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INTRODUZIONE ALLA

POLITICA ECONOMICA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Introduzione alla politica economica”

Indice

1. APPROCCIO ALLA POLITICA ECONOMICA ........................ 3

2. IL RUOLO DEI DECISORI DI POLITICA ECONOMICA ..... 5

3. LE ISTITUZIONI DELLA POLITICA ECONOMICA .............. 7

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Giovanni Cannata “Introduzione alla politica economica”

1. APPROCCIO ALLA POLITICA ECONOMICA

Tre sono gli approcci possibili alla politica economica:


 Economia positiva.
 Economia normativa.
 Politica economica.
Con l’approccio di economia positiva l’economista cerca di
comprendere le implicazioni delle scelte di politica economica sui
soggetti differenti dando per esogeni le caratteristiche degli agenti, le
tecnologie di produzione, le dotazioni di risorse naturali, la politica
economica (es. la spesa pubblica, la fiscalità, il mercato del lavoro).
Con l’approccio di economia normativa l’economista agendo come
il “consigliere del principe”, preso atto degli obiettivi e dei fini del
decisore politico, quali la gestione dell’occupazione, la tutela
dell’ambiente, il miglioramento dell’equità fiscale, gli interventi di
commercio internazionale, ricerca le decisioni che possono essere utili
a raggiungere quei fini. L’economia normativa si fonda sulle conoscenze
dell’economia positiva in quanto deve disporre di conoscenze e quindi
di dati per proporre al decisore possibili alternative e relative
implicazioni, deve saper proporre soluzioni ottimali (first best) e
soluzioni sub ottimali ma concretamente realizzabili (second best),
deve tener conto del livello delle conoscenze e quindi di problemi di
simmetria informativa e dei problemi di trasparenza e deve tener conto
di come l’informazione si trasferirà alla catena operativa.
Le difficoltà dell’economia normativa consistono nel definire gli
obiettivi in confronto con vantaggi e svantaggi alternativi, si interroga
sulla fattibilità di un first best altrimenti si tiene conto delle possibilità
di un second o di asimmetrie informative.

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L’approccio di politica economica è l’azione che la macchina


guidata dal decisore politico (attori con obiettivi specifici) si propone di
intraprendere alla luce di obiettivi del decisore, del contesto politico,
dei vincoli e delle opportunità di cui tener conto, delle procedure da
rispettare, degli apparati istituzionali, dei soggetti coinvolti e delle
relative reazioni (quali, ad esempio, funzionari, le banche, i sindacati,
i contribuenti).
Le teorie della politica economica si sono evolute e nelle lezioni
si danno alcuni richiami a:
 Teoria delle scelte pubbliche (Buchanan) all’interno di un quadro
normativo (Costituzione, norme).
 Teoria delle aspettative razionali (Lucas) fondate
sull’informazione, secondo le quali gli agenti economici non
agiscono quali automi ma soggetti che giudicano e scrutano il
futuro.
 Modelli esplicativi di comportamenti politici, modi diversi di
rappresentare l’economia.

Occorre comunque tener presente, ripensando a una metafora di


Avinash Dixit, che il “principe” non è sempre onnipotente (second best),
onnisciente (economia dell’informazione) e benevolo, ma deve tener
conto delle forze in campo, valutando gli obblighi che assume con le sue
scelte.

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2. IL RUOLO DEI DECISORI DI POLITICA


ECONOMICA

I principali compiti dei decisori di politica economica possono


classificarsi in:
 definire le regole del gioco economico ciò include la
protezione dei consumatori, la politica della concorrenza,
il controllo delle banche, una dimensione internazionale.
 Dare soluzione a problemi specifici attraverso la
tassazione e le spese.
 Realizzare politiche di entrate (alla luce di possibili
effetti sul bilancio delle imprese, delle implicazioni in
termini di sicurezza sociale, dell’impatto sulla
produttività).
 Realizzare politiche di spesa con tutte le implicazioni
relative.
 Governare la domanda e offerta di moneta manovrando
tassi d’interesse e liquidità.
 Governare rapporti internazionali (come mostrano il
raggrupparsi dei Paesi in G7, G8, G20, FED).
 Attivare e realizzare riforme istituzionali nei principali
campi quali lavoro, concorrenza, sicurezza welfare.
 Produrre beni e servizi. E’ ovvio che la politica economica
deve operare in un quadro di riferimento che tiene conto
delle differenze di sistema, di cultura istituzionale,
economica e sociale.
Gli obiettivi della politica economica sono variegati ed
ovviamente possono coesistere tra di loro. Tra gli stessi annoveriamo:

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 il tenore di vita;
 la crescita del reddito;
 la distribuzione del reddito;
 la stabilita dei prezzi;
 la piena occupazione;
 l’equilibrio della bilancia dei pagamenti;
 la qualità ambientale;
 lo sviluppo equo e sostenibile dal punto di vista
ambientale economico e sociale.
Gli strumenti di politica economica sono variegati e distinguibili
in macro e microeconomici:
Macroeconomici
 Politica di bilancio
 Politica fiscale
 Politica monetaria
Microeconomici
 Regolamentazioni
 Interventi su famiglie e singole categorie
 Strumenti di concorrenza
 Strumenti di sicurezza sociale
 Incentivi e sussidi alle imprese
ed altri che possono essere dettati dall’esperienza e dalle
condizioni generali dell’economia.
Ovviamente una politica economica è tanto più efficace quanto
più sa utilizzare, anche contemporaneamente, pluralità di strumenti
finalizzati al raggiungimento di determinati obiettivi.

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3. LE ISTITUZIONI DELLA POLITICA ECONOMICA

Le istituzioni estendono la loro azione direttamente al


funzionamento dei mercati e influenzano l’efficacia degli strumenti di
politica economica. Potremmo essere indotti a considerare le istituzioni
solo come insieme di soggetti pubblici o privati.
Il Premio Nobel dell’economia Douglass North definisce le
istituzioni come “i vincoli creati dall’uomo per strutturare le interazioni
tra gli uomini” che comprendono vincoli formali (regole, leggi,
costituzioni, trattati) e vincoli informali (norme di comportamento,
codici di condotta, convenzioni).
Le istituzioni rappresentano una sorta di capitale sociale. Fanno
in particolare parte delle istituzioni le organizzazioni dei mercati dei
beni, dei capitali, del lavoro e le relative caratteristiche (legislazione
economica, contratti di lavoro) o le caratteristiche delle decisioni di
politica economica
(procedure di bilancio, regimi di cambio, regole della
concorrenza). Questa definizione include le regole di funzionamento
delle istituzioni private (sindacati, associazioni) e pertanto si può
ritenere che le istituzioni sono una sorta di capitale sociale.
Volendo esprimere un quadro di riferimento si può affermare che
la politica economica è contemperamento tra molteplici obiettivi (ad
esempio tasso di disoccupazione e tasso d’inflazione) con molteplici
strumenti, per molteplici soggetti nei cui confronti minimizzare i costi
o perdite. Quando un governo persegue n obiettivi deve disporre
almeno di n strumenti secondo la regola di Tinbergen; ma nel concreto
è possibile perseguire molti obiettivi con una gamma limitata di
strumenti e in presenza di vincoli.

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L’economista dovrebbe aiutare il decisore a scegliere tra la


migliore combinazione ed i possibili aggiustamenti strutturali
(riforme).

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CHE COS'È LA POLITICA
ECONOMICA?
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

Indice

1. EPISTEMOLOGIA DELLA POLITICA ECONOMICA ---------------------------------- 3


2. POLITICA ECONOMICA: DEFINIZIONE -------------------------------------------------- 7
3. DIFFERENZA TRA ECONOMIA POLITICA E POLITICA ECONOMICA --------- 9
4. EPISTEMOLOGIA DI QUESTO CORSO DI POLITICA ECONOMICA ------------ 12
5. IDEOLOGIA E POLITICA ECONOMICA -------------------------------------------------- 14
6. CLASSIFICAZIONE IN BASE AL RUOLO DELLE STATO IN ECONOMIA ----- 16
7. ETICA E POLITICA ECONOMICA ---------------------------------------------------------- 20
8. MACROECONOMIA E POLITICA ECONOMICA --------------------------------------- 26
9. LE BRANCHE DELLA POLITICA ECONOMICA --------------------------------------- 28

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1. EPISTEMOLOGIA DELLA POLITICA ECONOMICA

L'epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa sia


delle condizioni sotto le quali si può avere conoscenza scientifica sia
dei metodi per raggiungere tale conoscenza, come suggerisce peraltro
l'etimologia del termine, il quale deriva dall'unione delle parole greche
episteme (conoscenza certa) e logos (discorso): l'epistemologia è un
discorso sulla scienza.
Le scienze sociali o scienze umane sono quelle discipline che
studiano l'uomo e la società, in particolare l’origine e lo sviluppo delle
società umane, le istituzioni, le relazioni sociali ed economiche, i
fondamenti della vita sociale. La parola scienza deriva dal latino
scientia, che significa conoscenza.
Una vecchia classificazione epistemologica aveva suddiviso le
scienze in diversi gruppi: 1) scienze “empirico-analitiche” o “naturali”:
esse utilizzano la logica formale e matematica e si costruiscono
partendo da osservazioni sperimentali oppure partendo da leggi e
teoremi assunti in via ipotetico-provvisoria. Le scienze “naturali”
cercano di formulare previsioni e appaiono come sistemi ipotetico-
deduttivi, parziali, provvisori e falsificabili; 2) scienze “storico-
ermeneutiche”: scoprono il significato dei documenti passati.
Perseguono la comprensione del passato e anticipano il futuro.
L'interpretazione si fonda sull'ermeneutica, ossia su una precisa
metodologia dell'interpretazione del testo. 3) Scienze “umano-sociali”
(psicologia, sociologia, antropologia ecc.), che intendono cogliere le
fondamentali espressioni della vita personale e sociale, per regolare
l’agire umano e sociale.

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Le scienze “umano-sociali” tuttora non hanno definito


esattamente la loro identità e i loro metodi, non avendo ancora potuto
compiere una decisa scelta epistemologica e metodologica. Perciò esse
continuano ad oscillare tra le esigenze formalizzanti, analitiche ed
empirico-oggettive delle scienze naturali e quelle ermeneutiche delle
scienze storico-umane. I loro tentativi di armonizzare i due diversi
quadri metodologici, in mancanza di una chiarificazione di fondo, non
hanno ancora dato buoni risultati.
Occorre, ad avviso di molti, che gli economisti riconoscano che i
fatti umano-sociali non costituiscono mai delle “cose”, come i fenomeni
naturali, ma sono degli “eventi” umani, caratterizzati da valori e da
significati. Tali eventi non possono essere studiati soltanto con metodi
ipotetico-deduttivi ma anche con metodi fenomenologici ed
ermeneutici, rivolti innanzitutto alla loro comprensione. La scienza
economica progredirà in modo spedito quando riconoscerà questa
irriducibile diversità di oggetto rispetto alle scienze naturali.
Fra le varie discipline sociali, l’economia costituisce un caso
molto interessante e forse unico, per la sua particolare natura. Come
vedremo nelle prossime lezioni la scienza economica nasce nel
contesto di un’imitazione pressoché totale delle scienze naturali.
Mentre queste ultime dovranno attendere il dopoguerra perché venga
messa in discussione la presunta capacità di descrivere perfettamente
e definitivamente, con il metodo induttivo e deduttivo-logico, la realtà
(si pensi alla legge della relatività generale che sostituì solo nel 1916
la legge della gravitazione universale di Newton del 1687), gli
economisti videro subito naufragare le proprie teorie. Tutte le teorie
economiche, (liberiste, stataliste, socialiste, marxiste, malthusiane,
monetariste, keynesiane) sono fallite. Tali insuccessi sono proseguiti

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nel secolo XX, secolo di stagnazioni, inflazioni e recessioni. E tuttora,


in questo inizio di terzo millennio vediamo ancora nuovi fallimenti
teorici e pratici.
La Politica economica, a partire dai fallimenti dei modelli
previsionali, avrebbe dovuto mettere in discussione la propria
epistemologia, invece di attardarsi, come avviene nella maggior parte
dei casi, ad utilizzare il metodo positivistico, peraltro ampiamente
superato nell'ambito della filosofia della scienza.
Secondo il positivismo sono scientifiche solo le teorie che:
1) possono essere verificate empiricamente;
2) sono vere per definizione;
Secondo Popper, grande critico del positivismo, sono invece
scientifiche tutte le teorie di cui posso dimostrare la falsità.
Sono ad esempio teorie scientifiche secondo Popper:
a) Tutti i cigni sono bianchi;
b) tutti i merli sono neri;
c) Gesù di Nazaret non è morto ed è vivo.
Di tutte queste teorie si potrebbe mostrare la falsità, qualora si
potesse trovare un cigno nero, un merlo bianco, il cadavere di Gesù di
Nazaret.
Non è scientifica, almeno al momento, invece, la teoria secondo
la quale la luna influenza il comportamento degli uomini, perché non
se ne può dimostrare la falsità.
Per definire la scientificità o meno di una teoria, occorre che
essa sia esposta in modo che possa essere teoricamente dimostrata
falsa.

