempi estremi.
Nel primo un capo impartisce ordini a un dipendente. L’effetto sul corso d’azioni è quindi diretto e
immediato, la comunicazione è di tipo uno a uno (tra due persone). Nel secondo caso
consideriamo una campagna pubblicitaria di tipo istituzionale, dove il messaggio è far sapere al
pubblico che una certa azienda è attenta ai problemi ecologici, dunque si punta a promuovere
l’immagine dell’azienda. Qui chi comunica è un ente astratto (un’azienda, un brend), il
destinatario non è univocamente individuato, e la trasmissione è affidata a una particolare
tecnologica, utilizzando i meccanismi di comunicazione di massa. Per quanto riguarda i

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partecipanti della comunicazione, vediamo quindi che si può comunicare in quanto singoli
individui che si rivolgono ad altri singoli individui (in prima persona), o per conto di un ente
rivolgendosi ad altri enti o collettività (in terza persona), o da una persona a una collettività e
viceversa (circuiti misti). Il grado di reciprocità dello scambio comunicativo può essere
unidirezionale o bidirezionale. Per quanto riguarda le finalità della comunicazione organizzativa,
essa può essere intesa a influenzare il corso d’azioni in maniera esplicita e diretta oppure a
modificare, ribadire, generare significati che connotano un certo ente. Infine, le comunicazioni
posso essere diversificate sulla base degli strumenti che impiegano. Si possono distinguere:
 strumenti diretti, che caratterizzano le situazioni comunicative in presenza e sono basati
sui rapporti interpersonali
 strumenti indiretti, che fanno riferimento a mezzi e tecnologie che permettono di
moltiplicare i contatti di un messaggio e lo rendono disponibile in tempi e luoghi lontani
dalla circostanza di produzione.
È possibile identificare alcuni circuiti fondamentali che costituiscono l’ambito della
comunicazione aziendale e che derivano dall’incrocio da un lato delle diverse tipologie di
partecipanti e dall’altro del loro ruolo come emittenti o destinatari della comunicazione.
Riguardo al primo aspetto, le possibili categorie sono:
 Singole persone: un operatore, un manager, un cliente;
 Enti interni: brand, marca, dipartimento, intera azienda, ecc (operai, impiegarti);
 Enti esterni: pubbliche amministrazioni o loro parti, altre aziende o loro parti, sindacati,
associazioni, ecc.;
 Pubblici esterni: collettività rilevanti e circoscritte secondo qualche criterio (opinion leader,
comunità professionali, clienti, cittadini, ecc.).
Se combiniamo a matrice questi vari partecipanti, distinguendo tra emittenti (in riga) e riceventi (in
colonna), otteniamo 7 principali circuiti caratteristici della comunicazione aziendale,
ulteriormente qualificabili in base alla direzionalità del flusso comunicativo e al tipo di strumenti
che li caratterizzano:
 Il circuito A (persone-persone) è quello della comunicazione interpersonale o in prima
persona. È sempre bidirezionale e può utilizzare tecnologie del tipo uno a uno;
 Il circuito B (persone-pubblici) sottende canali da uno a molti, come quando un relatore
parla a una comunità scientifica o professionale (convegni, convention, ecc.). E’
moderatamente bidirezionale. Non usa di solito media particolari, salvo l’impiego recente
di e-mail;
 Il circuito C (enti interni-persone) comprende i messaggi rivolti da un ente interno a
singole persone. Riguarda la comunicazione di raccordo. Esso sottende oggi anche
tecniche di marketing personalizzato. È solitamente bidirezionale e può usare tecnologie
quali telefono, mail, internet;
 Il circuito D (enti interni-enti interni) è quello comunemente noto come
comunicazione interna. È solitamente monodirezionale e attrezzato con le più varie
tecnologie;
 Il circuito E (enti interni-enti esterni e enti esterni-enti interni) connette enti interni con
enti esterni secondo l’approccio conosciuto come business-to-business. Può essere
bidirezionale e si serve di un’ampia gamma di media;
 Il circuito F (enti interni-pubblici) è quello classico della pubblicità, a volte della
promozione, del marketing sociale;
 Il circuito G (pubblici-enti interni) è quello che la riforma dei pubblici servizi ha battezzato
“comunicazione di accesso”. Esso dà voce ai pubblici verso gli enti e comprende strumenti
come la gestione delle lamentele e la customer satisfaction. In quanto canale bottom up

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dovrebbe servire la partecipazione. A volte è immediatamente bidirezionale.
Normalmente è mediato da tecnologie.
Non tratteremo in questa sede i circuiti A e B. La comunicazione interpersonale nelle sue
diverse accezioni rimanda a un retroterra clinico che non è possibile in questa sede
tematizzare adeguatamente. Per limiti di spazio, rinunceremo anche ad approfondire il circuito E
della comunicazione interorganizzativa.
Come sostiene Jakobson, la comunicazione comporta sempre un contesto, cioè un complesso di
conoscenze e significati che emittente e ricevente hanno in comune. Questa accezione di
“contesto” relativa al comunicare è compatibile con quella precedente relativa all’organizzare. Lo
statuto di un’azienda o la sua articolazione in dipartimenti sono, per così dire, gli atti; sono
documenti legittimamente deliberati. Il punto è che quegli atti, quei documenti (quei fatti
istituzionali), intervengono a influenzare il corso di azioni (il suo ordinamento, la sua
organizzazione) solo nella misura in cui sono consapevoli per i singoli attori e da essi, almeno in
parte, condivisi. Il contesto è appunto tale cornice simbolica. Tutto ciò mette a fuoco due
importanti nessi nella intersezione tra comunicare e organizzare. Da un lato il comunicare e
l’organizzare tendono a coincidere: la funzione di ordinamento del processo consiste perlopiù in
un evento comunicativo. Dall’altro lato, l’organizzazione non può stemperarsi nella
comunicazione: in primo luogo le posizioni dei partecipanti entro l’evento comunicativo spesso
preesistono all’evento stesso e non sono da esso modificate; inoltre, il contesto e i significati che
lo alimentano sono condizione dell’evento comunicativo, ma non si esauriscono in esso; mentre lo
specifico delle organizzazioni (la loro identità in terza persona) consiste appunto in quel
multiforme e vario patrimonio di cornici simboliche (l’intelaiatura istituzionale) che, fatto proprio
dai contesti, orienta l’agire degli attori. Potremmo quindi affermare che senza comunicazione non
si darebbe organizzazione, e però, nel contempo, senza organizzazione non si darebbe
comunicazione.

IL CIRCUITO C E LA COMUNICAZIONE DI RACCORDO


Da ente interno (mittente) a persone (ricevente). Specie per le aziende che producono servizi, si
danno parecchie circostanze in cui le persone si collocano sui confini del processo, in ingresso (es.
lo studente che si iscrive all’università) oppure in uscita (es. lo studente che si laurea). Tali
circostanze possono essere rare o addirittura uniche e comportano novità e un insolito carico
informativo solitamente affrontato mediante la comunicazione. Pensiamo a un circuito tra un ente
(emittente) e una persona (ricevente): l’addetto è sì una persona, ma agisce in nome e per conto
dell’ente a cui appartiene; il rapporto è dunque diverso da quello tra medico e paziente, che si
inscrive nella comunicazione interpersonale. Ci troviamo comunque in entrambi i casi sul confine
di un processo. E ciò ha implicazioni particolari proprio in quanto qualcuno va familiarizzato e
accolto entro un mondo, o va da esso congedato. Per quanto riguarda la comunicazione di
raccordo in ingresso, vanno messi in evidenza 3 aspetti: funzione di contenimento, di accoglienza e
contrattuale. La risposta è in primo luogo di contenimento, poiché rivolta a orientare il nuovo
arrivato, costruendo in maniera preventiva i significati che orientano un campo d’azione,
anticipando le richieste, le attese, i bisogni informativi dell’utenza, prendendo in carico l’altro e le
sue esigenze anche di fronte all’imprevisto. A tal fine diviene indispensabile conoscere l’utenza,
partendo da un’analisi della domanda. Infine, è fattore di efficienza e di efficacia la diffusione e la
disponibilità tra operatori e utenti di una comune cultura di servizio. È cioè opportuno che
l’organizzazione, in quanto apparato simbolico, tacito ma condiviso, sia comunque presente. Il
secondo momento significativo sul percorso del servizio è quello in cui il cliente entra fisicamente
in rapporto con l’unità operativa (es banca) per fruire di una prestazione. Qui parliamo di una
funzione di accoglienza in quanto l’utente deve essere ricevuto, riconosciuto come persona, oltre

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che amministrativamente. Si tratta di un rapporto simmetrico (equità). Questa fase iniziale spesso
si chiude con la stipulazione di un patto: è la funzione contrattuale, dove tempi, modi e condizioni
del servizio e dell’assistenza vengono esitati a fronte di esborsi pecuniari, rischi, sofferenze e altro.
La funzione contrattuale deve essere esplicita, equa, condotta come un diritto, e non un favore,
con la massima qualità possibile. Quanto alle competenze richieste da questi 3 compiti, la
tradizione è abbastanza superficiale nel ridurle all’addestramento relazionale (sorridere, salutare,
etc.) del personale di prima fila. Piuttosto, nella comunicazione di raccordo in ingresso la sfida
maggiore consiste nel costruire un ambiente che comunichi. Un aspetto collaterale della
comunicazione è la capacità di gestire l’informazione, nel senso di individuare gli elementi
essenziali da ricevere e da trasmettere e archiviarli così da averli a disposizione quando servono. A
questo fine possono essere utili gli strumenti informatici. La possibilità di mantenere e seguire nel
tempo il rapporto col cliente/utente è una delle funzioni proprie della comunicazione di raccordo
in uscita. Essa ha al riguardo innanzitutto una funzione conoscitiva, del cliente e delle sue
preferenze. E ciò serve anche a stimolare l’interesse del cliente stesso in risposta al sentirsi
riconosciuto e tenuto in considerazione. Per queste attività è importante Internet. Si prenda ad
esempio il caso del Customer Related Management (CRM), come ambiente che permette di
accumulare sapere sul cliente e come strumento di contatto e di interlocuzione personalizzata col
cliente stesso. Negli anni più recenti si è verificato un notevole incremento dell'attività di
conoscenza che caratterizza la comunicazione di raccordo in uscita. Vi è stato un aumento in
quantità e potenza degli strumenti e dei canali di comunicazione, dovuta a nuove abitudini
comunicative. Oltre alle richieste di informazioni provenienti dalle organizzazioni anche i clienti
stessi, di propria iniziativa, forniscono delle informazioni utili all'organizzazione come per esempio
la pubblicazione su Instagram degli ultimi acquisti fatti, i messaggi su Twitter, le foto su Facebook
per far vedere agli amici il piatto che si sta per consumare in un ristorante (“recenzioni”). Dunque,
la conoscenza del cliente può trasformarsi in rischio in quanto esercita un controllo
sull’organizzazione. La moderna tecnologia rende trasparente non solo l'organizzazione ma anche
la vita privata stessa delle persone. In questi esempi la comunicazione di raccordo persegue
l’obiettivo di garantire la fidelizzazione (rendere fedeli) della clientela e di massimizzare la qualità
delle relazioni con il cliente. Ma essa ha anche funzioni più complesse. Si pensi al contesto della
sanità, e alla questione del rapporto tra servizio e pazienti cronici. In tale situazione sono in gioco
compiti quali informazione, monitoraggio, riabilitazione (se si preferisce, prevenzione secondaria e
terziaria) suppongo non controllo sul decorso della sindrome e vengono in larga parte esercitati
comunicando. Le opzioni fondamentali che la prevenzione secondaria e terziaria adotta nei
confronti del paziente cronico possono venire ridotte a 2:
 La prima mantiene la centralità del medico, e localizza gli interventi entro la struttura
sanitaria;
 la seconda mira a sviluppare, sul piano sia cognitivo sia affettivo, l’autonomia del paziente,
a decentrare, quanto possibile, gli interventi entro le mura domestiche e a far diventare
l’infermiere l’attore centrale del processo preventivo.
In assenza di una precisa strategia, si prende in considerazione la prima opzione, si consolida la
dipendenza del paziente dal medico e si favorisce il ricorso ai servizi specialistici; la gestione del
paziente resta in sostanza affidata alla comunicazione interpersonale. Esistono però alternative e
sperimentazioni che guardano ai programmi di riabilitazione seguendo la seconda strategia:
questa infatti permette una più estesa copertura dell’utenza, una maggiore efficacia riabilitativa,
un sensibile abbattimento dei costi sanitari. Ne è esempio il modello Multifit, utilizzato a Stanford
e ispirato alla teoria sociocognitiva di Bandura. Il cuore del modello è costituito da un programma
integrato, messo a punto dall’equipe specialistica, che contempla per una specifica patologia gli
aspetti diagnostici, farmacologici, riabilitativi, psicologici. Tale programma fornisce una base di dati

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computerizzata che, mentre pilota la démarche preventiva, sedimenta la storia dei singoli pazienti.
La gestione del processo è affidata a un infermiere che opera di concerto col medico specialista.

IL CIRCUITO D E LA COMUNICAZIONE INTERNA


Da ente interno (mittente) a ente interno (ricevente). Analizziamo la distanza tra singoli attori e
processo. Innanzitutto parliamo di perifericità in quanto l’attore:
a) cade sui confini temporali del processo (in ingresso e in uscita),
b) è presente in maniera più o meno assidua all’interno del corso d’azioni.
La perifericità esprime però solo una componente della distanza. La marginalità ha a che fare col
rapporto dell’attore con il patrimonio dell’intelaiatura istituzionale, cioè il patrimonio di simboli e
significati. La marginalità è tanto maggiore quanto minore la possibilità di plasmare l’intelaiatura
istituzionale (di intervenire sulle condizioni di riproduzione sociale del processo). Essa riguarda
quindi la discrezionalità sulle regole e sulla loro formulazione. Si comprende come marginalità e
perifericità siano dimensioni tra loro non necessariamente correlate (es. le posizioni poco
periferiche, ma molto marginali, come i dipendenti subalterni). Dimensioni come attenzione,
interesse, appartenenza, commitment, dipendono da quanto l’attore può incidere sulla funzione di
ordinamento, e dalla quota di senso di cui è in grado di appropriarsi. Ove la quota di senso sia
minima, l’attore tenderà a enfatizzare gli aspetti estrinseci della sua posizione entro il processo,
cioè a ricercare altrove opportunità di coinvolgimento. Tutto ciò riguarda molto la comunicazione,
in quanto è mediante essa che gli attori esprimono l’intelaiatura istituzionale ed entrano nel
circuito della sua accumulazione, appropriazione e riproduzione. Infatti la comunicazione serve il
processo e sostiene la funzione di ordinamento. La centralità della comunicazione, per motivare gli
attori conferendo senso all’agire organizzato, ha nel tempo dato corpo a un particolare
armamento utilizzato dalle aziende a questo scopo: la comunicazione interna. La figura 2.2 (pag.
38) raccoglie i principali strumenti della comunicazione interna distribuiti su 4 livelli la cui
successione si basa su alcuni vettori. Vi è innanzitutto un gradiente cronologico-evolutivo. Il
sistema base (con assenza di segmentazione) e il sistema dalla motivazione gerarchica
rappresentano l’impianto minimo più antico e tradizionale della comunicazione interna, ereditato
da un assetto fortemente orientato alla stabilità e alla centralizzazione. Il sistema della
motivazione professionale è il riflesso di un disegno organizzativo più leggero e knowledge
intensive. Mentre il sistema per la circolazione dell’innovazione è rivolto agli assetti a rete o
comunque fortemente decentrati. Si tratta di un sistema volto al cambiamento, ma soprattutto a
garantirlo in tempi relativamente brevi. Si può quindi guardare ai due livelli superiori della figura
come a sistemi di supporto al governo (omologare, controllare); e ai due inferiori come a sistemi di
supporto alla gestione dei saper fare e delle risorse tecnologiche (coordinamento, sviluppo
professionale, creatività), aspetti che presuppongono quindi una maggiore attenzione alla
formazione specialistica. L’ordinamento dei livelli riflette anche una progressiva maggiore
sensibilità dell’azienda verso il proprio ambiente circostante (tecnologie, mercato). Ciò è
esplicitamente espresso dal vettore attenuazione delle barriere interno/esterno, proprio del
sistema per la circolazione dell’innovazione. Sul piano della fruizione dei media e dell’informazione
sulla stessa azienda non è sempre facile tracciare una netta linea di confine tra interno e esterno,
specie se l’azienda è spesso al centro della cronaca economica. L’innovazione richiede che
vengano presidiati i circuiti tecnologici in larga misura sovra-aziendali, mentre la rapidità del
cambiamento dipende dalla permeabilità di ampie fasce dell’organizzazione agli accadimenti
esterni rilevanti. Se si guarda ai 4 livelli sotto il profilo dello scambio e della negoziazione di
significati, si può osservare come si passi da un patto fusionale e indifferenziato a richieste sempre
più modulate sulle prestazioni e i risultati. La richiesta di fedeltà del sistema base, in cambio di

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sicurezza e stabilità, è incarnata sul modello arcaico della famiglia (foto di gruppo col padrone al
centro). Ma la famiglia cresce, e allora bisogna creare riti, ricorrenze e celebrazioni per rafforzare
la coesione e il vincolo di appartenenza. Ma dilatandosi ulteriormente la famiglia, anche i grandi
appuntamenti divengono ingestibili. Si ricorre allora ai media: nascono gli house organ, le
newsletter, etc. per garantire la coesione reiterando l’antico patto. La crisi del sistema base è in
parte conseguenza dei suoi stessi caratteri originari: la genericità dei contenuti e l’assenza di
segmentazione. Ciò è in parte conseguenza del logoramento del patto di fedeltà e della difficoltà
per i vertici di interloquire direttamente con i dipendenti. Anche se il sistema base non ha
comunque perso del tutto la sua attualità, come testimonia ciò che molte aziende fanno per
favorire il cosiddetto work-family balance. Il sistema della motivazione gerarchica introduce una
prima naturale segmentazione dei circuiti di comunicazione. Mentre il sistema base si esprime
soprattutto sul piano della simbolizzazione affettiva (modello familistico) la segmentazione
gerarchica serve anche una elaborazione di contenuti, e quindi manager e quadri posseggono il
duplice ruolo di destinatari e veicoli della comunicazione stessa. I media hanno anche un versante
simbolico. Ad esempio nella foto di gruppo la prossimità al vertice, al capo, può già dare un’idea
della stratificazione gerarchica. L’impatto della tecnologia e della specializzazione conferiscono al
lavoro un maggiore contenuto di conoscenza, e l’esigenza di costruire qualità dal basso che
inducono a conferire responsabilità e discrezionalità rispetto al risultato finale (prodotto) a tutte le
persone coinvolte. È questo il sistema della motivazione professionale, che comporta una
segmentazione più spinta in base a variabile professionale/organizzativa. Ciò che distingue questi
media interni rispetto a quelli più tradizionali è la loro specificità, il fatto che siano diretti ad
audience limitate e caratterizzate da forte omogeneità anagrafica e professionale. Alcune aziende
danno pertanto vita a pubblicazioni (dossier, riviste, etc.) in cui vengono ospitati i contributi dei
dipendenti accanto a quelli di esperti esterni, garantendo una circolazione di tali pubblicazioni non
limitata all’audience locale. A fronte delle nuove richieste vi è la nuova promessa: non più la
stabilità, ma il successo, la crescita culturale e professionale oltre lo spazio aziendale, in uno spazio
che è il mercato. La rilevanza della competenza segna un momento storico in cui le imprese
scoprono la centralità delle risorse immateriali. Diviene quindi evidente che la distinzione consueta
tra impresa e ambiente, il confine tra il dentro e il fuori, diviene critico, perché le contingenze
esterne da presidiare si allargano dalla forza lavoro e dalle materie prime alle relazioni e alle
opinioni, perché dai tradizionali modelli funzionali si passa a logiche di rete. E tutto ciò rende
necessaria una rapidità nel decidere e nell’adeguarsi ai cambiamenti, in quanto si opera in presa
diretta (just in time) con la turbolenza ambientale, tramite un ricorso ampio alla delega e al
commitment, essenziale alla comunicazione per favorire libertà e creatività degli attori lungo il
processo. Sotto il profilo del tempo e della permeabilità importa, ai fini della competitività, da un
lato la tempestività con cui le aziende seguono e accompagnano l’evoluzione del sapere
tecnologico, dall’altro la velocità con cui integrano le nuove idee e i nuovi stimoli nel proprio
patrimonio culturale. Il sistema di circolazione dell’innovazione aiuta appunto ad assottigliare le
barriere tra mondi interno e mondo esterno, per garantire tale scambio. Sotto il profilo della
delega si tratta di decentrare discrezionalità e snodi decisionali, e di concepire percorsi autonomi e
almeno in parte divergenti per generare e accumulare significati, permettendo la diversità. La
difficoltà sta nell’accogliere e tollerare le tendenze centrifughe evitando che l’insieme degradi e si
decomponga.
IL CIRCUITO F E LA COMUNICAZIONE ESTERNA
Da ente interno (mittente) a pubblici (ricevente). La comunicazione esterna tende a essere
identificata con la comunicazione finalizzata a promuovere sul mercato i prodotti (beni/servizi)
dell’organizzazione per sostenerne l’attività. Dunque un’attività comunicativa rivolta
essenzialmente al cliente finalizzata ad accrescere il numero e a sollecitare il comportamento di

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acquisto attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a carattere generalista, senza particolare
attenzione alla modulazione del messaggio in funzione della sua specificità. La comunicazione
pubblicitaria è indicata tra gli strumenti più importanti. In questo impiego strumentale della
comunicazione si sconta anche un’idea ingenua di cosa significhi comunicare all’esterno per
un’organizzazione, quasi si trattasse di estendere semplicemente a essa un’attività ovvia e abituale
per ciascuno di noi. In fondo tutti comunichiamo quotidianamente e non abbiamo bisogno di
apprendimenti specifici per farlo. Le piccole dimensioni e il carattere familiare delle PMI (piccole e
medie imprese) contribuiscono a questa idea. Infatti da un’indagine condotta nel 2002 da TNS
Abacus per conto dell’Unione Nazionale delle Imprese di Comunicazione (UNICOM) risulta che
l’attività di comunicazione, nell’assoluta maggioranza dei casi, non rientra in un piano strategico,
ma è realizzata per affrontare di volta in volta problemi contingenti. Inoltre le questioni di
comunicazione non sono affidate a professionisti, ma gestite direttamente o dalla dirigenza o dal
titolare/proprietario. Vi è peraltro un ritardo culturale, dovuto anche a interventi legislativi, che
sollecita queste ultime e le associazioni impegnate nel sociale a interpretare il comunicare al
pubblico quasi esclusivamente secondo un modello informativo unidirezionale. La logica sottesa è
che sia sufficiente fornire ai cittadini l’informazione rilevante, in base a saperi esperti, perché
questa sia acquisita e utilizzata per modificare i propri comportamenti e adottare le condotte
sollecitate. In realtà l’attività comunicativa di un’organizzazione verso l’esterno si configura come
un’attività altamente specialistica, che necessita competenze specifiche. Sempre più, inoltre, si
configura come un’attività strategica nella regolazione dello scambio fra domanda e offerta. Non a
caso, spesso si utilizza la parola comunicazione quale equivalente del marketing, con una
sineddoche (una parte per il tutto) impropria ma rivelatrice. La messa a punto di una
comunicazione è il risultato di un processo che prevede attività di ricerca sui destinatari, messa a
punto dei messaggi e di pianificazione circa i canali della loro diffusione, e alle attività di
monitoraggio da mettere in atto per controllarne gli esiti raggiunti. Se nella fase della diffusione
dei beni di massa poteva bastare costruire comunicazioni “semplici”, indifferenziate rispetto ai
destinatari, centrate sulle caratteristiche dei prodotti, veicolate attraverso i canali di massa
(broadcasting), con il saturarsi della domanda diventa cruciale saper modulare l’offerta in funzione
delle caratteristiche degli interlocutori, riconoscendo l’impossibilità di comunicare a tutti nello
stesso modo (narrowcasting). Si arriva così ai giorni nostri, dove ciò che viene proposto nella
comunicazione al pubblico è quasi sempre meno un prodotto, quanto piuttosto un’esperienza,
possibile grazie alla relazione con il bene offerto. Bene che è sempre più connotato in termini
immateriali, relazionali. È una comunicazione in cui l’unidirezionalità del messaggio lascia il posto a
flussi pluri-orientati, in cui i destinatari possono venire cooptati per definire, essi stessi, i contenuti
del bene o del servizio e le forme della sua comunicazione. Ci si trova di nuovo di fronte a un
assottigliarsi delle barriere tra interno e esterno dell’organizzazione. Si spiega così il successo delle
tecnologie “mobili” e di internet, luogo (virtuale) dove può realizzarsi l’incontro tra
l’organizzazione e i suoi pubblici secondo una modalità interattiva, avviando una “conversazione”.
È Un luogo abitato da personaggi come gli influencer che grazie alla loro popolarità sul web
promuovono i prodotti delle aziende con grande libertà nel decidere come comunicare.
L’informazione sui beni o sui servizi non è la finalità più importante della comunicazione esterna,
ma ciò che primariamente è oggetto di comunicazione da parte di una organizzazione sono
piuttosto dei simboli, mediante i quali essa si rende riconoscibile ai suoi pubblici, costruendo la
propria identità e promuovendo la propria immagine. E così nei messaggi ciò di cui si parla non
sono tanto le cose quanto piuttosto il brand, cioè la rappresentazione, l’immagine del prodotto
attraverso i suoi connotati affettivi e razionali con i quali si vuole sia percepito dai destinatari. È
sull’immagine, cioè sul correlato oggettivo della percezione dei consumatori, che si misura
l’efficacia della pubblicità, su di essa ancor prima delle vendite; si tratta cioè di influenzare dei

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valori percepiti dal pubblico, e tramite questi le sue azioni. Negli anni recenti, il concetto di brand
si è esteso all’organizzazione nel suo complesso. Si parla quindi di corporate brand, espressione
vicina a corporate identity, con la quale si fa riferimento al modo con cui l’organizzazione si
rappresenta ai propri stakeholder, in modo distintivo e riconoscibile nel tempo, mirando in tal
modo a costruire un legame di fiducia con i propri interlocutori. E così la comunicazione esterna
per un’organizzazione assume una valenza strategica.
La cura della relazione e la ricerca di fiducia possono essere lette positivamente come tentativo di
ridurre le distanze tra l’organizzazione e i suoi interlocutori e di sollecitare la partecipazione di
questi ultimi, ma anche in senso strumentale e utilitaristico: è la comunicazione seduttiva, quella
forma di comunicazione in cui convivono una forte esposizione dell’emittente e una pesante
pressione sul ricevente. Con riferimento alle funzioni della comunicazione di Jakobson, il circuito
seduttivo è quello in cui si cerca di indurre i destinatari a mettere in atto un certo comportamento
(funzione conativa), curando il contatto attraverso modalità di particolare efficacia e impatto
(funzione fàtica), in cui ciò su cui verte la comunicazione è presentato in maniera particolarmente
curata e tale da farne emergere la bellezza, rilevanza, utilità, ecc. (funzione poetica); nel fare ciò,
l’emittente è indotto a esporsi molto, proponendo una propria immagine (funzione espressiva)
come dotata di valore e sintonica con quella dei propri interlocutori. Nuovamente con le parole di
Volli: “La seduzione è un tipico effetto espressivo, che dipende dalla capacità dell’emittente di
esprimere un forte valore di se stesso. Per raggiungerlo è necessario però farsi vedere, cioè
operare un contatto efficace (effetto fàtico) e un’azione conativa. Il rapporto tra emittente e
ricevente è di identificazione di valori: se tu verrai con me, sarai come me”. Tempo fa, il filosofo
francese Baudrillard sosteneva che la pubblicità omette i processi oggettivi, la storia sociale degli
oggetti, per poter meglio imporre, attraverso l’istanza sociale immaginaria, il sistema reale di
produzione e sfruttamento: “La società si adatta a voi: integratevi nella società. Ma il trucco della
falsa reciprocità è evidente: un’istanza immaginaria si adatta all’individuo, mentre l’individuo
dovrebbe adattarsi a un sistema reale e concreto”.
IL CIRCUITO G E LA COMUNICAZIONE D’ACCESSO
Da pubblici (mittente) a ente interno (ricevente). Il circuito G è quello in cui la partecipazione
diviene una richiesta esplicita dell’organizzazione ai suoi pubblici e ne è anche resa nota la finalità:
raccogliere informazioni sulla relazione o sui prodotti proposti. Dal punto di vista della
comunicazione organizzativa, le parti sono invertite: ora è l’organizzazione a porsi in ascolto
(ricevente) nei confronti di un messaggio prodotto dal pubblico (emittente). Dal punto di vista
formale, la comunicazione di accesso configura un circuito di retroazione che può contribuire alla
stabilità della relazione o dello stato di cose (omeostasi), o al suo cambiamento; come tale, risulta
per definizione un circuito bidirezionale. Solitamente, questo circuito comunicativo è associato a
organizzazioni di servizio, in particolare appartenenti alla Pubblica Amministrazione PA. È un
circuito che si sta diffondendo, sollecitato dalla sempre maggiore pervasività delle organizzazioni e
dal corrispondente incremento negli individui della consapevolezza dei propri diritti, quali
consumatori o utenti o cittadini, e dell’esigenza di trasparenza sui processi da cui dipendono. Ne
sono esempio le indagini di customer satisfaction in molte organizzazioni. I modi in cui si
concretizza la comunicazione di accesso sono riconducibili a 2 forme fondamentali.
A) La prima è quella in cui il singolo utente si rivolge all’organizzazione per esprimere un giudizio,
un reclamo, una richiesta, e si materializza, presso la PA, tipicamente negli Uffici per le relazioni
con il pubblico URP. Assimilabili agli URP, ma con funzioni meno ampie e formalizzate, sono gli
uffici reclami di un’azienda. Sempre più spesso tale forma si realizza con call center e numeri
telefonici dedicati. La gestione della comunicazione da parte dell’organizzazione, in questi casi,
ripropone le questioni discusse per la comunicazione di raccordo, in merito alle funzioni di
contenimento, accoglienza, contrattuale.

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B) La seconda forma attraverso la quale trova spazio la comunicazione dal basso è quella
rappresentata dalle indagini campionarie mediante le quali sono raccolte le opinioni degli utenti.
Sia nel caso di contatti dei singoli che di raccolta di dati campionari, si favoriscono l’accessibilità dei
canali da parte degli interlocutori e l’opportunità di esprimere il proprio punto di vista, evitando
luoghi poco visibili e periferici, così come lunghe attese e complesse procedure. Vi sono tuttavia
critiche rivolte ai questionari riguardo alla loro capacità di cogliere le rappresentazioni dei soggetti
indagati e non piuttosto a confermare le categorie e le opzioni ideologiche del ricercatore. Come a
sostenere che l’elemento cruciale in una rilevazione non sono tanto le risposte ottenute quanto le
domande poste. Si tratterebbe allora di coinvolgere gli stessi utenti nella definizione degli
strumenti per l’espressione del loro punto di vista. Accanto a vincoli tecnici è però necessario
considerare anche gli aspetti che pertengono alla capacità e alla volontà di gestire le informazioni
ottenute, usandole appropriatamente per intervenire sull’organizzazione e il suo sviluppo ed
evitando un impiego burocratico-adempitivo dei dati. L’acquisizione di una mentalità di
riconoscimento e accoglienza delle opinioni dell’altro comporta il mettere in discussione assetti
culturali e anche equilibri di potere sedimentatisi nell’organizzazione. Significa poi essere in grado
di tradurre le osservazioni in termini di funzionamento organizzativo, ovvero considerarne le
ricadute sul piano dei processi e intervenire su di essi, magari modificando il disegno
dell’organizzazione. Questa riflessione ci riconduce al nostro assunto iniziale, per il quale il
comunicare serve il processo,
contribuendo a istituirlo. Assunto che, quanto più diviene consapevole, può aiutare a costruire
organizzazioni più “a misura” degli uomini che le abitano.

CAP. 3
L’ORGANIZZAZIONE COME CULTURA
L’APPROCCIO CULTURALE: LE ORIGINI
La cultura organizzativa è strettamente connessa con la presenza umana nell’organizzazione. È il
prodotto di idee, pensieri, valori delle persone che ne hanno fatto parte in passato e che
continuano ad operare nel presente. L’idea di cultura organizzativa è stata sviluppata nell’ambito
dell’approccio culturale o simbolico-interpretativo per lo studio delle organizzazioni tra la fine
degli anni 70 e l’inizio degli 80. Negli anni 70 con la metafora di “organismo”, con una visione
sistemica che implicava che le organizzazioni fossero interpretate come sistemi sociotecnici,
intenzionalmente e razionalmente progettati per il raggiungimento di fini prestabiliti e capaci di
adattarsi ai mutamenti provenienti dall’ambiente esterno. Ma all’inizio degli anni 80 al paradigma
razionalista viene accostato, spesso in opposizione, l’approccio culturale, nella cui prospettiva le
organizzazioni sono forme espressive, ossia insiemi di significati condivisi e socialmente costruiti
all’interno della vita organizzativa (pensieri, emozioni). La visione simbolico-interpretativa utilizzò
modelli olistici, tesi cioè a decifrare la ricchezza e la complessità dei comportamenti degli attori, in
risposta al predominio di un paradigma neopositivista, che implicava nella ricerca empirica
l’utilizzo di metodi quantitativi tesi a misurare fenomeni oggettivi e a scoprire improbabili
correlazioni. Un primo segno del cambiamento si ebbe nel 1979 con la pubblicazione di uno
special issue della rivista Administrative Science Quarterly, dedicato ai metodi qualitativi della
ricerca organizzativa. In secondo luogo, ciò che ha favorito la nascita della prospettiva culturale è
stata la crisi delle aziende occidentali che si confrontavano con l’irrompere sui mercati
internazionali della concorrenza giapponese. L’idea che l’economia e le organizzazioni del Sol
Levante avessero costruito il loro successo facendo leva sulla cultura organizzativa venne proposta
in alcuni testi diventati poi i bestseller manageriali del periodo. Una terza causa è stata una
tendenza socioculturale che ha portato a concepire il proprio lavoro e il successo personale in

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termini soprattutto di “qualità della vita”, con la valorizzazione quindi delle componenti estetiche,
espressive ed emotive della cultura del narcisismo e della propria soggettività.
LE ORGANIZZAZIONI SONO CULTURE: LA METAFORA CULTURALE
I primi tentativi di definire cultura in ambito accademico sono legati al nascere di due discipline:
sociologia e antropologia. È quest’ultima che nel XIX secolo, tentando di mettere in evidenza che
cosa distingue gli esseri umani dalle altre specie animali, sposta progressivamente il suo oggetto di
interesse circoscrivendolo alla comprensione degli elementi che rendono unici, irripetibili e diversi
i gruppi (tribù primitive e società contemporanee) tra di loro. I gruppi di persone vengono
assimilati alle culture: i gruppi cioè sono culture. Ciò permette di interpretare anche le
organizzazioni, notoriamente composte da gruppi, come fossero culture. Ma l’interdisciplinarietà è
stata conseguita solo in parte. Infatti, sebbene Schein, uno degli autori che hanno fondato
l’approccio culturale, sia uno psicologo, sono state soprattutto la sociologia e l’antropologia a
rivestire un ruolo di rilievo nella costruzione della conoscenza sulle culture organizzative. Quella di
cultura negli studi organizzativi non era però un’idea nuova. Se ne trovano tracce nei lavori
soprattutto di Selznick (1957), il quale condusse una ricerca presso la TVA, l’Ente autonomo per la
ricostruzione della vallata del Tennessee negli USA. L’autore concettualizza la duplice dimensione
che appartiene a qualsiasi sistema cooperativo: organizzativa e istituzionale. Si tratta di dimensioni
analizzabili in modo separato, ma fra loro intrecciate. La prima designa un insieme di attività
coordinate: l’organizzazione è uno strumento concepito razionalmente per raggiungere degli
obiettivi. La seconda indica invece che l’organizzazione è anche una realtà naturale e adattiva,
prodotto delle esigenze e dei bisogni degli individui nonché delle pressioni sociali.
L’organizzazione, nelle parole di Selznick, diventa un’istituzione quando si impregna di valori:
“Istituzionalizzazione significa infondere valori al di là delle esigenze tecniche del compito
immediato”. L’ipotesi è che, attraverso il consolidamento di esperienze collettive di successo, si
acquisisca un carattere distintivo, cioè una modalità con cui le istituzioni elargiscono gratificazioni
ai propri dipendenti e raggiungono l’integrazione. L'idea di carattere è assimilabile a quella di
cultura organizzativa. Il carattere e i valori organizzativi fondano l'identità dell'organizzazione,
ossia la percezione che l'organizzazione ha di se stessa e delle ragioni del suo esistere.
Secondo Selznick, il carattere di un’impresa possiede 4 caratteristiche:
1) è un prodotto storico, ossia il frutto delle modalità di risposta agli agenti esterni che
l’organizzazione ha incontrato nella sua evoluzione;
2) è un tutto integrato;
3) è funzionale al soddisfacimento dei bisogni organizzativi;
4) è dinamico, poiché può generare nuovi conflitti, bisogni e problemi. Selznick assimila l’idea di
carattere d’impresa a quella di cultura organizzativa dell’approccio culturale. Il carattere e i valori
organizzativi fondano l’identità dell’organizzazione, cioè la percezione che essa ha di se stessa e
delle ragioni del suo esistere. Dopo qualche decennio, la studiosa Linda Smircich (1983) ha distinto
3 modi diversi di intendere la cultura: 1) come variabile indipendente esterna all’organizzazione, 2)
come variabile dipendente interna all’organizzazione, 3) come metafora di base (root metaphor) di
ciò che un’organizzazione. È quest’ultima l’interpretazione più originale proposta dall’approccio
culturale.
1) I teorici che interpretano la cultura come variabile indipendente esterna sostengono che norme
e valori, in quanto elementi culturali, sono costruiti dal contesto istituzionale e fatti propri
dall’organizzazione attraverso processi di isomorfismo istituzionale, assorbendo pratiche
consolidate. In virtù di tali processi, le regole istituzionalizzate esterne, che incarnano i principi
della razionalità, vengono incorporate in varie forme (programmi, regole, test, etc.), facendo sì che
le organizzazioni siano socialmente ricompensate con risorse economiche e ottengano legittimità
sociale. Ciò che questi autori chiamano cerimonialismo istituzionale coincide con il conformarsi

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delle organizzazioni a miti istituzionalizzati diffusi e approvati dal contesto circostante, secondo
criteri tattici e di convenienza, perseguendo l’approvazione sociale talvolta anche a scapito
dell’efficienza e di un miglior coordinamento interno.
2) Nel secondo caso, quando la cultura organizzativa viene concepita come variabile dipendente
interna all’organizzazione, l’interesse si rivolge ad aspetti gestionali. La cultura è composta, ad
esempio, di storie, riti e miti che, se accuratamente manipolati e mescolati, producono un circolo
virtuoso: “aumento della motivazione individuale e della volontà di cooperare dei membri;
coesione sociale interna e fedeltà diffusa all’organizzazione; incremento dell’efficacia totale del
sistema”.
3) Infine, se la cultura è intesa quale metafora di base (root metaphor) allora l’organizzazione
innanzitutto è cultura; non possiede o ha una cultura come avviene nei due approcci precedenti.
L’organizzazione è cultura che si esprime nella quotidianità della vita organizzativa. La metafora
fondamentale di “cultura” è assimilabile a una cornice di significati in grado di dare senso a ciò che
accade nelle organizzazioni, e come metafora di base può includere e comprendere tutte le altre
interpretazioni. Questa terza accezione interpretativa ha attinto soprattutto dall’antropologia. È
quindi possibile sostenere che l’approccio culturale non abbia fatto altro che prendere a prestito
da altre discipline, e soprattutto dall’antropologia, un insieme di concetti e categorie. Si può
richiamare il contributo in chiave psicoanalitica, di taglio freudiano, proposto da Schwartz (1990).
Egli spiega le situazioni di crisi o fallimento delle organizzazioni attraverso processi collettivi di
fissazione su posizioni narcisistiche. In organizzazioni dominate dalla cultura del narcisismo,
l’autore ha spesso riscontrato la presenza di personaggi che, quando collocati nelle posizioni di
comando, perdono il contatto col mondo reale e fanno scivolare l’organizzazione nella “fantasia
della perfezione”. Uno studio dell’autore relativo alla tragedia del Challenger, lo space shuttle della
NASA che nel 1986 si disintegrò pochi istanti dopo il decollo, individua le cause dell’incidente nella
progressiva sostituzione del simbolo dell’organizzazione-guerriera con quello della “Disneyland
nello spazio”, facendo perdere l’attenzione sia rispetto alla necessità della competenza
specialistica, sia relativamente all’esigenza di supporti finanziari per la spedizione. La “negazione
della differenza”, così Schwartz chiama la tendenza a sostituire la realtà con i simboli dell’ideale
narcisistico, penetra nelle attività dell’organizzazione e genera un circolo vizioso.
CULTURA E CULTURE ORGANIZZA
Per chi aderisce a una chiave simbolico-interpretativa, uno degli autori di riferimento è
l’antropologo Clifford Geertz (1973) che, in un passaggio in cui richiama Max Weber, sostiene che
l’uomo è un animale sospeso in una rete di significati, ossia una cultura, che egli stesso ha
intessuto, il più delle volte in maniera inconsapevole. La difficoltà a spiegare il fenomeno sta nel
fatto che la cultura, pur manifestandosi negli aspetti fisici e simbolici dell’azione organizzativa, non
è qualificabile solo come un aspetto tangibile di essa. La cultura organizzativa è quell’insieme di
significati che racchiudono assunti, valori e credenze che un gruppo ha inventato e scoperto,
imparando ad affrontare situazioni problematiche di adattamento all’ambiente esterno e di
integrazione interna. Schein sostiene che non si può ritenere di essere in presenza di una cultura
se, con il trascorrere del tempo, tali sistemi di significati non vengono ritenuti validi e quindi
trasmessi ai nuovi membri dell’organizzazione, che interiorizzano questo sistema di significati,
senza dover ogni volta inventare soluzioni per risolvere i problemi quotidiani dell’organizzazione
stessa. È cioè probabile che l’entrare in organizzazione porti a contatto con idee cristallizzate e
poco suscettibili di riformulazione. Una cultura ha la funzione di generare modelli: a) cognitivi, che
permettono la categorizzazione e l’interpretazione di ciò che accade in un’organizzazione: stabilità,
b) emotivi ed affettivi, con ricadute sull’impegno e l’energia che i singoli sono disposti a spendere
nell’azione, nonché sul senso di appartenenza: riduzione dell’incertezza (controllo informale).
Infine, la cultura tende a esplicitare la distinzione fondamentale per ogni individuo, tra chi è

