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CAP. 3
L’ORGANIZZAZIONE COME CULTURA
L’APPROCCIO CULTURALE: LE ORIGINI
La cultura organizzativa è strettamente connessa con la presenza umana nell’organizzazione. È il
prodotto di idee, pensieri, valori delle persone che ne hanno fatto parte in passato e che
continuano ad operare nel presente. L’idea di cultura organizzativa è stata sviluppata nell’ambito
dell’approccio culturale o simbolico-interpretativo per lo studio delle organizzazioni tra la fine
degli anni 70 e l’inizio degli 80. Negli anni 70 con la metafora di “organismo”, con una visione
sistemica che implicava che le organizzazioni fossero interpretate come sistemi sociotecnici,
intenzionalmente e razionalmente progettati per il raggiungimento di fini prestabiliti e capaci di
adattarsi ai mutamenti provenienti dall’ambiente esterno. Ma all’inizio degli anni 80 al paradigma
razionalista viene accostato, spesso in opposizione, l’approccio culturale, nella cui prospettiva le
organizzazioni sono forme espressive, ossia insiemi di significati condivisi e socialmente costruiti
all’interno della vita organizzativa (pensieri, emozioni). La visione simbolico-interpretativa utilizzò
modelli olistici, tesi cioè a decifrare la ricchezza e la complessità dei comportamenti degli attori, in
risposta al predominio di un paradigma neopositivista, che implicava nella ricerca empirica
l’utilizzo di metodi quantitativi tesi a misurare fenomeni oggettivi e a scoprire improbabili
correlazioni. Un primo segno del cambiamento si ebbe nel 1979 con la pubblicazione di uno
special issue della rivista Administrative Science Quarterly, dedicato ai metodi qualitativi della
ricerca organizzativa. In secondo luogo, ciò che ha favorito la nascita della prospettiva culturale è
stata la crisi delle aziende occidentali che si confrontavano con l’irrompere sui mercati
internazionali della concorrenza giapponese. L’idea che l’economia e le organizzazioni del Sol
Levante avessero costruito il loro successo facendo leva sulla cultura organizzativa venne proposta
in alcuni testi diventati poi i bestseller manageriali del periodo. Una terza causa è stata una
tendenza socioculturale che ha portato a concepire il proprio lavoro e il successo personale in
CAP 4
CONOSCERE E APPRENDERE NELLE ORGANIZZAZIONI
INTRODUZIONE
Il tema della conoscenza organizzativa richiede il confronto con una variegata costellazione di
riferimenti e approcci.
IL PUNTO DI VISTA ADOTTATO
L’approccio da cui muoviamo concepisce le organizzazioni come contesti sociali in cui l’efficacia e
l’efficienza dei processi produttivi sono strettamente connesse alla soggettività degli attori presenti
e alla concretezza e affidabilità delle loro azioni, alle culture di cui sono portatori e alla capacità di
attribuire significato agli eventi e alle problematicità incontrate. Si dai importanza non solo agli
aspetti strutturali ma soprattutto alla realtà organizzativa per avviare i processi di cambiamento
personale e organizzativo, di apprendimento trasformativo e di sé. La psicologia del lavoro e delle
organizzazioni cerca di descrivere e comprendere il rapporto tra gli attori organizzativi e pressioni
interne ed esterne storicamente presenti e come da esso derivino interpretazioni e corsi di azione,
prese di decisione e trasformazioni dei contesti operativi di appartenenza. Tale orientamento può
essere rintracciato nell'approccio di una teoria della pratica: centrata sullo studio delle pratiche
lavorative, della produzione e riproduzione di concreti sistemi di attività, dei significati che le
persone attribuiscono alla loro esperienza lavorativa e organizzativa. Le organizzazioni complesse
sono sistemi di attività con articolazioni al loro interno e interrelazioni con altri sistemi di attività.
Assumere tale visione significa affrontare la complessità delle relazioni interne ed esterne e capire
come i sistemi di attività sono generati, quali trasformazioni attraversano, come operano in
differenti contesti spaziali e temporali. L’agire può essere letto sulla base dei saperi pratici, delle
culture operative, di regole e routine diffuse, che costituiscono un tessuto in grado di influenzare
corsi di azione e orientare identità.