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Esula dal contesto di queste lezioni discutere in merito alla


scientificità o meno della metafisica in generale e del sillogismo
aristotelico.
In ogni caso, in queste lezioni, adotteremo la metodologia della
falsificazione delle tesi economiche.
Compito dello studioso di economia è dunque, secondo Popper,
falsificare e non verificare le teorie economiche.
Nonostante gli evidenti insuccessi, di tutte le teorie
economiche, di descrivere e prevedere gli eventi, pochi economisti
hanno accettato le critiche di Popper.
Gli economisti invece hanno continuato a verificare anziché
falsificare le teorie, dividendosi in scuole.

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2. POLITICA ECONOMICA : DEFINIZIONE

La Politica economica può essere definita come “la disciplina


che studia gli effetti dell'intervento o del mancato intervento dei
poteri pubblici e dei soggetti privati sull'economia, allo scopo di
elaborare interventi destinati a modificare l'andamento del sistema
economico a livello macroeconomico e microeconomico per raggiungere
obiettivi economici prefissati”.
Uno dei problemi della rigorosità scientifica dell'Economia è
proprio l'utilizzo di definizioni rigorose dei concetti chiave, accettata
da tutti gli economisti.
In effetti esistono almeno due definizioni di Politica Economica
precedenti a quella appena espressa. Secondo Lionel Robbins (1935)
“La politica economica è il corpo di principi dell'azione o inazione del
Governo rispetto all'attività economica”. Secondo Federico Caffè
(1978) “La politica economica è quella parte della scienza economica
che usa le conoscenze dell'analisi teorica come guida per l'azione
pratica”. Le due definizioni sono simili nella parte in cui spiegano che
la politica economica ha una finalità operativa e persegue precisi
obiettivi. Si differenziano perché Robbins considera una scelta anche
l'inazione e Caffè fa rientrare, a differenza di Robbins, anche l'azione
degli altri soggetti nell'ambito di studio della politica economica.
Alcune scuole economiche ritengono che oggetto della Politica
economica sia esclusivamente lo studio dell'azione del Governo
rispetto all'attività economica e così è scritto anche su alcuni testi
universitari, ma è facile dimostrare che non è così.
Consideriamo la teoria economica liberista. Essa è tutta rivolta
a dimostrare la necessità dell'inazione dello Stato, sulla base della

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convinzione positivista che l'economia ha ferree regole “naturali”, e


non è il caso di interferire con esse. L'inazione consigliata dalle scuole
liberiste è un caso evidente di prescrizione di una politica economica
inattiva.
Consideriamo ora il ruolo dei soggetti diversi dallo Stato e se
sia giusto o meno che il loro comportamento rientri nello studio della
Politica economica. Esistono tutta una serie di esempi che dimostrano
quanto pesante sia il loro ruolo e che sarà approfondito a tempo
debito. Citiamo ad esempio la manovra del tasso d'interesse.
Tale manovra, come vedremo meglio, è attuata dalla Banca
Centrale al fine di abbassare il costo del denaro e di aumentare gli
investimenti. L'esito della manovra è però condizionato dalla reazione
degli operatori economici (imprenditori, consumatori e banche) al
provvedimento e varierà a seconda del loro comportamento.
Questo secondo esempio dimostra l'importanza del ruolo dei
soggetti diversi dal Governo per il raggiungimento degli obiettivi di
politica economica. In realtà il comportamento dei soggetti privati
sulla politica economica è infinitamente importante e abbiamo scelto
questo esempio perché esso dimostra che neanche le azioni dirette del
Governo sulle variabile macroeconomiche sono indipendenti dalle
reazioni dei soggetti privati e dalle loro reazioni microeconomiche.
Questi brevi esempi confermano in modo lampante e immediato
quanto sarebbe errato escludere l'inazione del Governo e il ruolo dei
soggetti diversi da quelli pubblici dallo studio della Politica
economica.

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3. DIFFERENZA TRA ECONOMIA POLITICA E


POLITICA ECONOMICA

La scienza economica moderna nasce con i mercantilisti, una


scuola di economisti che prevalse in Europa tra il XVI e il XVIII secolo
e che avremo modo di studiare. In realtà i sapienti si sono sempre
occupati di economia anche prima, ma nell'ambito dei fenomeni e
della cultura di volta esistente. Esistono concetti economici in
Senofonte. Aristotele studia per primo il commercio. Nel medioevo la
Scolastica affrontò, nell'ambito dell'etica, la questione del tasso di
interesse e del prezzo giusto. J. M. Keynes, nella Teoria Generale,
ammetterà di essere riuscito a costruire la distinzione tra EMK
(Efficienza Marginale del Capitale) e tasso d'interesse proprio
partendo da quegli studi. In quegli stessi anni l'islamico Ibn Khaldun
scrisse di economia nel suo testo Prolegomena, che anticipa
importantissime analisi sulle condizioni per lo sviluppo economico e la
corretta tassazione.
Quando si dice che i mercantilisti furono i primi economisti, si
intende pertanto dire che essi furono i primi ad affrontare i fenomeni
economici e sociali moderni e a tentare di darne una corretta
descrizione e valutazione.
Come vedremo meglio, i mercantilisti arrivarono alla
conclusione che è lo Stato il motore della ricchezza di una nazione e
che lo Stato deve adottare una precisa politica economica per
conseguire il benessere economico della nazione.
La scuola liberale classica inglese e i fisiocrati (due correnti di
pensiero economico influenzate dagli illuministi francesi), in polemica

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con questa conclusione, descrissero l'economia come qualcosa che si


impone autonomamente e si regola autonomamente.
Da questa posizione essenzialmente ideologica dei fisiocrati
francesi e dei classici e dei neoclassici inglesi (tutte scuole di pensiero
economico che avremo modo di studiare) nasce la distinzione tra un
economica politica, che descriverebbe l'economia come essa è, e la
politica economica che studia i compiti dello Stato nel sistema
economico.
In tale ambito la Politica economica deve stabilire quali attività
lo Stato non deve svolgere e che, se le svolgesse, impedirebbero
all'economia il suo normale sviluppo. Successive scuole economiche
hanno fortemente messo in discussione la convinzione classica e
neoclassica dello sviluppo autonomo e autoregolato dell'economia e si
è tornato a credere nella necessità dell'intervento dello Stato. E
tuttora, in modo più ideologico che scientifico, si affrontano due scuole
di pensiero: gli interventisti e i liberisti.
In ogni caso è convenzionalmente stabilita a livello accademico
questa differenza tra le due discipline: l'economia politica descrive
l'economia e non si occupa dei possibili interventi dello Stato; la
politica economica parte dalla conoscenza del funzionamento
dell'economia per attuare interventi che raggiungano precisi obiettivi
economici.
Difronte alla notizia che il tasso di disoccupazione è cresciuto,
lo studioso di economia politica cerca di capire le cause di quanto è
successo, lo studioso di politica economica, partendo da queste cause,
cerca di intervenire con provvedimenti che consentano di diminuirlo.
La politica economica ha un mandato essenzialmente
normativo, l'economia politica uno essenzialmente descrittivo. Si noti

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comunque che in entrambe le discipline la parola economia è


associata alla parola politica: il termine politica, associato alla parola
economia, ricorda la natura essenzialmente sociale e politica
dell'uomo.
Anche l'agire economico è comunque inserito all'interno
dell'azione sociale e politica del singolo individuo.
Anche le scuole economiche che partono da una concezione
individualista dell'uomo non hanno potuto negare che questo presunto
egoismo agirebbe nell'ambito di una società politica.

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4. EPISTEMOLOGIA DI QUESTO CORSO DI


POLITICA ECONOMICA

Occorre affrontare lo studio dei fenomeni sociali ed economici


con il metodo storico-ermeneutico, inquadrando i fenomeni e le teorie
nel periodo storico in cui avvengono e vengono prodotte.
Questo lavoro ermeneutico storico, consente di distinguere tutti
gli elementi ideologici e storici dai fenomeni economici eventualmente
permanenti o comunque più persistenti e ricorrenti nella storia e
permette la comprensione delle teorie economiche, depurandole dagli
elementi ideologici.
Il lavoro storico-ermeneutico è fondamentale per comprendere i
fenomeni storici e ideologici sotto cui vennero elaborate teorie
economiche che avevano la presunzione di dare una spiegazione
definitiva a determinati fenomeni e che hanno dimostrato la loro
infondatezza al vaglio della storia.
Le teorie economiche prodotte in un determinato periodo,
depurate degli elementi storici e ideologici, possono essere allora
vagliate per comprendere se la loro validità è limitata a quelle
condizioni storico-sociali in cui furono sviluppate o è universale.
Una volta vagliate con il metodo storico-ermeneutico, le teorie
economiche saranno sottoposte al metodo di falsificazione secondo il
principio del modus tollens, sia nelle ipotesi di partenza, sia nelle
successive inferenze logiche.
E' evidente che questo metodo è lontano anni luce dal
positivismo e dall'ideologia.
I postulati degli epigoni del capitalismo individualista o del
marxismo collettivista saranno sottoposti a questa metodologia e tutti

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gli elementi ideologici saranno denunciati e sottoposti a falsificazione,


in modo da distinguere quanto di quelle teorie è ideologia ed etica e
quanto invece descrizione dei fenomeni politico economici.
Verranno usati modelli matematici e rappresentazioni logiche,
ma con una funzione strumentale.

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5. IDEOLOGIA E POLITICA ECONOMICA

Il metodo sopra delineato è senza dubbio poco utilizzato nella


prassi accademica.
Purtroppo ad oggi gli economisti si dividono in scuole
profondamente influenzate dall'ideologia. L'ideologia è, secondo la
definizione dell'enciclopedia Treccani, il complesso di credenze,
opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato
gruppo sociale.
Noi usiamo il termine ideologia nell'accezione paretiana:
intendiamo l'ideologia come la reale religione (il termine è usato in
senso antropologico) che guida l'azione di un gruppo sociale e la
contrapponiamo alla conoscenza o scienza basata sull'osservazione e il
ragionamento.
Abbiamo usato il termine religione in senso antropologico. Di
solito si pensa alla religione come un insieme di dogmi e credenze, ma
l'antropologia studia la religione per i comportamenti pratici che
determina. Questo significa che concentra la sua attenzione
sull'effettiva azione dell'uomo in carne e ossa, sulla prassi.
Ebbene, come abbiamo avuto modo di dire in precedenza, gli
economisti sono divisi in scuole impegnate a falsificare le teorie delle
scuole di pensiero economico avverse e a verificare la validità di quelle
pronunciate dalla propria.
E' evidente che si tratta di un comportamento inconciliabile con
la scienza, ma del tutto spiegabile da un punto di vista politico.
A causa di questo modo di procedere, i progressi più importanti
sono stati prodotti da quegli economisti che hanno creato modelli
teorici in grado di ricomprendere al loro interno le opposte teorie come

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casi particolari di una teoria più generale. Tali schemi teorici hanno
però lasciato inalterata la diatriba tra gli economisti delle opposte
scuole.
In questo testo si cercherà, per quello che è possibile, di essere
il più possibile lontano da un approccio ideologico.
Un'osservazione. Esistono due ordini di ragione per cui per le
discipline politico economiche è più facile l'affermazione di scuole di
pensiero ideologiche che per le discipline naturali:
- la prima ragione, come abbiamo visto, è che per le discipline
umane non può essere utilizzato in modo rigoroso il metodo
sperimentale, tipico delle scienze naturali e gli economisti non hanno
effettuato una scelta epistemologica coerente con la natura dei
fenomeni umani studiati,
- la seconda è che le stesse teorie economiche influenzano la
politica, per cui la pressione della politica e in genere dei gruppi di
potere economici sugli studiosi di economia e sui risultati dei loro
lavori, è molto più forte che nelle discipline naturali.
In altre parole lo studioso di economia si trova egli stesso di
fronte ad un processo di massimizzazione e deve scegliere se
massimizzare la propria carriera, adeguandosi ai gruppi di potere che
dominano la scena in un determinato periodo, oppure se proclamare i
risultati della ricerca economica, che lui ritiene veri, a scapito della
propria condizione economico sociale.
Essendo anche l'economista un animale sociale, egli dovrà
decidere se sia più utile per lui affermare i risultati raggiunti con i
propri studi oppure rimanere conformista.