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dentro o fuori, tra gli amici e i nemici, riconoscendo i membri e definendo chi sono gli estranei.
Secondo Perrow (1972), all’interno di un’organizzazione vi sono 3 tipi di forme di controllo: 1) la
gerarchia, 2) i programmi per raggiungere un obiettivo, 3) le premesse ideologiche dell’azione
(insieme di valori condivisi per la necessità interna di perseguire un “bene”). L’idea di cultura
organizzativa è in parte simile al concetto di comunità di pratica. Le due nozioni sono accomunate
dalla sottolineatura dell’importanza dei processi di socializzazione dei nuovi membri e dall’idea di
organizzazione come artefatto culturale. Tuttavia, gli autori dell’approccio culturale sono attenti
soprattutto alle dimensioni comunitarie, mentre i teorici della comunità di pratica sottolineano
maggiormente l’importanza delle attività pratiche, in primo luogo quelle lavorative. Un’altra
differenza consiste nel fatto che una cultura organizzativa contiene al suo interno, almeno
potenzialmente, più comunità di pratica. Non tutti gli studiosi interpretano la cultura in termini
monolitici, come un tutto unitario, alla Schein. Alcuni ricercatori ritengono che all’interno della
medesima organizzazione possano convivere più culture, per esempio in forma di sottoculture.
Alla radice di ciò c’è probabilmente la tendenza di uomini e donne ad accostarsi a persone simili.
Le sottoculture sono un sottoinsieme dei membri di un’organizzazione che interagiscono
regolarmente tra loro, si identificano come un gruppo distinto all’interno dell’organizzazione,
condividono un insieme di problemi che vengono considerati problemi di tutti e agiscono sulla
base di schemi collettivi di comparazione specifici del gruppo. Le sottoculture dei gruppi di lavoro
si possono trovare ovunque, qualora un certo tipo di attività spinga i dipendenti a lavorare a
stretto contatto tra loro, condividendo ruoli, spazi, caratteristiche. Sul piano teorico sono state
distinte: le sottoculture di sostegno rispetto alla cultura generale e dominante, in genere quella del
vertice aziendale, la corporate culture; le sottoculture che si oppongono alla cultura generale,
ossia le controculture, che alimentano valori e credenze opposte alla corporate culture; le
sottoculture ortogonali a quella generale, che semplicemente convivono con essa. Fra gli studiosi
che interpretano la cultura in modo multiprospettico, ossia non unitario o monolitico, ricordiamo
la Martin, che ha identificato 3 paradigmi interpretativi, con i quali ha letto la OZ Company (OZCO),
nome di fantasia assegnato a un’azienda operante su scala mondiale. Il primo paradigma, quello
dell’integrazione, descrive la cultura come un insieme di valori comuni, coerenti e reciprocamente
rinforzantisi che generano armonia, consenso diffuso e assenza di conflitti, come uguaglianza,
innovazione e benessere dei dipendenti. La seconda prospettiva è quella della differenziazione,
ossia la presenza di sottoculture, o meglio controculture, che traggono origine dalla diversa
distribuzione del potere e dagli interessi in gioco intrecciati ai processi organizzativi. Infine, la terza
prospettiva, quella della frammentazione, tende a mettere in dubbio la stessa esistenza della
cultura, concentrandosi sugli aspetti di ambiguità, incoerenza e disordine che caratterizzano la vita
organizzativa. Per questa visione l’organizzazione è un’anarchia dove il consenso e il dissenso,
l’ordine e il disordine, coesistono e dove una stessa manifestazione culturale può dare luogo a più
interpretazioni.
SIMBOLISMO INTERPRETATIVO, COSTRUTTIVISMO E IMPLICAZIONI PER LO STUDIO DELLE
ORGANIZZAZIONI
Le affermazioni di Geertz sono sostenute da una prospettiva epistemologica che reca conseguenze
di rilievo sul piano metodologico. Sostenere infatti che la cultura è una rete di significati intessuti
dall’uomo implica assumere una visione costruttivista della realtà, tale per cui la cultura e, più in
generale, l’ordine sociale derivano da processi di negoziazione di significati e accordi impliciti,
frutto di esperienze collettive. Il mondo sociale, come quello organizzativo, sarebbe così costruito
in virtù delle interpretazioni condivise che gli attori attribuiscono alle loro esperienze comuni. I
costruttivisti ritengono la realtà non oggettiva, bensì oggettivata, ossia socialmente costruita in
modo tale da sembrare oggettiva, cosicché essa non è reale in sé ma nelle sue conseguenze. Sul
piano della metodologia della ricerca empirica nelle organizzazioni, gli studiosi impegnati

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nell’analisi delle culture organizzative realizzano etnografie che interpretano i significati attribuiti
dagli attori alla loro vita organizzativa. Realizzare etnografie organizzative comporta osservare,
descrivere e interpretare i processi organizzativi, fino ad arrivar alla stesura di una monografia.
L’etnografia, nell’ambito dell’approccio culturale, è un metodo ma anche una prospettiva di
stampo interpretativo per lo studio delle organizzazioni. Le organizzazioni nella prospettiva
costruttivista infatti non esistono, ma sono solo un artefatto sociale, un’invenzione delle persone e
degli studiosi che le raccontano, rese vive dal linguaggio, dai simboli, dalle modalità di controllo,
dalle tecnologie, dalle prassi.
LA CULTURA ORGANIZZATIVA: CATEGORIE ANALITICHE E FORME ESPRESSIVE
Trice e Beyer (1984) hanno suggerito l’utilità di distinguere i contenuti fondamentali della cultura
dalle forme simboliche ed espressive che rappresentano il documento agito della cultura. I
contenuti fondamentali della cultura organizzativa possono essere declinati lungo le seguenti
categorie analitiche:
 Il logos: insieme di credenze, ossia di codici attinenti la sfera cognitiva e inerenti ciò che è
vero e ciò che è falso, che indicano le interpretazioni adottate dai soggetti nei confronti di
quanto accade;
 L’ethos: valori che corrispondono a giudizi di preferibilità e che assumono una valenza
deontologica;
 Il pathos: si riferisce al modo particolare di percepire e sentire la realtà attraverso tutti i
sensi;
 L’aisthetis: si riferisce alle percezioni di ciò che piace e ciò che non piace;
 Il genus: il campo simbolico organizzativo è “sessuato”, cioè leggibile anche in termini di
genere, in relazione al quale si declinano valori, regole, modi di fare. La più generale
costruzione sociale di genere nel contesto sociale trova una declinazione in parte
contraddittoria rispetto a essa: le regole di comportamento professionale possono essere
diversamente ordinate per gli uomini e le donne;
 La polis: la dinamica del potere, ma anche l’esplicitazione di chi sono i nemici e gli amici;
 Il methodos: si riferisce al sapere che cosa e come fare, o non fare, all’interno
dell’organizzazione
Ma dove trovano espressione queste concezioni di fondo? Occorre analizzare le espressioni
simboliche indicative dei contenuti culturali, ossia forme astratte o tangibili, o ancora costrutti
linguistici, ma anche azioni che esprimono ambiguamente una molteplicità di significati tali da
suscitare emozioni e spingere l’uomo all’azione:
 Il linguaggio: l’insieme di segni vocali che stabilizzano l’esperienza umana. Esso comunica
un tessuto sociale, e ha il potere di condizionare i processi di azione, percettivi e di
pensiero. Ogni cultura organizzativa tenderà a sviluppare un linguaggio idiosincratico;
 I miti: narrazioni in forma drammatizzata di vicende passate più o meno reali che hanno la
funzione di legittimare sia le azioni contenute negli episodi raccontati, sia le idee che
ispirano quelle condotte. I miti sono cioè una sorta di fantasmi originari, antecedenti che
giustificano i comportamenti, sospendendo le regole della logica e collocando gli eventi
oltre la possibilità di una qualche verifica;
 Le storie e le saghe: le storie sono collezioni di aneddoti ed episodi che caratterizzano la
quotidianità della vita organizzativa. Sono spesso presentate come uniche e irripetibili, ma
in realtà ricalcano copioni, con dovute varianti. Offrono risposte a dilemmi organizzativi.
Storie e miti tra loro intrecciati danno origine alle saghe organizzative che raccontano la
vicenda spesso straordinaria di nascita, sviluppo ed evoluzione di un’organizzazione. Ciò
che distingue la saga da un semplice racconto è la sua forte connotazione evocativa e
affettiva;

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 I riti e le cerimonie: i riti sono azioni che necessitano di un consumo, o spreco, di risorse. Si
tratta di attività caratterizzate da un certo grado di progettazione ed elaborazione formale,
realizzate mediante interazioni sociali e a beneficio di un pubblico e con conseguenze
sociali. Insiemi compositi di riti danno origine alle cerimonie. Trice e Beyer (1984) hanno
classificato i più frequenti riti che si registrano nella vita organizzativa distinguendoli in: riti
di passaggio, che segnano il transito a ruoli o a status nuovi per gli individui, riti di
esaltazione, che motivano i membri della cultura a comportarsi come coloro che sono stati
premiati, riti di degradazione, che viceversa ridefiniscono identità e potere dei soggetti
coinvolti e riaffermano l’importanza di alcune condotte, riti di ricomposizione e
contenimento dei conflitti, che svolgono la funzione di ridurre il rischio di una possibile
escalation conflittuale, ma in realtà non risolvono i problemi, riti di integrazione, che
avvicinano le distanze tra ruoli spesso separati dalle funzioni e dalla gerarchia, riti di
rinnovamento. I riti e le cerimonie si distinguono dai rituali, che rappresentano attività
routinarie stilizzate (che riproducono solo gli elementi essenziali);
 Gli artefatti: si tratta dei prodotti tangibili, concreti della vita organizzativa, dei prodotti
materiali e del setting fisico. L’ipotesi è che più credenze, valori e ideologie sono radicati e
sentiti dai membri di un’organizzazione, tanto più saranno reificati e troveranno un
rispecchiamento nella fisicità dell’organizzazione per confermare e richiamare i soggetti
alla loro identità, e per tramandare la cultura alle generazioni successive. Gli artefatti
organizzativi possono quindi parallelamente rappresentare: sentieri per l’azione e tracce
della vita organizzativa.
CONCLUSIONI
L’approccio culturale, attraverso lo studio degli artefatti organizzativi, ha aperto il territorio
dell’estetica, i cui studiosi, che si muovono prevalentemente all’interno del simbolismo
interpretativo o della prospettiva postmodernista, pongono l’attenzione a ciò che gli attori
provano nella loro esperienza organizzativa, mettendo a fuoco l’approccio estetico per lo studio
delle organizzazioni. Per Strati, la radice etimologica del termine “estetica” è in aisth e nel verbo
greco antico aisthanomai, e vi si sottolinea la conoscenza umana in quanto azione attraverso i
sensi. Tale è anche la posizione di Gagliardi, che sostiene che le culture sono mappe sensoriali
costruite attraverso le risposte estetiche dei soggetti al loro setting fisico. E poiché il pathos è
intuitivo e istintivo, Gagliardi conclude che l’estetica è la base di tutte le forme di conoscenza. Un
esempio di studio che ha indagato un’organizzazione in termini estetici è quello della Martin
(2002), la quale ha esplorato la sua esperienza emotiva e sensoriale ripercorrendo le note
etnografiche di uno studio da lei condotto presso alcune organizzazioni inglesi che offrivano
assistenza a persone anziane. La Martin ha sostenuto che le case di assistenza provocavano una
profonda esperienza estetica, sia agli ospiti sia al personale, per il contatto costante con il declino
fisico e mentale dei residenti; la direttrice usava prodotti per le pulizie per camuffare gli odori,
violando così l’ideale delle organizzazioni come luoghi neutri dal punti di vista olfattivo, ma
creando esperienze estetiche repulsive; il corpo dei residenti inoltre assumeva una rilevanza
sociale. Ciò che in questo lavoro colpisce è che la conoscenza cui è giunta l’autrice deriva da uno
sguardo riflessivo o dall’interno, e quindi dall’essersi messa in contatto con la sua esperienza
sensoriale. Grazie all’estetica, la Martin è stata capace di far comprendere anche ad altri che cosa
ha provato nell’entrare in contatto con queste organizzazioni. In sintesi, l’approccio estetico: 1)
riporta in primo piano le sensazioni e i sentimenti degli attori, in organizzazioni che sono arene
emotive; 2) costringe il ricercatore a lasciare spazio a ciò che sente e prova, perché chi scrive
etnografie necessita di essere immerso emozionalmente e sensorialmente, facendo sì che
l’approccio estetico trovi nell’autoetnografia la forma espressiva più consona, 3) sembra far
cogliere aspetti trascurati negli studi organizzativi a causa dell’eccessiva sottolineatura delle

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dimensioni cognitive o formali e razionali, che hanno portato gli studiosi a interrogarsi più sul
“dover essere” dell’organizzazione che a coglierne la natura.

CAP 4
CONOSCERE E APPRENDERE NELLE ORGANIZZAZIONI
INTRODUZIONE
Il tema della conoscenza organizzativa richiede il confronto con una variegata costellazione di
riferimenti e approcci.
IL PUNTO DI VISTA ADOTTATO
L’approccio da cui muoviamo concepisce le organizzazioni come contesti sociali in cui l’efficacia e
l’efficienza dei processi produttivi sono strettamente connesse alla soggettività degli attori presenti
e alla concretezza e affidabilità delle loro azioni, alle culture di cui sono portatori e alla capacità di
attribuire significato agli eventi e alle problematicità incontrate. Si dai importanza non solo agli
aspetti strutturali ma soprattutto alla realtà organizzativa per avviare i processi di cambiamento
personale e organizzativo, di apprendimento trasformativo e di sé. La psicologia del lavoro e delle
organizzazioni cerca di descrivere e comprendere il rapporto tra gli attori organizzativi e pressioni
interne ed esterne storicamente presenti e come da esso derivino interpretazioni e corsi di azione,
prese di decisione e trasformazioni dei contesti operativi di appartenenza. Tale orientamento può
essere rintracciato nell'approccio di una teoria della pratica: centrata sullo studio delle pratiche
lavorative, della produzione e riproduzione di concreti sistemi di attività, dei significati che le
persone attribuiscono alla loro esperienza lavorativa e organizzativa. Le organizzazioni complesse
sono sistemi di attività con articolazioni al loro interno e interrelazioni con altri sistemi di attività.
Assumere tale visione significa affrontare la complessità delle relazioni interne ed esterne e capire
come i sistemi di attività sono generati, quali trasformazioni attraversano, come operano in
differenti contesti spaziali e temporali. L’agire può essere letto sulla base dei saperi pratici, delle
culture operative, di regole e routine diffuse, che costituiscono un tessuto in grado di influenzare
corsi di azione e orientare identità.
DIMENSIONI DI CORNICE: MUTAZIONI LAVORATIVE, ARTICOLAZIONI DELLA PROFESSIONALITA’ E
SFIDE ALLA SOGGETIVITA’
la prima dimensione di cornice riguarda il progressivo configurarsi di una mutazione degli scenari
contemporanei: crisi, disoccupazione, fenomeni di disuguaglianza, collasso ecologic, profonde
trasformazioni demografiche, geopolitiche e migratorie. I contesti operativi e organizzativi sono in
profonde trasformazioni, con mutamenti rapidi e tuttora in corso delle forme di rapporto tra
soggetto ed esperienza lavorativa. Quello che è importante sottolineare è il cambiamento che le
trasformazioni a livello scientifico e tecnologico introducono di fatto nel panorama lavorativo e
organizzativo (es utilizzare un robot per un intervento chirurgico cambia il ruolo del lavoratore e la
stessa organizzazione del lavoro richiedendo nuove competenze e una diversa flessibilità). Da un
lato si apre la possibilità di mettere il “sapere al lavoro al centro della scena organizzativa”,
sapendo che il vantaggio competitivo per istituzioni, imprese e organizzazioni, pubbliche e private,
diventa la capacità di “creare valore con le risorse umane”, sostenendo forme di apprendimento e
di condivisine di pratiche professionali e lavorative. Dall’altro lato, su un versante più microsociale,
inerente alle transazioni tra soggetti e al loro rapporto con quotidiani ambiti e oggetti di
investimento e di relazione, assistiamo a ricorrenti e diffuse dinamiche depressive, di contrazione
e inibizione delle energie di disponibilità, di fiducia, di speranza. Il confronto con aspetti di
incertezza, precarietà, possibile strumentalizzazione, che spesso sono associati alla presenza
dell’inatteso, genera esiti di imprevedibilità, ambiguità, provvisorietà e instabilità. La seconda
dimensione di cornice riguarda l’evoluzione delle caratteristiche di professionalità, dei saperi a
esse connessi e delle condizioni del loro esercizio nell’ambito lavorativo e delle organizzazioni. Gli

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operatori si confrontano con problemi che non rientrano in schemi e strutture cognitive già
acquisite: devono “saper scegliere tra le varie incertezze quelle che possono essere considerate
pertinenti al problema posto in quel momento e in quelle condizioni”, attraverso criteri che sono
tipicamente contestuali e contingenti, quindi imprevedibili. L’evoluzione della professionalità
introduce, rispetto ai tempi dell’apprendere e della gestione della conoscenza, una decisa
attenzione alla capacità professionale intesa come interpretazione intelligente delle situazioni,
come disposizione all’ascolto della realtà e alla costruzione dialogica dei possibili significati a essa
attribuiti. Emerge il rapporto tra produzione di conoscenza e Condizioni di utilizzo della stessa in
determinati contesti pratici, nonché del ruolo svolto dal sapere pratico e delle differenti tipologie
di conoscenza generate nelle organizzazioni. La terza dimensione di cornice riguarda l’esperienza
degli attori organizzativi e la sollecitazione/sfida alla loro soggettività, derivante dalle evoluzioni
dell’attuale scenario. Possiamo considerare la soggettività come l’intreccio dinamico degli aspetti
di responsabilità, temporalità, intenzionalità, immaginazione e progettualità attraverso i quali le
persone costruiscono la propria identità e si mettono in relazione con i propri contesti.
L’organizzazione contemporanea è caratterizzata da ritmi sempre più veloci, da pressioni al
risultato, dall’esigenza di costanti processi di decostruzione e ricostruzione di equilibri consolidati.
Numerosi sono ancora i fenomeni di disinvestimento, chiusura, disincanto, opportunismo e
rassegnazione. Da qui l'esigenza di affrontare la sfida dell'insostenibilità della vita lavorativa,
alimentando un processo costante di rimessa in discussione dell'organizzazione e della
disposizione a stare dentro contesti in cui la qualità della vita lavorativa non esclude aspetti di
criticità ma li assume trovando più soddisfacenti equilibri per attraversarli. (un contributo a ciò lo
da per es la WOP ->work and organizational psycology).
APPRENDERE E CONOSCERE NEI CONTESTI ORGANIZZATIVI.
LA SVOLTA PRATICA SECONDO LA SOCIOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI
L’idea di fondo, che riconfigura il discorso sul rapporto tra conoscenza e organizzazioni, e genera
differenziate conversazioni all’interno di una molteplicità di comunità professionali, risiede nella
strutturale rilevanza attribuita al conoscere in pratica. Esso può essere preliminarmente
rappresentato come esperienza del significato, intesa con processo di negoziazione all’interno di
un sistema di azione, mediante la capacità di combinare partecipazione a esso e reificazione.
Gherardi individua un framework teorico-concettuale che ha costituito lo sfondo per lo svilupparsi
del discorso sulla pratica e conversazione scientifica inerente a un approccio all’apprendimento e
alla conoscenza organizzativa basato su sapere pratico. Esso comprende riferimenti:
- all’Activity Theory -> che enfatizza gli aspetti sociali, materiali e simbolici per mezzo dei quali
prende forma un sistema di attività
- all’Actor-Network Theory centrata sulla configurazione di ecologie razionali che danno vita a
processi di traduzione in pratica del reciproco rapporto tra conoscenza e azione
- alla teoria dell’apprendimento situato e del connesso costrutto di comunità di pratica
- ai workplace studies in cui lavoro e organizzazione sono socialmente organizzati a partire
dall'interazione tra soggetti, oggetti e tecnologie
- all’approccio culturale ed estetico. che valorizza non solo le dimensioni politiche di significato
connesse e incorporate negli oggetti e nelle pratiche ma anche la sensorialità del nostro conoscere
l'organizzazione.

Emerge un’idea di pratica come “modalità, relativamente stabile e socialmente riconosciuta,


dell’ordinare elementi eterogenei quali persone, conoscenza, artefatti e tecnologie in un insieme
coerente”. Le pratiche lavorative vengono in tale ottica rappresentate come sistemi di azione
sufficientemente stabili e condivisi che tengono insieme persone, strumenti in uso, culture di
riferimento, conoscenze situate e diffuse, a partire da convergenze provvisorie e interazioni

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precarie, generate da processi che acquistano progressi durata e consistenza temporale. La
conoscenza si produce e circola all’interno di tali campi di pratiche. Si tratta di un conoscere
connesso all’azione, prevalentemente preriflessivo e tacito, proprio perché inscritto nel corpo
delle pratiche, depositato nel flusso dell’esperienza in modo per lo più implicito e consapevole. Il
passaggio è in questo caso dal conoscere in pratica al conoscere una pratica, facendo attenzione ai
processi attraverso i quali la conoscenza pratica si istituzionalizza. L’immagine conseguente è
quella di una conoscenza organizzativa come tessitura dell’apprendere nei luoghi di lavoro,
divenendo le pratiche occasione e spunto per l’intreccio delle molteplici forme dell’organizzare,
dell’apprendere, del conoscere in azione.
Gherardi identifica tre caratteristiche delle pratiche situate che i soggetti impiegano per conferire
significato e riconoscibilità sociale al loro sistema di azione valorizzando le dimensioni di
conoscenza tacita incorporata nelle pratiche che condividono.
 La prima si riferisce alla dimensione “indessicale” cioè le espressioni che risultano
comprensibili a partire dal concreto contesto in cui sono prodotte utilizzate. Dal punto di
vista etnometodologico ciò equivale a cogliere i significati impliciti che sostengono la
reciproca comprensione dei soggetti all'interno del loro contesto d’azione. Questa
conoscenza completa la necessità di comprendere le quali i soggetti si organizzano.
 la seconda caratteristica invidiata è quella dell'accountability, cioè la capacità dei
partecipanti alle pratiche situate di offrire motivi e argomentazioni per rendere le loro
pratiche osservabili e comunicabili. Account che rendono evidenti le modalità di certi
comportamenti il rapporto ha definiti tipi di azione. L’accountability Rimborsa la
concezione di una conoscenza organizzativa come processo attivo che avviene entro
pratiche sociali che coinvolgono la mente delle persone, il corpo, la società e la materialità
(es non tecnologia)
 la terza caratteristica delle pratiche situate è la reflexivity, un processo che interroga i modi
attraverso i quali i soggetti conferiscono significato alla realtà e lo rendono accessibile ad
altri creando cosi un’attività dialogica e relazionale.

L’enfasi richiamata sul costrutto di knowing in practice evidenzia la necessità di fare riferimento
alle dimensioni di conoscenza tacita e alle modalità della sua produzione e circolazione: essa
richiede un approccio olistico e qualitativo, per coglierne le condizioni di significatività in un dato
contesto; necessita di un tempo consistente di intercettazione e monitoraggio, al fine di
individuare i modi della sua riproducibilità che coinvolgono aspetti operativi, tecnici, etici ed
estetici, attraverso i quali i soggetti in un dato contesto danno al loro mondo un ordine,
provvisorio e minacciato dalla fragilità, ma progressivamente più stabile, di complessa
accessibilità. L’apprendimento diventa metafora dei processi di costruzione e negoziazione di
significati che i soggetti attribuiscono alla loro esperienza e storia organizzativa, traducendoli
progressivamente in routine, convenzioni e procedure istituzionalizzate. È importante sottolineare
le caratteristiche di una concezione dell’apprendimento connesse all’adozione di una prospettiva
epistemologica sociocostruzionista, conversazionale, narrativa. A fronte di una concezione delle
organizzazioni come campi di pratiche, attorno alle quali si coagulano appartenenze e si
sviluppano esperienze di produzione di senso, di condivisione di emozioni, di formazione di
linguaggi, di produzione e diffusione/circolazione della conoscenza, si configura un’idea di
apprendimento locale, funzionale e alla promozione dell’attitudine dei soggetti d’apprendere a
partire dalla riflessione sulle pratiche concrete della loro vita lavorativa. (un apprendere che
sposta l’enfasi dalla prospettiva cognitiva a quella sociale, cioè coinvolge non solo i singoli individui
ma impegna una comunità di soggetti). Gherardi suggerisce un ribaltamento del concetto (da
comunità di pratica a pratiche di comunità), che ne recuperi il legame originario con le pratiche

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situate di riferimento. Il senso di tali considerazioni rimanda all’esigenza di apprendere
dall’esperienza, vicino ai concreti processi attraverso i quali i soggetti destrutturano/ ristrutturano
costantemente i propri campi conoscitivi e operativi, reinterpretando situazionalmente le proprie
competenze. Il tema del passaggio o del rapporto tra dimensioni tacite ed esplicite della
conoscenza, sollecita una considerazione inerente ai repertori del far apprendere e allo statuto di
riflessività che li caratterizza, sia in riferimento a un ascolto del e nel proprio agire (reflexive
learning); sia come ricognizione sulla propria soggettività e sul suo intrecciarsi lungo storie e
traiettorie lavorative e professionali (self-directed learning); sia infine in relazione al rapporto tra
apprendimento e cambiamento a più livelli (ransformative learning).
LA CONOSCENZA COME RISORSA ANOMALA NELLA PROSPETTIVA ECONOMICA. RISCHIO E
RESPONSABILITA’ DELLA CREAZIONE DI SIGNIFICATI
La conoscenza va identificata secondo un’aporia (significato di aporia -> problema le cui possibilità
di soluzione risultano annullati in partenza dalla contraddizione) come qualsiasi altra merce e in
quanto tale come risorsa caratterizzata da proprietà di scarsità, divisibilità, escludibilità,
strumentalità. In realtà essa si manifesta come una risorsa “anomala”, perché non risponde a
queste condizioni: non è scarsa, non è divisibile, non è escludibile e non è esclusivamente
strumentale in quanto risorsa riflessiva. Le sue peculiari caratteristiche riguardano la possibilità di
creare valore attraverso la moltiplicazione degli usi e delle applicazioni delle conoscenze di
partenza; l’interpretazione delle esperienze, dando loro un significato e assegnando loro un
diverso grado di investimento emotivo, di coinvolgimento identitario, di apprezzamento soggettivo
e sociale; l’autoregolazione dei rapporti tra gli attori sociali che in tal modo la condividono e la
utilizzano attraverso transazioni di reciproca interdipendenza. La disponibilità di conoscenza, la sua
produzione, gestione e distribuzione può essere concepita come una filiera i cui driver sono:
 l’efficacia, connessa al valore che i soggetti assegnano alle conoscenze, cioè
l’interpretazione delle esperienze
 la moltiplicazione cioè la possibilità di riusare la conoscenza in nuovi contesti e situazioni e
così diffondendola ad altri individui
 l’appropriazione deve far riferimento al valore generato dalla conoscenza e dalla sua
distribuzione non solo in termini di utilità economica ma anche sociale. L’obiettivo è la
costruzione di un equilibrio tra la produzione delle nuove conoscenze e la riutilizzazione di
quelle già note. Solo una parte della conoscenza può esser replicata; un’altra parte deve
essere reinventata in funzione di persone e contesti d’uso che sono unici, non
standardizzabili, ma anche in funzione dell’aumento di complessità degli attuali scenari.
Rispetto ai vantaggi della conoscenza tipici della prima modernità (scienza, tecnologia) la nuova
condizione riflessiva chiama in causa soggetti a cui è fidato il compito di reinterpretare modalità di
innovazione e generalizzazione assumendo il rischio e la responsabilità della creazione di significati
che passano attraverso la metafora, relativa alla disponibilità di un pensiero, che si confronta con
la molteplicità dei punti di vista possibili e si traduce in una rete di relazioni in cui storie e racconti
si trasformano da privati e inaccessibili in pubblici e confrontabili.
ABITARE IL MONDO COME PARTECIPAZIONE A PRATICHE DI ATTIVITA’ SITUATA:
ANTROPOLOGIA ED ECOLOGIA DELLA CULTURA
La socioantropologia culturale e l'etnometodologia applicate all'ecologia della cultura forniscono
dei contributi riguardo l'approccio all'apprendere e alla gestione delle competenze nelle
organizzazioni. L’oggetto di studio della socio-antropologia e dell’etnometodologia è l’esplorazione
dello strutturale rapporto che connette analisi dei contesti di pratica, dispositivi materiali della loro
costituzione, forme di conoscenza in essi socialmente distribuite e processi di interazione e azione
sociale. Partecipare a pratiche di attività comporta una pluralità di attori che si trovano a interagire
e a condividere comuni spazi operativi. Bisogna distinguere le diverse rappresentazioni del

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comune ambiente operativo, gestire l'organizzazione di strumenti in uso promiscuo, stabilire e
governare alcune regole di fruizione del medesimo ambiente di lavoro, realizzare accordi e
transazioni rispetto alla sequenza delle attività mettendo in relazione programmi predefiniti e piani
situati di azione (un’organizzazione dello spazio e del tempo). Hutchins consolida la convinzione
che apprendere e conoscere si configurano come processi di partecipazione ad attività situate. Egli
evidenzia come sistemi di azione complessi richiedono azioni condivise mediante una pluralità di
attori e artefatti. L’analisi di Suchman porta a indagare il comportamento umano come pratica
quotidiana che genera competenza. In una ricerca, l’autrice evidenzia che i modelli
decontestualizzati, funzionali alla configurazione di piani e programmi d’azione, si distanzino dalle
pratiche situate nei contesti ed emergono dalla dinamica delle interazioni e relazioni sociali. Da
cio’ una distinzione tra interazione uomo-macchina e interazione tra persona: la prima e’
programmata e predefinita da un piano che determina il comportamento della macchina in
funzione delle richieste dell’uomo, la seconda emerge dall’improvvisazione esperta tra soggetti
impegnati in azione. I contesti professionali si definiscono come vere e proprie cornici ecologiche
che strutturano le interazioni tra attori sociali. Prendono forma contesti in cui si connettono
dimensioni relazionali e materiali e la conoscenza si configura come attivita’ in cui sono all’opera
gesti, estetiche, modalità d’interazione, regole organizzative, tecnologie, pratiche discorsive.
L’ecologia della cultura studiando pratiche esperte e contesti di azione cerca di descrivere e
comprendere i processi di costruzione dell'ordine della vita e come l’apprendere rappresenti
l'attraversamento di un passaggio di compiti e di pratiche e l'accesso alla loro rappresentazione e
riproduzione sociale. Il rapporto tra componenti materiali, fisiche, oggettuali e componenti
personali e soggettive è mediato da costanti processi di relazione e interpretazione, attraverso cui
si costruiscono configurazioni possibili di significato. Lo svolgimento di pratiche e di attività
richiede, infatti, un continuo processo di microinterpretazioni.
Dispositivi qualitativi, etnometodologici e di osservazione partecipante sembrano funzionali ad
avvicinare i complessi meccanismi con cui si introduce/produce/ condivide conoscenza nelle
situazioni organizzative, ma richiedono, in ogni caso, l’attenzione a stabilire di volta in volta
attraverso quali ipotesi praticabili si possa promuovere l’accesso a specifici contesti di azione e
pratiche di lavoro e a quali condizioni sia eventualmente sostenibile una loro elaborazione
congiunta.
DALLA REFLECTIVITY ALLA REFLEXIVITY: PRATICHE RIFLESSIVE A SUPPORTO DEL CONOSCERE E
DELL’APPRENDERE
Gli aspetti legati alle dinamiche relazionali hanno evocato la necessità e la rilevanza della
riflessione portata sull’esperienza organizzativa dei soggetti. L’esperienza porta il soggetto ad
interrogarsi sulla propria esistenza/azione/pratica. Schon promuove un superamento delle forme
strettamente tecniche del pensiero razionale. È attraverso un processo di “riflessione nel corso
dell’azione” che i professionisti riescono a cavarsela anche in situazioni “divergenti”, caratterizzate
da incertezza, instabilità, unicità. Le caratteristiche delle attività possono così essere utilizzate
come repertori per ulteriori sviluppi professionali. Si prefigura, dunque, la possibilità di un
reflecting-in-practice, a significare sia una riflessione nel corso dell’azione come conversazione
riflessiva con la situazione, sia una riflessione sul proprio conoscere nella pratica, per apprendere
ma anche disapprendere dalla propria esperienza, per esempio correggendo gli effetti negativi di
un’eccessiva specializzazione. La riflessione nel corso dell’azione è un’attività volta
all’organizzazione complessiva dell’esperienza e alla costruzione di una relazione con il mondo
esterno, attraverso cui le persone attribuiscono significati alle situazioni che incontrano nella
pratica professionale all’interno di specifici contesti.
I processi di apprendimento e di conoscenza emergerebbero quindi da costanti attività di scambio,
dialogo, attraverso le quali gli attori uniscono le azioni che compiono alle motivazioni, cercando di

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attribuire loro un senso. La riflessivita’ costituisce una funzione che consente l’uso di informazioni
e conoscenza attraverso l’analisi e la riformulazione delle pratiche in atto negli specifici contesti,
valorizzando il ruolo degli attori come soggetti capaci di decisioni autonome e portati a mettere in
discussione le premesse. Di qui il costrutto di doppia riflessività, a significare da un lato la
riflessione critica su sistemi socialmente costruiti, dall’altro il contributo attivo alla costruzione del
proprio ambiente. Alcuni autori propongono oggi una evoluzione del costrutto di riflessività. Di qui
la proposta di una distinzione che evidenzia la duplice natura della riflessività: in quanto reflection
e self-reflection, essa si caratterizza come operazione cognitiva di rispecchiamento, in cui le
dimensioni del se’ e le pratiche sociali e professionali diventano oggetti di una possibile
osservazione; in quanto reflexive practice o self-reflexivity essa esplora la costruzione stessa del
Se’ come qualcosa che si trasforma ed evolve continuamente, e interroga i modi in cui gli stessi
attori sociali contribuiscono alla costruzione delle realtà organizzative. Si parla, in tal caso, di
“apprendere nell’esperienza”, inteso come costante processo di interrogazione su come
costruiamo un senso condiviso con altri. La posta in gioco di tale reflexivity è far diventare i propri
modelli di riferimento da culturalmente assimilati a intenzionalmente assunti. Possono essere
rintracciate alcune prospettive in riferimento alla promozione di una concezione di riflessività
quale risorsa per valorizzare l’esperienza lavorativa e professionale come fonte e campo di
apprendimento, all’interno dei loro contesti organizzativi. Una prospettiva è quella di Mezirow e si
riferisce all’individuazione di modalità di sostegno, una sorta di guida all’apprendere nei contesti di
lavoro secondo un’ottica trasformativa ed emancipativa. L’autore assume il costrutto di
apprendimento trasformativo in quanto orientato alla riformulazione del significato per acquisire
una comprensione integrativa della propria esperienza. Un’altra proposta è relativa a una
concezione di riflessività strettamente collegata alle pratiche. Si tratta di una posizione che supera
la privatezza di una pratica riflessiva individuale, limitata a una attività di problem solving. La
“riflessione che organizza” enfatizza gli aspetti relazionali, politici e di processo collettivo propri
della pratica riflessiva. Le prospettive rinviano al legame che connette conoscenza, azione e
riflessione: avvicinare practice e practicing significa porsi in una condizione di ascolto e
osservazione attenta a cogliere la rilevazione di cio’ che via via emerge.

CAP 6
LE RISORSE PERSONALI E LA LORO ESPRESSIONE NEL CONTESTO ORGANIZZATIVO
Negli ultimi decenni il mondo delle organizzazioni ha subito una serie di cambiamenti che hanno
dato luogo alla cosiddetta “società del benessere”. Negli anni Duemila diventano come non mai
rilevanti i temi della convivenza, dell’adattamento, dell’incertezza lavorativa, del lavoro atipico,
della tecnologia e dei network rendendo sempre più complesso il quadro da fronteggiare. In
questa complessità diventa particolarmente prezioso il CAPITALE UMANO, le reti di relazioni tra
persone, in letteratura concettualizzate come capitale sociale di cui l’organizzazione può avvalersi.
La scienza psicologica deve rapportarsi con una realtà sempre più variabile e sapersi muovere in
essa, individuando le migliori condizioni tanto di adattamento quanto di innovazione proattiva,
volta non solo ad anticipare i rischi ma anche a influenzare la realtà così da fondare e rendere più
probabili gli sviluppi desiderati. In questo contesto si afferma la PSICOLOGIA POSITIVA: movimento
culturale e scientifico che si propone di portare all’attenzione le determinanti positive del
comportamento e dell’esperienza umana per promuovere condizioni di benessere ed efficacia e
prevenire le patologie che sorgono quando la vita è vuota e priva di significato.
LA LENTE DELLA PSICOLOGIA POSITIVA: L’INDIVIDUO COME PATRIMONIO DI POTENZIALITA’
REALIZZATIVE
Dal punto di vista culturale, un cambiamento nell’assetto disciplinare della psicologia si venne a
creare negli anni Sessanta con la nascita della Psicologia umanistica, promossa tra gli altri da

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Maslow, Rogers e May, che si pone come “terza forza” in quanto basata sull’avvertita necessità di
superare gli approcci classici (la psicanalisi e il comportamentismo) e di integrarne i contributi al
fine di studiare le determinanti di una vita piena e sana. Tale prospettiva si venne a caratterizzare
soprattutto come proliferazione di movimenti terapeutici di autoaiuto, piuttosto che ancorarsi in
modo significativo alla ricerca empirica. Con l’articolo introduttivo del numero di gennaio 2000 di
American Psychologist alla fondazione della Psicologia positiva con il proposito di comprendere
non solo “ciò che è” ma anche “ciò che potrebbe essere” e vengono tracciati alcuni temi principali
che verranno ripresi e trattati dagli articoli successivi.
• Un primo tema riguarda l’esperienza positiva: l’esperienza ottimale, ossia di pieno benessere e
completa autorealizzazione della persona. La selezione psicologica è mossa anche dal bisogno di
riprodurre questo tipo di esperienze.
• Un secondo tema concerne proprio la personalità positiva
• Il terzo tema ha a che fare con il riconoscimento del contesto sociale in cui le persone e le loro
esperienze sono inserite e con l’affermazione dell’importanza di prendere in considerazione le
comunità e le istituzioni positive nel perseguimento del buon vivere.