DIMENSIONI DI CORNICE: MUTAZIONI LAVORATIVE, ARTICOLAZIONI DELLA PROFESSIONALITA’ E
SFIDE ALLA SOGGETIVITA’
la prima dimensione di cornice riguarda il progressivo configurarsi di una mutazione degli scenari
contemporanei: crisi, disoccupazione, fenomeni di disuguaglianza, collasso ecologic, profonde
trasformazioni demografiche, geopolitiche e migratorie. I contesti operativi e organizzativi sono in
profonde trasformazioni, con mutamenti rapidi e tuttora in corso delle forme di rapporto tra
soggetto ed esperienza lavorativa. Quello che è importante sottolineare è il cambiamento che le
trasformazioni a livello scientifico e tecnologico introducono di fatto nel panorama lavorativo e
organizzativo (es utilizzare un robot per un intervento chirurgico cambia il ruolo del lavoratore e la
stessa organizzazione del lavoro richiedendo nuove competenze e una diversa flessibilità). Da un
lato si apre la possibilità di mettere il “sapere al lavoro al centro della scena organizzativa”,
sapendo che il vantaggio competitivo per istituzioni, imprese e organizzazioni, pubbliche e private,
diventa la capacità di “creare valore con le risorse umane”, sostenendo forme di apprendimento e
di condivisine di pratiche professionali e lavorative. Dall’altro lato, su un versante più microsociale,
inerente alle transazioni tra soggetti e al loro rapporto con quotidiani ambiti e oggetti di
investimento e di relazione, assistiamo a ricorrenti e diffuse dinamiche depressive, di contrazione
e inibizione delle energie di disponibilità, di fiducia, di speranza. Il confronto con aspetti di
incertezza, precarietà, possibile strumentalizzazione, che spesso sono associati alla presenza
dell’inatteso, genera esiti di imprevedibilità, ambiguità, provvisorietà e instabilità. La seconda
dimensione di cornice riguarda l’evoluzione delle caratteristiche di professionalità, dei saperi a
esse connessi e delle condizioni del loro esercizio nell’ambito lavorativo e delle organizzazioni. Gli
L’enfasi richiamata sul costrutto di knowing in practice evidenzia la necessità di fare riferimento
alle dimensioni di conoscenza tacita e alle modalità della sua produzione e circolazione: essa
richiede un approccio olistico e qualitativo, per coglierne le condizioni di significatività in un dato
contesto; necessita di un tempo consistente di intercettazione e monitoraggio, al fine di
individuare i modi della sua riproducibilità che coinvolgono aspetti operativi, tecnici, etici ed
estetici, attraverso i quali i soggetti in un dato contesto danno al loro mondo un ordine,
provvisorio e minacciato dalla fragilità, ma progressivamente più stabile, di complessa
accessibilità. L’apprendimento diventa metafora dei processi di costruzione e negoziazione di
significati che i soggetti attribuiscono alla loro esperienza e storia organizzativa, traducendoli
progressivamente in routine, convenzioni e procedure istituzionalizzate. È importante sottolineare
le caratteristiche di una concezione dell’apprendimento connesse all’adozione di una prospettiva
epistemologica sociocostruzionista, conversazionale, narrativa. A fronte di una concezione delle
organizzazioni come campi di pratiche, attorno alle quali si coagulano appartenenze e si
sviluppano esperienze di produzione di senso, di condivisione di emozioni, di formazione di
linguaggi, di produzione e diffusione/circolazione della conoscenza, si configura un’idea di
apprendimento locale, funzionale e alla promozione dell’attitudine dei soggetti d’apprendere a
partire dalla riflessione sulle pratiche concrete della loro vita lavorativa. (un apprendere che
sposta l’enfasi dalla prospettiva cognitiva a quella sociale, cioè coinvolge non solo i singoli individui
ma impegna una comunità di soggetti). Gherardi suggerisce un ribaltamento del concetto (da
comunità di pratica a pratiche di comunità), che ne recuperi il legame originario con le pratiche
CAP 6
LE RISORSE PERSONALI E LA LORO ESPRESSIONE NEL CONTESTO ORGANIZZATIVO
Negli ultimi decenni il mondo delle organizzazioni ha subito una serie di cambiamenti che hanno
dato luogo alla cosiddetta “società del benessere”. Negli anni Duemila diventano come non mai
rilevanti i temi della convivenza, dell’adattamento, dell’incertezza lavorativa, del lavoro atipico,
della tecnologia e dei network rendendo sempre più complesso il quadro da fronteggiare. In
questa complessità diventa particolarmente prezioso il CAPITALE UMANO, le reti di relazioni tra
persone, in letteratura concettualizzate come capitale sociale di cui l’organizzazione può avvalersi.