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6. CLASSIFICAZIONE IN BASE AL RUOLO DELLE


STATO IN ECONOMIA

Una delle questioni ideologiche e pratiche più importanti


nell'ambito dello studio della Politica economica è il peso e l'influenza
dello Stato sull'economia di una nazione.
A seconda della maggiore o minore influenza dello Stato
sull'economia di un Paese mediante la politica economica è
comunemente accettata le seguente divisione:

economia di mercato
economia pianificata
economia mista.

In realtà tale divisione non è esaustiva, in primo luogo perché


all'interno delle economie di mercato esistono economie fortemente
liberiste ed altre fortemente socialdemocratiche: l'economia di
mercato statunitense è ad esempio molto più liberale dell'economia
europea, che, al contrario, è molto più attenta al welfare.
In secondo luogo perché, dopo l'adesione della Cina comunista
al WTO (World Trade Organization), assistiamo a un'economia di
mercato a Partito unico, accanto alle tradizionali economie
pianificate, come, ad esempio, Corea del Nord e Cuba.
Inoltre si fa strada sempre più, nell'ambito dell'Unione
Monetaria, il concetto di sussidiarietà.
Il principio di sussidiarietà è stato infatti recepito come
basilare dalla UE con il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992. Lo
si indica come fondamentale principio di democrazia, cardine della

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Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

concezione dello stato, ed articolato secondo la gerarchia delle


istituzioni, al servizio dei cittadini.
Secondo questo principio, se un cittadino o un gruppo sociale
non è in grado, con le sue forze, di raggiungere il proprio fine,
ordinato al bene comune, spetta intervenire in loro aiuto alle
istituzioni sociali più prossime al cittadino: prima i comuni, poi le
province, le regioni, gli stati nazionali ed infine la UE. Tutto, secondo
il principio di sussidiarietà; riconoscendo che la persona e le altri
componenti della società vengono “prima” dello stato; riconoscendo
che non c’è democrazia, ma nemmeno partecipazione, senza
sussidiarietà. Tutto ciò favorisce, infatti, la partecipazione di ogni
cittadino (come suo dovere e diritto) alla costruzione del bene comune,
ovvero alle condizioni capaci di agevolare il progetto di felicità che
coinvolge, non tanto l’individuo, ma le famiglie e le comunità di amici,
in cui si esprime la vita quotidiana di ciascuno.
Una possibile nuova classificazione è la seguente:

 economia di mercato liberista


 economia di mercato socialdemocratica
 economia pianificata
 economia mista a sistema politico liberale
 economia mista a sistema politico comunista
 economia sussidiaria

L'economia di mercato liberista è un'economia in cui lo Stato


non interviene a garantire il welfare dei suoi cittadini più bisognosi,
ma lo Stato si pone come obiettivo principale l'efficienza;

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L'economica di mercato socialdemocratica, al contrario


interviene con il welfare, più o meno pesante a favore dei suoi
cittadini, a partire da quelli considerati più deboli;
L'economia pianificata è quell'economia in cui non esistono le
libere scelte degli operatori economici, consumatori, imprese e banche,
e le loro decisioni sono sostituite da una matrice input output che
determina in entrata tutti i fabbisogni produttivi e in uscita tutti i
prodotti e determina per questa via l'equilibrio a priori;
L'economia mista a sistema politico liberale è un economia con
un pesante intervento dello Stato per mezzo di enti e aziende
pubbliche, ma con un sistema politico di tipo liberale;
L'economia mista a sistema politico comunista è caratterizzata
da un pesante intervento dello Stato e da un regime a partito unico, i
cui il ricambio delle élite avviene sempre all'interno del medesimo
partito e all'interno della stessa ideologia. Queste economie, a
differenza di quelle di mercato, prevedono la programmazione delle
attività delle aziende statali e del sistema bancario, mentre utilizzano
i metodi di politica economica tipici delle economie di mercato per le
medie e piccole imprese.
L'economia sussidiaria è la nascente economia europea,
caratterizzata:
 da più livelli di governo dell'economia: Commissione
europea, Governi nazionali, Regioni, Comuni e fa
intervenire in via sussidiaria l'autorità politica più
vicina al cittadino.
 dalla presenza di numerosi corpi intermedi ( profit e no-
profit) oltre alle amministrazioni pubbliche e agli
operatore economici

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La precedente classificazione serve solo a dare il quadro attuale


dei tipi di peso che lo Stato può avere all'interno della Politica
economica di un Paese.

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7. ETICA E POLITICA ECONOMICA

Abbiamo definito l'Economia come quella scienza che studia


come utilizzare risorse scarse per soddisfare al meglio i bisogni e la
Politica economica come la disciplina economica che studia gli effetti
dell'intervento o del mancato intervento dei poteri pubblici e dei
soggetti privati sull'economia, allo scopo di elaborare interventi
destinati a modificare l'andamento del sistema economico a livello
macroeconomico e microeconomico per raggiungere obiettivi economici
prefissati. Abbiamo però avvisato il lettore che i fenomeni economici
sono sempre fenomeni sociali e politici. Dobbiamo ora approfondire se
i fenomeni economici abbiano, e in che modo, una relazione con i
fenomeni etici e l'etica in quanto tale e se le concezioni etiche abbiano
o no influenzato il pensiero e le teorie economiche.
L'etica è quella branca della filosofia che studia l'uomo in
quanto essere sociale, al fine di ricercare uno o più criteri che
consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà e
di determinarne i limiti opportuni.
La domanda è: esiste una relazione tra l'etica e l'economia?
All'inizio del 1900 Max Weber pubblicò L'etica protestante e lo
spirito del capitalismo. In questo testo Max Weber mette in relazione
due fenomeni, uno etico religioso, uno economico: la mentalità
religiosa calvinista e il successivo sviluppo capitalista. Egli arrivò alla
conclusione secondo la quale la mentalità religiosa calvinista fu una
pre-condizione culturale insita nella popolazione europea assai utile
al formarsi della mentalità capitalista e successivamente del
capitalismo.

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Non ne fu l'unica causa. Anche la scoperta delle nuove rotte


commerciali e del nuovo mondo e la rivoluzione industriale ne furono
concause, ma la mentalità calvinista rappresentò una premessa senza
dubbio necessaria allo sviluppo del capitalismo e soprattutto al suo
spirito.
Weber infatti, come chiarisce lo stesso titolo dell'opera, si
riferisce allo "spirito" capitalistico, a quella disposizione socio-
culturale che induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria
attività per generare nuove iniziative economiche e non a spendere il
guadagno in iniziative di mecenatismo o nella carità.
Max Weber, con quest'opera, smentisce l'economia classica,
quella neoclassica e lo scientismo in generale. I fatti sociali ed
economici non si spiegano solo con leggi sociali ed economiche, come
pensano i capitalisti di matrice puritana ed i marxisti. Non è vero,
come insegnano gli epigoni del capitalismo individualista e del
marxismo collettivista che l’economia sia la scienza esatta alla base di
tutto il resto, che ne è una sovrastruttura. I fenomeni sociali si
spiegano piuttosto -dice Weber- con la multiforme e imprevedibile
libertà dell’uomo, che rende la sociologia e l'economia una scienza
umana, e dunque non del tutto prevedibile, non una scienza esatta nel
senso delle scienze naturali. Dunque, Weber contesta il primato
causale dell’economia e mostra come i puritani calvinisti,
inconsapevolmente, hanno dato il via ad un’etica del risultato e del
successo, a partire dal problema squisitamente religioso e non
economico, della necessità di un segno di predestinazione. Il
capitalismo moderno è infatti realmente nato dalla mentalità
puritana, che tende a reinvestire gli utili per allargare le proprie
attività, cautelandosi da eventuali rovesci professionali, ed inoltre a

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Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

frazionare i rischi attraverso la diversificazione delle proprie attività.


Ma tutte queste pratiche hanno una radice etico religiosa. Il
calvinismo puritano -dice Weber- non è la sola causa del capitalismo,
ma certo una delle più determinanti. Weber ha dimostrato l'influenza
storica di una trasformazione etico culturale sulla storia economica,
ma a ben vedere l'influenza dell'etica sul pensiero economico ha
riguardato anche i fondamenti di molte teorie elaborate.
Sarà facile dimostrare come quasi tutte le teorie economiche
abbiano a loro fondamento una concezione etica, sottintesa e
inespressa talvolta o manifesta in altri casi, e pertanto sarà facile
dimostrare come tali teorie non siano neutrali e indipendenti dalla
filosofia etica. In modo sintetico, le principali scuole di etica possono
essere così classificate:
o etica utilitaristica: l'utilitarismo è quella teoria della
giustizia secondo la quale è "giusto" compiere l'atto che,
tra le alternative, massimizza la felicità complessiva,
misurata tramite l'utilità. Per tale ragione, si
attribuisce all'utilitarismo una visione della giustizia di
tipo consequenzialistico: la giustificazione di una scelta
dipende dal risultato (in termini di utilità-felicità) che
comporta per gli esseri sensibili. Ne furono fondatori
Jeremy Bentham (1749-1832) e John Stuart Mill (1806-
1873). L'unico presupposto aprioristico dell'utilitarismo
è l'imparzialità. Questo modello è molto diffuso
soprattutto nella versione di Sidgwick il quale sostiene
l'edonismo etico, che non fa alcuna ipotesi su cosa
effettivamente gli uomini ricercano, ma afferma che è

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bene ciò che è piacevole e male ciò che non lo è. La


parola chiave è utilità.
o etica contrattualistica: per la posizione contrattualistica
(Hobbes, Locke, Rousseau), le regole che governano i
nostri diritti e doveri sono conseguenza di un contratto
fra le persone stipulato per ragioni di convenienza, in
situazioni in cui a fronte di una nostra incertezza fa
riscontro la capacità di altri di agire razionalmente. La
scelta razionale si richiama a principi condivisi che,
costringendo ciascuno all’imparzialità dell’agire,
rivestono significato morale: sarà la reciprocità attuata
o attuabile che costruisce il contenuto morale delle
nostre azioni, a prescindere dai sentimenti o dalla
ragione. La parola chiave è contratto.
o etica del dovere: nasce con Kant e il suo agnosticismo
metafisico. Le dottrine etiche tradizionali stabilivano il
fondamento delle norme etiche sulla conoscenza. In
Kant, invece, la norma morale è frutto della decisione
immediata dell'uomo. La morale nasce dalla condizione
dell'uomo in quanto uomo, che produce le norme di
comportamento al di fuori della causalità
deterministica del mondo sensibile. Non si tratta quindi
di ragione empirica, condizionata dai fenomeni, ma di
ragione incondizionata, che nella assoluta libertà
stabilisce le norme di comportamento. L'uomo è
concepito come soggetto morale che agisce con libera
volontà. La parola chiave è dovere o imperativo
categorico.