DALLA PSICOLOGIA POSITIVA ALLO STUDIO DELLE RISORSE PERSONALI NEL CONTESTO
ORGANIZZATIVO
Vari sono i movimenti che a partire dalla psicologia positiva hanno dato contributi all’ambito
lavorativo e ricollegandosi così a una più generale tendenza emergente: quella allo studio delle
risorse personali nel contesto organizzativo. RISORSE PERSONALI: secondo la teoria della
conservazione delle risorse fanno riferimento a caratteristiche della persona che sono
generalmente di aiuto nel fronteggiare lo stress ma anche nel raggiungere risultati significativi,
aventi valore per l’individuo stesso. Le risorse personali possono essere intese come aspetti del sé
generalmente collegati alla capacità personale di adattamento e alla percezione delle proprie
capacità di esercitare un controllo e impattare sul proprio ambiente. MOVIMENTO POB (POSITIVE
ORGANIZATIONAL BEHAVIOR): Il POB viene definito come lo studio e l’applicazione dei punti di
forza e delle capacità psicologiche orientate positivamente che possono essere effettivamente
misurate, sviluppate e gestite per il miglioramento della performance negli odierni contesti di
lavoro. La principale differenza rispetto alla psicologia positiva sta nel focalizzarsi su dimensioni
personali malleabili, che possono essere sviluppate mediante appositi programmi di intervento in
ambito organizzativo. Ne viene fuori il costrutto di CAPITALE PSICOLOGICO: riferito ad alcune
dimensioni di natura propriamente psicologica che consentono all’individuo di riuscire
professionalmente e che operano in stretta sinergia: l’efficacia personale lavorativa (convinzione di
saper gestire il proprio ruolo all'interno dell'organizzazione), l’ottimismo (la tendenza a leggere
positivamente la realtà in cui si opera), la resilienza (la capacità di adattarsi e riprendersi
rapidamente dagli eventi stressanti) e la determinazione (la capacità di perseverare flessibilità
verso il raggiungimento dei propri obiettivi), efficacia personale generalizzata (ottenere successo in
vari contesti), autostima basata sul l'organizzazione (soddisfare bisogni personali svolgendo ruoli
all'interno di un contesto organizzativo). CORE SELF -EVALUATIONS -> valutazioni nucleari di sé:
Judge e colleghi hanno ricondotto la convinzione di essere all’altezza delle situazioni, la tendenza a
ritenere di poter determinare eventi, l’autostima e infine la stabilità emotiva a una risorsa di base
rappresentativa del grado di considerazione che le persone hanno di sé stesse, del proprio valore e
delle proprie capacità e competenze.
Le risorse personali vengono associate sempre più allo studio del potenziale psicologico che si
affianca all'indagine e alla valorizzazione delle competenze personali che non solo facilita il
successo individuale ma lo stesso tempo quello delle organizzazioni. Mentre le competenze sono

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più legate al cosa viene fatto le risorse personali hanno a che fare con il come l’individuo affronta
le diverse situazioni in cui si trova. Dunque, bisogna adattare le competenze ai cambiamenti e
rinnovare costantemente la propria motivazione e interpretare in termini di crescita personale le
trasformazioni a cui il proprio ruolo lavorativo sarà soggetto. Con il termine risorse personali
intendiamo ricomprendere tutte quelle dimensioni che vanno a determinare il potenziale
psicologico e quindi sono allo stesso tempo un bagaglio individuale ma anche un patrimonio per
l’organizzazione, coltivabile e sviluppabile.
Gli orientamenti preferenziali cioè i valori e le inclinazioni motivazionali sono per esempio la
resilienza allo stress, la capacità di anticipazione, autoregolazione, autoriflessione e
apprendimento vicario -> queste sono dette capacità agentiche e sono alla base della possibilità di
agire intenzionalmente.
LA CAPACITA’ ALLA BASE DELL’AGENTICITA’
L’agenticità è riferita a ciò che consente alla persona di autodeterminarsi promuovendo e
valorizzando al meglio le proprie qualità e creando proattivamente i presupposti per progredire
nella propria realizzazione. Il costrutto di agenticità nasce e si sviluppa all’interno della teoria social
cognitiva di Bandura. Questa teoria sostiene che l'essere umano sia “agente” in grado di agire in
modo intenzionale su se stesso e sul proprio contesto. I processi cognitivi umani assumono
specifiche proprietà funzionali che consentono agli individui di esercitare un maggior controllo sui
pensieri, sulle motivazioni, sulle reazioni emotive e sulle azioni personali; tale controllo a sua volta
permette alla persona di orientare in modo intenzionale il proprio operato e la propria vita,
stabilendo mete da raggiungere e gestendo le proprie risorse personali verso tali fini. L’agenticità
rappresenta la facoltà umana di agire in modo trasformativo sugli eventi affrontandoli in modo
proattivo e facendosi così promotori di cambiamento. Tale facoltà generativa consente a ciascun
individuo di creare le condizioni per mettere in alto e sviluppare le proprie capacità così da
raggiungere gli obiettivi prefissati e realizzare a pieno la propria persona. Ma il funzionamento
umano è socialmente interdipendente e fortemente contestualizzato, quindi vi è l’interazione
reciproca di tre ordini variabili: intraindividuali, comportamentali e ambientali. Questo sistema di
relazioni è noto come MODELLO DEL DETERMINISMO TRIADICO RECIPROCO: in cui le volontà e le
azioni individuali non possano venir realizzate solamente facendo leva sui propri interessi,
aspettative e obiettivi, ma devono necessariamente tenere conto di vincoli esterni all’individuo
(sociali, culturali, politiche) che possono facilitarne o ostacolarne le intenzioni. Dunque l’esercizio
dell’agenticità risulta determinante: è necessario che gli individui sappiano interpretare il contesto
attuale in si trovano ad agire per comprendere opportunità e i vincoli in modo da calibrare al
meglio le proprie azioni e raggiungere così gli obiettivi.
Secondo BANDURA: l’esercizio dell’agenticità individuale è sostenuto da alcune capacità cognitive,
le quali rappresentano specifici meccanismi di base che operano in modo congiunto: le capacità
agentiche. Sono cinque le capacità individuate dall’autore: la simbolizzazione, l’anticipazione,
l’autoregolazione, l’autoriflessione e l’apprendimento vicario.
CAPACITA’ DI SIMBOLIZZAZIONE: facoltà umana di tradurre la propria esperienza e conoscenza in
rappresentazioni cognitive, ossia attribuire significati all’ambiente con cui si interagisce e
codificarlo in simboli. Tali rappresentazioni ampliano enormemente le capacità di ragionamento
degli individui consentendo di collegare informazioni ed eventi diversi, elaborare piani di azione
futuri, monitorare il corso delle proprie condotte e riflettere sulle esperienze proprie e altrui,
derivandone apprendimenti generali. La simbolizzazione è alla base del funzionamento delle altro
quattro capacità agentiche, ossia l’anticipazione, l’autoregolazione, l’autoriflessione e
l’apprendimento vicario.
ANTICIPAZIONE: PREFIGURARE SCENARI E AZIONI (centrata sul futuro)

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Un elemento imprescindibile per l’autorealizzazione e per la generazione di cambiamento è quello
di avere un orizzonte futuro, ossia una “visione”, una direzione verso cui tendere, possedere la
capacità di anticipazione. Frutto di tale “esplorazione” del futuro sono le aspettative di esito, che
rappresentano il fattore chiave della capacità di anticipazione. Sulla base delle proprie attese per il
futuro, infatti, vengono poi stabiliti gli obiettivi e pianificate le attività per raggiungerli (strategie
più efficaci), elementi che guideranno la realizzazione e il cambiamento. Procedendo in questo
“esercizio prefigurativo” l'individuo acquisisce una visione più chiara dello scenario futuro,
padroneggiandolo in anticipo. La capacità di anticipazione risulta correlata positivamente:
- al costrutto di job crafting (creazione di lavoro) che consiste nella messa in atto di condotte
personalizzate per il proprio ruolo lavorativo al fine di rendere le attività più in linea con i propri
interessi e capacità;
- al work engagement (impegno di lavoro) il quale aumenta il coinvolgimento nelle attività
lavorative e si traduce in dedizione nel lavoro.
- alla prestazione lavorativa valutata dai capi: ciò attesta il legame fra l’anticipazione degli eventi,
quale risorsa utile alla pianificazione delle strategie più efficaci e alla definizione di obiettivi, e la
performance ottenuta sul lavoro.
GOAL SETTING -> consente lo sviluppo della capacità di anticipazione. La teoria del goal setting
prevede l’assegnazione di obiettivi che siano specifici e sfidanti, che offrano una direzione futura
da prefigurare e seguire. Un modo alternativo per rafforzare la capacità di anticipazione potrebbe
essere quello di investire nelle fasi di anticipazione delle attività e valutazione delle ipotesi di
lavoro. Questo pone all’individuo una approfondita esplorazione delle circostanze future, per fare
in modo di stabilire mete e percorsi di azione che rispettino gli standard richiesti e che siano allo
stesso tempo accessibili.
AUTOREGOLAZIONE: GOVERNARE LE PROPRIE CONDOTTE (opera nel presente)
Dopo essersi proiettati nel futuro bisogna governare il proprio operato in modo autonomo, gli
individui possiedono infatti un particolare meccanismo di regolazione delle motivazioni, emozioni
e condotte, che consente loro di monitorare costantemente l’allineamento del proprio
funzionamento con gli obiettivi prefissati e di intervenire in caso di azioni improduttive. BANDURA
descrive il funzionamento dell’autoregolazione come strettamente legato a un processo di
monitoraggio attraverso il quale l’individuo valuta il grado di efficacia del proprio operato
confrontandolo con specifici standard prestazionali che possono derivare da aspettative definite in
fase di pianificazione ma anche da criteri morali acquisiti con l’esperienza o dai livelli di
performance di individui significativi. La capacità di autoregolazione consente di intervenire sui
propri stati personali e sulle proprie condotte in accordo con quanto emerso da tale monitoraggio
e proprio grazie a esso, infatti generano delle reazioni affettive nell’individuo che a loro volta
hanno carattere motivante e vanno quindi a influenzare direttamente la qualità delle azioni
successive, l’individuo è cioè in grado, grazie all’autoregolazione, di trasformare le proprie reazioni
affettive in una spinta motivazionale per operare in maniera più appropriata ed efficace. La
capacità di autoregolazione correla positivamente con il job crafting e il work engagement. Essa
può essere rafforzata lavorando sulle emozioni, in quanto meccanismo che garantisce
l’allineamento fra le azioni del presente e gli obiettivi futuri (perché influenza le azioni successive).
TECNICA DEL FEEDFORWARD: in una prima fase viene condotta una rievocazione guidata di
un’esperienza passata di successo lavorativo, nella quale il contributo dell’individuo sia stato
determinante per il buon esito degli eventi; nel descrivere i propri punti di forza, si scatena in esso
un’immediata reazione auto-valutativa positiva, che alimenta le convinzioni di efficacia personale
e genera un’ampia energia pronta per l’azione; da qui si procede con la seconda fase, nella quale si
chiede di tradurre in azioni concrete le risorse personali descritte in precedenza, quindi di riflettere
su come poterle sfruttare per affrontare gli obiettivi lavorativi presenti e futuri. La tecnica del

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feedforward rende l’individuo consapevole del ruolo motivante svolto dalle emozioni, e
contemporaneamente lo informa sulle risorse su cui capitalizzare (investire) in futuro.
AUTORIFLESSIONE: CAPITALIZZARE DALLA PROPRIA ESPERIENZA. (si rivolge al passato)
Al termine di una sequenza di azioni orientate a un obiettivo, gli individui sono in grado di
elaborare un pensiero sul proprio operato, così da valutarne l’efficacia. La capacità di
autoriflessione rappresenta un fondamentale strumento per l’apprendimento individuale.
L’autoriflessione si rivolge invece al passato, alle azioni messe in atto nel perseguimento di un
obiettivo: il giudizio che emerge consente di identificare le strategie migliori da usare in futuro.
Valutazione del proprio operato viene effettuata confrontando le conseguenze delle proprie
azioni, attraverso un paragone: - fra risultati e aspettative di esito
- fra risultati propri a quelli degli altri
Questo lavoro di analisi consente di perfezionare le proprie strategie lavorative, rafforzare le
competenze e sviluppare giudizi accurati sulle proprie abilità e generando di conseguenza
performance future migliori. Es. LESSON LEARNED: un gruppo di lavoro, al termine di un progetto,
si riunisce per ripercorrere e rielaborare l’esperienza e, a fronte dei risultati ottenuti, formalizzare
gli apprendimenti acquisiti, in termini sia di strategie efficaci su cui capitalizzare in futuro sia di
azioni improduttive da abbandonare.
• Correlata positivamente al job crafting: la capacità di riflettere sulle esperienze vissute si associ a
un maggior livello di consapevolezza sui propri interessi lavorativi e sulle necessità di sviluppo
personali.
• Correlata positivamente al work engagement: la tendenza a ripercorrere le proprie strategie di
azione sia associata a una maggiore consapevolezza del contributo fornito personalmente per
raggiungere i risultati; aver presente il nesso fra le proprie capacità e gli outcome generati
faciliterebbe così il riconoscimento dell’importanza del proprio operato, traducendosi di
conseguenza in una percezione di entusiasmo nel lavoro e in una forte volontà di impegnarsi in
esso. • Correlata positivamente alla prestazione lavorativa valutata dai capi.
Riguardo alla possibilità di sviluppare la capacità di autoriflessione, un modo per farlo è attraverso
il feedback. La qualità del feedback, positivo o negativo che sia, influenza la reazione del
collaboratore a esso generando un’approfondita revisione delle proprie azioni da parte sua (il
feedback deve essere però corretto). Una valida alternativa è quella di istituire delle attività ad hoc
volte a sviluppare l’autoriflessione, come narrazioni scritte circa specifiche mansioni lavorative o
sessioni di riflessione guidata con i propri colleghi.
APPRENDIMENTO VICARIO: CAPITALIZZARE DALL’OSSERVAZIONE DI ALTRI
Oltre a riflettere e attribuire significato alle conseguenze dirette delle proprie azioni, gli individui
sono in grado di acquisire tali elementi anche tramite l’osservazione di altri in azione. La capacità
di apprendimento vicario si riferisce proprio a questa seconda alternativa: gli individui creano
rappresentazioni cognitive delle azioni altrui e ne assimilano le determinanti sottostanti così da
poterle riprodurre. L’individuo non fa leva soltanto sul sistema di rappresentazioni, energie e
comportamenti di cui già dispone; piuttosto, acquisisce risorse che ritiene importanti dagli altri. Il
focus di questa capacità agenticità è esterno. Secondo BANDURA apprendimento vicario si
compone di 4 DIFFERENTI SOTTOPROCESSI: i processi attentivi implicano la regolazione del focus
attenzionale durante l’osservazione e determinano quali informazioni vengono registrate; i
processi motivazionali invece promuovono l’apprendimento in virtù del nesso fra le condotte
altrui e outcome importanti per se stessi; i processi di rappresentazione cognitiva delle azioni
osservate, consentono la memorizzazione, ponendo le basi per consolidare l’apprendimento della
condotta acquisita; i processi comportamentali si riferiscono ai successivi tentativi di mettere in
pratica quanto rappresentato cognitivamente, affinando con la ripetizione la propria condotta
rispetto al modello. L’apprendimento vicario si riferisce anche a elementi cognitivi e affettivi. La

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capacità di apprendimento vicario ha un importante valore adattivo, in quanto garantisce una
rapida e sicura acquisizione di conoscenze importanti per l’integrazione sociale e culturale
dell’individuo (es linguaggio). Un’altra caratteristica che rende fortemente adattiva la capacità in
questione è la sicurezza: essendo l’apprendimento mediato dall’azione degli altri, l’individuo si
muove in un contesto protetto, ossia non è esposto ai rischi legati al fare esperienza di nuove
strategie in azione (errori, azioni improduttive). LA CAPACITA’ DI APPRENDIMENTO VICARIO:
• Correlata positivamente al job crafting: esplora in maniera indiretta nuovi progetti, mansioni che
sono più in linea ai propri interessi
• Correlata positivamente al work engagement: maggiore padronanza nelle dinamiche lavorative
Per sviluppare la capacità di apprendimento vicario si può procedere stimolando processi di
affiancamento e confronto intenzionale e una valida opzione di intervento è rappresentata dal
peer coaching. PEER COACHING: questa tecnica prevede la realizzazione di workshop nei quali un
gruppo di colleghi deve svolgere specifiche attività, quali discutere di un particolare processo
lavorativo, pianificare le azioni in vista di un nuovo progetto o affrontare un problema. Durante e
al termine dell’attività i partecipanti vengono stimolati a sfruttare la propria capacità di
apprendimento vicario. La tecnica del peer coaching promuove così una maggiore attenzione alle
modalità altrui di lettura e fronteggiamento delle situazioni, nonché una capacità di valutazione
sull’utilità di quanto osservato, che giustifichi l’impegno necessario per l’apprendimento.
EFFICACIA PERSONALE: LA CONVINZIONE DI POTER RIUSCIRE
Fondamentale nello sviluppo e nell’esercizio delle facoltà individuali è il credere di potercela fare.
Il costrutto di efficacia personale, o autoefficacia, si inscrive all’interno della teoria social cognitiva
di Bandura e corrisponde appunto alle convinzioni che le persone hanno circa le proprie capacità
di organizzare ed eseguire le azioni necessarie per produrre determinati risultati o raggiungere
specifiche mete entro un particolare contesto. Ciò che rende diversa l'efficacia da altri costrutti
come l'autostima (Giudizio di valore complessivo sulla persona stabile nel tempo) è il focus. È
l’autoefficacia a definire che cosa voglia dire aver successo o no in quell’attività, contribuendo a
dar forma agli standard da usare come riferimento nel valutare la propria efficacia o meno; è
sempre all’interno della dimensionale sociale che l’individuo mette alla prova le proprie capacità
formulando dentro di sé i propri giudizi inerenti alla maggiore o minore padronanza dell’ambito in
cui si è cimentato. IL CARATTERE COGNITIVO DELL’AUTOEFFICACIA riguarda aspetti che
appartengono alla sfera dei pensieri, delle credenze e delle valutazioni, le quali si strutturano in
una convinzione più o meno forte di poter riuscire. Le convinzioni di efficacia personale hanno un
ruolo chiave nel processo decisionale: gli obiettivi da perseguire saranno più elevati e ambiziosi se
si ha maggiore convinzione di riuscire, in questo modo si sviluppa l'orientamento al successo.
Viceversa, quando non si è convinti di riuscire non si fanno sforzi per migliorare il proprio saper
fare e dunque porta a evitare di esporsi. Essere convinti di riuscire risulta molto rilevante sul luogo
di lavoro, condizionando lo sviluppo della propria carriera per arrivare al successo ma anche per il
benessere personale, rendendo meno vulnerabili allo stress e al burnout (esaurimento) e più
propensi a sperimentare un vissuto piacevole del proprio lavoro.
L’EFFICACIA PERSONALE PUO’ ESSERE SVILUPPATA SOSTANZIALMENTE IN QUATTRO MODI
(Bandura) attraverso:
• ESPERIENZA DIRETTA di gestione efficace di una specifica situazione, mediante la quale una
persona sviluppa non solo le proprie competenze ma anche la fiducia nelle proprie capacità di
riuscire ad attivare e sostenere dei particolari corsi di azione.
• ESPERIENZA VICARIA: che avviene in modo indiretto mediante l’osservazione di un individuo che
funge da modello e facilita l’apprendimento tramite imitazione senza peraltro richiedere
l’esecuzione in prima persona dell’azione.

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• PERSASUASIONE VERBALE: opera affrontando e modificando direttamente l’aspetto cognitivo
delle convinzioni di efficacia, senza passare per l’aspetto esperienziale, tramite le parole di
supporto e incoraggiamento che si ricevono da una fonte esperta e credibile.
• CONTROLLO E LA DECODIFICA DELLE TENSIONI: che aiuta a interpretare alcuni segnali in modo
meno catastrofico e più funzionale al raggiungimento dei propri risultati, consentendo anche in
questo caso di consolidare le convinzioni di efficacia personale.
DETERMINAZIONE: VOLONTA’ CHE GENERA PROCESSI
COSTRUTTO DELLA DETERMINAZIONE: la spinta interna alla realizzazione e al conseguimento di
risultati. SNYDER, psicologo del filone positivo la definisce come uno stato motivazionale basato
sull’interazione fra tre componenti:
• AGENCY (agenticità) fa riferimento alla determinazione interna e alla forza di volontà necessaria
a raggiungere i propri obiettivi. In questo caso non si tratta di pensieri e credenze ma di una vera e
propria spinta interna a profondere impegno e continuità all’azione.
• GOALS (obiettivi): la tensione motivazionale che si attiva nella persona è orientata al
raggiungimento di specifiche mete che ne caratterizzano la volontà e che forniscono a tale spinta
una direzione. Distinguiamo tra: la Perseveranza (big five, Caprara)->una tendenza stabile a
perseverare nelle proprie azioni che la persona esprime in tutte le situazioni e in tutti i contesti; e
la Determinazione-> rivolta a qualche proposito a una meta o a un insieme di mete da raggiungere
ed è quindi una dimensione maggiormente specifica e circoscritta.
• PATHWAYS (percorsi verso di essi) è la capacità di generare percorsi, strategia, modalità in
grado di condurre al raggiungimento degli obiettivi prefissati: gli individui con un elevato livello di
determinazione sono convinti che esista sempre una via (o più di una) per raggiungere i propri
obiettivi, sono fortemente motivati nel farlo, e riescono a mantenere tale costanza nell’impegno
anche di fronte alle difficoltà, generando strategie alternative di condotta e scegliendo quelle più
appropriate per realizzare le loro volontà. La ricerca ha mostrato che la determinazione è
associata, nei contesti organizzativi, a rilevanti esiti positivi come la redditività, la performance
lavorativa, la leadership. Nella prospettiva della Psicologia positiva la determinazione si propone
come una dimensione malleabile (livello individuale e collettivo). SNYDER: ha dimostrato che
attraverso interventi con focus sugli obiettivi è possibile incrementare il livello di determinazione
individuale. LUTHANS E YOUSSEF: hanno studiato diversi modi con cui poter sviluppare, nei
contesti organizzativi, la forza di volontà e la flessibilità strategica di dipendenti. L’intervento per lo
sviluppo della determinazione può operare su tre livelli: • GOAL SETTING: l’assegnazione di
obiettivi specifici, realistici, attuabili e chiari. • PIANIFICAZIONE: lo sviluppo delle strategie e dei
percorsi, attuabile attraverso la verifica mentale dei possibili sviluppi di ciascuna strategia e la
scansione dei percorsi ipotizzati in passi (sotto-obiettivi) che rendano apprezzabili anche progressi
di lieve entità. • Lo sviluppo della volontà individuale, realizzabile attraverso iniziative
partecipative, nelle quali i lavoratori possano percepire la motivante sensazione di esercitare una
forma di controllo sul presente e sul futuro proprio e dell’organizzazione (empowerment), e
mostrando fiducia nei lavoratori stessi, così da rinforzare la tensione propositiva verso il
raggiungimento degli obiettivi.
OTTIMISMO: L’INTERPRETAZIONE POSITIVA DEL PRESENTE E DEL FUTURO
SELIGMAN: l’ottimismo consiste in uno stile di attribuzione positivo che spiega gli eventi positivi
attribuendoli a cause interne, permanenti e pervasive, e che riconduce invece gli eventi negativi a
cause esterne, transitorie e contingenti. Ciò vuol dire che gli ottimisti si attribuiscono il merito degli
eventi favorevoli sperimentati (cause interne), giudicano elevate le probabilità che tali eventi o le
loro ricadute positive si protraggano nel tempo e che la natura positiva di questi eventi sia
generalizzabile e in grado di coinvolgere e contagiare positivamente altri eventi o circostanze
(cause pervasive); gli eventi sfavorevoli vengono da loro ricondotti a fattori “altri da sé” (cause

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esterne), sono inoltre ritenuti passeggieri e occasionali (cause transitorie) e pertanto non
generalizzabili ad altre circostanze o occasioni (cause contingenti). Gli ottimisti traggono beneficio
dai propri successi, alimentando la propria autostima e sviluppando fiducia nella possibilità che si
verificano eventi positivi, mentre i pessimisti attribuiscono gli eventi positivi a cause esterne,
transitorie e contingenti, dando al contrario maggiore rilevanza ad enfasi agli eventi negativi, che
vengono attribuiti a cause interne permanenti e pervasive. Alcuni autori hanno definito
l’ottimismo come un’aspettativa positiva orientata al futuro che può essere sviluppata, centrando
il focus sulla natura positiva delle prefigurazioni d’esito sperimentate dagli ottimisti. Gli ottimisti
ritengono che nel loro futuro si troveranno ad affrontare prevalentemente eventi positivi e una
quantità invece relativamente ridotta di eventi negativi, questi ultimi intesi come destinati a essere
passeggeri. La caratteristica principale delle aspettative ottimistiche di esito è la credenza che con
il dovuto sforzo si possano raggiungere i traguardi che ci si pone. Tale credenza è assente negli
individui con aspettative negative e ciò inibisce l’azione e la perseveranza. Questa dimensione si
ricollega a una valutazione di ciò che la persona ritiene sia ottenibile in una determinata
situazione, al netto del corretto riconoscimento degli aspetti sia favorevoli sia sfavorevoli che essa
presenta e ponendosi in un’ottica di valorizzazione dei primi e di neutralizzazione dei secondi.
L’ottimismo rappresenta una condizione meno specifica e di più ampia portata (a differenza
dell’efficacia e della determinazione). È proprio l’ottimismo che consente di sviluppare una fiducia
in una serie di fattori ai quali le convinzioni di efficacia e la determinazione, data la loro natura più
circoscritta, non possono arrivare compiutamente, liberando in tal senso l’azione della persona in
direzioni mai esplorate. [l’efficacia personale conferisce la convinzione di svolgere al meglio le
varie azioni, la determinazione fornisce la forza di volontà ma è necessario anche l'ottimismo]
L’ottimismo è un vero e proprio modo di percepire e pensare sé stessi e le circostanze nelle quali si
opera, e si riflette ella maggiore facilità allo sviluppo di una visione positiva in merito agli eventi di
vita, con particolare riferimento, rispetto al nostro interesse, alle vicende organizzative.
L’ottimismo, nella prospettiva della Psicologia positiva, è un costrutto di carattere dinamico e
malleabile che può essere sviluppato lavorando su tre piani temporali e adottando in tal senso tre
differenti strategie: il sollievo per il passato (attraverso il ripensamento e l’accettazione dei
fallimenti del passato e lasciando andare gli errori a cui non è più possibile trovare riparo),
l’apprezzamento per il presente (aspetti positivi con riferimento sia a ciò che è possibile
controllare sia a quello che invece è al di fuori del proprio controllo), la ricerca di opportunità per il
futuro. L’ottimismo non deve essere eccessivo, deve basarsi su una prospettiva realistica.
RESILIENZA: L’ELASTICITA’ DEGLI EQUILIBRI PERSONALI.
La resilienza rappresenta la capacità di riprendersi dalle avversità, dall’incertezza, dai fallimenti o
anche da alcuni eventi positivi ma implicanti cambiamenti apparentemente troppo ardui da
affrontare (capacità di adattarsi e riorganizzare la propria vita in maniera positiva difronte le
difficoltà). In condizioni dove gli equilibri sono mutati, la persona dotata di resilienza riesce a
tendersi come un elastico, flessibilmente, per poi recuperare lo stato di equilibrio. Il termine
deriva proprio dalla fisica e indica la proprietà che hanno alcuni materiali, quando posti sotto
pressione, di modificare la propria forma senza rompersi. Il concetto di resilienza implica il
rimando all’uso di strategie di coping efficaci, ossia ad azioni in grado di porre rimedio, sul piano
sia emotivo sia sostanziale, alle difficoltà. La dimensione della resilienza non si caratterizza soltanto
per l’assenza di risposte negative a eventi stressanti, ma comporti anche una significativa presenza
di risposte positive, come se gli ostacoli e le avversità rappresentassero per la persona resiliente
delle occasioni di rilancio e sviluppo. L’adattamento comporta l’accettazione della realtà, la
valutazione delle possibili alternative e la scelta del percorso da intraprendere. Tale processo di
adattamento coinvolge da un lato la gestione flessibile degli equilibri emozionali e dall’altro
un’elasticità di natura più cognitiva, che consente alla persona di esplorare con curiosità e

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interesse le risorse del proprio contesto. Studi dimostrano l’associazione fra resilienza ed elementi
potenzialmente rilevanti per la vita lavorativa e desiderabili per le organizzazioni, quali la
flessibilità cognitiva nell’affrontare richieste mutevoli e l’apertura a esperienze nuove a cui si
aggiunge la stabilità emotiva di fronte alle avversità. Le persone con alti livelli di resilienza si
adattano meglio di fronte a esperienze negative e cambiamenti dell’ambiente esterno e risultano
più inclini a sperimentare emozioni positive anche in situazioni stressanti. MASTEN, LUTHANS E
YOUSSEF propongono tre diversi modi per sviluppare il livello individuale di resilienza: • le
strategie focalizzate sul rischio (consistono nella riduzione dei fattori esterni) • Strategie
focalizzate sulle risorse (operano invece identificando e rinforzando gli elementi contestuali in
grado di rendere maggiormente probabili gli esiti desiderati) • Strategie focalizzate sul processo
(operano mobilitando il sistema di adattamento necessario per poter effettivamente utilizzare le
risorse individuali e contestuali per affrontare al meglio i fattori di rischio).
L’ESPRESSIONE INTEGRATA DELLE RISORSE PSICOLOGICHE E IL LORO IMPATTO CONGIUNTO
SULLA RINASCITA PROFESSIONALE.
Le risorse psicologiche si integrano e si intrecciano le une con le altre e operano in sinergia fra
loro. Nel complesso appare chiaro come l’ottimismo, l’efficacia personale e la resilienza
concorrano tutti allo sviluppo della determinazione. La determinazione, la resilienza e l’ottimismo
sono caratteristiche che contribuiscono a promuovere lo sviluppo del senso di efficacia personale.
Esiste una matrice psicologica comune che lega le suddette dimensioni tra loro -> il CAPITALE
PSICOLOGICO: stato psicologico positivo di sviluppo caratterizzato da:
• Avere la convinzione di riuscire a mettere in atto gli sforzi necessari per raggiungere obiettivi
sfidanti (efficacia personale).
• Perseverare verso gli obiettivi e laddove necessario, cambiare strategia per raggiungerli
(determinazione)
• Fare attribuzioni positive sulla propria riuscita presente e futuro (ottimismo).
• Reagire ai problemi e alle difficoltà che si presentano e superarle per ottenere il successo
(resilienza).
Si può affermare che il capitale psicologico deriva nel suo insieme dalle capacità agentiche e
dall’integrazione di queste in stati psicologici più complessi e orientati alla realizzazione personale
e professionale. Le capacità agentiche rappresenterebbero delle risorse di base, responsabili della
costruzione di un rapporto costruttivo con l’esperienza passata, presente e futura; propria la
natura positiva, generativa e intenzionale di tale rapporto con la realtà interna ed esterna
consente lo sviluppo di risorse psicologiche più articolate e complesse, le quali si integrano in un
capitale, di natura psicologica, che conferisce all’individuo e al suo percorso un forte valore
aggiunto in termini di potenziale realizzativo. [le capacità agentiche si influenzano tra loro] Le
risorse personali di base consentono alla persona di esercitare un’azione trasformativa
innanzitutto su sé stessa, sviluppando risorse personali di natura più avanzata le quali, a loro volta,
risultano determinanti per lo sviluppo di interazioni reciprocamente vantaggiose tra individuo e
organizzazione. Un altro processo attraverso il quale le capacità agentiche possono tradursi in esiti
organizzativi rilevanti e nello specifico in prestazione lavorativa, è rappresentato dal job crafting
inteso con riferimento alla sua dimensione di carattere accrescitivo che è emerso quale mediatore
totale dell’impatto esercitato dalle capacità di anticipazione e autoriflessione individuali sulla
performance valutata dai capi. Tale risultato sta a indicare una modalità di azione trasformativa
dell’agenticità rivolta stavolta più al contesto esterno anziché alla persona stessa. Le risorse
personali di base rappresentate dalle capacità agentiche permettono all’individuo di esercitare
un’azione trasformativa “agentica” anche sul ruolo professionale ricoperto, considerato nelle sue
caratteristiche lavorative e relazionali, rafforzando sia le risorse strutturali e sociali sia le richieste

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sfidanti, e creando così le condizioni contestuali più favorevoli per l’efficace espressione delle
proprie competenze.
• Lo PSYCAP (capitale psicologico) è risultato essere un predittore longitudinale del job crafting, a
indicare che chi è più convinto di riuscire in attività difficili, capace di generare percorsi alternativi
persistendo fino a realizzare le proprie mete, positivo nell’interpretazione della realtà in divenire e
infine in grado di superare agevolmente i momenti difficili, nel tempo può con maggiore
probabilità, intraprendere azioni volte a trasformare e ampliare il proprio lavoro in accordo con le
proprie motivazioni, trovando modalità innovative per svolgerlo e facendosi carico dei rischi e
dello stress che ciò può comportare. • Anche il JOB CRAFTING è risultato progredire positivamente
lo PsyCap a indicare come lo sviluppo in senso accrescitivo del proprio ruolo professionale possa
aiutare la persona a sentirsi più convinta e competente rendendola inoltre più motivata e flessibile
grazie a quanto sperimentato e appreso, fornendole ulteriori riscontri positivi in grado di
sostenere un’interpretazione ottimistica della situazione e infine facilitandola nel fronteggiare le
eventuali avversità mediante gli arricchimenti professionali e sociali conseguiti: questo risultato
sembra suggerire l’esistenza di un ciclo di guadagno in cui l’investimento iniziale di risorse
personali in comportamenti agentici orientati a rafforzare le risorse contestuali comporta nel
tempo un ulteriore potenziamento delle risorse personali medesime. • il JOB CRAFTING è
predittore della soddisfazione lavorativa, evidenziando allo stesso tempo una sua predizione
positiva anche rispetto alle promozioni. • Anche il JOB CRAFTING, quale dimensione di agenticità
espressa, costituisce nel contesto organizzativo una strategia efficace attraverso cui le persone
mettono a frutto le proprie risorse e ne traggono risultati di carriera positivi, in termini sia relativi a
quanto soggettivamente vissuto come appagante sia legati all’effettiva progressione
nell’organigramma. • Infine, il job crafting è risultato mediare totalmente entrambe le relazioni fra
PsyCap e soddisfazione lavorativa, e fra PsyCap e promozioni, suggerendo che il capitale
psicologico conduce al successo di carriera soprattutto per via agentica, attraverso comportamenti
proattivi.

CAP 7
I CLIMI ORGANIZZATIVI
Occuparsi di clima organizzativo significa dare centralità all’uomo, al lavoratore. - il clima è una
descrizione percepita dall'ambiente di lavoro - la soddisfazione lavorativa rappresenta la risposta
di valutazione effettiva delle persone in relazione ad aspetti del loro lavoro. L'analisi del clima
organizzativo rientra nell'ambito delle action strategies cioè interventi organizzativi che hanno
l'obiettivo di: risultare utili al cliente esaminando al contempo le basi teoriche da cui originano, ed
essere partecipatori e condivisi.
IL COSTRUTTO DI CLIMA
Il punto di riferimento per gli studiosi è il concetto, proposto da Lewin, di “atmosfera sociale”,
inserito nell’ambito della ricerca-azione, che poi costituisce il primo tentativo di individuazione
delle dimensioni climatiche. L’atmosfera psicologica si definisce come una proprietà intangibile
della situazione sociale complessiva e come quel sistema di percezioni e di attribuzioni di
significato che i protagonisti di un campo psicologico giudicano pertinente in uno spazio e in un
tempo dato. Negli studi più recenti, il concetto di clima è una metafora per usufruire di previsioni
“meteorologiche” in campo sociale (l’aria che si respira all’interno di un’organizzazione). Il clima
organizzativo fa riferimento a vissuti, atteggiamenti, emozioni, problemi, aspettative, speranze,
difficoltà, grado di coinvolgimento, senso di appartenenza, coesione del gruppo. Nel 1992 Moran e
Volkwein classificano in successione cronologica 4 approcci negli studi sul clima: Strutturale,
Percettivo, Interattivo e Culturale. Ricordiamo che per Lewin il comportamento è una funzione
dell’integrazione tra ambiente e persona: C = f(A,P).