La scienza psicologica deve rapportarsi con una realtà sempre più variabile e sapersi muovere in
essa, individuando le migliori condizioni tanto di adattamento quanto di innovazione proattiva,
volta non solo ad anticipare i rischi ma anche a influenzare la realtà così da fondare e rendere più
probabili gli sviluppi desiderati. In questo contesto si afferma la PSICOLOGIA POSITIVA: movimento
culturale e scientifico che si propone di portare all’attenzione le determinanti positive del
comportamento e dell’esperienza umana per promuovere condizioni di benessere ed efficacia e
prevenire le patologie che sorgono quando la vita è vuota e priva di significato.
LA LENTE DELLA PSICOLOGIA POSITIVA: L’INDIVIDUO COME PATRIMONIO DI POTENZIALITA’
REALIZZATIVE
Dal punto di vista culturale, un cambiamento nell’assetto disciplinare della psicologia si venne a
creare negli anni Sessanta con la nascita della Psicologia umanistica, promossa tra gli altri da
DALLA PSICOLOGIA POSITIVA ALLO STUDIO DELLE RISORSE PERSONALI NEL CONTESTO
ORGANIZZATIVO
Vari sono i movimenti che a partire dalla psicologia positiva hanno dato contributi all’ambito
lavorativo e ricollegandosi così a una più generale tendenza emergente: quella allo studio delle
risorse personali nel contesto organizzativo. RISORSE PERSONALI: secondo la teoria della
conservazione delle risorse fanno riferimento a caratteristiche della persona che sono
generalmente di aiuto nel fronteggiare lo stress ma anche nel raggiungere risultati significativi,
aventi valore per l’individuo stesso. Le risorse personali possono essere intese come aspetti del sé
generalmente collegati alla capacità personale di adattamento e alla percezione delle proprie
capacità di esercitare un controllo e impattare sul proprio ambiente. MOVIMENTO POB (POSITIVE
ORGANIZATIONAL BEHAVIOR): Il POB viene definito come lo studio e l’applicazione dei punti di
forza e delle capacità psicologiche orientate positivamente che possono essere effettivamente
misurate, sviluppate e gestite per il miglioramento della performance negli odierni contesti di
lavoro. La principale differenza rispetto alla psicologia positiva sta nel focalizzarsi su dimensioni
personali malleabili, che possono essere sviluppate mediante appositi programmi di intervento in
ambito organizzativo. Ne viene fuori il costrutto di CAPITALE PSICOLOGICO: riferito ad alcune
dimensioni di natura propriamente psicologica che consentono all’individuo di riuscire
professionalmente e che operano in stretta sinergia: l’efficacia personale lavorativa (convinzione di
saper gestire il proprio ruolo all'interno dell'organizzazione), l’ottimismo (la tendenza a leggere
positivamente la realtà in cui si opera), la resilienza (la capacità di adattarsi e riprendersi
rapidamente dagli eventi stressanti) e la determinazione (la capacità di perseverare flessibilità
verso il raggiungimento dei propri obiettivi), efficacia personale generalizzata (ottenere successo in
vari contesti), autostima basata sul l'organizzazione (soddisfare bisogni personali svolgendo ruoli
all'interno di un contesto organizzativo). CORE SELF -EVALUATIONS -> valutazioni nucleari di sé:
Judge e colleghi hanno ricondotto la convinzione di essere all’altezza delle situazioni, la tendenza a
ritenere di poter determinare eventi, l’autostima e infine la stabilità emotiva a una risorsa di base
rappresentativa del grado di considerazione che le persone hanno di sé stesse, del proprio valore e
delle proprie capacità e competenze.