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Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

o etica nata dalla teoria dell'evoluzione. Furono prima


Herbert Spencer e Shumpeter a trasferire la teoria
evoluzionistica dalle scienze naturali alla sociologia il
primo e all'economica al secondo. Ma in parte la teoria
sociale dell'evoluzione è sottostante anche al pensiero di
Marx, laddove le classi in lotta tra di loro lottano per il
predominio e in Hitler dove la lotta è tra le razze. Le
parole chiave sono predominio e evoluzione.
o etica aristotelica: le parola chiave sono il bene e le virtù
(le forze necessarie per conseguire il bene).
Si fonda su 4 forze:
 la prudenza, che è la virtù di discernere il vero bene in
ogni situazione, la cui esaltazione è la sagacia, ossia la
capacità di trovare una soluzione completamente
nuova per risolvere un problema e conseguire il bene;
 la giustizia che è la ferma determinazione di dare a
ciascuno il suo (e non a tutti la stessa cosa);
 la fortezza, la quale assicura, nelle difficoltà, la
fermezza e la costanza nella ricerca del bene;
 la temperanza che assicura il dominio della volontà
sugli istinti, al fine di preferire il bene.
Il perseguimento dell’etica aristotelica è possibile se si pensa
che si possa determinare la verità sulle vicende e sulle più svariate
questioni con l'uso della logica, superando l’agnosticismo metafisico di
Kant e tornando alla lezione di Socrate, Platone ed Aristotele. In altre
parole si ritiene che la conoscenza non è limitata al campo degli
esperimenti ripetibili, ma si estende a qualsiasi campo, anche etico,
con il metodo della logica. E' innegabile che le scuole economiche

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Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

siano state influenzate essenzialmente da un lato dall'etica ispirata


da Bentham e Rousseau e dall'altro da quella ispirata dalle concezioni
evoluzionistiche di Darwin.
Sono riferibili al primo gruppo tutte le concezioni economiche
liberiste classiche e neoclassiche.
Sono riferibile al secondo gruppo le teorie economiche liberiste
di Schumpeter, e, seppure insieme a molti altri elementi ideologici, le
teorie economiche quali il marxismo e il nazismo.
Ovviamente le teorie economiche sopra richiamate non possono
essere descritte semplicemente con riferimento ai loro fondamenti
etici, ma è essenziale ricordare che esistono teorie economiche che
danno per scontato che tutti gli uomini siano uguali (concezioni
economiche liberiste classiche e neoclassiche) e altre che
presuppongono che non lo sono affatto, se non all'interno della stessa
classe o razza.

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8. MACROECONOMIA E POLITICA ECONOMICA

Il sistema economico può essere studiato a livello aggregato


oppure facendo riferimento al comportamento del singolo operatore
(considerato come imprenditore o consumatore).
La disciplina che studia il comportamento del singolo operatore
economico è denominata microeconomia. Lo studio dell'economia a
livello aggregato è definito macroeconomia.
Le variabili macroeconomiche fondamentali oggetto di studio
della macroeconomia sono:
 la domanda e l'offerta aggregata
 il prodotto interno lordo,
 l'investimento complessivo e il risparmio,
 le importazioni e le esportazioni,
 il tasso di cambio,
 la moneta,
 l'inflazione,
 il tasso di interesse di mercato,
 il saldo del bilancio pubblico,
 la bilancia dei pagamenti,
 il tasso di occupazione,
 le aspettative degli operatori.

A tempo debito, nell'ambito dei quadri teorici relativi a


ciascuna politica economica che analizzeremo, studieremo tali
variabili, le teorie economiche che si sono sviluppate su ciascuna di
esse e le relazioni possibili tra ciascuna di esse.

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Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

Intanto occorre tenere a mente che mentre per talune scuole di


pensiero economico il processo di massimizzazione del singolo
operatore è sempre indipendente dal comportamento degli altri
operatori e dello Stato, per altre scuole economiche invece il
comportamento degli altri operatori e dello Stato modifica il
comportamento del singolo operatore.
La politica economica si occupa principalmente delle variabile
macroeconomiche sopra descritte, piuttosto che del comportamento
microeconomico degli operatori, anche se esistono tentativi formali di
rendere coerenti le due discipline.
La maggior parte delle scuole di pensiero economico limitano il
campo di studio della politica economica alla sola macroeconomia.
Come vedremo in dettaglio, si sono alternate nel corso della
storia, teorie macroeconomiche diverse e spesso contrastanti, per cui
le politiche economiche sono state molto diverse se non opposte nel
corso della storia, risentendo delle convinzioni di volta in volta
esistenti dalla teoria macroeconomica.
Addirittura, come vedremo, nel corso della storia economica, le
presunte soluzioni di politica economica di un periodo sono diventate
le cause dei problemi macroeconomici del periodo successivo.

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Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

9. LE BRANCHE DELLA POLITICA ECONOMICA

Abbiamo detto che la Politica economica è la disciplina


economica che studia gli effetti dell'intervento o del mancato
intervento dei poteri pubblici e dei soggetti privati sull'economia, allo
scopo di elaborare interventi destinati a modificare l'andamento del
sistema economico a livello macroeconomico e microeconomico per
raggiungere obiettivi economici prefissati.
A seconda delle variabili macroeconomiche che la Politica
economica intende utilizzare e degli obiettivi che intende raggiungere
si distinguono:
- la politica monetaria: è la politica del governo, delegata in
taluni regimi alla Banca Centrale, che regola l'offerta di moneta e i
tassi di interesse di mercato;
- la politica del bilancio pubblico: decide l'ammontare della
spesa e delle tasse;
- la politica economica delle relazioni internazionali: decide il
saldo della bilancia dei pagamenti (cioè la differenza tra le
importazioni e le esportazioni) e il tasso di cambio; decide la riduzione
di sovranità nazionale in caso di partecipazione a comunità
economiche ed unioni monetarie: i Paesi che hanno aderito all'unione
monetaria, ad esempio, hanno deciso di rinunciare al governo della
quantità di moneta e al tasso di cambio. Decide la spesa per la difesa
del territorio e dunque la spesa per l'esercito;
- la politica dello sviluppo economico sostenibile e della
competitività: è la politica tesa ad ottenere lo sviluppo sostenibile di
una nazione o di un'area economica e a renderla competitiva
rimuovendo gli ostacoli allo sviluppo e alla competitività e

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Salvatore Della Corte “Che cos'è la Politica economica?”

promuovendo i fattori di sviluppo, a partire dall'innovazione


tecnologica e dall'istruzione e formazione. Si occupa anche della spesa
per l'apparato giudiziario e la sicurezza dei cittadini;
- la politica del lavoro: è la politica che si prefigge di far
aumentare l'occupazione fino al raggiungimento della piena
occupazione;
- la politica dell'energia: è la politica che si preoccupa
dell'approvvigionamento delle fonti energetiche e di contenere il loro
costo;
- la politica delle acque: è la politica delle opere pubbliche
necessarie per dotare i cittadini dell'acqua potabile nelle case;
- la politica agricola e alimentare: è la politica per
l'approvvigionamento da parte della popolazione dei viveri alimentari;
- la politica infrastrutturale: assicura le opere infrastrutturali
necessarie per lo scambio delle merci e la libera circolazione dei
cittadini sia nelle economie di mercato sia nelle economie pianificate;
Le branche della politica economica così individuate sono in
stretta relazione e connessione tra di loro. L'insieme delle politiche
attuate dal Governo confluiscono nel bilancio dello Stato e delle
pubbliche amministrazioni centrali, locali e degli enti pubblici. Il
complesso delle azioni di questi organismi determina il risultato
dell'azione di politica economica del Governo.

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STATO E MERCATO
NELLE TEORIE DELLA
POLITICA ECONOMICA
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Stato e mercato nelle teorie della
politica economica”

Indice

1. IL MERCANTILISMO ---------------------------------------------------------------------------- 3
2. LA FISIOCRAZIA ---------------------------------------------------------------------------------- 5
3. LA SCUOLA CLASSICA INGLESE ----------------------------------------------------------- 7
4. LA SCUOLA STORICA TEDESCA ----------------------------------------------------------- 12
5. IL MARXISMO ------------------------------------------------------------------------------------ 14
6. LA SCUOLA NEOCLASSICA INGLESE ---------------------------------------------------- 18
7. PENSIERO SOCIALE CRISTIANO ---------------------------------------------------------- 22
8. LA SCUOLA KEYNESIANA -------------------------------------------------------------------- 25
9. LA SCUOLA MONETARISTA ----------------------------------------------------------------- 27
10. L’ATTUALE CRISI ECONOMICA MONDIALE -------------------------------------- 28

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Salvatore Della Corte “Stato e mercato nelle teorie della
politica economica”

1. IL MERCANTILISMO

Nel XVI secolo si vanno formando gli Stati nazionali. I


monarchi cercano di capire come aumentare la ricchezza economica
delle proprie nazioni e il benessere dei cittadini governati. Alcuni
elementi propri della politica mercantilistica si possono già ritrovare
nella prassi dei maggiori Comuni medievali, specialmente italiani, ma
fu soprattutto l'avvento del potere sovrano assoluto che determinò il
sorgere di nuove funzioni e conseguentemente di nuove esigenze
finanziarie.
La prassi economica consigliata dai mercantilisti durerà fino a
tutto il XVII secolo. Colbert ne fece una scuola amministrativa di
politica economica.
I fondamenti etici e filosofici sono comuni all'assolutismo. Il
potere del monarca deriva direttamente da Dio. E' il monarca, su
delega divina, che deve occuparsi del benessere economico della
comunità politica su cui regna. Di conseguenza la scienza economica
per eccellenza è la Politica economica: l'insieme delle buone condotte
del monarca per il benessere economico dei suoi sudditi e del regno.
Infine è lo Stato che fa ricchi i cittadini e il mercato lasciato a se
stesso e al comportamento degli operatori non assicurerebbe da solo la
ricchezza della nazione. L'economia e il mercato sono subordinati allo
Stato e agli obiettivi di politica economica che esso persegue per il
bene della Corona.
Come dottrina il mercantilismo non ebbe trattazione
sistematica. Gli scrittori mercantilisti si occuparono infatti di
problemi singoli, soprattutto monetari e commerciali, e sempre da un
punto di vista essenzialmente pratico.

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Salvatore Della Corte “Stato e mercato nelle teorie della
politica economica”

Grande è la varietà di mezzi cui si è fatto ricorso nei vari paesi


e nei vari periodi per realizzare lo stesso fine; i mercantilisti
consigliarono divieti di esportazione della moneta e dei metalli
preziosi; imposero l’obbligo ai mercanti di riportare in moneta nel
paese parte almeno del prezzo ricavato all’estero; consigliarono dazi
all’importazione, premi all’esportazione e divieti all’uscita delle
materie prime. I mercantilisti furono protezionisti e consigliarono la
creazione di grandi compagnie commerciali, l’incremento della marina
mercantile, la politica colonialista, la politica demografica espansiva,
la formazione di un unico mercato nazionale, la creazione di industrie
di Stato
La politica economica che ne deriva è una politica economica di
surplus del saldo della bilancia dei pagamenti, protezionista,
colonialista, con una politica demografica espansiva.
Come abbiamo detto, il mondo accademico ha rigettato le teorie
mercantiliste, ma esse sono sempre state vive nella prassi di politica
economica. In storia si parla ad esempio di neomercantilismo per il
periodo storico a cavallo tra le due guerre mondiali. L'attuale scontro
sui dazi tra Cina e Unione europea conferma la persistenza dei
concetti economici mercantili nella realtà storica.
L'applicazione di questi principi ha però condotto sempre,
prima o poi, alla guerra tra gli Stati, con le inevitabili rovinose
conseguenze.
Il vero limite della politica economica mercantilista è etico, ma
se ci si svincola dall'etica il mercantilismo è assolutamente efficiente.
Il problema etico è che la politica economica mercantilista prepara lo
Stato alla guerra contro gli altri Stati, per il predominio geopolitico ed
economico.