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L’APPROCCIO STRUTTURALE (A)
I modelli che appartengono all’approccio strutturale considerano il clima una caratteristica
dell’organizzazione, un suo attributo, che esiste indipendentemente dai membri e dalle loro
percezioni. Il clima è considerato come un insieme di attributi organizzativi misurabili attraverso
criteri di tipo oggettivo. Il clima è una manifestazione oggettiva della struttura organizzativa, che
dà luogo a percezioni comuni dei membri di una stessa organizzazione. Forehand e von Haller
Gilmer definiscono il clima organizzativo come un set di caratteristiche che descrivono
un’organizzazione e che a) la distinguono da altre organizzazioni, b) sono relativamente durature
nel tempo, c) influenzano il comportamento degli individui nell’organizzazione. Si tratta di stimoli
generati dall’organizzazione che vengono mediati dalle caratteristiche e dai valori degli individui.
Gli autori individuano come determinanti per le percezioni di clima i seguenti elementi
organizzativi: la dimensione dei gruppi, lo stile di leadership, la complessità sistemica, la direzione
delle mete organizzative. È una concezione complessa, multidimensionale e molare. Campbell e
collaboratori considerano il clima come una serie di attributi specifici di una particolare
organizzazione, che possono prendere forma grazie al modo con cui l’organizzazione tratta i propri
membri e il proprio ambiente. Per il membro dell’organizzazione, il clima prende la forma di una
serie di atteggiamenti e aspettative che descrivono l’organizzazione in termini sia di caratteristiche
statiche (es. livello di autonomia) sia di conseguenze comportamentali e risultati contingenti.
Questo approccio è stato criticato, perché non spiega i risultati di quelle ricerche che individuano
climi diversi in gruppi di lavoro diversi appartenenti a una stessa organizzazione, poi perché la
relazione tra il clima organizzativo e le rispettive caratteristiche strutturali non è dimostrata da
nessuna ricerca e infine perché non viene valutato l’impatto soggettivo che le variabili strutturali
hanno sulle reazioni individuali in una data situazione, e perché non si prendono in considerazione
i processi interattivi che si hanno tra diversi gruppi e che tendono a creare una comune cultura
organizzativa.
L’APPROCCIO PERCETTIVO (P)
Con James e Jones questo approccio colloca l’origine del clima all’interno dell’individuo. Gli
individui reagiscono e interpretano le variabili situazionali non solo sulle caratteristiche oggettive
della situazione o degli attributi strutturali, ma soprattutto sulla base degli aspetti che sono
psicologicamente significativi per l’organizzazione nel suo complesso e per il proprio stare
nell’organizzazione. Il soggetto quindi percepisce e interpreta il contesto organizzativo e crea una
sua rappresentazione psicologica del clima utilizzando la struttura e i processi che caratterizzano
l’organizzazione. La definizione di clima proposta da James e Jones si basa sulla differenza tra il
clima organizzativo, inteso come insieme di attributi organizzativi e dei loro effetti principali, e il
clima psicologico, riferito ad attributi individuali, chiamati “processi psicologici intervenienti”.
Payne e Phesey elaborano una teoria basta sul processo causale/circolare del clima considerato
come stimolante e influenzante il comportamento individuale e organizzativo o ne è a sua volta
influenzato. Secondo Payne e Pugh il contesto e la struttura restano la chiave per comprendere
atteggiamento dei membri dell'organizzazione, dei valori e delle loro percezioni degli eventi
organizzativi. Dunque il clima deriva dagli aspetti oggettivi della struttura dell'organizzazione.
Schneider attribuisce al clima una valenza percettivo-soggettiva e una connotazione di globalità e
totalità. Joyce e Slocum nel 1982 ripropongono il dualismo tra clima psicologico e clima
organizzativo. Attraverso il costrutto di “mappe cognitive”, spiegano come il clima psicologico si
riferisce alle descrizioni individuali di pratiche e procedure organizzative, il clima organizzativo si
riferisce a una descrizione collettiva di questo ambiente, molto spesso misurata attraverso la
media delle percezioni dei membri dell’organizzazione. Il limite di questi approcci sta nella loro
parzialità, in quanto collocano le origini del clima all’interno dell’individuo senza considerare le

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percezioni che si creano nelle relazioni di causalità reciproca tra le persone e tra le persone e
l’ambiente.
L’APPROCCIO INTERATTIVO (P e A)
L’approccio interattivo può essere considerato una sintesi dei due approcci precedenti. Il suo
assunto di base è che gli individui interagiscono dando origine a percezioni condivise che
diventano l’origine del clima. Due scuole di pensiero :
-La fenomenologia di Husserl parla dell’intersoggettività come del processo fondamentale grazie al
quale si costituisce un collegamento sovraindividuale fra le prospettive, le interpretazioni, i valori e
le credenze. Alla base dell’intersoggettività c’è la consapevolezza che gli altri hanno di esperienze
simili alle proprie e, quindi, si costruisce il proprio self usando gli altri come modelli. Gli individui
creano mappe cognitive per identificare e comprendere gli eventi del mondo circostante. Quando i
membri dell’organizzazione interagiscono tra di loro, si verifica uno scambio di esperienze e
percezioni e le varie mappe vengono confrontate e modificate. Risulta così un modo comune di
percepire e interpretare ciò che succede nell’organizzazione. Il clima è quindi determinato da
percezioni comuni che si evolvono nel corso del tempo e degli eventi
-l’interazionismo simbolico di George Hebert Mead, che considera la realtà come una costruzione
sociale in cui gli esseri umani sono attori che utilizzano dei simboli, attraverso i quali comunicano e
acquisiscono una propria identità. Schneider e Reichers si ispirano a questo approccio sostenendo
che il significato delle cose nasce dall’interazione tra le persone. Pool e McPhee propongono la
teoria “strutturazionale”. Essi sostengono che il clima non è rintracciabile nelle percezioni
personali degli individui, ma nelle loro interazioni. Il clima consente di interpretare e comprendere
specifici eventi organizzativi perché è un tramite, nel senso che genera delle strutture là dove non
esistono, e, allo stesso tempo, è un risultato delle pratiche quotidiane presenti nelle
organizzazioni. [Clima e struttura non sono quindi contrapposti, ma integrati.] Il clima è un
atteggiamento collettivo, prodotto dalle interazioni. Quello che la prospettiva interattiva non
spiega è come l’ambiente e la cultura influenzino l’interazione tra i membri.
L’APPROCCIO CULTURALE
Come quello interattivo, pone al centro dell’attenzione l’interazione tra i membri
dell’organizzazione, ma in più evidenzia il ruolo fondamentale che svolge la cultura organizzativa
nei processi che producono il clima. Ci si sposta quindi da un piano prevalentemente “psico”
dell’approccio interattivo a un piano prevalentemente “socio”. L’approccio culturale si basa sul
fatto che i gruppi costruiscono la realtà attraverso la creazione di una cultura organizzativa, cioè un
insieme di significati condivisi dai membri del gruppo che esiste nelle loro interazioni, legati al
contesto, ai valori, alle norme e alla storia dell’organizzazione. [Il clima fa parte della cultura e si
colloca tra gli artefatti e i valori]. Nella prospettiva comportamentista la cultura è un insieme di
risposte che il gruppo ha appreso per garantire la sua sopravvivenza nell’ambiente esterno e
superare i problemi di integrazione al suo interno. L’approccio cognitivista ritiene che le culture
organizzative si formino con il contributo di tutti i membri dell’organizzazione e siano costituite da
un insieme di soluzioni ai problemi che permettono alle persone di interagire con l’ambiente. La
cultura è alla base delle relazioni sociali e serve agli individui per interpretare le loro esperienze e
guidare i loro comportamenti. All’interno dell’approccio culturale, Schneider è giunto alla
conclusione che clima e cultura sono concetti multidimensionali, e strettamente relazionati tra di
loro attraverso questi aspetti:
 Il clima e la cultura si occupano del modo con cui i membri dell’organizzazione danno un
senso al loro ambiente, generando così un sistema di significati condivisi;
 Il clima e la cultura sono appresi attraverso un processo di socializzazione e di interazione
simbolica tra i membri del gruppo;
 Il clima e la cultura sono tentativi di identificare l’ambiente;

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 La cultura ha un alto livello di astrazione, e il clima è la sua manifestazione.
Una prima differenza tra questi due concetti sta nella natura mutevole del clima e in quella più
stabile della cultura. Un’altra differenza è relativa al campo di influenza: il clima agisce soprattutto
a livello di atteggiamenti e valori, la cultura opera anche a livelli superiori, come quello ideologico
e filosofico. Il clima è il frutto delle variazioni immediate nell’ambiente interno ed esterno
all’organizzazione, ma allo stesso tempo è intessuto dalle più profonde forme della cultura, che
consente al clima di avere una sorta di ancoraggio. L’azione di clima e cultura si nota in momenti
alterni: il clima si esprime nei gesti quotidiani, negli atteggiamenti del lavoratore, mentre la cultura
viene percepito nell’aria, è un insieme di assunti non detti, ma impliciti nell’organizzazione.
SVILUPPI RECENTI
Nell’ultimo decennio si abbandona l’idea di poter individuare un clima unico e omogeneo in una
realtà organizzativa, e si rafforza l’idea più articolata di “clima collettivo”; un’idea che propone il
concetto di “aggregazione climatica” intesa come l’aggregazione delle percezioni soggettive in
unità più complesse che si riferiscono sia a differenti gruppi, sia alle differenti aree che
costituiscono la geografia dell’organizzazione. I climi collettivi sono percezioni di procedure e
norme organizzative.
L’interesse sembra essersi spostato soprattutto sulla ricerca delle relazioni tra il clima e altre
variabili organizzative significative. A riguardo Field e Abelson sottolineano il legame tra clima e
soddisfazione lavorativa, ma anche la differenza: un clima, essendo una percezione del mondo
esterno, è diverso dalla soddisfazione sul lavoro, che è uno stato emotivo interno e cioè
individuale. Ambedue sono concetti soggettivi e rientrano nell’ambito degli atteggiamenti, ma
mentre il clima è una percezione prevalentemente descrittiva, la soddisfazione è una valutazione
prevalentemente emotiva. È un rapporto correlazionale, piuttosto che causa-effetto. Infatti, se
vivere in un ambiente lavorativo che presenta un buon clima è fonte di benessere e soddisfazione,
è altrettanto vero che se si è soddisfatti del lavoro che si svolge si avrà un atteggiamento positivo
verso l’organizzazione di appartenenza e i colleghi di lavoro, contribuendo alla creazione di un
clima positivo. Per concludere, si è passati da un modello statico (struttura organizzativa, persona
che percepisce) a uno più dinamico (interazione, cultura). Oggi non si parla più di clima ma di climi,
di climate for something. Infatti, gli ultimi filoni di ricerca stanno indagando le interrelazioni tra
clima e altri fattori: clima e motivazione: relazione bidirezionale; clima e creatività: relazione
mediata dalla motivazione; clima e giustizia organizzativa; clima e benessere organizzativo;
mobbing; burnout; sicurezza; rischi psicosociali; soddisfazione. L’analisi del clima organizzativo è
un momento di riflessione ma nello stesso tempo uno strumento di cambiamento delle pratiche
organizzative. [Lewin sostiene che non c’è niente di più concreto di una buona teoria.]
RICERCHE-INTERVENTO E POLITICHE GESTIONALI
L’analisi del clima organizzativo rientra nell’ambito delle action strategies, le quali sono
partecipatorie e condivise, e nelle quali ogni intervento deve risultare utile al cliente.
L’action research è un processo di ricerca all’interno del quale si ha equivalenza tra soggetto e
oggetto di indagine e l’obiettivo di pervenire a un cambiamento. In quest’ottica, la diagnosi del
clima costituisce un positivo punto di innesco per il cambiamento. Attraverso l’action research
vengono chiariti, puntualizzati, quantificati e verificati gli elementi chiave dell’organizzazione.
Principio fondamentale dell’action research è la partecipazione democratica, il ciclo continuo di
analisi, riconcettualizzazione e miglioramento della situazione, attraverso due principi guida: il
miglioramento e il coinvolgimento. L’analisi del clima costituisce per i membri dell’organizzazione
il segnale che vi è una reale volontà politica di prestare la dovuta attenzione a tutti i componenti
dell’organizzazione. Ma solo se fatti e politiche concrete seguiranno al primo momento di
attenzione e ascolto, si potrà innescare un circolo virtuoso nei rapporti tra dipendenti e
organizzazione di appartenenza, che favorisce l’emergere delle aspettative dei membri,

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determinando la necessità di negoziarle. Estremamente delicato è il ruolo del consulente di
processo, come facilitatore. L’esperto deve possedere conoscenze teoriche e abilità operative
nell’utilizzo di strumenti psicodiagnostici, e nel gestire e interpretare adeguatamente le
informazioni raccolte. Deve essere pertanto esperto sul campo di dinamiche organizzative,
garantire il “rispetto delle regole del gioco”, e cioè: dell’anonimato, della trasparenza, del
coinvolgimento, del ritorno delle informazioni e dell’utilizzo degli outcome ai fini del
miglioramento della qualità della vita lavorativa delle risorse umane nonché dell’efficienza
organizzativa. Il tutto nel massimo rispetto delle leggi in materia di lavoro, ma pure in
ottemperanza delle regole del codice deontologico e professionale dello psicologo. Il
professionista psicologo del lavoro e delle organizzazioni, sia pure affiancato da altre figure
professionali interne ed esterne all’organizzazione, è il più titolato a realizzare una diagnosi di
clima organizzativo.
STRUMENTI PER LA VALUTAZIONE DEL CLIMA
Gli strumenti per la misura del clima si dividono in 2 tipologie:
 tailor-made -> strumento costruito su misura per la realtà organizzativa specifica, unica e
irripetibile (per uno specifico contesto organizzativo), consente solo analisi
intraorganizzative e non possiede un sufficiente livello di qualità metriche scientificamente
validate
 ready-made -> strumento che fornisce informazioni utili e scientificamente garantite per
capire la reale situazione climatica di un'organizzazione e consente di effettuare analisi
Interorganizzative (statistiche nazionali)
strumenti principali:
 LSOCQ -> misurare il clima organizzativo: proprietà dell'ambiente di lavoro. Strumento
composto da 50 item che esprimono 9 dimensioni del clima misurati su scala likert a 4 passi
(da decisamente d’accordo ad assolutamente in disaccordo): 1. Struttura, 2. Responsabilità,
3. Premi, 4. Rischio, 5. Supporto, 6. Calore, 7. Standard, 8. Identità, 9. Conflitto.
 WES -> work environment scale: per valutare i diversi ambienti di lavoro. Composto da 90
affermazioni vero/falso riferite a dieci suscale raggruppabili in 3 aree: relazioni, crscita
personale e cambiamento organizzativo. Può essere somministrato in 3 forme: R, realeche
misura la percezione del lavoratore rispetto all’ambiente di lavoro; I, ideale che misura gli
obiettivi e i valori del lavoratore; e, expected che valuta le aspettative del lavoratore
rispetto all’ambiente di lavoro.
 OCM ->organizational climate measure: è una misura globale, multidimensionale di clima
organizzativo. Si basa sul modello dei valori competitivi e consta di 17 dimensioni generate
dalla combinazione di 4 ordinamenti (flessibilità-controllo-interno-esterno) che danno
luogo ai 4 principali modelli di gestione dell’organizzazione: human relations model;
internal process model; open system model; rational goal model. Lo strumento è composto
da 90 item misurati su scala likert a 4 passi (da assolutamente falso ad assolutamente vero)
 M-DOQ -> Majer D’amato organizational questionnaire: per tutti i ruoli lavorativi e tutti i
livelli di scolarità, è uno strumento attendibile ed è utilizzato sia per la somministrazione sia
per la fase di scoring. Indaga 10 principali dimensioni: 1. Comunicazione, 2. Autonomia, 3.
Team, 4. Coerenza/Fairness, 5. job description, 6. job involvement, 7. Reward, 8.
Leadership, 9. Innovatività, 10. Dinamismo/sviluppo.

LE FASI DELL’ANALISI DEL CLIMA


LE PRECONDIZIONI

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L’obiettivo di diagnosticare il clima organizzativo è normalmente intrapreso dai vertici
dell’organizzazione. È importante definire obiettivi realistici, e valutare il rapporto rischi/benefici:
riguardo ai benefici può:
 Fornire informazioni precise sulla realtà organizzativa, per poter impostare piani e
programmi mirati;
 Stimolare i singoli a riflettere sulle loro percezioni individuali e sulla vita professionale e
organizzativa;
 Aiutare a razionalizzare, a portare a livello conscio i problemi, rendendo meno pericolose le
eventuali tensioni emotive nascoste;
 Preparare ad affrontare i cambiamenti;
 attivare aspettative e stimolare energie nei dipendenti, perché si sentono non più “oggetti”
ma “soggetti” di particolare attenzione da parte dei vertici dell’organizzazione (effetto
Hawthorne).
A riguardo dei possibili rischi, l’analisi del clima può:
 contribuire a scatenare tensioni latenti;
 creare resistenze da parte di chi non ha voluto la ricerca o non è stato coinvolto
adeguatamente o pensa di avere qualcosa da perdere;
 creare frustrazione e sfiducia verso l’organizzazione se le aspettative di miglioramento
verranno disattese.
LA TEMPISTICA
Nella maggior parte dei casi le analisi vengono effettuate:
 Nelle fasi di stabilità e in assenza di preoccupazioni contingenti (normale funzionamento);
 Quando l’azienda attraverso un periodo di crisi e di particolare tensione/difficoltà.
La scelta di quale sia il momento più opportuno spetta al management, a seconda della filosofia
gestionale che si adotta. Si potrebbe sostenere che il momento ottimale è quello in cui
l’organizzazione sta funzionando “regolarmente”, in quanto ciò consente di fare una rilevazione
dello stato normale, e non di uno stato che cambierà presto. Ma se invece c’è tensione,
preoccupazione, conflitto, ecc., si possono individuare le cause e agire di conseguenza. In altre
parole, non esiste in assoluto un momento ideale, ma sono le componenti gestionali
dell’organizzazione a decidere che è utile farla essendo pienamente consapevole dei vantaggi e dei
rischi che la ricerca-intervento comporta.
LA PROCEDURA
Il numero e la successione degli step che seguono non sono rigidi, ma è una scaletta possibile,
frutto di esperienze empiriche. La maggiore criticità dell’analisi del clima organizzativo non risiede
tanto nella scelta di uno strumento di misura, quanto nella corretta implementazione del
processo.
GLI STEP OPERATIVI
 Step I. Individuazione del gruppo di lavoro che comprenderà sia i
ricercatori/professionisti, sia alcuni membri dell’organizzazione, appartenenti
generalmente alla direzione generale e al personale. È fondamentale che i ruoli siano ben
chiari e definiti, e che ciascun gruppo di lavoro rimanga costante per tutta la realizzazione
del progetto, nonché che tutti partecipino a ogni incontro. Il gruppo terrà inoltre
costantemente informati i vertici dell’organizzazione, affinché possano assumere decisioni
strategiche.
 Step II. Definizione degli obiettivi generali. Sarà negoziato il contenuto dell’analisi del
clima e saranno condivisi gli obiettivi. In questa fase, ma anche in tutti i momenti successivi,
risulta utile far seguire a ogni incontro uno scritto riassuntivo contenente punti discussi e
decisioni prese.

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 Step III. Analisi preliminare del contesto organizzativo. Sarà compito dei professionisti
avviare la prima analisi esplorativa della realtà organizzativa, per cogliere gli aspetti che
non è possibile conoscere tramite la descrizione effettuata dai responsabili aziendali e dalla
lettura, comunque indispensabile, della documentazione di rito (organigramma, fatturato,
etc.). Gli strumenti principali utilizzati in questa fase sono l’osservazione delle prassi
organizzative e i colloqui con le persone che in essa operano. Si tratta di “girare” per
l’organizzazione e dialogare con chi vi opera, in modo informale, cercando di influire il
meno possibile sulla situazione. Si potrà inoltre avviare un programma di interviste
individuali semistrutturate ad alcuni testimoni privilegiati selezionati casualmente in base a
variabili organizzative rilevanti (es. lavoro, anzianità).
 Step IV. La definizione degli obiettivi specifici. Il team definirà nel dettaglio, alla luce delle
informazioni raccolte, gli obiettivi che realisticamente potranno essere conseguiti, e le fasi
operative di lavoro.
 Step V. Scelta della popolazione che sarà direttamente coinvolta nel processo di raccolta
delle informazioni. In organizzazioni di grandi dimensioni si potrà talvolta ritenere più
funzionale analizzare per alcune fasce l’intera popolazione, per altre si potrà ricorrere a un
campione rappresentativo della popolazione di riferimento. Nell’effettuare questa scelta è
importante avere la consapevolezza del messaggio e dell’influenza che essa veicolerà
all’interno dell’organizzazione.
 Step VI. Messa a punto della metodologia e scelta degli strumenti di rilevazione. Si
possono individuare 2 distinti approcci nell’analisi del clima organizzativo: quantitativo e
qualitativo. L’approccio quantitativo, con carattere prevalentemente descrittivo, si riferisce
generalmente all’utilizzo di questionari strutturati, e consente la raccolta di informazioni
direttamente da parte dei soggetti, attraverso analisi ripetute a intervalli ragionevoli in
relazione sia agli accadimenti organizzativi interni sia in concomitanza a eventi esterni.
L’approccio qualitativo, con forti potenzialità esplicative, si può avvalere di interviste
individuali e/o di gruppo, consentendo di prendere in carico gli aspetti soggettivi che
emergono. Quando i contenuti e gli obiettivi della ricerca ne evidenziano l’opportunità, si
potranno utilizzare congiuntamente analisi qualitative e quantitative, facendo dialogare tra
loro gli outcome che ne emergeranno. Si ritiene più utile adottare un approccio “ibrido”,
ossia costruire delle procedure personalizzate in cui trovano spazio strumenti costruiti ad
hoc (tailor) e strumenti standardizzati (ready).
 Step VII. Verifica della funzionalità della procedura e delle tecniche. La verifica della
funzionalità e dell’applicabilità della procedura messa a punto sarà effettuata su un gruppo
campione estratto dall’organizzazione. Si tratta di una simulazione molto precisa della
procedura, alla fine della quale i partecipanti saranno sollecitati a formulare riflessioni e
commenti sulle domande e sulla procedura. Tale somministrazione “sperimentale”
consentirà, inoltre, di verificare “sul campo” i tempi e le modalità di somministrazione.
L’obiettivo è far sì che l’intero procedimento, e gli strumenti in particolare, risultino il più
possibile friendly in termini di comprensione, chiarezza, adeguatezza e applicabilità.
 Step VIII. Raccolta estensiva dei dati. La popolazione (o il campione) prescelta sarà
convocata. In questa fase i dipendenti parteciperanno attivamente, fornendo informazioni
e interagendo con il gruppo di ricerca.
 Step IX. Elaborazioni statistiche. I dati di tipo quantitativo raccolti verranno sottoposti a
elaborazioni statistiche atte a evidenziare la rilevanza organizzativa delle variabili
indipendenti individuate a priori dal gruppo di ricerca, procedendo al confronto dei risultati
dell’organizzazione con i dati a livello nazionale per individuare i punti di forza e le aree di
criticità dell’organizzazione nel suo insieme e in ciascun sottogruppo.

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 Step X. Prima lettura dei risultati e stesura del report provvisorio. La prima lettura dei
risultati è effettuata all’interno del team. Vengono avanzate le prime ipotesi interpretative
dei dati utilizzando le informazioni di tipo quantitativo e qualitativo. Il gruppo di ricerca
stenderà quindi un report che conterrà, oltre ai dati emersi e elaborati, anche ipotesi
interpretative che verranno discusse con i responsabili dell’organizzazione.
 Step XI. Incontro con i responsabili/committenti. Il feedback dei dati emersi nel corso
della ricerca dovrà essere condiviso con tutti i membri dell’organizzazione, seppur con
modalità diverse. Si preferisce che i gruppi dei dirigenti e dei rappresentanti sindacali siano
i primi ad essere informati, per lo più separatamente, e con essi verranno discusse le
ipotesi interpretative, con il possibile emergere di linee di azione.
 Step XII. Ritorno delle informazioni ai partecipanti. Costituisce un duplice obiettivo: da un
lato, i dipendenti hanno il diritto e l’esigenza di conoscere la situazione globale presente
all’interno della loro organizzazione. Esprimere il proprio punto di vista determina sia una
maggiore consapevolezza individuale sia l’assunzione di responsabilità da parte del singolo
dipendente; inoltre, la conoscenza del punto di vista altrui può favorire una presa di
coscienza collettiva e l’individuazione dei percorsi comuni per il miglioramento della qualità
della vita organizzativa. Dall’altro, è proprio nel momento della discussione dei risultati che
i dipendenti, fornendo la loro lettura dei dati, possono riuscire a evidenziare nessi logici
sfuggiti al gruppo di ricerca, che non vive quotidianamente “sulla propria pelle” le
problematiche dell’organizzazione indagata.
 Step XIII. Stesura del report finale. La stesura del report finale terrà conto di tutte le
informazioni, quantitative e qualitative raccolte e in particolare di quanto emerso dalle
riunioni con i diversi gruppi aziendali nel momento del feedback. Verranno formulate
ipotesi interpretative e proposte atte a promuovere il cambiamento auspicato per
migliorare la qualità della vita di lavoro dei dipendenti e l’efficacia e l’efficienza dell’agire
organizzativo. Il report finale costituisce inoltre un primo momento per verificare, a valle
delle azioni mirate che si intende intraprendere, quali e quanti saranno i cambiamenti e i
miglioramenti.
 Step XIV. L’osservatorio permanente. Come in tutte le realtà vive, la dimensione
temporale ha un grande significato per l’organizzazione e, se si vuole passare “dalla
fotografia al film”, sarà necessario che i primi dati raccolti dall’analisi di clima (fotografia)
possano essere confrontati con quelli che verranno raccolti in momenti successivi (altri
fotogrammi), per consentire con ciò una visione organica e diacronica dei fenomeni (come i
vissuti dei dipendenti). L’implementazione di un osservatorio permanente consentirà alle
organizzazioni di disporre di dati certi e aggiornati per le decisioni di politica gestionale e
organizzativa.

CAP 8
GRUPPI DI LAVORO
Oggi gran parte delle imprese non nasce con una funzione imprenditoriale concentrata in un’unica
persona, ma grazie ad un team. Il successo dell’impresa dipende anche dalla competenza a
lavorare insieme che le persone che compongono il gruppo possiedono. I malfunzionamento dei
team sono una delle cause principali di crisi e fallimento delle imprese.
DEFINIZIONE DI GRUPPO E LAVORO DI GRUPPO
LEWIN: il gruppo è qualcosa di più, diverso dalla somma dei suoi membri, infatti ha una struttura
propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è
la somiglianza o dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Il suo
contributo rimanda in particolare all’importanza di considerare il gruppo come un tutto, una

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totalità dinamica, un soggetto sociale organizzato in grado di generare comportamenti, pensieri,
valori culturali ed emozioni propri, distinti da quelli dei singoli membri che lo costituiscono.
Elemento chiave di tale definizione è l’interdipendenza tra i componenti, fenomeno per cui un
cambiamento di stato di una parte del gruppo è in grado di influenzare lo stato di tutte le altre.
Quagliano, Casagrande e Castellano: propongono una concettualizzazione di gruppo di lavoro e
lavoro di gruppo. ▲ GRUPPO: insieme numericamente ridotto di persone in interazione tra di loro.
▲ GRUPPO DI LAVORO: pluralità in integrazione o una pluralità che tende progressivamente
all’integrazione dei suoi legami psicologici, all’armonizzazione delle uguaglianze e differenze che si
manifestano nel collettivo. È il raggiungimento dell’interdipendenza a trasformare un gruppo in
gruppo di lavoro, cioè l’acquisizione di consapevolezza da parte dei membri rispetto a quanto
dipendono gli uni dagli altri, e a quanto si trovano quindi in uno stato di necessità reciproca. Il
gruppo rappresenta quindi un insieme di persone in interazione fra di loro, in cui le azioni di un
membro hanno un impatto su tutti gli altri. Il gruppo di lavoro è invece un insieme interdipendente
di individui che condividono la responsabilità di specifici risultati per la loro organizzazione, aventi
capacità complementari, impegnate per uno scopo comune e per il raggiungimento degli obiettivi,
e che condividono un approccio similare. Ciò che caratterizza un gruppo di lavoro è la presenza di
collaborazione, resa possibile da tre elementi: FIDUCIA tra i membri che permette che ciascuno si
senta sicuro delle proprie e delle altrui capacità e che il confronto non sia vissuto come conflitto
ma come contributo necessario per il raggiungimento di un obiettivo comune; NEGOZIAZIONE
continua che tiene insieme le differenze e i diversi punti di vista al fine di elaborarne uno unico;
CONDIVISIONE delle decisioni prese e la loro concretizzazione in azioni volte al raggiungimento di
risultati che ciascun membro del gruppo possa riconoscere come propri. Secondo Katzenbach e
Smith l’impegno Comune è un tratto distintivo dei gruppi di lavoro, con esso diventano una
potente unità di performance e collettiva. Gli autori individuano i seguenti passaggi come
necessari a un gruppo per diventare un gruppo di lavoro: La leadership diventa attivit à condivisa:
La responsabilità da individuale diventa sia individuale sia collettiva; Il gruppo sviluppa un proprio
scopo o una missione; Il problem solving diventa un’attività full-time; L’efficacia viene misurata dai
risultati collettivi del gruppo. ▲Il lavoro di gruppo è l’espressione dell’azione del gruppo di lavoro
e prevede la pianificazione e lo svolgimento del compito da un lato e la gestione delle relazioni tra
i membri del gruppo e tra il gruppo e l’organizzazione dell’altro. Queste due dimensioni
dovrebbero essere considerate indissolubilmente connesse in quanto permettono al contempo sia
il conseguimento degli obiettivi comuni, sia la soddisfazione dei bisogni individuali all’interno di
relazioni sociali. Il gruppo di lavoro è caratterizzato da due fondamentali e interconnesse
dimensioni o esigenze di funzionamento: ▲ FARE INSIEME: legata all’operatività dinamica,
all’agire con gli altri introducendo piani di azione e svolgendo compiti in funzione del
raggiungimento degli obiettivi attesi e condivisi. Il gruppo esiste nella dimensione in cui agisce. ▲
STARE INSIEME: caratterizzata dalle relazioni tra i membri e dalle emozioni e dinamiche
psicologiche che ne derivano. È conseguenza della necessità umana di associarsi in gruppo per
soddisfare bisogni che possono essere soddisfatti solo all’interno di relazioni con altri individui.
TIPI DI GRUPPI DI LAVORO IN ORGANIZZAZIONE
SEI DIFFERENTI TIPI DI GRUPPO di Sundstrom e colleghi:
 i gruppi action and performing affrontano le emergenze e le crisi
 gruppi advisory offrono consulenza
 i gruppi management hanno compiti di gestione
 i gruppi production si occupano della realizzazione di un prodotto\servizio
 i gruppi project sviluppano idee e sono spesso interfunzionali
 i gruppi service offrono assistenza e hanno l’obiettivo di garantire risultati di alta qualità in
situazioni prevedibili e ripetute.

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TRUXILLO, BAUER ED ERDOGAN: nelle organizzazioni è possibile distinguere tra gruppi FORMALI e
INFORMALI. I primi vengono esplicitamente istituiti: i loro obiettivi ecc. sono definiti in modo preciso,
dispongono di risorse, hanno una leadership istituzionale, tempi programmati e frequentemente anche
un monitoraggio esterno. I secondi si formano in modo spontaneo, e la definizione degli elementi sopra
ricordati avviene dall’interno. Le TASK FORCES sono gruppi creati ad hoc in riferimento a uno specifico
obiettivo, che smetteranno di esistere quando quell’obiettivo sarà stato raggiunto.
IL GRUPPO DI LAVORO NELLA TEORIA PSICOLOGICA
ELEMENTI DI ANALISI DI UN GRUPPO CHE LAVORA:
sono stati individuati alcuni fattori essenziali per l’analisi di un gruppo di lavoro, utili non solo per fare una
lettura del suo funzionamento, ma anche per sostenere e guidare gli interventi a supporto del processo di
sviluppo da gruppo a gruppo di lavoro. MODELLO DI QUAGLINO E COLLEGHI che prevede lo studio di
SETTE FATTORI PRINCIPALI DI ANALISI DI UN GRUPPO DI LAVORO.
OBIETTIVO:
variabile fondamentale in quanto giustifica e dà senso all’esistenza stessa del gruppo di lavoro. L’obiettivo
che un gruppo di lavoro efficace si dà dovrebbe essere SMART (KREITNER, KINICKI 2013) acronimo che sta
per: • SPECIFICO: L’obiettivo deve essere definito in modo preciso e non vago e se possibile va quindi
quantificato. • MISURABILE: è importante definire a priori in che modo potrà essere misurato e valutato il
raggiungimento dell’obiettivo, attraverso specifici criteri e strumenti di misurazione che possono essere
quantitativi o qualitativi. • ATTUABILE: l’obiettivo deve essere realistico e raggiungibile in base alle
capacità e risorse del gruppo di lavoro. • ORIENTATO AL RISULTATO: la descrizione dell’obiettivo
dovrebbe rendere chiaro in che modo l’obiettivo del gruppo contribuisce al raggiungimento del risultato
finale che sostiene la visione organizzativa. • LEGATO AL TEMPO: è fondamentale determinare i tempi
dell’obiettivo. METODO:
il metodo può essere definito come il modo di funzionamento del gruppo di lavoro, caratterizzato da un
lato dai principi e criteri che guidano l’attività del gruppo, dall’altro dalle modalità che strutturano e
organizzano l’attività stessa. È una specificazione delle norme operative che governano l’agire del gruppo.
Favorisce la tendenza all’uniformità rispetto alle diverse modalità che i membri utilizzano nell’affrontare e
risolvere un problema. Le principali attività per le quali è fondamentale che il gruppo di lavoro definisca
un metodo sono: • ANALISI DELLE RISORSE E DEI VINCOLI: è importante che il gruppo conosca bene ciò di
cui dispone in termini di risorse e vincoli, dove le risorse rappresentano ciò che il gruppo può utilizzare
per lo svolgimento del compito e i vincoli rappresentano ciò che invece limita e condiziona il gruppo.
• DISCUSSIONE: la sopravvivenza del gruppo e il procedere del suo lavoro si basano in maniera
sostanziale sul dialogo e confronto tra i membri. • DECISIONE: ai gruppi di lavoro è costantemente
richiesto di prendere delle decisioni, anche in questo è bene darsi un metodo, che influenzerà sia il livello
di condivisione e consenso da parte dei membri rispetto alla decisione presa, sia la sua qualità e aderenza
al problema.
• PIANIFICAZIONE DEL TEMPO: rispetto all’obiettivo da raggiungere, il gruppo deve predisporre
un’agenda di lavoro, definire cioè le azioni da introdurre e i tempi previsti per ciascuna di esse. •
PROBLEM SOLVING: ciascun membro porta nel gruppo diverse modalità di ragionamento e quindi di
problem solving.
RUOLI:
l’insieme di comportamenti che ci si aspetta da parte di chi occupa una determinata posizione, assegnati
a ciascuno in funzione del riconoscimento delle sue specificità. I membri portano infatti nel gruppo
differenze di competenze, esperienze, approcci. Il sistema di ruoli si basa sulla valorizzazione e creatività e
di permettere a ciascuno di esprimere sé stesso. Alcune aree di un gruppo di lavoro richiedono di essere
presidiate attraverso ruoli precisi: • AREA DEL RISULTATO: necessaria per garantire il raggiungimento
degli obiettivi, generalmente presidiata dal ruolo del conservatore (che costruisce e mantiene la memoria
del gruppo e lo aiuta a procedere), e dal ruolo del realizzatore (colui che spinge alla concretezza

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mantenendo il gruppo focalizzato sui tempi e sull’obiettivo). • AREA DEL LAVORO: presidiata dal ruolo del
metodologo (orienta il problem solving e l’organizzazione del lavoro) e dal negoziatore (aumenta il livello
di partecipazione e condivisione). • AREA DELLE RELAZIONI: presidiata dal ruolo del comunicatore e del
facilitatore (coinvolge i membri meno partecipativi, attento alle esigenze di tutti). • AREA DELLE
QUALITA’: presidiata dal ruolo del creativo (ribalta i soliti schemi e propone nuovi punti di vista) e
dall’innovatore (spinge verso il cambiamento).
COMUNICAZIONE:
la comunicazione nei gruppi di lavoro può essere definita come un processo interattivo, informativo e
trasformativo, grazie al quale si realizzano il dialogo e la struttura di relazioni tra le persone, avviene lo
scambio di dati e informazioni, si generano innovazione e cambiamento. Le componenti principali:
• CONFRONTO E SCAMBIO: a livello sia di contenuto che di relazione. • ASCOLTO: reso possibile dalla
fiducia e dalla consapevolezza che gli altri possono essere una risorsa utile per la propria crescita e dal
riconoscimento della situazione comune nella quale si sta operando e quindi del valore che la
comunicazione di ciascun membro può avere per la soluzione del problema. • ESPOSIZIONE: può essere a
livello sia di contenuto che di relazione ed è orientata a trasmettere elementi significativi. • FEEDBACK:
dare o richiedere informazioni di ritorno per verificare la comprensione dei contenuti comunicati.
CLIMA:
è l’insieme di elementi, sentimenti, percezioni dei membri che descrivono l’atmosfera che si respira nel
gruppo. Alcuni indicatori in grado di esprimere il clima di un gruppo sono: • SOSTEGNO: descrive la
fiducia di poter ricevere aiuto concreto, in caso di bisogno, dagli altri membri e dal leader. • CALORE:
riferito alla qualità delle relazioni e al grado di vicinanza tra i membri, indice di un’atmosfera amichevole.
• RICONOSCIMENTO DEI RUOLI: relativo al livello di riconoscimento e accettazione delle differenze
individuali e alla convinzione comune che si può contare sul contributo di tutti. • APERTURA E FEEDBACK:
collegandosi al processo di comunicazione, tali indicatori si riferiscono alla possibilità di esprimere nel
gruppo le proprie idee, di accettare il disaccordo.
SVILUPPO:
nel momento in cui evolve un gruppo di lavoro si avvia un processo di sviluppo che porta alla costruzione
di un sistema di competenze autonomo del gruppo e alla crescita dei sistemi di competenza individuali.
Per quanto riguarda le competenze del gruppo, si tratta di un sistema che è più della somma dei sistemi
di competenza dei membri che lo costituiscono che comprende: • CONOSCENZE (o cultura del gruppo):
rappresentano il sapere che possiede o deve acquisire per lavorare efficacemente. • CAPACITA’:
strategica (gli permette di svilupparsi come sistema), innovativa (gli permette di progredire e arricchire il
sistema stesso), informativa (sostiene gli scambi all’interno del gruppo e verso l’esterno), operativa
(governa l’esecutività). • QUALITA’: possono essere raggruppate in qualità di sistema (insieme di
attitudini che permettono al gruppo di vivere e svilupparsi come unità differenziata), qualità relazionali
interne ed esterne (comprendono le modalità di relazione rispettivamente tra i membri e con l’ambiente
esterno), qualità d’azione (modalità di lavoro).
LEADERSHIP:
la leadership è una variabile capace di supportare aspetti sia strutturali sia processuali nel gruppo di
lavoro e inoltre ha la funzione di garantire sopravvivenza e crescita del gruppo stesso. LEADER
FUNZIONALI: possono esserci molteplici ruoli di leadership ricoperti da diversi membri del gruppo con
una costante negoziazione dei ruoli in funzione della situazione. LEADER ISTITUZIONALI: in genere è uno
solo, formalmente scelto dall’organizzazione per condurre il gruppo. LEADERSHIP DI SERVIZIO: permette
di considerare il leader e il gruppo come indistinguibili all’interno del processo relazionale e delle scelte
operative, infatti lavora con e non per il gruppo ed ha la funzione di facilitare il lavoro più che fornire
risposte.
CICLO DI VITA DI UN GRUPPO
Per descrivere il ciclo di vita di un gruppo sono stati proposti diversi modelli:

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MODELLO DI TUCKMAN: • FORMING (PRIMA FASE) = è il momento in cui il gruppo si forma e i membri si
incontrano per la prima volta. Le interazioni tra le persone sono in genere di tipo superficiale, finalizzate
allo scambio di informazioni e alla conoscenza reciproca. Il gruppo comincia a comprendere il compito
per il quale è stato creato e a discutere le norme iniziali. La fiducia in questa fase è bassa.
• STORMING (SECONDA FASE) = la più tempestosa del processo di sviluppo durante la quale emergono le
differenze personali e i membri del gruppo si confrontano e si scontrano nel tentativo di comprendere
qual è il loro ruolo e come ciascuno si inserisce nella struttura di potere. In questa fase (periodo di prova)
i componenti del gruppo si studiano a vicenda per vedere chi emergerà come più potente. Molti gruppi si
fermano a questa fase (spesso si generano conflitti). • NORMING (TERZA FASE) = i membri sono pronti
per definire i ruoli più adatti a ciascuno e le relative finalità e aspettative e per cominciare a sviluppare le
norme sulle quali si basa il modo di agire del gruppo. In questa fase le persone sono maggiormente
disposte a esprimere le loro opinioni, e comincia a costruirsi la fiducia reciproca. Questa è la fase in cui il
gruppo genera al suo interno coesione. • PERFORMING (QUARTA FASE) = è il momento in cui i
partecipanti portano avanti i compiti e le richieste che determinano l’esistenza del gruppo stesso. Questa
fase è caratterizzata da cooperazione e supporto reciproco, le divergenze vengono valorizzate, affrontate
e risolte costruttivamente. • ADJOURNING (QUINTA FASE) = il lavoro è concluso quindi il gruppo si scioglie
e i suoi membri si spostano verso nuovi compiti e incarichi. Il processo può ripetersi ciclicamente e le sue
fasi hanno generalmente durata o intensità differente per ciascun gruppo che le sperimenta. Evoluzioni
recenti del modello hanno evidenziato come spesso, giunti alla fase di performing, possano entrare in
uno STATO DI DECADENZA che può assumere le seguenti forme: • DE-NORMING: gli standard di
comportamento vengono meno con il procedere del progetto. • DE-STORMING: il senso di
insoddisfazione, i disaccordi e i conflitti propri della fase di storming non emergono in maniera spontanea
e improvvisa come dovrebbero, ma al contrario compaiono lentamente portando con sé resistenze
individuali. • DE-FORMING: il gruppo di lavoro si disgrega, i sottogruppi si scontrano per assumere il
controllo, parti del progetto vengono abbandonate.

LE DINAMICHE DI GRUPPO= Il lavoro di gruppo implica prestazione a relazione, cioè fare e stare con gli
altri: l’origine delle dinamiche di gruppo va rintracciata nella fatica psicologica che questo comporta. -
FATICA LEGATA AL FARE: il fare genera un carico cognitivo ed emotivo (prendere decisioni, risolvere
problemi, monitorare attività). -FATICA LEGATA ALLO STARE: fatica legata alla relazione con gli altri, che
anche in questo caso è di ordine cognitivo ed emotivo (comunicare, ascoltare,eprimersi).
Possiamo definire le dinamiche di gruppo anche come risposte involontarie alla presenza del malessere
derivante dal fatto di lavorare con gli altri.