Le risorse personali vengono associate sempre più allo studio del potenziale psicologico che si
affianca all'indagine e alla valorizzazione delle competenze personali che non solo facilita il
successo individuale ma lo stesso tempo quello delle organizzazioni. Mentre le competenze sono
CAP 7
I CLIMI ORGANIZZATIVI
Occuparsi di clima organizzativo significa dare centralità all’uomo, al lavoratore. - il clima è una
descrizione percepita dall'ambiente di lavoro - la soddisfazione lavorativa rappresenta la risposta
di valutazione effettiva delle persone in relazione ad aspetti del loro lavoro. L'analisi del clima
organizzativo rientra nell'ambito delle action strategies cioè interventi organizzativi che hanno
l'obiettivo di: risultare utili al cliente esaminando al contempo le basi teoriche da cui originano, ed
essere partecipatori e condivisi.
IL COSTRUTTO DI CLIMA
Il punto di riferimento per gli studiosi è il concetto, proposto da Lewin, di “atmosfera sociale”,
inserito nell’ambito della ricerca-azione, che poi costituisce il primo tentativo di individuazione
delle dimensioni climatiche. L’atmosfera psicologica si definisce come una proprietà intangibile
della situazione sociale complessiva e come quel sistema di percezioni e di attribuzioni di
significato che i protagonisti di un campo psicologico giudicano pertinente in uno spazio e in un
tempo dato. Negli studi più recenti, il concetto di clima è una metafora per usufruire di previsioni
“meteorologiche” in campo sociale (l’aria che si respira all’interno di un’organizzazione). Il clima
organizzativo fa riferimento a vissuti, atteggiamenti, emozioni, problemi, aspettative, speranze,
difficoltà, grado di coinvolgimento, senso di appartenenza, coesione del gruppo. Nel 1992 Moran e
Volkwein classificano in successione cronologica 4 approcci negli studi sul clima: Strutturale,
Percettivo, Interattivo e Culturale. Ricordiamo che per Lewin il comportamento è una funzione
dell’integrazione tra ambiente e persona: C = f(A,P).
CAP 8
GRUPPI DI LAVORO
Oggi gran parte delle imprese non nasce con una funzione imprenditoriale concentrata in un’unica
persona, ma grazie ad un team. Il successo dell’impresa dipende anche dalla competenza a
lavorare insieme che le persone che compongono il gruppo possiedono. I malfunzionamento dei
team sono una delle cause principali di crisi e fallimento delle imprese.
DEFINIZIONE DI GRUPPO E LAVORO DI GRUPPO
LEWIN: il gruppo è qualcosa di più, diverso dalla somma dei suoi membri, infatti ha una struttura
propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è
la somiglianza o dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Il suo
contributo rimanda in particolare all’importanza di considerare il gruppo come un tutto, una
LE DINAMICHE DI GRUPPO= Il lavoro di gruppo implica prestazione a relazione, cioè fare e stare con gli
altri: l’origine delle dinamiche di gruppo va rintracciata nella fatica psicologica che questo comporta. -
FATICA LEGATA AL FARE: il fare genera un carico cognitivo ed emotivo (prendere decisioni, risolvere
problemi, monitorare attività). -FATICA LEGATA ALLO STARE: fatica legata alla relazione con gli altri, che
anche in questo caso è di ordine cognitivo ed emotivo (comunicare, ascoltare,eprimersi).
Possiamo definire le dinamiche di gruppo anche come risposte involontarie alla presenza del malessere
derivante dal fatto di lavorare con gli altri.
CAP 9
LA LEADERSHIP
CAP 10
LA FOLLEWERSHIP
La followership domina le nostre vite e le nostre organizzazioni, ma non il nostro pensiero, poiché la
nostra preoccupazione rispetto alla leadership ci impedisce di considerare la natura e l’importanza del
follower.
CHE COSA SI INTENDE PER FOLLOWERSHIP?