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Salvatore Della Corte “Stato e mercato nelle teorie della
politica economica”

2. LA FISIOCRAZIA

E' la Scuola economica francese, fiorita tra il 1750 e il 1780, il


cui principale autore fu da F. Quesnay, che elaborò la teoria del
‘sistema agricolo’ o ‘dottrina dei filosofi economisti’. Il sistema si
sviluppò da semplice difesa della funzione economica e degli interessi
dell’agricoltura a vera dottrina economica, fondata sul concetto di un
ordine naturale preesistente e sovrastante agli ordinamenti positivi.
La scuola risente della polemica illuminista contro il potere assoluto.
Di lì a poco il contrasto tra l'emergente borghesia e la nobiltà e la
Corona, sarebbe sfociato nella rivoluzione francese.
I precedenti della più ampia e complessa dottrina sociale dei
fisiocrati vanno ritrovati nelle correnti giusnaturalistiche e
soprattutto nel razionalismo illuminista. E' evidente l'influenza di
Cartesio e degli enciclopedisti. Le idee fisiocratiche non vanno quindi
considerate come creazione originale di un solo pensatore o di un
piccolo gruppo, ma fu Quesnay a dare loro una sistemazione
razionale.
La principale teoria fisiocratica è la teoria del prodotto netto –
che dimostrerebbe la superiorità dell’agricoltura sulle altre attività
umane.
Il prodotto netto è la parte del prodotto che resta disponibile
dedotte le spese di produzione: è la differenza tra il grano ottenuto dal
raccolto e il grano impiegato per produrlo e nutrire chi ha lavorato la
terra.
Secondo i fisiocrati, l'agricoltura è l'unica vera fonte di
ricchezza perché in essa la natura moltiplica il rendimento dell’opera
dell’uomo

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I fisiocrati contestano il ruolo dello Stato e proclamano il


fondamento naturale della proprietà privata e della libertà di
iniziativa economica. La società e i proprietari fondiari vengono prima
dello Stato.

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3. LA SCUOLA CLASSICA INGLESE

Lo studioso che iniziò un nuovo modo di affrontare l'economia


fu Smith. Egli, al pari dei mercantilisti, fu un teorico della
macroeconomia interessato alle forze che determinano la crescita
economica. Ma la sua conclusione, nonostante tutte le guerre
dell'impero britannico e il monopolio della Compagnia delle Indie
Orientali, fu diametralmente opposto ai mercantilisti: è il mercato il
motore dello sviluppo economico.
E' il pensiero di Bacone e Hume a fondamento dell'analisi
economica della scuola classica. Il principio etico fondante l'economia
di mercato è il principio di simpatia. L'etica di Smith non è fondata
sulla ragione, come in Aristotele, ma sui sentimenti morali, in
particolare sul principio di simpatia, che consente agli uomini di
identificarsi negli altri, di comprenderne i sentimenti,
l'apprezzamento e l'approvazione. E' proprio questo sentimento che
consente agli uomini di trovare un accordo, lo scambio, nonostante i
diversi interessi ed è questo sentimento morale che permette la
nascita del mercato. Da questo sentimento gli individui deducono
regole morali di comportamento. La coscienza morale non è allora un
principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico
che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere
prevalentemente sociale e intersoggettivo.
In quest'ottica, ad esempio, il diritto di proprietà non è un
diritto naturale come l'intendeva John Locke, né un artificio storico
come sostenuto da Hume, ma il risultato di un processo speculare di
simpatia e socializzante che giustifica la proprietà in quanto frutto di
un lavoro personale .

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L'orafo produce un prezioso non per farne dono (per il


sentimento di benevolenza), ma per venderlo. L'orafo produce quel
prezioso che considera essere desiderato, apprezzato, dal cliente. In
altri termini, l'orafo cerca l'apprezzamento (la simpatia) del suo
cliente.
Secondo Adam Smith la ricchezza viene prodotta attraverso il
lavoro degli uomini e può essere incrementata aumentando la
produttività del lavoro o il numero di lavoratori. Il lavoro permette
inoltre di determinare il “valore di scambio” di un bene. Adam Smith
sviluppa così una teoria del valore-lavoro contrapposta all'idea di una
ricchezza proveniente dalla natura sostenuta dai fisiocratici.
E' la divisione del lavoro che permette l'incremento della
produttività del lavoro. Essa consente: (1) la specializzazione, (2)
riduce il tempo necessario per passare da un'attività all'altra, (3) la
diffusione dell'utilizzo di macchine che facilitano e riducono il lavoro.
La divisione del lavoro porta i suoi benefici in termini
produttivi anche quando induce la differenziazione fra mestieri e
professioni. Questo genera un'"interdipendenza sociale" e presuppone
lo "scambio" e il "mercato", attraverso il quale un individuo cede beni
da lui prodotti in sovrappiù rispetto ai propri bisogni per acquisire
prodotti realizzati da altri e necessari per soddisfare gli altri bisogni.
La divisione del lavoro comporta però anche "conseguenze
negative": la specializzazione verso un'unica attività e la realizzazione
di operazioni semplici, ripetitive e meccaniche, non sviluppa
l'immaginazione e riduce le capacità intellettuali dell'individuo.
Per compensare la riduzione umana che la specializzazione
comporta, Adam Smith sostiene lo sviluppo dell'istruzione finanziata
dallo Stato.

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La divisione del lavoro è incrementata dall'estensione del


mercato, che va esteso attraverso lo sviluppo di infrastrutture di
trasporto sia estendendo il commercio estero.
Infine, la divisione del lavoro dipende dal "livello di risparmio"
che è un elemento determinante per lo sviluppo economico.
Adam Smith introduce la distinzione fra "valore d'uso" e "valore
di scambio": un conto è l'utilità di un bene, che Smith considera
oggettiva, a differenza di quanto riterranno i marginalisti, e un altro è
il valore che il possesso di un oggetto conferisce nell'acquisire altri
beni.
Il "prezzo di mercato" di un prodotto dipende dal confronto fra
la domanda e l'offerta dello stesso e tende a convergere verso il prezzo
reale. Di fatto, il prezzo di mercato gravita attorno al prezzo reale a
seguito delle fluttuazioni della domanda e dell'offerta: il prezzo di
mercato sarà superiore al prezzo reale se la domanda supera l'offerta,
mentre sarà inferiore se l'offerta supera la domanda.
Il prezzo di mercato in ogni caso non può distanziarsi
durevolmente dal prezzo reale in quanto gli operatori aggiustano
l'offerta allineandola alla domanda.
Solo l'esistenza di risorse rare e la presenza di monopoli legali
permettono al prezzo di mercato di distanziarsi costantemente dal
prezzo reale.
Il tasso medio di profitto coincide con il tasso d'interesse medio
sulla moneta, perché il tasso d'interesse è un fenomeno reale: il
“prezzo” che mette in equilibrio il capitale finanziario (il risparmio) e
il capitale reale (gli investimenti).
Il libero funzionamento di un mercato concorrenziale tende far
convergere il prezzo di mercato al livello del prezzo reale e a fare

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scomparire qualsiasi domanda o offerta eccedentaria e a creare un


ordine morale giusto.
Dall'idea che i mercati si auto regolamentano e decretano un
ordine sociale giusto discendono i due cardini della politica economica
liberista:

 il libero scambio;
 Il laissez-faire;

Adam Smith critica apertamente i due capisaldi della politica


economica mercantilista: il protezionismo e l'intervento dello Stato in
economia.

 Libero scambio: lo Stato non deve occuparsi del saldo della


bilancia dei pagamenti, non deve regolare la moneta. Il
commercio internazionale e tutti i mercati si regoleranno
autonomamente. La soppressione di freni al commercio
interno ed esterno favorisce la divisione del lavoro e
aumenta la produzione economica e il benessere collettivo;
 Il laissez-faire: siccome i mercati si regolamentano da soli, lo
Stato deve limitarsi a poche attività: difendere la Nazione
da aggressioni straniere, erogare la Giustizia affinché
nessun individuo possa colpire gli interessi di un altro
individuo, occuparsi dell'Ordine Pubblico, avere
rappresentanze diplomatiche presso altri Stati, costruire le
infrastrutture pubbliche che consentano il commercio
(strade, ponti, canali ecc. ecc.). Per il resto lo Stato non
intervenga in politica perché il mercato da solo creerà il
benessere sociale e genererà lo sviluppo naturale dei
commerci e delle industrie.

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Smith influenzerà decisamente l'insegnamento della politica


economica nelle Università di tutto il mondo.
Insieme a Malthus, Say e Ricardo rappresenterà la scuola
classica inglese.
Non essendo questo un testo di storia economica metteremo
solo in luce le principali teorie elaborate dagli autori citati per
comprendere quello che a noi interessa: le conseguenze sulla Politica
economica.
Malthus, a cui si deve anche il concetto di domanda effettiva,
che verrà ripreso da Keynes, elabora la teoria per cui la popolazione
tende naturalmente a crescere più dei raccolti e dei mezzi di
sussistenza e propone il controllo delle nascite sulla base
dell'astensione dai rapporti sessuali.
Say elabora la teoria degli sbocchi: siccome i prodotti si
scambiano con altri prodotti, non è possibile la sovrapproduzione e
quindi la disoccupazione.
A Ricardo si deve la Teoria dei vantaggi comparati, secondo la
quale esiste un vantaggio nel commercio internazionale tra due paesi
se questi hanno costi comparati diversi. Ciascun Paese si
specializzerà nella produzione del bene in cui ha il minor costo
comparato e importerà il bene in cui ha il maggior costo comparato.
Si tratta di tesi tutte scientifiche, che hanno proseguito e
razionalizzato l'idea di Smith, e che giungono nel complesso a definire
le indicazioni principali di politica economica di questa scuola:
1) controllo delle nascite;
2) liberismo: i mercati si regolano da soli e la miglior cosa che lo
Stato deve fare è rimanere inattivo;
3) politica di libero scambio e lotta ai dazi e al protezionismo.

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4. LA SCUOLA STORICA TEDESCA

Verso la metà del XIX secolo si sviluppò la scuola storica in


Germania. I suoi autori principali sono List, Roscher e Knies.
Questi autori negano la possibilità di studiare la scienza
economica come una scienza naturale e ritengono che l'influenza della
storia sia predominante. E' possibile studiare l'economia solo in un
certo Paese e in una certa epoca. In buona sostanza non può esistere
una scienza economica, ma esiste solo la storia economica.
Nel 1865 veniva data alle stampe l'opera "DAS NATIONALE
SYSTEM DER POLITISCHEN OEKONOMIE" di FEDERIC LIST. In
quest'opera LIST contrappose alla teoria dei valori la cosiddetta
teoria delle forze produttive.
Secondo List il potere di creare delle ricchezze, cioè la capacità
intellettuale di organizzare le conoscenze d'ingegneria, di tecnica
economica e giuridica in una struttura atta a cooperare con le altre
famiglie, è cosa diversa e anzi, infinitamente più importante, della
ricchezza in sé. La capacità di produrre ricchezza non dipende quindi
solo dalle leggi del mercato ma anche dall'intelligenza e dall'abilità
con le quali il lavoro è utilizzato.
La moderna teoria economica ha riscoperto questa verità
laddove ha saputo riconoscere nella continua innovazione tecnologica,
nel "know-how", nella differenziazione del prodotto e nel "just in
time", non solo fattori di sviluppo industriale ma premessa per la
crescita economica di una nazione. La teoria economica tradizionale
del resto afferma che il valore della produttività del lavoro non viene
a dipendere solo dal prezzo delle merci prodotte ma anche dalla

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funzione dei costi: questi ultimi sono funzione del processo produttivo
impiegato.
La teoria delle forze produttive di List integra la teoria dei
valori di scambio e la tradizionale teoria della produzione. Essa studia
in quale modo un operatore economico raggiunga la capacità di
produrre beni o servizi in modo continuato; analizza, inoltre,
l'influenza sull'azione economica dell'imprenditore e del consumatore
del sistema "politico amministrativo" in cui operano. Il termine
"politico amministrativo" è qui usato nel senso più ampio possibile: si
ritiene cioè che il sistema amministrativo di trasferimento culturale
delle conoscenze tecniche e scientifiche, il funzionamento finanziario
dello Stato, il modo di condurre le sue relazioni internazionali,
l'ordine pubblico, l'amministrazione e la legislazione commerciale,
l'efficienza amministrativa dell'apparato giudiziario dello Stato, la
politica infrastrutturale dello Stato, tutti questi aspetti della vita
amministrativa dello Stato siano legati da leggi economiche con
l'azione dell'operatore economico, ne influenzino le scelte: in altre
parole tutto quanto citato in precedenza è argomento della funzione di
utilità dell'operatore economico.
L'operatore economico massimizzante si rende conto del peso di
questi vincoli politico amministrativi e concentra gran parte delle sue
energie per modificarli a proprio vantaggio.
La teoria delle forze produttive, anche se partendo da premesse
completamente diverse, porta alle stesse conclusioni dei mercantilisti:
l'intervento dello Stato in economia è necessario per assicurare il
benessere nazionale; i dazi e il protezionismo possono essere necessari
in determinati momenti storici per tutelare l'interesse nazionale.