DIFFUSIONE DELLA RESPONSABILITA’ si verifica quanto le situazioni di gruppo possono inibire la


motivazione a rendersi attivi, quando si passa da una prestazione individuale a una di gruppo e l’individuo
avverte una minore responsabilità personale rispetto al raggiungimento dell'obiettivo.
Si presenta sottoforma di:
 pigrizia sociale ->fenomeno del social loafing cioè se gli altri fanno meno del dovuto perché io
dovrei farlo io al posto loro?
 Parassitismo -> sucker effect: quando un membro si approfitta intenzionalmente del lavoro
altrui e non contribuisce
 Free riding (corsa libera): il soggetto abbandona il gruppo in modo definitivo o momentaneo
 Bystanding (stare a guardare): quando l’individuo non interviene in una situazione in cui
potrebbe dare il proprio contributo anche se ciò può compromettere la buona riuscita del
lavoro di gruppo
 Disimpegno morale-> moral disengagement: quando l'individuo prende attivamente parte ad
azioni che contrastano i propri valori etici. il disimpegno morale può presentarsi anche in

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persone senza squilibri psicologici. I meccanismi di difesa secondo Caprara sono: la
giustificazione morale (lo faccio per una buona causa), l'etichettamento eufemistico (si
formula la frase in modo da mascherare un’azione negativa es fuoco amico), il confronto
vantaggioso (si paragona la nostra condotta con una più negativa), lo spostamento della
responsabilità (si da la colpa ad altri) e la sottovalutazione e distorsione delle conseguenze
(non è poi cosi grave).
LA RICERCA APPLICATA DEL GRUPPO
FATTORI DI EFFICACIA NEI GRUPPI
Sundstrom e colleghi hanno definito due criteri di efficacia del gruppo di lavoro:
 la performance: parli ferimento al raggiungimento di un risultato atteso che soddisfa le
richieste di un cliente
 la vitalità indica la soddisfazione dai membri del gruppo e il loro desiderio di continuare a
lavorare insieme
COMPOSIZIONE DEL GRUPPO
Tutti gli individui sono diversi tra loro e dunque hanno forma e struttura differenti dalle quali dipendono
la probabilità di successo e di efficacia. Truxillo e colleghi identificano gli elementi che determinano la
composizione del gruppo:
 dimensioni del gruppo: con l'aumentare delle dimensioni del gruppo diventa più difficile
coordinare motivare i membri verso il raggiungimento di un obiettivo comune e aumenta il
rischio di social loafing (max 5 ppersone)
 team tenure: indica per quanto tempo i membri hanno fatto parte di uno stesso gruppo. Più
tempo si passa insieme e più positiva è l'efficacia del gruppo mentre frequenti entrate uscite lo
possono indebolire.
 personalità di gruppo: le personalità dei singoli membri influenzano l'efficacia del gruppo.
 diversità di gruppo: la diversità (età, etnia, esperienze, competenze, istruzione e caratteristiche
fisiche) può rappresentare un vantaggio ma al tempo stesso possono dividere il gruppo in
sottogruppi.
FATTORI DI PROCESSO
Tra i fattori di processo (o del fare) che portano all’efficacia Truxillo e colleghi indicano:
 competenze di teamwork: Orientare il team verso il problem solving; organizzare e gestire le
attività e le prestazioni del team; contribuire alla creazione di un clima positivo; promuovere e
gestire costruttivamente il conflitto; esporre adeguatamente il proprio punto di vista ed essere
disposti a modificarlo.
 norme e ruoli
 conflitto: (influenza le prestazioni). conflitto legato al compito (caratterizzato dal confronto e
dello scambio di opinioni) e alle relazioni interpersonali (modi di fare e di essere); conflitto di
ostacolo alle performance.
FATTORI AFFETTIVI
Tra i fattori affettivi (o dello stare) ritroviamo:
 coesione: quando i membri traggono soddisfazione emotiva dalla partecipazione alle attività
del gruppo, e strumentale quando i membri sono legati da reciproca dipendenza per il
raggiungimento degli obiettivi
 cooperazione
 fiducia: che gli altri agiscono come ci si spetta
 sicurezza psicologica: (riguardo le conseguenze)
 team efficacy: rete il gruppo sia in grado di realizzare i compiti a raggiungere gli obiettivi
prefissati
DAL GRUPPO ALLA SQUADRA:

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UNA PROPOSTA RESERCH-BASED
Attraverso una ricerca di Quagliano e Cortese si individuano 4 aspetti principali su cui si basano le
buone pratiche che consentono al gruppo di lavorare con efficacia:
 l’obiettivo: lo scopo del gruppo ma anche il suo principio. Se non si ha chiaro l’obiettivo
(perché non è stato comunicato bene) il gruppo non comincia ad esistere, è l’obiettivo comune
che unisce i membri
 il metodo: insieme di regole che i componenti del gruppo scelgono di utilizzare per governare
le proprie azioni e relazioni. Non bisogna occuparsi solo delle modalità di lavoro di tipo tecnico
ma anche delle modalità di interazione. Ma alcune volte i gruppi non si occupano di metodi di
relazione perché sostengono che possano emergere spontaneamente. Da un lato il metodo
migliore non emerge spontaneamente, dall’altro nessun metodo può sostituirsi a un altro.
spesso il nemico del metodo è l’ansia di fare: agire ancora prima di aver pensato a come agire.
Il gruppo che ha fretta e inizia a lavorare senza metodo è perché i suoi membri credono di
poter lavorare da soli, si sentono autosufficenti. In questo caso l’asia di fare è associata a una
sopravvalutazione del sé (narcisismo) e una sottovalutazione degli altri che porta a percepire
gli altri membri come un ostacolo piuttosto che una risorsa e a sentirsi in grado si raggiungere
gli obiettivi da soli. Senza un metodo il gruppo non potrà mai giungere a un “noi”
 le risorse e i vincoli: per raggiungere gli obiettivi i gruppi hanno bisogno e devono saper
utilizzare le risorse (come competenze, informazioni, ambiente di lavoro, strumenti) e tenere
in considerazione i vincoli (come tempo, regole, protocolli, budget).
 il coordinamento: coordinamento significa: ancorare l’obiettivo (ricordarlo quando si perde di
vista), garantire il metodo, padroneggiare risorse e vincoli. Inoltre è importante distinguere tra
coordinamento e coordinatore (colui che fa coordinamento ed è un aspetto secondario). Se c’è
coordinamento il gruppo funziona, se c’è solo il coordinatore non è detto che egli sia in grado
di coordinare. Tutti i membri possono assumere il ruolo di coordinatori, tutti devono essere in
grado di riconoscere il bisogno di ordine e realizzarlo insieme.
EVOLUZIONI E SFIDE
GRUPPI AUTOGESTITI -> in cui vengono riconosciute autonomia e controllo nella supervisione
gestionale del lavoro. (i membri diventano supervisori di se stessi). Generalmente questi gruppi hanno
un leader esterno che non interviene nelle attività e decisioni ma ne facilita l’autogestione. I gruppi
autogestiti portano un miglioramento della vita lavorativa. A volte questi gruppi possono fallire a
causa di un leader troppo coinvolto nelle attività e non permette di sviluppare l’autonomia.
GRUPPI VIRTUALI -> grazie allo sviluppo di strumenti informatici e tecnologici si sono formati i gruppi
virtuali che non richiedono la presenza fisica dei membri ma sono gestiti virtualmente. I vantaggi
riguardano la flessibilità, la localizzazione, il tempo, il risparmio economico su viaggi e spostamenti, la
possibilità di coinvolgere esperti da ogni parte del mondo, riuscire a lavorare per 24 ore al giorno
sfruttando le ore lavorative dei diversi fusi orari nel mondo. Mentre gli svantaggi riguardano la scarsità
di scambi in presenza che portano ad un calo di coesione, fiducia, impegno, comunicazione e senso di
responsabilità (è importante garantire quindi interazioni in presenza).
GRUPPI TRANSCULTIRALI -> formati da persone provenienti da diverse zone geografiche con culture
diverse tra loro, ciò favorisce lo sviluppo a livello individuale di più elevate apertura mentale e
capacità di generare approcci diversi al problem solving, osservare le situazioni da diverse prospettive
e accrescere la creatività. La diversità culturale migliora le prestazioni del gruppo solo nel caso in cui la
condivisione e la discussione delle informazioni superano i pregiudizi (ciò è reso possibile grazie alla
motivazione ad apprendere diverse informazioni).

CAP 9
LA LEADERSHIP

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Il tema della leadership è divenuto sempre più centrale negli studi organizzativi dalla metà del 900.
Bass sostiene la leadership come dimensione della personalità, strumento per raggiungere risultati,
determinante dei processi di gruppo, esercizio di influenza, forma di persuasione, relazione di potere
e arte di avere seguito. Dunque, la leadership è definibile come l’azione di avere seguito e, al
contempo, di conseguire i risultati. Alla difficoltà di definire la leadership si associa il discusso tema
della differenza tra leadership e management. Il management è considerato come il “raggiungimento
degli obiettivi organizzativi in maniera efficace ed efficiente”. La compresenza di leadership e
management è imprescindibile per l’efficacia organizzativa.
– La leadership è una relazione di influenza tesa a realizzare significativi cambiamenti, a creare visione
e strategia per guardare al futuro, a costruire e consolidare una cultura condivisa, a sostenere la
crescita dei collaboratori e ridurre i confini gerarchici; le sue relazioni sono riconducibili alla cultura, a
dedicare attenzione alle persone e ispirare e motivare i follower, agendo come coach e facilitatore; i
suoi risultati dipendono dal potere personale, per guidare il cambiamento.
– Il management è una relazione di autorità finalizzata a produrre e vendere beni e/o servizi come
esito di un’attività coordinata, a pianificare e gestire il budget, a organizzare e scegliere i collaboratori,
dirigere e controllare, creare confini gerarchici; le sue relazioni sono riconducibili al sistema, a
dedicare attenzione agli oggetti, agisce come capo; i suoi risultati dipendono dal potere di posizione,
per mantenere la stabilità.
I PRIMI STUDI: LE TEORIE DEL “GRANDE UOMO”
Tratti, motivazioni e abilità sono gli elementi distintivi dei primi studi sulla leadership. Nella prima
parte del 900, lo sviluppo di procedure di valutazione psicometrica consentì di mettere a punto
strumenti per lo studio della leadership, nella convinzione che abilità e caratteristiche di leadership
siano stabili. Le prime ricerche, definite come approccio del grande uomo, si sono concentrate su quei
leader che hanno raggiunto un elevato livello di popolarità. Alla base di queste teorie è l’idea che
alcune persone possiedano caratteristiche che li rendono “leader naturali”. Obiettivo di questi studi,
realizzati spesso in contesti scolastici, è dunque quello di individuare ciò che è distintivo di soggetti
riconosciuti come “grandi”, differenziandoli da chi è privo di leadership. Considerazioni successive
suggeriscono che l’efficacia dei tratti sia da porre in relazione alla specificità della situazione.
L’APPROCCIO BASATO SUL COMPORTAMENTO
Lo studio di Lewin, Lippitt e White approfondisce il problema dell’influenza dello stile di leadership sul
comportamento del gruppo, sia in relazione al clima affettivo, sia riguardo alla realizzazione dei
compiti. Questo contributo è considerato precursore dell’approccio basato sul comportamento
(beahavior approach). Il lavoro di ricerca di Lewin e colleghi presso l’università dello Iowa coinvolgeva
gruppi di bambini per ciascuno dei quali era individuato un leader adulto al quale veniva chiesto di
agire con uno specifico stile di leadership: autocratica, democratica o lascia fare (laissez-faire).
Autocratico è quel leader che gestisce il potere attraverso controllo, ricompense e forme di
coercizione. Un leader democratico è invece chi delega l’autorità agli altri, incoraggia la
partecipazione, il cui potere dipende dal rispetto e dall’influenza dei collaboratori. Lo stile laissez-faire
infine fa riferimento alla tendenza del leader a essere passivo nella relazione col gruppo, evitando di
agire proattivamente e limitando le sue azioni all’intervento esplicitamente richiesto. Il gruppo
guidato da una leadership autocratica aveva una prestazione migliore quando il leader era presente,
anche se era più probabile che si manifestassero sentimenti negativi nei suoi riguardi e tra i membri
del gruppo. La prestazione del gruppo con leadership democratica era altrettanto buona, migliore sul
piano qualitativo, e restava positiva anche in assenza del leader; anche l’affettività del gruppo
appariva positiva; alcuni autori intravedono in questo stile quelle intuizioni che oggi sono alla base
dell’enfasi sull’empowerment. Il lavoro di ricerca dell’Università dello Iowa ha contribuito
significativamente a condurre gli studi oltre l’approccio dei tratti, verso quello dei comportamenti.
L’università del Michigan avvia al termine degli anni 50 un programma di ricerca guidato da Likert,

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impegnato nel compito di definire l’efficacia della leadership. I ricercatori identificarono due stili
principali di leadership:
 Centrato sul lavoro (job-centered), rilevato da scale che misurano l’enfasi sugli obiettivi e la
facilitazione del lavoro;
 Centrato sulla persona (employee-centered), rilevato da scale che misurano il supporto ai
collaboratori e la facilitazione dell’interazione.
Likert individua quattro stili di atteggiamento del management in azienda, facendo riferimento a
quattro modelli culturali: autoritario minaccioso (exploitive authoritative), autoritario benevolente
(benevolent authoritative), consultativo (consultative), partecipativo (participative). Anche il lavoro
dell’Università dell’Ohio, sotto la guida di Stogdill, prese le mosse dall’intenzione di definire lo stile di
leadership efficace, mettendo a punto uno strumento noto come Leader Behavior Description
Questionnaire (LBDQ). Dal lavoro di ricerca emersero due dimensioni principali:
 Il comportamento di realizzazione (initiating structure behavior), l’insieme dei comportamenti
tesi alla realizzazione del compito;
 Il comportamento di sostegno (considerating behavior), l’insieme dei comportamenti tesi al
riconoscimento dei bisogni dei collaboratori e allo sviluppo delle relazioni.
Dall’intreccio di queste due dimensioni sono stati individuati quattro stili di leadership: leader molto
orientati alla realizzazione del compito e poco attenti alle persone fanno quasi sempre ricorso a
comunicazioni unidirezionali e prendono le decisioni senza coinvolgere i collaboratori, mentre leader
molto attenti alle persone e meno orientati alla realizzazione del compito fanno ricorso soprattutto a
comunicazioni bidirezionali e tendono a condividere il processo decisionale.
DAGLI STILI DI LEADER ALL’APPROCCIO SITUAZIONALE
Il riferimento agli stili di leadership, espresso nell’approccio basato sul comportamento, diviene
centrale negli studi degli anni 50-60, aprendo all’approccio situazionale. Nello schema della leadership
(leadership pattern) di Tannenbaum e Schmidt, il continuum della leadership rappresenta una
descrizione degli stili di decisione del capo in relazione alle due dimensioni “opposte” dell’uso
dell’autorità da parte del capo e della discrezionalità concessa ai subordinati (p. 246). Le diverse
possibilità, lungo il continuum che interseca le due dimensioni, individuano a un estremo una
leadership centrato sul capo (quando il capo prende la decisione e la rende nota) e all’altro polo una
leadership centrata sui subordinati (i subordinati decidono in modo indipendente). Il modello di
Tannenbaum e Schmidt riconosce nello stile “centrato sul subordinato” quello capace di raggiungere il
maggior numero di obiettivi: elevare il livello di motivazione dei collaboratori, accrescere le capacità
dei collaboratori di accogliere e affrontare il cambiamento, migliorare la qualità delle decisioni prese,
sviluppare il lavoro di gruppo. Il modello è attento anche ai dati situazionali e in particolare evidenzia
3 elementi che possono orientare la scelta dello stile:
 Manager: ciascuno ha un’idea precisa circa la “leadership appropriata”;
 Collaboratori: indipendenza, responsabilità, tolleranza dell’ambiguità, conoscenza, esperienza,
etc.;
 Situazione: la cultura organizzativa prevalente in un dato contesto.
Altri fattori situazionali di influenza sono riconosciuti nella dimensione del gruppo di lavoro, nella
dispersione geografica dei collaboratori, nelle tematiche affrontate e nella “pressione” temporale. Il
lavoro di Blake e Mouton, realizzato presso l’Università del Texas, sugli stili di direzione, sviluppa la
griglia manageriale (managerial grid), che ,segnalando il legame forte tra leadership e cambiamento,
favorisce la selezione dello stile d’azione più adeguato nel sostenere la tensione verso il futuro. Il
modello (p. 248) riconosce la leadership come scelta di uno stile che oscilla tra le due dimensioni
dell’interesse per la produzione (concern for production) e dell’interesse per le persone (concern for
people). Entrambi gli interessi sono misurati attraverso un questionario che consente di identificare 5
principali modulazioni dello stile di leadership:

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 Il leader debole (impoverisched leader – 1.1): ha punteggi bassi su entrambe le dimensioni ed
è quel leader che limita i suoi sforzi al minimo indispensabile per mantenere la sua posizione;
 Il leader manipolatore (authority-compliance lader – 9.1): è interessato soprattutto alla
produzione e per questo può avere la tendenza a trattare le persone in modo strumentale.
L’interferenza dell’elemento umano è minima;
 Il leader amichevole (country club leader – 1.9): è particolarmente orientato alla relazione con
le persone e a mantenere un’atmosfera di lavoro amichevole, senza molto interesse per la
produttività;
 Il leader moderato (middle of the road leader – 5.5): ha un interesse intermedio, sia per la
produzione che per le persone, ed è orientato a mantenere una prestazione soddisfacente e
un buon clima;
 Il leader della squadra (team leader – 9.9): ha un elevato interesse sia per le persone che per la
produzione ed è teso a ottenere la prestazione migliore possibile, alimentando, al contempo,
un buon clima di gruppo.
Tra i 5 stili principali, individuati dall’intersezione delle due variabili, è il 9.9 ad essere considerato
“ideale”, capace di sintetizzare il massimo “punteggio” rispetto a entrambe le dimensioni: in questo
stile, il conseguimento dei risultati è opera di persone impegnate, e un comune interesse allo scopo
dell’organizzazione porta a rapporti di fiducia e rispetto. La griglia, rispetto al lavoro di Tannenbaum e
Schimdt, appare meno legata alle variabili situazionali che sono invece centrali nel modello di
contingenza (Contingency theory of leader effectiveness) di Fiedler. Fiedler riteneva che lo stile di
leadership fosse un atteggiamento stabile, solo in parte modulabile, distinguibile in 2 distinte
tendenze motivazionali:
 La motivazione al compito, distintiva di chi cerca di soddisfare principalmente il proprio
bisogno di realizzazione di obiettivi dati;
 La motivazione alle relazioni, distintiva di chi cerca di soddisfare principalmente il proprio
bisogno di costruire e mantenere relazioni con i follower.
Per determinare lo stile di leadership, Fiedler mise a punto il questionario Least Preferred Coworker
(LPC) per determinare due tipi di stile (il modello è infatti definito “unidimensionale”, similmente a
quello dell’università del Michigan): compito e relazione. Gli stili devono poi essere valutati in
relazione alle caratteristiche della situazione:
 La relazione tra leader e follower: è la dimensione più importante nel determinare quanto la
situazione sia favorevole per il leader. Più positive sono le relazioni, più facile è per il leader
esercitare influenza, più la situazione è favorevole;
 La struttura del compito: riguarda la maggiore o minore strutturazione del compito: compiti
semplici consentono al leader di essere maggiormente influente, e rendono la situazione più
favorevole;
 Il potere di posizione: laddove il potere di posizione è elevato, ovvero il leader ha facoltà di
assegnare compiti, di riconoscere e punire i collaboratori, la situazione si connota come più
favorevole e il leader ha maggiore influenza.
I pesi relativi di questi tre fattori servono dunque a determinare quanto la situazione possa essere
favorevole per il leader: Fiedler ha identificato otto livelli possibili, da 1 (molto favorevole) a 8 (molto
sfavorevole). Per capire se la situazione in cui ci si trova sia coerente con lo stile di leadership è
dunque necessario rispondere a tre quesiti principali (p. 250): “la relazione tra leader e collaboratori è
positiva o negativa?”, “il compito è strutturato o non strutturato?”, “il potere del leader è forte o
debole?” (situazioni 1-8). Stile di leadership appropriato alla situazione: compito/relazioni. Quando lo
stile del leader non corrisponde a quello richiesto dalla situazione, il leader può tentare di modificare
la situazione. Laddove sia necessario modificare la situazione, Fiedler suggerisce di agire soprattutto
sulla struttura del compito o sul potere di posizione, piuttosto che sulla qualità della relazione. Ma ciò

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produce perplessità nei critici, anche per lo stile di leadership considerato invariabile. Infine, è il lavoro
di Hersey e Blanchard a rappresentare il punto d’arrivo del paradigma situazionale. Il modello
propone la variabile della maturità dei collaboratori nell’affrontare il compito assegnato come
determinante cruciale della situazione. Valutata la maturità dei collaboratori, su un continuum da
bassa ad alta, il leader può scegliere lo stile più adeguato tra i 4 seguenti (p. 252), bilanciando
attenzione al compito (comportamento direttivo) e attenzione alla relazione (comportamento di
sostegno):
 Prescrivere (elevate direttive, scarso sostegno) con collaboratori di basso livello di maturità.
Fornire istruzioni dettagliate. Il processo decisionale è autonomamente assunto dal leader, che
è impegnato solo in minima parte a sviluppare relazioni positive;
 Vendere (elevate direttive, elevato sostegno) con collaboratori di livello medio-basso. Fornire
istruzioni e sostenere i collaboratori spiegando perché il compito deve essere portato a
termine. È importante lavorare sulla relazione, mentre si “vendono” i vantaggi di un’adeguata
realizzazione del compito. È il leader a prendere le decisioni, anche se può consultarsi con i
collaboratori;
 Coinvolgere (elevato sostegno, scarse direttive) quando il livello è medio alto. Dedicare poco
tempo a fornire indicazioni generali, e dedicare energie soprattutto a incoraggiare i
collaboratori. Il sostegno deve essere finalizzato ad accrescere la fiducia in sé dei follower. Il
processo decisionale coinvolge i collaboratori: la decisione necessita di essere approvata da
tutti;
 Delegare (scarso sostegno, scarse direttive) quando il livello di maturità dei collaboratori è
alto. Fornire ai collaboratori le informazioni da loro richieste, chiarendo i dubbi, ma limitando
le istruzioni per lasciare che siano i follower a prendere le decisioni relative al compito.
Il modello implica anche una dimensione di sviluppo: se all’inizio, con compiti di una certa
complessità, è bene che il leader sia disposto a prescrivere o a vendere, nel corso del tempo l’abilità e
la sicurezza dei collaboratori possono crescere e dunque la maturità stimata si può modificare.
Modulando le due dimensioni di attenzione al compito e alla relazione, il modello fornisce indicazioni
utili a spostarsi da uno stile più direttivo a uno più democratico.
IL MODELLO “PATH-GOAL” E LA TEORIA “LEADER-MEMBER EXCHANGE”
House è il principale autore della teoria path-goal. Il modello tenta di individuare alcuni moderatori
situazionali della relazione tra leadership orientata al compito e leadership orientata alla persona. Si
ipotizza che il leader possa fare ricorso allo stile maggiormente indicato per una specifica situazione,
scegliendo tra 4 tipi principali, per massimizzare la prestazione e la soddisfazione per il lavoro.
Secondo il modello è possibile innalzare la motivazione dei collaboratori puntando su quei
riconoscimenti cui essi attribuiscono valore. Queste strategie confluiscono nell’”azione cruciale”: il
leader lavora con i follower nell’aiutarli a identificare e ad apprendere i comportamenti che
condurranno al raggiungimento degli obiettivi e al riconoscimento organizzativo. Il modello si
concentra quindi sulle modalità attraverso le quali il leader influenza la percezione degli obiettivi da
parte dei collaboratori e sul percorso da seguire per raggiungere gli obiettivi stessi. I fattori situazionali
sono ricondotti:
 Alle caratteristiche dei collaboratori: necessità di guida, locus of control e abilità;
 Al contesto, che include l’autorità formale del leader, la struttura del compito, la sua
ripetitività e il gruppo di lavoro.
Una volta definita la situazione in funzione di questi fattori, si individua lo stile più adegutato tra 4:
 Direttivo: quando i follower esprimono il bisogno di essere seguiti da vicino nella realizzazione
del compito, quando il loro locus of control è prevalentemente esterno e quando la loro abilità
è bassa. Il contesto è quello in cui il compito è complicato e ambiguo;

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 Di sostegno: quando i follower hanno un locus of control interno e sono competenti ed
esperti. Il contesto è quello in cui il compito è semplice, l’autorità formale bassa ma il gruppo
di lavoro non fornisce adeguato supporto, che dunque deve essere fornito dal leader;
 Partecipativo: quando i follower vogliono essere coinvolti, hanno un locus of control interno e
sono piuttosto abili. Il contesto è caratterizzato da un compito complesso, mentre la variabile
autorità è ininfluente. Il leader partecipativo tende a includere i follower nel processo di
decision making
 Realizzativo: quando i follower sono aperti a una leadership autocratica, hanno un locus of
control interno e la loro abilità è elevata. Il contesto è caratterizzato da un compito semplice e
da un’elevata autorità. Il leader realizzativo pone obiettivi elevati ma raggiungibili e sa
riconoscere i successi. In sintesi il leader è sia direttivo, sia di sostegno.
Il modello di House non sempre ha prodotto risultati in accordo tra loro, in quanto è sempre
complicato definire la situazione in funzione degli indicatori selezionati. Sulla relazione con i
collaboratori che si concentra anche la teoria leader-member exchange (LMX), le cui origini possono
essere individuate nella vertical dyadic linkage theory, il cui oggetto di studio era la relazione diadica
(unica) tra il leader e ciascuno dei suoi collaboratori, per delegare o assegnare ruoli di lavoro. Come
risultato di questo processo è possibile che si inneschino due tipi principali di relazioni di scambio tra
leader e follower: in group-exchange (leader e follower sviluppano una partnership caratterizzata da
reciprocità e condivisione) e out-group exchange (il leader esprime un forte bisogno di controllo
attraverso le richieste formali). Rispetto alla vertical dyadic linkage theory, la teoria LMX si concentra
sulle determinanti della relazione diadica e sui suoi effetti in termini di raggiungimento degli obiettivi
organizzativi. Tra i fondamenti della teoria è possibile riconoscere un elemento della teoria dello
scambio sociale: i subordinati si sentirebbero obbligati a ricambiare le relazioni di elevata qualità con
comportamenti di cittadinanza organizzativa e di partecipazione che incidono positivamente sulla
qualità della vita organizzativa. Le caratteristiche situazionali sembrano giocare un ruolo nel
determinare la qualità del LMX: essa sarebbe minore quando leader e follower sono di genere diverso
e quando il numero di collaboratori che fa riferimento a un solo leader è elevato. L’efficacia della
relazione tra leader e follower sarebbe anche legata al supporto organizzativo percepito dai leader
stessi. Sul fronte delle implicazioni manageriali, il modello sottolinea l’importanza della formazione nel
miglioramento della qualità della relazione tra leader e follower, che dovrebbe sostenere la
soddisfazione per il lavoro, migliorare la prestazione e ridurre il turnover.
DALLA LEADERSHIP TRANSAZIONALE ALLA LEADERSHIP TRASFORMAZIONALE
Il superamento della leadership situazionale apre a un nuovo paradigma, influenzato fortemente
dall’aumento dell’incertezza: il cambiamento, che diviene necessità. È il lavoro di Burns che dà inizio
all’utilizzo dell’aggettivo “trasformazionale”. Bass precisa che i modelli presentati sin qui si
concentrano sulla leadership transazionale, ovvero sulla transazione interpersonale tra leader e
collaboratori. Le caratteristiche fondamentali della leadership transazionale sono relative all’uso, da
parte del leader, di sistemi di ricompensa contingenti, e all’esercizio di azioni correttive rispetto al
proprio stile di leadership. Per confronto la leadership trasformazionale (o carismatica) enfatizza il
comportamento simbolico del leader, i messaggi visionari e ispirazionali, la comunicazione non
verbale, il richiamo ai valori, la stimolazione e la motivazione dei collaboratori a un livello intellettuale
ed emozionale: la fiducia è la merce di scambio di questa relazione. Una sintesi degli approcci
trasformativi, carismatici e visionari della leadership evidenzia come essi abbiano elementi di affinità.
Questo insieme di contributi, che diviene sempre più centrale dalla metà degli anni 80, è definito
anche da alcuni autori come approccio neocarismatico: all’apparenza affine rispetto agli studi del
“grande uomo”, nella maggior parte dei casi i modelli riferiti a questa cornice si concentrano non
tanto su caratteristiche stabili dei soggetti, quanto su comportamenti distintivi che possono essere
oggetto di apprendimento e di crescita. Tale impostazione vale persino per il carisma che, da alcuni

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autori, è declinato in azioni e comportamenti specifici legati alla definizione e alla comunicazione della
visione. La leadership è definita come una relazione che si pone in tensione verso la trasformazione
dei collaboratori. Per Burns il leader trasformazionale è colui che riconosce i bisogni dei follower e sa
trasformare i propri follower in nuovi leader. Sono le 4 “I” usate da Bass per descrivere il profilo delle
azioni di leadership a rappresentare il modello di leadership trasformazionale più noto:
 La considerazione Individuale: comunicazione personalizzata;
 La stimolazione Intellettuale: è la via per dare energia;
 La motivazione Ispirazionale: dotare il lavoro di un significato, delineando sfide e obiettivi;
 L’influenza Idealizzante: l’attenzione alla fiducia, divenendo modello di ruolo in cui i
collaboratori possano identificarsi.
La leadership trasformazionale, e il modello di Bass in particolare, hanno attualmente molta influenza
non solo nelle ricerche scientifiche, ma anche nei contesti organizzativi reali. A cui si aggiungono:
 La costruzione del significato e il coinvolgimento attraverso la fiducia;
 La cultura da creare, gestire e modificare attraverso la leadership;
 Il cambiamento da anticipare, guidare, sostenere e consolidare ispirando una visione condivisa e
incoraggiando l’azione;
 L’apprendimento da stimolare e promuovere
LEADERSHIP EMPOWERING E TEAM LEADERSHIP
La caratteristica più significativa dei contributi recenti (anni 80-90) in tema di leadership è il passaggio
da una logica di lavoro improntata al controllo a una prassi delle relazioni ispirate all’empowerment.
Se nelle rigide gerarchie organizzative il potere era convogliato al vertice dell’azienda, oggi la “forza
della posizione” non è più sufficiente per garantire il funzionamento organizzativo. Oggi sempre più
persone reclamano maggiore potere e partecipazione nelle loro vite, sul fronte personale e
professionale. Accanto a ciò è risultato evidente come dinamiche di rigido controllo siano
controproducenti sul piano motivazionale. Quinn e Spreitzer evidenziano come l’empowering sia una
dimensione trasversale del lavoro del leader, da presidiare costantemente nella direzione di favorire
una maggior presa di responsabilità da parte dei collaboratori, attraverso la condivisione del potere, la
promozione della partecipazione e della creatività, la non penalizzazione dell’errore, che diviene
opportunità di cambiamento. Alla leadership è richiesto di essere empowering attraverso alcuni
comportamenti principali:
 Fare in modo che i collaboratori ricevano informazioni puntuali e continue sulla prestazione
organizzativa;
 Fare in modo che possano apprendere le conoscenze e le competenze adeguate per
contribuire agli obiettivi organizzativi;
 Dare ai collaboratori il potere di prendere decisioni significative;
 Aiutare i collaboratori a comprendere il significato e l’impatto del loro lavoro;
 Riconoscere il contributo dei collaboratori.
Il leader ha dunque un ruolo di “esperto nell’uso del potere”, e il suo compito è quello di
accompagnare i collaboratori nel processo di apprendimento e approfondimento del proprio potere.
Una recente meta-analisi segnala l’importanza della leadership empowering nel sostenere
l’apprendimento di gruppo. I comportamenti di leadership centrati sulla persona sono infatti
fortemente legati all’efficacia del team, alla produttività, ma soprattutto all’apprendimento. L’efficacia
della team leadership si fonda, dunque, su un insieme di comportamenti come:
 Riconoscere i bisogni individuali e di gruppo;
 Identificare i punti di forza del team;
 Costruire e consolidare la fiducia;
 Sviluppare la capacità del team di anticipare e affrontare il cambiamento;
 Delegare e condividere la responsabilità;

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 Ispirare e motivare il team;
 Riconoscere i risultati raggiunti.
LEADERSHIP AUTENTICA
La leadership l'autentica è il risultato dei cambiamenti sociali (fallimenti, crisi) dovuti a incertezza,
impoverimento e disagio. L’ autenticità fornisce una speranza nell'ambito lavorativo. Elementi
essenziali di questa leadership sono anzitutto l'autoconsapevolezza (relativa a valori, identità,
emozioni, obiettivi) e l'autoregolazione del leader (stabilire standard interni, analizzare le discrepanze
tra lo stato attuale e i risultati attesi e identificare azioni per ridurle). Bisogna:
 possedere un capitale psicologico positivo (fiducia, ottimismo)
 avere una prospettiva morale positiva
 guidare attraverso l'esempio
 sostenere la consapevolezza dai follower e la loro autoregolazione
 promuovere lo sviluppo dei follower
 avere obiettivi di prestazione sostenibili
Leadership autentica deve promuovere un clima organizzativo che a sua volta alimenti la possibilità
dell'autenticità nella relazione tra leader follower, promuovendo così capacità psicologiche e un clima
etico positivo. A differenza della leadership trasformazionale o carismatica la leadership autentica
promuove fiducia nei collaboratori attraverso un meccanismo di self-disclosure relativo sia ai punti di
forza sia a quelli di debolezza. I leader autentici sono più coinvolti nei confronti dell'organizzazione,
mostrano maggiori comportamenti di cittadinanza organizzativa e hanno collaboratori più partecipi
con maggiori livelli di fiducia e soddisfazione.
LEADERSHIP E OMBRA
La riflessione sugli aspetti “umbratili” della leadership evidenzia il nodo del potere, che diviene
centrale in momenti particolari del ciclo di vita lavorativo, quali la sfida della successione. Quando
Conger descrive il lato oscuro dei comportamenti e delle azioni del leader, egli individua soprattutto il
senso di onnipotenza, l’eccesso del potere, che porta delle conseguenze:
 Le relazioni tra i gruppi di lavoro sono contraddistinte da estreme e continue rivalità, laddove
all’interno dei gruppi di lavoro è l’eccessiva dipendenza a prevalere, mentre a livello
interpersonale manca del tutto l’attenzione all’altro, e la tendenza del leader è a essere
autocratico o, all’opposto, estremamente informale;
 La visione diventa allucinazione, rispecchia i bisogni egoistici del leader, non è misurata sulle
risorse, non è bilanciata in relazione al mercato, non è flessibile ai cambiamenti esterni;
 La comunicazione è fatta di toni eccessivi e di frequenti e insistenti tentativi di manipolazione,
di una sostanziale distorsione dell’informazione, accentuata quella positiva, omessa quella
negativa, quando non attribuita a cause esterne.
Il nodo del potere è al centro dei contributi psicodinamici in tema di leadership:
 Il potere cercato, voluto o evitato, è radicato nelle prime esperienze infantili;
 la relazione leader-follower può essere letta attraverso la chiave del transfert, come ripetizione
delle relazioni con le figure parentali;
 la vita organizzativa è pervasa da paura, invidia, rabbia;
 il narcisismo è l’elemento centrale della leadership e può essere “tradotto” nella vita
organizzativa in accezioni più mature o più problematiche, correndo il rischio della chiusura,
del travisamento dei dati di realtà, dell’instaurazione di sistemi di protezione reciproca tra
leader e follower; la perdita di potere può essere vissuta come “non esistenza”, soprattutto
all’interno delle imprese familiari;
 le fantasie dei follower rispetto al leader, prevalentemente di onnipotenza o accoglienza,
contribuiscono a co-costruire la relazione di leadership.

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Sostenere la necessità di una maggiore attenzione alle dinamiche del potere significa agire nella
direzione di limitare il lavoro dell’ombra, ma anche consentire ai leader di lavorare nell’ombra, più che
contro l’ombra, di lavorare con l’ombra: con la difficoltà di ciascuno, ma anche dell’intera
organizzazione. La leadership dovrebbe dunque esprimere la capacità di gestire questa tossicità,
attraverso un continuo esercizio di equilibrio.
CONCLUSIONI
Guardando agli studi sulla leadership, il passaggio da una prima fase, che si conclude con la leadership
situazionale, a seconda fase, che ha inizio con la definizione di leadership trasformazionale, è un
passaggio radicale da una visione della leadership strategico-manipolativa, in cui la relazione è sempre
al servizio del raggiungimento degli obiettivi e i follower sono l’elemento debole, verso una teoria più
“matura”, che pensa all’azione del leader in termini di sviluppo, sostegno, apprendimento,
partecipazione dei follower. Oggi al centro è posta la fiducia nella relazione tra leader e follower.

CAP 10
LA FOLLEWERSHIP
La followership domina le nostre vite e le nostre organizzazioni, ma non il nostro pensiero, poiché la
nostra preoccupazione rispetto alla leadership ci impedisce di considerare la natura e l’importanza del
follower.
CHE COSA SI INTENDE PER FOLLOWERSHIP?
Il termine followership derivato dal verbo to follow, fa riferimento a un’azione diretta e intenzionale,
con l’aggiunta del suffisso ship rimanda anche a un processo: il movimento volontario di qualcuno che
vede dove qualcun altro è andato e decide di prendere la medesima strada, di seguirlo. La parola
leadership rimanda all’ azione di guidare, andare per primo, condurre (to lead). Tra i concetti di leader
e follower sta alla base: la relazione (aspetto principale per poter seguire e guidare è la presenza
dell’altro). Il follower non va considerato come il subordinato ma come l’individuo che, quasi sempre
leader egli stesso, sceglie, momento per momento, se e come essere anche seguace. Mentre la
subordinazione ci parla delle cose come sono, la followership ci dice anche di come potrebbero essere
in virtù di una scelta individuale, di ruoli interpretati in modo vario e personale dagli individui. Ci sarà
una followership che è solo subordinazione di una leadership che è solo comando, ma ci sarà anche
una followership esemplare che è relazione con una leadership evoluta: un leader che resti sempre
vicino e ben visibile e un follower capace di intuire la via, contribuire a disegnare il percorso,
promuovere nuovi sentieri, capace di guidare egli stesso. All’interno della cornice di una buona
relazione: il leader cede potere anziché accentrarlo, il follower accetta di assumersi responsabilità
anziché sottrarvisi Tre aspetti della relazione follower-leader:
- Quello tra follower e leadership è un rapporto reciproco e complementare
- Followership e leadership implicano un’asimmetria nella relazione. Tale asimmetria può assumere
diverse forme
- Followership e leadership intese come relazioni sono inoltre azioni guidate attraverso un obiettivo
che è comune tra chi guida e chi segue.
LA FOLLOWERSHIP IN LETTERATURA
1. Diventa cruciale definire la followership stessa e la sua relazione con la leadership. Nelle
legame reciproco con la leadership si delinea il profilo di una followership che può essere
proattiva, che accoglie l'influenza proveniente dall'alto ma che è capace di esercitarla verso
l'alto attraverso un dialogo.
2. È necessario chiarire la relazione tra followership e altre variabili organizzative (efficacia,
benessere) a livello individuale e organizzativo
3. Mettere a fuoco le possibili implicazioni per la pratica, provando a declinare le riflessioni
teoriche e le discussioni sulle evidenze empiriche.