Il termine followership derivato dal verbo to follow, fa riferimento a un’azione diretta e intenzionale,
con l’aggiunta del suffisso ship rimanda anche a un processo: il movimento volontario di qualcuno che
vede dove qualcun altro è andato e decide di prendere la medesima strada, di seguirlo. La parola
leadership rimanda all’ azione di guidare, andare per primo, condurre (to lead). Tra i concetti di leader
e follower sta alla base: la relazione (aspetto principale per poter seguire e guidare è la presenza
dell’altro). Il follower non va considerato come il subordinato ma come l’individuo che, quasi sempre
leader egli stesso, sceglie, momento per momento, se e come essere anche seguace. Mentre la
subordinazione ci parla delle cose come sono, la followership ci dice anche di come potrebbero essere
in virtù di una scelta individuale, di ruoli interpretati in modo vario e personale dagli individui. Ci sarà
una followership che è solo subordinazione di una leadership che è solo comando, ma ci sarà anche
una followership esemplare che è relazione con una leadership evoluta: un leader che resti sempre
vicino e ben visibile e un follower capace di intuire la via, contribuire a disegnare il percorso,
promuovere nuovi sentieri, capace di guidare egli stesso. All’interno della cornice di una buona
relazione: il leader cede potere anziché accentrarlo, il follower accetta di assumersi responsabilità
anziché sottrarvisi Tre aspetti della relazione follower-leader:
- Quello tra follower e leadership è un rapporto reciproco e complementare
- Followership e leadership implicano un’asimmetria nella relazione. Tale asimmetria può assumere
diverse forme
- Followership e leadership intese come relazioni sono inoltre azioni guidate attraverso un obiettivo
che è comune tra chi guida e chi segue.
LA FOLLOWERSHIP IN LETTERATURA
1. Diventa cruciale definire la followership stessa e la sua relazione con la leadership. Nelle
legame reciproco con la leadership si delinea il profilo di una followership che può essere
proattiva, che accoglie l'influenza proveniente dall'alto ma che è capace di esercitarla verso
l'alto attraverso un dialogo.
2. È necessario chiarire la relazione tra followership e altre variabili organizzative (efficacia,
benessere) a livello individuale e organizzativo
3. Mettere a fuoco le possibili implicazioni per la pratica, provando a declinare le riflessioni
teoriche e le discussioni sulle evidenze empiriche.
CAP 11
CAMBIAMENTO E SVILUPPO ORGANIZZATIVO
CAP 12
PRENDERE DECISIONI NELLE ORGANIZZAZIONIA
La vita organizzativa è scandita da una serie di decisioni: le strategie a lungo termine, le caratteristiche
della struttura, l’andamento dei processi, il successo o l’insuccesso del cambiamento, la qualità della
vita lavorativa e il clima relazionale dipendono tutti da piccole e grandi decisioni prese a differenti
livelli gerarchici.
DEFINIZIONE ED ELEMENTI COSTRUTTTIVI
Le caratteristiche fondamentali della decisione in organizzazione costituiscono le sue dimensioni, che
si influenzano l’una con l’altra individuando la natura e il tipo della decisione stessa.
DIMENSIONI
Le 3 principali dimensioni di una decisione sono:
Rilevanza. La rilevanza di una decisione ne specifica l’impatto su tutta l’organizzazione;
Temporalità. Questa dimensione esprime il periodo di tempo in cui si avvertiranno le
conseguenze;
Contesto. Le condizioni ambientali in cui viene presa una decisione possono influenzare la
possibilità di reperire le informazioni necessarie alla definizione del problema e delle possibili
soluzioni. Schermerhorn, Hunt e Osborn distinguono tra situazioni di certezza, in cui si
conoscono bene i fatti e l’esito della decisione può essere previsto in modo accurato, di rischio,
in cui si ha una conoscenza parziale delle informazioni e si possono solo fare delle proiezioni
sul possibile esito della decisione, e di incertezza, in cui non si dispone di informazioni
sufficienti nemmeno per una proiezione probabilistica dell’esito della decisione.
