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Introduzione

INTRODUZIONE

Quando ci si accinge a parlare di diritto del lavoro e di mercato ad esso

relativo non si può fare a meno di pensare a quanto questo sia legato alle

contingenze storico economiche del tempo.

L’analisi delle politiche del lavoro, all’interno del più ampio dibattito

sulle politiche sociali cui è legato da connessioni indissolubili, sono un

insieme di corsi di azione volti a risolvere problemi e a raggiungere obiettivi

di natura «sociale»: problemi ed obiettivi che hanno a che fare, in senso lato,

col “benessere” (welfare) dei cittadini. Le politiche sociali sono quindi

dirette a definire quelle regole e gli standard per distribuire al meglio alcune

risorse e rendere possibili opportunità considerate particolarmente rilevanti

per le condizioni di vita e quindi meritevoli di essere in qualche modo

«garantite» dallo Stato. All’interno dello Stato moderno queste regole sono

incorporate nella nozione di cittadinanza sociale visto che, infatti, l’essere

cittadino implica il godimento dei diritti civili ma anche di specifici diritti

sociali che possono configurarsi come spettanze al fine di ottenere risorse

e/o fruire di opportunità che sorreggono le condizioni di vita. In tutte le

politiche pubbliche, e quindi anche nelle politiche sociali ed in particolare in

quelle di diritto del lavoro, vi sono una pluralità di attori pubblici e non

pubblici.

Il benessere non è la sola nozione che interessa il campo ma anche

«bisogno» e «rischio» vanno considerate quando si vuole mettere in studio

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un nesso causale tra politica pubblica e grado di ricchezza della popolazione

intesa come grado di soddisfacimento delle esigenze primarie. Bisogno e

rischio sono elementi concatenanti a definire quali norme utilizzare per

fornire quelle opportunità che nelle moderne democrazie sono il principale

cruccio degli Stati.

Ad entrambi si può far ricorso ricorrendo a risorse e opportunità connesse

alla sfera del «mercato», ed in particolare al mercato del lavoro da cui si

attingono i redditi, alla sfera della famiglia e a quella delle c.d. associazioni

intermedie come sono le associazioni di categoria.

Le condizioni di vita degli individui dipendono in larga misura proprio

dalle posizioni che si occupano nel campo del lavoro, all’interno delle reti

familiari e associative oltre che dalle modalità di funzionamento e

organizzazione di queste reti e dai loro reciproci rapporti. Proprio per

regolarizzare posizioni che nel tempo si erano andate sempre più delineando

come posizioni impari di forza e oggetto ponendo il cittadino non più come

fruitore di servizi e di diritti ma come mezzo del mercato, lo Stato ha sempre

più assunto posizioni rilevanti per garantire la tutela dei principali rischi e

bisogni. In questo contesto sono le relazioni formali e informali tra le quattro

punte del «diamante del welfare», Stato, famiglia, mercato e mondo

associativo, a determinare il benessere.

Proprio in virtù dell’acquisizione di un giusto livello di welfare, lo Stato

è intervenuto più volte per attuare quelle «politiche del lavoro» rivolte alla

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tutela dell’interesse collettivo all’occupazione. Compito di queste politiche

sono:

1. Regolamentazione del mercato del lavoro: per disciplinare i rapporti di

lavoro tra datore e lavoratori; per fornire le norme sulla sicurezza e sulla

salute sul posto di lavoro oltre che per evitare qualsiasi tipo di

discriminazione sociale, politica, religiosa, etnica o di genere; per la

regolazione delle modalità di incontro tra domanda ed offerta di lavoro

oltre che alle condizioni di accesso ed ingresso nel mondo lavorativo;

per definire un quadro istituzionale di controllo delle dinamiche

retributive, di concertazione delle politiche economiche e sociale e per

la definizione dell’assetto della contrattazione collettiva.

2. Promozione dell’occupazione attraverso misure che favoriscono la

capacità di inserimento professionale delle persone in cerca di

occupazione e per stimolare la domanda di lavoro.

3. Mantenimento e/o garanzia del reddito contro il rischio di

disoccupazione e di sospensione temporanea del lavoro.

Le politiche passive del lavoro in quest’ambito determinano una serie di

ammortizzatori sociali, presenti in tutti gli Stati democratici, come strumenti

di tutela del reddito dei disoccupati. Tali misure si basano su tre pilastri

fondamentali: uno assicurativo nel quale le prestazioni sotto forma di

indennità di disoccupazione, sono erogate per una durata definita, a fronte

del versamento di una determinata quota di contributi; uno assistenziale

dedicato che prevede l’elargizione di sussidi, sulla base di requisiti di

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reddito, nel caso di impossibilità di accesso al primo pilastro; uno

assistenziale «generale» dove le prestazioni forniscono, in base a stringenti

requisiti di reddito, un «reddito minimo garantito» a chi si trova in

condizioni di indigenza. Le misure sugli ammortizzatori sociali in Italia si

sono mostrati, purtroppo, carenti negli anni e nel nostro Stato, a differenza

della stragrande maggioranza degli Stati aderenti alla U.E., non ci sono delle

concrete misure a salvaguardia del reddito e per alimentare il mercato del

lavoro. A tal proposito serva analizzare le continue polemiche su un

eventuale “reddito di cittadinanza” per il quale si continua a ribadire la

mancanza di fondi strutturali che possano garantire la sua applicazione

quando invece nel resto d’Europa tale misura è ampiamente applicata da

anni per garantire alle famiglie, importanti cardini del mercato interno, un

reddito minimo di sopravvivenza sociale.

Dal punto di vista storico questi edifici di indirizzo sono nati in periodi

diversi. Mentre le indennità assicurative sono state prese a cura tra i primi

dieci anni del ‘900 e gli anni ’50 con una prima fase di finanziamento

pubblico a fondi sindacali volontari, dopo le crisi degli anni ’30 e del

secondo dopoguerra molti Paesi furono spinti a creare delle forme di tutela

più dedicate per fornire assistenza ai disoccupati privi della tradizionale

tutela previdenziale e solo nell’ultimo trentennio si è dato mano, anche sotto

la spinta di normative di ordine continentale, ad organizzare forme di

ammortizzatori sociali di tipo generale.

IV
Introduzione

La crisi del settore bancario e l’uso indiscriminato del finanziamento

facile ha portato a una profonda crisi dei mercati alimentata anche dalla

globalizzazione e dalla accresciuta concorrenza sui mercati dalla presenza

di operatori di paesi in via di sviluppo e soprattutto asiatici, capaci di

assicurare prezzi più bassi dovuti ad una manodopera a più basso costo.

Sebbene la Costituzione italiana fonda sul lavoro e sulla tutela dei lavoratori

molto del suo impianto, gli operatori hanno saputo spostare sul mercato del

lavoro e sul costo di esercizio della manodopera molte delle cause della crisi

e così anche il legislatore si è adeguato ad ammettere forme lavorative non

espressamente contemplate dal disegno costituzionale e che, per la loro

natura precaria, hanno creato non pochi problemi sociali ai cittadini e ai

lavoratori.

Nel nostro Paese, il dibattito sulla flessibilità del lavoro, o come sarebbe

meglio dire col neologismo coniato apposta da quando sul mercato è

intervenuto la nuova organizzazione targata Europa (U.E.) flexicurity,

termine che racchiude in se qualcosa che in Italia è stato disatteso in quanto

fa accompagnare alla flessibilità un grado di sicurezza da sempre mancato

nel nostro Paese a causa dell’inefficace politica sugli ammortizzatori sociali,

e sull’evoluzione del mercato del lavoro, ha fatto sì che nascessero negli

ultimi anni nuove tipologie contrattuali formalmente dotate di una serie di

etichette come «precario», «atipico», «flessibile», non di rado utilizzate in

maniera disinvolta perfettamente sostituibile, non solo dai mezzi di

comunicazione di massa ma anche nel dibattito politico. Questa tipologia di

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Introduzione

lavori sono progenitori di tutta una serie di tentativi normativi di

normalizzazione del mercato del lavoro che hanno portato all’argomento di

questa tesi “Il contratto di lavoro a tutele crescenti” normativamente

rappresentato dalla riforma sul mercato del lavoro lanciata con il Jobs Act1

di cui parleremo più approfonditamente in seguito nel corso del lavoro.

Va innanzitutto precisato quali siano i termini per differenziare precario

da flessibile troppe volte usati come termini sinonimi. La distinzione tra

lavoro flessibile e lavoro precario è qualcosa che ha a che fare con la

differenza che corre tra un obiettivo e un risultato, con le distanze che

separano uno schema teorico dalla sua implementazione pratica, dunque, in

ultima analisi, con una lunga serie di valutazioni estremamente complesse

che, oltre a coinvolgere diversi aspetti, contengono ampi margini di

soggettività: basti pensare al significato che il lavoro ha per ciascuno di noi,

non solo a livello pratico, ma anche in relazione al contesto sociale nel quale

viviamo; si aggiunga la complessità, formale e relazionale, che un rapporto

1
Il nome deriva dall’acronimo di “Jumpstart Our Business Startups Act” : una legge
statunitense promulgata nel 2012 sotto la Presidenza di Barack Obama a favore delle
medie imprese per aiutarle nel momento di crisi. Il provvedimento in Italia ha assunto una
forma diversa in quanto sembra quasi il biglietto da visita che l’attuale Premier Renzi ha
voluto portare in eredità quando durante la Presidenza del Consiglio di Letta si era speso
come avere la soluzione per l’annosa questione della regolamentazione del Lavoro anche
e soprattutto in forza della crisi che si sarebbe aperta a breve con il riconoscimento di
anticostituzionalità della Legge Fornero così invisa alla popolazione. In realtà non esiste
una legge o una norma che rechi questo nome ma essa rappresenta un insieme di decreti
legislativi varati tra il 2014 e il 2015. Il Jobs Act prevede un contratto unico a tutele
crescenti ma non solo. Una serie di semplificazioni normative sulle regole esistenti e di
riforme delle rappresentazioni sindacali dovrebbero, in pratica, consentire una più facile
applicazione del decreto che ha ricevuto molte critiche proprio da queste ultime per
l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Quindi vale la pena precisare che “Il
contratto di lavoro a tutele crescenti” è solo una parte del complesso di riforme che
l’attuale Governo sta attuando in realizzazione del disegno europeo di flexecurity e con il
plauso della BCE e degli investitori di mercato.

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Introduzione

di lavoro implica e si moltiplichi il tutto per l’enorme intreccio di condizioni,

aspirazioni e difficoltà individuali che formano il tessuto sociale di una

nazione. Per queste ragioni, distinguere il vero dal falso ovvero il flessibile

dal precario, è impossibile e, in una certa proporzione, perfino inutile, come

in qualunque altra scienza sociale che non voglia rinunciare a definirsi tale.

Ciononostante, l’evidenza empirica di alcuni fenomeni rappresenta il terreno

– più o meno scivoloso, a seconda dei casi – su cui è bene confrontarsi,

sebbene non sia l’unico su cui abbia senso farlo.

Motivo dell’analisi profonda sulla precarietà e la flessibilità del lavoro in

certi ambiti è punto di partenza necessario per comprendere in che contesto

si è andato sviluppando il presupposto finale per il contratto di lavoro a tutele

crescenti e proprio per questa ragione in questo lavoro di tesi, dopo aver

analizzato le fonti della contrattazione lavorativa nel primo capitolo si

passerà nel secondo all’analisi di alcuni dei provvedimenti normativi in

materia del diritto del lavoro nel periodo di crisi per finire nel terzo capitolo

ad analizzare punto per punto il contratto di lavoro a tutele crescenti

presentando anche l’impatto che ha su elementi della società civile

attraverso commentari e scritti trovati sull’argomento.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

CAPITOLO PRIMO
IL DIRITTO DEL LAVORO DALLE ORIGINI ALLO STATUTO DEI LAVORATORI

SOMMARIO:
1.1.Cenni introduttivi - 1.2. Le origini del Diritto del Lavoro: la tutela del lavoratore.
- 1.3. Il Corporativismo Fascista - 1.4. La questione dell’art. 39 della Costituzione
Repubblicana. - 1.5. Dalla Costituzione alla Legge 20 maggio 1970 n. 300

1.1. Cenni introduttivi

Il diritto del lavoro è strumento con cui il legislatore, e con esso la politica

sempre più spesso ormai extraparlamentare, risponde e governa le

sollecitazioni provenienti dal mondo dell’economia e della società visto il

suo connaturale muoversi all’interno dei mercati sempre più soggetto e non

oggetto delle decisioni.

Da qui la necessità – spesso invero pretermessa dal legislatore italiano

degli ultimi anni vista la rispondenza più ad esigenze esterne allo Stato e più

determinato da contingenze sul mercato internazionale – di creare la

legislazione lavoristica muovendo da una ricostruzione e da una valutazione

prognostica del dato reale il più accurata e non ideologica possibile, per

dettare una normativa – questa sì ideologicamente orientata – che incanali le

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

sollecitazioni dell’economia e della società secondo percorsi conformi al

sentire politico del legislatore stesso.

In tale contesto il ruolo della ricerca giuslavorista consiste nel

sistematizzare l’operato del legislatore, anche alla luce delle interpretazioni

giurisprudenziali, così da risolvere le eventuali antinomie ed evidenziare i

profili di criticità di una disciplina che si caratterizza per la stretta interazione

con il dato economico e sociologico.

Simili osservazioni, in realtà, potrebbero agevolmente condividersi con

numerose altre branche del diritto ma quel che rende speciale il diritto del

lavoro è il coinvolgimento diretto e totale delle persone che dal lavoro

traggono non solo sostentamento ma trovano realizzazione sociologica, in

quanto il lavoro è strumento di esplicazione della personalità dei singoli,

come già evidenziato dal nostro Costituente che ha scelto di fondare la

Repubblica proprio sul lavoro, individuando in questo l’elemento in cui le

persone esplicano la loro parte migliore, l’essenza di se stesse.

Non si può ignorare come l’approccio legislativo sia così mutato negli

anni da rendere sempre opportuno affiancare all’attenzione per il dato

economico e sociologico una anche per il dato storico in modo da avere ben

presente come si sia caratterizzato come risultato di evoluzioni nel tempo

della normativa.

Il punto da cui muovere per un veloce excursus in materia di ricerca e di

diritto del lavoro è necessariamente una indagine della ratio, dello scopo

profondo dello stesso diritto del lavoro concepito oggi come un diritto che

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

predispone una inderogabile disciplina di tutela in favore del lavoratore che

deroga dai principi civilistici.

Si deve precisare comunque che nel nostro ordinamento solo il giudice

ha le attribuzioni necessarie per stabilire se un contratto di lavoro è della

species cui sono riservate le necessarie tutele e quindi se va configurato

come lavoro subordinato o meno. Non vi è infatti vincolo, per il giudice, al

rispetto della qualificazione fatta dalle parti in sede di stipula. In merito il d.

lgs. 267/2003 ha previsto che le parti possano rivolgersi a commissione

organizzata ad hoc per certificare il patto di stipula ma resta comunque nelle

attribuzioni del giudice il necessario giudizio per la determinazione di liceità

rispetto alla denominazione data dalle parti.1

Chiaramente la tutela non compete a tutti i lavoratori ma solo a quelli

subordinati e che risulta tanto più intensa ed articolata quanto maggiore è

l’aderenza al modello standard oggi inteso come il lavoro subordinato a

tempo pieno e indeterminato. Proprio in deroga di questo modo di intendere

il modello standard per le tutele, il Governo ha chiesto delega per formulare

un decreto legge che trasformasse le forme lavorative atipiche e di precariato

perenne in forme più a passo coi tempi e sempre in nome di quella flexicurity

che in altri Paesi europei funziona bene per dare impulso all’occupazione.

Senza entrare nel merito e senza, per ora, precisarne i motivi, si può, secondo

i vari commenti seguiti da più parti ai pacchetti di Legge formulati (Legge

1
Atti del convegno “Verso fondata sul lavoro. Lavoro e ricerca: nuovi studi per un lavoro
che cambia”, 21 giugno 2012, Comune di Milano, Viale D’Annunzio 15

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Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Poletti e i vari decreti legislativi seguiti tra i quali gli ultimi 150 e 151 del 14

settembre 2015 di riforma del lavoro) sembra che questi provvedimenti

prima ed invece di dare impulso all’occupazione e risolvere gli effettivi

problemi di accesso all’occupazione, creano presupposti di un precariato

istituzionalizzato per i lavoratori fornendo solo ai datori di lavoro un

concreto mezzo per accedere, senza il contrasto dell’art. 18 dello Statuto dei

Lavoratori, a forme di lavoro che favoriscono la produzione limitando il

costo del lavoro che è stato ritenuto responsabile principale della crisi al

posto dei cattivi investimenti bancari.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

1.2. Le origini del Diritto del Lavoro: la tutela del lavoratore.

Sebbene non possa identificarsi direttamente la nascita dell’interesse d

ello Stato con la prima industrializzazione a cavallo del ‘500 e del ‘600,

è certo che le prime mosse verso il riconoscimento del walfare state si

riconoscono nella Poor Law inglese come risposta ai problemi sociali portati

dalla rivoluzione tecnologica. Lo Stato si sostituisce alla beneficenza della

Chiesa nell’assistere la massa dei poveri creata dallo spopolamento delle

campagne e dallo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche e quindi il walfare

state nasce proprio da quelle contraddizioni dell’economia capitalistica,

dalla distruzione della civiltà contadina e della solidarietà familiare e di

villaggio in concomitanza con la nascita del proletariato,

dell’urbanizzazione e dell’emigrazione.

Queste trasformazioni socio-economiche-politiche fanno emergere

nuove forme di povertà e il susseguirsi di periodiche recessioni economiche,

con conseguente aumento della disoccupazione, la necessità di provvedere

alle esigenze di vedove, orfani e di tutti quelli che per vari motivi mancano

delle risorse necessarie per vivere, fa nascere l’esigenza di un intervento

diretto dello Stato. Gli Stati interessati a questo cambiamento radicale nel

modo di intendere la Società furono quelli che potevano contare sui sovrani

“illuminati” e, con l’affermazione dei principi civili riconosciuti dalla

costituzione del 1791 e dal riconoscimento dei diritti del cittadino,

divengono queste trasformazioni il corso naturale dell’evolversi della

Società. L’acuirsi del conflitto sociale tra proletariato e borghesia della fine

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

dell’Ottocento fa il resto. Questo vale per l’Europa e per tutti quegli Stati

che potevano contare su una unità nazionale e un riconoscimento di

cittadinanza per coloro che abitavano geograficamente nelle aree di

competenza di questi Stati ma non poteva valere per l’Italia che era ancora

allo stato embrionale ed era divisa in piccoli Stati governati da sovrani

tutt’altro che illuminati. In questo risiede anche il naturale ritardo dello Stato

italiano anche nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori.

In Italia, quindi, il diritto del lavoro ha avuto una nascita tardiva rispetto

a tutti gli altri Paesi e fino alla Costituzione Repubblicana, in realtà in molte

parti incentrata proprio sul lavoro, si potevano trovare solo piccoli accenni

all’interno del Codice Civile del Regno.

Genericamente, questo diritto consta di una varia regolamentazione, di

diversa provenienza, che ha per fine quello di apprestare tutela, su diversi

piani, alla parte più debole del rapporto di lavoro, che nel contratto classico

è costituita dal lavoratore nei confronti del datore, o ad altri soggetti ritenuti

meritevoli di protezione.

Per tradizione questo diritto si distingue in diritto sindacale, diritto del

lavoro in senso stretto, diritto previdenziale.

I1 diritto sindacale attiene alla posizione dei sindacati nell’ordinamento,

alla contrattazione collettiva, allo sciopero e alla serrata. Il diritto del lavoro

in senso stretto attiene alla regolamentazione della relazione giuridica tra le

parti del rapporto di lavoro (datore di lavoro e lavoratore). I1 diritto

previdenziale riguarda la tutela dei soggetti protetti avverso eventi

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

variamente lesivi della capacità di lavoro (infortuni, invalidità, vecchiaia,

disoccupazione etc.), tutela prevalentemente gestita a mezzo di assicurazioni

sociali obbligatorie.

Le prime concretizzazioni del diritto del lavoro si ebbero, come detto, nel

contesto della situazione sociale di massa determinata dalla rivoluzione

industriale, Rivoluzione che avvenne in Gran Bretagna già verso la metà del

‘700 e che poi interessò, con notevoli scarti di tempo, gli altri paesi europei,

venendo l’Italia buon’ultima, solo nello scorcio dell’800 e nel primo

decennio del secolo scorso.

La crescente automazione mortificò gli altri mestieri per far concentrare

la maggior parte del mercato del lavoro all’interno degli opifici o nelle

fabbriche dove da un lato si affermò l’iniziativa capitalistica, dall’altro si

creo una classe nuova di soggetti, il proletariato, che aveva come unica

opportunità di partecipazione al bene della vita il proprio lavoro alle

dipendenze dell’impresa ricevendo come compenso un salario.

Lo schema giuridico in cui questa relazione contrattuale si andava

formando era il libero contratto di lavoro secondo la logica di mercato di

bilancio tra domanda e offerta. La mancanza di qualsiasi norma che

regolasse, però, questo tipo di rapporto si tradusse quasi sempre in una sorta

di ricatto datoriale in cui il lavoratore era costretto ad accettare condizioni di

impiego e orario lavorativo oltre al corrispettivo stabilito dalla controparte

in uno schema consolidato di dittatura contrattuale datoriale.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

In particolare il macchinismo rese largamente possibile l’utilizzazione nei

lavori delle c.d. mezze forze, cioè di donne e bambini anche in tenera età. In

generale gli orari di lavoro erano esorbitanti, al limite, spesso, della

sopravvivenza fisica. Né vi era tutela di sorta per provvedere alle condizioni

di bisogno del lavoratore infortunato o anziano. Non esisteva, cioè, niente

del moderno diritto del lavoro. In un quadro siffatto la questione operaia

divenne anche una questione sociale e cominciarono ad affermarsi pensatori

che riguardavano il tema, primo fra tutti Marx.

La prima spontanea risposta dei lavoratori alla situazione descritta, è stata

quella sindacale. I lavoratori che di norma isolati non riuscivano ad ottenere

risultati da parte dei datori, nella coalizzazione, presentandosi come un

fascio unitario avevano più forza per imporre condizioni più eque nel lavoro

ma spesso, fintanto che queste associazioni, che diventarono man mano di

categoria, non furono istituzionalizzate e fintanto non esistevano norme che

garantivano tutele quali le libertà di associazione, incontravano forte

opposizione da parte degli investitori capitalisti che potevano contare

sull’appoggio dello Stato cui garantivano sviluppo ed entrate superiori. Lo

Stato, assente in pratica nell’assicurare le tutele ai lavoratori, diventava parte

attiva per mortificarle con interventi atti a fermare le dimostrazioni anche

con l’uso della forza. L’obiettivo dei lavoratori era raggiungere un contratto

collettivo che garantisse equità nei trattamenti. L’idea di solidarietà sociale

era comunque non diffusa e gli episodi di lotta, di norma, erano occasionali

ed insorgevano spesso rispetto ad un determinato specifico conflitto e presto

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

si dissolveva l’unità temporaneamente raggiunta anche a fronte di alcun

risultato raggiunto.

La nascita dei sindacati come organizzazioni stabili preordinate alla

tutela dell’interesse collettivo dei componenti di categoria, visto che i primi

modelli sindacali furono proprio quelli del sindacalismo di mestiere, portò

dei giovamenti nelle condizioni ma la stessa settorialità delle organizzazioni

non consentiva di avere contratti collettivi dello stesso tipo persino in una

stessa impresa ( basta considerare che, per esempio, nei cantieri navali, che

furono il settore siderurgico a maggiore impatto proprio alla fine dell’800,

lavoravano fabbri, falegnami, progettisti, copiatori e impiegati di genere).

Le mutate condizioni nel mercato imposero quindi una associazione tra

le categorie per formarsi come associazioni sindacali di industria in cui il

sindacato organizzava tutti i lavoratori di una determinata impresa qualsiasi

fosse la loro specifica posizione di lavoro.

La questione operaia è stata al centro del pensiero politico-sociale e ha

suscitato correnti e partiti politici di varia ideologia. Si è posto così il

problema, ognora presente con varia intensità, dei rapporti tra sindacalismo

e politica visto il carattere indissolubile tra lavoro stesso e politica.

In posizione decisiva, per la sua grande diffusione, fu il socialismo nella

varietà delle sue scuole, spesso molto divergenti e poi confluenti nella

predominante prospettazione marxista2. Tralasciando l’ideologia alla base

2
PERA,G. Diritto del Lavoro ED. GIUFFRÈ

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

del movimento, i socialisti comunque cercarono soluzioni per migliorare le

condizioni dei lavoratori all’interno del sistema aggiungendo alla lotta

politica di «classe» quella dei «mestieri» e sindacale. Impegnati di più in

questa lotta furono i socialisti dell’ala riformista, portatori di una

interpretazione gradualista del marxismo e per questo dominavano in tutte

le organizzazioni economiche e sindacali.

I cattolici si fecero banditori, sulla base dei principi elaborati nei

documenti pontifici (specialmente l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII

nel 1891), dei postulati della scuola cristiano-sociale, per superare gli

opposti mali del liberalismo conservatore e del socialismo. Si riconosceva,

infatti, la proprietà privata come diritto naturale dell’uomo, attribuendo però

alla medesima una funzione sociale, non egoisticamente intesa. Nell’ambito

di una concezione solidaristica basata sulla collaborazione delle classi nel

perseguimento del bene comune superiore, si riconosceva il sindacato come

raggruppamento sociale naturale; si auspicavano le intese tra capitale e

lavoro ed eventualmente la risoluzione dei conflitti da parte di una speciale

magistratura del lavoro (corporativismo) e anche i cattolici si diedero alla

fondazione di sindacati (bianchi) che affiancavano quelli socialisti (rossi).

Non mancarono le esternazioni politiche liberali che miravano alla

attenuazione della lotta di classe attraverso la partecipazione dei lavoratori

alla gestione di impresa. Nel primo decennio dopo l’unità, nel primo

associazionismo operaio, in Italia fu prevalente il pensiero mazziniano con

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

un’impostazione solidaristica e cooperativistica (capitale e lavoro nelle

stesse mani).

In tutti i Paesi la prima fase del sindacalismo doveva scontrarsi con la

forma liberale dello Stato in cui si riteneva che fosse compito di questi solo

l’ordine pubblico e la difesa nazionale (concezione dello Stato minimo) e

quindi i contrasti derivanti dalla lotta sociale erano visti come motivi di

ordine pubblico e quindi era naturale sopprimere le rivolte con la forza e

pensare gli stessi sindacati come illegali. Questo era il risultato del suffragio

limitato da censo e cultura che vedeva partecipare alla vita politica solo una

parte della popolazione e di certo non quella operaia.

In diversi Paesi e con diverse modalità al di fuori di un organico disegno

riformatore, lo Stato cominciò ad emanare singole leggi volte, timidamente

o no, a risolvere singole piaghe della situazione sociale. In tutti i paesi,

significativamente, il primo intervento fu a favore di donne e bambini per

limitare l’orario di lavoro e l’uso per lavori pesanti.

Lo sviluppo lento e parziale della legislazione sociale avvenne attraverso

provvedimenti sotto forma di interventi per l’ordine pubblico e che, quindi,

sconfinavano nel diritto penale. Le norme furono dettate da vari testi unici

scorporandosi dal diritto privato, largamente dispositivo rispetto

all’autonomia privata contrattuale, specialmente all’epoca.

Maturava così una qualità specifica che fondamentalmente distingue

ancor oggi il diritto del lavoro, appunto in ragione delle finalità di tutela

perseguite.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Quando si somatizzò la presenza indissolubile delle associazioni

sindacali nelle contrattazioni lavorative e quando anche l’opinione pubblica

cominciò a pensare che la loro presenza poteva essere un buon viatico per

raggiungere eque condizioni di lavoro e quando maturo anche l’idea che i

lavoratori avevano un diritto naturale a co-determinare le condizioni di

lavoro, cominciò la lunga fase della tolleranza e anche lo sciopero fu

depenalizzato. Restava comunque aperta la questione riguardante gli effetti

che esso produceva. Giuristi ritenevano da un lato che lo sciopero, pur non

essendo perseguibile, costituiva a tutti gli effetti un inadempimento

dell’obbligazione contenuta nel contratto di lavoro e quindi sanzionabile,

dall’altro le posizioni più rigide ritenevano essere motivo di estinzione del

contratto, lo sciopero, in quanto manifestazione collettiva di volontà

risolutoria.

Formalmente, in Italia, la svolta nel senso della tolleranza verso il

sindacalismo avvenne nel 1889 col nuovo codice penale ZANARDELLI nel

quale scomparvero sciopero e serrata tra i reati penali anche se permanevano

se accompagnati da fatti di violenza e minaccia in occasioni di lotte sociali.

Concretamente questo però non ebbe risultanze in quanto a seguito dei moti

in Sicilia del 1892 e della Lunigiana del 1894 e di Milano nel 1898 lo Stato,

rappresentato dalla destra conservatrice, decise di intervenire con la

repressione poliziesca e militare e dichiarare lo scioglimento del partito

socialista e delle organizzazioni operaie ritenute entità sovversive e quindi

si dovette aspettare solo il volgere del secolo perché una coalizione di

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

riformisti liberali e dell’«estremar» (radicali, repubblicani e socialisti)

riuscisse a imporre una netta svolta in senso più illuminato accompagnato

nel primo decennio del ‘900 da un decisivo balzo industriale.

Furono Giolitti e Zanardelli i protagonisti della politica che segnò la

svolta e sul piano sociale, con la teorizzazione ideologica fondata sul

tradeunionismo britannico di Luigi Einaudi, si proclamò il principio della

neutralità dello Stato nei conflitti di lavoro fermo a tutela dell’ordine

pubblico. Si svilupparono così partiti e sindacati e si ebbero nuovi interventi

di legislazione sociale tra cui l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni

(1898) e timidi interventi sul piano della previdenza.

Una prima regolamentazione dei rapporti di lavoro ebbe corso attraverso

la giurisprudenza creativa dei “probiviri”3. Erano questi, sul modello

francese del 1806, collegi giurisdizionali elettivi, categoria per categoria e

per le diverse località, con una presidenza imparziale. I collegi dovevano

risolvere le controversie del lavoro4 in un’epoca in cui il diritto sostanziale

del lavoro legislativamente non esisteva e quindi decidere secondo equità5.

3
In Italia i Probiviri per la conciliazione delle controversie sorte tra imprenditori, operai ed
apprendisti nell’esercizio delle industrie furono istituiti con la Legge n. 295 del 15
giugno 1893.
4
Anche in quella società ai primordi del lavoro industriale in Italia era prevista una forma
di lavoro atipico che è l’obiettivo principale dello studio di questa Tesi. La modifica
profonda del sistema economico e sociale esistente, fino a quel momento fondato
prettamente su attività agricole e di allevamento di una società prettamente rurale
comportò una attenzione diversa verso la società operaia che si andava formando e si
sviluppò, così, la consuetudine di consentire al datore di lavoro, dotato di potere sovrano
sui propri dipendenti, di introdurre nel contratto di lavoro sottoscritto con gli operai di
volta in volta assunti, un periodo di prova colto a saggiarne le capacità e le energie
lavorative.
5
Pera G. op. cit.

- 13 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

L’esigenza di ricorrere ai Probiviri era dovuto soprattutto al fatto che

all’epoca il lavoro subordinato era regolamentato solo sulla base del nostro

codice civile del 1865 e quindi rientrava nello schema della locatio

operarum che individuava l’oggetto della prestazione subordinata nelle

stesse energie lavorative, fisiche o intellettuali, del prestatore. A tal

proposito si rammenti che, in vizio di tutela del lavoratore e in un periodo in

cui l’unico interesse da tutelare era quello dell’imprenditore nei confronti di

un lavoratore mediamente analfabeta o comunque con basso livello di

scolarizzazione, era vigente nel panorama degli istituti lavorativi, l’uso del

periodo di prova come fase temporale del rapporto di lavoro,

tendenzialmente sine die, legato al contratto di locazione6.