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Detto ciò diviene cruciale che il discorso teorico scientifico si traduca in linee guide per azioni capaci di
promuovere dinamiche positive di followership.
SHAMIR E IL RUOLO DEI FOLLOWER
Shamir ha descritto il cambiamento di prospettiva rispetto ai subordinati, analizzando come questi
siano concepiti nelle differenti teorie sulla leadership. L’autore riconduce i diversi approcci a cinque
categorie a seconda del ruolo che questi assegnano ai follower:
1. Destinatari dell’influenza del leader -> follower come destinatari, ci sono le teorie tradizionali che si
concentrano sui tratti del leader efficace. In queste teorie l’attenzione è rivolta al leader, in questo
caso un comportamento del leader influisce sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei follower che
condividendo la visione del leader si sentono più coinvolti nell’organizzazione e mettono maggiore
impegno nel lavoro. I follower non avrebbero un ruolo attivo
2. Moderatori dell’impatto dei leader -> follower come moderatori, alcune caratteristiche dei
collaboratori possono influenzare lo stile del leader. Appartengono a questo gruppo le teorie della
contingenza (es: leadership situazionale)
3. Sostituti nella leadership -> follower come sostituti, esistono situazioni in cui i follower possono fare
a meno dei leader. In particolare, quando i follower sono ben addestrati, hanno esperienza, sono
motivati
4. Costruttori della leadership -> follower come costruttori, attribuisce ai follower un ruolo centrale ed
esplicito. La leadership è generata dai follower
5. Leader -> follower come leader, proposte che mettono in discussione la distinzione tra leader e
Follower.
VERSO UNO STUDIO DELLA FOLLOWERSHIP DI PER SE’: IL CONTIBUTO DI CROSSMAN E CROSSMAN
La classificazione di Crossman e Crossman ha l’obiettivo di circoscrivere una letteratura sulla
followership di per sé. Affermano che:
- un primo insieme di teorie sia caratterizzato da individualizzazione e leader-centricità adottando
una prospettiva in cui la leadership è top-down, si occupano di studiare leader “grande uomo” e le sue
caratteristiche uniche
- un secondo insieme è rappresentato dai lavori in cui la leadership è ancora al centro anche se la
prospettiva del follower diviene più rilevate. Adottando un approccio bottom-up che esamina le
prospettive dei follower su quello che rende i leader efficaci o inefficaci. Sono comunque contributi
che restano focalizzati sulla comprensione e approfondimento della leadership
- terzo insieme è relativo agli studi secondo cui la leadership è considerata condivisa, collaborativa e
collettiva, sono studi che hanno in comune la decentralizzazione del potere. La leadership può essere
interpretata anche da più leader che emergono informalmente nell’ambito delle interazioni all’interno
del gruppo. C’è una combinazione di interdipendenza formale e informale tra leadership e
followership che porta a negare la distinzione tra le due
- ultimo insieme riguarda le teorie che riguardano la followership, intesa come processo
qualitativamente differente dalla leadership.
LA FOLLOWERSHIP DI PER SÉ: TIPOLOGIE E MODELLI
Il lavoro di analisi della letteratura sulla followership di per sé risulta piuttosto complesso. Baker
riconosce quattro tematiche ricorrenti nella letteratura sulla followership: - follower e leader
identificano ruoli e non persone con specifiche caratteristiche - i follower sono attivi e non passivi -
follower e leader condividono uno scopo comune - leadership e followership sono concetti
intrinsecamente relazionali. Crossman e Crossman hanno invece proposto una griglia interpretativa
della letteratura sulla followership di per sé distinguendo tra: - tipologie comportamentali descrittive
- tipologie comportamentali prescrittive - teorie situazionali
TIPOLOGIE COMPORTAMENTALI DESCRITTIVE
Fine anni 70, Burns distingue tra:

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- follower passivi: coloro i quali forniscono un indifferenziato supporto in cambio di favori
- follower partecipativi: amano far parte del gruppo di lavoro e concordano uno scambio tra
performance e ricompensa - close followers: sono leader essi stessi ma subordinati a un capo.
KELLEY E IL POTERE DELLA FOLLOWERSHIP
Anni 90, Kelley pubblica il suo lavoro: the power of followership nel quale propone che i
comportamenti di collaborazione possano declinarsi lungo due differenti dimensioni:
1. continuum dell’indipendenza/dipendenza del pensiero. i pensatori indipendenti tendono
all’innovazione e al pensiero costruttivamente critico, svolgono il proprio lavoro, azioni autonome,
decisioni creative. I pensatori dipendenti aderiscono alle procedure e ai manuali apportando minime
modifiche, accettando acriticamente le idee dei leader, non hanno un pensiero personale, risultano
essere i follower meno efficaci. Nella zona intermedia tra i due si collocano i follower più tipici che
seguono la direzione e non sfidano lo status quo
2. continuum attività/passività di comportamento. L’individuo l’atteggiamento in attività prende
l’iniziativa nel problem solving e nel decison making partecipa attivamente andando oltre al proprio
compito. L’individuo sul polo della passività è caratterizzato da basso coinvolgimento, scarsa
propensione per le interazioni e motivazione allo svolgimento di nuovi compiti. Dall’ incrocio di queste
dimensioni emergono cinque profili di follower:
- passive: manca di pensiero critico, dimostra estrema passività, richiede che sia il leader a pensare
- alienated: persona passiva, poco motivata, ma indipendente e critica nella modalità di pensiero
- conformist: individuo attivo, ma dipendente e un pensatore acritico
- pragmatic survivor: in grado di adattare e modificare il proprio comportamento e stile di
followership a seconda della contingenza
- effective: è un follower indipendente e creativo, dotato di coraggio e forte senso dell’etica, si
impegna con passione e costanza
KELLERMAN: FOLLOWERSHIP ED ENGAGEMENT
Kellerman ha proposto un nuovo modello fondato sul concetto di engagement. Classifica i differenti
tipi di follower sulla base del posizionamento lungo un continuum dal “non sentire e fare niente”
all’essere “appassionatamente impegnati e coinvolti”. Ci sono cinque categorie:
- gli isolate: sono distaccati. Sono scarsamente consapevoli di quello che accade attorno a loro, non
sono interessati al leader, né a conoscerli né a rispondere loro. Accettano passivamente lo status quo
e non fanno altro che rendere forte un leader che già lo è
- i bystanders: osservano ma non partecipano. Decidono di rimanere in disparte e non esprimono
alcun tipo di coinvolgimento. sono consapevoli di ciò che accade (differenza degli isolates) ma
scelgono di non prendervi parte
- i partecipants: sono in qualche modo coinvolti. Indipendentemente dal fatto che supportino o no
l’organizzazione e i suoi leader sono abbastanza interessati da scegliere di investire parte delle proprie
risorse nelle attività che svolgono. Non seguono il leader, ma la propria volontà di fare bene il lavoro.
- gli activist: si sentono fortemente coinvolti dal leader e dall’organizzazione e agiscono di
conseguenza. Sono appassionati e coinvolti, lavorano sodo dalla parte del leader supportandolo o
contro di esso
- i diehards: sono pronti a morire per la causa, sia essa un individuo, un’idea o le due cose insieme.
Caratterizzate da profonda abnegazione, queste persone possono garantirla al leader o ai mezzi per
distruggerlo. (devozione estrema-> mettono a rischio la loro vita)
POTTER, ROSENBACH E PITTMAN: L’INIZIATIVA DEI FOLLOWER
Loro individuano nell’iniziativa l’aspetto cruciale per esprimere comportamenti di followership
realmente efficaci. L’iniziativa si esplica su due versanti: 1. performance iniziative(PI): ha a che fare
con la prestazione fornita e include 4 comportamenti svolgere il proprio lavoro con completezza,

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operare efficacemente con altri, riconoscere nella propria persona una risorsa, abbracciare il
cambiamento
2. relationship iniziative (RI): riguarda la relazione e comprende : identificarsi con il leader come
partener in success, costruire fiducia, comunicare in modo onesto e negoziare le differenze.
Dall’incrocio di queste due dimensioni derivano quattro stili di followership
- subordinate(bassa PI e bassa RI): può comunque svolgere il proprio lavoro, senza però riuscire a
fornire un apporto personale alle attività
- politician(bassa PI e alta RI): collaboratore dotato di sensibilità alle dinamiche interpersonali, riesce a
sintonizzarsi con il leader, risulto meno coinvolto sul compito
- contributor( alta PI e bassa RI): svolge il proprio lavoro con entusiasmo e competenza affrontando il
cambiamento come una sfida positiva , ma è debole sul fronte relazionale
- partener( alta Pi e alta RI): alto commitment sia rispetto alla prestazione sia rispetto alla relazione
TIPOLOGIE COMPORTAMENTALI PRESCRITTIVE
Studi di Chaleff sui comportamenti dei follower pongono l’accento sul coraggio. Descrive 5 dimensioni
nelle quali il coraggio espresso dal follower può declinarsi: - fornire supporto al leader e fare il
possibile per contribuire al suo successo - assumersi la responsabilità per la meta condivisa - sfidare
costruttivamente il leader, il gruppo - partecipare a ogni trasformazione che sia necessaria per
migliorare la relazione con il leader e la performance organizzativa - prendere una chiara posizione in
senso morale per mantenere un atteggiamento etico - poi ne aggiunge una sesta il coraggio di
rivolgersi alla gerarchia rendendo noti il proprio pensiero due tra queste dimensioni definiscono gli
assi della tipologia proposta dall’autore: - in virtù del coraggio di supportare il leader - grazie al
coraggio di sfidare. The courageous follower assessment è lo strumento di autovalutazione elaborato
da Chaleff che permette di collocarsi tra i seguenti profili:
- resource: (basso supporto e bassa sfida) è un follower che si limita a fare il minimo indispensabile
- individualist( basso supporto e alta sfida): follower indipendente che tende a pensare per sé
distinguendo la propria linea di azione e pensiero da quella del gruppo
- implementer: (alto supporto e bassa sfida): si limita a eseguire ciò che gli viene richiesto
- partener: (alto supporto e alta sfida): con il proprio comportamento costituisce frequenti occasioni
di stimolo e sfida per il leader.
Ci sono inoltre contributi che fanno riferimento ai comportamenti che un collaboratore dovrebbe
esibire e forniscono alcune indicazioni per una followership efficace. Alcuni tra questi sono riferibili
alla dimensione del supporto (es: offrire sostegno al capo, dimostrare apprezzamento), altri fanno
riferimento alle dimensioni dell’iniziativa e del comportamento proattivo (es: prendere l’iniziativa),
altri sono riconducibili agli aspetti di accettazione del ruolo (chiarire il proprio ruolo), altri alla
comunicazione efficace con il leader(es: tenere il leader informato).
TEORIE SITUAZIONALI
Sono teorie che si sono occupate di descrivere la followership in relazione alle caratteristiche del
contesto in cui la relazione leader-follower prende forma.

ALLA RICERCA DI UNA DEFINIZIONE UNIVOCA


Gli elementi che ricorrono nelle diverse concettualizzazioni di followership sembrano 3:
1. un’asimmetria: che è sottesa al rapporto tra ruoli e che può essere più o meno riequilibrata
dall’influenza che il follower è in grado di esercitare. Il potere non si individua come proprietà stabile
ma dipendente dalle relazioni e dal contesto in cui si attua
2. la condivisione tra leader e follower in un obiettivo comune: alcuni pensano che sia grazie alla
presenza di una meta comune tra leader e follower che la relazione può strutturarsi in modo più
equilibrato

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3. la possibilità per il follower di esercitare un’influenza sul leader: alcuni concordano sulla natura
relazionale della followership e dei ruoli di leader e follower per cui leadership e followership sono
concepibili al meglio come ruoli in relazione, relazione in cui la followership è in grado di costruire,
arricchire e ispirare la leadership.
La relazione con il leader si struttura come un legame di influenza reciproca. I comportamenti di
followership differiscono dagli altri in quanto non riguardano attività indipendenti di coloro che
occupano posizioni subordinate ma sono comportamenti che gli individui mettono in atto nella
relazione con il loro leader. La differenza dei follower nei confronti dei leader può essere costruita in
vari modi: i follower possono costruire il loro ruolo basandosi su forti differenze di status oppure
possono riconoscersi come partner, partecipanti. Alcuni sostengono che i leader potrebbero essere
condotti in vario modo fuori strada proprio da coloro a cui dovrebbero mostrare il cammino. Il leader
tende ad amare chi lo ama, follower adulatori potrebbero essere più ascoltati di altri e
pericolosamente rinforzare le eventuali tendenze narcisistiche del capo, con conseguenze negative
per il gruppo di lavoro e per l’organizzazione.
GLI STUDI SUL CAMPO
RICERCHE QUALITATIVE
Per quanto riguarda gli studi esplorativi, trasversale ai diversi lavori è la finalità di individuare le
dimensioni attorno alle quali si costruisce l’idea di una buona o cattiva followership, lavorando su una
base empirica rappresentata da narrazioni e linguaggio quotidiano
RICERCHE QUANTITATIVE
Alcuni studi quantitativi si sono proposti di individuare gli antecedenti di uno stile di followership
efficace, considerando la relazione della leadership e la possibile influenza di alcune dimensioni di
personalità. I follower sono più o meno obbedienti o disposti a chiarire le loro idee e opinioni per
caratteristiche personali ma anche in base a come percepiscono la relazione con il loro leader o capo,
dimensione a cui l’organizzazione dovrebbe prestare attenzione.
PROSPETTIVE PER LA FORMAZIONE E LA RICERCA
Tra le principali implicazioni pratiche dello studio della followership vi è quella di rendere la
conoscenza della leadership più completa e organica. In questo senso l’identificazione delle qualità
proprie di una followership efficace rispetto a quelle proprie di una buona leadership, sarebbe di
particolare importanza per quei lavoratori a cui, in quanto middle-managers, è costantemente
richiesto di essere sia leader sia follower efficaci. Potrà risultare utile definire la leadership e la
followership nei loro aspetti positivi e nei loro rischi, stimolare le persone a sviluppare una realistica
visione di sé stessi migliorando la capacità autocritica e aumentando la probabilità che esse si
confrontino con i loro errori in modo onesto e aperto
UNO STRUMENTO PER LA FORMAZIONE E LA RICERCA: LA VERSIONE ITALIANA DEL QUESTIONARIO
SULLA FOLLOWERSHIP DI KELLEY
Questionario di Kelley-> strumento di self-assessment , comporto da 20 item, in formato linkert a
sette punti (da mai a spesso).questionario compilabile in circo 10 minuti. Viene descritto come
strumento di autodiagnosi, dove le persone devono rispondere a come si comportano realmente in
specifiche situazioni di collaborazione. Ciò dovrebbe consentire a chi lo compila di determinare lo stile
di followership che più frequentemente mette in atto fornendo punti di riflessione sui punti di forza e
sulle aree che richiedono un miglioramento. Il questionario ha un duplice obiettivo: quello di
consentire alle persone di identificare lo stile di followership, più frequentemente messo in atto e
quello di individuare i punti di forza così come quelli che richiedono miglioramento. [questo
questionario è stato validato in italiano da Gatti]

CAP 11
CAMBIAMENTO E SVILUPPO ORGANIZZATIVO

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LO SCENARIO DEL CAMBIAMENTO
In un contesto in continua evoluzione, diventa fondamentale la capacità di favorire e sostenere
programmi di cambiamento, sia pianificati sia come reazioni a improvvisi eventi non prevedibili. Tra le
principali spinte verso il cambiamento organizzativo, vi sono la globalizzazione, le nuove tecnologie, le
nuove caratteristiche della forza lavoro. Gli attori organizzativi si muovono verso una condizione in cui
la rapidità, la tempestività, la gestione dell’urgenza e la velocità di esecuzione della propria risposta
sono caratteristiche fondamentali per il mantenimento della posizione sul mercato. Le spinte interne
sono perlopiù connesse con la gestione delle Risorse umane, le spinte esterne con i mutamenti dei
mercati e con pressioni politiche e sociali.
LE DEFINIZIONI DI CAMBIAMENTO
Come afferma Quaglino, il cambiamento nelle organizzazioni è un atto pianificato e deliberato
caratterizzato da un “passaggio” o da una “transizione” (movimento) nel tempo da uno stato presente
A (collocato al tempo 1) a uno stato futuro B (collocato al tempo 2). Lo stato A è caratterizzato
dall’insorgenza di una situazione di funzionamento problematico che interferisce con la stabilità o col
miglioramento della prestazione dell’organizzazione; lo stato B rappresenta la situazione auspicata in
cui l’organizzazione riacquista la sua stabilità oppure raggiunge il livello di prestazione atteso
attraverso l’introduzione di una o più innovazioni. Il cambiamento è quindi un intervento volto ad
affrontare un problema agendo sul sistema teorico o sociale. Il cambiamento organizzativo è un
mutamento del funzionamento del sistema organizzativo attraverso una capacità diagnostica per
comprendere le nuove esigenze organizzative e un’abilità tecnica dell’agente di cambiamento (colui
che gestisce il cambiamento) per progettare gli interventi trasformativi. Il cambiamento accidentale
accade spontaneamente in modo casuale e non rimane che minimizzare le conseguenze negative e
massimizzare ogni beneficio ottenibile, per cui non si può parlare di vero e proprio cambiamento. Il
cambiamento pianificato è invece il risultato di uno specifico sforzo da parte di agenti di cambiamento
ed è la risposta alla percezione di una discrepanza, in termini di prestazione; uno scarto che può
rappresentare un problema da affrontare, o un’opportunità da esplorare. [I contenuti del
cambiamento sono le attrezzature e i flussi di lavoro, il sistema gestionale, i piani strategici e operativi,
la cultura organizzativa, i processi e l’ambiente di lavoro, la struttura e le strategie organizzative, la
mission e gli obiettivi strategici, l’organizzazione del gruppo.]
I MODELLI DI CAMBIAMENTO
Tra i vari modello di cambiamento vi è il modello di cambiamento di Lewin che rappresenta la teoria
più citata che ha dato il via al filone di studi sul cambiamento sociale e organizzativo.
IL MODELLO DI LEWIN
Lewin propone un modello dinamico del comportamento dei gruppi che punta l’attenzione sulla
tendenza a mantenere uno stato di equilibrio costante nel tempo (omeostasi), anche in presenza di
spinte al cambiamento. Lo studioso definisce il cambiamento come una temporanea instabilità che
agisce sull’equilibrio esistente e considera il suo modello più come una teoria della stabilità che del
cambiamento. Ogni organizzazione presenta, infatti, forze per il cambiamento e forze per la stabilità.
Partendo da un’ipotetica situazione di equilibrio (p. 305), le spinte al cambiamento iniziano ad agire
scontrandosi con le resistenze che vengono opposte al cambiamento stesso (tempo 1). Quando le
spinte riescono a sconfiggere le resistenze, si verifica la fase di scongelamento (unfreezing), che porta
al cambiamento vero e proprio (change) e alla successiva fase di ricongelamento (refreezing). Il nuovo
status quo può venire nuovamente minacciato da altre spinte, anche differenti dalle precedenti, che si
scontrano con nuove resistenze, attivando un altro processo di cambiamento (tempo 2). Provando ad
applicare il modello di Lewin a un contesto organizzativo: la fase dello scongelamento si verifica
quando si realizza la rottura dell’equilibrio esistente (diminuzione di prestazione, motivazione,
partecipazione lavorativa, aumento di stress); il management è chiamato a individuare tali fonti di
insoddisfazione per attivare lo scongelamento, agendo sulle spinte e inibendo le resistenze al

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cambiamento; quando lo scongelamento della situazione è avvenuto, si dirige il cambiamento
attivando specifiche azioni di cambiamento che coinvolgono attori, compiti, strutture (seconda fase
del processo); attraverso questa fase è possibile esercitare una certa influenza sulla direzione che
prenderà il sistema sbilanciato, potendo agire sia sui singoli attori organizzativi in termini di nuovi
modelli di comportamento, sia sulle strutture organizzative in generale; solo se sarà stato raggiunto
un nuovo equilibrio, avrà luogo la fase di ricongelamento (refreezing) (terza fase del processo): i
cambiamenti desiderati sono rinforzati e stabilizzati fino alla loro istituzionalizzazione come parte di
una normale routine; si valutano i progressi realizzati e si affrontano eventuali difficoltà.
IL MODELLO DI LUSSIER
Lussier integra la proposta di Lewin, proponendo un modello di cambiamento in 5 fasi che mettono in
evidenza più puntualmente gli aspetti gestionali del cambiamento. Lussier sottolinea l’attenzione
necessaria per sensibilizzare e responsabilizzare tutti gli attori organizzativi attraverso processi di
comunicazione e monitoraggio del cambiamento, quali:
 Definire il cambiamento (prima fase), chiarire se l’obiettivo del cambiamento è diretto agli
aspetti strutturali, tecnologici o sociali;
 Identificare le resistenze al cambiamento (seconda fase) messe in atto dagli attori
organizzativi, e comprenderne fonte e intensità;
 Pianificare il cambiamento (terza fase), progettarlo e sostenerlo, garantendone la
supervisione;
 Promuovere/attivare il cambiamento (quarta fase), attraverso la divulgazione della necessità
del cambiamento. In questa fase è utile rendere espliciti i possibili effetti del cambiamento
sulle persone, cercare di mettere i nuovi obiettivi in relazione con i valori esistenti, coinvolgere
gli attori organizzativi utilizzando uno stile di supervisione che accolga dubbi e attese circa il
cambiamento;
 Controllare il cambiamento (quinta fase), che sia attivato e mantenuto nel tempo.
IL MODELLO SISTEMATICO
L’approccio sistemico è basato sull’assunto che ogni tipo di cambiamento, di grandi o piccole
proporzioni, può avere un impatto a “cascata” all’interno dell’organizzazione, intesa come un sistema
di parti strettamente in interazione tra loro: il cambiamento in una qualsiasi delle sue parti provoca
modifiche in tutte le altre (p. 307). Questo modello prevede l’azione congiunta di 3 componenti:
 L’input deve essere coerente con la missione (scopo generale, “perché”) e con la visione
(obiettivo a lungo termine, “cosa”) dell’organizzazione, e derivare da un piano strategico. Il
piano strategico, in linea con la missione e la visione dell’organizzazione, determina la
direzione e le azioni necessarie per realizzare i risultati programmati ed è definito sulla base
dell’input interno (potenzialità e forza dell’organizzazione) a sua volta influenzato dall’input
esterno (opportunità e minacce presenti nell’ambiente esterno). Questa comparazione
determina il tipo di strategia organizzativa (output);
 Gli oggetti o obiettivi del cambiamento rappresentano gli aspetti dell’organizzazione che
possono essere oggetto di mutamento, in particolare: gli aspetti organizzativi, i fattori sociali, i
metodi, gli obiettivi, gli attori organizzativi;
 Gli output costituiscono i risultati attesi del processo di cambiamento (come profitto,
soddisfazione lavorativa), e il loro raggiungimento dipende dal piano strategico e dalle
strategie adottati.
Il modello sistemico prevede che gli oggetti del cambiamento siano in relazione sistemica, per cui ogni
cambiamento in una singola componente dell’organizzazione ha effetti sulle altre. E il cambiamento
non può avere successo se non comprende e coinvolge gli attori organizzativi. Gli output possono
essere di tre tipi, passando da un livello macro a uno micro lungo un continuum: organizzativo, di
gruppo o individuale.

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LE RESISTENZE AL CAMBIAMENTO
Si può parlare di fallimento nel processo di cambiamento quando l'organizzazione non cambia nella
direzione desiderata, cambia parzialmente o cambia per poi ritornare alla posizione originaria. Il
termine “resistenza al cambiamento” viene utilizzato in relazione agli effetti che il cambiamento
stesso genera negli attori (non tutti i membri dell’organizzazione accettano il cambiamento). Come ci
ricorda Quaglino, la dimensione difensiva, ambito di interesse e di intervento in particolare della
psicologia dinamica, è un aspetto sempre presente nelle organizzazioni. È dunque fondamentale non
sottovalutare le dimensioni soggettive, emotive e relazionali, non prevedibili. Il cambiamento deve
essere quindi analizzato anche come elemento di rifiuto, di negazione e di difesa, determinando in
alcuni casi una diminuzione della soddisfazione lavorativa e del commitment organizzativo. Favorire
un change-oriented behavior è una responsabilità del management, al fine di promuovere l’iniziativa
personale e un comportamento proattivo da parte dei dipendenti. Il cambiamento genera negli attori
organizzativi una gamma di emozioni che vanno dalla completa accettazione e dal supporto attivo al
completo rifiuto che porta, in alcuni casi, all’abbandono dell’organizzazione. È dunque evidente
l’importanza di diagnosticare e gestire, in un processo di cambiamento, le resistenze, individuali o di
gruppo, e le emozioni a esso associate. Per Lewin, autore delle prime ricerche sulle resistenze al
cambiamento, l’azione di cambiamento è preceduta da una “lotta” tra spinte e resistenze, dove
queste ultime sono definibile come gli atteggiamenti e i comportamenti individuali e di gruppo che
riflettono la mancanza di supporto nei confronti del mutamento in atto. Analizzare le resistenze come
feedback del processo di cambiamento è nella maggioranza dei casi un fatto “fisiologico” perché
rappresenta una “normale” reazione a una situazione che sta mutando e che comporta l’abbandono
di schemi preesistenti e l’adozione di nuovi comportamenti, valori, norme. Un approccio completo
allo studio delle resistenze suggerisce di considerare sia le variabili soggettive che quelle di contesto,
come antecedenti (cioè determinanti) delle resistenze al cambiamento. La componente cognitiva e
quella affettiva giocano un ruolo diverso nelle resistenze a seconda dello stadio in cui si trova il
processo di cambiamento. Piderit propone un modello soggettivo e multidimensionale delle
resistenze al cambiamento, individuando non solo la componente cognitiva e affettiva, ma anche
comportamentale: le resistenze hanno un forte impatto sulle emozioni che, a loro volta, possono
influenzare cosa si pensa razionalmente del cambiamento e il comportamento a favore o a sfavore del
mutamento.
LE RESISTENZE INDIVIDUALI
Le 3 principali fonti di resistenze che un individuo può attivare di fronte a un possibile cambiamento
organizzativo sono:
 L’incertezza e l’insicurezza per il “nuovo”. Gli individui tendono a resistere al cambiamento
quando percepiscono una minaccia alla propria sicurezza, abitudini, ruolo, anche se il
cambiamento è riconosciuto come effettivamente necessario per la sopravvivenza
dell’azienda. Queste resistenze individuali sono ulteriormente classificabili in: psicologiche,
quando l’individuo percepisce una minaccia alla propria identità occupazionale, ed
economiche, quando si teme per lo stipendio e/o per il carico di lavoro. La reazione può essere
quella di attivare un comportamento regressivo, rifugiarsi nel passato conosciuto e sicuro;
 La selezione percettiva delle informazioni. Gli individui hanno la tendenza a selezionare le
informazioni coerenti con le loro opinioni e gli schemi consolidati e utilizzati abitualmente. Si
attivano le resistenze quando il cambiamento minaccia queste credenze;
 Le abitudini. Il cambiamento può creare situazioni poco prevedibili in grado di mettere in
discussione le routine, gli schemi mentali individuali e i comportamenti consolidati.
Ciò significa che i dipendenti, anche se percepiscono un forte bisogno di cambiamento, generalmente
continuano a rispondere agli stimoli mettendo in atto sempre le stesse modalità. Schermerhorn, Hunt

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e Osborn parlano a tal proposito non solo di abitudini, ma anche di tratti di personalità: alcuni
individui infatti sono più predisposti di altri a resistere al cambiamento.
Oreg e callaboratori sviluppano una scala per misurare la tendenza individuale a resistere o evitare il
cambiamento, la RTC -> resistance to change scale composta da 17 item su scala liker (da 1 per nulla
d’accordo a 6 del tutto d’accordo) riconducibili a 4 sottoinsiemi indicative delle resistenze individuali:
 Routine Seeking (RS) riluttanza ad abbandonare le abitudini consolidate
 Emotional reaction (ER) reazione emotiva connotata da stress legata alla partecipazione
 Short-Term Focus (STF) tendenza a individuare gli svantaggi connessi al cambiamento
 Cognitive Rigidity (CR) rigidità del pensiero
LE RESISTENZE DI GRUPPO
Le principali fonti di resistenza attivate dal gruppo di fronte ad azioni di cambiamento sono:
 Le dinamiche legate al potere e ai conflitti. Quando il cambiamento è percepito come
occasione per conferire maggiore potere ad alcuni individui a discapito di altri, si possono
attivare delle forti resistenze di opposizione e ostruzionismo;
 La struttura e la cultura organizzativa. Le organizzazioni “piatte” e decentralizzate, essendo
flessibili, sono maggiormente disposte ad accettare i cambiamenti. Una struttura organizzativa
burocratica e centralizzata, caratterizzata da una suddivisione rigida di ruoli e procedure,
risulta più resistente ai tentativi di cambiamento, a causa tra l’altro della difficoltà di
contrastare la mentalità dominante. Anche la cultura di gruppo può rappresentare una fonte
di resistenza. Modificare la cultura organizzativa implica promuovere una rinnovata
identificazione con l’organizzazione che cambia.
Riconoscere e fronteggiare le resistenze, siano esse individuali o di gruppo, è un compito di coloro che
decidono e progettano il cambiamento: gli agenti di cambiamento. Per fronteggiare in modo
strategico le resistenze è necessario individuare la loro origine, distinguendo le manifestazioni e le
conseguenze, ed è importante saper individuare le resistenze nei confronti del cambiamento in sé
piuttosto che nei confronti delle strategie messe in atto per attuarlo e/o nei confronti degli attori che
lo promuovono e lo attuano. Per minimizzare le resistenze, è necessario un buon uso della
comunicazione e dell’informazione da parte di ogni agente di cambiamento, interno o esterno
all’azienda, mostrando i possibili vantaggi e cercando di ridurre e contenere gli svantaggi e i rischi
percepiti. Alcune ricerche hanno dimostrato che i dipendenti che ricevono (un clima favorevole)
comunicazioni puntuali e chiare sul processo di cambiamento da parte del management sostengono
in misura significativa le azioni di cambiamento, attivando un clima favorevole al cambiamento stesso.
LA RICERCA-AZIONE PER LO SVILUPPO ORGANIZZATIVO
Dopo aver preso in esame i principali modelli teorici di cambiamento, approfondiremo ora il tema
della gestione del cambiamento, attraverso la presentazione dell’approccio “Sviluppo organizzativo”
(OD, Organizational Development), il movimento che dagli anni 50, a valle del contributo di Lewin,
rappresentò la pratica più popolare e diffusa per la gestione del cambiamento. Lo sviluppo
organizzativo è un’azione che coinvolge l’intera organizzazione e ha lo scopo di accrescerne
l’efficienza e la solidità. Esso è volto a migliorare l’empowerment, l’apprendimento e il problem
solving (cambiamento, rinnovamento, rivitalizzazione, mutamento). Per Frenche e Bell OD è: un
tentativo guidato e sostenuto dal top management in un lungo arco temporale volto a migliorare
l’azione di sviluppo della visione dell’organizzazione, l’empowerment, l’apprendimento e i processi di
soluzione dei problemi, attraverso una gestione collaborativa e continua della cultura organizzativa,
con l’aiuto di un consulente-facilitatore e l’uso della teoria e della tecnica delle scienze applicate del
comportamento, inclusa la ricerca-azione. Questa definizione sottolinea 3 condizioni fondamentali per
intervenire efficacemente nell’evoluzione dei sistemi sociali: la possibilità di utilizzare il tempo quale
risorsa non stringente, la lettura dell’organizzazione come cultura, l’utilizzo della scienza

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comportamentale applicata e in particolare della ricerca-azione. Rispetto alla ricerca-azione (RA,
action research) vi sono orientamenti epistemologici e filosofici e pratiche diversi.
LE DEFINIZIONI
-RA è un modo di intervenire all’interno del contesto organizzativo, con un intento trasformativo,
prendendo le mosse da una domanda espressa dall’organizzazione attraverso qualche suo
rappresentante o il ricercatore/consulente stesso (domanda provocata). Nel primo caso, ossia quando
la domanda è espressa spontaneamente da un committente, la questione dell’avvio della RA è
fondativa, ed è rilevante il modo in cui si arriva a una visione condivisa delle questioni sulle quali si
intende ricercare. Nel secondo caso, la questione diventa l’identificazione di un attore che nel tempo
giochi il ruolo del “cliente primario” della RA, ossia di iniziatore e facilitatore del processo. Si tratta di
incontrare il contesto organizzativo per creare un’autentica curiosità di un cliente primario per una
questione poco conosciuta, sottovalutata o di moda;
-RA è un modo di conoscere nella relazione e attraverso la relazione. Perché la conoscenza diventi
fonte di energia in grado di orientare e sostenere i futuri comportamenti degli attori organizzativi
impegnati in un cambiamento, la sua produzione dovrà essere congiunta, co-costruita, e affondare le
radici nell’azione pratica. L’ipotesi è che si conosce a partire dalla riflessione sulla pratica, insieme al
ricercatore il quale la osserva e la interpreta insieme al suo “autore”. Consideriamo gli attori
organizzativi i soli detentori di una conoscenza pratica, situata, tacita. Il ruolo della RA è di renderla
esplicita, conditio sine qua non se si intende cambiare i processi organizzativi consolidati e
interiorizzati. La conoscenza è conoscenza in relazione, si definisce all’interno della comunità di
ricerca, nei momenti formali di lavoro e in quelli informali. All’interno di queste relazioni,
fondamentale è l’interrogazione del ricercatore circa il suo rischio di colludere con il cliente primario,
accettando, senza interrogarla, la definizione della domanda iniziale e della natura dei problemi.
L’agente di cambiamento deve fare i conti col fatto che gli attori organizzativi non sono sempre così
desiderosi di essere coinvolti, travolti come sono dalle loro attività. Il rischio è che la RA diventi una
nuova “cosa da fare”, un compito imposto a “cavie” inconsapevoli;
-RA è una filosofia, un modo di essere e di vivere che interpreta e vive la partecipazione come
testimonianza e come metodologia. La RA può contemplare anche una sensibilizzazione a livello della
comunità collettivamente intesa, a partire dall’ipotesi di una capacità generativa presente in tutti i
soggetti, cittadini organizzativi e cittadini della più ampia “polis”. È quindi ricerca con, per e attraverso
le persone, e non sulle persone. È una scienza delle persone, è la vita come ricerca, è la ricerca della
vita: un atteggiamento che assume la costante interrogazione e ridefinizione circa i propri
comportamenti, intenzioni e scopi. I soggetti partecipanti alla ricerca sono partner ugualitari, su un
piano di equivalenza, non di uguaglianza; giocano il ruolo di co-ricercatori insieme a quello di
professionisti riflessivi;
-RA è un processo di cambiamento: changing. Con questo participio presente intendiamo sottolineare
l’importanza dell’attenzione consapevole a ciò che accade durante il processo di azione conoscitiva,
allo stesso modo dell’eventuale processo di presa di decisione e di implementazione delle decisioni
circa i futuri corsi di azione;
-RA è anche una metodologia di ricerca, prevalentemente ma non esclusivamente, qualitativa. È una
pratica riflessiva e di cooperazione sin dalle prime battute del processo di ricerca: dall’interrogazione
della domanda, nel corso della cocostruzione di una comune visione del problema e di un comune
oggetto sul quale riflettere insieme. Sull’oggetto di ricerca sarà poi possibile intervenire solo se la
comunità di ricerca si sarà nel tempo trasformata in un gruppo. A differenza della ricerca in
laboratorio, la RA si svolge in contesti inevitabilmente attraversati da ambiguità e imprevedibilità, con
interazioni precarie e convergenze non sempre stabili. Lo sviluppo della ricerca è collettivamente
negoziato dai soggetti organizzativi, che sono co-ricercatori. Per la costruzione di questa condizione di
libertà e di cooperazione è quindi fondamentale costruire un setting in grado di facilitare la nascita e

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la crescita di rapporti costruttivi e produttivi tra tutti gli stakeholder del progetto di ricerca, sia che
siano nel gruppo di lavoro di ricerca sia che siano collocati al suo esterno. Ogni RA segue un ciclo
(figura 13.3 pag. 317), un processo clinico di indagine che si basa su:  diagnosticare (identificare o
definire un problema)  pianificare l’azione (considerare corsi d’azione alternativi)  agire
(selezionare un corso d’azione)  valutare (studiare le conseguenze di un’azione)  esplicitare gli
apprendimenti (identificare risultati generali) . È un ciclo che potrà essere reiterato. Ogni RA che
concluda un suo ciclo, che si arresti alla consapevolezza conoscitiva e interpretativa o che raggiunga lo
stadio della sperimentazione operativa di un nuovo corso di azioni, vedrà un processo ulteriore di
crescita, questa volta di valutazione degli effetti dell’azione, per verificare che gli apprendimenti
individuali siano diventati organizzativi; si valuta cioè la validità delle tecniche e degli strumenti
utilizzati per modificare le prassi organizzative.
LE PROSPETTIVE
Gli studiosi che hanno descritto, teorizzato e praticato la RA sono:
 La RA classica sperimentale di Lewin;
 L’Action Science di Shon;
 Le diverse pratiche RA partecipative (Co-operative Inquiry, Actione Inquiry, Partecipatory,
Appreciative Inquiry, Community AR);
 La RA postmoderna decostruttivista di Barry.
LE PRATICHE
La RA classica sperimentale di Lewin è sostenuta, come la maggior parte della psicologia sociale
dell’epoca, da assunti filosofici positivisti: la realtà sociale è “là fuori”, cognitivamente accessibile
perché indipendente dal ricercatore, lo “scienziato” sociale, che è colui che detta la direzione del
cambiamento. Opposta alla logica sperimentale è l’Action Science di Argyris e Schon, etichettata
Inductive Action Research Practice, poiché si pone l’obiettivo di accedere induttivamente alla cultura
dei partecipanti alla ricerca, operando all’interno del loro contesto naturale. Il processo prevede
l’utilizzo di una metodologia qualitativa di raccolta dei dati, ricorrendo soprattutto all’etnografia e
all’osservazione partecipante. Ciò che viene prodotto è una teoria radicata nel campo (secondo la
proposta della grounded theory di Glaser e Strauss) che guida i successivi interventi di sviluppo. Gli
studiosi che lavorano in questa tradizione di RA mantengono il più delle volte una posizione neutrale e
positivista. Anche in questo caso, il coinvolgimento degli attori è strumentale alla possibilità di
generare apprendimenti di primo e secondo livello. Il ricercatore riserva per sé il ruolo di esperto,
intervenendo a livello dei processi nel corso del cambiamento conseguente al momento
interpretativo e diagnostico. In questa forma di RA, l’enfasi positivista sulla ricerca condotta per le
persone compie una svolta a favore della ricerca realizzata con le persone. Solo attraverso la
generazione di una critica interna sarà infatti possibile avere accesso alle loro realtà culturali più
implicite e recondite, e quindi migliorare l’efficacia organizzativa e le relazioni interpersonali.
Considerando le pratiche di RA partecipativa, in esse l’enfasi è posta sulla dimensione partecipatoria e
sul forte orientamento democratico, così come lo screditamento di qualsiasi affermazione tale per cui
la RA può ritenersi moralmente fondata come un modo per migliorare l’efficacia, l’efficienza e la
salute organizzativa o giustificata e abilitata grazie ad analisi oggettivi di “come veramente stanno le
cose”. In queste pratiche il ricercatore si allontana dal ruolo di esperto che osserva in maniera
distaccata, per diventare un facilitatore, colui che mette in grado di sostenere un processo di
autosviluppo e autoconsapevolezza. Può farlo lavorando in termini consulenziali, soprattutto con le
èlite organizzative, a livello del board, nell’ipotesi che solamente gli individui meglio informati
possano partecipare attivamente (ricerca-azione partecipativa, o partecipatoria, secondo l’etichetta di
Park), oppure può farlo a livello della comunità nella sua interezza (ricerca partecipativa, o
partecipatoria, Park). I teorici che si muovono nell’ambito della RA partecipativa sono interessati a
generare una critica dal basso dello status quo e a emancipare le persona da relazioni di potere

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asimmetriche, sostenendo soprattutto gli emarginati e promuovendo forme alternative di
organizzazione. Centrale in tal senso il ruolo del ricercatore-facilitatore, che sostiene la possibilità di
dare voce, attraverso il dialogo, a quegli individui e gruppi le cui idee in genere non trovano adeguati
canali espressivi: è l’empowerment nell’accezione di Freire. Nella tradizione della co-operative
inquiry, Reason e Bradbury suggeriscono che lo scopo della pratica di RA partecipatoria è dare voce a
tutti gli attori interessati all’oggetto di studio, in tutti i momenti della ricerca. Nelle pratiche di RA
decostruttivista i postmoderni non solo sostengono l’impossibilità di affidare al linguaggio la capacità
di arrivare a una rappresentazione certa della realtà, ma ipotizzano anche che siano i discorsi a
costruire gli oggetti che popolano le nostre (iper)realtà: conoscenza, verità e realtà diventano quindi
entità linguistiche costantemente soggette a revisione. È possibile produrre retoricamente tante
realtà quanti sono i modi di descriverle e di spiegarle. I valori dei postmoderni sono la tolleranza, la
polifonicità, più che la democrazia che può produrre accordi che annientano significati diversi da
quelli della maggioranza. L’esclusione dal discorso anche di un solo soggetto implica il dominio
arbitrario di qualcun altro che rende silenziose possibili voci alternative. Ogni cambiamento
organizzativo è possibile solo in virtù di una forza capace di essere egemone, attraverso una
particolare forma discorsiva di una versione socialmente costruita della realtà che esclude alternative
possibili. Un intervento di sviluppo organizzativo ha lo scopo di aiutare i membri di un’organizzazione
a comprendere come essi siano giunti a sviluppare modelli particolari di pensiero che orientano, a
volte limitandola, l’azione. Un esempio di RA postmoderna è testimoniato dal resoconto di Treleaven
di una collaborative inquiry che ha decostruito le narrazioni di genere di un gruppo di donne che
lavoravano in un’università australiana. Le co-ricercatrici hanno riflettuto sui loro modelli di
costruzione dei significati e li hanno ricostruiti attraverso l’uso dell’analisi del discorso per portare alla
luce i fattori dati per scontati che davano forma al linguaggio in uso. Ciò è servito a “sconvolgere” i
discorsi dominanti e ha reso possibile portare alla luce “discorsi alternativi. L’etichetta RA è divenuta
nel tempo un termine “ombrello”, piuttosto che un preciso riferimento teorico e metodologico, e di
conseguenza rischia di perdere valore.

CAP 12
PRENDERE DECISIONI NELLE ORGANIZZAZIONIA
La vita organizzativa è scandita da una serie di decisioni: le strategie a lungo termine, le caratteristiche
della struttura, l’andamento dei processi, il successo o l’insuccesso del cambiamento, la qualità della
vita lavorativa e il clima relazionale dipendono tutti da piccole e grandi decisioni prese a differenti
livelli gerarchici.
DEFINIZIONE ED ELEMENTI COSTRUTTTIVI
Le caratteristiche fondamentali della decisione in organizzazione costituiscono le sue dimensioni, che
si influenzano l’una con l’altra individuando la natura e il tipo della decisione stessa.
DIMENSIONI
Le 3 principali dimensioni di una decisione sono:
 Rilevanza. La rilevanza di una decisione ne specifica l’impatto su tutta l’organizzazione;
 Temporalità. Questa dimensione esprime il periodo di tempo in cui si avvertiranno le
conseguenze;
 Contesto. Le condizioni ambientali in cui viene presa una decisione possono influenzare la
possibilità di reperire le informazioni necessarie alla definizione del problema e delle possibili
soluzioni. Schermerhorn, Hunt e Osborn distinguono tra situazioni di certezza, in cui si
conoscono bene i fatti e l’esito della decisione può essere previsto in modo accurato, di rischio,
in cui si ha una conoscenza parziale delle informazioni e si possono solo fare delle proiezioni
sul possibile esito della decisione, e di incertezza, in cui non si dispone di informazioni
sufficienti nemmeno per una proiezione probabilistica dell’esito della decisione.