CAP 13
LEGGERE E GESTIRE IL CONFLITTO NELLE ORGANIZZAZIONI
In questi anni siamo stati colpiti dal crescente livello di conflittualità presente nei contesti
organizzativi. Secondo Bourdieu oggi la paura più diffusa e prevalente è quella di essere
inadeguati, soli ed esclusi da relazioni e contesti. In questa situazione l’altro, con le sue differenze,
può rappresentare più facilmente una minaccia. Riconoscere e mantenere la propria identità
nell’ambito di situazioni professionali e organizzative, passa attraverso un dialogo impegnativo e
un reciproco riconoscimento. Il tema del conflitto assume dunque una rilevanza cruciale nei
contesti organizzativi e lavorativi, così come nei rapporti sociali. Gli aspetti di fatica e la prevalenza
delle manifestazioni distruttive sembrano peraltro assegnare alla dimensione della conflittualità
un’attribuzione di senso negativa (conflitto-guerra e potere-dominio). Proveremo pertanto a
configurare una nuova cultura del conflitto, in grado di riconoscere i propri limiti e il bisogno di
dipendenza dall’altro, apprendendo nuove modalità di legame sociale attraverso l’elaborazione
dell’aggressività e delle sue forme distruttive.
SPIGOLATURE MINIME SUL CONFLITTO
Gli spaccati proposti rappresentano situazioni ricorrenti all’interno delle quali si manifesta conflitto
tutto interno e soggettivo connesso alla ridefinizione dell’identità lavorativa dei soggetti quando si
aprono alla possibilità (necessità) di esporsi/accogliere responsabilità più ampie. Intuiamo, inoltre,
le possibilità di apertura e assunzione di crisi di crescita, quando arriva il momento di sperimentare
quella che con Erikson possiamo definire la capacità generativa, propria della maturità adulta, in
cui il conflitto diventa rinuncia alla difesa del proprio interesse particolare e la messa a
disposizione dell’esperienza, per la crescita di altri e di interessi collettivi. Registriamo, all’interno
degli spaccati proposti, anche le componenti di una irrazionalità che pervade e invade gli scenari
organizzativi, emotivamente disagevole, in cui il conflitto si connota di una distruttività che
penetra relazioni e comunicazioni consolidate. Il conflitto sembra esibire in queste manifestazioni
il lato oscuro delle organizzazioni. Ci si trova confrontati con fenomeni connotati da un’apparente
perversione, cui fa da contraltare il richiamo salvifico a razionalità burocratico-tecnicostrumentali,
che si presentano sotto sembianze di svalutazione e ridicolizzazione di quanto appare veicolo di
disordine e di innovazione possibile. La deriva di tali dimensioni risiede nella ricerca di
soddisfazione e difesa del proprio desiderio come prioritario rispetto a ogni altra cosa, sia
attraverso comportamenti dei singoli, sia tramite coalizioni di persone che adottano modalità
attrattive, sfruttando complici servili, e repulsive, stigmatizzando gli avversari. L’uso
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La molteplicità delle variabili e degli aspetti richiamati concepisce il conflitto come fenomeno
emergente che dà vita a ecologie relazionali possibili. Una prima espressione di tale collocazione
del conflitto riguarda la sua irriducibile declinazione intrapsichica e relazionale, in riferimento alla
prospettiva psicoanalitica. Tre immagini depositate nelle nostre sedimentazioni simbolico-culturali
possono essere evocate per richiamare emblematicamente i rimandi concettuali cui l’attenzione a
tale livello del conflitto rinvia. Iniziale è quella di Caino e Abele, metafora a un tempo
dell’identificazione libidico/distruttiva con gli oggetti e del conflitto pulsionale interno a una stessa
persona, così come di una semiotica e pragmatica delle comunicazioni affettive e delle relazioni
con gli altri, che connotano il rischio irriducibile della reciprocità. Emblematica anche l’immagine
biblica di Esaù e Giacobbe, gemelli che avevano lottato per contendersi la primogenitura,
urtandosi già nel grembo materno; Esaù baratta, nella celebre lite, il suo diritto alla primogenitura
per una minestra di lenticchie: calcolo, imbroglio, astuzia, sono parte delle transazioni relazionali.