Il codice civile del 1865, in pratica, costruiva il contratto di lavoro come

species del contratto di locazione disponendo che “il contratto di locazione

ha per oggetto cose e opere” (art. 1568 cod. civ. 1865) e tenendo fede

all’ambiente liberale del tardo ottocento in cui il diritto del lavoro era

concepito come parte del diritto civile così recante di una disciplina che

seguiva le norme delle altre tipologie di contratto permeate dalla necessaria

parità delle parti contraenti7.

6
L’art. 1570 del codice civile del 1865 definiva la locazione delle opere come contratto per
cui una delle parti si obbligava a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede.
7
Tale disposizione era poi ulteriormente precisata dall’art. 1627, il quale specificava come
“vi sono tre principali specie di locazione di opere e d’industria: 1- quella per cui le
persone obbligano la propria opera all’altrui servizio; 2- quella de’ vetturini sì per
terra come per acqua, che s’incaricano del trasporto delle persone o delle cose; 3-
quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo”.

- 14 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

In un tale contesto l’unica forma di tutela stabilita per il locatore era

scritta nell’art. 1628 e dal divieto ad una tipologia di lavoro che oggi

identificheremo con il lavoro subordinato a tempo indeterminato.8

La ratio della norma era contestuale al periodo storico in cui viene scritta

quando era ancora ben vivo il ricordo della servitù inconciliabile con il

contesto politico ed economico liberale che a propria volta impediva al

legislatore di dettare delle norme di chiara tutela in quanto lavoratore e

datore di lavoro venivano interpretati come liberi contraenti con posizione

formalmente paritaria e quindi impossibile da assoggettare a forme di

limitazione di tipo legislativo-statale.

La situazione subisce un primo mutamento tra la fine dell’800 ed i primi

anni del ‘900 quando il legislatore cominciò a superare l’astensionismo

totale di stampo liberale per dettare una prima disciplina di tutela che

sebbene fosse formalmente legata all’ordine pubblico sostanzialmente era

derogatoria rispetto al diritto comune dei contratti: la legislazione sociale

che andava a normalizzare una situazione che si era andata creando nel

primo periodo della rivoluzione industriale in cui donne e bambini venivano

utilizzati nel mercato del lavoro senza le necessarie tutele.

I destinatari di questa disciplina non sono tutti i lavoratori in genere ma

le due categorie che più di tutti necessitavano di tutela e cioè nell’ordine: i

fanciulli (1886) e le donne (1892). Questi interventi si accompagnavano alle

8
La lettera della legge era infatti chiarissima nel sancire che “nessuno può obbligare la
propria opera all’altrui servizio che a tempo, o per una determinata impresa” (art. 1628
cod. civ. 1865).

- 15 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

prime disposizioni volte a ripartire il costo economico di infortuni e malattie

professionali anche sui datori di lavoro.

Il lento allontanamento del lavoro dal diritto comune delle obbligazioni

era però già iniziato e si consoliderà, poi, nel corso del secondo decennio del

1900 in un ambiente caratterizzato dal nascente regime corporativo di

matrice fascista.

Attraverso questa giurisprudenza che man mano si consolidava si

cominciarono a porre le basi di un nuovo diritto tanto che a partire dal 1904

le sue pronunce cominciarono ad essere studiate sistematicamente da

Redenti per incarico della prima sede istituzionale deputata, il Consiglio

superiore del lavoro, anche con la partecipazione di rappresentanti delle

parti sociali, allo studio e alla promozione della causa del lavoro.

In verità qualcosa si era già sviluppato nell’ultimo decennio

dell’Ottocento quando da più parti in Italia si manifestava l’esigenza di una

disciplina legale autonoma del rapporto di impiego separato dal lavoro

operaio come già in Germania accadeva per le leggi sul lavoro industriale

nelle quali si era riservata una sezione speciale agli impiegati e agli agenti

tecnici9.

La prima proposta in tal senso fu formulata già nel 1893 da una

Commissione costituita presso la Camera di Commercio di Milano, che

9
Indicazioni si possono trovare in I.MODICA, “Il contratto di lavoro nella scienza del diritto
civile e nella legislazione. Studio storico-critico-comparato”, Reber, Palermo 1897, p.
169 ss. È una delle prime monografie della materia con ampiezza nella trattazione e con
approccio storico-sociale corroborato da riferimenti enciclopedici cui non fa riscontro
un’attenta e rigorosa trattazione giuridica.

- 16 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

predisponeva regole per la «risoluzione» del rapporto degli agenti ausiliari

del commercio cui venivano affidate mansioni comportanti un basso livello

di responsabilità ed autonomia e a cui si volevano apprestare maggiori

garanzie contro il licenziamento del padrone tentando di estendere loro la

disciplina dell’art. 366 c. comm. secondo la quale il licenziamento senza

giusta causa da luogo al «risarcimento del danno»10.

Parallelamente, anche per gli impiegati amministrativi delle società

anonime, che si erano sviluppate in quegli anni nel settore dei servizi,

diventava prassi il preavviso in caso di licenziamento quando il rapporto

fosse a tempo indeterminato o avvenisse senza giusta causa prima della

scadenza del termine.11

In realtà, grazie all’alacre lavoro della giurisprudenza probivirale, fino a

questo punto non c’erano grosse differenze tra tale disciplina e quella che si

applicava alla «classe operaia», ma nel giro di un decennio la disciplina del

rapporto di impiego assumerà contorni sempre più definiti, distaccandosi

dalle poche regole dettate per gli operai e abbracciando l’ipotesi di

sospensione del rapporto per impedimento del lavoratore (malattia,

gravidanza, servizio militare) e di traslazione del rischio al datore di lavoro.

Questo ad opera di «fonti mediate del regolamento del rapporto», che si

10
ALESSANDRO GARILLI, “«Il contratto di lavoro» e il rapporto di impiego privato nella
teoria di L. Barassi”, in “La Nascita del diritto del Lavoro - «il contratto di lavoro» di
Lodovico Barassi cent’anni dopo” a cura di Mario Napoli, V&P Università.
11
BARASSI, “Il contratto di lavoro”, II, p.830 ss.

- 17 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

collocano fra la legge e il contratto individuale e che, ricondotte all’uso e

all’equità, obbligano le parti ai sensi dell’art. 1124 c.c.

Ai primi del Novecento quindi ci si ritrova con due categorie lavorative

che in termini contrattuali risultano separate e questa separazione troverà

compiuta attuazione e piena generalizzazione nelle leggi sul contratto di

impiego privato del 191912 e del 1924.

Ancora agli albori del Novecento se anche si propugnava l’unitarietà, da

un lato all’altro si tendeva a distinguere anche il lavoro impiegatizio tra

quello privato e quello pubblico, tant’è che la commissione a lavoro per il

D.M. del 29 Luglio 1901 propose di estendere il provvedimento ai soli

impiegati commerciali, che forti in numero e aderenze potevano forzare il

lavoro della commissione, e includendo in apposito capo una disciplina più

favorevole del preavviso lungo una scala decrescente che comprendeva

come ultimi i semplici impiegati di grado inferiore a quello di commesso.

Dalla Legge venivano esclusi gli impiegati dello Stato, dei Comuni e

delle Province visto la natura del loro rapporto di Lavoro misto tra il Diritto

Privato e quello Pubblico ed emanazione non solo di un vincolo contrattuale

ma di un atto di autorità. L’atteggiamento della proposta di Legge non venne

accolta benevolmente dalla dottrina che in quel periodo andava sostenendo

l’unitarietà tra impiego pubblico e privato.

12
Decreto Luogoten. n. 112 del 9 Febbraio 1919 abrogato poi dalla Legge 1825 del 13
Novembre 1924.

- 18 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

La legislazione sull’orario di lavoro del 1923 (r.d.l 15 marzo 1923, n.

692) e il r.d.l. n. 1865 del 1924 di disciplina del “contratto d’impiego

privato” di fatto confermano l’abbandono della logica del contratto di lavoro

come mera locazione e sanciscono l’introduzione di una prima disciplina di

tutela caratterizzata dall’inderogabilità in peius, secondo una logica poi

condivisa anche dalla Carta del Lavoro degli anni 1926 e 1927.

Il principio formale della parità tra i contraenti (e della loro piena libertà

di trovare il punto di compromesso dei rispettivi interessi coinvolti) che

aveva caratterizzato il regime liberale venne così rimesso in discussione per

tenere conto della disparità sostanziale tra le parti nel contratto di lavoro sia

nel mercato che nell’impresa.

Nel regime corporativo allora vigente, questa peculiarità non venne fatta

discendere da una particolare natura del contratto di lavoro ma

dall’inserimento del lavoratore in virtù di una lettura da parte del legislatore

e della dottrina italiana che erano fortemente influenzati dalle teorie

germaniche che individuavano proprio nell’introduzione della altrui

organizzazione l’elemento differenziale del contratto di lavoro. Nelle teorie

istituzionaliste, infatti, tramite l’inserimento il lavoratore entra a far parte

della realtà diversa dell’impresa che deve ritenersi dotata di propri interessi

autonomi rispetto alle due parti del contratto di lavoro.

Ciò che capita è che, mentre in Germania tale interpretazione porterà nei

decenni al consolidamento di una legislazione e di una prassi di cogestione,

in Italia questa lettura verrà fagocitata dal Regime fascista che assoggetta la

- 19 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

lettura alla propria visione corporativa dell’economia in cui il superiore

interesse da perseguire diviene quello della nazione. In tale interpretazione,

per soddisfare l’interesse predominante viene negata la legittimità del

conflitto (lo sciopero ridiviene reato con l’approvazione del c.d. “Codice

Rocco” che andava a formare il nuovo codice penale), le organizzazioni

sindacali sono pubblicizzate (col riconoscimento del sindacato unico di

categoria) e al contratto collettivo nazionale di categoria è attribuita forza di

legge (efficacia erga omnes) con conseguente capacità di vincolare anche i

lavoratori non iscritti alle organizzazioni stipulanti il contratto stesso.

- 20 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

1.3. Il Corporativismo Fascista

Nella storia plurisecolare del nostro pensiero economico il

corporativismo costituisce ancora oggi una presenza scomoda, oggetto di

valutazioni discordi. Al giudizio di chi lo considera un indirizzo organico di

economia teorica ed applicata, formulato con riferimento ad un contesto

dinamico e volto a conciliare la libertà economica degli individui e

l’interesse pubblico, si oppone quello di chi gli nega la natura di autentico

sistema di conoscenze scientifiche e lo intende come uno strumento di

organizzazione politica del consenso al servizio di un regime autoritario.

Altri autori hanno visto nel corporativismo il tentativo di elaborare una

dottrina dell’economia nazionale partendo da un nucleo preesistente di teoria

economica pura ed inserendo in questo un certo numero di variabili socio-

politiche. Vi è infine chi ha inteso il corporativismo più semplicemente come

un ramo dell’economia applicata, o come una delle tante forme in cui è

possibile interpretare la tutela dell’interesse generale e gestire in modo

dirigistico la politica economica.

Si riscontra invece una certa concordanza tra gli studiosi del

corporativismo nel ritenere che questo movimento - nato da una costola del

sindacalismo rivoluzionario, con caratteristiche di formazione anarchica, di

élite - abbia poi col tempo recepito una serie di spinte riformistiche

provenienti dal basso e modificato in senso sempre più populistico la sua

natura, finendo col richiamarsi ad una visione interclassista e

coll’identificarsi in larga misura con il “volto sociale” del fascismo. D’altro

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

canto, tra i corporativisti della prima ora vi è perfino chi ha ritenuto che il

fascismo abbia tradito lo spirito originario del sindacalismo rivoluzionario,

svuotandone dall’interno le spinte innovative e favorendone una

degenerazione di tipo burocratico.

In presenza di questo variegato spettro di opinioni, non meraviglia che

alcuni autori, idealizzando ulteriormente il corporativismo, abbiano visto in

esso una sorta di mitico strumento di salvezza della nazione, “la speranza

demiurgica della risoluzione dei contrasti di classe e dei problemi della

miseria nazionale”13.

Altri interpreti, nel rifiutare l’identificazione largamente invalsa del

corporativismo con la dottrina economica del fascismo, hanno sostenuto

un’estraneità di principio del movimento corporativo, considerato nella sua

forma più pura, rispetto ad un regime totalitario, che non ammetteva che un

unico partito ed un unico sindacato. Questi autori hanno di conseguenza

prospettato la possibilità di un recupero di larga parte del pensiero

corporativista, in un diverso contesto, pluralista e democratico14.

13
Così ebbe a definirlo uno studioso francese, L. ROSENSTOCK FRANCK in un saggio
su Le corporatisme italien, in AA.VV., Le corporatisme, Paris, s.d., p. 128, citato in C.
VALLAURI, Le radici del corporativismo, Bulzoni, Roma, 1971, 178. Dello stesso
autore, si vedano anche Les rèalisations pratiques et les doctrines du syndacalisme,
Paris, 1933, e Economie corporative fasciste en doctrine et en fait, Paris, 1934.
14
Cfr., ad esempio, A. MULLER, La politique corporative, Bruxelles, 1935, secondo cui
un regime corporativo è incompatibile con ogni forma di governo centralizzato ed
avverso all’autonomia sindacale. Anche Luigi Sturzo colse questa contraddizione:
“Possiamo noi ripresentare il problema della libertà e organicità della società (nei suoi
aspetti economici e politici) come corporativismo? La libertà crea il sindacalismo libero,
l’assolutismo forma le pseudo-corporazioni moderne. Perché allora insistere sopra una
parola, corporativismo, che ci richiama o alla organizzazione medioevale ovvero a
quella mussoliniana o dolfussiana?” (L. STURZO, Unioni - Sindacati - Corporazioni,
in A. CANALETTI GAUDENTI e S. DE SIMONE (a cura di), Verso il corporativismo
democratico, Cacucci, Bari, 1951, p. 43.

- 22 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

È questo uno dei tanti profili apparentemente contraddittori del

corporativismo, che attendono di essere ulteriormente chiariti. Occorre cioè

stabilire se lo stretto legame storico che si è manifestato in Italia tra

corporativismo e fascismo – al punto da indurre spesso a confondere l’uno

con l’altro – sia attribuibile o meno ad una necessaria complementarità tra

due movimenti che avevano in comune gli obiettivi di fondo della pace

sociale e della potenza economica di una nazione; o ad una naturale

connessione tra questi due obiettivi ed un certo tipo di ideologia politica ed

economica.

Altri autori hanno visto nel corporativismo qualcosa di ancora diverso:

un semplice fenomeno di facciata, un’astuta formula tattica che si prestava

ad essere opportunamente variata a seconda delle necessità contingenti, e

che era quindi utilizzabile per sostenere tutto ed il contrario di tutto.

Un aspetto distinto, ma di notevole interesse, che emerge dal dibattito sul

corporativismo è quello della collocazione storico-critica proposta per tale

movimento da chi ha affrontato il problema della ricerca delle sue

ascendenze culturali. Alcuni studiosi hanno ritenuto di impostare il

problema dell’interpretazione storiografica di tale rapporto in una chiave di

continuità diacronica con precedenti indirizzi di pensiero; mentre altri hanno

parlato di decisa rottura con il passato; o hanno visto nel corporativismo un

semplice fenomeno di transizione, o un punto di arrivo e di non ritorno.

Questo ginepraio di interpretazioni è un segno evidente che nel grande

mosaico della storia del nostro pensiero economico il corporativismo

- 23 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

costituisce ancora una tessera dai contorni poco chiari, che ostacola una

ricostruzione esauriente del faticoso percorso attraverso cui si è pervenuti

alle conoscenze odierne.

Nonostante la notevole mole di letteratura storiografica sul Fascismo 15

alcuni aspetti della dottrina e dell’effettiva dinamica istituzionale del regime

appaiono, in proporzione, molto meno indagati tanto che vi è una difficoltà

insita nella ricerca delle fonti quando si vuole ricostruire la nascita e lo

sviluppo della dottrina corporativa.

All’interno della stessa letteratura che in modo più specifico si è occupata

della tematica corporativa occorre ulteriormente operare una distinzione di

tipo cronologico. Il tema del corporativismo ha riscosso un’attenzione

discontinua da parte degli studiosi nel corso della storia e così mentre è più

abbondante nel periodo fascista, nel dopoguerra l’argomento è stato

praticamente ignorato dal dibattito politico e culturale per essere ripreso solo

a partire dagli anni Sessanta soprattutto per la reticenza mostrata dalla

cultura antifascista per un esperimento enfatizzato dal regime.

15
In tema si trovano in letteratura: L. Salvatorelli, G. Mira, Storia d’Italia nel periodo
fascista, Torino, Einaudi, 1957. F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948),
Torino, Einaudi, 1961. A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino,
Einaudi, 1965. E. Santarelli, Storia del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973. Le radici
del corporativismo, Roma, Bulzoni, 1971. N. Tranfaglia, Dallo Stato liberale al regime
fascista. Problemi e ricerche, Milano, Feltrinelli, 1973. P. Ungari, Alfredo Rocco e
l’ideologia del fascismo, Brescia, Morcelliana, 1963. S. Cassese, La formazione dello
Stato amministrativo, Milano, Giuffrè, 1974. S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla
cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979.

- 24 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale le

analisi storiografiche si dedicarono in special modo alla ricerca delle origini

storiche e delle radici culturali del fascismo cercando in esse la spiegazione

del fenomeno e di come questo si era andato affermando all’interno della

cultura politica dell’Italia liberale e della crisi di fine secolo esacerbata dalla

guerra16 e con lo sfondo della nuova pressione delle masse sul sistema

politico e nel clima del sindacalismo rivoluzionario e l’attualismo gentiliano.

Per lungo tempo la storiografia liberale di matrice crociana aveva

interpretato il fascismo come una «malattia morale», un evento parentetico

nella storia e nella cultura italiana e tale immagine portava ad escludere, in

maniera naturale, la possibilità di indagare la dottrina del fascismo come

realtà concreta ed indipendente che veniva vista più come un contenitore

vuoto pronto ad essere riempito di volta in volta dei contenuti ad esso più

convenienti e quindi esso stesso privo di ogni tipo di cultura storica.

Il pregiudizio che identificava il fascismo come anti-cultura non era di

esclusiva matrice liberale ma comune alla storiografia marxista e radicale

restia a concedere al fascismo una sorta di «patente di nobiltà» ma in questo

contesto l’interpretazione di matrice gramsciana identificò nella piccola e

media borghesia la radice sociale del fascismo.

16
La tesi che pone l’origine del fascismo nella guerra del ‘15-’18 è stata sostenuta già negli
anni Venti. Cfr. Luigi Salvatorelli, Nazionalfascismo, Torino, Gobetti, 1923; Angelo
Tasca, La naissance du fascism. L’Italie de 1918 a 1922, Paris, 1938 (trad.it. Id., Nascita
e avvento del fascismo. l’Italia dal 1918 al 1922, Firenze, La Nuova Italia, 1950).
Federico Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1961. Gaetano
Salvemini, The Fascist Dictatorship in Italy, London, 1928 (trad.it. in Id., Scritti sul
fascismo, I, a cura di R. Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 1961).

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

La svolta storiografica del ‘6017 ha fatto sì che si avviasse una revisione

dell’immagine del fascismo grazie all’abbandono del condizionamento di

schemi ideologici e di giudizi politici che avevano ostacolato la piena

comprensione del fascismo come fenomeno complesso composto da una

molteplicità di aspetti. Il fatto che il fascismo fu effettivamente caratterizzato

da pragmatismo e relativismo, lungi dal rappresentare un motivo per

escludere la rilevanza dei suoi aspetti culturali, costituisce proprio un punto

di partenza per osservare quello che fu uno specifico atteggiamento mentale

ed ideologico attraverso la costante contrapposizione tra l’esperienza e la

teoria.

Il corporativismo rappresenta senza dubbio un esempio emblematico di

quella contrapposizione tra teoria e prassi messa in luce dagli storici. La

funzione giocata dallo Stato corporativo come «mito» della retorica di

regime e, di contrasto, le sue quasi irrilevanti ricadute istituzionali, è stata la

ragione principale della tendenza storiografica a minimizzare il peso

dell’organizzazione corporativa nella dinamica complessiva dello sviluppo

del regime.

Il grande divario tra il «mito» dello Stato nuovo, mito di cui il fascismo

fa un uso retorico sovrabbondante, e la realtà, che fu quella del sostanziale

17
Ma ancora oltre se si guarda al giudizio che Norberto Bobbio, nel 1973, dava della cultura
fascista: «Una cultura fascista nel duplice senso di una cultura fatta da fascisti dichiarati
o a contenuto fascista non è mai realmente esistita, o almeno non riuscì mai, per quanti
sforzi venissero compiuti, a prendere forma in iniziative o imprese durature e
storicamente rilevanti». In G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Torino,
Einaudi, 1973, cit. p. 220.

- 26 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

fallimento di ogni progetto corporativo, ha fatto sì che l’interesse per questi

aspetti passasse in secondo piano rispetto a questioni avvertite come più

urgenti e decisive al fine di interpretare il fascismo.

Per ricostruire le vicende corporative in età fascista occorre districarsi

all’interno di un groviglio di posizioni quasi sempre in contrasto una con

l’altra e la difficoltà maggiore sta probabilmente nel fatto che il tema del

corporativismo è un tema ambiguo nel senso che non appartiene in maniera

esclusiva ne all’ambito pubblico dello Stato e dell’organizzazione dei suoi

poteri e ne a quello privato della società civile. Questo significa che il

concetto di corporativismo mette in gioco contemporaneamente e

dialetticamente entrambi gli ambiti. Mancando un modello di riferimento

che riesca a coniugare in maniera efficace i due livelli di analisi, il più delle

volte si finisce per considerare separatamente i due termini e si tende a

dilatare altrimenti il concetto storiografico di «società civile» fino a sfociare

nella genericità e a perdere di vista il funzionamento concreto degli istituti

statali.18

Una parte considerevole della storiografia ha visto il corporativismo

come reazione alla crisi dello Stato e delle istituzioni liberali nel tentativo di

risolvere la stessa crisi.

La riflessione corporativa raggiunse la sua massima tensione

programmatica nel periodo che va dalla metà degli anni Venti ai primi degli

18
Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, Il Mulino, Bologna,
1976.

- 27 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

anni Trenta. Già prima dell’avvento del fascismo e prima dello scoppio della

guerra si parlava di una crisi delle istituzioni liberali19 che vedevano nella

crisi operaia di inizio secolo l’incapacità ad affermarsi anche perché

espressione di un’unica classe sociale che, seppure con il potere di suffragio,

si trovava ad affrontare la questione sociale mostrandosi incapace di gestirla.

La crisi era derivata dall’erodersi della struttura monoclasse dello Stato e

dell’irrompere sulla scena pubblica di una organizzazione sociale dalla

struttura sempre più complessa e differenziata che chiedeva maggior grado

di partecipazione alle decisioni pubbliche. Ciò che accumunò le varie letture

sulla crisi in quegli anni, infatti, fu l’individuazione della sua causa

principale nell’inadeguatezza di una struttura istituzionale incapace di

stabilire un rapporto positivo con la complessità della società.

Come già detto il pensiero maturato negli anni a cavallo del secolo di

risolvere i conflitti sociali attraverso una rappresentanza corporativa degli

interessi cominciò a farsi strada e a più riprese, durante quegli anni, verrà

ripreso il tema della trasformazione delle basi della rappresentanza politica

da individuali ad organiche e corporative20.

19
G. Gozzi, Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi nella riflessione
giuridica e politica fra Ottocento e Novecento, in A. Mazzacane (a cura di), I giuristi e
la crisi dello Stato liberale in Italia fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1986. C.
Pavone - M. Salvati, Suffragio, rappresentanza, liberaldemocrazia, in «Rivista di storia
contemporanea», XV, n. 2, aprile 1986; F. Tessitore, Crisi e trasformazione dello Stato.
Ricerche sul pensiero giuspubblicistico italiano fra Otto e Novecento, Milano 1988.
20
Gli anni che vanno dal 1880 al 1895 videro in Italia, come in Europa, la produzione di
una copiosa letteratura antiparlamentaristica. R. Bonghi, La decadenza del regime
parlamentare, in «Nuova Antologia», 1 giugno 1884. M. Minghetti, I partiti politici,
Bologna, Zanichelli, 1881. F. Persico, Princìpi di diritto amministrativo, Napoli,
Marghieri, 1890. Del 1897 è anche il famosissimo motto di Sonnino “torniamo allo
Statuto!” apparso sulla «Nuova Antologia» (1 gennaio 1897).

- 28 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Le opzioni in campo allora erano sostanzialmente due: o una riforma della

rappresentanza in senso organico, che avrebbe conferito un riconoscimento

costituzionale alle strutture sociali organizzate, oppure una riforma

proporzionale, il cui vantaggio sarebbe stato quello di dare espressione

politica adeguata alle nuove organizzazioni di massa, i partiti.

Le riforme che tardavano nelle istituzioni italiane derivavano, ad inizio

del Novecento, dal disagio che suscitava un’idea in aperto contrasto con i

presupposti dottrinali dell’uguaglianza politica che ricordava troppo da

vicino l’esperienza della suddivisione della società in classi e ceti propria

dell’antico regime.

Dopo la parentesi della guerra le problematiche che erano rimaste

irrisolte si sono ripresentate con maggiore urgenza anche perché la guerra

aveva portato a maggiori problematiche in tutti i campi e in particolare nella

sfera del lavoro e sociale. Negli anni a ridosso dell’avvento del fascismo si

ebbe una graduale perdita di fiducia nella possibilità di risolvere i nuovi

conflitti sociali riassorbendoli nell’ambito tradizionale della sovranità

nazionale e quindi i progetti corporativi cominciarono a moltiplicarsi per

dare rappresentanza a quei segmenti della società rappresentanti interessi

costituiti. La riforma elettorale in senso proporzionale accelerò il processo

degenerativo delle istituzioni ormai in corso da tempo portando al collasso

del Parlamento. La crisi mostrava di non poter essere risolvibile da una

semplice riforma ma che aveva motivazioni più radicali e profonde che

mettevano in discussione anche la forma dello Stato che vedeva venir meno

- 29 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

i suoi tradizionali attributi assieme all’erosione della sua sovranità e

l’identità fondamentale su cui era basata tutta la costruzione dello Stato

moderno.

La tendenza a spostare il luogo della decisione politica dagli organi ad

essa deputati ai gruppi di interesse, porta il Parlamento a perdere

progressivamente il proprio ruolo con la crescita e la stabilizzazione proprio

di questi gruppi.

Il corporativismo diventa di conseguenza il luogo in cui trovava

espressione il fondamentale nodo irrisolto dello Stato moderno e la sua

natura ambivalente dovuta alla tensione tra la tendenza ad incorporare ed

integrare all’interno della sua struttura i gruppi economico-sociali e quella

opposta dei gruppi che invece tendono a resistere all’azione accentratrice per

affermare la propria autonomia.

Preliminarmente va detto da subito che nel coacervo di formule

propagandistiche e di velleitarie aspirazioni che costituirono l’ideologia

corporativa non è così semplice distinguere il vecchio dal nuovo in quanto,

sia pure con importanti qualificazioni, il corporativismo aveva infatti accolto

alcuni principi basilari dell’indirizzo economico liberista: tutela della

proprietà privata; autonomia contrattuale e libertà di iniziativa economica.

Nell’ottica corporativista lavoro e proprietà erano visti come dei diritti

dell’individuo ma anche fonti di corrispondenti doveri riconducibili allo

svolgimento di una funzione sociale. Gli imprenditori privati, ad esempio

- 30 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

erano liberi di agire ma anche responsabili degli indirizzi della produzione

di fronte allo Stato, supremo tutore dell’interesse pubblico.

Il corporativismo era però in aperto contrasto con due elementi essenziali

del liberalismo: le premesse individualistiche, occlusive dello spazio per una

azione riformatrice ispirata a finalità collettive, e la fiducia nella capacità del

meccanismo del mercato di presiedere ad un’allocazione efficiente delle

risorse, che implicava una sostanziale negazione del ruolo della politica

economica. Nel rapporto tra corporativismo e liberalismo coesistevano

quindi, gli uni accanto agli altri, elementi di affinità e di discordanza

ideologica.21

Si può affermare senza temere smentite che esiste un evidente nesso tra

crisi dello Stato e corporativismo ma non si può dire allo stesso modo che

tale nesso sussista anche tra ideologia fascista e corporativismo.

Nell’epoca della «crisi dello Stato» il corporativismo, variamente

declinato, rappresentò infatti un terreno sul quale finirono per confluire

correnti di pensiero che nulla avevano in comune tra loro: il pensiero sociale

cattolico, il reazionarismo politico di destra, il sovversivo di sinistra. Le

21
È nei termini di un compromesso tra le istanze politiche del regime e gli schemi teorici
dell’economia liberale che il corporativismo venne inteso da quegli studiosi che
vengono talvolta definiti “corporativisti formali”, ad indicare che la loro accoglienza
della ideologia corporativa non si spingeva molto al di là dell’adesione ufficiale
sollecitata dal regime. Ad essi si contrapponevano altri studiosi, che rifiutavano il
postulato economicistico, a loro volta descritti come “corporativisti integrali”. Ma la
distinzione tra corporativisti formali ed integrali non sembra poter rappresentare
storicamente un punto fermo. In tema di purismo ed anti-purismo, per esempio, questi
autori avevano idee molto diverse. Sul concetto di corporativismo integrale, cfr. M.
MANOILESCO, Le siècle du corporatisme. Doctrine du corporatisme intégral et pur,
Librairie Félix Alcan, Paris, 1934.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

radici remote di un tale singolare incontro possono essere rintracciate già nel

pensiero reazionario di inizio Ottocento22, il quale, in opposizione ai valori

che, sinteticamente, si potrebbe dire affermati dalla Rivoluzione Francese,

criticò individualismo ed egualitarismo democratico e mise in luce la

principale aporia del costituzionalismo ottocentesco, ovvero la dialettica

irrisoria tra libertà ed uguaglianza fondamento tanto di una cultura di destra

che di alcune correnti di estrema sinistra.

Nel corso del Novecento, ed in particolare tra le due guerre, la critica

all’individualismo liberale e all’egualitarismo democratico si legò alla

necessità di creare un nuovo ordine, sia sociale che politico, e di trovare

quell’unità naturale conosciuta dalle società di antico regime e spazzata via

dall’atomismo democratico.23

Nell’Europa degli anni Venti e Trenta, quindi, tanto i regimi democratici

quanto quelli autoritari esprimevano aspirazioni simili rivolte a correggere

o a superare lo Stato liberale e il sistema rappresentativo parlamentare

attraverso riforme sociali di carattere corporativo visto che la maggior parte

22
«Se è soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento che la nebulosa delle ideologie
antiliberali e antidemocratiche ha preso forma, dando vita a un corpus dottrinario cui
il nuovo secolo non avrebbe avuto che da attingere, è sull’arco lungo dell’età post-
rivoluzionaria che si sono enucleate le categorie analitiche con le quali la democrazia
è stata sottoposta al vaglio di una critica sempre più orientata a valutarla in chiave di
esperienza anomala o patologica». (M. Donzelli – R. Pozzi (a cura di), Introduzione, in
Id., Patologie della politica. Crisi e critica della democrazia tra Otto e Novecento,
Roma, Donzelli, 2003, p. 4).
23
M.H. Elbow, French Corporative Theory, 1789-1948. A Chapter in the History of Ideas,
Columbia University Press, New York, 1953. Per la Germania si vedano R.H. Bowen,
German Theories of the Corporative State. With special reference to the period 1870-
1919, New York, Whittlesey House, 1947 e W. Reutter, Korporatismustheorien. Kritik,
Vergleich, Perspektiven, Peter Lang, Frankfurt am Main – Bern – New York – Paris,
1991.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

degli Stati democratici del continente europeo si trovò a dover affrontare la

difficile transizione da società rurale a società industriale, cui le tradizionali

strutture dello Stato liberale mostrarono di essere incapaci di rispondere.