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5. IL MARXISMO

A partire dalle teorie elaborate dalla scuola classica inglese ed


in particolare da Ricarc, Karl Marx elaborò la teoria del plusvalore e
la teoria della caduta del saggio di profitto.
I fondamenti etici del pensiero economico marxista sono il
materialismo storico e l'ideologia comunista. Il materialismo storico
sostiene che, come ebbe a dire Engels “il fattore che in ultima istanza
è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della
vita reale”.
L'ideologia comunista è un'ideologia sociale di matrice
darwiniana secondo la quale dall'osservazione storica del tramonto
delle società succedutesi nel tempo - le società tribali, schiavistiche e
feudali – deriva che anche il capitalismo subirà la stessa sorte.
In sintesi, il valore di scambio di una merce è determinato,
secondo Marx, dalla quantità di lavoro astratto racchiuso in essa e,
sempre secondo Marx, la quantità di lavoro è misurabile per durata
temporale. Il denaro consente gli scambi, perché il denaro è la merce
che funge da equivalente generale di ogni altra merce.
Il denaro consente di stabilire, tramite la legge della domanda e
dell'offerta, il prezzo di un bene sul mercato.
In una società mercantile esiste la circolazione merci-denaro-
merci: vi è cioè la vendita della merce, dalla quale si ricava del denaro
da reinvestire per l'acquisto di altra merce.
Nella società capitalista, la conversione di merce in denaro e
del denaro in merce non è finalizzata al consumo della merce stessa,
ma all'aumento di denaro, ossia al profitto, che egli definisce
plusvalore.

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In questo modo si realizza il processo di scambio d - m - d', in


cui d'>d.
E' la vendita della merce che consente di ottenere un profitto: il
capitalista acquista materie prime, (macchinari, combustibile etc.,
denaro investito nella forma di "capitale costante" ), però acquista
anche forza-lavoro, che è una merce, nella forma del salario.
Come ogni altra merce, la forza-lavoro, ha un valore di scambio,
quindi vale il tempo medio di lavoro necessario per produrla. il valore
della forza lavoro non è calcolato al suo rendimento, ma è calcolato sul
costo necessario perché possa riprodursi.
Il capitalista corrisponderà all'operaio solo quanto è necessario
alla sua sopravvivenza (cioè alla riproduzione di forza-lavoro).
Se la parte di lavoro necessaria all'operaio per la propria
sopravvivenza sono 5 ore, le altre ore di lavoro di quella giornata non
gli sono pagate, quindi sono plus lavoro, che genera plusvalore o
profitto.
La diminuzione del prezzo delle merci comporta la diminuzione
del tempo necessario di lavoro perché la forza-lavoro si riproduca; la
riduzione di tale tempo necessario comporta la diminuzione del
salario.
Pertanto il valore dell'ora di lavoro non più necessaria
all'operaio diventa un'ora in più di plus lavoro e perciò di plusvalore
relativo.
Utilizzando macchinari più sofisticati e perciò più efficaci che
permettano al lavoratore di produrre nel medesimo tempo una
maggiore quantità di merci, il costo della vita dell'operaio diminuisce.
Siccome diminuisce il salario aumenta il plus valore relativo.

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Per fare questo però il capitalista deve investire nuovo capitale


e acquistare nuovi macchinari, senza aver del tutto ammortizzato i
precedenti: aumenta il costo del capitale.
Da un lato aumenta il costo del capitale e dall'altro diminuisce
la partecipazione del lavoro alla produzione (che è quello che produce
il plusvalore): tutto ciò comporta la diminuzione del saggio di profitto.
Infatti, diminuisce il tasso di plusvalore pv/v e muta la
composizione del capitale investito;
Con l'aumento nel processo produttivo del "capitale costante" e
la diminuzione del lavoro, che produce plusvalore ("pv"), il saggio di
profitto p = pv / (c + v) diminuisce.
Il capitalismo è destinato a rendimenti decrescenti.
La teoria non tiene conto della formazione dei prezzi sul
mercato e dell'innovazione tecnologica. Inoltre è del tutto trascurato il
ruolo della moneta e del saggio di interesse nelle scelte
dell'imprenditore e il ruolo stesso dell'imprenditore, che si assume il
rischio dell'attività economica.
Le idee di Marx avranno una grande influenza sul pensiero
filosofico e la politica a partire dal novecento. Marx infatti, oltre alla
sua attività di filosofo, fondò anche il partito comunista, che si
diffonderà in tutto il mondo.
Dal momento che Marx non comprese il ruolo delle banche e, in
genere della finanza, nello sviluppo economico, né l'importanza della
libertà come caratteristica antropologica insopprimibile della natura
umana, gli stati comunisti furono caratterizzati dall'economica
pianificata.
In questo tipo di economia ogni scelta economica è decisa dallo
Stato attraverso un piano quinquennale, con una tavola di input e

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output che stabilisce le risorse necessarie e i prodotti che dovranno


veder luce per l'intera popolazione.
I lavoratori e i membri del partito sono indirizzati ad un lavoro
all'interno del piano. La proprietà privata è inesistente e tutto
appartiene allo Stato. Non esiste libertà né politica, né economica.

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6. LA SCUOLA NEOCLASSICA INGLESE

Possiamo caratterizzare la teoria economica neoclassica, della


quale ne furono fondatori Jeremy Bentham (1749-1832) e John Stuart
Mill (1806-1873), per cinque principali caratteristiche (controllare
correzione):
 l'individualismo metodologico e l'utilitarismo.
 la teoria del valore-utilità: secondo questa teoria il
prezzo di una merce dipende dall’interazione tra
domanda ed offerta. La domanda è determinata sulla
base dell’utilità marginale della merce stessa e l’offerta
in modo molto simile;
 la teoria della retribuzione dei fattori produttivi: il
salario percepito dai lavoratori è solo la retribuzione
del servizio del fattore lavoro ed il suo valore è
calcolato facendo riferimento alla produttività
marginale. Il profitto è la retribuzione del fattore
capitale e corrisponde alla produttività marginale del
capitale.
 la rendita della terra è calcolata con lo stesso criterio.
Questa teoria pone al centro dell'analisi economica l'individuo e
i suoi processi di ottimizzazione e abbandona l'analisi del
comportamento delle diverse classi economiche che erano state
individuate dai classici (redditieri, lavoratori, capitalisti).
L'analisi economica è rivolta a trovare le condizioni di
equilibrio parziale (Marshal) o generale (Walras, Pareto)
dell'economia.

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La domanda dei fattori della produzione è, nella teoria


neoclassica, una domanda derivata, nel senso che la domanda di
lavoro e e di capitale è derivata dalla domanda dei beni per la cui
produzione sono utilizzati quei fattori.
Nel modello neoclassico sono la scelta del livello della
produzione e quella della tecnica di produzione a determinare la
domanda di lavoro dell'impresa.
L'impresa non domanda lavoro solo in base all'andamento del
mercato dei beni in cui opera, ma anche in riferimento al prezzo
relativo dei fattori della produzione. Questo è soprattutto vero al
momento della nascita dell'impresa.

Il primo principio della domanda dei fattori della produzione


stabilisce che l'impresa utilizza processi produttivi caratterizzati da
una sempre maggiore intensità di capitale all'aumentare del costo
relativo del lavoro. Questo principio ci fornisce lo strumento per
comprendere perché esistano grandi differenze tra i paesi nei rapporti
capitale ¬ lavoro utilizzati negli stessi settori industriali.
Esso prevede che più è alto il rapporto salario-rendimento del
capitale, più sarà alto il rapporto capitale-lavoro. Ora, mentre questo
principio è indiscutibile per comprendere le differenze suddette o per
spiegare la scelta della tecnica di produzione nel momento in cui
nasce un'impresa, non è altrettanto valido quando gli impianti
esistano già e sopravvengano delle variazioni nel rapporto salario-
rendimento del capitale. Diciamo, allora, che capitale e lavoro sono
altamente sostituibili se una data variazione nel rapporto salario-
rendimento del capitale provoca una grande variazione nel rapporto
capitale-lavoro.

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D'altra parte, se l'impresa praticamente non muta il rapporto


capitale lavoro quando si verificano grandi variazioni nel rapporto
salario-rendimento del capitale, diciamo che capitale e lavoro non
sono facilmente sostituibili tra loro.
La sostituzione dei fattori è più semplice nel lungo periodo che
non nel breve; in una piccola industria che non in un grande impianto
industriale. Nel breve periodo possiamo però dire che lo stock di
capitale dell'impresa è fisso.
Dato il capitale, nel breve periodo quanto lavoro domanderà
l'impresa? Essa impiegherà un lavoratore in più solo se il beneficio
che trarrà da ciò sarà maggiore o almeno uguale al costo di quello
stesso lavoratore, espresso dal salario monetario, che per la singola
impresa, è un dato. Secondo gli economisti neoclassici, infatti, il
contributo di un'ora addizionale è inferiore a quello dell'ora
precedente: si dice che il lavoro, dato il capitale, offre un prodotto
marginale decrescente. Anche il prodotto marginale in valore, il quale
è dato dal prodotto marginale per i prezzi, ha una funzione
decrescente perché le imprese si trovano ad operare in regime di
concorrenza perfetta e quindi non possono influenzare, prese
singolarmente, i prezzi a cui riusciranno a vendere i loro prodotti. Il
salario monetario è invece uniforme: l'impresa per la prima ora di
lavoro paga quanto paga per l'ultima ora. Se l'impresa intende
massimizzare i suoi profitti è chiaro che essa domanderà lavoro fino al
punto in cui il salario è uguale al prodotto marginale in valore, ovvero
fino al punto in cui il salario reale sarà uguale al prodotto marginale
in termini fisici. Ecco il primo postulato fondamentale della teoria
neoclassica dell'occupazione: Il salario è uguale al valore del prodotto
marginale del lavoro.

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E’ evidente che in un simile contesto teorico scompaiono i


problemi presenti nella teoria classica, poiché scompaiono sia la teoria
del valore-lavoro che il conflitto tra le classi.
Il marginalismo combatte sia lo sviluppo marxista del pensiero
degli economisti classici sia la scuola storica tedesca dell'economia:
esistono leggi economiche che sottostanno in modo universale al
comportamento economico dell'individuo ma queste leggi sono
lontanissime dal plusvalore (perché il salario e il lavoro sono pagati
correttamente per il loro contributo alla produzione e dalla caduta
tendenziale del saggio di interesse.
Con le sue dimostrazioni dell'equilibrio parziale e generale
torna la fiducia sulla capacità dei mercati di autoregolarsi ma anche
la teoria neoclassica non sviluppa adeguatamente l'importanza della
moneta nell'economia.

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7. PENSIERO SOCIALE CRISTIANO

Pensiero sociale cristiano sono tutte quelle scuole di pensiero


economico che nascono come tentativo di applicazione pratica degli
insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa.
Il principio fondamentale è il principio di dignità della persona.
In termini filosofici, la dignità umana poggia sulla libertà, intesa
come capacità di ogni uomo di autodeterminarsi al bene e quindi a
Dio.
Dunque, il diritto alla vita biologica, di espressione, di parola,
di culto, a formarsi una famiglia, di istruzione, di accedere a un
lavoro, sono necessari tutti.
E’ necessario ricordare che tutti i diritti sono, innanzitutto, dei
doveri. Se non mi sento in dovere di rispettare la libertà altrui, non
potrò invocare che sia rispettata la mia
Secondo la Teologia cattolica, Dio ha destinato la terra con
tutto quello che in essa è all'uso di tutti gli uomini e popoli, senza
escludere né privilegiare nessuno. Il mondo e la sua terra è il primo
dono di Dio per il sostentamento della vita umana.
La persona infatti non può fare a meno dei beni materiali che
rispondono ai suoi bisogni primari e costituiscono le condizioni
basilari per la sua esistenza; per avere una famiglia e per poter
conseguire le più alte finalità cui è chiamata.
Ogni uomo deve avere la possibilità di usufruire del benessere
necessario al suo pieno sviluppo: il principio dell'uso comune dei beni
è il primo principio di tutto l'ordinamento etico-sociale ed è prioritario
rispetto a qualunque intervento umano sui beni, ivi compresi quelli
della proprietà e del libero commercio.