Evocativa di implicazioni è la duplicità tra essere violento e quieto, che ricorda i mitemi della caccia
e della pastorizia quali configurazioni dell’esistenza umana. Il riconoscimento dell’alterità e della
propria finitezza come condizione di accesso ed espressione della soggettività passa anche
attraverso l’immagine di conflitto della storia biblica in cui Giacobbe, dopo essere rimasto ferito
nella lotta con l’angelo, viene da lui benedetto. La condizione per essere felici passa attraverso il
costo e il rischio della “lotta con l’altro” e l’ambiguità costitutiva del conflitto, in grado di aprire a
prospettive inedite di crescita e emancipazione. Ritroviamo qui una seconda specifica collocazione
del conflitto nei contesti organizzativi, in riferimento ai processi di progressiva “messa in ordine”,
rispetto ai quali i soggetti attivano contesti che consentono interpretazioni situate di quanto
accade, all’interno di un’intelaiatura istituzionale di significati e strutture di senso che
costituiscono una sorta di “organizzazione silenziosa”. La possibilità di stabilire una distanza
dall’immediato, di sospendere il flusso dell’esperienza e di sostare in modo riflessivo su quanto ci
accade richiede di sostenere un conflitto con quanto abitualmente diamo per scontato,
riconoscendo la strutturale parzialità e limite del nostro punto di vista. La terza e forse più
profonda collocazione del conflitto nelle dinamiche della vita organizzativa risiede proprio in
questa strutturale condizione di “animale poetico”, tipica dell’essere umano. La possibilità di usare
il linguaggio, di attivare momenti di riflessione, di realizzare produzioni di senso, sembra
CAP 16
LE EMOZIONI NELLA VITA ORGANIZZATIVA
Sin dagli anni 30 lo studio delle emozioni nei contesti di lavoro è stato sviluppato dalla psicologia.
LE PAROLE DELLA PSICOLOGIA: AFFETTO, EMOZIONE, SENTIMENTO E UMORE
La prima teoria sulle emozioni si deve allo psicologo William James, il quale sosteneva che i
cambiamenti fisici stimolano i sentimenti (se ridiamo siamo contenti). Non c’è accordo tra i
ricercatori in merito alla definizione di emozione. Si può ricostruirne il senso attraverso la
differenziazione rispetto alle altre “parole delle emozioni”:
Affetto (affect): utilizzato in letteratura come sinonimo di “sentimento” o di “emozione”, è un
termine generico, e include le emozioni;
Emozione: è uno stato affettivo intenso e di breve durata, associato a una causa esterna o
interna al soggetto. Le emozioni hanno un carattere dinamico, si caratterizzano per una fase
iniziale, cui seguono un’evoluzione e quindi un’attenuazione. Hanno una natura ambivalente e
sono spesso intrecciate tra loro (l’odio può mescolarsi all’amore). Sono accompagnate da
modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti caratteristici anche a seconda
della situazione sociale in cui ci troviamo;
Sentimento (feeling): è l’elemento più soggettivo di ciò che si prova, ossia è ciò che sentiamo in
maniera autentica e intima. Nell’ambito della prospettiva costruttivista i sentimenti (what we
feel) si distinguono dunque dalle emozioni, ovvero da ciò che traspare e rendiamo visibile dei
nostri sentimenti (si parla a tal proposito di displayed feature delle emozioni). La prospettiva
psicodinamica, invece, sembra non tener conto di questa distinzione. Generalmente in
letteratura emozione e sentimento sono spesso intercambiabili. Alcuni autori definiscono i
sentimenti come sensazioni personali che assumono il carattere di emozioni quando sono
messi in atto in situazioni sociali secondo regole e norme predeterminate. Secondo altri
ancora, le emozioni sono più intense e durature, i sentimenti meno intensi e durevoli;
Umore (mood): si tratta di uno stato affettivo con intensità minore ma durata maggiore
rispetto alle emozioni. Alcune persone sono di umore stabile, mentre altre sono umorali,
perché sperimentano un cambiamento repentino nei loro stati d’animo.