Tutte le scienze sociali furono coinvolte in una generale opera di

ripensamento delle categorie concettuali con le quali si era fino ad allora

pensato lo Stato e le sue relazioni con la società e vennero così portati alla

luce i limiti del liberalismo e le aporie costitutive di un modello di Stato che

aveva cercato l’equilibrio tra affermazione del costituzionalismo, e quindi

della limitazione del potere dello Stato, e il mantenimento di un

«decisionismo del potere politico» concentrato sullo Stato stesso.

Con la crisi del liberalismo si apre, negli anni Venti del Novecento la

possibilità di attacco, da parte del fascismo, alla Costituzione liberale che

trovava gli organi dello Stato incapaci di opporre resistenza.

Quando Alfredo Rocco nel 1920, aprendo il suo corso all’Università di

Padova, affermava che lo Stato era in crisi e che andava dissolvendosi,

giorno dopo giorno, in una «moltitudine di aggregati minori, partiti,

associazioni, leghe, sindacati» che rischiavano di paralizzarlo e soffocarlo,

determinando una perdita progressiva di tutti i suoi attributi di sovranità,

sosteneva anche che tale crisi non fosse un fenomeno recente:

«Essa risale ai primi anni del secolo XX, e già nel 1910 uno dei più
eminenti cultori italiani del diritto pubblico, il prof. Santi Romano, ne

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

descriveva gli aspetti, a quel tempo più interessanti, in un magistrale discorso


pronunciato a Pisa per l’inaugurazione dell’anno accademico»24.

Il riferimento di Rocco alla prolusione pisana di Santi Romano, alla cui

sostanza egli dimostrava di aderire quasi senza riserve, non costituisce un

caso isolato. Il discorso romaniano sulla crisi dello Stato rappresentò, difatti,

un punto di riferimento variamente utilizzato dalla giuspubblicistica del

fascismo. Sergio Panunzio, nella prolusione al corso di Filosofia del diritto

tenuta all’Università di Ferrara nel 1922, trattando il tema del rapporto tra

Stato e sindacati, tema che «da più di un decennio» era «il problema centrale

e predominante nella vita e nella scienza», «il massimo problema sociale

politico e giuridico»25, citava gli studi di Santi Romano a sostegno delle sue

tesi sulla necessità di integrazione dei sindacati nel sistema dello Stato.

Secondo Panunzio il Romano aveva dimostrato come la crisi dello Stato

derivasse direttamente dallo scioglimento delle corporazioni ed alla

conseguente polverizzazione della società in una massa di singoli individui.

In effetti la giuspubblicistica italiana aveva trovato, come base della crisi

dello Stato, la minaccia proveniente dalla sfera sociale con l’intensificazione

della lotta degli interessi individuali e aveva inquadrato come il problema

risiedesse direttamente nelle strutture stesse non transitorie dello Stato

24
A. Rocco, Crisi dello Stato e sindacati (1920), in Scritti e discorsi politici, Milano, 1938,
II, p. 631
25
Sergio Panunzio, Stato e sindacati, in Id., Il fondamento giuridico del fascismo, Bonacci,
Roma, p.139.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

liberale che aveva una organizzazione eccessivamente semplice ed

inadeguata alla complessità della società moderna.

Il fatto che alcuni giuspubblicisti, tra cui Romano in testa, avessero

cercato nella dinamica sociale le cause della crisi dello Stato moderno e che,

allo stesso tempo, mirassero comunque alla restaurazione della sovranità

statale, costituiva il possibile punto di congiunzione tra il discorso del

giurista e parte dell’ideologia corporativa fascista. In comune, infatti, vi era

la concezione dello Stato come suprema e «compiuta sintesi delle varie forze

sociali», come «unità autonoma» degli svariati elementi della società, come

unica fonte dei poteri pubblici e «reale personificazione» di essi. L’origine

stessa dell’ideologia corporativa andava infatti ricercata nel rifiuto della

concezione astratta dello Stato, nel bisogno di una più compatta ed organica

compagine sociale su cui edificare l’edificio statale che nel disegno liberale

era distinto dalla società.

Lo strumento attraverso il quale veniva stabilito un legame tra Stato e

società era quello della rappresentanza politica e della possibilità di

ricostruire l’unità organica dello Stato. Il principio rappresentativo può

essere fondato sul «diritto» di ogni cittadino dando così forma ad un concetto

partecipativo di rappresentanza sensibile alle sollecitazioni provenienti dalla

sfera sociale, ma anche su una concezione autoritaria della rappresentanza

stessa che così viene intesa come istanza sintetica del potere sovrano.

Quest’ultima concezione era alla base dello Stato Oligarchico di inizio

Novecento, con caratteri essenzialmente oligarchici che, per perpetuare sé

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

stesso, necessitava di enfatizzare una concezione di rappresentanza non

come diritto soggettivo ma come «funzione» e quindi in prospettiva con una

concezione anti-egualitaria e anti-partecipativa.

Sia la dottrina giuridica che la prassi politica avevano generato così, nel

nostro Paese, una forma di governo parlamentare con peculiarità proprie e

non del tutto corrispondente ai principi del liberalismo dottrinario. Rispetto

al contrattualismo che trovava ragion di essere nell’opposizione ad un

modello assolutista di Stato e alla teoria di autolimitazione della sovranità

statale, lo Stato di diritto italiano rappresentava una soluzione di

compromesso che aspirava a conciliare l’idea di uno Stato sovrano ma

intrinsecamente limitato nel tentativo vano di conciliare tradizione francese,

ancora ancorata ai valori politico-ideologici della rivoluzione, con tradizione

tedesca, alla quale si doveva l’elaborazione del concetto giuridico di Stato e

che rimaneva invece legata all’autoritarismo tradizionale.26

Tra sovranità e libertà, tra Stato e società, si finiva per creare una

distinzione troppo netta nella dottrina liberale e così per preservare la

sovranità statale, in un momento in cui lo Stato liberale subiva forti pressioni

dalle nuove forze sociali, la dottrina aveva tentato di collocare

l’organizzazione dei poteri statali in una sfera di separatezza rispetto alla

dinamica sociale nel vano tentativo di assicurare al giuridico una autonomia

sia dal sociale che dal politico. Il distacco che si era creato tra governanti e

26
Volpicelli, Vittorio Emanuele Orlando, in «Nuovi Studi di diritto economia e politica»,
anno II, 1928.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

governati, in questo modo, diede vita ad uno Stato completamente estraneo

e separato dalla società.

Compito della politica avrebbe dovuto essere quello di collante

unificatore tra le due distinte realtà ma era stata concepita in modo da

configurare il voto come una funzione pubblica più che come diritto

soggettivo dell’individuo e così il cittadino si trovava ad essere investito di

una funzione ad interesse collettivo piuttosto che esercitare un proprio diritto

di rappresentanza. Il diritto elettorale stesso era concepito in quel tipo di

società come una elargizione di sovranità da parte dello Stato che ne avrebbe

potuto togliere efficacia quando più riteneva opportuno.

Da questo ne derivava una trattazione puramente formalistica delle

istituzioni rappresentative e rendeva lo stesso concetto di rappresentanza

vuoto e incapace di configurarsi come una relazione dialettica tra i due poli.

Così, con l’introduzione del suffragio universale e con le conseguenti

pressioni esercitate dalle nuove classi sociali che si affacciavano per la prima

volta nell’arena politica, si impose la necessità di ripensare al concetto di

rappresentanza politica. All’idea di rappresentanza funzionale, infatti, si

legava per forza il concetto di suffragio ristretto, oligarchico. Limitato a

determinate categorie di individui dotati dei requisiti necessari ad espletare

la funzione che implicava una responsabilità nei confronti dell’intera

comunità, concezione diversa da quella del suffragio universale che slegava

la rappresentanza dalla sovranità statale, configurandosi come diritto

soggettivo spettante ad ogni individuo in base al principio di uguaglianza.

- 37 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

La preoccupazione di salvaguardare la sovranità statale dai rischi di

frantumazione e delegittimazione determinò l’incapacità e, forse, la

mancanza di volontà da parte della classe politica liberale di accompagnare

il processo di democratizzazione, rimanendo legata ad un paradigma

intrinsecamente inadeguato ad individuare il legame e l’interazione tra forze

politiche e forze sociali, concentrando la sua analisi sugli aspetti costitutivi

della sovranità dello Stato e così non riuscì a cogliere la portata della nuova

realtà sociale precludendosi la possibilità di elaborare soluzioni istituzionali

alla crisi.

Furono queste forse le ragioni per le quali gran parte della cultura

giuridica italiana accolse con sostanziale indifferenza e con rassegnata

accettazione l’avvento del Fascismo ed il conseguente stravolgimento

dell’ordine costituzionale.

Gli economisti di formazione liberale, d’altro canto, non sembravano

molto preoccupati di adeguare alla realtà quelle premesse dei loro

ragionamenti che apparivano storicamente superate. Senza bisogno di

compiere eccessivi sforzi in questa direzione, i corporativisti finivano così

col distinguersi per una visione più realistica del mondo economico. Si

mostravano generalmente consapevoli che la concorrenza perfetta non

costituiva un modello credibile di funzionamento dell’economia; che i prezzi

di mercato non esprimevano le scarsità relative; che la struttura dei consumi

era distorta dall’azione interessata dei produttori. Convenivano sul fatto che

la presenza di posizioni oligopolistiche comportasse per la collettività gravi

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

sprechi di risorse e che la composizione della domanda solvibile non

riflettesse l’urgenza relativa dei bisogni, a causa della distribuzione

sperequata della ricchezza. Riconoscevano quindi l’esigenza di porre dei

vincoli alla libertà contrattuale e all’iniziativa economica privata, nel

superiore interesse della nazione, che a differenza di quello dei singoli

individui non palesava carattere transitorio, ma immanente.

Uno sbocco naturale di questo modo di pensare avrebbe potuto essere

l’adesione al modello organizzativo di un’economia di piano ma questo

avrebbe comportato l’abbandono dei fondamenti stessi del liberismo

economico che teorizzava la regola pratica del “lasciar fare”, e solo pochi

tra i corporativisti erano disposti a tanto mentre i più erano favorevoli a

ricerche di soluzioni di compromesso che potessero conciliare mercato e

piano, libertà e controllo, fini pubblici ed interessi privati. Da questo

atteggiamento emergeva il disegno di un’economia mista e regolamentata

che si prestava ad essere interpretato in una pluralità di modi diversi perché

non si presentava come una semplice formula tecnica finalizzata alla ricerca

di un equilibrio tra interessi economici in contrasto.

Il corporativismo poteva intendersi come un sistema di transizione verso

un autogoverno unitario di imprenditori e lavoratori ed era questa la tesi

sostenuta, con notevoli varietà di accenti, dai sindacalisti rivoluzionari e poi

dalla “sinistra corporativa” ma anche come un ritorno all’assetto dirigistico

tipico di un’economia di guerra della “destra corporativa” o, infine, come

strumento per assicurare una reale partecipazione dei lavoratori alla gestione

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

della cosa pubblica o addirittura come momento necessario per il passaggio

ad uno “Stato operaio” tesi supportata dai sindacalisti del vecchio

sindacalismo classista.27

Al pari di Keynes, i corporativisti avevano in mente un modello di

monopolio bilaterale, in cui il salario è determinato in base a rapporti di

forza, piuttosto che nel rispetto di una logica marginalista. Ma mentre

Keynes aveva semplicemente preso atto della struttura bilateralmente

monopolistica del mercato del lavoro, senza sostenere in alcun modo la

convenienza sociale di tale forma di mercato, i corporativisti si erano trovati

a dover giustificare come utile per la collettività il duplice monopolio legale

di rappresentanza che il regime fascista aveva conferito nei singoli settori di

attività alle associazioni di categoria dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Sul mercato del lavoro si è sviluppato un intenso dibattito teorico tra i

corporativisti28. Ma la maggior parte di essi si limitò ad affermare che il

27
Dopo lo scioglimento nel 1927 della C.G.L., Rinaldo Rigola - di cui si ricorda una Storia
del movimento operaio italiano, edita a Milano nel 1947 - costituì con altri vecchi
militanti sindacalisti (Maglione, Reina, ecc.) l’Associazione nazionale per lo studio dei
problemi del lavoro, che finì poi col confluire nel movimento corporativo fascista.
28
P. BINI, Il salario “corporativo” negli studi tra le due guerre, in R. FAUCCI (a cura di),
Gli italiani e Bentham: dalla “felicità pubblica” all’economia del benessere, Angeli,
Milano, 1982, vol. 2°, pp. 253-83; F. PERILLO, Introduzione al secondo volume
dell’antologia a cura di A. MANCINI, F. PERILLO e E. ZAGARI, La teoria economica
del corporativismo, Ediz. Scientifiche Italiane, Napoli, 1982. Tra gli scritti più
significativi dei corporativisti sul salario corporativo possono ricordarsi quelli di G.
ARIAS, Il salario corporativo, Modena, 1929; F. CARLI, Applicazione della teoria del
valore al salario corporativo, “Archivio di studi corporativi”, 1930, n. 2; N.M. FOVEL,
Interpretazione economica del salario corporativo, “L’economia italiana”, ottobre
1931; U. SPIRITO, Il problema del salario, “Critica fascista”, 1° ottobre 1932; C. E.
FERRI, La remunerazione corporativa dell’operaio, “Economia”, ottobre 1937, e Il
sistema della remunerazione corporativa integrale, ibidem, maggio 1938.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

salario corporativo era il salario di equilibrio29; o a ribadire la vecchia tesi

dell’esistenza di due limiti naturali al campo di oscillazione del salario - un

valore minimo, imposto dalle esigenze di sussistenza, ed uno massimo,

corrispondente al rendimento del lavoratore - dimenticando che la

caratteristica principale del monopolio bilaterale è costituita proprio

dall’impossibilità di individuare in esso una configurazione di equilibrio.

Costretti dall’evoluzione della politica del regime a rincorrere gli

avvenimenti30, i corporativisti cercarono di spiegare la convenienza di un

monopolio bilaterale nel mercato del lavoro con una pretesa riduzione della

zona di indeterminazione contrattuale entro cui avrebbe dovuto avvenire

l’incontro della domanda reciproca dei due contraenti. Affermavano infatti

che la contrattazione collettiva avrebbe eliminato le rendite di posizione

risultanti dalla disparità di condizioni soggettive in cui aveva luogo la

contrattazione individuale, consentendo di raggiungere un punto di intesa

che avrebbe assicurato l’uguaglianza dei vantaggi e dei costi per le due parti

sociali. Ma non furono in grado di dimostrare questa loro tesi.

29
F. CARLI, Applicazione della teoria del valore al salario corporativo, cit., p. 321. Carli
aggiungeva che l’equilibrio non andava inteso in senso statico e meccanico, ma in senso
“dinamico ed etico”. Il salario di equilibrio era quello che, secondo la XII disposizione
della Carta del Lavoro doveva “rispondere alle esigenze normali di vita, alle possibilità
della produzione e al rendimento del lavoro”
30
Nell’intento di evitare abusi di potere monopsonistico o monopolistico sul mercato del
lavoro, la legislazione fascista aveva previsto una disciplina pubblicistica molto rigida
di tale mercato, in deciso contrasto con il principio dell’autonomia contrattuale dei
singoli soggetti economici. Agli accordi corporativi era attribuita per legge efficacia
erga omnes; erano vietati sia lo sciopero sia la serrata, e le controversie in materia di
lavoro dovevano essere risolte da un intervento arbitrale.

- 41 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

In ultima analisi - a differenza di Keynes, che aveva derivato la domanda

di lavoro da quella dei prodotti e ideato una curva di offerta di lavoro dalle

caratteristiche interamente nuove (la curva “a gomito”) - i corporativisti si

mostrarono incapaci di recare contributi teorici di rilievo in questo campo,

cui pure attribuivano fondamentale importanza.

Essendo nato al di fuori del fascismo, e prima di esso, il corporativismo

non può considerarsi un’invenzione fascista. Quello dei fascisti è stato solo

uno specifico modo di intendere l’ideologia corporativa, che essi elevarono

a dottrina economica del regime, ma ridussero al tempo stesso a mera

giustificazione delle scelte da questo operate a livello politico.

Come è noto, il processo storico che ha portato a costruire l’ordinamento

corporativo fascista ebbe inizio con il congresso sindacale di Bologna del

gennaio 1922, quando le organizzazioni sindacali fasciste facenti capo ad un

organismo creato poco più di un anno prima (la Confederazione italiana dei

sindacati economici) si raggrupparono in cinque corporazioni di settore,

dando vita alla Confederazione generale dei sindacati nazionali, guidata da

Edmondo Rossoni. Queste corporazioni crebbero rapidamente di peso, per

il progressivo sfaldamento dei sindacati non fascisti e per le violenze

esercitate dalle famigerate “squadre d’azione” contro le leghe operaie e le

cooperative socialiste e cattoliche.

All’interno del fascismo si scontrarono in questa fase due diverse

concezioni del ruolo dei sindacati e delle corporazioni, che li

presupponevano. Da un lato vi erano i sindacalisti di Rossoni, favorevoli ad

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

un sindacato unico e obbligatorio, educatore più che difensore delle masse

operaie e contadine, e ad uno stretto collegamento tra le organizzazioni

parallele di categoria dei lavoratori e dei datori di lavoro. Dall’altro coloro

che temevano un’eccessiva espansione del peso politico dei sindacalisti e

preferivano pensare al sindacato unico ed obbligatorio come ad un organo

sussidiario dello Stato.

Quest’ultimo orientamento trovò espressione in un organismo consultivo:

la Commissione dei Diciotto (o “dei Soloni”), presieduta da Giovanni

Gentile e di cui erano membri anche tre economisti teorici: Arias, Gini e

Lanzillo - istituito all’inizio del 1925 con il compito di preparare la nuova

legislazione dello Stato fascista. Questa commissione era favorevole in

maggioranza alla creazione di nuovi istituti di diritto pubblico che

coordinassero e limitassero l’azione di sindacati dei lavoratori formalmente

liberi di organizzarsi come associazioni di fatto, ma privi di ogni

riconoscimento giuridico (riservato ai sindacati fascisti). Relatori

sull’argomento furono per la maggioranza Gino Arias e per la minoranza

costituita dalla sinistra sindacalista, che perseguiva l’ideale di un capitalismo

di Stato socialmente avanzato - Edmondo Rossoni, il quale, pur sconfitto in

quella sede, riuscì poi a far approvare dal Gran Consiglio del Fascismo

l’istituzione del sindacato unico e il riconoscimento alle corporazioni di

alcune funzioni normative in materia di disciplina dei rapporti di lavoro

subordinato e di coordinamento della produzione.

- 43 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

I risultati di questa evoluzione non si fecero attendere. Nell’ottobre del

1925, con il “patto di Palazzo Vidoni”, che aboliva le commissioni interne

di fabbrica, demandandone le funzioni ai sindacati locali, la Confederazione

generale dell’industria si impegnò a riconoscere come legittima controparte

i sindacati fascisti e a stipulare contratti di lavoro solo con essi. Seguì,

nell’aprile del 1926, un’importante legge sulla disciplina giuridica dei

rapporti collettivi di lavoro, che diede pieno riconoscimento ai sindacati

fascisti di categoria, estendendo erga omnes la validità dei contratti collettivi

da essi stipulati. Lo stesso provvedimento stabilì il divieto di sciopero e di

serrata ed istituì una magistratura del lavoro.

Nel luglio del 1926 venne infine creato il Ministero delle Corporazioni,

che fu però reso funzionale solo nel 1929, dopo lo scioglimento del

Ministero dell’Economia Nazionale e dopo che Mussolini decise di

rinunciare a sette degli otto incarichi ministeriali che in quell’epoca

ricopriva personalmente, affidandoli ai rispettivi sottosegretari. Da quel

momento il Ministero delle Corporazioni venne retto da Bottai, che lo tenne

fino al luglio del 1932, quando si dimise per le polemiche seguite al

convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara. Fu tuttavia ancora più

tardi, a metà degli anni ‘30, che le corporazioni ebbero attuazione pratica.

La legge istitutiva del Ministero delle Corporazioni aveva creato anche il

Consiglio Nazionale delle Corporazioni, che all’inizio fu un semplice

organo consultivo del Ministero. Quando poi apparve chiaro che le

corporazioni erano organismi pressoché inutili, una volta completato

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

amministrativamente l’ordinamento corporativo, si cercò di dare loro un

diversa giustificazione, di carattere politico, trasformando nel 1939 il

Consiglio nazionale nella Camera dei fasci e delle corporazioni, che sostituì

la vecchia Camera dei Deputati.

Questo fu in sintesi, nel periodo fascista, il passaggio dallo Stato liberale

al corporativismo ma andiamo per gradi: la legge 563/1926 prevedeva un

«sindacato unico» per ciascuna «categoria» di datori e prestatori di lavoro,

nel senso che non poteva essere «riconosciuta legalmente per ciascuna

categoria di datori di lavoro, lavoratori, artisti o professionisti, che una sola

associazione» (art. 6, co 3 L. 536/26).

Questa associazione, a seguito del riconoscimento del governo, che

emetteva all’uopo un decreto, diveniva persona giuridica di diritto pubblico

come ente ausiliare dello Stato, sottoposto a controlli statali.

L’effetto del decreto fu che il sindacato da un lato veniva dotato di potere

di rappresentanza legale di tutti i soggetti (iscritti e non) appartenenti alla

categoria (art.5, co 1 L. 563/26) dall’altro aveva facoltà di stipulare contratti

vincolanti per tutti gli appartenenti alla categoria (art. 10) e non derogabili

in peius da parte del contratto individuale (art. 54 reg. esec. 1130/26). Le

“Corporazioni” rappresentavano, quindi, in maniera unitaria datori di lavoro

e lavoratori, ed erano chiamate a svolgere funzioni di natura consultiva, di

controllo, conciliativa e, in certa misura, anche normativa.31

31
SCOGNAMIGLIO, Diritto del Lavoro, Cacucci Editore, Bari, 1972, p. 212 ss.

- 45 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Potevano essere costituiti anche sindacati non riconosciuti, la stessa Carta

del Lavoro del 1927 parla di libertà sindacale, ma di fatto essi non vennero

mai organizzati, non solo per timore del regime fascista, ma anche perché

questi ultimi non avrebbero avuto alcuno spazio di manovra rispetto al

sindacato riconosciuto dallo Stato

I provvedimenti in questione tenevano conto della visione organica e

coesa della società nel senso del corporativismo e, quindi, l’interesse dei

singoli e delle classi era subordinato al perseguimento dell’interesse

superiore della nazione.

Sul versante sindacale ciò si risolse nella soppressione della libertà

sindacale, (pur rimanendo astrattamente la possibilità di costituire più

sindacati, in relazione ai quali, però, il governo si era riservato la possibilità

di conferire riconoscimento giuridico solo ad uno, purché fosse espressione

degli interessi di almeno il 10% dei lavoratori della categoria di riferimento

e fosse guidato da persone «di sicura fede nazionale») e della libertà di

sciopero.

La Carta del Lavoro, approvata dal Gran Consiglio del Fascismo il 21

aprile 1927 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 30 aprile 1927,

rendeva vincolante l'efficacia dei contratti siglati dalle associazioni sindacali

riconosciute dalla legge nei confronti di tutti i lavoratori stabilendo che “il

sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato ha il

diritto di (…) stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli

appartenenti alla categoria” (cfr. art. 3).

- 46 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Con la pubblicazione del Codice Civile del 1942, il contratto collettivo

venne inserito nella categoria delle «norme corporative» (art. 5 disposizioni

preliminari al c.c. 1942) e venne, poi, sottoposto ad una disciplina specifica

(artt. 2067-2077 c.c. 1942).

Nel periodo corporativo, quindi, la contrattazione collettiva era sottoposta

a vincoli di centralizzazione nazionale e di categoria; doveva essere

preordinata alla protezione della parte più debole del rapporto di lavoro

attraverso la predeterminazione dei minimi di trattamento; doveva avere la

funzione di standardizzare le condizioni di lavoro e, in particolare, il costo

del lavoro nell’area di riferimento, nell’ambito più generale di una disciplina

dell’economia nazionale.

In tale contesto, se non si poteva negare che il contratto collettivo traesse

origine dall’incontro di volontà delle associazioni rappresentanti i

contrapposti interessi di categoria, tuttavia fu affermato che esso non poteva

avere natura contrattuale perché nessuno scambio si realizzava tra le parti,

non esistendo tra le stesse nessuna antitesi di finalità che è propria del

rapporto contrattuale.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

1.4. La questione dell’art. 39 della Costituzione Repubblicana.

Il Decreto luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 369 poneva fine al

periodo corporativista abrogandone l’ordinamento. Caduto l’ordinamento

corporativo, la preoccupazione del legislatore fu, prima di ogni altra cosa,

quella di impedire che i lavoratori rimanessero privi di tutela.

Tale preoccupazione fu risolta mediante il regime transitorio introdotto

dall’art. 43 del succitato decreto luogotenenziale in base al quale “per i

rapporti collettivi ed individuali restano in vigore, salvo le successive

modifiche, le norme contenute nei contratti collettivi, negli accordi

economici, nelle sentenze della magistratura del lavoro e nelle ordinanze di

cui agli art. 10 e 13 l. 3 aprile 1926, n. 563, e agli art. 8 e 11 l. 5 febbraio

1934, n. 163, e agli art. 4 e 5 r.d.l. 9 agosto 1943, n. 721”.

A seguito di tale intervento i contratti di lavoro, così come gli accordi

economici collettivi, stipulati durante il periodo corporativo, continuarono

ad essere validi non solo perché non furono oggetto di successiva modifica

o sostituzione da parte delle associazioni professionali dell’epoca ma anche

perché, in caso di successiva modifica, quest’ultima non spiegava efficacia

nei confronti dei prestatori e i datori non iscritti all’associazione

negoziatrice. In tali circostanze i contratti collettivi corporativi valevano

come norme con la conseguenza che potevano essere derogate solo da

disposizioni di pari rango, ovvero, in caso di disposizioni derogatorie non

introdotte a norma di legge, solo in presenza di condizioni più favorevoli per

i lavoratori.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

La questione più dibattuta era l’inciso “salve successive modifiche” per

capire quale fosse l’efficacia da attribuire ai contratti collettivi mantenuti in

vita.

Quindi sebbene i contratti corporativi, a seguito della caduta

dell’ordinamento corporativo, si fossero trasformati in contratti di diritto

privato, la questione è stata risolta ritenendo che quei contratti mantenessero

ferma l’efficacia erga omnes che era stata attribuita loro dall’ordinamento

corporativo. Altra questione poi era quella di individuare quali fossero le

fonti che avrebbero potuto apportare ai contratti mantenuti in vita le

“successive modifiche” di cui all’art. 43 e fu sostenuto che tali fonti

dovevano essere necessariamente superiori al contratto corporativo e quindi

modificabili solo tramite leggi.

Con quell’inciso, in pratica, era stata restituita all’autonomia collettiva

privata il potere di disciplinare la materia dei rapporti di lavoro mediante

stipulazione di contratti collettivi che, pur non essendo norme, avrebbero

potuto modificare quelli corporativi.32

Va comunque fatto presente che la garanzia di una generale osservanza

del contratto corporativo fu ottenuta in un primo momento con un

provvedimento legislativo anche se fu ben presto abbandonato tale

procedimento mentre i contratti corporativi venivano man mano sostituiti da

quelli collettivi che, non avendo una specifica regolamentazione, venivano

32
F. SANTORO-PASSARELLI, Contratto collettivo e norma corporativa, in Foro it.,
1949, I, p. 1069.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

regolati dalla disciplina dei contratti e per i quali era stato coniato il termine

“contratto collettivo di diritto comune”.

Il contratto collettivo avrebbe dovuto fornire la necessaria tutela per i

lavoratori che fu, in seno alla costituente, uno dei punti cardine da cui

muoversi per scrivere la Legge dello Stato, proprio per evitare che la crisi

del modello liberale si riproponesse con più forza nelle questioni sociali e

nei cambiamenti repentini che la società era destinata a intraprendere. La

Repubblica fondata sul lavoro ha forse proprio nella tutela del lavoro e della

contrattazione il suo punto più debole tanto che il legislatore solo negli

ultimi tre anni è dovuto intervenire ben quattro volte per regolamentare il

mercato del lavoro sempre più sensibile al cambiamento dell’economia.

La vicenda del contratto collettivo, ritornato nell’area della autonomia

privata sembrava destinata, in riferimento alla questione della sua efficacia

soggettiva, a concludersi con l’emanazione dell’art. 39 della Costituzione

Repubblicana visto che questo avrebbe dovuto (o dovrebbe) consentire la

trasformazione del contratto collettivo corporativo, dotato ex se di efficacia

erga omnes, in contratto collettivo dotato di efficacia erga omnes in quanto

stipulato da un determinato organo e tramite una determinata procedura.

In particolare i commi successivi al primo, che stabilisce la libertà

dell’organizzazione sindacale, stabiliscono un particolare procedimento che

permetterebbe ai sindacati registrati presso gli uffici pubblici di ottenere la

personalità giuridica necessaria per acquisire la peculiare capacità

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

contrattuale di partecipare al procedimento di stipulazione di contratti

collettivi aventi efficacia erga omnes.

Tale procedimento prevede la partecipazione dei sindacati in funzione

degli iscritti e per i quali essi partecipano con un numero di voti

proporzionali al numero di questi e quindi, per la ratio giuridica dei commi

terzo e quarto, era da individuare il privilegio che lo Stato concedeva ad enti

associativi di natura privata e lo stesso privilegio sarebbe consistito nel porre

in essere atti con efficacia normativa extra ordinem rispetto ai principi del

diritto privato e quindi di un atto in grado di incidere sulla sfera giuridica dei

singoli al di fuori di un loro atto espresso di volontà.

La seconda parte dell’art. 39 avrebbe così garantito non solo l’efficacia

soggettiva del contratto collettivo neutralizzando il dissenso individuale, ma

anche risolto il problema del conflitto intersindacale.

Il punto fondamentale, come la dottrina non tardò a far notare, era che il

procedimento stabilito dai commi era fortemente influenzato dai modelli

corporativi e la stessa dottrina aveva espresso forti perplessità nei riguardi

dell’impianto della seconda parte dell’art. 39 rinvenendovi un’insanabile

contraddizione con il principio di libertà sindacale enunciata nella prima

parte.

Risultava, così, difficile far convivere il modello pluralistico e

conflittuale nato dal 1° comma con il modello istituzionalizzato e ricco di

elementi ereditati dal periodo corporativo dei commi 3° e 4°. Timori sulla

presenza di un “super sindacato” che avrebbe potuto mettere in ombra il

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

ruolo dei sindacati considerati singolarmente e valorizzati dal primo comma

dell’art. 39 non tardarono a manifestarsi nella dottrina tanto da far affermare

che mai “inadempienza del legislatore ordinario fu assistita da una

maggiore dose di costituzionalità”.33

L’impegno della Costituente non diede i frutti sperati e la seconda parte

dell’art. 39 è rimasto lettera morta lasciando alla legislazione ordinaria di

porre in essere gli strumenti per l’attuazione del procedimento.

I motivi di tale mancanza possono essere ricercati in diversi campi. Per

motivi tecnici visto che per la formazione delle rappresentanze unitarie

sarebbe stata necessaria una precisa determinazione del numero degli iscritti

di ciascun sindacato. Furono presentate diverse proposte in merito quali, per

esempio, l’esibizione degli elenchi degli iscritti alle autorità o la

presentazione di una semplice dichiarazione riguardante il numero degli

iscritti medesimi da parte dei singoli sindacati. Tali proposte non raccolsero

il consenso unitario da parte delle associazioni sindacali.