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TIPOLOGIA
L’interazione tra le 3 dimensioni individua 2 grandi famiglie di decisioni: decisioni programmate o non
programmate. Le decisioni programmate affrontano i problemi strutturati, ovvero di routine, ben
conosciuti, richiedendo di scegliere la procedura standard pianificata in anticipo più adatta ad
affrontare il problema in questione. Le decisioni programmate non hanno una grande rilevanza,
hanno effetti a breve termine, non comportano particolari rischi, e dunque possono essere prese a
tutti i livelli gerarchici dell’organizzazione, e per questo vengono definite anche decisioni operative. Le
decisioni non programmate affrontano problemi non strutturati, ovvero situazioni inaspettate su cui si
possiedono poche informazioni e che non è possibile affrontare con le procedure standard,
richiedendo invece una soluzione originale e innovativa, “su misura”. Trattano spesso questioni di
grande rilevanza, che possono influire per lungo tempo sull’organizzazione e vengono prese in
contesti rischiosi o incerti. Questo tipo di decisione si articola a sua volta in:
 Decisioni tattiche. Non devono affrontare grandi problematiche che modificherebbero gli
obiettivi organizzativi, ma questioni con effetti a breve-medio termine che richiedono
comunque una certa dose di creatività e improvvisazione;
 Decisioni strategiche. Hanno la più ampia rilevanza e il più alto livello di rischio, in quanto
modificano le strategie a lungo termine (come entrare in nuovi mercati o sviluppare nuovi
prodotti), richiedendo tutta l’attenzione e la creatività di cui dispone l’organizzazione.
Furnham definisce l’azione di prendere decisioni programmate “fare le cose bene” (doing the things
right) e prendere decisioni non programmate “fare la cosa giusta” (doing the right things). Le decisioni
non programmate sono responsabilità del top management.
L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI DECISIONE ORGANIZZATIVA:
I DIVERSI MODELLI DI DECISIONI MAKING
Gli studi sul processo decisionale hanno una radice economica, ma a partire dagli anni 50 la
psicologia ha raccolto tale eredità identificando alcuni modelli che individuano i passaggi che
l’uomo usa per prendere decisioni.
IL MODELLO RAZIONALE
Il primo modello assume che l’essere umano sia un decisore perfettamente razionale, e per questo
è stato chiamato modello razionale, o normativo, o classico. Si tratta di un modello prescrittivo,
che indica il processo che i decisori devono seguire per raggiungere la soluzione che soddisfa il
principio della massimizzazione dei risultati. Questo modello consiste in una serie ordinata di fasi.
es:
1. Ricognizione del problema. Si rileva la presenza di un problema;
2. Definizione del problema e degli obiettivi. Si analizza il problema rilevato per comprenderne le
caratteristiche e separare i “sintomi” dalle ”cause” e successivamente stabilire gli obiettivi delle
possibili azioni correttive;
3. Definizione dei criteri della decisione. Si definiscono i requisiti che le possibili soluzioni dovranno
avere, e si individua il metodo decisionale più adeguato;
4. Generazione delle alternative. Si individuano tutte le possibili soluzioni alternative;
5. Valutazione delle alternative. Si analizzano tutte le alternative secondo i criteri della terza fase;
6. Scelta della soluzione ottimale;
7. Implementazione della soluzione. Si intraprende il corso d’azione stabilito, attivando le persone
e le strutture competenti;
8. Valutazione e controllo della decisione. Si valuta se la decisione presa ha raggiunto i risultati
desiderati e, in caso contrario, si ricomincia il processo decisionale per correggere difetti e
mancanze. La decisione è un processo circolare che può essere necessario ripetere per
raggiungere l’esito ottimale.
L’efficacia del processo decisionale razionale si basa su diversi presupposti rispetto al decisore:

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- Razionalità assoluta del decisore: è una sorta di “scienziato infallibile”, con illimitate capacità di
analisi e di calcolo;
- Indipendenza del decisore dall’ambiente in cui è inserito: le sue capacità non ne sono
influenzate;
- Irrilevanza dello stato emotivo: le emozioni e i sentimenti non influenzano le sue capacità;
- Disponibilità totale delle informazioni: è in grado di trovare la soluzione migliore, in quanto
dispone di tutte le info necessarie per individuare ogni possibile alternativa e prevederne le
conseguenze;
- Capacità di valutare le informazioni “in parallelo”: può valutare simultaneamente e in modo
obiettivo tutte le informazioni a sua disposizione.
La struttura ordinata del modello razionale continua a essere un punto di riferimento per l’analisi
del processo decisionale anche nei successivi modelli.
IL MODELLO DELLA RAZIONALITA’ LIMITATA
Simon dimostrò che la rappresentazione del decisore come “scienziato infallibile” era inadeguata,
e la sostituì con quella di un decisore che dispone di una razionalità limitata e intenzionale.
Secondo Simon, pur aspirando a decidere nel modo più razionale possibile, gli individui sono
limitati da costrizioni interne ed esterne, a differenti livelli:
 Elaborazione delle informazioni. Le informazioni necessarie per trovare una soluzione ottimale
superano la reale capacità di elaborazione degli individui, perciò essi tendono ad accontentarsi
di una quantità di informazioni gestibile, riducendo così il numero di alternative generate con
l’analisi dei dati. Inoltre la valutazione delle informazioni non avviene in parallelo, bensì in
modo sequenziale: le possibili soluzioni vengono valutate l’una dopo l’altra, riducendo la
probabilità che una soluzione scartata venga successivamente ripescata;
 Utilizzo delle euristiche. Le euristiche sono strategie generali di comportamento costruite a
partire dai dati immagazzinati nella memoria a lungo termine a seguito delle esperienze
passate. Consentono una buona probabilità di trovare soluzioni soddisfacenti, ma anche errori;
 Principio della soddisfazione. Il decisore non dispone sempre di risorse e di tempo sufficienti
per la soluzione ottimale, e può accontentarsi della prima soluzione che risponda ad alcuni
criteri minimi. Il modello di Simon è di tipo descrittivo anziché prescrittivo. Egli lo corregge
cosi:
1. Ricognizione del problema. Nonostante i segnali provenienti dall’ambiente, in molti casi gli
individui tendono a non accorgersi (per incompetenza) o a ignorare (per il desiderio, conscio o
inconscio, di non affrontare un problema) ciò che sta accadendo, finché la situazione non diviene
critica;
2. Definizione del problema e degli obiettivi. Questa fase viene spesso trascurata. In particolare la
tentazione di scambiare gli effetti per le cause è molto forte, soprattutto quando il decisore riceve
notevoli pressioni a trovare una soluzione al più presto;
3. Definizione dei criteri della decisione. Frequentemente si verificano gravi fraintendimenti e
definizioni estremamente soggettive dei requisiti che le possibili soluzioni dovranno avere e di
quale sia il metodo decisionale più adeguato;
4. Generazione delle alternative. Questa fase è spesso caratterizzata dall’uso di euristiche, ma è
anche il momento in cui l’individuo può esprimere al meglio la sua creatività e produrre soluzioni
innovative;
5. Valutazione delle alternative e scelta della soluzione. Queste fasi risentono sia della chiarezza
con cui sono stati definiti gli obiettivi, sia del principio della soddisfazione;
6. Implementazione della soluzione di scelta. Questo passaggio non è scontato. Le persone
impegnatesi devono possedere adeguate informazioni e competenze, e se possibile aver
partecipato al processo decisionale, in modo da essere consapevoli degli obiettivi e motivate;

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7. Valutazione e controllo della decisione. È la fase in cui più spesso si ritrova la scarsa obiettività
degli individui. A causa delle priorità personali e delle influenze esterne, la valutazione può
cambiare in modo anche radicale, sopravvalutando i risultati o sottovalutando le conseguenze
negative.
Il modello di Simon risulta più adatto di quello classico a dar conto di certe scelte poco ragionevoli
in cui si esprime l’”irrazionalità” delle organizzazioni.
ALTRI MODELLI DI DECISION MAKING
Thompson e Tuden hanno messo a fuoco il tema del disaccordo rispetto agli obiettivi da
raggiungere, che determina ambiguità, e al metodo per conseguirli, che determina incertezza,
proponendo una matrice di analisi che individua 4 diverse situazioni e altrettanti modelli
decisionali a esse collegate (p. 237).
1) Modello razionale: è la situazione che presuppone l’accordo, completo o sufficiente, sugli
obiettivi e sui metodi, ed è quella a cui qualunque processo decisionale vorrebbe tendere, senza
riuscire a raggiungerla mai completamente.
2) Modello incrementale (o metodo prova/errore): è il modello su cui si basa la decisione quando
tutti gli attori coinvolti nel processo decisionale sono d’accordo sugli obiettivi da raggiungere ma
non sul metodo da utilizzare. Invece di affrontare una decisione rilevante in modo diretto, il
decisore scompone la situazione in una serie di problemi più piccoli per affrontarli uno per volta.
3) Modello politico: descrive le situazioni in cui c’è accordo sui metodi, ma non sugli obiettivi,
spesso inconciliabili perché ciascun decisore cerca il proprio vantaggio o quello della propria
coalizione. Anziché puntare a risolvere il problema, il processo decisionale consiste nella ricerca di
alternative che possano soddisfare almeno in parte tutte le coalizioni coinvolte, configurando un
nuovo “equilibrio politico” all’interno dell’organizzazione. La ricerca di un compromesso può
risultare una modalità ragionevole, a volte l’unica possibile.
4) Modello del cestino della spazzatura: quando non esiste accordo né sugli obiettivi, né sui
metodi per raggiungerli. Cohen, March e Olsen hanno definito questi contesti “anarchie
organizzative”. Queste presentano sono caratterizzate da: ambiguità nel processo decisionale,
processi non chiari (o non interiorizzati) e turnover (avvicinamento della forza lavoro). In questo
modello le decisioni sono il risultato di una complessa interazione tra 4 correnti di eventi
indipendenti:
1) I problemi rappresentano un divario tra la situazione presente e la condizione desiderata.
2) Le soluzioni sono le idee che scorrono continuamente all’interno dell’organizzazione. Al
contrario di quanto affermato nel modello razionale, spesso non sono i problemi a essere il punto
di partenza per la generazione delle soluzioni ma, piuttosto, è a partire dalle soluzioni proposte
che si costruisce il problema da risolvere: le soluzioni sono “risposte che cercano domande”.
3) I partecipanti sono le persone che fanno funzionare le organizzazioni.
4) Le opportunità sono le occasioni in cui ci si aspetta che un’organizzazione prenda una decisione:
alcune si presentano regolarmente, altre sono il risultato di crisi.
Le anarchie organizzative diventano un “cestino della spazzatura”, e le buone decisioni vengono
prese quando le correnti di eventi si incontrano nel momento giusto.
LE INFLUENZE SUL PROCESSO DECISIONALE (FATTORI INDIVIDUALI E FATTORI CONTESTUALI)
Le ricerche che hanno analizzato le limitazioni e gli errori propri del processo decisionale hanno
prestato attenzione sia alle caratteristiche individuali, o interne, sia contestuali, o esterne.
LE INFLUENZE INTERNE
Le ricerche sulle influenze interne hanno cercato di isolare le più importanti caratteristiche
individuali, di tipo cognitivo ed emotivo. Tversky e Kahneman dimostrarono che il principio
dell’invarianza (concetto della teoria economica secondo cui, nel processo decisionale, le
preferenze non sono influenzate da piccole variazioni di caratteristiche irrilevanti delle alternative)

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non trova riscontro nella realtà. Mediante un esperimento evidenziarono infatti che quando un
problema viene proposto nei termini di un possibile guadagno, le persone tendono a scegliere
l’alternativa più sicura e a evitare i rischi (decisori riluttanti al rischio) mentre, quando lo stesso
problema viene presentato nei termini di una potenziale perdita, le persone sono più disposte a
prendersi cura dei rischi per evitarla (decisori amanti del rischio). Essi definirono questo fenomeno
“effetto di inquadramento” (framing effect): gli individui affrontano gli stessi problemi in modo
diverso a seconda di come vengono descritti. Oltre ai limiti intrinseci del ragionamento, un
secondo elemento di influenza sono le emozioni. Secondo la teoria della dissonanza cognitiva
l’individuo, a seguito di una decisione portata a termine, può avvertire uno stato di tensione
risultante dalla percezione di incoerenza tra i propri pensieri e i propri comportamenti: nel
tentativo di ridurre la dissonanza, egli rilegge le informazioni a disposizione e ne forza
l’interpretazione in modo da giustificare la propria scelta. Tale presupposto ha posto le basi per
studi relativi all’ansietà post-decisionale. Chi è impegnato in un processo di decisione può non
riuscire a scegliere in modo definitivo tra due alternative, continuando anche dopo aver deciso a
valutare le caratteristiche positive dell’alternativa rifiutata e quelle negative di quella scelta, e per
questo sperimentare vissuti di ansia, fino a che l’ansia post-decisionale lo induce a desiderare
intensamente di cambiare la propria scelta: si tratta del sentimento del “rammarico”, che può
portare sia a razionalizzare i dati a propria disposizione sia, meno frequentemente, ad ammettere
l’errore e modificare la decisione.
LE INFLUENZE ESTERNE
Distinguiamo tra influenze sul processo, che agiscono nella fase di raccolta ed elaborazione delle
informazioni necessarie alla presa di decisione, e influenze sulla persona.
Le influenze sul processo sono determinate da:
- Divisione del lavoro: limita la possibilità di comunicazione tra le diverse funzioni, creando
distorsioni e omissioni nelle informazioni;
- Gerarchia organizzativa: quando devono scambiare informazioni con i superiori, gli individui
percepiscono disagio e tendono a reagire eccessivamente ai loro messaggi. Inoltre, la gerarchia
“filtra” i messaggi dal basso verso l’alto;
Qualità e accessibilità dell’informazione;
- Limiti di tempo: i decisori sono spinti a essere rapidi nell’analisi e nella valutazione delle
informazioni, finendo col preferire la velocità di esecuzione all’efficacia;
- Comunicazioni informali: il sistema di comunicazione spontanea è più veloce dei canali
istituzionali, ma spesso causa fraintendimenti.
Le influenze sulla persona sono riconducibili a:
- Incapacità “insegnata”: una formazione mal progettata o erogata con superficialità;
- Responsabilità limitata: non sempre i decisori sono investiti dell’autorità sufficiente per portare a
termine un compito loro affidato, per cui anche se il problema richiede una decisione veloce,
devono cercare continue conferme dall’alto.
ALTRE “TRAPPOLE” PRESENTI NEL PERCORSO DECISIONALE
A metà tra un’influenza interna e un’influenza esterna si colloca il fenomeno dell’intensificazione
dell’impegno (escalation od commitment), che consiste nella tendenza a persistere in un corso
d’azione anche se i risultati ottenuti non solo non sono all’altezza delle aspettative, ma
rappresentano uno spreco di energie e risorse. Questo frequente fenomeno è determinato da 4
categorie di fattori:
- Fattori psicologici individuali e sociali, tra i quali anzitutto l’autogiustificazione e la difesa della
propria immagine, quando le persone responsabili di un processo decisionale si identificano, o
vengono identificate, con la decisione che prendono, perché ciò esprime la loro fiducia nelle
proprie capacità decisionali. Altre volte vi sono la sottovalutazione dei rischi e la sopravvalutazione

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delle probabilità di successo. Un ultimo fattore è il paraocchi percettivo: per proteggere la
“tranquillità presente”, il decisore seleziona le informazioni che riceve al fine di confermare la
propria scelta, ignorando ogni segnale negativo o considerandolo un errore di percorso facilmente
risolvibile;
- Fattori organizzativi: deficienze nella comunicazione interna o fenomeni di inerzia possono far sì
che un’azienda insista in un corso d’azione sbagliato senza accorgersi dello spreco di risorse o
ignorandolo volutamente;
- Caratteristiche del progetto: quando un progetto non prevede profitti immediati, molti decisori
tendono a portarlo a termine a tutti i costi, considerando perdite e problemi come eventi
temporanei e facilmente correggibili;
- Fattori contestuali: lo sono forti pressioni sociali o politiche, fuori dal controllo
dell’organizzazione;
LE DECISIONI DI GRUPPO
Ci sono delle sostanziali differenze tra le decisioni di gruppo e quelle individuali.
GRUPPO VERSUS INDIVIDUO
Tanti studiosi oggi concordano che non ci sia un approccio in assoluto migliore dell’altro, tra
l’approccio individuale o di gruppo, ma che sia la natura del problema a determinare quale sia il
più proficuo. I vantaggi di un processo decisionale di gruppo consistono principalmente in:
- Qualità della decisione, perché il gruppo porta una somma di conoscenze, informazioni, punti di
vista e approcci superiore al singolo. Per questi vantaggi occorre che il gruppo sia eterogeneo;
- Gestione efficace del tempo, perché, una volta articolato il problema in sottoproblemi, è
possibile creare dei sottogruppi di analisi, accelerando il processo;
- Accettazione e motivazione, perché, se il gruppo che ha preso una decisione è composto dalle
persone che dovranno implementarla, si generano ownership, entusiasmo e impegno.
Le decisioni di gruppo presentano però anche svantaggi, tra cui i più citati in letteratura sono:
- Tempo, in quanto i gruppi sono generalmente meno efficienti degli individui e, qualora sia
difficile dividersi in sottogruppi separati, impiegano un tempo maggiore per prendere un
decisione;
- Dispersione di risorse, in quanto sottraendo i componenti dai processi produttivi, i gruppi
richiedono un investimento superiore a quello necessario nel caso di un unico decisore;
- Conflitti, in quanto con più persone aumenta la probabilità di incomprensioni e dissidi;
- Dominio, in quanto uno o più componenti del gruppo possono monopolizzare la discussione,
avendo come scopo primario quello di “vincere”;
- Conformismo, in quanto alcuni membri potrebbero seguire la soluzione del gruppo, anche se non
la condividono, per paura di non essere accettati oppure ostracizzati.
La valutazione dei vantaggi/svantaggi della decisione di gruppo rispetto a quella individuale può
essere riferita a 2 indicatori: l’efficacia e l’efficienza (p. 344): rispetto all’efficacia, la decisione
individuale ha maggiore velocità, mentre la decisione di gruppo ha maggiore precisione, creatività
e accettazione, per cui nel complesso è più efficace; mentre rispetto all’efficienza la decisione
individuale è più efficiente.
ALCUNE TECNICHE PER LA DECISIONE DI GRUPPO
Schein ha individuato 6 modalità per prendere una decisione da parte di un gruppo:
- Decisione per mancanza di risposta: nessuna alternativa proposta risulta soddisfacente per tutti,
per cui il gruppo sceglie il “male minore”;
- Decisione per autorità: il leader del gruppo prende una decisione per tutti;
- Decisione della minoranza: una piccola parte del gruppo è capace di influenzare l’andamento
della discussione, riuscendo a imporre la propria soluzione;

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- Decisione della maggioranza: si sceglie dopo una votazione. Ma la presenza di disaccordo può
creare delle coalizioni, i “vincitori” e i “perdenti”. Questi ultimi per frustrazione potrebbero
impegnarsi poco nell’implementazione della decisione, o addirittura sabotarla;
- Decisione per consenso: la discussione porta alla scelta di un’alternativa preferita dalla maggior
parte dei componenti del gruppo, ma accettata anche dai membri dissenzienti, che rappresenta il
miglior compromesso possibile;
- Decisione all’unanimità: tutti i membri del gruppo sono d’accordo.
Se raggiungere l’unanimità è raro, molti studiosi ritengono che la condizione migliore sia la
decisione per consenso, il cui risultato è una condivisione sostenibile. Tra le modalità di lavoro
proposte per facilitare la presa di decisione in gruppo, Osborn ha proposto il metodo del
brainstorming, che prevede gruppi di 4-8 persone gestiti da un moderatore che dà inizio alle
attività presentando la situazione problematica e chiedendo a ogni partecipante di trovare una
soluzione. La fase di generazione delle alternative segue regole precise: parlare a “ruota libera”,
abolire la critica, partecipare tutti, fare attenzione alla quantità (che stimola la creatività e
permette la sollecitazione reciproca tra i partecipanti), costruire sulle idee degli altri, scrivere tutte
le idee (analizzate nella fase successiva di valutazione critica). Ma molte persone non riescono a
superare la propria timidezza, e molte altre spesso dimenticano le loro proposte mentre aspettano
il loro turno per parlare, così che il numero di idee prodotto risulta limitato: è il fenomeno del
blocco produttivo, per superare il quale sono state messe a punto 2 tecniche, NGT e DGT. Il
Gruppo Nominale (NGT) vuole evidenziare che i partecipanti costituiscono un gruppo solo nel
nome, dato che la maggior parte del lavoro avviene individualmente e senza uno scambio verbale.
Il moderatore dà inizio ai lavori illustrando al gruppo la situazione problematica. Subito dopo, i
partecipanti scrivono in modo indipendente tutte le soluzioni che vengono loro in mente, e poi a
turno esprimono le loro idee al gruppo. Fatto ciò, i partecipanti danno un voto (anonimo o palese)
a ognuna, scartando quelle col punteggio minore. Il moderatore può decidere di ripetere la fase di
esposizione e di voto per le soluzioni rimaste o scegliere subito quella che ha ricevuto il punteggio
più alto. Una strategia simile, messa a punto soprattutto per i gruppi i cui membri non riescono a
incontrarsi di persona, è il Gruppo Delphi (DGT). Il processo comincia con l’invio da parte del
moderatore, anche via web o posta elettronica, di una spiegazione scritta della situazione
problematica e di un foglio bianco, o di un questionario, su cui il partecipante può scrivere
suggerimenti e considerazioni. Tale materiale viene poi rispedito al moderatore che raccoglie e
diffonde i contributi in maniera anonima a tutti i partecipanti, che possono esprimere
considerazioni e elaborare le proposte altrui. Il moderatore raccoglie i feedback e predispone delle
sintesi, ripetendo il processo fino a quando non si ottiene una soluzione condivisa. Schwenk ha
posto l’attenzione, all’interno del gruppo che prende una decisione, sul ruolo della persona o del
sottogruppo che porta un’altra visione, che contesta gli assunti e le conclusioni della maggioranza,
e ha messo a punto una tecnica rivolta alla sua valorizzazione, chiamata l’”avvocato del diavolo”,
che deve analizzare in modo critico le proposte e le argomentazioni della restante parte del
gruppo, scoprendone debolezze e omissioni. Quando l’avvocato del diavolo ha presentato la
propria analisi, il gruppo cerca di controbattere costruttivamente, e l’analisi critica si ripete finché
entrambe le parti non sono soddisfatte delle proposte e delle relative argomentazioni. Mentre
l'avvocato dell'angelo ha l'obiettivo di sostenere l'idea espressa da un collega riformulandola con
parole diverse e ponendo l'accento su elementi positivi che non sono stati ancora considerati.
DISFUNZIONI DELLA PRESA DI DECISIONE DI GRUPPO:
CONFORMISMO, PENSIERO DI GRUPPO E RISCHIO AGGIUNTO
Le disfunzioni riguardo la decisione in gruppo sono il conformismo, il pensiero di gruppo e il rischio
aggiunto. Con il termine conformismo si fa riferimento alla tendenza dell'individuo a cambiare le

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proprie idee e il proprio comportamento per uniformarsi agli altri membri del gruppo. Esso si
presenta in modalità e situazioni differenti:
- influenza informazionale: quando una componente del gruppo accetta come vera
un'informazione proveniente da altri
- influenza normativa: quando l'individuo si conforma alla posizione della maggioranza del gruppo
per essere accettato dagli altri
- obbedienza all'autorità: quando vi è una condizione di inferiorità qualitativa (e non quantitativa)
Un altro fenomeno ancora oggi studiato è il pensiero di gruppo, espressione coniata da Janis, le cui
ricerche evidenziarono come, in gruppi molto coesi, poteva capitare che l’obiettivo di prendere
una buona decisione venisse messo in secondo piano rispetto all’intento di mantenere un alto
livello di coesione. I “sintomi” individuati da Janis del verificarsi del pensiero di gruppo sono:
1. Illusione di invulnerabilità, con estrema fiducia che porta a ignorare esiti potenzialmente disastrosi delle
decisioni;
2. Illusione di moralità, per cui i partecipanti credono nella correttezza morale del gruppo e si vedono come
i “buoni”;
3. Stereotipi negativi condivisi, che portano a minimizzare i rischi connessi a una decisione o a svalutare
qualsiasi punto di vista diverso;
4. Razionalizzazioni collettive, per cui i partecipanti allontanano qualsiasi informazione negativa che vada
contro la decisione del gruppo;
5. Autocensura, per cui i partecipanti non esprimono o non ritengono importanti i propri dubbi e critiche
riguardo la decisione;
6. Illusione di unanimità, assumendo che il silenzio indichi consenso;
7. Pressione a conformarsi, per cui, quando c’è un punto di vista diverso, il gruppo preme sul dissidente
perché si uniformi;
8. “Guardiani del pensiero”, ossia alcuni partecipanti che hanno il ruolo di proteggere o salvaguardare il
gruppo da qualunque opinione diversa o informazione negativa.
Janis individuò altri elementi determinanti per il manifestarsi del pensiero di gruppo:
comportamento del leader, la struttura dell'organizzazione e il livello di isolamento del gruppo
stesso. Stoner dimostrò che i gruppi erano propensi a rischiare di più rispetto ai singoli membri e
definì questo fenomeno rischio aggiunto. Successivamente egli riformulò il fenomeno definendolo
polarizzazione di gruppo cioè l'interazione di gruppo “sposta” le posizioni degli individui ma la
tendenza al rischio o alla cautela dipende da diversi variabili quali le preferenze di partenza degli
individui, il contesto di riferimento, le informazioni e le modalità.
LE QUESTIONI APERTE
LA “RINASCITA” DEL MODELLO RAZIONALE:
UN NUOVO EQUILIBRIO TRA DESCRITTIVITA’ E PRESCRITTIVITA’
Sebbene la ricerca abbia evidenziato i limiti del modello classico, le organizzazioni continuano ad
avere la necessità di rendere il più possibile razionali i propri processi decisionali. Vi sono così
studiosi che propongono di “aggiornare” il modello razionale con elementi tratti dalle ricerche sul
concetto di razionalità limitata. Bordley ha cercato di superare la dicotomia tra modelli prescrittivi
e descrittivi proponendo la teoria della decisione prescrittiva (PDT), un modello di decisione che,
assumendo le influenze interne e esterne che intervengono nella decisione, propone 12 passaggi
che consentono di prendere una buona decisione:
1) Definire il problema;
2) Utilizzare il brainstorming per identificare questioni aperte e sequenza delle scelte;
3) Analisi degli obiettivi chiave;
4) Identificare i fattori che potrebbero influire sul raggiungimento degli obiettivi;
5) Riconoscere quali di questi fattori sono controllabili e quali no;
6) Specificare, per ogni decisione, un piano di emergenza da attivare in assenza di ulteriori analisi;
7) Utilizzare il brainstorming per creare alternative al piano d’emergenza;

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8) Utilizzare il brainstorming per prevedere i possibili esiti dei fattori incontrollabili;
9) Costruire un modello dei vantaggi di ogni alternativa e di quanto questa incontri le specifiche
organizzative;
10) Identificare i fattori decisivi;
11) Costruire un modello basato solo su questi fattori;
12) Definire la decisione finale integrando in essa i migliori aspetti di tutte le alternative analizzate.
Per Bordley, il principale punto di forza della PDT è la possibilità di “sintetizzare” una soluzione
capace di trarre i suoi elementi costitutivi da tutte le alternative a disposizione. Ma ci sono troppe
espressioni eccessivamente generiche e presentate senza fornire definizioni operative o
descrizioni di metodo. Altri studiosi sono giunti alla conclusione che il modello razionale può
risultare un riferimento utile quando si tratta di affrontare problemi non troppo rilevanti avendo
molto tempo a disposizione. Betsh, Haberstroh , Molter e collaboratori hanno fatto notare che
l’utilizzo del modello razionale porta necessariamente alla routine e quindi a quello che viene
definito errore recidivo (relapse error): una volta presa una decisione corretta è molto difficile per
gli individui cambiare soluzione, anche a fronte di significativi mutamenti nella situazione
affrontata.
LA RAZIONALITA’ LIMITATA RIVISTA:
IL NATURALISTIC DECISION MAKING E LA RAZIONALITA’ ECOLOGICA
Il termine Naturalistic Decision Making (NDM) (presa di decisione naturale) è stato coniato da
Klein, Orasanu, Calderwood e collaboratori. L’obiettivo di questo filone di ricerche è analizzare le
modalità con cui le persone ricostruiscono un senso, analizzano la situazione e pianificano una
linea d’azione nei contesti organizzativi reali, caratterizzati da una vera posta in gioco e da rischi
effettivi, impossibili da ricostruire in laboratorio. Questi autori sono più interessati a offrire buone
descrizioni dei processi osservati che a definire modelli capaci di generalizzare principi per la
decisione esportabili in altri contesti. L’unico vantaggio che può derivare da questi studi è
l’incremento della consapevolezza di sé, in particolare rispetto ai propri modi di decidere, da parte
degli attori organizzativi tenuti sotto osservazione. Simon, esponendo i principi della razionalità
limitata, aveva rilevato il frequente utilizzo di “scorciatoie mentali” per risolvere velocemente i
problemi complessi, ossia le euristiche, considerandole uno strumento rozzo capace di portare,
nella maggioranza dei casi, a risultati sub-ottimali. Alcuni studiosi hanno fatto notare che una
simile valutazione, da parte di Simon, non tiene conto dell’ambiente in cui avviene il processo
decisionale. Todd e Gigerenzer hanno invece assunto fino in fondo i presupposti di Simon,
affermando che la razionalità di una strategia cognitiva può essere valutata solo in relazione alle
caratteristiche del contesto; in quest’ottica, le euristiche non sono più scorciatoie che conducono a
un risultato sub-ottimale, ma costituiscono frequentemente le soluzioni migliori possibili nella
particolare situazione in cui sono utilizzate. Questo punto di vista fonda il principio della razionalità
ecologica, in base al quale le persone, senza bisogno di essere decisori esperti ma sfruttando solo
la propria esperienza, sono in grado di prendere buone decisioni con una limitata analisi e un
contenuto utilizzo di mezzi e risorse, a partire da meccanismi mentali la cui struttura interna può
sfruttare le configurazioni assunte dall’informazione esterna disponibile nell’ambiente circostante.
Questa prestazione è dovuta al fatto che, mentre i modelli razionali aspirano alla massima
generalizzabilità, sforzandosi di ignorare i fattori che ne potrebbero limitare l’applicabilità, le
euristiche sfruttano vantaggiosamente le “irregolarità” nelle strutture dei dati, in particolare le
relazioni di dipendenza tra un’informazione e l’altra, che non rendono possibile l’utilizzo degli
algoritmi proposti dai modelli prescrittivi. Tutto ciò rende le euristiche la migliore strategia
possibile all’interno dello specifico contesto in cui sono utilizzate.
L’ETICA DELLA DECISIONE:
IL CONTRIBUTO DELLA “MORALE” PER L’EFFICACIA DEI PROCESSI ORGANIZZATIVI

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Diversi autori ritengono che le decisioni organizzative con una maggiore efficacia sul lungo termine
siano quelle che prendono in considerazione il ruolo dell'etica. Taske e Hallam affermano che sia
necessario adottare un approccio multidimensionale che permetta di discriminare in modo più
accurato le decisioni giuste e sbagliate in situazioni moralmente ambigue. Essi descrivono un
sistema di analisi delle situazioni che chiamano scatola grigia (Gray box): il decisore utilizza la
situazione passando da una dimensione all'altra, valutando i dati da diversi punti di vista in modo
da raggiungere una decisione orientata a ottimizzare i risultati sul lungo termine. Il modello della
scatola grigia consiste quindi nel passaggio da un punto di vista all'altro per aiutare i decisori a non
lasciarsi sfuggire informazioni importanti. Secondo Taske e Hallam organizzazioni dovrebbero
realizzare il proprio processo decisionale in questo ordine:
prima dimensione: contesto economico/finanziario -> analisi dei costi-benefici, stabilire se
l'alternativa porterà profitti a breve termine.
-seconda dimensione: contesto legale/politico
-terza dimensione: contesto etico/murale/sociale/ambientale
- quarta dimensione: modello di leadership/menagement dell'organizzazione

CAP 13
LEGGERE E GESTIRE IL CONFLITTO NELLE ORGANIZZAZIONI
In questi anni siamo stati colpiti dal crescente livello di conflittualità presente nei contesti
organizzativi. Secondo Bourdieu oggi la paura più diffusa e prevalente è quella di essere
inadeguati, soli ed esclusi da relazioni e contesti. In questa situazione l’altro, con le sue differenze,
può rappresentare più facilmente una minaccia. Riconoscere e mantenere la propria identità
nell’ambito di situazioni professionali e organizzative, passa attraverso un dialogo impegnativo e
un reciproco riconoscimento. Il tema del conflitto assume dunque una rilevanza cruciale nei
contesti organizzativi e lavorativi, così come nei rapporti sociali. Gli aspetti di fatica e la prevalenza
delle manifestazioni distruttive sembrano peraltro assegnare alla dimensione della conflittualità
un’attribuzione di senso negativa (conflitto-guerra e potere-dominio). Proveremo pertanto a
configurare una nuova cultura del conflitto, in grado di riconoscere i propri limiti e il bisogno di
dipendenza dall’altro, apprendendo nuove modalità di legame sociale attraverso l’elaborazione
dell’aggressività e delle sue forme distruttive.
SPIGOLATURE MINIME SUL CONFLITTO
Gli spaccati proposti rappresentano situazioni ricorrenti all’interno delle quali si manifesta conflitto
tutto interno e soggettivo connesso alla ridefinizione dell’identità lavorativa dei soggetti quando si
aprono alla possibilità (necessità) di esporsi/accogliere responsabilità più ampie. Intuiamo, inoltre,
le possibilità di apertura e assunzione di crisi di crescita, quando arriva il momento di sperimentare
quella che con Erikson possiamo definire la capacità generativa, propria della maturità adulta, in
cui il conflitto diventa rinuncia alla difesa del proprio interesse particolare e la messa a
disposizione dell’esperienza, per la crescita di altri e di interessi collettivi. Registriamo, all’interno
degli spaccati proposti, anche le componenti di una irrazionalità che pervade e invade gli scenari
organizzativi, emotivamente disagevole, in cui il conflitto si connota di una distruttività che
penetra relazioni e comunicazioni consolidate. Il conflitto sembra esibire in queste manifestazioni
il lato oscuro delle organizzazioni. Ci si trova confrontati con fenomeni connotati da un’apparente
perversione, cui fa da contraltare il richiamo salvifico a razionalità burocratico-tecnicostrumentali,
che si presentano sotto sembianze di svalutazione e ridicolizzazione di quanto appare veicolo di
disordine e di innovazione possibile. La deriva di tali dimensioni risiede nella ricerca di
soddisfazione e difesa del proprio desiderio come prioritario rispetto a ogni altra cosa, sia
attraverso comportamenti dei singoli, sia tramite coalizioni di persone che adottano modalità
attrattive, sfruttando complici servili, e repulsive, stigmatizzando gli avversari. L’uso

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dell’intelligenza sociale è come inibito dal prevalere di una stupidità (da stupor e dal verbo
stupere: colpisce, stordisce e ottunde). Di qui il ripiego su forme di adattamento apatico, di
dipendenza, di riconoscimento a tutti i costi ricercato attraverso alleanze seduttive e
manipolatorie. La cifra comune è la svalutazione della riflessività e la manipolazione strumentale.
Queste considerazioni rimandano a un’ultima notazione, inerente i costi di transizione che la
gestione del conflitto richiede, sia in termini di investimento simbolico ed emotivo, sia attraverso il
dispiegarsi di regole, procedure, rituali, dal ricorso ad avvocati fino all’attivazione di tavoli di
negoziazione. La dimensione conflittuale sembra dunque costitutiva di fenomeni emergenti. Nella
dialettica situata e concreta, che dà forma a processi di reciproco riconoscimento identitario, il
conflitto diventa variabile inevitabile da attraversare. La possibilità di misurarsi con questi aspetti
organizzativi e lavorativi attuali passa attraverso una rilettura critica del tema del conflitto, attenta
cioè alle valenze in esso presenti per crescita dei processi organizzativi, lavorativi e professionali.
ORIGINE E SVILUPPO STORICO DELLA CONCEZIONE DI CONFLITTO
Etimologicamente la parola “conflitto”, dal latino confligere (urtare, battere insieme), indica un
incontro/scontro tra due entità differenti che “reagiscono” tra di loro. Di per sé tale incontro non
ha connotazioni positive o negative, anche se da sempre è stata enfatizzata ora l’una, ora l’altra.
Alle origini del pensiero filosofico il conflitto era tematizzato soprattutto in riferimento alla
questione politica. Per Eraclito esso è principio della realtà, motore delle cose, tanto che “in ciò
che discorda sta l’armonia più bella”. Anassimandro, al contrario, vede nella separazione e nella
lotta tra gli elementi un momento negativo e di ingiustizia. Questa visione negativa del conflitto
verrà riproposta da Platone, Aristotele e Rousseau, che propone un’idea di società organica e
ordinata in cui la conflittualità è malattia e squilibrio della condizione naturale. Tale idea verrà
rifiutata da Machiavelli e Hobbes: per loro le relazioni umane sono per natura portate alla
competizione individualistica, sotto la spinta delle passioni e dell’egoismo, di cui il conflitto è
condizione naturale. Solo la ragione può controllare e incanalare l’egoismo individuale. Ma è con
Hegel che il conflitto va oltre la portata politica e diventa principio metafisico per spiegare la
realtà. Nessuna cosa può definirsi se non in relazione a ciò che essa non è: il negativo è tale perché
si contrappone al positivo e viceversa, due estremi interdipendenti e inscindibili, che fanno
guardare in modo nuovo alla relazione alla relazione tra “sé” e “altro da sé” (servo-padrone). In
epoca contemporanea, Simmel, tra i fondatori della moderna sociologia del conflitto, identifica
due tendenze parallele e distinte degli esseri umani: la tendenza associativa, che spinge alla
socializzazione, e la tendenza dissociativa, che rinforza l’individualismo. Ciascuna relazione tra le
persone e i gruppi risulta dall’operare di queste due tendenze, per l’autore entrambe
completamente positive. Il conflitto, in questa logica, assume la funzione fondamentale di
riconoscimento reciproco delle parti e di una loro integrazione, perdendo così la caratteristica di
minaccia sociale. In prospettiva più psicosociale, il contributo di Lewin negli anni 30 e 40 ha
recuperato l’idea di conflitto come struttura fondamentale che regola il gioco delle forze psichiche
presenti nel campo psicologico dell’individuo. Nella sua teoria sui sistemi sociali, Luhmann affronta
il conflitto concependolo come prezioso indicatore di disfunzioni nel sistema sociale. Perché ci sia
conflitto devono verificarsi due comunicazioni che si contraddicono a vicenda: l’esistenza di una
contraddizione viene comunicata e genera un sistema di reciproche aspettative in merito alle
future interazioni tra le parti. I rischi sono rappresentati non dal conflitto in sé, ma
dall’irrigidimento e dal perpetuarsi delle aspettative reciproche o dalle forme di gestione
distruttiva. Per questo, secondo Luhmann, in ogni sistema sociale sono necessarie istituzioni che
diano spazio al conflitto, orientandone lo sviluppo. Per Peirce il conflitto si colloca nella prospettiva
della gestione coordinata dei significati, a partire dalla diversità e unicità dei singoli sistemi e dalle
differenze delle storie da essi raccontate. De Araujo e Carreteiro hanno operato una sintesi
interdisciplinare del conflitto, individuando 4 aree concettuali:

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 Quella antropologico-filosofica, riconducibile a Kant, Mauss, Hobbes, Hegel;
 Quella sociopolitica, che vede il progressivo strutturarsi di posizioni funzionaliste (conflitto
come perturbatore dell’equilibrio sociale, anormalità da emendare), neo-cripto funzionaliste
(enfasi sulla funzione adattiva del conflitto), post-funzionaliste (conflitto come elemento
intrinseco e necessario alla dinamica sociale);
 Quella psicoanalitica, che genera istanze pulsionali che porta conflitto alla radice della
costituzione del soggetto, del senso di colpa, del configurarsi dei legami sociali attraverso
processi di sublimazione dei desideri e rinuncia alla loro totale soddisfazione, dei processi di
idealizzazione e/o identificazione per superare divisioni, delle dinamiche della vita di gruppo;
 Quella psicosociologica, orientata al superamento di una razionalità aziendalistico-
efficientistica, per soddisfare l’aspettativa di “organizzazione richiesta” superando i problemi
dei singoli e riducendo i conflitti, che sono in realtà una manifestazione di potenzialità per
l’espressione della soggettività, assumendo le dimensioni di negatività, canalizzandole per
l’innovazione e la creazione.
Le concezioni di conflitto in ambito organizzativo rispecchiano e si intrecciano con quelle di
conflitto interpersonale e sociale. I diversi paradigmi hanno proposto nel tempo differenti
interpretazioni:
 Una vede il conflitto come deviazione pericolosa e fatto nocivo, con conseguenze distruttive e
disfunzionali. È proprio dell’ottica funzionalista e dello scientific management taylorista-
fordista progettare regole, procedure e strutture allo scopo di rimuovere l’insorgenza di
conflitti e mantenere un ordine e un controllo razionale. Il paradigma delle Human Relations
prefigura l’impiego di strumenti sociali (es cooperazione) per sviluppare una rete di relazioni
capace di accrescere la soddisfazione e la produttività delle persone, prevenendo in tal modo il
conflitto;
 Negli anni 50, con il paradigma interazionista, si afferma il concetto di conflitto come aspetto
ineludibile nelle organizzazioni, fenomeno da gestire in modo da trarne il massimo beneficio
per l’organizzazione, prefigurando conseguenze non sempre negative, ma anche positive, e
interrogandosi rispetto a situazioni in cui non emerge conflittualità e sollecitandone
l’esplicitazione;
 Negli anni 90, con l’affermarsi del paradigma culturale, il conflitto viene visto come condizione
strutturale: l’organizzazione è un insieme articolato in condizione naturale di conflitto
dinamico. Il management ha la funzione di promuovere e arbitrare i contenziosi, valorizzando il
conflitto;
 Le concezioni più recenti, nel paradigma della complessità, sostengono il ruolo centrale del
conflitto, considerato come determinante nei sistemi complessi per il raggiungimento degli
obiettivi e per l’innovazione organizzativa. Ne vengono rappresentate valenze distruttive e
costruttive.
Nell’insieme delle teorie del conflitto sociale, interpersonale e organizzativo, è possibile
individuare alcuni elementi comuni e ricorrenti:
 Percezione del conflitto: le origini del conflitto possono essere reali o immaginarie. Non tutti i
conflitti percepiti sono reali. L’evoluzione di una relazione conflittuale dipende in buona parte
dal modo in cui viene percepito il conflitto e quindi dalla posizione assunta, che può essere di
negazione della sua presenza, di rifiuto ad ammettere la differenza o di elaborazione nella
reciprocità;
 Dimensione relazionale: il conflitto esiste entro l’interazione tra due o più parti/agenti;
 Minaccia per il Sé: affinché si possa parlare di conflitto non è sufficiente che vi siano tra le parti
differenze nella visione del mondo, ma è necessario altresì che esse reputino minacciose e
destabilizzanti le visioni del mondo altrui rispetto alle proprie;