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politica economica”

La proprietà privata e il libero commercio sono legittimi ma il


loro esercizio è subordinato alla destinazione universale dei beni:
pertanto la proprietà privata e il libero commercio non devono quindi
intralciare la diffusione del benessere comune, bensì al contrario
facilitarne la realizzazione: in altre parole tutti devono avere la
proprietà e tutti devono essere inseriti nei processi produttivi e
commerciali, mentre eccessive concentrazioni di ricchezza nelle mani
di pochi uomini sono pericolose per la vita spirituale degli stessi
detentori dei beni e colpiscono la giustizia sociale. La proprietà
privata e il capitale devono essere equamente accessibili a tutti.
Fu Pio XI, ad introdurre il principio di sussidiarietà nel 1931.
Secondo la Dottrina sociale della Chiesa, l’individualismo tipico
delle società moderne è la conseguenza dello sradicamento della
società civile, ovvero dei corpi sociali intermedi, attuato dalla
rivoluzione francese, e pianificato nella dottrina dello stato etico
hegeliano, madre di tutte le statolatrie e i totalitarismi.
Non esistono autori economici che abbiano tentato di
formalizzare in un tentativo teorico formale i principi etici sviluppati
dalla teologia morale del magistero cattolico.
L'influenza della Dottrina sociale cristiano è stato di tipo
pratico. Ha influenzato e influenza l'azione dei partiti di ispirazione
cristiana nel mondo e di importanti politici.
L'unica vittoria concreta di tali principi è stata l'accettazione
del principio di sussidiarietà da parte dell'Unione Europea.
Il principio di sussidiarietà è stato infatti recepito come
basilare dalla UE con il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992. Lo
si indica come fondamentale principio di democrazia, cardine della

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concezione dello stato, ed articolato secondo la gerarchia delle


istituzioni, al servizio dei cittadini.
Secondo questo principio, come è stato recepito dall'Unione
europea, se un cittadino o un gruppo sociale non è in grado, con le sue
forze, di raggiungere il proprio fine, ordinato al bene comune, spetta
intervenire in loro aiuto alle istituzioni sociali più prossime al
cittadino: prima i comuni, poi le province, le regioni, gli stati nazionali
ed infine la UE. Tutto, secondo il principio di sussidiarietà;
riconoscendo che la persona e le altri componenti della società
vengono “prima” dello stato; riconoscendo che non c’è democrazia, ma
nemmeno partecipazione, senza sussidiarietà. Tutto ciò favorisce,
infatti, la partecipazione di ogni cittadino (come suo dovere e diritto)
alla costruzione del bene comune, ovvero alle condizioni capaci di
agevolare il progetto di felicità che coinvolge, non tanto l’individuo,
ma le famiglie e le comunità di amici, in cui si esprime la vita
quotidiana di ciascuno; con il coraggio di guardare oltre il limite dei
soli beni materiali o culturali, e della stessa morte.

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8. LA SCUOLA KEYNESIANA

Keynes è un economista malthusiano. E' un profondo


conoscitore dell'economia classica e neoclassica inglese, di cui
condivide molti insegnamenti. I suoi fondamenti etici sono in parte
quelli dei classici, in parte quelli dei neoclassici. Keynes ha un
vantaggio rispetto ad essi: comprende il ruolo fondamentale della
moneta nell'economia e l'importanza della macroeconomia. Inoltre ha
difronte a se il più grande fallimento del mercato che la storia ha mai
visto fino a quel momento. E' certo che i neoclassici e i liberisti hanno
torto nelle loro indicazioni di Politica economica. Nel mercato non si
realizza automaticamente la piena occupazione. Occorre riprendere lo
studio delle variabili macroeconomiche.
Queste teorie saranno affrontate nel dettaglio quando
affronteremo la politica monetaria e quella fiscale. Quello che ci
interessa in questo capitolo sono le indicazioni di politica economica
che derivano dalle teorie keynesiane. Secondo Keynes occorre studiare
attentamente il funzionamento della Borsa, della moneta, della
bilancia dei pagamenti e delle variabili macroeconomiche e questo
studio consente ai governi di attuare quegli interventi necessari a
raggiungere la piena occupazione, la stabilità dei prezzi e l'equilibrio
della bilancia dei pagamenti.
E' necessario l'intervento dello Stato in economia per
raggiungere l'equilibrio di piena occupazione, la stabilità dei prezzi e
l'equilibrio della bilancia dei pagamenti. I classici e i neoclassici
sbagliano completamente a ritenere che il sistema raggiunga
l'equilibrio sui mercati nazionali e internazionali senza l'intervento
regolatore dell'attività economica da parte dello Stato. Esiste però una

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profonda differenza tra l'intervento prescritto dai mercantilisti, la


politica economica suggerita dalla scuola storica tedesca e l'intervento
proposto da Keynes. L'intervento non serve per arricchire la Nazione
e permetterle di conquistare altri Stati e popoli e costruire l'impero,
come si erano cimentate a fare Inghilterra, Francia, Italia e
Germania. Non si tratta di far vincere una Nazione sulle altre.
Lo studio della macroeconomia e l'intervento di politica
economica servono a raggiungere punti di equilibrio e non di surplus:
la bilancia dei pagamenti non deve essere in surplus, ma in pareggio,
lo Stato deve perseguire la piena occupazione, ma non con le
commesse militari o riorganizzando l'esercito. Lo Stato deve impedire
l'inflazione perché questa colpisce il risparmio e deve assolutamente
regolamentare i mercati finanziari.

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9. LA SCUOLA MONETARISTA

La politica espansiva della spesa pubblica e la politica


espansiva della moneta invece di ottenere la piena occupazione
condussero a crescenti debiti pubblici e inflazione.
Gli economisti si trovarono di fronte a problemi dovuti questa
volta non al fallimento dei mercati, come era accaduto nel 1929, ma a
problemi generati dagli interventi di politica economica prescritti da
una certa interpretazione del pensiero Keynesiano.
Forte dell'evidenza del fallimento delle politiche economiche
interventiste, Milton Friedman e Robert Lucas fonderanno due scuole
economiche di cui vedremo in seguito le teorie fortemente critici nei
confronti delle politiche interventiste Keynesiane.

La loro conclusione è che l'intervento dello Stato peggiora e non


migliora l'economia. La soluzione da loro proposta è tornare alla
ricetta liberista.

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10. L’ATTUALE CRISI ECONOMICA MONDIALE

I guasti determinati dall'eccesso di intervento dello Stato in


economia determinarono il ritorno alle politiche di matrice liberiste
ispirate dalla scuola monetarista.
Gli atti più significativi di questo nuovo corso di politica
economica sono stati i seguenti:
 negli anni 80 il federal reserve board all'epoca
procedette ad innalzare al 25% la soglia di realizzo
degli istituti di credito sui propri utili e a istituire il
ricorso al leveraged buyout
 la presidenza Clinton interrompe nel 1999 la
separazione del sistema bancario tra attività bancaria
commerciale e d'investimento e legittimando la nascita
di grandi conglomerati finanziari (Merrill Lynch, Bear
Sterns, Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan
Stanley)
 In Europa le banche centrali furono rese indipendenti
dal potere esecutivo e sollevate dall'obbligo di
finanziare i debiti pubblici statali
 banche, fondi finanziari e fondi pensione furono
liberalizzati, e furono acquisiti da soggetti privati;
 la circolazione internazionale dei capitali fu
liberalizzata e non più sottoposta a controlli preventivi
o a regole di movimentazione; furono rimossi vincoli,
come quello dei massimali di credito (divieto di erogare
credito oltre certe soglie) o dell'obbligo di acquistare

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quote di titoli di debito nazionale per le istituzioni


economiche controllate dallo Stato.
Il risultato fu che gli afflussi di capitali si fecero più massicci e
si avvio una nuova fase economica definibile "post-industriale" in cui
gli investimenti di natura finanziaria, soprattutto quelli speculativi,
sono più redditizi di quelli produttivi.
Il 15 settembre 2008 Lehman Brothers holdings inc la società
ha annunciato l'intenzione di avvalersi del chapter 11 del bankruptcy
code statunitense, una procedura molto simile al concordato
preventivo previsto dalla legge fallimentare italiana, annunciando
debiti bancari per 613 miliardi di dollari, debiti obbligazionari per 155
miliardi di dollari e attività per un valore di 639 miliardi di dollari. Si
tratta della più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti,
generata dalla bolla speculativa dei mutui sub prime. Le banche
americane, con l'erogazione dei mutui sub prime, hanno di fatto
trasformato il mutuo, uno strumento molto semplice di finanziamento
per l'acquisto di un immobile tutelato da ipoteca, in una pratica
predatoria. Le banche hanno erogato mutui a persone che non
avrebbero potuto restituire il prestito per mancanza di reddito.
Questa pratica predatoria è dipesa dalla mancanza di una effettiva
supervisione da parte delle autorità governative. Tutti gli operatori
hanno agito senza deontologia ed etica: i mediatori creditizi hanno
indirizzato i debitori verso prestiti che non potevano soddisfare; i
periti hanno gonfiato le valutazioni degli immobili, gli investitori di
Wall Street hanno scommesso sui titoli che incorporavano mutui sub
prime, che molti di loro sapevano essere delle truffe al solo fine
speculativo, convinti di potersi liberare del titolo un momento prima
del crollo.

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Se è vero che un eccessivo interventismo statale nell'economia è


esso stesso portatore di grossi problemi da risolvere (in particolare,
come vedremo, Debito pubblico e inflazione), la soluzione non può
essere il ritorno ai precetti liberali, perché l'evidenza storica dimostra
che i mercati, lasciati a se stessi, non sono in grado di auto
regolamentarsi e giungere all'equilibrio.
Occorre dunque trovare un punto di equilibrio e studiare quali
attività lo Stato deve svolgere e quali possono essere lasciate al
mercato.
In ogni caso tutti concordano che i mercati finanziari sono
particolari, come micidiali sono le conseguenze della pratiche
scorrette su di esse. Occorre qui forse riscoprire un insegnamento di
Keynes che non ebbe particolare seguito.
Secondo Keynes l'andamento delle Borse non ha alcuna
relazione con l'andamento dell'economia reale. La Borsa è il regno
della speculazione, è il posto in cui si scommette sul valore che le
azioni avranno qualche ora dopo. Qualcuno perde, qualcuno vince, ma
il saldo è zero. Lo sviluppo economico dipende invece dall'innovazione
tecnologica, dalla capacità di trasformare le invenzioni e le
innovazioni in nuovi prodotti e processi.

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LE FUNZIONI DELLA
POLITICA ECONOMICA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Le funzioni della politica economica”

Indice

1. LE TRE FUNZIONI DELLA POLITICA ECONOMICA ---------------------------------- 3


2. LA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE ----------------------------------------------------- 4
3. LA STABILIZZAZIONE E IL PIENO IMPIEGO DELLE RISORSE ------------------ 6
4. LA REDISTRIBUZIONE ------------------------------------------------------------------------- 8

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Giovanni Cannata “Le funzioni della politica economica”

1. LE TRE FUNZIONI DELLA POLITICA ECONOMICA

Si distinguono tre funzioni essenziali della politica economica:

 La distribuzione delle risorse con interventi volti a


incidere sulla qualità e la quantità dei fattori
disponibili. Un esempio sono le politiche di fornitura di
beni pubblici quali istruzione, difesa dell’ambiente,
ricerca e sviluppo.
 La stabilizzazione e il pieno impiego delle risorse, con
interventi fondati sul controllo degli shock esogeni con
politiche di bilancio e monetarie.
 La redistribuzione del reddito tra agenti e «regioni»
realizzata con le politiche tributarie e le politiche
sociali.
Gli economisti si riferiscono al Teorema dell’economia del
benessere come teoria utile per valutare l’efficacia delle politiche.
Questo teorema, frequentemente richiamato nell’economia, è fondato
sull’ipotesi che una condizione di concorrenza perfetta non può
migliorare il benessere di un soggetto senza peggiorare quello di un
altro. Il limite di questo approccio sta nel fatto che non tengo conto
della distribuzione dei redditi, nel senso che qualsiasi condizione di
distribuzione può essere considerata ottimale in partenza

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2. LA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE

Perché intervenire nella distribuzione e allocazione delle


risorse? Occorre far fronte a quelli che sono considerati eventuali
“fallimenti del mercato”. In questo senso, i motivi di intervento
pubblico sono:
 Mercati imperfetti( monopolio, ecc.);
 Esistenza di esternalità (un effetto positivo o negativo non
compensato determinato da un’azione di produzione o di
consumo su un agente diverso da quello che ha preso la
decisione )
 Asimmetrie informative;
 Incompletezza dei mercati;
 Limitatezza di orizzonti dei mercati.