Motivazioni di natura storico-politica che vedevano la CISL, protagonista

di un acceso contrasto nei riguardi della seconda parte dell’art. 39, che

sosteneva la necessità di non far intervenire lo Stato nelle relazioni

industriali. Dietro questa posizione probabilmente si nascondeva il fondato

timore che le rappresentanze unitarie, costituite su basi proporzionali,

33
Così ROMAGNOLI, Storia del Diritto Sindacale, in Digesto it. Disc. priv. sez. comm.
Utet, Torino, 1989, p.655.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

avrebbero finito con l’attribuire alla CGIL un’assoluta preminenza visto il

numero di iscritti che questa aveva.

Non va dimenticato, infine, l’opposizione dei sindacati che vedevano,

nella seconda parte dell’art. 39, minata la loro libertà visto che la

registrazione richiesta avrebbe inevitabilmente comportato un controllo da

parte dell’autorità governativa o amministrativa affinché potesse verificare

quell’unica condizione richiesta dall’art. 39 e quindi l’esistenza di un

ordinamento interno a base democratica.

L’art. 39 Cost. è stato definito addirittura una “norma sbagliata”34 e la

latitanza del legislatore addirittura “provvidenziale” visto che lo stesso non

avrebbe compreso l’efficacia erga omnes del contratto collettivo, che

avrebbe avuto comunque natura privatistica e non pubblicistica e avrebbe

comportato una imposizione di obblighi fatta a fini di autotutela invece che

una attribuzione di diritti per chi sta fuori da esso.

La dottrina, preso atto della mancata attuazione della seconda parte della

disposizione costituzionale, si trovò a dover risolvere gli stessi problemi che

si erano posti durante il periodo precorporativo, avendo il contratto efficacia

di legge soltanto tra le parti (art. 1372 Cod. Civ.).

34
F. SANTORO-PASSARELLI, Esperienze e prospettive giuridiche dei rapporti tra i
sindacati e lo Stato, in Riv. Dir. Lav., 1956, I, p. 1 ss. (nonché in Saggi di diritto civile,
I, pag. 139 ss.). Nello stesso senso M. PERSIANI, I soggetti del contratto collettivo con
efficacia generale, in Dir. Lav., 1958, I, p. 97 ss.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Tuttavia, quella dottrina, arricchita dall’esperienza corporativa, aveva

preso atto del fatto che il contratto collettivo doveva essere ricondotto ad una

autonomia diversa da quella individuale e quindi collettiva.

Il superamento della dottrina corporativa si è verificato quando si è

attribuita una rilevanza propria all’interesse dei gruppi considerati come

superiori e quindi destinati a prevalere sui singoli e sugli interessi dei singoli

mediante l’affinamento della nozione di interesse collettivo.

Di affinamento si tratta in quanto la dottrina corporativa voleva superare

col contratto collettivo proprio quell’interesse dei singoli, mentre per la

dottrina privatistica la stessa volontà delle associazioni era da considerarsi

collettiva, visto che alla base della volontà vi è l’interesse di una pluralità di

persone verso un bene idoneo a soddisfare un bisogno collettivo e non

individuale.

In questa prospettiva, l’interesse collettivo viene configurato quale sintesi

e non somma di interessi individuali, da questi distinto non soltanto

quantitativamente ma anche qualitativamente e come tale riferito ai singoli

soltanto “uti universi” “giacché è indivisibile, non diversamente

dall’interesse generale”.35

Non mancarono ovviamente la critica a tale impostazione da parte di chi

riteneva che l’interesse collettivo risultava “viziato da un apriorismo

concettuale, da supposte realtà metagiuridiche, non mediata nel linguaggio

35
F. SANTORO-PASSARELLI, Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero, in
Saggi di diritto civile, p. 178

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

normativo”, pertanto “fino a che non si è individuata l’esistenza, nella realtà

normativa, di tale qualificazione, non si può usare la formula descrittiva che

la riassume”36.

Tale teoria è stata, inoltre, criticata perché inadeguata a spiegare

l’inderogabilità del contratto collettivo perché, poggiata sulla teoria del

mandato, era destinata a cedere nel momento in cui si realizzò che le norme

codicistiche “non prevedono certamente che il mandante” debba “restare

fedele alla disciplina dell’affare posta in essere dal mandatario”37

In tale scenario, quindi, quella teoria, arricchita di ulteriori connotati da

parte di quella dottrina che ha specificato che l’interesse collettivo

costituisce la “sintesi di interessi finali e strumentali” dei membri

dell’organizzazione ha fornito la materia prima per la costruzione della

fattispecie sindacale in modo preciso e concreto.

In particolare, è stato precisato che l’interesse collettivo rileva sul piano

del diritto soltanto se, ed in quanto, venga individuato e selezionato dalla

coalizione dei lavoratori organizzati per la propria tutela e quindi il sindacato

non soltanto è l’organizzazione destinata a perseguire l’interesse collettivo,

ma è anche l’organizzazione che determina la rilevanza propria di

quest’ultimo sul piano giuridico formale.

36
Così GIUGNI, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in AA.VV., Il
contratto collettivo di lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, p. 30
37
Così ora CARINCI, DE LUCA TAMAJO, TOSI, TREU, Diritto del lavoro, I, Il diritto
sindacale, Torino, Utet, III ed. 1994.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

In virtù dell’originarietà del potere sindacale si è potuto configurare un

sistema di relazioni intersindacali come vero e proprio ordinamento

giuridico originario in cui il sistema di relazioni industriali, inteso come

organizzazione comune delle fonti sulla produzione giuridica e quindi come

ordinamento, trova origine nel riconoscimento reciproco della propria

funzione rappresentativa tra i sindacati e così le relazioni sindacali possono

essere concettualmente ordinate nella nozione di un ordinamento giuridico

originario e indipendente da quello statuale.

Riassumendo i termini del discorso si può affermare che il problema

dell’erga omnes fu affrontato, inizialmente, facendo riferimento al dualismo

tra privatizzazione e costituzionalizzazione, successivamente il panorama

dottrinario si è fatto più complesso e frammentato a causa dei tanti

cambiamenti indotti dalla rivoluzione tecnologica, dalla crisi economica e

dalla terziarizzazione del mondo del lavoro. La frammentazione della

problematica ha comportato, di conseguenza, una moltiplicazione delle

posizione dottrinali.

Parte della dottrina costituita dai c.d. “trentanovisti”, propugnava

l’intervento legislativo come soluzione idonea al riordino del sistema, altri

sostenevano le capacità del diritto privato di dar risposta a questi problemi,

pur sottolineando la necessità di coordinare gli interventi legislativi per

introdurre procedure per consentire modalità adeguate di rappresentazione

dei vari interessi in gioco.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Sostenitori dello status quo rivalutano il principio di effettività come

collante dell’intero sistema che si pone in alternativa, non tanto alla norma

costituzionale, quanto alla sua attuazione; altri ribadiscono, invece, la

necessarietà di ricondurre il potere di contrattazione al suo unico

fondamento di legittimazione stabilito nel consenso.

Il tentativo di ricostruire il contratto collettivo nell’ottica costituzionale

fa perno solo sul primo comma dell’art. 39 che è ritenuto possedere enormi

potenzialità e gli esponenti di questa dottrina sembrano diretti verso una

“terza via”, a cavallo tra il modello costituzionale e quello privatistico,

configurando il contratto collettivo come capace di definirsi da sé,

costituendo una figura sui generis in grado di assicurarsi autonomamente,

coadiuvato dal diritto civile, gli effetti di inderogabilità e della generale

vincolatività.

La mancanza dell’attuazione dell’art. 39 ha comunque consentito,

all’azione e all’organizzazione sindacale, di esplicarsi secondo i modelli più

adatti alle diverse modificazioni intervenute nelle stesse relazioni industriali

in conseguenza del progresso tecnologico e dell’evoluzione del contesto

politico, economico e sociale nel quale le relazioni si svolgono consentendo

di costruire, di fatto, un sistema sindacale che si basa su un diritto sindacale

“senza norme” ma anche “senza lacune” proprio in virtù del fatto che,

governato direttamente dal primo comma dell’art. 39, il sistema sindacale ha

ottenuto i collegamenti necessari col legislatore che, anche coi suoi silenzi,

ha accolto e fatto propri determinati assetti de interessi ed equilibri.

- 57 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Il comportamento del legislatore va, quindi, considerato anche alla luce

dell’apprezzamento nei confronti di questo “sistema sindacale di fatto”,

espressione del principio dell’autonomia privata e che porta ad attribuire ai

suoi negozi un rilievo ed una tutela eccezionale rispetto a qualsiasi altro atto

si autonomia negoziale.

Non sono mancati tentativi di attuazione dei commi elusi dell’art. 39

come il disegno di legge elaborato nel 1951 dal Ministro del Lavoro

Rubinacci che oltre a dettare norme eccessivamente restrittive in materia di

sciopero, giungeva a stabilire un controllo sull’effettività dell’ordinamento

democratico prevedendo addirittura un potere di revoca delle registrazioni

da parte del Ministro qualora l’associazione registrata avesse commesso

“gravi e reiterate violazioni delle norme statutarie tali da menomare

l’ordinamento democratico”. Altro tentativo fu quello tentato dal CNEL nel

1960 con proposte per l’attuazione degli artt. 39 e 40 Cost. rimasto lettera

morta.

In sintesi, l’art. 39 della Costituzione è norma che attualmente ha ancora

un contenuto valido e condiviso solo con riferimento al primo comma sulla

libertà di associazione sindacale ma manca completamente nella sua parte

attuativa.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

1.5. Dalla Costituzione alla Legge 20 maggio 1970 n. 300

In un contesto di mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione e

nell’esigenza di conferire efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati

nelle more dai sindacati (quali associazioni non riconosciute di diritto

privato), ancora non unanimemente applicati dalle realtà economica, sociale

e giurisprudenziale, che avevano solo iniziato il loro percorso di estensione

in via di fatto anche ai non iscritti, il legislatore italiano, stante anche in

progressivo invecchiamento dei contratti corporativi rimasti in vigore,

decise di seguire via analoga ad altri Stati europei e con la L. 14 luglio 1959,

n.741, delegò il governo ad emanare decreti legislativi aventi come

contenuto l’individuazione di condizioni minime di lavoro, vincolandolo,

tuttavia, ad «uniformarsi a tutte le clausole dei singoli accordi economici e

contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle associazioni

sindacali» prima dell’entrata in vigore della legge (art. 1, L. 741/59).

A parte la disattesa attuazione dei commi successivi al primo dell’art. 39

della Costituzione, la stessa detta regole di tutela. Partendo dalla

consapevolezza che, nel rapporto di lavoro, il lavoratore è strutturalmente

soggetto debole (e non paritario come nei contratti commerciali in regime

privatistico) e, in quanto tale, oggetto di tutele sia di carattere normativo che

di carattere rappresentativo contrattuale. Da questo presupposto nascono gli

articoli che ne disciplinano le tutele:

Art. 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. [..]

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Art. 35 La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed

applicazioni. [..]

Art. 36 Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla

quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a

sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il

lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non

può rinunziarvi.

Art. 39 [..] I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono,

rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare

contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli

appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.[..]

Art. 40 Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo

regolano.

Il passaggio dall’economia di guerra a quella di pace determinò non pochi

problemi in materia di lavoro. L’inflazione incontrollata per effetto dei

pagamenti delle forze di occupazione al Sud; lo squilibrio creato dalla

politica fascista che vietava le importazioni e che quindi causò l’arretratezza

del Sud Italia, ancora essenzialmente agricolo, rispetto al nord delle

fabbriche che poi troveranno impulso dall’attuazione del piano di

ricostruzione nazionale; la disoccupazione (circa due milioni agli inizi del

’46) causata non solo dalla forza lavoro non impiegata più in campo militare

ma anche dagli accordi sindacali sullo sblocco dei licenziamenti dalle

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

aziende per dare adito all’abbandono del regime corporativo del lavoro;

inutilizzazione dei macchinari nelle fabbriche per la scarsa richiesta dovuta

ad un mondo più concentrato sulla ricostruzione che sulla produzione. Va

inoltre ricordato che lo Stato decise di non intervenire più in caso di squilibri

del sistema economico produttivo e ciò, unito alla crisi inflattiva del ’47 e

alla scelta di una strategia politica liberista, produsse una grave crisi del

mercato del lavoro.

La situazione si ‘normalizzò’ solo quando fattori strutturali prevalsero su

quelli congiunturali atte ad attirare ingenti risorse finanziarie ed economiche

per rilanciare la produzione italiana. Il blocco dei salari contribuì a rafforzare

i principali gruppi industriali, in particolare quelli monopolistici, gettando

così in crisi le piccole medie imprese.

La liberalizzazione del mercato dei capitali e delle merci, attuata tramite

la rinuncia alla disciplina dei cambi, la concessione di favori agli esportatori

per le valute e l’abbattimento dei controlli sulle importazioni di merci,

provocò la grave crisi speculativa ed inflattiva dell’inizio del ’47. Fu così

che fu avviata la manovra deflattiva di Einaudi (Ministro del Tesoro

Democristiano).

La linea politica che prevale, al fine di risolvere i molteplici problemi

italiani, è quella di abbandonare la chiusura degli scambi con l’estero e la

politica di protezionismo che aveva caratterizzato il fascismo, per avviare

una progressiva liberalizzazione del mercato, volta a rafforzare gli scambi

esteri. Nel dibattito politico questa sembra l’unica strada percorribile, sia

- 61 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

perché l’Italia è carente di materie prime, ma anche perché l’esportazione di

prodotti finiti all’estero permettono di ridimensionare il galoppante

fenomeno inflazionistico.

Tutto questo si esplicita negli anni con molteplici accordi, sia di carattere

nazionale che internazionale. Si ricordano tra gli altri gli interventi della

Banca d’Italia a sostegno dell’economia nazionale, la politica della

Confindustria volta a dare all’imprenditoria italiana nuove credenziali,

l’adesione dell’Italia al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca

Mondiale e alla CECA (Comunità Europea del Carbone e Acciaio). Questo

processo di integrazione alla comunità internazionale da origine nel 1957,

con la stipula del trattato di Roma, al Mercato Comune Europeo.

La creazione di detti accordi, affiancati al piano Marshall, volto ad

accelerare la ricostruzione in Europa, hanno come obiettivo quello di

sventare una eventuale crisi depressiva economica conseguente alla fine

delle spese belliche, privilegiando la creazione di un mercato di interscambio

internazionale.

Gli aiuti e la scelta di una politica di libero mercato, si manifestano in

Italia con forti cambiamenti sia nel tessuto sociale che nella struttura

lavorativa.

Tregua salariale e sblocco dei licenziamenti per il rilancio dell’economia

non erano state sconfitte dei sindacati ma frutto di accordi fatti che

chiedevano come contromisure il blocco dei prezzi, contingentamento delle

importazioni e una riforma fiscale ma queste richieste furono disattese e

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

l’unione tra blocco dei salari e licenziamenti non riuscirono a rappresentare

il volano per la ripresa della produzione e degli investimenti ma furono

utilizzate dall’imprenditoria industriale per colpire l’intero assetto dei

rapporti con la classe operaia e con il sindacato scatenando così una lotta

sociale senza precedenti per l’ottenimento delle tutele stabilite dalla

Costituzione e disattese dalla prassi.

Di fatto il “compromesso costituzionale che si era realizzato in sede di

Assemblea Costituente...” e “l’accettazione del regime di protezione

americana nell’ambito degli aiuti del piano Marshall”, spinsero diversi

soggetti politici e istituzionali, dallo Stato alle organizzazioni padronali ed

imprenditoriali, ad esprimere i propri interessi ed a sperimentare i nuovi

meccanismi di democrazia, legittimando quindi le proprie identità.

Si assiste quindi in questi anni alla progressiva politicizzazione dei

sindacati che porteranno alla fase dell’egemonia, fase in cui il rapporto di

massa dei partiti si sviluppa grazie al ruolo dei sindacati da essi diretti

(spesso non formalmente schierati politicamente) anche solo

ideologicamente, ma sarà anche la fase dell’avanzata e delle grandi

conquiste del movimento sindacale di classe che durerà fino agli anni ’70 e

che segnerà un ragguardevole arretramento del capitalismo, successivo ad

una crisi che per la prima volta assumerà un carattere in apparenza

irreversibile.

Il 1950 diventa così teatro della nascita degli altri due sindacati

confederati dalla scissione avvenuta all’interno della CGIL dopo che si era

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

portato a compimento il patto tripartito per l’alleanza nazionale. Nascono

nell’ordine il 5 marzo la UIL e il 30 aprile la CISL. Saranno questi tre grandi

sindacati che, per il regime proporzionale previsto dall’art. 39 Cost., saranno

i protagonisti per gli accordi in tema di contrattazione del lavoro.

La convinzione che fosse possibile delegare la ricostruzione all’industria

e la conseguenza assenza dello Stato nella regolarizzazione dei rapporti,

aggiunta alla politicizzazione dei sindacati fece sì che le condizioni in

fabbrica peggiorassero fino ad arrivare ad una vera e propria repressione

sulla base dei ricatti salariali. La politica liberista non fece che aumentare i

problemi visto che l’aumento dell’inflazione aggiunto al blocco salariale

causò un decremento nel potere d’acquisto delle famiglie operaie. In queste

condizioni se non ci fosse stata la ripresa economica sarebbe scoppiata una

rivoluzione sociale senza precedenti.

La liberalizzazione degli scambi commerciali con altri paesi europei, la

riduzione del 10% sui dazi doganali e l’abolizione dei contingenti, grazie

all’intervento del ministro del commercio con l’estero Ugo La Malfa il 1°

novembre 1950, furono insieme le misure che rilanciarono l’economia della

nazione e che mutarono le condizioni del lavoro in Italia. Molto del successo

delle manovre fu dovuto al basso costo della manodopera italiana inferiore

al 40% rispetto a quella europea. Cominciò così per la politica sindacale la

grande lotta per il salario e per la flessibilità in uscita visto che i pensionati

prendevano in un anno poco più di una mensilità del salario di un operaio. Il

processo di industrializzazione, che in realtà conobbe l’Italia a due motori,

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

portò la popolazione a mutare anche le proprie abitudini sociali che

porteranno, negli anni successivi, ad una completa modifica dell’industria

che direzionerà la sua produzione al di fuori degli schemi Taylor-Ford

cominciando ad esternalizzare la propria produzione e modificando le

condizioni dei lavoratori del settore.

L’esigenza di sfruttare al massimo gli impianti induceva alla necessità di

massimizzare lo sfruttamento della forza lavoro massimizzare la produzione

attraverso l’impiego di operai meno pagati, meno specializzati e che

potevano spostarsi dai loro paesi di origine per il posto sicuro in fabbrica.

Questa situazione fu favorita anche dall’implosione del settore agricolo

meridionale che lasciò molte famiglie in una povertà tale che molti furono

disposti a lasciare tutto per immergersi nel profondo nord per un salario che

garantisse almeno il pasto quotidiano38.

Il “boom” degli anni ’50 trovò, come una cambiale in scadenza, il suo

sconto a partire dal 1963 quando si scatenarono le grandi lotte sindacali che

si riaffacceranno alla fine degli anni ’60.

A partire dal 1959 la legislazione in termini di lavoro trovò nuovo

impulso. Per prima vennero estese a tutti i lavoratori le condizioni di lavoro

e le normative contenute nei contratti collettivi; nel 1960 fu fondamentale la

riforma dell’intermediazione di manodopera che consentì di superare il

38
In verità lo stato cercò di intervenire per regolarizzare la situazione istituendo la Cassa
del Mezzogiorno e proponendo una nuova riforma in campo agrario ma per una serie di
motivi questi provvedimenti non andarono a buon fine e anzi negli anni ’60
contribuiranno ad aggravare lo scontro sociale.

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CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

“caporalato” che metteva i lavoratori, specie al sud, in mano ad

organizzazioni criminali e li esponeva allo sfruttamento. La legge operò per

riconoscere condizioni paritarie tra lavoratori dell’appaltatore e

dell’appaltante spingendo verso la prevalenza della “sostanza” sulla

“forma”, una delle caratteristiche fondamentali del “diritto del lavoro”.

Seguì poi la riforma del contratto a termine (1962), vincolando

l’utilizzazione di questo a ben precise condizioni e forme con conversione

in contratto a tempo indeterminato in caso di violazione per evitarne l’abuso

allo scopo di sottrarsi alle norme di tutela del lavoro a tempo indeterminato

(importante per lo sviluppo successivo della normativa sui licenziamenti) e

la legge del 1963 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa

matrimonio.

Il massiccio flusso migratorio del “miracolo italiano” aveva portato ad

una modifica sostanziale della classe operaia che, arricchita dalla massa

contadina in continua emigrazione e con spiccata propensione alla

ribellione, determinarono un inasprirsi di conflitti sociali tra nuovi operai e

classe imprenditoriale che spesso sfociarono in veri e propri episodi di

guerriglia urbana.

La centralità del salario da un lato diventava il vettore della

centralizzazione del conflitto in fabbrica dall’altro attraverso la tematica

degli aumenti uguali per tutti, il che assicurava la massima partecipazione

degli operai comuni poneva le premesse per un attacco a tutta

l’organizzazione del lavoro e assicurava il massimo di spinta conflittuale.

- 66 -
CAPITOLO PRIMO

Il Diritto del Lavoro dalle origini allo Statuto dei Lavoratori

Alla tematica salariale si aggiungeva quella per la riduzione dell’orario di

lavoro, che già aveva ottenuto dei risultati con gli impegni firmati per la

riduzione dell’orario a 44 ore settimanali nell’accordo tra CGIL con FIAT e

Olivetti, ma anche il rifiuto della disciplina in azienda, la critica alle forme

di rappresentanza esistenti, la lotta alla nocività e per il risanamento

dell’ambiente di lavoro. La lotta sindacale ebbe modo di svilupparsi anche

fuori dal contesto della triplice e divenne il caposaldo delle rimostranze

sindacali e degli operai fino a che queste non culminarono nell’approvazione

dello Statuto dei Lavoratori con la L. 300/1970.

- 67 -
CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

CAPITOLO SECONDO
LA FLESSIBILITÀ E I CAMBIAMENTI NELLA DISCIPLINA DEL LAVORO

SOMMARIO:
2.1.Introduzione - 2.2. Flessibilità o precarietà!? Il “Pacchetto Treu” - 2.3. La
“riforma Biagi” e lo staff leasing

2.1. Introduzione

Il modello Taylor-fordista che regolava la produzione in fabbrica in realtà

influenza anche la società per buona parte del ‘900. L’applicazione di questo

modello ha procurato sul mercato novecentesco l’inondazione di beni

standardizzati a basso costo e l’assicurazione di un’accumulazione crescente

di profitti»39. Il principio fondante di questo modello, infatti, era «l’assenza

di limiti» con conseguente possibilità da parte del mercato di essere

illimitato e, allo stesso tempo, con una forza lavoro che può essere impiegata

illimitatamente e incondizionatamente.

39
M. Pedaci, Introduzione, in Flessibilità del lavoro ed equilibri precari. La transizione al
post-fordismo nelle storie di lavoratori parasubordinati Ediesse, Roma 2010, p. 9.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Le caratteristiche di questo modello sono da ricercare nella produzione di

massa, cioè la produzione in grande serie di beni standardizzati, massificati

e a basso costo e nell’economia di scala che affida competitività e successo

alla diminuzione di costi unitari. Ciò significa che ogni problema viene

risolto con la dilatazione dei volumi produttivi, riducendo quindi l’incidenza

dei costi fissi e diminuendo i costi variabili unitari con una semplice

ridistribuzione di unità in regime di autarchia in cui la maggior parte del

ciclo produttivo si svolge all’interno dell’impresa stessa secondo

l’integrazione verticale e nell’accrescimento degli impianti come detto in

precedenza.

Un modello del genere poteva reggere solo fino a che il progresso era

limitato e tale da consentire la produzione in un solo complesso senza

intervento di alta specializzazione esterna, per esempio, dovuta all’avvento

di nuove tecnologie. Quello che accade è che il modello entra in crisi a

partire dagli anni ’60 quando al progresso tecnologico si accompagna la

crescita sociale della popolazione che comincia a comprare non solo per

necessità ma anche per gusto. Il paradosso fu che proprio il modello che

aveva creato ricchezza generalizzata consentendo una modifica della visione

di mercato si trovava a pagarne lo scotto e con esso tutto il modo di intendere

il lavoro che dall’avere necessarietà di continuità ora diventa oggetto di

flessibilità. Le modifiche indotte dal nuovo assetto sociale, quindi, rendono

le misure a salvaguardia del lavoro e dell’occupazione in uscita, un problema

per lo sviluppo dell’impresa in un’economia di libero mercato e sempre più

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

globalizzata. Questo provoca, inevitabilmente, una concorrenza spietata su

scala mondiale, che si traduce non solo in una produzione a costi più bassi

di beni standardizzati, ma soprattutto in un peggioramento delle condizioni

dei lavoratori. Infatti, proprio a causa di questo vantaggio competitivo, i

lavoratori sono costretti a lavorare con bassissimi salari, diritti violati e senza

rappresentanze sindacali. E proprio la forza lavoro è il secondo elemento che

ha fatto entrare in crisi il modello taylor-fordista. Sono infatti gli anni

Settanta gli anni delle «lotte senza compromessi» che hanno portato ad un

cambiamento radicale del rapporto di lavoro.

La sospensione della convertibilità del dollaro nel 1971 e la crisi

petrolifera del 1973 acuirono i problemi economici e conseguentemente

anche l’accettazione della prassi di lavoro intoccabile sancito dalla L. 300/70

cominciò a vacillare nelle menti dei giuslavoristi che, in un’ottica di

superamento delle crisi, iniziarono a ritenere valide anche altre forme

lavorative temporanee che per legge erano vietate.

Per sopravvivere al passaggio dal taylor-fordismo al post fordismo, le

imprese hanno dovuto introdurre delle modifiche funzione del forte sviluppo

tecnologico che ha introdotto all’interno delle aziende micro-computer e

migliori tecnologie informatiche e della comunicazione ma anche

dell’economia dell’appropriatezza (altrimenti detta economy of scope40), con

40
M. Pedaci, Flessibilità del lavoro ed equilibri precari. La transizione al post-fordismo
nelle storie di lavoratori parasubordinati Ediesse, Roma 2010, p. 33.

- 70 -
CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

l’abbandono della produzione di massa in cambio di una produzione just in

time adeguata al luogo, al tempo e al modo in cui le merci vengono richieste.

L’atteggiamento cambiato nei confronti del mercato porta l’impresa a

cambiare tutta la propria struttura organizzativa alleggerendola. Il

conseguente downsizing porta al ridimensionamento dell’azienda stessa in

termini di spazio con la riduzione della sua dimensione visto che con

l’outsourcing gran parte delle strutture utili alla produzione viene effettuata

fuori dal perimetro della fabbrica demandandola ad altre imprese che sono

specializzate in quello. Si evidenzia così un’alta specializzazione settoriale

delle aziende che abbandonano lo schema precedente decentralizzando

opere e conseguentemente lavoro. Il lavoro stabile e duraturo non serve più

a questo tipo di impresa quanto invece può servire la flessibilità e quindi

cominciano i ripetuti tentativi di rendere più flessibili i posti di lavoro sia in

entrata che in uscita. Per dare vita al processo c’è però ancora qualche norma

che “blocca”, a parer degli investitori, il naturale processo di

ammodernamento del settore produttivo ed in particolare quell’art. 18 della

L. 300/70 che tutela il lavoratore dal licenziamento coatto.

Le forme flessibili del lavoro in realtà erano già da tempo state introdotte

nella normativa con, ad esempio la L. 25/55 che introduceva l’apprendistato

rivolto ai ragazzi tra i 14 e 20 anni, che si affacciavano per la prima volta al

mondo del lavoro, per accrescerne le proprie competenze tecnico

professionali. Il contratto poteva avere durata massima di 5 anni e anche

allora, come spesso capitava negli ultimi tempi, questi tipi di lavoro

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

nascondevano una sorta di inganno perché di apprendistato non si trattava,

se non in parte, e l’apprendista veniva spesso utilizzato nel ciclo di

produzione facendolo operare come gli altri tipi di operai e questo al fine di

scavalcare quelle tutele nei confronti dei contratti lavorativi e porre gli stessi

nei parametri della species dei contratti commerciali con conseguente

diminuzione del costo del lavoro a favore dell’imprenditore. Altra norma, la

30/62, introduceva il lavoro a tempo determinato per disciplinare taluni

contratti nello spettacolo e per i lavori stagionali specie nel settore agricolo

della raccolta che necessitava di manodopera aggiuntiva solo per periodi

limitati nell’arco dell’anno.

Per quanto riguarda le tutele per i lavoratori in uscita, fu fondamentale la

L. 604/1966 che segnò il passaggio dal licenziamento inteso come atto di

autonomia privata insindacabile al licenziamento per “giusta causa” o

“giustificato motivo” che impongono una giustificazione al datore di lavoro

che licenziasse un lavoratore e che definiva anche quale fosse il giustificato

motivo trovandolo in motivazioni quali la sottrazione di materiale aziendale

o danneggiamento o inadempienze del lavoratore rispetto al contratto

stipulato ma come ricordato nel primo capitolo il passo più significativo

nella direzione di tutela del lavoro fu fatto con lo Statuto dei Lavoratori

contenuto nella Legge 300 del 1970. Di questa legge ciò che è divenuto negli

anni il pomo della discordia da chi combatte per le tutele sui posti di lavoro

e chi invece, in nome della flexicurity, vorrebbe la completa abolizione per

dare adito al libero mercato nella filosofia neoliberista, è l’art. 18:

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

« Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'art. 7 della legge 15


luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il
licenziamento ai sensi dell'art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento
intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a
norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel
posto di lavoro.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di
cui sia stata accertata la inefficacia o l'invalidità a norma del comma precedente.
In ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque
mensilità di retribuzione, determinata secondo i criteri di cui all'art. 2121 del codice
civile.
Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente è
tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del
rapporto di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione.
Se il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro
non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente
esecutiva.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'art. 22, su istanza congiunta
del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in
ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga
irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo
immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata.
Si applicano le disposizioni dell'art. 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del
codice di procedura civile.
L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'art. 22, il datore di lavoro che
non ottempera alla sentenza di cui al primo camma ovvero all'ordinanza di cui al
quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è
tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo
adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al
lavoratore.»41

Come può vedersi dal testo questo si configurava come una vera e propria

«tutela reale». Va comunque inteso che da tale normativa erano escluse le

piccole aziende in quanto questo è valido solo per le aziende con un numero

di dipendenti superiore a 15 unità.

41
Questa è la versione originaria dell’art. 18 così come contenuta nella L. 300/70 prima
della modifica intervenuta con la L. 28 giugno 2012 n.92

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Dalla seconda metà degli anni ’70 all’inizio degli anni ’90 cominciano i

periodi di crisi economica ciclici che portano a profonde modifiche nel modo

di pensare il lavoro. La crisi, già menzionata, del petrolio del 1973 e la fine

degli accordi di Bretton Woods ha ripercussioni così forti sul mercato che

costringe il legislatore ad ammorbidire sul il rigido garantismo assicurato

per passare verso un garantismo più flessibile con la graduale

liberalizzazione della disciplina sui rapporti di lavoro.

Si susseguono così interventi normativi specifici tra i quali la Legge n.