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 Densità emotiva: le dinamiche conflittuali influenzano fattori emotivi e affettivi.
IL CONFLITTO ORGANIZZATIVO: CHIAVI DI LETTURA PREVALENTI
In base all’orientamento, si definisce il conflitto secondo le dimensioni in cui si esplica, le cause
scatenanti, il livello e il ruolo.
ALCUNE VARIABILI IN GIOCO
Nel conflitto organizzativo, i modelli strutturali trattano gli aspetti relativi ai “parametri” del
sistema (norme, incentivi, procedure standardizzate, etc.) e le condizioni maggiormente stabili nel
contesto organizzativo che influenzano e danno forma al processo e alle dinamiche conflittuali; i
modelli processuali si focalizzano invece sulla sequenza temporale degli eventi che accadono
durante la genesi e lo sviluppo del conflitto. Thomas divide le variabili strutturali in 4 categorie: 1)
predisposizioni comportamentali (lo “stile” dei soggetti coinvolti), 2) pressioni sociali, 3) struttura
degli incentivi (comprende il grado di conflitto di interessi tra le parti), 4) ruoli e procedure. Lo
stesso autore si focalizza poi sulle variabili che possono facilitare/ostacolare la collaborazione nel
tempo. Tosi, Pilati, Mero e Rizzo nello spiegare la nascita di un conflitto uniscono a fattori
individuali (valori, atteggiamenti, etc.) altri che riguardano maggiormente la sfera strutturale,
riprendendo fattori istituzionali, tra cui citano il grado di interdipendenza, il bisogno di consenso,
le differenze di status, e fattori organizzativi, tra cui citano la specializzazione, la differenziazione, il
goal setting, le regole, le procedure, il livello di omogeneità/eterogeneità, la partecipazione, la
scarsità delle risorse. Altri autori sottolineano maggiormente aspetti processuali nello sviluppo del
conflitto organizzativo, come Pondy, uno dei primi a teorizzare il conflitto organizzativo come un
processo che si sviluppa secondo specifiche fasi: latenza, riconoscimento, percezione emozionale,
manifestazione aperta-fase comportamentale, conseguenze, gestione o esitamento e condizioni
per l’emergere di nuovi conflitti. Non necessariamente tutti i conflitti seguono la sequenzialità di
queste fasi, ed è possibile parlare di istituzionalizzazione del conflitto, individuando condizioni e
regole per una sua gestione.
I LIVELLI DEL CONFLITTO
Una prima classificazione delle tipologie e dei livelli in cui il conflitto nelle organizzazioni può
presentarsi è quella di Rahim:
- Intrapersonale: conflitto che origina dal contrasto tra le richieste dell’organizzazione e le
caratteristiche personali e professionali del soggetto e che può assumere 3 forme: 1) conflitto tra
persona e ruolo, 2) conflitto intrinseco all’emissione (due ruoli contraddittori), 3) conflitto tra le
emissioni (emissioni di ruolo contraddittorie provenienti da individui/gruppi diversi). L’inconscio
gioca un ruolo essenziale nei comportamenti umani che segnano la vita politica di tutte le
istituzioni;
- Intragruppo: conflitto tra membri che appartengono allo stesso gruppo di lavoro;
- Intergruppi: conflitto tra diversi gruppi di lavoro entro una stessa organizzazione.
Ferrari ha cercato di indagare il conflitto più inconsapevole, creato e mantenuto in vita dagli attori
organizzativi in un gioco di reciproche complicità, individuando i seguenti livelli di funzionamento
sociale in cui il conflitto si manifesta:
- Intrapsichico: strettamente connesso al concetto di sé; in questo livello è compreso anche il
conflitto generato dalle reciproche aspettative di ruolo;
- Interpersonale (sia a livello duale, sia nei gruppi): conflitto che coinvolge due o più persone. I
conflitti a questo livello possono generare soluzioni creative ed essere produttivi, ma possono
anche creare grave disagio, stress e infelicità. In questo livello l’autore comprende anche i conflitti
sorti dalla valutazione delle prestazioni e del merito delle organizzazioni (quando il giudizio
espresso sull’operato di una persona è diverso dal giudizio sulla persona stessa) e quello causato
da comportamenti considerati patologici (essere in competizione per le risorse, nascondere know-
how e informazioni, sfruttare il lavoro altrui, non contribuire col proprio lavoro per timidezza);

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- Nei gruppi di lavoro: conflitto strutturale e permanente tra esigenze dei membri e del gruppo;
- Intergruppi: si manifesta tra gruppi appartenenti alla stessa organizzazione, in cui le istanze
individuali passano in secondo piano, prevalendo le identità sociali.
Shepard distingue 3 livelli nella ricerca sul conflitto: istituzionale, o livello macro, relazionale, o
livello intermedio, e microsociale, costituito dalla disputa. Circa la “direzione” del conflitto, in
letteratura si trova frequentemente la distinzione tra conflitto orizzontale, che si manifesta tra
attori che sono allo stesso livello dell’organigramma, e conflitto verticale, che riguarda invece
persone e gruppi appartenenti a livelli gerarchici diversi.
L’OGGETTO DEL CONFLITTO
Una categorizzazione recente riguardante l’oggetto del conflitto distingue tra a) task conflict, da
differenze e opposizioni legate al lavoro e al compito (conflitti connessi al compito), e quindi
distribuzione e allocazione delle risorse, punti di vista opposti sulle procedure, giudizi e
interpretazioni discordanti di aventi e situazioni, e b) relationship conflict, da questioni
socioemozionali e relazionali (confitti relazionali), e quindi stili e gusti personali, preferenze
politiche, valori di riferimento.

IL CONFLITTO E LA VITA ORGANIZZATIVA: ALCUNI PUNTI DI ATTENZIONE


Nell’ultimo decennio sembra ancora prevalere un’impostazione metodologica che lascia sullo
sfondo il conflitto nella sua dimensione relazionale e contestuale. È stato analizzato il rapporto tra
conflitto e altre variabili della vita organizzativa, quali: organizational committment, soddisfazione,
turnover, salute versus stress. Sullo sfondi rimane il conflitto nella sua dimensione relazionale e
contestuale, per spiegare, cioè, il significato che assume per i soggetti e le ricadute per la vita
organizzativa.
ESITI E RICADUTE DEL CONFLITTO
La questione che sta guidando gli studi di molti autori in questi anni riguarda le possibili ricadute
del conflitto per la vita organizzativa. Una teoria molto accreditata ipotizza che un certo livello di
conflitto sia funzionale all’organizzazione, mentre una sua insufficiente o eccessiva presenza
causerebbe effetti negativi. Esisterebbe cioè una relazione curvilineare tra conflitto e performance
dell’organizzazione. Per comprendere quali elementi spingano il conflitto in una direzione
piuttosto che in un’altra, risulta imprescindibile richiamare in scena le variabili come: culture
organizzative di riferimento e valori connessi, modalità di gestione dei gruppi di lavoro e di
configurazione di mandati realistici, livelli di potere in gioco a modalità di esercizio dell'autorità,
dinamiche relazionali ecc.
CONFLITTO, SODDISFAZIONE E BENESSERE LAVORATIVO
Un tema molto dibattuto è il rapporto tra conflitto e soddisfazione lavorativa, definita come un
sentimento di piacere che deriva dalla percezione che la propria attività è in grado di soddisfare
valori personali importanti. In una recente meta-analisi, De Dreu e Weingart hanno evidenziato
una correlazione tra il conflitto in gruppi di lavoro e la soddisfazione lavorativa; secondo gli autori
si tratta di un circolo ricorsivo entro il quale le due dimensioni si influenzano a vicenda e in cui si
può ipotizzare il coinvolgimento di una terza variabile: la stabile differenza individuale. Queste
risultanze sono state recentemente riprese da Guerra e colleghi, considerando il ruolo della
cultura dell’organizzazione. De Dreu, Van Dierendonck e Dijkstra sottolineano come il malessere
psicofisico possa portare i lavoratori a sperimentare una minore soddisfazione e un minor
impegno lavorativo, producendo nel tempo conflittualità verso il contesto. L’ipotesi che ci giunge è
che il livello di benessere/malessere lavorativo e della connessa soddisfazione non solo siano
portatori di conflitto, ma possano, in certe condizioni, diventarne esito. Il conflitto a certi livelli
evocherebbe, infatti, emozioni come rabbia, disgusto, paura, portando una minaccia alla stima di
sé, sino a deteriorare il clima sul lavoro, con possibili influenza sul sistema fisiologico e correlati

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problemi (alcol, sonno, etc.), sentimenti di burnout, con ricadute anche su variabili correlate come
la soddisfazione sul lavoro e il commitment, specialmente quando riguarda questioni connesse alla
relazione. Gli effetti negativi che il conflitto ha su soddisfazione lavorativa e benessere si riducono
quando il conflitto è gestito attraverso problem solving e si rafforzano quando viene gestito con
l’evitamento e l’inazione. In sintesi gli studi evidenziano come conflitto e benessere lavorativo si
influenzino reciprocamente, in maniera cruciale. Da questi emerge che:
- Il conflitto che si esaspera sul luogo di lavoro riduce la soddisfazione lavorativa e inficia su
benessere e salute connesse alla relazione;
- Gli effetti negativi si riducono quando il conflitto è gestito con problem solving e si accentuano
con evitamento;
- Le variabili individuali influenzano le strategie di gestione del conflitto.
CONFLITTO ED EFFICACIA PERSONALE-COLLETIVA
Nelle ultime 3 decadi sono stati prodotti molti studi che hanno esaminato gli antecedenti e le
conseguenze della self-efficacy. L’efficacia personale viene intesa come un giudizio personale sulla
propria capacità di portare a termine con successo un compito scelto. Essa influenza la scelta
dell’individuo tra diverse attività, il livello di perseveranza a fronte di problemi e la performance.
L'efficacia collettiva si riferisce alla percezione dei membri della competenza di gruppo. De Dreu e
Beersma sottolineano come, relativamente agli effetti che il conflitto può avere su efficacia e
produttività, individuali e collettivi (di team), in letteratura emergano due prospettive:
- Secondo l’information-processing perspective la relazione tra conflitto ed efficacia individuale
avrebbe una forma di U rovesciata, concependo come funzionale per il benessere organizzativo la
presenza di una quota di conflitto che non deve essere né troppo elevata, né troppo bassa;
- La conflict typology framework sostiene invece che, mentre il conflitto relazionale interferisce
con i compiti di performance, causando minore efficacia e innovazione, il conflitto task conduce i
soggetti a considerare più prospettive e diverse soluzioni dei problemi e, prevenendo il
raggiungimento di un consenso prematuro, può aumentare la qualità del processo di presa di
decisione e l’efficacia personale e di gruppo.
CONFLITTO E TEAM DI LAVORO
Nel gruppo ci si muove sempre tra cooperazione e conflitto. Il conflitto a volte può essere
funzionale e produrre un incremento della performance. De Dreu, Van Dierendonck e Dijkstra
pongono al centro del loro discorso la cultura organizzativa del conflitto: essa determina come i
contrasti vengono visti e valutati, quali strategie di gestione del conflitto sono ritenute adeguate o
meno. Desivilya e Yagil hanno preso come riferimento i pattern di gestione del conflitto elaborati
da Rahim e Magner: dominio (alto interesse per sé, basso interesse per l’altro), sottomissione
(basso interesse per sé, alto interesse per l’altro), compromesso (moderato interesse per sé e per
l’altro), integrazione (alto interesse per sé e per l’altro), evitamento (basso interesse per sé e per
l’altro). Hanno poi analizzato i due maggiori antecedenti alla base dei modi di gestione dei conflitti
all’interno dei gruppi di lavoro: le percezioni dei membri della natura dei conflitti (task versus
relationship) e le loro reazioni emozionali. I risultati ottenuti:
1) la scelta di modalità cooperative (integrazione e compromesso) è positivamente associata a
esperienze ed emozioni positive,
2) la scelta di pattern “dominio” è inaspettatamente connessa sia a emozioni negative sia positive,
3) i pattern evitamento sono associati solo a emozioni negative.
Questo studio mette l’accento sulla centralità dello stato emotivo nel determinare la modalità di
gestione del conflitto a livello intragruppo. Per diversi autori la variabile cruciale per comprendere
il conflitto organizzativo è la cultura organizzativa.
CONFLITTO, CULTURE ORGANIZZATIVE E PROSPETTICHE DI GESTIONE

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La variabile fulcro per comprendere il conflitto sembra la cultura. Da qui si definisce il livello di
tolleranza dei membri circa discussioni ed opinioni diverse. La cultura organizzativa può essere
definita come l’insieme di valori centrali, norme di comportamento, artefatti e pattern
comportamentali che governano il modo in cui le persone interagiscono nell’organizazione e
investono energie nel lavoro. Guerra e colleghi hanno analizzato l’influenza dei tipi di conflitto,
task e relationship, sulla soddisfazione e sul benessere dei membri del gruppo, considerando il
ruolo di mediazione che la cultura dell’organizzazione gioca in questa relazione. Sono stati studiati
due tipi di organizzazioni che producono servizi: organizzazioni private con una cultura altamente
goal oriented e pubbliche con orientamento culturale support orientation e bassa cultura goal
oriented. Emerge che la cultura organizzativa media le relazioni tra il tipo di conflitto, sul compito
o sulla relazione, e le reazioni affettive dei lavoratori: nelle organizzazioni private l’alto
orientamento al risultato mitiga i potenziali effetti negativi del conflitto in merito al compito (task),
mentre in quelle pubbliche la cultura orientata al supporto e al servizio condiziona e rinforza la
valenza minacciosa del conflitto relazionale. L’interesse di questi studi risiede nel tentativo di
cogliere le connotazioni del conflitto per il gruppo di lavoro entro contesti specifici e secondo
determinate culture organizzative.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La molteplicità delle variabili e degli aspetti richiamati concepisce il conflitto come fenomeno
emergente che dà vita a ecologie relazionali possibili. Una prima espressione di tale collocazione
del conflitto riguarda la sua irriducibile declinazione intrapsichica e relazionale, in riferimento alla
prospettiva psicoanalitica. Tre immagini depositate nelle nostre sedimentazioni simbolico-culturali
possono essere evocate per richiamare emblematicamente i rimandi concettuali cui l’attenzione a
tale livello del conflitto rinvia. Iniziale è quella di Caino e Abele, metafora a un tempo
dell’identificazione libidico/distruttiva con gli oggetti e del conflitto pulsionale interno a una stessa
persona, così come di una semiotica e pragmatica delle comunicazioni affettive e delle relazioni
con gli altri, che connotano il rischio irriducibile della reciprocità. Emblematica anche l’immagine
biblica di Esaù e Giacobbe, gemelli che avevano lottato per contendersi la primogenitura,
urtandosi già nel grembo materno; Esaù baratta, nella celebre lite, il suo diritto alla primogenitura
per una minestra di lenticchie: calcolo, imbroglio, astuzia, sono parte delle transazioni relazionali.
Evocativa di implicazioni è la duplicità tra essere violento e quieto, che ricorda i mitemi della caccia
e della pastorizia quali configurazioni dell’esistenza umana. Il riconoscimento dell’alterità e della
propria finitezza come condizione di accesso ed espressione della soggettività passa anche
attraverso l’immagine di conflitto della storia biblica in cui Giacobbe, dopo essere rimasto ferito
nella lotta con l’angelo, viene da lui benedetto. La condizione per essere felici passa attraverso il
costo e il rischio della “lotta con l’altro” e l’ambiguità costitutiva del conflitto, in grado di aprire a
prospettive inedite di crescita e emancipazione. Ritroviamo qui una seconda specifica collocazione
del conflitto nei contesti organizzativi, in riferimento ai processi di progressiva “messa in ordine”,
rispetto ai quali i soggetti attivano contesti che consentono interpretazioni situate di quanto
accade, all’interno di un’intelaiatura istituzionale di significati e strutture di senso che
costituiscono una sorta di “organizzazione silenziosa”. La possibilità di stabilire una distanza
dall’immediato, di sospendere il flusso dell’esperienza e di sostare in modo riflessivo su quanto ci
accade richiede di sostenere un conflitto con quanto abitualmente diamo per scontato,
riconoscendo la strutturale parzialità e limite del nostro punto di vista. La terza e forse più
profonda collocazione del conflitto nelle dinamiche della vita organizzativa risiede proprio in
questa strutturale condizione di “animale poetico”, tipica dell’essere umano. La possibilità di usare
il linguaggio, di attivare momenti di riflessione, di realizzare produzioni di senso, sembra

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costitutiva della disposizione semiosica (capacità di produrre segni per gli altri) e semiotica
(capacità di interpretare i segni degli altri) che caratterizza il nostro essere soggetti in situazione.
Usare, accettare e abitare il conflitto è, in questo senso, acquisire una sorta di sensibilità
ermeneutica nelle costanti transazioni con gli altri e con il mondo. La dialogicità del pensiero
risiede nel fatto che la referenza è sempre esposta alla polisemia (pluralità di significati). L’esito è
la possibile valorizzazione delle dimensioni di legame, attraverso le quali rappresentarsi e costruire
la propria progettualità professionale. È come se la prospettiva per il soggetto fosse quella di
recuperare una solidarietà organizzativa. Di qui un lavoro per recuperare spazi di riconoscimento.
Lo sguardo della psicologia può allora contribuire a far scoprire al soggetto le potenzialità del
conflitto. Si tratta, da un lato, di identificare e contrastare modalità difensive poco funzionali e
incongruenti, come elementi di negazione (disprezzo e disinvestimento emotivo), rigidità,
indifferenza, dinamiche collusive (scendere a patti scellerati per evitare il dolore che la gestione
del conflitto comporta); dall’altro, occorre promuovere l’accesso a una matura prospettiva
conflittuale che potremmo, con Varchetta, ricondurre al costrutto di “degenerazione adattiva”,
preso in prestito dal funzionamento delle strutture neuronali per richiamare modalità dinamiche,
polimorfe e “ambigue” necessarie per adattarsi all’ambiente.

CAP 16
LE EMOZIONI NELLA VITA ORGANIZZATIVA
Sin dagli anni 30 lo studio delle emozioni nei contesti di lavoro è stato sviluppato dalla psicologia.
LE PAROLE DELLA PSICOLOGIA: AFFETTO, EMOZIONE, SENTIMENTO E UMORE
La prima teoria sulle emozioni si deve allo psicologo William James, il quale sosteneva che i
cambiamenti fisici stimolano i sentimenti (se ridiamo siamo contenti). Non c’è accordo tra i
ricercatori in merito alla definizione di emozione. Si può ricostruirne il senso attraverso la
differenziazione rispetto alle altre “parole delle emozioni”:
 Affetto (affect): utilizzato in letteratura come sinonimo di “sentimento” o di “emozione”, è un
termine generico, e include le emozioni;
 Emozione: è uno stato affettivo intenso e di breve durata, associato a una causa esterna o
interna al soggetto. Le emozioni hanno un carattere dinamico, si caratterizzano per una fase
iniziale, cui seguono un’evoluzione e quindi un’attenuazione. Hanno una natura ambivalente e
sono spesso intrecciate tra loro (l’odio può mescolarsi all’amore). Sono accompagnate da
modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti caratteristici anche a seconda
della situazione sociale in cui ci troviamo;
 Sentimento (feeling): è l’elemento più soggettivo di ciò che si prova, ossia è ciò che sentiamo in
maniera autentica e intima. Nell’ambito della prospettiva costruttivista i sentimenti (what we
feel) si distinguono dunque dalle emozioni, ovvero da ciò che traspare e rendiamo visibile dei
nostri sentimenti (si parla a tal proposito di displayed feature delle emozioni). La prospettiva
psicodinamica, invece, sembra non tener conto di questa distinzione. Generalmente in
letteratura emozione e sentimento sono spesso intercambiabili. Alcuni autori definiscono i
sentimenti come sensazioni personali che assumono il carattere di emozioni quando sono
messi in atto in situazioni sociali secondo regole e norme predeterminate. Secondo altri
ancora, le emozioni sono più intense e durature, i sentimenti meno intensi e durevoli;
 Umore (mood): si tratta di uno stato affettivo con intensità minore ma durata maggiore
rispetto alle emozioni. Alcune persone sono di umore stabile, mentre altre sono umorali,
perché sperimentano un cambiamento repentino nei loro stati d’animo.

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Emozioni, sentimenti, umori e affetti, come sostiene Bowlby, non sono entità discrete. Le
emozioni si esprimono in forma di trame emozionali (emotional texture), intrecci di emozioni
diverse. Questi intrecci emotivi mettono in evidenza il carattere continuamente dinamico e
mutevole delle esperienze emotive.
LE EMOZIONI NELLE ORGANIZZAZIONI
In ambito organizzativo, l’idea che gli individui siano portatori di una vita emotiva compare
soprattutto a partire dagli studi sulla Western Electric Company di Hawthorne, vicino Chicago,
dove alcuni antropologi e psicologi sociali coordinati da Mayo condussero alcune ricerche
empiriche e sottolinearono l’importanza della “logica dei sentimenti”. Dagli anni 30 e per lungo
tempo in letteratura per riferirsi alle emozioni si è parlato di “stato morale dei lavoratori”. Mayo
legittima l'idea che le persone che lavorano nelle organizzazioni possiedono dai sentimenti che
possono modificare i comportamenti sia positivamente che negativamente. L’interesse degli
studiosi per le emozioni nella psicologia delle organizzazioni si è dispiegato in due direzioni
principali. Lungo la prima è stato dato rilievo ad alcune attitudini che possiedono una componente
affettiva. In particolare le ricerche sulla soddisfazione lavorativa hanno alimentato una letteratura
di matrice cognitivista, per comprendere come l’attività svolta dal singolo influenzi la soddisfazione
e quindi i risultati organizzativi. La seconda direzione è rappresentata invece dalla lettura
psicodinamica delle organizzazioni, sviluppata dagli studiosi radunati interno al Tavistock Institute
of Human Realations di Londra. Le ricerche pioneristiche avviata da Jaques prima e da Menzies poi
descrivevano dinamiche organizzative centrate intorno alle diverse configurazioni delle angosce
primarie che le persone rivivono all’interno dei contesti lavorativi. Dalla metà degli anni 80 gli
studiosi delle organizzazioni hanno riscoperto l’interesse per i sentimenti e le emozioni,
testimoniato anche dalla nascita nel 2001 di Emotion, rivista internazionale dell’American
Psychological Association.
LE EMOZIONI COME ARENE EMOTIVE
A partire dagli anni 80 la relativa marginalità dell'interesse per la vita emotiva è venuta meno.
Nell'ambito degli studi organizzativi due prospettive, quella psicodinamica e quella costruttivista,
hanno rivitalizzato il dibattito scientifico intorno alle emozioni che gli individui provano nel loro
agire organizzativo. Viene utilizzata la metafora delle organizzazioni come “Arene emotive”. Le
organizzazioni sono arene in cui le emozioni sono rappresentate a favore di un pubblico: gli
individui emozionati costruiscono l'organizzazione, ciò che essa può raggiungere e produrre (le
emozioni danno forma ad azioni e decisioni) e tali attori organizzativi compiono azioni modificate
in virtù delle forze emotive da cui sono animati. Le emozioni variano a seconda delle relazioni che
si hanno con gli altri membri dell’organizzazione (violenze verbali, discriminazione sessuale razziale
ecc). i processi di lavoro come ragionamento, presa di decisione, apprendimento influenzano
profondamente emozioni, sentimenti e fantasia dei singoli.
L’APPROCCIO PSICODINAMICO
Gli antichi greci utilizzavano “pathos” per indicare “emozione”, con 2 significati: 1) una
caratteristica dell’esperienza o di una rappresentazione artistica che evocava pietà o compassione,
2) un’esperienza non desiderata, incontrollabile e non soggetta a giudizio, di cui si soffre o a cui si
è sottomessi. La prospettiva psicodinamica recupera l’antico significato di emozione associandolo
a quello derivante dal più recente francese émotion, dal tardo latino emotus, participio passato di
emovere e cioè “smuovere, commuovere”, che nel XVI secolo significava “movimento” e nel XVII
“agitazione popolare”. Ne consegue una visione plastica e dinamica delle emozioni, che hanno in
sé l’energia del “movente” (non a caso emozione e motivazione hanno la stessa radice
etimologica). In psicoanalisi le emozioni sono dunque un impulso profondo che spinge. Le
emozioni rappresentano il collante dei gruppi, ma sono anche le forze che portano alla distruzione.
In quest’ottica, un comportamento sbagliato è sempre il prodotto di una qualche emozione e non

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il risultato di un’intenzione errata perché viziata in partenza dalla scarsità di elementi conoscitivi.
L’ansia è l’emozione posta in primo piano negli studi classici psicodinamici dei contesti
organizzativi. Si tratta dei lavori di quegli studiosi che, alla fine della 2° guerra mondiale, erano
radunati presso il Tavistock di Londra, e che elaborarono l’approccio psicodinamico per lo studio
dei sistemi sociali, delle organizzazioni e dei gruppi. Il riferimento è alla ricerche di Jaques e di
Menzies, che hanno fondato il paradigma delle difese contro l’ansia, a partire dagli schemi teorici
della Klein e di Bion (il quale affermava che la vita affettiva del gruppo è comprensibile solo in
termini di meccanismi psicotici). Il tema dominante è coinciso per questi autori con la convinzione
che gli individui costruiscono e costituiscono le organizzazioni per ripararsi da 2 tipi di ansie: 1)
ansie paranoidi, ossia le forme più primitive di angoscia, che coincidono con la paura di essere
annientati e distrutti, e 2) ansie depressive, vale a dire i profondi timori di non essere capace, di
fallire e perdere la stima delle persone. Le due forme di ansia giocano un ruolo fondamentale per
tutta la vita di un individuo, assoggettandolo a meccanismi di difesa concepiti come forme di
protezione dal riaffiorare di quelle ansie primordiali. Jaques sostiene che le istituzioni sono il
mezzo di cui i loro singoli membri si servono per rafforzare i meccanismi individuali di difesa
contro l’ansia, e in particolare contro il riaffiorare delle prime ansie paranoidi e depressive, e che
uno dei più importanti elementi di coesione che lega gli individui in associazioni umane
istituzionalizzate è quello della difesa contro l’ansia psicotica; in tal senso si può pensare che gli
individui esteriorizzino quegli impulsi e oggetti interni che altrimenti darebbero origine a un’ansia
psicotica, e li facciano confluire nella via delle istituzioni sociali di cui entrano a far parte; ciò
implica che dovremmo aspettarci di trovare nei rapporti di gruppo manifestazioni di irrealtà,
scissione, ostilità, sospetto, e altre forme di comportamento disadattivo, che costituirebbero la
controparte sociale di quelli che apparirebbero come sintomi psicotici in individui che non hanno
sviluppato la capacità di usare il meccanismo di associazione in gruppi sociali per evitare l’ansia
psicotica. Qui l’autore sottolinea la visione strumentale dell’organizzazione: gli individui, secondo
Jaques, si utilizzano reciprocamente, caricando tra loro le relazioni di significati che “disturbano” la
relazione stessa. Hirschhorn ha elaborato il concetto di “sistema dei normali danni psicologici” per
descrivere l’insieme di “offese” che gli attori organizzativi subiscono quando tentano di
collaborare: accade infatti che i soggetti si utilizzino a vicenda e pertanto si “offendano”
reciprocamente attribuendo agli altri poteri, ruoli, atteggiamenti e desideri che non possiedono
alcun fondamento reale e che sono piuttosto il risultato di meccanismi di proiezione messi in atto
da loro stessi per difendersi dalle minacce percepite. Il disincantamento del mondo, per tornare a
Weber, in realtà è continuamente minacciato, solo parzialmente raggiunto, messo a repentaglio
dagli stessi membri dell’organizzazione, che per far fronte all’emergere dell’ansia mettono in atto
meccanismi di difesa attraverso forme di introiezione e proiezione, cosicché la razionalità
organizzativa si scontra con le emergenze irrazionali di volta in volta camuffate da vittimismo,
arroganza, passività, narcisismo, attribuzione a qualcuno del ruolo di capro espiatorio. Jaques
espose le principali acquisizioni emerse dallo studio condotto presso la Glacier Metal Engineering
Company, un’azienda inglese del settore metalmeccanico. In quell’organizzazione agivano diversi
meccanismi di difesa, innanzitutto la scissione dei dirigenti in buoni e cattivi da parte degli operai;
viceversa, i dirigenti ricorrevano all’idealizzazione e a una fiducia spropositata nei confronti degli
operai, quale meccanismo inconscio per far fronte all’ansia e al rimorso di averli gestiti in modo
autoritario, e quindi di averli potenzialmente danneggiati, per proteggere se stessi dalle loro “parti
cattive”. La Menzies, nello studio sulle infermiere di una scuola ospedaliera londinese, mise in
evidenza che il personale infermieristico era continuamente esposto, da un lato, a emozioni e
sentimenti legati al contatto con la sofferenza e la malattia e, dall’altro, alle emozioni che esse
suscitavano nei pazienti e nei parenti dei malati. Il lavoro delle infermiere comportava il confronto
con situazioni molto stressanti, e i compiti che erano chiamate a svolgere prevedevano attività

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sgradevoli o addirittura minacciose per la loro salute; l’intimo contatto fisico coi pazienti generava
inoltre forti desideri erotici e libidici. Allo scopo di far fronte a questo crogiolo di emozioni,
l’organizzazione aveva escogitato numerosi meccanismi difensivi. L’organizzazione del lavoro era
basata su un’elevata specializzazione, cosicché a ogni infermiera era assegnato solo un ristretto
numero di compiti, da svolgersi per tutti i ricoverati; per riuscirci, il personale doveva ridurre al
minimo il tempo da dedicare al singolo paziente e quindi, potenzialmente, diminuiva anche l’ansia
che un contatto prolungato avrebbe potuto far scaturire. Una seconda modalità difensiva era la
spersonalizzazione dei pazienti, identificati, anziché con nome e cognome, attraverso il numero di
letto, il tipo di malattia o di organo malato. Una terza modalità di difesa era la massima riduzione
delle decisioni da prendere, affiancata da una lista dei compiti da eseguire che svuotava di
significato il compito stesso, relegandolo a gesti semplici, meccanici e ripetitivi, evitando alle
infermiere di misurarsi con il momento ansiogeno dell’incertezza della presa di decisione. Un altro
meccanismo era la deliberata mancanza di chiarezza nella distribuzione dei ruoli e delle
responsabilità formali, che non definiva in modo sufficientemente chiaro chi era responsabile di
chi e di che cosa. La scarsa definizione dei ruoli era spiccata ai livelli più alti della gerarchia, dove la
necessità di protezione era anche maggiore a causa dell’onere di responsabilità. Infine, la
riduzione dell’ansia avveniva attraverso una politica gestionale che favoriva l’esercizio del distacco
professionale, sia fisico che mentale. In conclusione, la Menzies affermava che il sistema di
formazione delle infermiere era un sistema di difesa sociale nei confronti di tracce psicologiche
primitive. Il lenimento recato da tale meccanismo era tuttavia illusorio, in quanto la Menzies
osservava che le modalità di riparo dell’ansia non ottenevano lo scopo desiderato, e ciò era
dimostrato per esempio dall’elevato burnout e stress lavorativo, da un clima pesante e
dall’elevato turnover tra le infermiere. In tempi più recenti Jaques prende le distanze da tali
affermazioni. L’intoppo rilevato in questa teoria è che l’organizzazione offre meccanismi di difesa
dalle forme di angoscia primaria, ma nelle sue dimensioni di struttura e modalità di
coordinamento e controllo delle attività, ossia nella sua parte più formale e tangibile, produce un
effetto controintuitivo, ossia diventa essa stessa fonte di ulteriore ansia. È questa l’elaborazione di
alcuni studiosi che si rifanno soprattutto a Freud. Freud concepisce le emozioni in termini
dinamici, potendo esse cambiare oggetto e trasformarsi sia in altre emozioni, sia soprattutto in
altre forme d’ansia. Per questi autori entrare in organizzazione implica il riattivarsi di antiche ansie
primarie, e stare in organizzazione genera nuove angosce, accentuate nel contesto postindustriale
soprattutto dall’incertezza dell’ambiente. L’organizzazione produce così un circolo ansiogeno
vizioso e distruttivo. Baum ha trovato nelle organizzazioni burocratiche delle caratteristiche che le
rendono luoghi dove l’ansia può attecchire facilmente e diventare un disturbo tossico. Una
specificità della burocrazia è il massiccio ricorso alla gerarchia, che concentra il potere nelle mani
di pochi e parallelamente definisce in modo ambiguo le responsabilità. Questi due aspetti creano
uno spazio psicologico vuoto che viene colmato dalle fantasie che alimentano emozioni intense.
Nel proporre questa visione, Baum si discosta dalla teoria delle relazioni oggettuali e ritorna
all’impostazione freudiana tale per cui sono le fantasie a generare emozioni e non viceversa. Dalla
burocratizzazione e dalla gerarchia consegue cattiva organizzazione. In un’organizzazione
burocratica, ma non solo, i soggetti tendono a creare immagini del proprio capo e della relazione
con lui che ricalcano le figure di autorità incontrate nei primi anni di vita, e che rimandano a
sentimenti forti (es. paura, rivalsa) contribuendo a disegnare una relazione segnata
dall’incomprensione. “La vita organizzativa” di Quaglino illustra i principali contributi
dell’approccio psicodinamico. Ciò che sembra costituire un tratto comune alle prospettive ad esso
appartenenti è l’idea che il fallimento (o il successo) delle organizzazioni dipenda dalla capacità di
elaborare e contenere le emozioni.
L’APPROCCIO COSTRUTTIVISTA

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Secondo l’approccio costruttivista le emozioni sono apprese nei contesti sociali e organizzativi, e
che alla loro espressione sono associate reazioni corporee, anch’esse apprese (“inculcate”), ma
con un significato che dipende dalle particolari circostanze e dalle interazioni discorsive degli attori
organizzativi. Nella prospettiva cognitivista il lessico e le narrazioni sono centrali perché veicolano
significati emotivi. Ciò comporta che si attribuisca un valore positivo o negativo alle emozioni in
relazione al contesto culturale in cui esse si presentano, orientando di conseguenza anche i
comportamenti. Si impara a mostrare, esibire ed esprimere le emozioni anche in relazione a un
calcolo dell’interesse personale. Per affrontare questi temi gli studiosi hanno elaborato alcuni
concetti. Hochschild alla distinzione tra l'emotional Labour e l’emotional work. L’emotion work fa
riferimento alla gestione e al controllo dei sentimenti per creare una facciata attendibile nei
contesti sociali, quali la famiglia o gli amici ed ha un valore d'uso e non implica uno sfruttamento
mentre l'emozionale Labour possiede un valore di scambio e coincide con la gestione della vita
emotiva nei contesti di lavoro, cioè fa riferimento a quelle emozioni che le persone devono gestire
e mostrare al fine di ricevere una retribuzione e che sono sfruttati dall'organizzazione per ottenere
un profitto. L'emotional labor implica: non mostrare emozioni incoerenti con le regole
organizzative e mostrare le emozioni richieste dall'organizzazione. le persone usano due tecniche:
- il Surface acting (recitazione superficiale): “mettere la maschera” mentre ciò che realmente si
prova a rimane invariato e spesso in contraddizione con ciò che viene mostrato -> esprimere ciò
che non si prova (falsificare)
- il deep acting (recitazione profonda): modificare realmente e consciamente i propri sentimenti
per poter esprimere le emozioni richieste -> sopprimere e modificare ciò che si prova
Secondo Fineman l’emotion work è quello sforzo psicologico che gli individui sostengono per
gestire la discrepanza tra i sentimenti più sinceri che provano e le emozioni lecite nei contesti
organizzativi.
L’espressione delle emozioni (emotional display) dipende non solo dalle regole descritte dal
management ma anche dalla professione e dal ruolo esercitati (es. gli infermieri devono esibire
attenzione cura). Dunque le emozioni sono parte del compito. I modi attraverso i quali le
organizzazioni controllano le emozioni sono molti, per esempio forme di ricompensa e promozione
oppure la socializzazione alla cultura organizzativa o esercizio del controllo da parte dei pari.
Quando la tensione tra ciò che si prova e ciò che si mostra diventa insostenibile il rischio è la
caduta nel burnout, Nello stress lavorativo e nell’alessitimia (un insieme di deficit della
competenza emotiva ed emozionale, palesato dall'incapacità di mentalizzare, percepire,
riconoscere e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi). I tre concetti di emotion
work, emotional labour e emotional script (copione emozionale) gettano luce sull’ipocrisia
emotiva, nel senso dell’antico greco Hypokrisis, ossia “recitare una parte su un palcoscenico”, in
questo caso quello dell’organizzazione. Nei contesti organizzativi, alcune aree emotive (emotional
zones) sfuggono al controllo. I setting organizzativi sono infatti socialmente costruiti secondo le
categorie di pubblico/privato, esposto/protetto, indifeso/sicuro, back stage/front stage. Alcune di
queste aree sono per es la cucina di un ristorante, la sala professori, il corridoio per gli studenti, e
così via, posti dove si possono manifestare senza imbarazzo i sentimenti più autentici, offrono ai
soggetti la possibilità di sottrarsi alla fatica emotiva e al lavoro emozionale in spazi sicuri e protetti,
nascosti alla vista di coloro ai quali offrono un servizio (capi). L’utilizzo di Internet nei contesti di
lavoro ha aperto nuove aree emozionali. Nell’approccio costruttivista la riflessione teorica è stata
supportata da 3 testi di Fineman, che rappresentano il punto di arrivo di un percorso di circa un
ventennio.
LUNGO IL SENTIERO DELLE TRAME EMOZIONALI: ULTERIORI SVILUPPI
In psicologia del lavoro e delle organizzazioni l'interesse per le emozioni si è diffuso soprattutto nei
discorsi sulle competenze e sulla salute occupazionale. la competenza emotiva è stata interpretata

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come un segno di eccellenza per manager impegnati a navigare a vista nelle acque tempestose di
organizzazioni in continuo cambiamento. Il concetto di intelligenza emotiva si era affermato come
punto di riferimento imprescindibile. Essa è stata definita da Salovey e Mayer come l'abilità di
identificare, comprendere, monitorare e regolare le proprie e altrui emozioni e di usarle per
guidare i propri pensieri e le proprie azioni. Molti studiosi si sono concentrati sul costruire
strumenti di misurazione e sul verificare se l'intelligenza emotiva potesse essere considerata un
predittore della performance lavorativa. Ricerche hanno evidenziato che l’intelligenza emotiva può
contribuire a spiegare la performance, oltre alle abilità cognitive e altri tratti di personalità. L'altro
ambito in cui è sempre più diffusa la riflessione sulle emozioni è quello della salute e del benessere
al lavoro. Qui oltre l'emotional Labor e l'emotional work hanno offerto contributi importanti le
ricerche sulla regolazione delle emozioni. James Gross ha proposto modello (process model of
emotional regulation) riguardo le strategie che i lavoratori usano per gestire le emozioni e sugli
effetti di tali strategie sulla salute, sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle persone a lavoro.
Il processo di regolazione delle emozioni interviene per aumentare il valore adattivo delle
emozioni attraverso la modulazione della forma espressiva o la trasformazione dell'emozione
stessa. Poiché il lavoro di regolazione è considerato un processo indispensabile per l'adattamento
dell'individuo all'ambiente la ricerca si è concentrata sull’individuare le strategie attraverso cui le
persone costruiscono tale adattamento. Gross ha distinto tra:
- strategie basate sull'antecedente: agiscono nella fase di genesi dell'emozione e cambiano ciò
che si prova agendo sugli eventi-stimolo o sulla valutazione degli stimoli
- strategie basate sulla risposta emotiva: agiscono nella fase di esibizione dell'emozione e
influenzano la risposta comportamentale -> comportano una maggiore attivazione fisiologica e un
maggiore sforzo cognitivo rispetto alle strategie di rivalutazione del significato di ciò che sta
succedendo. //Non esiste strategia migliore, perché la regolazione delle emozioni dipende dalle
caratteristiche della persona, dal contesto e dagli obiettivi che la persona ha in quel contesto.

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