285 del 1977 che disciplinava l’occupazione giovanile ed era finalizzata

all’introduzione dei giovani nel mondo del lavoro e in particolare quello

agricolo. La legge consente così di stipulare contratti di formazione per i

giovani di età compresa tra i 15 e i 22 anni per un massimo di dodici mesi

non rinnovabili in commistione tra lavoro e formazione. Il risultato finale di

questo provvedimento non fu quello atteso in quanto le assunzioni non

aumentarono quasi per niente nel settore privato e nel settore pubblico la

situazione non fu delle migliori.

Sempre nel 1977 viene approvato il d. lgs. n. 876 per disciplinare la

precedente L. 230/62 nel settore del commercio e del turismo.

La legge che più di ogni altra diede però inizio al lungo percorso verso la

flessibilità fu la 863/1984 che convertiva il decreto 726 del 20 ottobre dello

stesso anno recante “misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli

occupazionali pubblicato in Gazz. Uff. n. 351 il 22/12/1984.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

La legge, in particolare all’art. 3, introduceva forme di lavoro “atipico”

come il «Contratto di formazione lavoro» (CfL):

« 1. I lavoratori di età compresa fra i quindici ed i ventinove anni possono


essere assunti nominativamente, in attuazione dei progetti di cui al comma 3, con
contratto di formazione e lavoro non superiore a ventiquattro mesi e non
rinnovabile, dagli enti pubblici economici e dalle imprese e loro consorzi che al
momento della richiesta non abbiano sospensioni dal lavoro in atto ai sensi
dell'articolo 2 della legge 12 agosto 1977, n. 675, ovvero non abbiano proceduto
a riduzione di personale nei dodici mesi precedenti la richiesta stessa, salvo che
l'assunzione non avvenga per l'acquisizione di professionalità diverse da quelle
dei lavoratori interessati alle predette sospensioni e riduzioni di personale.
2. Fra i lavoratori assunti a norma del comma precedente, una quota fino al
cinque per cento deve essere riservata ai cittadini emigrati rimpatriati, ove in
possesso dei requisiti necessari. In caso di carenza di predetto personale dichiarata
dall'ufficio di collocamento si procede ai sensi del comma 1.
3. I tempi e le modalità di svolgimento dell'attività di formazione e lavoro
sono stabiliti mediante progetti predisposti dagli enti pubblici economici, dalle
imprese e loro consorzi ovvero, anche a livello locale, dalle loro organizzazioni
nazionali e approvati dalla commissione regionale per l'impiego in coerenza con
la legislazione regionale e statale e con le intese eventualmente raggiunte con i
sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale. Nel caso in cui essi interessino più ambiti
regionali ovvero non sia intervenuta, nel termine di trenta giorni dalla loro
presentazione, la delibera della commissione regionale per l'impiego, i progetti sono
sottoposti all’approvazione del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, il
quale, entro trenta giorni, delibera sentito il parere della commissione centrale per
l'impiego. L'approvazione preventiva non è richiesta per i progetti conformi
alle regolamentazioni del contratto di formazione e lavoro concordate tra le
organizzazioni nazionali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative
e nei casi in cui non si richiedano finanziamenti pubblici. In tal caso, i datori di
lavoro sono tenuti, all'atto dell’assunzione, a notificare il contratto all'ispettorato
provinciale del lavoro. Per la realizzazione dei programmi formativi le imprese, gli
enti pubblici economici e i loro consorzi possono stipulare convenzioni con le
regioni.
4. I progetti di cui al comma 3, che prevedono la richiesta di finanziamento alle
regioni, devono essere predisposti in conformità ai regolamenti comunitari. Essi
possono essere finanziati dal fondo di rotazione di cui all'articolo 25 della legge 21
dicembre 1978, n. 845, secondo le modalità di cui all'articolo 27 della stessa legge.
A tal fine le regioni ogni anno determinano la quota del limite massimo di spesa, di
cui al secondo comma dell'articolo 24 della legge predetta, da destinare al
finanziamento dei progetti. Hanno precedenza nell’accesso ai finanziamenti i
progetti predisposti di intesa con i sindacati di cui al comma 3 del presente articolo.
5. Ai contratti di formazione e lavoro si applicano le disposizioni legislative che
disciplinano i rapporti di lavoro subordinato in quanto non siano derogate dal
presente decreto. Il periodo di formazione e lavoro è computato nell'anzianità di
servizio in caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

tempo indeterminato, effettuata durante ovvero al termine dell'esecuzione del


contratto di formazione e lavoro.
6. Per i lavoratori assunti con il contratto di formazione e lavoro la quota di
contribuzione a carico del datore di lavoro è dovuta in misura fissa corrispondente a
quella prevista per gli apprendisti dalla legge 19 gennaio 1955, n. 25, e successive
modificazioni, ferma restando la contribuzione a carico del lavoratore nelle misure
previste per la generalità dei lavoratori.
7. Al termine del rapporto il datore di lavoro è tenuto ad attestare l’attività
svolta ed i risultati formativi conseguiti dal lavoratore, dandone comunicazione
all’ufficio di collocamento territorialmente competente.
8. La commissione regionale per l’impiego può effettuare controlli, per il
tramite dell'ispettorato del lavoro, sull'attuazione dei progetti di formazione e
lavoro.
9. In caso di inosservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi del
contratto di formazione e lavoro, il contratto stesso si considera a tempo
indeterminato fin dalla data dell'instaurazione del relativo rapporto.
10. I lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro sono esclusi dal
computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione
di particolari normative e istituti.
11. Il rapporto di formazione e lavoro nel corso del suo svolgimento può essere
convertito in rapporto a tempo indeterminato, ferma restando l'utilizzazione del
lavoratore in attività corrispondenti alla formazione conseguita. In questo caso
continuano a trovare applicazione i commi 6 e 10 fino alla scadenza del termine
originariamente previsto dal contratto di formazione e lavoro.
12. I lavoratori che abbiano svolto attività di formazione e lavoro entro dodici
mesi dalla cessazione del rapporto possono essere assunti a tempo indeterminato, dal
medesimo o da altro datore di lavoro, con richiesta nominativa per l’espletamento di
attività corrispondenti alla formazione conseguita. Qualora il lavoratore sia assunto,
entro i limiti di tempo fissati dal presente comma, dal medesimo datore di lavoro, il
periodo di formazione è computato nell’anzianità di servizio. La commissione
regionale per l'impiego, tenendo conto delle particolari condizioni del mercato
nonché delle caratteristiche della formazione conseguita, può elevare il predetto
limite fino ad un massimo di trentasei mesi.
13. Le regioni, nell'ambito delle disponibilità dei loro bilanci, possono
organizzare, di intesa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di
lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale, attività di formazione
professionale che prevedano periodi di formazione in azienda. Per il periodo di
formazione i lavoratori hanno diritto alle prestazioni sanitarie previste dalla legge 23
dicembre 1978, n. 833, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché,
attraverso apposite convenzioni stipulate tra le regioni e l’Istituto nazionale per
l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, alle prestazioni da questo erogate.
Entro dodici mesi dal termine dell’attività formativa le imprese hanno facoltà di
assumere nominativamente coloro che hanno svolto tale attività.
14. Ferme restando le norme relative al praticantato, possono effettuare
assunzioni con il contratto di cui al comma 1 anche i datori di lavoro iscritti agli albi
professionali quando il progetto di formazione venga predisposto dagli ordini e
collegi professionali ed autorizzato in conformità a quanto previsto dal comma 3.
Trovano altresì applicazione i commi 4 e 6.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

15. Ferme restando le altre disposizioni in materia di contratto di formazione e


lavoro, quando i progetti formativi di cui al comma 3 sono relativi ad attività
direttamente collegate alla ricerca scientifica e tecnologica, essi sono approvati dal
Ministro, per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e
tecnologica, d’intesa con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale. I predetti
progetti formativi possono prevedere una durata del contratto di formazione e lavoro
superiore a ventiquattro mesi.
16. Il Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica
e tecnologica, ai fini della formazione professionale prevista dai progetti di cui al
comma precedente, utilizza, attivandoli e coordinandoli, gli strumenti e i relativi
mezzi finanziari previsti nel campo della ricerca finalizzata, applicata e di sviluppo
tecnologico, secondo linee programmatiche approvate dal CIPE.
17. Nel caso in cui per lo svolgimento di determinate attività sia richiesto il
possesso di apposito titolo di studio, questo costituisce requisito per la stipulazione
del contratto di formazione e lavoro finalizzato allo svolgimento delle predette
attività.
18. I lavoratori iscritti negli elenchi di cui all'articolo 19 della legge 2 aprile
1968, n. 482, assunti con contratto di formazione e lavoro, sono considerati ai fini
delle percentuali d'obbligo di cui all'articolo 11 della stessa legge.»42

Fra le tante novità introdotte dalla legge compare per la prima volta il

lavoro “part-time” da effettuarsi per una durata di tempo parziale con orari

di lavoro inferiori a quello ordinario e distribuito in riferimento al giorno,

alla settimana, al mese o all’anno in deroga a quanto sancito per legge nei

precedenti disegni.

In una fase successiva si segna la svolta nella promozione della flessibilità

del lavoro con interventi significativi causati dalla congiuntura di recessione

e crisi pratica. In questa fase un ruolo fondamentale è costituito dalle parti

sociali che nel luglio 1993 siglano il c.d. “Protocollo Ciampi”43 (Protocollo

42
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1984-12-19;863
43
http://www.cgil.it/Archivio/Storia/Documenti/12.%20Il%20Protocollo%20Ciampi%20d
el%20luglio%201993.pdf

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle

politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo).

Il protocollo contiene delle indicazioni di intesa tra governo e parti sociali

per l’ottenimento di un tasso d’inflazione allineato alla media dei Paesi

comunitari più virtuosi e finalizzato alla riduzione del debito pubblico e del

deficit dello Stato e della stabilità valutaria. L’Europa, prima ancora che

fosse formata la U.E. “chiedeva” e a pagare era come sempre il lavoro nelle

sue forme. Per rafforzare la competitività delle imprese si pensava, col

protocollo, di attuare misure sull’occupazione nell’ottica che era la

responsabile della crisi. Il nobile obiettivo era quello di difendere il potere

d’acquisto delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici. A fronte della

crisi, come già capitato in passato con la politica dei licenziamenti in epoca

post bellica a causa della forte inflazione, si chiedeva ai lavoratori di pagare

il prezzo della competitività ricevendo in cambio promesse sul

mantenimento del potere d’acquisto. Il protocollo stabiliva dei tassi di

inflazione programmata sulla base degli studi effettuati dal Governo e in

concomitanza con le parti sociali e su quella base si decideva di adeguare le

retribuzioni. Negli anni questa pratica si è mostrata spesso, e non ultimo nel

recente periodo, un boomerang per i lavoratori che in nome di un tasso

programmato di inflazione, sempre sensibilmente più basso di quello reale,

si sono trovati in realtà con una continua e perenne diminuzione del potere

d’acquisto delle retribuzioni che ha portato ad un generale impoverimento

della popolazione. Il protocollo non stabilisce quasi nulla, o meglio

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

praticamente nulla, su come si effettueranno i rilievi per calcolare

l’inflazione programmata e così, anche per le mutate esigenze sociali della

popolazione, il calcolo di quella stessa inflazione è risultato sempre fallace

anche perché i calcoli vengono effettuati sulla base di panieri obsoleti ancora

legati alle abitudini della popolazione nei primi anni ’90.

Il protocollo però conteneva anche importanti misure sulla flessibilità in

concertazione con le Agenzie territoriali del Lavoro e con gli anti locali.

Col primo governo Berlusconi si assiste all’applicazione del teorema

della flessibilità in entrata con la Legge 451/94 44 che all’art. 18 prevede la

fiscalizzazione degli oneri sociali a fronte di assunzioni di lavoratori a tempo

parziale e con l’art. 15 eleva a 32 il tetto massimo di età per accedere ai

contratti di formazione lavoro oltre ad introdurre una nuova figura lavorativa

per i disoccupati di lungo corso oltre i 35 anni per i quali si pensa ai lavori

socialmente utili (LSU).

Oltre a pensare alla flessibilità in entrata, il Governo Berlusconi mette

mano anche a quella in uscita con la riforma del sistema pensionistico

previsto dalla L. 355/95 o c.d. Riforma Dini (dal nome dell’allora Ministro

del Tesoro e successivamente Premier Lamberto Dini) con la quale si

prevede la possibilità della maturazione del diritto alla pensione anticipata a

partire da 57 anni a fronte di una penalizzazione sull’ammontare del

trattamento, oltre alla creazione degli ulteriori due pilastri dati dai fondi

44
http://www.riminimpiego.it/data/Norme/451/indice451.htm

- 79 -
CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

pensione e dalla previdenza individuale. S’introduce inoltre un meccanismo

graduale di passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo con

prestazioni d’importo più modesto. A fronte di quanto detto in pratica il

lavoratore viene inteso in tutto e per tutto come forma capitale della

produzione e come tale viene trattato45.

La riforma era stata intesa per garantire la tutela prevista dall’art. 38 Cost.

“definendo i criteri di calcolo dei trattamenti pensionistici attraverso la

commisurazione dei trattamenti alla contribuzione […]” come la stessa

Legge cita al comma 1 dell’art. 1.

La stessa riforma in materia di lavoro prevede che il contributo

previdenziale per i lavoratori in regime co.co.co. (Contratto di

Collaborazione Coordinata e Continuativa) fosse solo un terzo di quello

classico. Questa misura chiaramente favoriva la speculazione delle imprese

che preferivano così ricorrere a queste forme contrattuali piuttosto che a

quelle più stabili riducendo il costo di lavoro in misura sostanziale.

45
http://www.altalex.com/documents/news/2009/10/05/la-riforma-delle-pensioni-e-i-
tempi-del-capitale-umano

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

2.2. Flessibilità o precarietà!? Il “Pacchetto Treu”

All’esito di un travagliato iter formativo, protrattosi per molti anni, il 24

settembre 1996 i sindacati e il Governo Prodi firmarono un accordo che

diverrà poi la Legge 28 novembre 1996, n. 608:

“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-


legge 1 ottobre 1996, n. 510, recante disposizioni urgenti in
materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno
del reddito e nel settore previdenziale”46

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 281 del 30 novembre 1996 -

Supplemento Ordinario n. 209 e successivamente la legge 24 giugno 1997,

n.196: “Norme in materia di promozione dell’occupazione”, nota come

“pacchetto Treu” che ha reso possibile nel nostro Paese il ricorso al c.d.

lavoro temporaneo o interinale o, per meglio dire, usando i termini stessi

della legge, ha legittimato la “fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo”.

L’ordinamento consente ora che il lavoro venga prestato in una forma

finora ritenuta assolutamente illecita, sia sul piano penale, sia sul piano

civilistico: la legge 23 ottobre 1960 n.1369, infatti, perentoriamente inibiva

qualsiasi forma di interposizione nei rapporti di lavoro, vietando

categoricamente che un’impresa potesse avvalersi nella propria

organizzazione, come sottoposti ai propri poteri direttivi, di lavoratori che

non fossero ad essa legati da un rapporto di lavoro subordinato47.

46
http://www.camera.it/parlam/leggi/96608l.htm
47
Liso, Lavoro interinale in Legge Treu: atti del convegno, in Dir. Prat. Lav. 50/1997

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

La 1369/60, dunque, vietava che un soggetto potesse assumere dei

lavoratori al solo fine di metterli a disposizione di un’impresa, procurando a

quest’ultima la semplice esecuzione di prestazioni di lavoro. Il divieto era,

peraltro, corredato di sanzione: nell’ipotesi di violazione, datore di lavoro

doveva essere considerato non colui che formalmente avesse assunto i

lavoratori, bensì colui che li avesse effettivamente “utilizzati”.

Alla base della 1369/60 stava senza dubbio l’intento fortemente

garantista del legislatore, la sua volontà di proteggere i lavoratori dalle forme

più o meno subdole di sfruttamento della manodopera legate a condizioni di

precarietà del lavoro.

Per lungo tempo questo tipo di preoccupazioni ha alimentato un clima di

diffusa ostilità, soprattutto da parte dei sindacati, nei confronti della

possibilità di introdurre nel nostro Paese il lavoro interinale visto come un

attentato alla solidità delle garanzie poste a sostegno dei lavoratori, ossia

come strumento destinato ad infliggere un duro colpo alla stabilità dei

rapporti di lavoro, peraltro, senza contribuire efficacemente ad arginare il

problema della disoccupazione.

In realtà un primo tentativo di giungere ad una flessibilità sul lavoro fu

fatta dall’allora Ministro del Lavoro De Michelis e inserita nel contesto di

una bozza di provvedimento in materia di flessibilizzazione del mercato del

lavoro che però rimase lettera morta, essendo le parti sociali maggiormente

interessate ad altri temi che si trovavano allora all’esame del Parlamento

(cassa integrazione, mobilità, collocamento).

- 82 -
CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

I sindacati, dal canto loro, manifestarono semplicemente la propria

disponibilità a discutere dell’argomento “lavoro temporaneo” e il loro

atteggiamento fu interpretato come una forma di mera cortesia diplomatica

ma anche le organizzazioni degli imprenditori mostrarono scarso interesse,

probabilmente perché consapevoli che, all’epoca, la controparte sindacale

non avrebbe facilmente prestato il proprio assenso a che si aprisse un varco

nel divieto di interposizione.

Nei primi anni ’90, tuttavia, è intervenuto direttamente il Governo,

facendosi carico di riproporre l’introduzione nel nostro ordinamento del

lavoro temporaneo, peraltro già presente in molti Paesi dell’Unione Europea

nonché oggetto di disciplina da parte degli organi della stessa Unione.

Vede così la luce il decreto legge 5 gennaio 1993, n. 1 (decreto dedicato

ad interventi straordinari per l’occupazione), il cui art.13 rappresenta il

primo tentativo di regolamentazione legislativa del lavoro interinale nel

nostro ordinamento.

Benché non convertito, il decreto ha costituito un importante punto di

riferimento, se non altro perché ha indotto le parti sociali a confrontarsi con

la “portata storica della deroga, sia pur transitoria, alla L.1369/60” e a meglio

precisare le proprie posizioni.

Tra i principali elementi della proposta contenuta nel decreto vi era, senza

dubbio, la necessità di ottenere l’autorizzazione del Ministro del lavoro al

fine di costituire l’impresa di lavoro interinale (ossia la c.d. agenzia), nonché

l’obbligo per l’impresa stessa di iscriversi in un apposito albo.

- 83 -
CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Tale iscrizione era, peraltro, subordinata a condizioni e modalità che un

decreto del Ministro avrebbe dovuto definire, sentite le organizzazioni

sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Il decreto tuttavia, pur introducendo importanti novità, si soffermava alle

sole imprese del terziario ed in particolare faceva riferimento a determinate

qualifiche medio alte.

L’intervento legislativo concretizzatosi nel d.lgs. 1/1993 suscitò

immediate reazioni nelle parti sociali, peraltro impegnate da tempo sul fronte

della lotta alla disoccupazione, in un contesto di crisi strutturale in molti

settori della vita economica.

I delatori del decreto non tardarono a sostenere che il lavoro interinale

doveva considerarsi come precario e quindi che si dovesse considerare né

più né meno che “altro tassello di un più complesso disegno di progressiva

erosione delle garanzie acquisite dai lavoratori negli anni passati”.

Dopo un iter fatto di leggi cui si sperimentarono i diversi Ministri e

Governi che si susseguirono, dall’intesa tra Governo e parti sociali del

settembre 1996 si giunse alla Legge 24 giugno 1997 n.196 nota ai più come

pacchetto Treu, dal nome del Ministro del Lavoro Tiziano Treu.

La legge dedica i primi undici articoli alla disciplina del lavoro

temporaneo dettando poi una serie di disposizioni in tema di contratto a

tempo indeterminato e parziale, di formazione e lavoro, di apprendistato, di

occupazione nel settore della ricerca, di riordino della formazione

professionale etc.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

La legge presentava un approccio di stampo europeo rivelando la sua

natura di “legge concertata” con le parti sociali viste come le più idonee ad

individuare il giusto equilibrio tra le esigenze del sistema produttivo, quello

dei lavoratori e le turbolenze dell’economia mondiale. La legge quindi

ambiva a realizzare una forma di compromesso tra le istanze di flessibilità

provenienti dal mondo imprenditoriale e le esigenze di garantismo che erano

radicate nella cultura del movimento sindacale.

Col Pacchetto si aggiungeva un intermediatore di lavoro tra l’azienda e

lavoratore ultimo. In materia dei lavoratori co.co.co. l’articolo 3 ne introduce

la codificazione:

«Contratto di lavoro per prestazioni di lavoro temporaneo è il contratto con il


quale l’impresa fornitrice assume il lavoratore: a) a tempo determinato
corrispondente alla durata della prestazione lavorativa presso l’impresa
utilizzatrice; b) a tempo indeterminato».

La codificazione permetteva, secondo le stesse ammissioni del Ministro

Treu, di evitare le speculazioni introdotte dalla Riforma Dini che consentiva

a molte imprese di mascherare il lavoratore dipendente da co.co.co. dato che

il pacchetto prevedeva che “I prestatori di lavoro temporaneo non possono

superare la percentuale dei lavoratori occupati dall’impresa utilizzatrice in

forza di contratto a tempo indeterminato […]”.

Il pacchetto introduce anche una importante novità: l’unitarietà spaziale

del luogo di lavoro viene superata in “maniera istituzionale”.

In breve il rapporto di lavoro diventa triangolare e si articola in due

distinti rapporti contrattuali: da un lato si ha un contratto a tempo

determinato o indeterminato tra l’impresa fornitrice e il lavoratore, avente

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

ad oggetto l’assunzione dello stesso lavoratore alle dipendenze dell’impresa

fornitrice che riveste il ruolo di datore di lavoro “formale”(contratto per

prestazioni di lavoro temporaneo); dall’altro si ha un contratto di natura

commerciale tra l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice, con il quale la

prima mette a disposizione della seconda un certo numero di lavoratori da

impiegare per il soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo

(contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo); il rapporto

triangolare si attua dunque mediante l’invio, da parte dell’agenzia, dei

lavoratori temporanei da essa assunti in virtù del primo contratto presso

l’impresa utilizzatrice per la esecuzione delle prestazioni lavorative

concordate.

I lavoratori temporanei, così, pur essendo formalmente assunti

dall’agenzia di lavoro interinale, eseguono la propria opera presso l’impresa

utilizzatrice che si configura come soggetto estraneo al rapporto di lavoro

subordinato che intercorre esclusivamente con l’impresa fornitrice di

manodopera generando una scissione tra titolarità giuridica del rapporto di

lavoro ed effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa così da poter

prevedere la figura di un datore di lavoro “formale” (l’agenzia) e uno

“sostanziale” costituito dall’impresa utilizzatrice.

Formalmente la 196/97 non abroga il divieto di interposizione previsto

dalla 1369/60 ma introduce solo una deroga a tale divieto rigidamente e

dettagliatamente regolamentata.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

In merito a questa questione la giurisprudenza ha sempre escluso

l’abolizione del divieto di interposizione della 1369/60 da parte della 196/97

con varie sentenze della Corte di Cassazione che ha concluso con sent. n.

5232 del 9 aprile 2001 che « l’espressa previsione (art.10, l.196/97) secondo

cui continua a trovare applicazione la l.1369/60, altro non significa se non

che il divieto di interposizione continua a trovare applicazione nei confronti

dell’impresa utilizzatrice che ricorra alla fornitura di lavoro dipendente da

parte di soggetti diversi da quelli indicati all’art 2, l.196/97, ovvero che violi

le disposizioni di cui al precedente art.1, commi secondo, terzo, quarto e

quinto (i quali stabiliscono i casi in cui è consentita o vietata la fornitura di

lavoro temporaneo e dettano la disciplina rispettivamente applicabile al

contratto di fornitura di lavoro temporaneo, che intercorre tra l’impresa

fornitrice e l’impresa utilizzatrice, e al contratto per prestazioni di lavoro

temporaneo, che intercorre, invece, tra l’impresa fornitrice e il

lavoratore)».

La 196/97 nell’introdurre il contratto di fornitura di prestazioni di lavoro

temporaneo ha espressamente chiamato all’art. 10 le norme sanzionatorie

per l’inosservanza dei requisiti soggettivi delle c.d. agenzie di lavoro

interinale e delle norme volte ad allineare il nuovo schema contrattuale alle

garanzie poste a sostegno dei lavoratori nell’ambito del rapporto di lavoro

indipendente e così non ha avuto esigenza di abrogare il divieto di

interposizione previsto dalla 1369/60.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Nonostante i ritocchi verso l’alto predisposti dal Governo Prodi negli anni

successivi, i contributi dei co.co.co. rimasero sempre più bassi di quelli dei

lavoratori stabili, continuando quindi a essere preda gustosa per le imprese

assetate di risparmi. Quindi, non solo il basso contributo previdenziale per i

co.co.co. (sebbene portato al 18%, dopo il 12% voluto dalla Riforma Dini,

ma comunque sempre molto più basso del classico 33% dei lavoratori

stabili) era un forte incentivo per le aziende a reiterare i contratti a termine,

ma questo stesso contributo, così basso, metteva in pericolo le pensioni di

questi lavoratori che si potevano trovare seriamente sotto la soglia di

povertà.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

2.3. La “riforma Biagi” e lo staff leasing

Il decreto attuativo della Legge Biagi, il 276/03, è stato anticipato di due

anni dal Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una

società attiva e per un lavoro di qualità, redatto nel 2001 da un gruppo di

lavoro coordinato da Maurizio Sacconi e Marco Biagi, cui hanno partecipato

anche Carlo Dell’Arringa, Natale Forlani, Paolo Reboani e Paolo Sestito,

con il benestare dell’allora Ministro del Lavoro, Roberto Maroni.

Il Libro consta di due parti: nella prima, si fa un’analisi del mercato del

lavoro in Italia, evidenziandone inefficienze ed iniquità, mentre nella

seconda vengono fatte proposte al fine di promuovere una società attiva ed

un lavoro di qualità. La necessità di redigere il Libro nasce dalla sfida

lanciata dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 e da quello successivo

di Stoccolma del 2001, in cui si è stabilito che «l’Unione Europea deve

conseguire nel corso del prossimo decennio una crescita economica

sostenibile capace di garantire un aumento sostanziale del tasso di

occupazione, di migliorare la qualità del lavoro e di ottenere una più solida

coesione sociale».48

Come si legge in introduzione allo stesso l’intento del Libro è quello di

attuare «una progressiva riduzione degli oneri fiscali e contributivi che

gravano sul lavoro» e di «realizzare il federalismo anche in materia di

mercati e rapporti di lavoro».

48
http://www.uil.it/politiche_lavoro/librobianco.pdf

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Nel Libro si evidenzia come uno dei problemi principali del basso tasso

di occupazione italiana rispetto agli altri Paesi europei sia il Mezzogiorno

che è strutturalmente lontano dagli standard europei sia per quanto riguarda

in generale l’occupazione sia in particolare per quella femminile e gli autori

dettano anche delle regole per superare questo problema attraverso il dialogo

sociale che può costituire il punto di riferimento “per una rinnovata

metodologia nei rapporti tra istituzioni e parti sociali anche a livello interno

configurato come uno strumento volto a conseguire accordi progressivi tali

da essere tradotti rapidamente in politiche orientate ad obiettivi qualificati e

monitorabili”.

L’esortazione al dialogo per le parti sociali è finalizzato al superamento

della rigidità su quello che sembra l’ostacolo principale alla crescita

costituito da quella Legge 300/70 che i sindacati si ostinano a difendere

strenuamente. Biagi non si ferma solo a questo ma si spinge oltre nel cercare

di invogliare le stesse parti sociali a trovare un accordo intermedio che possa

soddisfare sia lavoratori che datori di lavoro. Al centro del dibattito è

indubbiamente la questione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro

che, come suggerito nell’ultima sezione delle Relazioni Industriali

«potrebbe sempre più assumere il ruolo di “accordo quadro” capace di

salvaguardare il potere di acquisto delle retribuzioni minime, di fissare

standard minimi comuni, di assicurare un clima di fiducia reciproca nel

sistema delle relazioni industriali».

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

La trasformazione del Ccnl in un accordo quadro inciderebbe sul suo

periodo di contrattualità e rafforzerebbe, quindi, la contrattazione decentrata

favorendo una struttura retributiva più flessibile. Per non rendere la

contrattazione decentrata sovrapponibile al Ccnl lo stesso Governo, propone

nel libro, di rivedere l’assetto contrattuale al fine di dotarlo di maggiore

flessibilità e di fissare una agenda di discussione da cui poteva derivare un

programma di politiche adeguate a rispondere alle raccomandazioni dell’UE

nell’ambito della Strategia Europea per l’Occupazione che era preoccupata

della crisi perdurante nel mondo del lavoro per l’aver applicato norme non

adeguate allo sviluppo. In pratica Biagi propone un doppio passo verso la

normalizzazione dei mercati prevedendo da un lato delle facilitazioni per

l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e dall’altro delle misure sulla

flessibilità in uscita che rendessero disponibili forme di lavoro più

rispondenti alle esigenze del mercato superando quella rigidità presente nelle

norme ormai antiquate e stabilite agli inizi degli anni ’70 quando la

globalizzazione e la concorrenza mondiale era ancora agli albori.

Uno dei problemi cui fa riferimento lo stesso Libro Bianco è la povertà

educativa dei giovani che si presentavano con un gap rispetto alla media

europea nel numero di laureati nella fascia di età plausibile per l’accesso al

lavoro.

La pubblicità per il lavoro flessibile non finisce comunque qui visto che

propaganda il Libro anche una maggiore autodeterminazione del singolo

verso la scelta di un lavoro che, svincolato dall’esercizio perenne e alienante

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

del lavoro a tempo indeterminato, renderebbe l’individuo più in grado di

cogliere le opportunità che si presentano just in time.

Fondamentalmente il Libro propaganda il liberismo nel mercato del

lavoro al pari del liberismo economico cui l’Europa si rivolge ben conscio

che la forza lavoro è diventata, con il cambiamento della maggior parte delle

imprese da meccaniche a tecnologiche, parte integrante del capitale di

impiego. Il Governo impegna nel Libro anche le Regioni a predisporre dei

Piani di Azione per l’Occupazione per conformarsi alle indicazioni

comunitarie.

Le nuove tecnologie fanno introdurre nel piano economico e del lavoro

un nuovo concetto di collaborazione aziendale configurato nel Telelavoro

che, tra l’altro, configurandosi come atto di diritto privato non ha nemmeno

bisogno di una legge quadro che lo regolamenti stabilendosi sulle norme dei

contratti di natura commerciale e di prestazione di servizi.

Il richiamo alla flessibilità non poteva non tener conto della difficoltà

dell’entrata nel mondo del lavoro per i giovani che terminano gli studi.

L’amara constatazione è che questo accesso è ostacolato non tanto dall’età

quanto dai meccanismi di sistema che ne ostacolano l’accesso con percorsi

e logiche più unilaterali e mirate verso la parte forte del contratto

lavorativo49.

49
Ancora oggi, alla luce del Jobs Act che sembra mirare, anche per le ultime dichiarazioni
del Ministro Poletti, più verso la numerosità dell’impiego che alla alta specializzazione
dello stesso, insistono dei meccanismi farraginosi che bloccano la crescita e l’impiego
giovanile.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Il Governo Berlusconi propose di insistere sul tirocinio di impresa in cui

il tirocinante entra nel mondo imprenditoriale e quindi slegato dal mondo

del lavoro subordinato prevedendo delle misure a sussidio che potessero

funzionare come le borsa-lavoro con sgravi fiscali e agevolazioni

previdenziali per l’imprenditore che si assumesse l’onere di formare il

giovane all’impresa.

La seconda parte del Libro Bianco conteneva delle misure anche

riguardanti gli ammortizzatori sociali che al momento della stesura erano:

1) L’indennità ordinaria, un sistema assicurativo limitato nel tempo e

negli importi per i settori extra-agricoli;

2) La mobilità e la Cassa Integrazione Guadagni (Cig), un sistema più

generoso del primo usato principalmente nel settore industriale;

3) Trattamenti di disoccupazione, usati per lo più come integrazione del

reddito.

Queste misure si erano rivelate insufficienti a soddisfare la necessità di

flessibilizzare il mondo del lavoro, pertanto il Governo Berlusconi espresse

la volontà di estendere le tutele minime, prevedere trattamenti omogenei e

non difformi e minimizzare i possibili disincentivi al lavoro, ovviamente

tenendo conto del nuovo assetto del mondo lavorativo. Tra le varie riforme

proposte, la più interessante e di maggior rilievo fu sicuramente quella degli

incentivi all’occupazione, che necessitavano di un aumento di selettività e

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

di un sistema di sostegno e regime contributivo che potesse favorire la

trasformazione e il ricorso al contratto a tempo indeterminato50.

A distanza di anni si può affermare con certezza che i contratti di lavoro

a tempo indeterminato sono ormai un miraggio della vita lavorativa e i tanti

modelli di lavoro previsti dal Libro Bianco: stage, lavoro a progetto, part-

time; sono tutt’altro che lavori edificanti per la gratificazione personale per

chi oggi si trova nel mondo del lavoro.

Come già accadde per la introduzione nel nostro ordinamento del lavoro

interinale, anche la “Riforma Biagi”51 ha vissuto un lungo periodo di

“gestazione” prima di acquisire forza di legge: ha dovuto, infatti, superare

l’ostilità di chi in essa vedeva un nuovo attentato al sistema di tutele e di

garanzie poste a sostegno dei lavoratori tanto che il d.lgs. 276/2003 attuativo

della legge delega 30/2003 ha impiegato ben 14 mesi per essere approvato

in Parlamento.

La prolungata discussione e il “parto difficile” di questa delega sono da

addebitare ai forti motivi di frizione, trasversali all’intero Parlamento,

relativi alla presenza, nel testo originario, di norme che modificavano l’art

50
«Il Governo ritiene che alla nozione di sicurezza data dall’inamovibilità del singolo
rispetto al proprio posto di lavoro occorra sostituire un concetto di sicurezza conferito
dalla possibilità di scelta effettiva del mercato del lavoro. […] Occorre dunque
incentivare convenientemente il ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato,
così da incrementarne l’uso, evitando, nel contempo, che si diffondano forme di
flessibilità in entrata per aggirare i vincoli o comunque le tutele predisposte per la
flessibilità in uscita» Libro Bianco p. 63
51
D. lgs 276/2003 pubblicato sulla G.U. n°235 del 9 ottobre 2003

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

18 dello Statuto dei lavoratori, inserendo il diritto di licenziamento, e la

struttura degli ammortizzatori sociali.

La svolta decisiva si è avuta nel luglio del 2003, soltanto dopo lo stralcio

di questi due argomenti, con la firma di un Patto tra il Governo e i sindacati

(il quale ha tra l’altro segnato la rottura della Triplice, con la CGIL da un

lato e la CISL e la UIL dall’altro, non avendo la prima aderito all’accordo),

cui ha fatto seguito appunto, nel settembre dello stesso anno, l’adozione del

d.lgs. 276/2003.

La “riforma Biagi”, che rappresenta una innovazione di portata storica,

se consideriamo che lo Statuto dei lavoratori era ammantato di una

intangibilità pressoché assoluta, ha quale obiettivo quello di rendere più

flessibile il mercato del lavoro nel nostro Paese, migliorandone l’efficienza,

sostenendo politiche attive per il lavoro, favorendo la diminuzione del tasso

di disoccupazione, disponendo altresì misure che agevolino l’ingresso dei

giovani nel mondo del lavoro (con un riguardo particolare per le donne e per

le categorie c.d. svantaggiate), cercando infine di accrescere la competitività

delle imprese italiane nel panorama economico ormai “globalizzato” e con

un processo ancora in itinere che continua a creare crisi nel mondo del

lavoro.

L’intento della Legge era quello di massimizzare la flessibilità

dell’offerta di lavoro, oltre che di «aumentare i tassi di occupazione e

promuovere la qualità e la stabilità del lavoro, anche attraverso contratti a

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

contenuto formativo e contratti a orario modulato compatibili con le

esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori»52

Un’importante novità introdotta dalla Legge Biagi fu quella delle agenzie

per il lavoro, che hanno il compito di somministrare, intermediare, ricercare

e selezionare il personale, oltreché di occuparsi della ricollocazione

professionale. All’attività di intermediazione sono autorizzate anche le

università (sia pubbliche che private), le fondazioni universitarie, i comuni,

le camere di commercio, gli istituti di scuola secondaria di secondo grado

(statali e paritari), le associazioni di datori di lavoro e dei prestatori di lavoro

più rappresentative, le associazioni istituzionali e gli enti bilaterali. In ogni

caso, alle agenzie per il lavoro è vietato, nel modo più assoluto, di percepire

denaro da parte dello stesso lavoratore.

Una delle novità enormi previste dal disegno era la Bcnl (Borsa continua

nazionale del lavoro) in cui si potevano incontrare domanda e offerta di

lavoro in maniera da rendere più percepibile dallo stesso cittadino le diverse

possibilità di accesso al lavoro.

Quello che purtroppo la Legge Biagi non è riuscita a fare è stato di

regolamentare il rapporto di lavoro. Piuttosto, si è cercato di diversificare i

modelli e i tipi contrattuali, creando una lunga lista di contratti atipici il cui

unico risultato è stato quello di alleggerire il costo del lavoro delle imprese.

52
D.lgs 276/2003 in attuazione della lg. 30/2003, art. 1, comma 1.

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

“La riforma Biagi” segna, quindi, il superamento del lavoro interinale (o

temporaneo): essa, infatti, introduce, unitamente ad altre nuove tipologie di

lavoro finora sconosciute al nostro ordinamento (job-sharing , job on call),

lo staff leasing, che nel d.lgs. 276/2003 è definito come “somministrazione

di lavoro”: lo staff leasing infatti si propone quale alternativa al lavoro

interinale (dal quale si differenzia, ma del quale al contempo conserva taluni

caratteri pur fondamentali).

La riforma così come formulata cancella il pacchetto Treu ma anche la

1369/60 facendo di conseguenza cadere il divieto dei rapporti interpositori

vecchio di trent’anni prima considerato a lungo forma di tutela per i

lavoratori.

Nell’impianto della 196/97, il contratto di fornitura di prestazioni di

lavoro temporaneo, in forza del quale l’impresa fornitrice pone uno o più

lavoratori, da essa stessa assunti, a disposizione di un’impresa che ne utilizza

la prestazione lavorativa per il soddisfacimento di un’esigenza temporanea

di personale, si pone a monte del rapporto trilatero che si attua tra impresa

fornitrice, impresa utilizzatrice e lavoratore: la regolare stipulazione di tale

contratto, in concomitanza con le altre condizioni di legge, costituisce il

presupposto necessario per attuare la deroga al divieto di interposizione

posto dalla 1369/60.

Il contratto di fornitura rappresenta, dunque, l’elemento portante su cui

poggia l’intero schema trilaterale tipico del lavoro temporaneo tramite

agenzia: proprio in ragione del carattere derogatorio del contratto di

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

fornitura rispetto a quel divieto, il ricorso a tale contratto è stato assoggettato

dalla legge ad una serie di precisi obblighi e puntuali adempimenti, con un

formalismo forse eccessivo e da molti ritenuto paralizzante.

La stipulazione del contratto in parola è, infatti, subordinata alla

sussistenza in concreto di determinate condizioni oggettive nonché al

possesso, da parte dell’impresa fornitrice, di determinati requisiti di carattere

soggettivo (artt. 1 e 2).

Dunque, la legge indica, in maniera dettagliata, quali soggetti possono

stipulare il contratto di fornitura. Per quanto riguarda i soggetti utilizzatori,

l’art 1 delinea un amplissimo quadro: può trattarsi, infatti, di imprese

costituite in forma societaria, ma anche di non imprenditori (per esempio

associazioni e datori di lavoro privati) nonché di pubbliche amministrazioni.

Anche per le pubbliche amministrazioni, il lavoro intermittente tramite

agenzia rappresenta un mezzo per far fronte ad eventuali carenze

temporanee di organico o a situazioni di emergenza, consentendo di superare

i tempi burocratici delle normali procedure selettive del personale.

Questa parte sembrerebbe in contrasto col comma 3 dell’art. 97 della

Costituzione che stabilisce che “Agli impieghi delle Pubbliche

Amministrazioni si accede per concorso” ma questo non corrisponde alla

realtà in quanto, mentre tra P.A. e agenzia di lavoro sorge un mero rapporto

di fornitura, tra P.A. e lavoratore intercorre un rapporto di fatto dato che, per

la forma triangolare stessa del contratto, il lavoratore è legato

contrattualmente alla sola agenzia fornitrice e non alla P.A. va poi rilevato

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

che comunque il lavoratore temporaneo sopperisce solo ad una temporanea

mancanza da parte dell’ente di forza lavoro e non è quindi integrato come

collocato al posto di lavoro. In verità ci sarebbe da aprire un paragrafo a

parte per quest’ultima osservazione in quanto, dopo molti degli ultimi

interventi in salvaguardia dell’economia molte amministrazioni locali si

trovano in perenne emergenza tanto che si affida ormai a titolo indeterminato

a lavoratori della fattispecie per opera delle Regioni e quindi non è affatto

raro avere impiegati delle P.A. che lavorano fianco a fianco con LSU (ad

esempio) cui sono riconosciute molte meno tutele nonostante abbiano

praticamente in taluni casi mansioni di responsabilità maggiori rispetto agli

impiegati per concorso.

Andando per gradi si possono analizzare le varie figure lavorative

atipiche previste dalla Riforma mettendo in evidenza la mancanza di tutele

riconosciute per queste tipologie.

La prima che si incontra è la somministrazione di lavoro (detto anche staff

leasing), contratto sottoscritto tra un utilizzatore (un’impresa) e un

somministratore (un’altra impresa). Tale stipula prevede che il lavoratore

svolga le proprie mansioni per l’interesse e sotto la direzione e il controllo

dell’utilizzatore. Il contratto in somministrazione può essere a tempo

determinato o indeterminato, a differenza di quanto stabilito

precedentemente con il contratto interinale previsto dal Pacchetto Treu. La

legge prevede per il contratto a tempo determinato che sia ammessa a fronte

di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo e si

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

stabilisce che l’individuazione di limiti quantitativi all’utilizzazione sia

affidata ai contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati

comparativamente più rappresentativi (art.10 D. Lgs. 368/01). Il contratto di

somministrazione a tempo indeterminato è un’eccezione ammessa solo nei

casi previsti dallo specifico comma 3 dell’art. 20. Il contratto di

somministrazione viene vietato dalla Legge per la sostituzione di lavoratori

che esercitano il diritto di sciopero; in strutture dove si sono eseguiti

licenziamenti nei sei mesi precedenti di lavoratori con mansioni paritetiche

a quelle che si cerca nel contratto di somministrazione e da parte di quelle

imprese sprovviste di valutazione dei rischi. Per le inottemperanze sono

previste sanzioni penali stabilite dall’art. 650 c.p.. Permangono le garanzie

stabilite dallo Statuto dei Lavoratori anche per i lavoratori atipici per i quali

la retribuzione deve essere pari a quella che spetta ai dipendenti con

identiche mansioni.

Altra forma di contratto prevista dalla Legge è quella di appalto che è

distinta da quella di somministrazione per l’organizzazione dei mezzi

necessari da parte dell’appaltatore, per l’esercizio del potere organizzativo e

direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto e per l’assunzione

da parte dell’appaltatore del rischio d’impresa.

Altre tipologia è il lavoro intermittente che contiene un comma quanto

meno atipico nella stessa misura del lavoro che prevede che in caso di

malattia o altro tipo di impedimento da chi ha dato disponibilità ad essere

chiamato per prestazioni lavorative, lo stesso è tenuto ad avvisare

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

tempestivamente il datore di lavoro specificando altresì la durata

dell’impedimento e specificando poi anche che questa indisponibilità viene

decurtata dal conteggio dell’indennità dovuta per l’aver garantito la

disponibilità al lavoro. C’è da chiedersi come potrebbe una persona malata

conoscere preventivamente la durata della propria malattia e poi con la

mancata corrispondenza di indennità di malattia si va a nuocere una figura

lavorativa che già ha forti carenze retributive.

In questo e altre cose del genere risiede il fallimento della Riforma Biagi

che nelle intenzioni voleva risollevare l’occupazione in Italia e rilanciare la

competitività delle aziende italiane.

Ancora il 267/03 prevede il lavoro ripartito tra due o più lavoratori e con

le modalità stabilite dagli stessi. In pratica, «ogni lavoratore resta

personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera

obbligazione lavorativa» e, nel caso in cui uno dei due decida di dimettersi

o licenziarsi, allora il contratto è da considerarsi estinto per entrambi. Questo

tipo di contratto è a tutti gli effetti un contratto di lavoro subordinato la cui

peculiarità è quella di essere stipulato tra più di due persone: i cooperatori

(di solito sono due) lavorano ad un’unica prestazione di lavoro, ma

alternandosi, dividendosi cioè l’orario di lavoro e sostituendosi

vicendevolmente in caso di impedimenti.

L’articolo 47 è dedicato all’apprendistato per il quale nel maggio 2011

c’è stata una ulteriore riforma per mano del Ministro Sacconi.

- 101 -
CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Ci sono poi, nella Legge Biagi, dei contratti di portata minore, sia per la

frequenza con la quale vengono impiegati, sia per la portata di novità che

hanno. Uno di questi è il contratto di inserimento mirato, appunto,

all’inserimento o al reinserimento nel mercato del lavoro di alcune categorie

di persone con durata non inferiore ai nove mesi e al massimo per diciotto

mesi non rinnovabile.

Le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.) diventano nella

Legge contratti di collaborazione a progetto (co.co.pro.), legati cioè ad un

progetto lavorativo e quindi inevitabilmente a tempo determinato. Come è

stato detto sinora, le caratteristiche del contratto a progetto sono innanzitutto

l’indicazione del progetto di lavoro, individuato almeno nel suo contenuto

caratterizzante. Nel contratto devono essere indicati la retribuzione, i tempi

e le modalità di pagamento, così come la disciplina dei rimborsi spese. Altra

caratteristica molto importante è che il committente si coordini con

l’esecutore nello svolgimento della prestazione lavorativa, evitando però di

condizionare l’autonomia dello stesso lavoratore. Infine, nel contratto

devono essere menzionate le eventuali misure per la tutela della salute e della

sicurezza del lavoratore. I co.co.pro. non includono le prestazioni

occasionali, quelle prestazioni, cioè, che hanno durata complessiva non

superiore a trenta giorni dell’anno solare e che hanno un compenso massimo

di cinquemila euro l’anno. Inoltre, «sono escluse dal campo di applicazione

del presente capo le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è

necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali».

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

Il corrispettivo di un lavoratore assunto con contratto a progetto deve

essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e deve

tenere conto del compenso previsto per un lavoratore autonomo che svolga

le stesse mansioni. Il lavoratore co.co.pro., dal canto suo, deve formalmente

impegnarsi a non collaborare con la concorrenza, né a diffondere

informazioni sul progetto al quale sta lavorando. In caso di gravidanza,

malattia o infortunio, il contratto non viene estinto bensì sospeso, ma senza

erogazione del corrispettivo.

Infine, l’articolo 70 e seguenti sulle prestazioni occasionali di tipo

accessorio rese da particolari soggetti. In questa categoria rientrano i piccoli

lavori domestici, quelli di insegnamento privato, di giardinaggio e cose del

genere rese da categorie precise quali: disoccupati da oltre un anno;

casalinghe; studenti; pensionati. Queste persone vengono retribuite con

voucher lavoro.

Il sogno di flexicurity, incontro tra flessibilità e sicurezza, modello già

adottato e ampiamente condiviso in Olanda e Danimarca, nato nel nostro

Paese negli anni Novanta è stato scalfito da un’inevitabile tendenza alla

precarizzazione del lavoratore, condizione a cui la Legge Biagi ha

contribuito in modo sostanzioso.

Il modello virtuoso di flexicurity dovrebbe prevedere l’armonizzazione

dei livelli di protezione del lavoro con riduzione delle garanzie per gli

insiders che ancora godono di tutte le tutele fordiste ma anche maggiore

formazione; sussidi di disoccupazione elevati condizionati alla

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

partecipazione alla formazione attraverso programmi attivi di ricerca di un

nuovo lavoro e sussidi assistenziali universali che siano subordinati ad una

effettiva prova dei mezzi. Mentre questo sistema funziona in Paesi del nord

europeo qui sembra che le misure atte alla flessibilità creino sempre più

precariato e sempre meno potenzialità concorrenziale per le nostre imprese.

Motivo fondamentale di questo problema risiede di certo nella poca

esperienza e peculiarità riguardo alla flessibilità lavorativa ma anche alla

poca accortezza del legislatore in materia di impiego. La Riforma Fornero,

di cui parleremo nel prossimo capitolo, spingendosi in quella direzione, ha

tolto le ultime garanzie alla impossibilità di eliminare le tutele per i

lavoratori e il Jobs Act non sembra che possa rimediare ad una politica del

lavoro spesso molto più attenta al prestigio fittizio che ne può derivare in

Europa che al reale bisogno del Paese. Le discussioni che si sono avute negli

ultimi 3 anni in Parlamento riguardo alla politica scellerata dell’impianto

Renzi hanno fatto emergere delle serie possibilità di ripresa economica

aumentando il potere d’acquisto delle famiglie con un reddito minimo

garantito che consenta alle stesse di accedere al mercato e quindi alimentare

il mercato interno con maggiori possibilità di posti di lavoro ex novo. Il

Governo, anche con gli ultimi interventi a favore delle Banche in aperto

conflitto con i risparmiatori che si sono visti sottrarre i pochi risparmi che

avevano depositato verso quegli stessi istituti bancari, non sembra voglia

tener conto di questo problema sociale ma che voglia proseguire verso

l’affermazione con forza del proprio primato cambiando di volta in volta le

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CAPITOLO SECONDO

La flessibilità e i cambiamenti nella disciplina del lavoro

regole in gioco. Un modello virtuoso di flexicurity non può non tener conto

del necessario apporto della famiglie al mercato e come previsto in tutti i

Paesi Europei, ad esclusione ormai della sola Italia e Grecia, un reddito di

cittadinanza darebbe una iniezione vitale all’economia e con essa al lavoro.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

CAPITOLO TERZO
LA FLEXICURITY E LE RICHIESTE EUROPEE: IL “JOBS ACT”

SOMMARIO:
3.1. Introduzione - 3.2. La lettera all’Italia e la Riforma Fornero - 3.3. Il rapporto
tra lavoro autonomo e contratto a tutele crescenti nella recente riforma del
mercato del lavoro - 3.4. Il licenziamento discriminatorio e nullo nel Jobs Act -
3.5. La dicotomia dei rapporti di lavoro causata dal d. lgs 23/2015 - 3.6. . Profili
di costituzionalità per il d. lgs. 23/2015

3.1. Introduzione

Come si è visto nei precedenti capitoli, affrontare l’arduo compito di

scrivere norme per il diritto del lavoro, adeguandolo ai cambiamenti della

società, si scontra spesso con gli interessi di una parte o di un’altra. Il

compito del Legislatore dovrebbe, in generale, essere quello di equilibrare

fra le richieste che vengono dalla società. Nella storia e nella prassi si è

consolidato comunque, anche a scapito dei reali interessi della Nazione,

porre in essere normative che soddisfino la parte politica che regge il

governo del Paese piuttosto che equilibrare le richieste. Sarebbe

praticamente impossibile contentare tutti e, specie in materia del lavoro,

diventa quasi impossibile visto che le parti in gioco sono contrapposte dal

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

punto di vista sociale: da un lato le richieste dell’impresa, che per propria

natura vuole trarre il massimo profitto dal suo esercizio, e all’altro capo il

lavoratore subordinato, che dal suo canto vorrebbe riconosciute quelle tutele

che lo vedono in disequilibrio nella bilancia della contrattazione del lavoro.

Di fronte ad un mercato del lavoro in continuo cambiamento, non solo in

Italia, ma in tutto l’Occidente sviluppato, si è cercata affannosamente di

interpretare una trasformazione che molti hanno paragonato a quella

avvenuta un secolo fa nelle industrie con l’avvento del paradigma taylor-

fordista. Come spesso accade nel nostro Paese, l’urgenza di voler dare una

risposta in tempi rapidi al problema ha portato, soprattutto la classe politica,

a confrontarsi non tanto sulle cause di questa importante trasformazione,

quanto a limitarsi a un approccio speculativo-simbolico su alcuni grandi

temi. Si sono così portate avanti negli ultimi anni, battaglie ideologiche

particolarmente aspre, dal continuo confronto sull’art.18 Stat.Lav., che

sembra essere diventato l’unico tassello per risolvere un problema ben più

articolato e complesso e che coinvolge l’intera politica economica e di

bilancio. I cambiamenti in atto sono invece stati approfonditi, forse con

alcuni anni di malaugurato ritardo, da una nutrita schiera di studiosi della

materia, fornendoci un’amplissima bibliografia che però ancora oggi non

riesce a dare un’analisi complessivamente condivisa sul fenomeno, ma che

ci permette di individuare con una certa sicurezza quali sono i fattori in gioco

in questa trasformazione.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

È innegabile che le evoluzioni intercorse nel Marcato del Lavoro hanno

avuto un notevole ed importante riflesso nella legislazione in materia di

lavoro con la progressiva creazione di un corpus di leggi non completamente

slegate tra loro ma collegate attraverso un processo di trasformazioni che si

sono adeguate ai cambiamenti in materia economica. In particolare nei

periodi di crisi, che coinvolgono il nostro Paese nel quadro globale della crisi

internazionale del mondo lavorativo in genere e nell’impiego delle

maestranze nel mondo del lavoro, si sono susseguite una serie di misure per

rilanciare la competitività che si sono rivelate, a stretto di giro di pochi anni

se non mesi, inefficaci nel rilanciare l’occupazione e complessivamente la

politica di investimenti. All’interno di questo complesso percorso vanno ad

installarsi gli ultimi processi legislativi costituiti dalla riforma Fornero (L.

92/2012), dalla Legge Poletti e quel complesso di misure sul mercato del

Lavoro che il Governo Renzi ha inteso chiamare Jobs Act.

Questi disegni cercano di interpretare i cambiamenti degli ultimi anni

analizzando le storture presenti, cercando di porvi rimedio, dando una

risposta alla crisi profonda del sistema produttivo italiano. Non è dato dire

quali siano state e siano le reali intenzioni del legislatore nel porre in essere

misure che in continuazione minano le tutele dei lavoratori subordinati

creando non pochi problemi di ordine sociale che spesso sfociano in veri e

propri scontri. Certamente necessita aver cura del fatto che detti

provvedimenti provengono tutti da maggioranze composite e molto

differenti: da quella protagonista, nel 2001, dei primi provvedimenti in

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

ottemperanza alla richiesta proveniente dal mercato entrato in crisi dopo l’11

settembre, al Governo dei tecnici che varò la 92/2012 (Riforma Fornero) in

risposta alla lettera della BCE sui conti italiani e sulle politiche del lavoro

che erano state protagoniste fino ad allora ad un continuo ricorso a

provvedimenti che, se non peggiorativi, sono stati innocui. Va quindi tenuto

in conto che tali maggioranze hanno operato in seno ad una situazione

profondamente emergenziale per il Paese con pressioni politiche esterne

derivanti anche dal rapporto che ha l’Italia col resto d’Europa. Riforme nel

campo, infatti, sono fortemente volute dalla Commissione Europea e, dalla

nascita della U.E. ad oggi, i Governi hanno dovuto per forza tener conto,

nelle loro linee programmatiche, di ciò che la Commissione Europea

richiede per tenere l’Italia all’interno dei quadri economici di sviluppo del

continente.

Del rapporto tra flessibilità e incremento dell’occupazione, specie

giovanile, si discute da molto tempo, anche in ragione dell’aumento dei tassi

di disoccupazione e delle conseguenti misure da adottare per cercare di

arginare una situazione ormai drammatica. I dati più recenti sulla situazione

dell’occupazione nel Paese ci consegnano degli sconfortanti segnali di

mancata ripresa e inefficacia delle norme applicate per alimentare

l’occupazione in Italia. Nonostante vi sia stato un lieve miglioramento

rispetto ai dati riferiti al 2014, la questione è tale da richiedere interventi

mirati a favorire l’ingresso nel mercato del lavoro soprattutto dei giovani.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Una delle convinzioni più diffuse è quella che l’allentamento della

rigidità della normativa di tutela serva ad accrescere il tasso di occupazione.

Le ricerche empiriche, tuttavia, non mostrano una correlazione virtuosa tra

aumento della flessibilità del lavoro e incremento dell’occupazione.

Ciononostante, negli ultimi anni, gli interventi legislativi in materia di lavoro

hanno avuto ad oggetto anzitutto la riduzione dei vincoli facendo ricorso alle

tipologie contrattuali flessibili, a partire dal contratto a tempo determinato,

per arrivare, negli ultimi mesi, a toccare la disciplina sanzionatoria dei

licenziamenti illegittimi: quella reintegrazione nel posto di lavoro da tempo

additata (non solo) da una parte della dottrina lavoristica come il principale

ostacolo per lo sviluppo economico e per il rilancio dell’occupazione.

In questo senso si muovono anche le linee europee di programmazione

per l’occupazione in previsione per il 2020 e quelle contenute nell’ormai

celeberrima lettera della BCE all’Italia. Il primo documento richiama le

strategie di flexicurity e invita gli Stati membri a valorizzare gli strumenti di

flessibilità interna del lavoro, dedicando un breve, ma significativo, inciso,

alla flessibilità esterna; il secondo, com’è noto, individuava come obiettivi

da raggiungere, tra gli altri, l’adozione di una “accurata revisione delle

norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”.

Tutte queste indicazioni sono state accolte nel nostro ordinamento; prima

con interventi mirati verso alcuni istituti specifici (riforma Fornero), poi con

un intervento che si preannuncia di enorme portata, dal momento che incide

sui principali strumenti di flessibilità interna ed esterna.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Non c’è dubbio, infatti, che il c.d. Jobs Act persegua un disegno di

flessibilizzazione del rapporto di lavoro, intervenendo sulla flessibilità in

entrata, in uscita e sulla flessibilità interna, il tutto nella prospettiva di

“rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di

coloro che sono in cerca di occupazione” (così recita l’incipit del comma 7

dell’art. 1 della L. n.183/2014).

A completare il quadro ci sono le misure di sostegno al reddito dei

lavoratori nel mercato del lavoro che dovrebbero, nell’ottica della

flexicurity, accompagnare i lavoratori nella transizione da un posto di lavoro

all’altro.

Sugli effetti di questa riforma occorre, per ora, sospendere il giudizio,

posto che molti degli interventi in parola attendono ancora, al momento in

cui si scrive, la definitiva traduzione in legge; tuttavia, è possibile svolgere

qualche riflessione sul rapporto tra contratto a tempo indeterminato e le

principali tipologie contrattuali flessibili, che costituiscono gli strumenti di

accesso al mercato del lavoro più utilizzati per i giovani.

Non c’è dubbio che, se un risultato hanno ottenuto, gli interventi seguiti

a partire dal pacchetto Treu, è stato quello di aumentare in maniera

significativa le dosi di flessibilità presenti nel nostro sistema per innescare

lo stimolo all’occupazione giovanile visto che nei dati forniti dall’ISTAT è

quasi più preoccupante la percentuale relativa ai giovani che, da inoccupati,

non si mettono nemmeno in cerca di un lavoro e non accedono agli strumenti

normativi, messi loro a disposizione, a partire dagli incentivi

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

sull’imprenditoria giovanile ai contratti di apprendistato che sono

considerati, ancora nel Jobs Act, il principale veicolo dell’ingresso a lavoro

delle maestranze giovanili. Sembra però che questa flessibilizzazione del

mercato sia una delle principali cause, confermate da indagini sociologiche,

della riduzione di reddito dei giovani cui si accompagna conseguenze

importanti in tema di ritardo nell’uscita dalla famiglia, nell’acquisizione

dell’indipendenza e nelle scelte familiari e procreative. La mancanza di

prospettive future, creata indubbiamente dal non vedere stabilità in quello

che si sta facendo, sta dissuadendo, infatti, tanti giovani dal ricorrere alle

tipologie di lavoro “atipiche” che da «Biagi» in poi, hanno occupato il

mercato del lavoro. Ulteriori indagini sociologiche hanno mostrato poi che

il progressivo impoverimento della popolazione è destinato ad avere effetti

a catena sulle generazioni future perché si ripercuoterà sui sistemi

previdenziali e pensionistici e quindi sul benessere delle persone uscite dal

mercato del lavoro. Praticamente chi si affaccerà tra 20-30 anni sul mercato

del lavoro non potrà più contare sul sostegno della famiglia come fanno i

giovani oggi. Per questo quadro è quindi naturale che, cimentandosi in

materia di lavoro, il legislatore debba tener conto anche di previdenza e

quindi, una qualsiasi riforma in campo del Lavoro non può prescindere da

una riforma anche del sistema pensionistico e previdenziale.

Come impressione personale, rammento che una politica del lavoro

inoltre, dovrebbe innanzitutto pensare a come alimentare le richieste del

mercato, quanto meno interno, perché possa esserci un aumento nella

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

produttività prima ancora che una qualche incentivazione alla competitività.

In questo quadro, a mio avviso, ritengo che un pacchetto di leggi e

provvedimenti che abbia l’ardire di chiamarsi “Jobs Act” dovrebbe pensare

anche a come aumentare il potere d’acquisto delle famiglie, da sempre

fruitrici del mercato, così da innescare un effetto domino benefico

sull’economia interna. Non che i provvedimenti che si stanno adottando non

contengono misure per gli ammortizzatori sociali, ma mi sembra che non ci

siano misure “reali” a salvaguardia di quella larga fetta di popolazione uscita

dal mercato del lavoro anche e soprattutto per causa degli ultimi

provvedimenti legislativi non ultima la riforma Fornero.

Da più parti si levano critiche alla riforma strutturale del Diritto del

Lavoro messa in atto dal Governo Renzi e quindi ormai il mondo del lavoro

si è potuto distinguere in due modi differenti di pensiero:

(i) La tesi dei critici della riforma afferma, in sostanza, che il Jobs

Act determina un drastico ridimensionamento dei diritti dei

lavoratori; a fronte di tali perdite i vantaggi sarebbero pochi e

incerti; la perdita principale riguarda la disciplina dei

licenziamenti, che prevede il superamento dell’articolo 18 dello

Statuto dei lavoratori, con la conseguenza di accrescere

significativamente la possibilità per le imprese di licenziare i

propri lavoratori (o, comunque, di tenerli sotto ricatto con la

minaccia del licenziamento);

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

(ii) La tesi dei fautori della riforma afferma, invece, che il Jobs Act,

ridisegnando in chiave moderna le istituzioni del mercato del

lavoro, con l’introduzione del contratto a tutele crescenti e

l’ampliamento della platea e delle dimensioni dei sussidi di

disoccupazione, avrà l’effetto di accrescere significativamente

l’occupazione.

Come troppo spesso accade, le posizioni che si sono fatte più sentire sono

quelle più estremiste: su un fronte quelle di coloro che vedono il Jobs Act

come nient’altro che un attentato alle conquiste dei lavoratori e che perciò

facevano dell’articolo 18 un totem da difendere a ogni costo; sull’altro quelle

di coloro che vedono il Jobs Act come l’occasione per abbattere quel totem,

e per dare una decisiva sforbiciata, in chiave liberista, alla miriade di vincoli

che, a loro avviso, avviluppano il mercato del lavoro impedendogli di

funzionare. Come pure troppo spesso accade, queste due posizioni speculari

hanno conquistato il centro della scena e hanno finito col sostenersi a

vicenda. La conseguenza è stata che la razionalità e la costruttività del

dibattito ne hanno fortemente risentito. Se si fosse entrati con maggiore

pacatezza e maggiore cognizione di causa nel merito della normativa, il

risultato sarebbe stato probabilmente migliore.

Quindi ora non si tratta di vedere se le misure che si adotteranno per

l’occupazione e il rilancio dell’economia sono valide o meno ma analizzare

a fondo quali saranno i riscontri, nelle ipotesi, di una applicazione delle

nuove norme in materia di lavoro.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

3.2. La lettera all’Italia e la Riforma Fornero

In conseguenza dell’aggravarsi della crisi finanziaria ed economica che

ha colpito i Paesi periferici dell’Unione Europea, fra cui l’Italia, il nostro

Paese nel corso del 2011 è stato destinatario di severi richiami da parte della

Commissione Europea affinché fossero avviate ampie riforme strutturali

dirette al risanamento dei conti pubblici e al recupero di condizioni di

produttività, competitività e occupazione.

Una delle grandi riforme a cui è stato chiamato il Governo Monti,

insediatosi nel dicembre 2011 per “salvare l’Italia”, è stata proprio la

riforma del mercato del lavoro, da tutti considerata necessaria per contrastare

la crescente disoccupazione.

La gravità del fenomeno emerge dalle rilevazioni dell’ISTAT in tema di

disoccupazione e ricerca dei giovani alla prima occupazione.

A causa della ferma opposizione sindacale che temeva uno

stravolgimento dell’art. 18 Stat. Lav., il progetto iniziale del Governo di

intervenire con decretazione d’urgenza è stato abbandonato a favore di un

disegno di legge, che ha subito numerose modificazioni durante i lavori della

Commissione parlamentare del Senato, frutto di inevitabili compromessi fra

le forze politiche della maggioranza.

L’iter di formazione non è stato affatto semplice visto che ha dovuto

superare due voti di fiducia per essere presentato alla Commissione europea

richiedente.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

La riforma Fornero divenne legge senza una vera discussione in

Parlamento e senza emendamenti ma solo al termine di difficili trattative fra

Governo, partiti e parti sociali che produssero una soluzione di

compromesso che, per opposte ragioni, ha lasciato molti insoddisfatti.

La Legge 92/2012 in vigore dal 18 Luglio 2012 si prefiggeva l’obiettivo

di “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di

contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita

sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di

disoccupazione”.

In sintesi, il progetto di Riforma si poneva l’obiettivo di perseguire una

maggiore equità sociale attraverso una riduzione della flessibilità in entrata

nel mondo del lavoro, controbilanciata da una maggiore flessibilità in uscita,

realizzando una più equilibrata distribuzione delle tutele fra i lavoratori

assunti a tempo indeterminato (beneficiari di una legislazione molto

garantista) e i lavoratori precari, i disoccupati e gli inoccupati, titolari di

tutele assai ridotte o nulle.

La concreta traduzione normativa delle finalità dichiarate è stata oggetto

di giudizi opposti ma ugualmente negativi: le imprese hanno ritenuto che a

fronte della minore flessibilità in entrata non si sia realizzata alcuna

significativa riduzione della rigidità in uscita, mentre alcuni sindacati hanno

considerato le modifiche alle norme sui licenziamenti un vero e proprio

attacco ai diritti dei lavoratori. Inoltre le misure di incentivazione

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

all’occupazione e le politiche attive del lavoro erano apparse ai più

insufficienti.

Un primo pacchetto di undici modifiche alla Riforma, frutto di un’intesa

fra il Governo e i partiti che lo sostenevano, fu approvato con un

emendamento alla legge di conversione del d.l. 83/2012 (“decreto

sviluppo”).

Il testo normativo della Riforma – composto da 4 articoli e 270 commi –

interviene sulle seguenti aree tematiche:

• flessibilità in entrata;

• flessibilità in uscita;

• ammortizzatori sociali;

• formazione e politiche attive del lavoro.

Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato veinva definito

dalla Riforma “contratto dominante”, per sottolineare il fatto che esso

rappresenta la forma comune di rapporto di lavoro, la cui istituzione è

favorita dall’ordinamento.

Tuttavia, al fine di garantire flessibilità alle imprese, tanto più necessaria

in una fase di recessione economica, la legge 92/2012 contiene alcune

misure che agevolano la stipulazione del contratto di lavoro a tempo

determinato.

In particolare:

• Viene introdotta la possibilità di instaurare il primo rapporto

a tempo determinato, anche in assenza delle ragioni

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

giustificatrici di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o

sostitutivo, che sono normalmente richieste ai fini della

valida apposizione del termine al contratto (c.d. “causalone”),

ma solo per contratti di durata non superiore a dodici mesi e

senza possibilità di proroga;

• Al fine di consentire il completamento delle attività per le

quali è stato stipulato un contratto di lavoro a tempo

determinato, i limiti temporali entro i quali il rapporto può

proseguire oltre la scadenza del termine – con obbligo del

datore di lavoro di corrispondere una maggiorazione

retributiva, ma senza conversione del rapporto in contratto a

tempo indeterminato – vengono estesi da 20 a 30 giorni (per

i contratti di durata inferiore a 6 mesi) e da 30 a 50 giorni (per

i contratti di durata superiore). Superato tale periodo di

tolleranza, il contratto si considera a tempo indeterminato.

Altro elemento positivo di flessibilità in entrata riguardava

l’apprendistato, che nelle intenzioni del Governo sarebbe dovuto diventare

canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.

La Riforma prevedeva infatti che, nelle aziende che occupassero almeno

10 dipendenti, potessero essere assunti 3 apprendisti ogni 2 lavoratori

specializzati (il precedente rapporto di 1 a 1 veniva mantenuto per le aziende

con un numero di dipendenti inferiore a 10, mentre i datori di lavoro che non

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

avessero alle proprie dipendenze maestranze specializzate potevano

assumere un massimo di 3 apprendisti).

A fronte di tale agevolazione e per favorire la stabilizzazione dei posti di

lavoro, veniva però previsto che i datori di lavoro che occupassero almeno

10 dipendenti non potessero stipulare nuovi contratti di apprendistato se nei

36 mesi precedenti non avessero confermato in servizio almeno il 50% degli

apprendisti che avessero concluso il periodo formativo (percentuale ridotta

transitoriamente al 30% nei primi tre anni di vigenza della legge).

Qualora non fosse stata rispettata la percentuale di stabilizzazione oppure

non fosse stato confermato nessun apprendista nei 36 mesi precedenti, era

comunque consentita l’assunzione di un ulteriore apprendista.

Il contratto di apprendistato doveva infine avere una durata minima di 6

mesi, salva la possibilità di una durata inferiore per le attività stagionali.

Al fine di contrastare gli abusi e un uso distorto delle forme di lavoro

flessibile come mezzo per eludere le tutele previste dalle norme

giuslavoristiche, la Riforma introduceva maggiori vincoli all’utilizzo dei

contratti atipici.

In particolare per quanto riguarda le collaborazioni coordinate e

continuative a progetto (co.co.pro.) le principali novità erano:

• Definizione più stringente del progetto, che doveva essere

“specifico” e non poteva consistere in una semplice

riproposizione dell’oggetto sociale del committente, né

comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

ripetitivi. Il progetto doveva inoltre essere descritto attraverso

l’individuazione del suo contenuto caratterizzante e del

risultato finale che si intende conseguire;

• Eliminazione del concetto di “programma di lavoro o fase di

esso”, più ampio e flessibile;

• Conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo

indeterminato, sin dalla data di costituzione, in caso di

rapporti stipulati senza l’individuazione di uno specifico

progetto (per presunzione assoluta), nonché di quelli in cui il

collaboratore svolgesse la propria attività con modalità

analoghe a quelle tipiche dei lavoratori dipendenti

dell’impresa committente, ad eccezione delle prestazioni di

elevata professionalità, e salva la prova contraria fornita dal

committente;

• Previsione di un “salario di base”, proporzionato alla quantità

e alla qualità del lavoro eseguito e non inferiore ai minimi

stabiliti per ciascun settore di attività in sede di contrattazione

collettiva, che doveva in ogni caso tener conto dei minimi

salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni

equiparabili svolte dai lavoratori subordinati;

• Limitazione della facoltà di recesso anticipato del

committente alle ipotesi di giusta causa e di emersione di

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

profili di inidoneità professionale del collaboratore, tali da

rendere impossibile la realizzazione del progetto.

La Riforma conteneva poi misure di contrasto alle “false Partite Iva”,

utilizzate ai fini dell’instaurazione di rapporti di lavoro autonomo che in

realtà dissimulavano rapporti di lavoro dipendente.

Salvo prova contraria fornita dal committente, venivano automaticamente

riqualificate come rapporti di collaborazione coordinata e continuativa le

prestazioni lavorative rese da un soggetto titolare di Partita Iva, qualora

ricorrevano almeno due dei seguenti presupposti:

• Che la collaborazione con il medesimo committente avesse una

durata complessiva superiore a otto mesi annui per due anni

consecutivi;

• Che il corrispettivo derivante da tale collaborazione (anche se

fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro

d’imputazione di interessi) costituisse oltre l’80% dei corrispettivi

annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due

anni solari consecutivi;

• Che il collaboratore disponesse di una postazione fissa di lavoro

presso una delle sedi del committente.

La riqualificazione del rapporto comportava l’applicazione della

disciplina legale, fiscale e contributiva propria del contratto collaborazione

coordinata e continuativa. Inoltre, in assenza dei requisiti previsti per questa

tipologia contrattuale (ad esempio, in assenza del progetto), si attivava la

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

presunzione assoluta di subordinazione, con l’applicazione del relativo

regime di tutela.

La presunzione non operava qualora la prestazione lavorativa presentasse

i seguenti requisiti:

• Fosse connotata da competenze teoriche di grado elevato acquisite

attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da particolari

capacità tecnico-pratiche, acquisite attraverso significative

esperienze lavorative;

• Il reddito annuo da lavoro autonomo non fosse inferiore a un

determinato livello (pari a 1,25 volte l’imponibile minimo previsto

per il versamento dei contributi previdenziali nella Gestione Inps

degli artigiani e commercianti). Restavano inoltre escluse dalla

presunzione le attività professionali per il cui esercizio è necessaria

l’iscrizione a ordini professionali, albi, ruoli o elenchi.

Sempre nell’ottica del contrasto al “cattivo uso” della flessibilità, la

Riforma interveniva sull’istituto del lavoro accessorio, limitandone l’ambito

di operatività alle prestazioni di lavoro di natura meramente occasionale che

non dessero luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi

superiori a 5.000 euro in un anno solare (mentre in precedenza il limite di

5.000 euro era riferito ai compensi erogati dai singoli committenti).

Inoltre tali prestazioni potevano essere, con l’applicazione della riforma,

rese anche a favore di imprenditori e professionisti, ma per compensi non

superiori a 2.000 euro per committente, nel rispetto della soglia annua di

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

5.000 euro. Il pagamento dei compensi doveva poi avvenire a mezzo di

voucher orari, numerati progressivamente e datati.

Infine la Riforma dispose:

1. L’abolizione dei contratti di inserimento a decorrere dal 1° gennaio

2013, in quanto assorbiti dal nuovo e più organico sistema di incentivi

all’occupazione dei lavoratori svantaggiati previsto dalla Riforma;

2. La conclusione di un accordo fra Governo e Regioni per la definizione

di linee-guida condivise in materia di tirocini formativi e di

orientamento, nel rispetto dei seguenti criteri:

• Previsione di interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto

dell’istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle

modalità con cui il tirocinante presta la propria attività;

• Individuazione degli elementi qualificanti del tirocinio e degli effetti

conseguenti alla loro assenza;

• Riconoscimento di una congrua indennità, anche in forma forfettaria,

in relazione alla prestazione svolta;

• Previsione di sanzioni amministrative (comprese fra 1.000 e 6.000

euro) in caso di mancata corresponsione dell’indennità al tirocinante.

Per aumentare la flessibilità in uscita poi la Riforma ha riscritto

completamente il testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori53

introducendo il licenziamento disciplinare che può essere intimato per cause

53
http://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/10/30/statuto-dei-
lavoratori#titolo2 al momento della scrittura di questa tesi l’art. 18, così come
modificato, resta ancora valido a meno di operazioni di restailing da parte del Governo.

- 123 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

imputabili a colpa o dolo del lavoratore attribuendo alla contrattazione

collettiva o ai codici disciplinari aziendali il compito di tipizzare le

fattispecie che integrano le ipotesi di giusta causa o giustificato motivo

soggettivo.

Tra i più gettonati slogan che hanno preceduto e accompagnato il varo

della riforma, il prediletto ha riguardato le distorsioni della normativa sui

licenziamenti conseguite alle applicazioni fattene dalla magistratura del

lavoro: anzitutto a causa della sua endemica inefficienza e della incapacità

di pervenire al giudizio definitivo sul licenziamento prima del decorso di

parecchi anni, con conseguenze economiche potenzialmente devastanti54 e

poi per la sua pervasiva ideologizzazione, sbilanciata in una sola direzione,

sino a portarla a sostituire il proprio sindacato a quello del datore di lavoro

nell’esercizio della libertà d’impresa, travalicando i poteri conferiti

dall’ordinamento alla funzione giurisdizionale.

Il primo rilievo poggia sulla effettiva situazione di crisi di efficienza della

giustizia del lavoro all’interno della generale crisi della giustizia nel nostro

Paese, gli interventi legislativi di certo non hanno portato benefici rilevanti

volti a favorire una qualche deflazione del contenzioso anche per via

indiretta. Il cambiamento veniva perseguito attraverso l’introduzione ex lege

di una procedura d’urgenza da svolgersi davanti al tribunale in termini

54
In tema, vedi A. Ichino, P. Pinotti, La roulette russa delle cause in tema di licenziamento,
in www.pietroichino.it/?p=19925, e a seguire le pertinenti repliche di alcuni giudici del
lavoro.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

abbreviati come dovevano, e devono ancora oggi con il Jobs Act, essere gli

altri gradi di giudizio.

Le critiche su tali statuizioni devono però partire dal dato di esperienza

che ha visto troppe volte i giudici del lavoro insensibili alle ragioni

d’urgenza addotte dai lavoratori licenziati, ritenute insufficienti nel caso di

avvenuta erogazione del trattamento di fine rapporto o comunque di ritenuta

disponibilità di mezzi economici sufficienti per affrontare i tempi di

giudizio.

La riforma Fornero agiva di imperio trascurando di considerare le

ricadute complessive sulla gestione di tutto il contenzioso di lavoro e

previdenza soprattutto in previsione dell’inevitabile frazionamento delle

domande dello stesso lavoratore in più processi, posto che la procedura

sommaria valesse solo nelle ipotesi regolate dall’art. 18 e che solo ad esse si

potessero associare le domande concernenti questioni relative alla

qualificazione del rapporto di lavoro.

Il giudice del lavoro deve essere «un giudice a cui oggi più di ieri si

richiede grande cultura, profonda conoscenza della società, assoluta

indipendenza di giudizio: con buona pace di chi non si rende conto che una

società aperta, inclusiva e contraria ai privilegi e a volerla seriamente,

posto che nessuno potrà mai sostenere di non volerla e non può fare a meno

della funzione moderatrice della giustizia».

Questo è quanto la riforma Fornero sosteneva e quanto dovrebbe essere

ancora valido.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

3.3. Il rapporto tra lavoro autonomo e contratto a tutele crescenti


nella recente riforma del mercato del lavoro

La funzione di favorire la stipulazione di contratti a tempo indeterminato,

con particolare riguardo a quelli destinati ai giovani, è stata affidata di

recente al contratto a tutele crescenti, cioè alla nuova disciplina

sanzionatoria del licenziamento (individuale e collettivo) illegittimo

introdotta con il d. lgs. n. 23/2015.

Il nucleo centrale della nuova disciplina è proprio l’applicazione ai nuovi

assunti di una disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi in cui la

reintegrazione nel posto di lavoro diventa l’eccezione rispetto al

risarcimento economico, ribaltando così definitivamente la regola presente

fino a quel momento nel nostro sistema (almeno per i datori di lavoro di

maggiori dimensioni). Certo, finché vi saranno lavoratori assunti prima del

7 marzo 2015 la nuova disciplina conviverà con la versione dell’art. 18 Stat.

Lav. modificata dalla L. n. 92/2012; ma non c’è dubbio che si tratta di un

cambiamento di enorme portata, che impone di ripensare modi e forme della

tutela dei diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro e finanche il ruolo del

sindacato.

L’intervento legislativo è stato giustificato in primo luogo con la

necessità di rendere più vantaggiosa la conclusione di un contratto a tempo

indeterminato rispetto alle tipologie atipiche di lavoro, rendendo così

ossequio all’indicazione contenuta nell’art. 1, comma 1, del d. lgs. n.

368/2001, secondo cui il contratto a tempo indeterminato rappresenta la

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

“forma comune” dei rapporti di lavoro. Alla base di una simile posizione c’è

l’idea per cui l’esistenza di una disciplina del licenziamento individuale

illegittimo in cui il lavoratore può essere reintegrato nel posto di lavoro

sarebbe tale da dissuadere le imprese dall’assumere a tempo indeterminato55.

Si tratta di una posizione molto discussa, dal momento che non vi è

unanimità di vedute (neppure tra gli economisti) sul legame tra la rigidità

della disciplina limitativa dei licenziamenti e la propensione delle imprese

ad assumere a tempo indeterminato.

Un bilancio degli effetti del d.lgs. n. 23/2015 sull’incremento

dell’occupazione a tempo indeterminato potrà essere fatto solo tra qualche

anno, una volta esauritisi gli incentivi previsti dalla legge di stabilità e

concluso il periodo di “rodaggio” della riforma; per ora, tuttavia, si deve

registrare che il mantenimento in vita, accanto al contratto a tempo

indeterminato a tutele crescenti, di pressoché tutte le tipologie contrattuali

flessibili pare difficilmente conciliarsi con l’obiettivo di rendere il primo la

“forma comune” di rapporto di lavoro. La flessibilizzazione del rapporto di

lavoro a tempo indeterminato, in altre parole, non si è accompagnata a una

55
In nome di questo presunto timore si riconosce al lavoratore meno tutele “reali” contro
l’ingiusto licenziamento in quanto si lascia una posizione di Dominus, nel contratto di
lavoro, all’impresa che può decidere di mettere fine ad un rapporto di lavoro a propria
convenienza pagando una semplice buonuscita. Una disciplina del genere sul
licenziamento, anche secondo la dottrina, potrebbe dar luogo ad una serie di
licenziamenti illegittimi derivanti da ragioni non definite. In un Paese come il nostro, in
cui le assunzioni di favore, in particolare per la politica o per atti compromissori, questa
misura andrà ad aggravare ancor di più la situazione anche ed in virtù del fatto che il
giudice che dovesse valutare la controversia non avrebbe i necessari meriti per
comprende a fondo le ragioni del licenziamento. In accordo l’imprenditore potrebbe
evitare il dibattimento riconoscendo in automatico l’indennizzo per evitare che si
scoprano proprie strategie losche nel mercato.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

forte restrizione dell’accesso alle forme contrattuali a durata limitata o

diverse dal lavoro subordinato, ma solo a una limitazione numerica del

ricorso alla flessibilità, peraltro ampiamente superabile dalla contrattazione

collettiva, anche di livello aziendale. Ciò rimane vero anche se si guarda alle

prospettive di riforma e di riordino della materia, cioè alle previsioni della

legge delega n. 183/2014 e al contenuto dello schema di decreto attuativo

presentato al Consiglio dei Ministri del 20 febbraio scorso.

Nello schema citato si prevede la cancellazione del lavoro a progetto e il

superamento dell’associazione a partecipazione con apporto di lavoro

subordinato riconducendo al lavoro subordinato le collaborazioni che si

concretizzano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali,

continuative, di contenuto ripetitivo e con modalità di esecuzione

organizzate dal committente con riferimento ai tempi e luogo di lavoro. In

pratica questa prassi era già identificata e quindi la previsione dell’art. 47

dello schema di decreto legislativo attuativo della delega sulle tipologie

contrattuali flessibili fotografa una situazione di diffusa elusione della

disciplina del lavoro subordinato cercando di ricondurla alla fisiologia dei

rapporti di lavoro. Stesse osservazioni possono valere per l’art. 48 che ai fini

della promozione dell’occupazione stabile, consente ai datori di lavoro di

assumere con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato

lavoratori precedentemente ingaggiati con forme atipiche del lavoro o anche

soggetti titolari di partita IVA.

- 128 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Qualsiasi siano i giudizi che si vogliono dare sulle disposizioni del

decreto attuativo ciò che emerge è il riconoscimento di un mercato del lavoro

in cui non solo il lavoro autonomo è utilizzato spesso in alternativa al lavoro

subordinato ma anche in cui il lavoro autonomo non consente di accedere ad

un livello retributivo e alle medesime sicurezze del contratto di lavoro

subordinato.

Per dare inizio al Jobs Act è stato utilizzato lo strumento del decreto

legge, stante la straordinaria necessità e l’urgenza – come si evince dalla

Relazione accompagnatoria – di provvedere all’emanazione delle

disposizioni ivi contenute volte alla semplificazione di due forme

contrattuali (contratto a termine e apprendistato), al fine di rilanciare

l’occupazione (specie quella giovanile), nonché volte alla semplificazione

degli obblighi delle imprese datrici di lavoro. Il decreto, che si compone di

cinque articoli suddivisi in due capi, contiene, inoltre, anche interventi diretti

all’aggiornamento delle procedure per l’incontro tra domanda e offerta di

lavoro, nonché alla smaterializzazione del documento unico di regolarità

contributiva (DURC). Ulteriori norme riguardano, infine, l’aumento delle

risorse finanziarie destinate a sostenere i contratti di solidarietà, riducendo il

carico contributivo dei datori di lavoro che ne hanno fatto, o ne faranno, uso.

L’art. 1 del decreto interviene sul contratto a temine, anche di

somministrazione, introduce significative novità alla disciplina di cui alla

Riforma Fornero e successivamente semplificata dal decreto-lavoro

Giovannini-Letta, entrambe misure a modifica della legge Biagi.

- 129 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

La Riforma Fornero, come modificata dal decreto Giovannini-Letta

aveva già previsto l’ipotesi di un contratto a termine (anche di

somministrazione) c.d. acausale, cioè senza l’indicazione di ragioni

giustificative all’apposizione del termine contrattuale, purché fosse il primo

rapporto di lavoro instaurato tra le parti e per una durata massima di 12 mesi

(comprensivo dell’eventuale proroga). Nonostante tali limitazioni, il

legislatore lasciava comunque alla contrattazione collettiva e alle parti

sociali il potere di prevedere altri ed ulteriori ipotesi di acausalità dei

contratti a termine ad integrazione della disciplina legislativa. Quanto alla

disciplina generale sui contratti a termine, la Riforma Fornero, come poi

modificata, fissava un intervallo di tempo che doveva necessariamente

intercorrere tra un contratto a termine ed il successivo, intervallo che

dall’originario stop and go dei 60 o 90 giorni (a seconda che si fosse in

presenza di contratti a termine di durata inferiore o pari a 6 mesi ovvero

superiore a 6 mesi), era divenuto, con il decreto-lavoro, 10 o 20 a seconda

di uno dei casi sopra visti. La disciplina limitativa in questione non trovava

comunque applicazione per i lavoratori stagionali e quelli in mobilità a

seguito di una procedura di licenziamento collettivo.

Il D.L. 34/2014 prevede oggi che il contratto a termine, anche di

somministrazione, c.d. acausale, stipulabile per il 20% dell’organico

complessivo (tranne nell’ipotesi di imprese che occupino fino a 5

dipendenti), possa avere una durata compresa tra i 12 e 36 mesi e possa

concludersi anche in presenza di pregressi rapporti tra lavoratore e datore di

- 130 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

lavoro. Resta ferma ed anzi viene ampliata l’autonomia contrattuale

collettiva, che potrà prevedere modifiche al limite quantitativo dei contratti

a termine, tenuto conto, a seconda dei casi, delle esigenze di sostituzioni e

di stagionalità. Altra importante novità è quella che consente la proroga di

tali contratti (non più per una sola volta, ma) fino a 8 volte entro il limite

massimo di 3 anni di durata contrattuale del rapporto, a condizione che si

tratti della medesima attività lavorativa per la quale è sorto il rapporto di

lavoro cosa che consentirebbe così di avere un maggior tempo a disposizione

per valutare il lavoratore e semmai rendere il contratto definitivo. È, infine,

priva di effetto ogni previsione che apponga un termine al rapporto

contrattuale se non risultante, direttamente o ‘indirettamente’, da un atto

scritto.

L’art. 2 del decreto interviene poi sul contratto di apprendistato con

modifiche volte alla semplificazione dell’istituto in questione ed, in

particolare, con le seguenti previsioni:

 È richiesta oggi la forma scritta solo per il contratto ed il patto

di prova, e non per il piano di formazione individuale, come

invece richiesto in precedenza;

 L’eliminazione della subordinazione per le nuove assunzioni

di apprendisti alla conferma in servizio di precedenti

apprendisti al termine del percorso formativo;

 Fatta salva l’autonomia collettiva, il decreto prevede che la

retribuzione dell’apprendista, per il contratto di apprendistato

- 131 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

per la qualifica e per il diploma professionale, debba fare

riferimento per intero alle ore di lavoro effettivamente prestate

ed al 35% del monte ore complessivo di formazione; diviene,

inoltre, discrezionale, e non più obbligatorio, per il datore di

lavoro, l’integrazione della formazione di tipo

professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa

pubblica.

Ulteriori disposizioni del D.L. 34/2014, come sopra anticipato,

riguardano:

1. La parità di trattamento (prevista dal Reg. CE n. 884/04) dei

cittadini in cerca di occupazione nei territori UE (art. 3 del

decreto): vengono introdotte disposizioni volte a facilitare

l’accesso ai Servizi per l’Impiego per tali cittadini

indipendentemente dall’ambito territoriale di residenza degli

stessi e a rendere operativa la cd. Garanzia Giovani;

2. La smaterializzazione del DURC (art. 4 del decreto): in

sostanza si demanda ad un D.M., da adottarsi entro 60 giorni,

l’individuazione delle specifiche tecniche volte ad innovare il

pregresso sistema, eliminando gli adempimenti burocratici

attualmente vigenti e volte a completare la c.d.

«telematicizzazione» della verifica della regolarità

contributiva delle imprese nei confronti di INPS, INAIL e

Casse Edili. L’interrogatorio “telematico” sostituirà il DURC

- 132 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

a tutti gli effetti ed avrà validità di 120 giorni dalla sua

acquisizione;

3. Il contratto di solidarietà (art. 5 del decreto): anche qui viene

demandato ad un D.M. da adottarsi ad opera del Ministero del

Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero

dell’Economia e delle Finanze, l’individuazione dei criteri di

scelta dei datori di lavoro che potranno godere di tale

beneficio entro i limiti delle risorse disponibili.

- 133 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

3.4. Il licenziamento discriminatorio e nullo nel Jobs Act

Ad una prima analisi sembra che la disciplina prevista dall’art. 2 del d.

lgs. 23/2015 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo

indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014,

n. 183.) riproduca pedissequamente quanto previsto dal vigente art. 18 Stat.

Lav. così come modificato dalla 92/2012.

In realtà bisogna analizzare a fondo la questione interpretando

testualmente la loro effettiva e integrale sovrapponibilità per approfondire

sul licenziamento discriminatorio e le ipotesi di licenziamento nullo visto

che solo per queste fattispecie (e per l’insussistenza del fatto materiale nei

licenziamenti disciplinari) sopravvive ancora la reintegrazione.

La Riforma Fornero aveva già operato un incisivo restringimento in

materia di tutela reale lasciando prevedere un incremento di pronunce

giurisprudenziali e una conseguente valorizzazione della tutela

antidiscriminatoria. Visto che queste previsioni alla fine non si sono

pienamente avverate è opportuno dedicare una riflessione sul tema in una

analisi della nuova disciplina riguardante la riforma strutturale del diritto del

Lavoro.

Dal confronto tra l’art. 2 comma 1 del decreto delegato col primo comma

dell’art. 18 Stat. Lav. Già affiorano delle piccole differenze almeno nella

terminologia con due eliminazioni e due aggiunte che pongono dei dubbi

sull’effettiva sovrapponibilità data la prassi lex tam dixit quam voluit.

- 134 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

La sostituzione della parola “sentenza” con “pronuncia” non può essere

interpretato solo come un’operazione di drafting in quanto erroneamente la

92/2012 aveva adoperato impropriamente la prima in quanto con la modifica

del rito per l’impugnazione dei licenziamenti, non si ha conclusione nel

primo grado con una sentenza ma con un’ordinanza immediatamente

esecutiva e quindi probabilmente per questo si è avuta la sostituzione del

termine da parte del legislatore visto che il termine “pronuncia” può adattarsi

sia alle sentenze che alle ordinanze.

In realtà, se così fosse, questa sostituzione lessicale si sarebbe potuta

evitare, visto che il provvedimento cita “ai licenziamenti di cui al presente

decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell’art. 1

della legge n. 92 del 2012”, cioè il rito Fornero, bensì il previgente rito del

lavoro, in cui il giudice, a norma dell’art. 429 c.p.c., pronuncia una sentenza.

Forse si tratta solo di un eccesso di zelo del legislatore delegato, ma potrebbe

anche essere l’implicita ammissibilità del ricorso ex art. 700 c.p.c. per

chiedere al giudice la reintegrazione con provvedimento d’urgenza. E ciò

non è un particolare trascurabile, dato che la questione dell’incompatibilità

tra rito Fornero e ricorso ex art. 700 c.p.c. ha occupato per lungo tempo i

Tribunali, spesso con soluzioni contrastanti56. Inoltre, è opportuno segnalare

che, già trent’anni prima della Riforma Fornero, erano stati sollevati dubbi

56
In merito si possono vedere le linee guida adottate dal Trib. di Firenze il 17/10/2012 che
ammette incompatibilità tra rito Fornero e azione ex art. 700 c.p.c. o anche quella del
Tribunale di S. Maria Capua Vetere del 12/2/2013

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

sulla compatibilità tra rito del lavoro e procedimenti cautelari dalla dottrina

e quindi potrebbe essere la scelta del legislatore mirata.

Per verificare i cambiamenti, se si sono avuti, si deve prima di tutto

analizzare l’ambito di applicazione oggettivo dell’art. 2 del decreto per

constatarne la corrispondenza con l’art. 18 comma 1 in discussione e cioè in

quali casi si utilizzano le tutele previste.

La rubrica dell’art. 2 si riferisce espressamente ai licenziamenti

discriminatori, nulli e intimati in forma orale come per il comma 1 dell’art.

18 ma il perimetro disegnato dalle due norme non sembra essere

perfettamente coincidente.

Dalla formulazione è stato eliminato, in seguenti rivisitazioni, il

riferimento all’art.3 L. 108/90 che si richiama a sua volta all’art. 15 Stat.

Lav. sugli atti discriminatori. Questa eliminazione poteva essere interpretata

come una dilatazione del licenziamento discriminatorio, non più circoscritto

nell’alveo dell’elenco dei motivi indicati espressamente dall’art. 15 Stat.

Lav. e portare di nuovo al dibattito sulla natura tassativa o esemplificativa

delle ragioni discriminatorie ed essere interpretato come implicito

accoglimento della seconda tesi.

Per evitare confusione la Commissione Lavoro del Senato ha segnalato

l’opportunità di “definire meglio il perimetro applicativo dell’articolo con

ripresa, senza variazioni, dell’elenco di criteri di differenziazione vietati

contenuto nell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori”. Tale parere è stato

accolto e l’art. 2 del d. lgs. 23/2015 si riferisce espressamente al

- 136 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

licenziamento “discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20

maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni”.

Nella formulazione dell’art. 2 del decreto è stato eliminato il

licenziamento nullo così come inteso nell’art. 18 sintetizzato invece nella

formula “ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente

previsti dalla legge”. Fatta eccezione per l’aggiunta di “espressamente” che

sembra chiudere un po’ di campo ai casi previsti dall’art. 18 per le ipotesi di

nullità per il resto non è che uno snellimento del testo visto che in ogni caso

i casi elencati nell’art. 18 sono tutti previsti in via normativa.

Proprio sull’aggiunta dell’avverbio, che a seconda dell’interpretazione

del riferimento di “espressamente” alla nullità del licenziamento o alla

nullità del negozio giuridico, la Commissione Lavoro del Senato aveva

invitato il Governo a fare chiarezza sul punto è rimasta inascoltata e il

decreto non ha avuto modifiche in tal senso.

Lo spirito della riforma è molto chiaro, come si rileva chiaramente dalla

relazione che ha accompagnato lo schema di decreto: la finalità perseguita è

quella di “riservare la tutela reintegratoria per il lavoratore licenziato

oralmente o per ragioni discriminatorie (e per insussistenza del fatto

materiale nei licenziamenti disciplinari)”. L’obiettivo è, quindi, quello di

limitare il più possibile il campo della tutela reale. Nella relazione, a

differenza da quanto indicato all’art. 1 comma 7 lettera c) della Legge delega

183/2014, inoltre non è fatto alcun cenno ai licenziamenti nulli.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Dal confronto tra art. 2 del decreto e art. 18 si riscontra poi la

soppressione del riferimento al licenziamento per motivo illecito

determinante di cui all’art. 1345 c.c. e questo dà luogo a diverse

interpretazioni di cui la più interessante, se vera, farebbe pensare ad una

volontà di eliminare la tutela reintegratoria per questa fattispecie

comportando un restringimento di fatto oggettivo del campo di applicazione

della reintegrazione in quanto verrebbe eliminata una fattispecie a cui l’art.

18 riconduce la tutela reale.

In realtà potrebbe tranquillamente essere che la soppressione del

riferimento al 1345 c.c. sia dovuta all’espressa previsione di legge che

sancisce la nullità del licenziamento per motivo illecito determinante che

può trovarsi nel secondo comma dell’art. 1418 c.c. che sancisce la “nullità

del contratto” anche nelle ipotesi di “illiceità dei motivi nel caso indicato

dall’articolo 1345 c.c.” in quanto questa norma, sebbene riferita al contratto,

è pacificamente applicabile anche agli unilaterali come il licenziamento

come stabilito da sentenza n. 11191 Cass. il 29 luglio 2002.

Il regime di tutele apprestato dall’art. 2 si applica anche al licenziamento

dichiarato inefficace perché intimato in forma orale e la tutela reintegratoria

si estende anche all’ipotesi di licenziamento collettivo senza forma scritta

come affermato dall’art. 10, primo periodo, del decreto delegato.

In aggiunta si è introdotto, poi, altro comma all’art. 2 per applicare tale

disciplina anche alle ipotesi in cui il motivo di recesso consista nell’addotta

disabilità fisica o psichica del lavoratore e il giudice ravvisi difetto di

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

giustificazione. La norma richiama espressamente l’art. 4 comma 4 e art. 10

comma 3 della L. 66/99 e cioè sia quando il lavoratore divenga inabile allo

svolgimento della proprie mansioni in seguito di un infortunio o malattia sia

qualora il dipendente assunto come disabile subisca un aggravamento delle

proprie condizioni di salute.

Nello schema di decreto delegato questa ipotesi era inserita nell’art. 3,

concernente il licenziamento per giustificato motivo e giusta causa, e veniva

sanzionato con la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e il

pagamento di un’indennità risarcitoria con una soglia massima di dodici

mensilità. In sede di approvazione definitiva del decreto si è ritenuto di

estendere a questa ipotesi la tutela più forte, che, oltre alla reintegrazione nel

posto di lavoro, non prevede un tetto massimo di indennità risarcitoria, bensì

la soglia minima di cinque mensilità. Questa si presenta senz’altro come una

novità rispetto all’assetto previsto dall’art. 18 St. lav., che inserisce “l’ipotesi

in cui (il giudice) accerti il difetto di giustificazione del licenziamento

intimato […] per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o

psichica del lavoratore” nel comma 7, concernente il licenziamento per

giustificato motivo oggettivo. Si tratta, quindi, di un ampliamento della

tutela, che è ora riconducibile – per gli effetti – al licenziamento

discriminatorio, e in ciò potrebbe ravvisarsi un eccesso di delega rispetto alle

previsioni della legge n. 183/2014 57.

57
http://csdle.lex.unict.it/Archive/.../20150127-121048_marazza_n236-2015itpdf.pdf

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Ancora nel confronto si nota la mancanza di riferimento al licenziamento

intimato in violazione dell’art. 2110, co. 2, cc. Per presunto superamento del

periodo di comporto e nemmeno pare si inglobi tale fattispecie nel dato

letterale perché all’art. 18 la formulazione viene accompagnata dalla

previsione espressa dalla violazione del cu sitato art. 2110. La

riconducibilità di questa ipotesi di recesso al licenziamento per inidoneità

psicofisica sembra macchinosa in quanto la giurisprudenza distingue la

malattia, temporanea, dall’inidoneità, permanente o quantomeno di durata

indeterminabile anche se è possibile individuare una inversione di tendenza

nella pronuncia che assimila la malattia all’handicap, con conseguente

dichiarazione di nullità del licenziamento considerato discriminatorio.

In ambito soggettivo il 23/2015 si applica, a norma dell’art. 1, “ai

lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati e quadri, assunti

con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere

dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dal 7 marzo 2015” e quindi

si escludono i dirigenti che invece erano contemplati nell’art. 18.

Il comma 2 del su citato art. estende poi l’applicabilità anche ai contratti

convertiti da lavoro a tempo determinato o di apprendistato in contratto a

tempo indeterminato sollevando dei dubbi di costituzionalità in relazione

all’art. 76 Cost. in quanto la conversione non è da ritenersi come assunzione

ex novo.

La disciplina per i datori di lavoro non distingua tra imprenditori e non al

1 e 2 comma sia nel decreto che nello statuto ma, mentre l’art. 18 prevede

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

che la tutela reintegratoria nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio o

comunque nullo si applica “quale che sia il numero dei dipendenti occupati

dal datore di lavoro” mentre le altre tutele previste dai commi successivi

vengono riferite ai datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti

l’art. 2 del decreto non fa alcun riferimento ai requisiti dimensionali del

datore di lavoro. Si rileva che il campo di applicazione anzi non prevede

requisiti dimensionali come si evince dagli art. 1 e 9 primo comma.

Una novità assoluta è l’applicazione della disciplina nei confronti delle

c.d. organizzazioni di tendenza. L’art. 4 della 108/90 escludeva tali

organizzazioni dal campo di applicazioni delle tutele dell’art. 18 mentre nel

decreto all’art. 9 co. 2 si cita: “ai datori di lavoro non imprenditori, che

svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale,

di istruzione ovvero di religione o di culto, si applica la disciplina di cui al

presente decreto”. Questa disposizione tocca un settore prima considerato

invalicabile e si propone come tentativo di soluzione del delicato e intricato

contenzioso sui limiti dell’operatività della tutela apprestata in caso di

licenziamento discriminatorio. Sebbene in via giurisprudenziale la tutela

fosse già ritenuta applicabile ai dipendenti delle organizzazioni di tendenza,

la normativa allarga il campo applicativo delle tutele e valorizza la tutela

antidiscriminatoria in un campo particolarmente sensibile.

Le rilevanza di questo punto è stata fatta notare anche dalla competente

Commissione al Senato che ha sottolineato come, per un particolare tipo di

rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore nelle organizzazioni e

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

enti di tendenza, fosse stato opportuno lasciare la possibilità di risolvere il

rapporto di lavoro senza il rischio che un giudice, in una valutazione

difforme, possa portare alla ricostruzione del rapporto stesso. Comunque su

questo tema il decreto è rimasto invariato nell’ottica di uniformare e

generalizzare le tutele.

Dal decreto sembrano, anche se da più parti ad oggi sembra si stia

sollevando un dubbio, che siano esclusi i lavoratori domestici ma soprattutto

i dipendenti delle P.A. in quanto all’art. 1 il decreto stesso circoscrive il

campo di applicazione alle categorie lavorative di cui si è già parlato.

Il decreto sembra completamente sovrapponibile all’art. 18 così come

modificato dalla 92/2012 nel campo delle tutele apprestate per i

licenziamenti discriminatori e nulli di cui all’art. 2 co. 2 d. lgs. 23/2015.

Innanzitutto, il giudice, qualora accerti la nullità del licenziamento, ordina

la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di

lavoro alla corresponsione di un’indennità risarcitoria.

L’unico elemento di novità può essere rinvenuto nella specificazione

dell’indennizzo commisurato all’ultima retribuzione di riferimento per il

calcolo del T.F.R.: in mancanza di una nozione omnicomprensiva di

retribuzione la precisazione è opportuna. Per i tempi di risarcimento si conta

dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione,

dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento

di altre attività e il datore di lavoro per il medesimo periodo è tenuto al

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Identica è anche la

formulazione che prevede una indennità minima di cinque mensilità.

Fermo restando il diritto al risarcimento nella misura indicata, il comma

3 dell’art. 2 attribuisce al lavoratore – come anche l’art. 18 St. lav. – la

facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione,

un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione. Tale richiesta deve

essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della

pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se

anteriore alla comunicazione.

Fermo restando che gli effetti della riforma si vedranno in seguito va

comunque rilevato che, a causa delle varie interpretazioni che si possono

dare che portano la norma ad allargarsi o a restringersi, il primo obiettivo

che si prefiggeva, e cioè quello della semplificazione, è stato completamente

disatteso. L’esistenza di un doppio binario di tutela, poi, rischia di creare

confusione o, comunque, di non risolvere il problema della frammentazione

della disciplina.

Non si può, inoltre, trascurare che, a fronte di una normativa dettagliata e

garantista, le pronunce in materia in tre anni dalla 92/2012 sono state

davvero poche probabilmente a causa della difficoltà di provare in giudizio

la discriminatorietà del licenziamento o la ritorsività nell’ipotesi di

licenziamento per motivo illecito dominante58.

58
Per la sintesi sui licenziamenti si rimanda alle slides in appendice.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

3.5. La dicotomia dei rapporti di lavoro causata dal d. lgs 23/2015

L’entrata in vigore del d. lgs. ha causato una situazione rara nel panorama

del lavoro in Italia. Il fatto che, per effetto del fatto che il decreto ha validità

per tutti coloro che sono stati assunti dopo la data del 7 marzo 2015 con

conseguenti tutele crescenti, mentre continua a valere la vecchia normativa

per coloro che sono stati assunti prima di questa data e fino a risoluzione del

contratto di lavoro, ha portato ad una naturale dicotomia tra le due tipologie

di lavoro. Nei fatti può capitare che due lavoratori della stessa azienda, con

le stesse mansioni, pur lavorando gomito a gomito, godano di tutele

differenti l’uno dall’altro.

Per coloro i quali erano già assunti prima del Jobs Act (o meglio

dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo vigente dal 7.3.2015), è

possibile rinvenire ancora le seguenti tutele:

- in caso di licenziamento irrogato per giusta causa o per giustificato

motivo poi dichiarato discriminatorio o nullo, resta la tutela reale piena

prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (articolo 3 comma 1).

- in caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto contestato

o perché tale fatto rientra nelle condotte punibili con una sanzione

conservativa in base ai contratti collettivi o ai codici disciplinari v’è la

reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento danni per non più di 12

mensilità;

- nelle altre ipotesi di illegittimità del licenziamento v’è solo il diritto

all’indennità risarcitoria compresa tra le 12 e le 24 mensilità;

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

- nelle residuali ipotesi di violazione dell’art. 7 L. 300/1970, o per difetto

di motivazione ex art.2, comma 2, L. 604/1966 vi sarebbe soltanto il diritto

all’indennità risarcitoria per un importo compreso tra le 6 e le 12 mensilità.

Per coloro che invece sono, e saranno, assunti dopo l’entrata in vigore del

Jobs Act con giusto contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, è

possibile annotare le seguenti dinamiche e tutele:

- in caso di licenziamento irrogato per giusta causa o per giustificato

motivo poi dichiarato discriminatorio o nullo, resta la tutela reale piena

prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (articolo 3 comma 1).

- in caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto contestato

è salvo il diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro ed il risarcimento del

danno non superiore alle 12 mensilità (articolo 3 commi 2 e 3);

- nei casi di illegittimità del licenziamento, comprese le più diffuse

ovvero quelle rappresentata da un recesso sproporzionato al fatto contestato,

il lavoratore avrà diritto ad una indennità risarcitoria di un importo pari a 2

mensilità per ogni anno di servizio, in misura non inferiore ai 4 ma non

superiore alle 24 mensilità, con espressa esclusione del diritto alla

reintegrazione (articolo 3 comma 2 e 3);

- nelle residuali ipotesi di violazione dell’art. 7 L. 300/1970, o per difetto

di motivazione ex art.2, comma 2, L. 604/1966 vi sarebbe solo il diritto ad

una indennità risarcitoria di un importo pari ad una mensilità per ogni anno

di servizio, in una misura compresa tra un minimo di 2 ed un massimo di 12

(articolo 4).

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Nei fatti, quindi, l’integrale passaggio di tutto il personale da una

contrattazione disciplinabile mediante Jobs Act avverrà solo mediante la

normale uscita dal mercato del lavoro delle risorse che potranno e vorranno,

per l’età e la posizione previdenziale, andare in pensione o per la perdita di

lavoro per dimissioni o licenziamento.

Questo comporta che gli effetti del Jobs Act sono lungi dall’essere

immediatamente visibili: si parla di un ventennio al minimo per avere i primi

effetti.

Il 23/2015 tra l’altro prevede all’art. 6 l’introduzione nel nostro sistema

della c.d. Offerta di Conciliazione. Questa procedura riservata ai neoassunti

con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti offre scappatoie al

datore di lavoro che può proporre al lavoratore licenziato ed entro i termini

di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, una indennità che, qualora

venisse accettata, in sede sindacale o presso le competenti DTL (Direzioni

Territoriali del Lavoro), rappresenterebbe la composizione bonaria a

transazione del potenziale contenzioso. Indulge anche la norma sulla forma

del pagamento da effettuare tramite assegno circolare e sull’ammontare

stabilito tra le 2 e le 18 mensilità. In questo si rileva quanto il provvedimento

risulti invasivo in quanto ha rielaborato l’istituto dell’art. 410 c.p.c. che anni

addietro imponeva il preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione,

condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria, imponendo ora anche il

quantum mediante definizione di un minimo e un massimo.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Il Jobs Act nei decreti attuativi ha previsto anche modifiche alle misure a

sostegno del reddito in caso di licenziamento tramite il decreto 22/2015. Pur

non essendo espressamente materia di questo lavoro è giusto fornire le linee

essenziali.

In ordine alla Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego

(NASPI), con Decreto Legislativo n.22 del 4 marzo 2015 il Governo ha

portato a termine la delega avuta nel dicembre 2014 ed ha elaborato, o

rielaborato, il sistema degli strumenti di sostegno al reddito. La NASPI

(Nuova Aspi) ne è l’esempio ma accanto ad essa c’è e ci sarà anche la ASDI

(Assegno sociale di disoccupazione) e la DIS-COLL (l’indennità di

disoccupazione destinata ai lavoratori co.co.co. con o senza progetto).

La NASPI è partita il 1° maggio e riguarderà i lavoratori che, a partire

dalla stessa data, hanno perduto il lavoro involontariamente. I destinatari

sono: a) i dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche

amministrazioni; b) gli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato.

Potranno beneficiare della Naspi anche i soggetti che hanno presentato le

dimissioni per giusta causa e coloro che hanno risolto consensualmente il

rapporto di lavoro nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della

legge 1 5 luglio 1966, n. 604, come modificato dall’articolo 1, comma 40,

della legge n. 92/2012.

I requisiti da rinvenire in capo ai disoccupati, ed a chiarimento è

d’obbligo citare la circolare dell’Inps datata 30 aprile 2015, sono:

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

a) lo stato di disoccupazione ai sensi dell’articolo 1, comma 2, lettera c),

del decreto legislativo 21 aprile 2000, n .181, e successive modificazioni;

b) il lavoratore deve poter far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio

del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione il

lavoratore deve poter far valere trenta giornate di lavoro effettivo, a

prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono

l’inizio del periodo di disoccupazione.

La durata della Naspi varia in base alla storia contributiva di ogni

soggetto e potrà arrivare a un massimo di 24 mesi per chi ha lavorato negli

ultimi 4 anni, scendendo fino a 18 mesi alla data 1°gennaio 2017.

Per l’ASDI il beneficio è destinato ai lavoratori che hanno fruito della

Naspi per tutto il periodo ammesso senza poi rientrare nel mercato del

lavoro, per la cui concessione sono stabiliti vincoli afferenti lo stato

disagiato proprio e della famiglia, la presenza di figli minori e l’assenza dei

requisiti per maturare il diritto al pensionamento, quando si parla di DIS-

COLL ci si riferisce al sostegno per il reddito destinato ai lavoratori

coordinati e continuativi inscritti in via esclusiva alla Gestione Separata

Inps, non pensionati, privi di partita IVA e che abbiano perduto

involontariamente l’occupazione.

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

3.6. Profili di costituzionalità per il d. lgs. 23/2015

Il testo finale del decreto 23/2015 recante disposizioni in materia di

contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti così come

approvato dal Consiglio dei Ministri senza tener nemmeno conto dei rilievi

mostrati dalle competenti Commissioni Parlamentari, configura un modello

contrattuale molto diverso da quello che poteva immaginarsi alla luce delle

prime discussioni sul Jobs Act e dalla stessa previsione anticipatoria

introdotta, contestualmente alla liberalizzazione dei contratti a termine non

eccedenti i 36 mesi, dall’art. 1, comma 1, L. 78/2014.

Va ricordato che nell’originario disegno di legge delega, AS n. 1428 del

2014, alla lettera b) dell’art. 4, ci si limitava a prevedere l’eventuale

possibilità di introdurre ulteriori tipologie contrattuali «espressamente volte

a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i

lavoratori coinvolti». Il testo finale definitivo approvato con la L. 183/2014

sul punto è significativamente diverso autorizzando, all’art. 1 comma 7

lettera c, con certezza la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto

a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di

servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della

reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo

economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto

alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche

fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo

termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

È una differenza fondamentale in quanto, mentre la formulazione

originaria prefigurava, in via sperimentale sulla base di una delega in bianco,

l’introduzione di un distinto sottotipo contrattuale da affiancare in funzione

della razionalizzazione della folta tipologia esistente senza sovrapporsi col

tipo generale dell’art. 2094 c.c., la 183/2014, riferendosi generalmente alle

nuove assunzioni a tempo indeterminato, consente una tale sovrapposizione,

e una certa “confusione tipologica”, col formante contrattuale basilare del

lavoro subordinato.

Tra il testo delega iniziale e quello approvato in via definitiva, quindi si

è consumata la «Commedia degli inganni», come l’ha definita Mariucci 59,

che ha consentito al Governo di consegnarci un contratto a tutele crescenti

totalmente trasfigurato nella sua funzione e nella sua natura e che

fondamentalmente cancella del tutto le tutele reali previste dall’art. 18.

Questa tipologia contrattuale, quindi, non ha niente di nuovo andandosi a

sovrapporre al concetto di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c. prevedendo

inoltre la riduzione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi.

Questa tipologia di contratto si caratterizza, quindi, per la radicale

regressione dei rimedi apprestati contro il licenziamento ingiustificato,

prevedendo da una lato la riduzione ad ambiti del tutto eccezionali della

reintegrazione nel posto di lavoro, dall’altro la complessiva contrazione

della misura delle indennità risarcitorie che in taluni casi saranno irrisorie.

59
http://www.ripensarelasinistra.it/wp-content/uploads/2014/02/Itinerario-regresssivo.pdf

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

In virtù dell’esclusione dal decreto dei dirigenti, categoria esclusa per

legge anche dalla nuova disciplina del licenziamento valevole per i

lavoratori assunti col contratto a tutele crescenti, questi godranno,

normalmente, in forza del contratto collettivo applicabile al loro rapporto di

lavoro, di una tutela economica di gran lunga più intensa contro i

licenziamenti privi di giustificazione, considerando la disciplina sulla durata

del preavviso e l’importo, crescente con l’anzianità di servizio,

dell’indennità supplementare.

Fondamentalmente il disegno del decreto si prefigura come una semplice

disciplina sui licenziamenti fortemente regressiva rispetto alla tutele reali

stabilite nell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori completamente cancellate

ma anche a quelle restrittive della 92/2012. Risente del mancato concerto

con le parti sociali e sembra, come da più parti sottolineati, il frutto del solo

colloquio con Confindustria, che pare la reale autrice del decreto in ogni sua

parte. Il d. lgs. 23/2015, specie se letto con le disposizioni sul complessivo

riordino delle tipologie contrattuali e alla revisione delle mansioni di cui

all’art. 2013 c.c., traduce la strategia di «svalutazione interna competitiva»

che è stata l’unica vera politica comune del lavoro negli anni della grande

crisi europea. Il Jobs Act sembra alla fine fare seguito a quella famosa lettera

della BCE del 5 agosto del 2011 che nelle prescrizioni di policy non era

seguito dalla Legge Fornero che esprimeva ancora un compromesso

politico-parlamentare su cui erano riuscite ad incidere in parte le forze

sindacali. Quelle prescrizioni di policy perfettamente tradotte dal Jobs Act!

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

Il decreto legislativo in analisi presenta di certo quella logica di

abbattimento delle tutele statutarie in caso di licenziamento ingiustificato e

che questo ripiego comporterà nuove assunzioni con contratti a tutele

crescenti è quasi rivendicato dal legislatore come il passaggio obbligato ad

una nuova costituzione materiale del lavoro, nella quale l’art. 4 comporta la

destrutturazione dello statuto protettivo e garantistico novecentesco vista

come unica condizione per rendere il mercato del lavoro più efficiente e più

rispondente alle esigenze del nuovo mercato.

Per rispettare le indicazioni della BCE sulla riforma strutturale del

mercato interno nell’ottica di quel “coacervo pervasivo neoliberista che

chiamiamo governance economica europea”, il legislatore delegato deve

aver per forza fatto conto di indebolire sostanzialmente il campo delle tutele

costituzionalmente garantite, rammento che spesso si richiede un

indebolimento delle tutele personali in ogni campo. Il Jobs Act, nel suo

radicalismo contro-riformatore, estremizza questa logica sino al punto di

entrare in contraddizione con alcuni postulati dell’ordine costituzionale del

lavoro.

Il contratto a tutele crescenti crea due campi di tensione con i principi

costituzionali60: uno di natura «sistemica» che mette in discussione tutto

l’impianto del Jobs Act implicando una lettura «sostanzialistica» della

Costituzione e che difficilmente riuscirà ad aprirsi a varchi nella linea di

60
Stefano Giubboni “Profili costituzionali del contratto a tutele crescenti” in
www.costituzionalismo.it

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

deferenza alle scelte del legislatore ordinario da tempo consolidatasi nella

giurisprudenza costituzionale sui diritti sociali; l’altro limitato ad aspetti

specifici della controriforma dei licenziamenti.

Senza entrare nel merito delle accelerazioni parlamentari che, come

ormai è prassi, sottraggono il legislatore ordinario del suo potere di

legiferare ci si dovrebbe interrogare sulla vastissima delega data al Governo

per riformare completamente il Diritto del Lavoro. La previsione di delega

sul contratto a tutele crescenti riesce a esibire un livello di determinatezza

che consente di fissare alcuni confini sicuri oltre i quali la decretazione

delegata può dirsi, con ragionevolezza, illegittima per «eccesso» ai sensi

dell’art. 76 Cost.

Il confine viene travalicato illegittimamente già nel campo delle

applicazioni della disciplina del contratto a tutele crescenti, per come

definito dall’art. 1 d. lgs. 23/2015, in almeno due diverse direzioni.

Eccede la delega dove, con la previsione che ora compare al comma 3

dell’art. 1, estende la nuova disciplina dei licenziamenti ai dipendenti già in

forza nelle piccole imprese che superino, con assunzioni con contratto a

tutele crescenti, la soglia occupazionale prevista per l’applicabilità dell’art.

18 dello Statuto. Il travisamento della delega sta nel fatto che, sebbene con

l’intento di incentivare le nuove assunzioni nelle piccole imprese eliminando

per queste il possibile disincentivo all’ingresso a causa dell’art. 18, il decreto

applica la nuova disciplina del licenziamento anche ai lavoratori già assunti

e questo è impedito dal chiaro criterio direttivo della delega. Si poteva

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

scavalcare questa difficoltà integrando la nuova formulazione contrattuale

come sottotipo sperimentalmente rivolto a favorire l’inserimento stabile nel

mercato del lavoro secondo la primissima indicazione della Poletti. Questa

diversa via oggi risulta parimenti sbarrata dalla configurazione del contratto

a tutele crescenti non come sottotipo contrattuale ma come ordinaria forma

di assunzione a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 2094 c.c. e quindi

come forma comune di rapporto di lavoro (art.1 comma 7 lettera b,

L.183/2014).

Per ragioni analoghe, eccede la delega la norma inserita nel secondo

comma dell’art. 1 del 23/2015, che estende l’applicazione delle relative

previsioni anche nei casi di conversione di contratto a tempo determinato o

di apprendistato in contratti a tempo indeterminato senza tener conto che la

«conversione» è cosa ben diversa dalla «nuova assunzione» per

definitionem. A prescindere dalla circostanza che l’ordinamento conosce

effetti di conversione del contratto di lavoro a termine in rapporto a tempo

indeterminato sia ex tunc che ex nunc (art. 5 co. 3,4 d. lgs. 368/2001), ciò

che accomuna tale figura, distinguendola dalla «nuova assunzione», è che

essa implica sempre l’accertamento della nullità parziale della clausola

appositiva del termine ad un contratto già instaurato tra le parti, come

condizione della trasformazione del medesimo. Questo vale anche per la

«conversione» (o riqualificazione) del contratto di apprendistato, che

peraltro costituisce già un rapporto di lavoro a tempo indeterminato,

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani (art. 1, comma 1,

d. lgs. n. 167 del 2011).

Prospettano poi questioni di difformità più sottili alla delega anche le altre

previsioni del decreto.

Assai dubbia compatibilità con la delega è invece la previsione all’art. 3

comma 2 co la quale il legislatore delegato consente la tutela reale solo nelle

ipotesi, non specificatamente determinate, di recesso datoriale per ragioni

soggetti nelle quali «sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza

del fatto materiale contestato al lavoratore», senza che sia consentita al

giudice una qualsivoglia valutazione sulla «sproporzione» della sanzione

estintiva del rapporto in insanabile contraddizione con i principi

costituzionali.

Esistono poi profili di illegittimità costituzionale anche per violazione del

principio di eguaglianza e ragionevolezza quando al secondo comma

dell’art. 3, in genesi ideologica, si elude la discrezionalità del giudice nella

valutazione della misura della sanzione e sul reintegro o meno del lavoratore

trovandosi in aperto contrasto con l’art. 3 Cost.

Impedendo qualunque valutazione sulla proporzionalità tra infrazione e

sanzione espulsiva, valutazione che è ontologicamente immanente al

sistema disciplinare (art. 2106 cod. civ.), e che per gli stessi lavoratori

assunti con il contratto a tutele crescenti dovrà quantomeno valere ai fini

dell’applicazione delle sanzioni conservative, l’art. 3, comma 2, ammette

anzitutto l’aporia logica che possa essere assunto a fondamento del

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

licenziamento un fatto materiale certamente esistente (ad esempio un ritardo

di un minuto), ma del tutto irrilevante sul piano disciplinare, e quindi lecito,

perché non qualificabile in termini di notevole inadempimento degli

obblighi contrattuali (art. 3, legge n. 604 del 1966) o di giusta causa (art.

2119 cod. civ.). La intrinseca irrazionalità della previsione ridonda poi in

una violazione inevitabile del principio di eguaglianza, laddove impone al

giudice, precludendogli il controllo di proporzionalità, di trattare allo stesso

modo (con l’esclusione del rimedio reintegratorio) situazioni che possono

essere sostanzialmente diverse (per i profili soggettivi e psicologici che

connotano la condotta dell’agente, per la esistenza di cause di giustificazione

o esimenti, e così via). D’altra parte, per come è congegnata, la norma è

palesemente illegittima anche perché finisce per svuotare di qualunque

rilievo (in contrasto, oltre che con l’art. 3, con l’art. 39, comma 1, Cost.) le

previsioni contenute (tanto sotto il profilo della tipizzazione degli illeciti,

quanto sotto quello della corrispondente graduazione delle sanzioni) nei

contratti collettivi applicabili al rapporto di lavoro.

In realtà l’intero impianto concettuale del decreto sul contratto a tutele

crescenti è costruito sulla rottura del principio di uguaglianza e di solidarietà

nei luoghi di lavoro, con una strutturale divaricazione delle tutele contro il

licenziamento illegittimo a seconda della data di assunzione del lavoratore.

Una tale lacerazione dei principi fondativi del diritto del lavoro giunge

ad esiti che appaiono ingestibili persino sul piano pratico nel caso del

licenziamento collettivo, la cui irrazionale disciplina è stata anche per questo

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CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

oggetto di vane raccomandazioni nel parere espresso sul decreto attuativo

dalle commissioni parlamentari. Estendendo la nuova disciplina

sull’indennizzo correlato alla anzianità di servizio anche ai licenziamenti

collettivi, il legislatore delegato permette, tuttavia, che solo i primi possano

avvalersi delle tutela processuale e sostanziale garantita dall’art. 18 dello

Statuto come riformato dalla legge Fornero, relegando i secondi alla ridotta

tutela indennitaria consentita in generale dal contratto a tutele crescenti, da

attivare in giudizio avvalendosi del rito ordinario.

La scelta del legislatore delegato in favore di una brutale monetizzazione

«al ribasso» delle conseguenze del licenziamento illegittimo non individua

pertanto un punto di ragionevole bilanciamento tra i contrapposti interessi in

rilievo. L’unico interesse realmente protetto finisce per essere quello del

datore di lavoro alla certezza di costi contenuti e predeterminabili ex ante,

mettendo fuori gioco una volta per tutte la discrezionalità valutativa del

giudice.

Sotto tale profilo, la tensione con i principi costituzionali non sta tanto

nel sostanziale abbandono della tutela reintegratoria quanto in una tutela che,

anche ove possa legittimamente esaurirsi tutta dentro una logica puramente

monetaria, è del tutto inidonea a garantire, se non una efficacia sanzionatoria

e dissuasiva nei confronti del recesso datoriale illegittimo, almeno una

minima effettività risarcitoria.

La lotta per il diritto, per la riconquista di un diritto del lavoro nel quale

possa ancora riconoscersi il seme progettuale dell’art. 3, comma 2, Cost.,

- 157 -
CAPITOLO TERZO

La flexicurity e le richieste europee: il “Jobs Act”

non potrà tuttavia essere affidata soltanto alla dialettica giudiziaria e al pur

inevitabile vaglio di costituzionalità del Jobs Act. Gli istituti della solidarietà

sono il frutto della forza rivendicativa e progettuale di soggetti storici reali:

sarà anzitutto compito del lavoro organizzato e del sindacato saper ritrovare,

rinnovandosi, questa forza, proprio nel momento in cui sembra averla

perduta.

- 158 -

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