La politica economica si pone l’obiettivo di intervenire per


correggere i malfunzionamenti dei mercati per accrescere l’efficienza
dell’economia dovuti a pluralità di cause.
 I problemi di concorrenza non perfetta sono da imputare a:
 Situazioni monopolio (controllo dell’offerta con conseguente
rialzo dei prezzi)
 Il monopolio potrebbe essere utile in situazioni di rendimento
di scala crescenti quando si configurano situazioni di monopolio
naturale.
La politica economica deve intervenire in casi di generazione di
esternalità, che si registrano quando il costo privato e il costo sociale
non coincidono ed occorre porre in essere dei meccanismi per

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«internalizzare» i costi. Tali meccanismi sono costituiti da tassazione,


interventi di sovvenzione, programmazione dell’uso di risorse.
L’intervento pubblico è richiesto altresì nei casi di livelli
inadeguati di informazione che possono generare situazioni di
selezione avversa.
Da ciò deriva la necessità di diffusione di informazioni e
statistiche attendibili, la messa a punto e diffusione di norme
contabili e finanziarie di certificazione. In alcuni casi, per raggiungere
l’obiettivo si fa eventuale ricorso alla regolazione.
Un altro caso di intervento pubblico si ha in presenza di
incompletezza dei mercati, quali nel caso di assenza credito per
formazione capitale umano.

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3. LA STABILIZZAZIONE E IL PIENO IMPIEGO


DELLE RISORSE

L’intervento pubblico ai fini della stabilizzazione si prefigge di


minimizzare il controllo delle deviazioni dall’equilibrio nel breve
periodo. In merito alla stabilizzazione Keynes forniva all’intervento
pubblico le due motivazioni seguenti:
o Instabilità dei comportamenti privati può condurre ad
un’alternanza di estremi, dall’ottimismo al pessimismo più
completo.
o La rigidità nominale di salari e prezzi per effetti di
impedimento agli aggiustamenti impediscono adattamenti.
Le attuali politiche Keynesiane sono fondate sul controllo
dell’offerta e della domanda aggregata in base al quale vi è una:
 Relazione prodotto potenziale inteso come offerta aggregata e
prezzo nel breve periodo è una relazione crescente
 Relazione domanda aggregata e prezzo nel breve periodo
decrescente e quindi ha come effetto quello di ridurre il
consumo.
Ci possono essere possibili variazioni di domanda o offerta da
shock dovuti a variazioni del prezzo o in generale a variazioni esogene
 Shock da offerta possono derivare da una modificazione
esogena della relazione tra prodotto potenziale e prezzo.
Valga come esempio un aumento del prezzo del petrolio
 Shock da domanda possono essere conseguenza di una
modificazione esogena della relazione tra domanda e
prezzo. E’ questo il caso di una contrazione del consumo
dovuta ad una perdita di ricchezza delle famiglie.

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Le affermazioni precedenti sono certamente schematiche e


vanno verificate nei casi concreti. Infatti l’efficacia delle politiche
deriva dalle rigidità

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4. LA REDISTRIBUZIONE

La distribuzione del reddito che si realizza per effetto di un


equilibrio di mercato, può non essere ottimale in senso paretiano e
non garantire la giustizia sociale.
Si rende necessario che l’operatore pubblico disponga di un
criterio normativo per determinare se una data distribuzione dei
redditi possa migliorare l’equità sociale.
Il raggiungimento di nuova equità può avvenire attraverso
manovre di efficienza costante o con interventi che modifichino in
qualche misura il livello di efficienza
In generale si può affermare che più si redistribuisce reddito
più si perde di efficienza per effetto dell’incidenza delle imposte sui
fattori di produzione capitale e lavoro
Inoltre le analisi empiriche mettono in luce che non sempre la
redistribuzione è efficiente e pertanto deve essere attivata una
politica per garantire l’accesso dei meno abbienti ai fattori critici
appena richiamati quali l’istruzione e la promozione della salute che
possono far conseguire guadagni di efficienza incidendo sulla
produttività del lavoro.

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LA VALUTAZIONE DELLA
POLITICA ECONOMICA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La valutazione della politica economica”

Indice

1. CRITERI DI VALUTAZIONE EX ANTE ----------------------------------------------------- 3


2. CRITERI DI VALUTAZIONE EX POST ----------------------------------------------------- 6
3. IN SINTESI SULLE POLITICHE--------------------------------------------------------------- 8

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1. CRITERI DI VALUTAZIONE EX ANTE

L’obiettivo più generale che si può assegnare alla politica


economica è la soddisfazione delle famiglie residenti, che gli
economisti chiamano utilità, con riferimento sia al consumo di beni e
di servizi, che al tempo libero o alla qualità dell’ambiente naturale,
alla qualità dell’ambiente sociale, agli obiettivi morali di una società.
L’utilità è funzione dei consumi, della quantità del lavoro, della
qualità di beni e servizi, della qualità dell’ambiente e di altre
variabili.
In termini generali la valutazione delle politiche può essere
effettuata rispetto agli agenti sia privati che pubblici, ai territori, alle
modalità d’implementazione, al tempo necessario per l’attuazione,
agli obiettivi e al loro conseguimento.
L’utilità istantanea è un criterio molto riduttivo. Se la politica
economica la assumesse come obiettivo unico, non vi sarebbe alcun
motivo di investire né di preservare l’ambiente per l’avvenire.
Occorre dunque adottare un contesto intertemporale e dotarsi
si un tasso di sconto al fine di aggregare le utilità nel tempo.
Inoltre occorre una necessaria considerazione del tempo in
quanto siamo chiamati a valutare oggi qualcosa che non accade solo
oggi ma può avere effetti in futuro e quindi occorre comprendere come
attualizzo le implicazioni future delle politiche.
Questo significa introdurre una valutazione di utilità
intertemporale per il consumatore beneficiario delle politiche.
Ovviamente vi è un problema critico del tempo nelle riforme e
quindi una valutazione dei benefici netti nel tempo.

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Tutto dipende dall’ introduzione di un tasso di sconto che


scambia presente e futuro:
Un tasso di sconto alto darà più rilievo al breve periodo, mentre
un tasso di sconto basso darà più valore al futuro
Occorre inoltre essere in grado di passare dalla considerazione
di una funzione individuale ad una funzione di benessere sociale, che
tenga conto cioè delle esigenze di tutti i gruppi sociali coinvolti nelle
politiche.
Per effettuare questa scelta occorre darsi una funzione di
benessere scoiale che consenta di rendere possibile comparare due
distribuzioni dei redditi. Le funzioni più correnti sono:

 Funzioni di tipo benthamiano che tengano conto degli


incrementi di utilità delle politiche e non danno rilievo alla
distribuzione del reddito
 Funzioni di tipo rawlsiano che tengano conto sia degli effetti
distributivi
sia della massimizzazione degli effetti sui beneficiari meno
favoriti
In sintesi occorre tener conto delle cosiddette equità
intergenerazionali e equità intragenerazionale, aspetto rilevante per
le politiche di riforma strutturale come può accadere nelle politiche
della concorrenza o in quelle della previdenza).
La valutazione degli effetti delle politiche economiche richiede
strumenti economici diversi per le questioni di allocazione,
stabilizzazione, redistribuzione.

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Le analisi di equilibrio parziale considerando soltanto un


settore di attività trascurano le interdipendenze tra settori come ad
esempio la tassazione.
Per esempio la soppressione delle restrizioni alla importazioni
riduce il surplus dei produttori, mentre i consumatori vedono il loro
surplus aumentare.
In caso contrario bisogna ricorrere ad analisi di equilibrio
generale rendendosi necessitario il richiamo a modelli di simulazione.
Si sono sviluppati modelli computazionali di equilibrio generale
per la valutazione delle politiche commerciali, riforme fiscali,
liberalizzazioni, riforme strutturali.
I macroeconomisti postulano una funzione di perdita
macroeconomica della forma. Ma le discussioni sugli effetti di
redistribuzione delle politiche economiche si basano su indicatori
empirici di calcolo delle disuguaglianze come la cosiddetta curva di
Lorenz (insieme della distribuzione) o come l’indice di concentrazione
di Gini (calcolo sintetico della diseguaglianza nella distribuzione dei
redditi).

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2. CRITERI DI VALUTAZIONE EX POST

Per la valutazione dei criteri ex post occorre tener conto


soprattutto delle politiche strutturali e degli effetti determinati dalle
politiche in quanto possono far mutare i comportamenti dei soggetti e
quindi le assunzioni delle valutazioni di base.
A questo fine sono state sviluppate nuove tecniche di studio
delle politiche sociali, esse si basano su:
 Esperimenti naturali che permettono di rapportare il
comportamento degli individui interessati alla
realizzazione della politica in esame con quello di altri
individui che non siano interessati da quella politica.
 Esperimenti controllati in cui gli individui sono
suddivisi in maniera aleatoria in un gruppo di controllo
e uno sperimentale.
Gli esperimenti naturali e controllati sono impiegati per la
valutazione delle politiche di tassazione, dell’innovazione e della
ricerca, dei trasferimenti sociali.
Alcuni criteri di valutazione a posteriori delle politiche
economiche possono essere fondati su misure relative a:
 Effetti sul PIL che debbono essere attentamente
studiati in quanto, ad esempio un aumento delle spese
militari accresce il PIL ma non aumentano il benessere;
 Effetti sull’occupazione
 Effetti sui redditi
 Effetti sul commercio internazionale
Per rimediare alle carenze del PIL quale indicatore sintetico
delle misure di effetti, occorre individuare indicatori specifici e

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focalizzati come l’indice di sviluppo umano (HDI) per gli obiettivi di


sviluppo del millennio, il cui calcolo include la speranza di vita alla
nascita e dei tassi ponderati di scolarizzazione primaria, secondaria,
terziaria e il PIL pro capite in dollari a parità di potere d’acquisto.

Le politiche non possono essere valutate in modo indifferente in


riferimento alle diverse funzioni di distribuzione delle risorse,
stabilizzazione o redistribuzione per la possibilità di determinare
effetti simultanei. Non è infrequente l’adozione di una politica in un
determinato ambito con effetti in altro ambito
Alcuni esempi:
 Politiche del lavoro possono generare trappole
dell’inattività, il beneficiario ha stimolo ridotto alla
ripresa del lavoro
 Politiche degli scambi possono produrre effetti sulla
redistribuzione sul lavoro sui capitali
 Politiche di redistribuzione con imposte e trasferimenti
conducono ad effetti di stabilizzazione dell’attività
economica

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3. IN SINTESI SULLE POLITICHE

In sintesi sulle politiche i decisori possono dare risposte diverse


a funzioni di benessere sociale diverse. Infatti:
 Possono discordare sulla migliore distribuzione dei
redditi
 Possono rispondere in modo diverso al trade off
equità/efficienza
 Possono discordare sull’equità intertemporale
Il problema della natura dei disaccordi fu descritto da John
Williamson nel “Washington Consensus”. “Lo schema si applica ai
sostenitori della liberalizzazione commerciale o finanziaria e ai suoi
oppositori (no-global).
 Aggregazione alcuni insistono sugli effetti globali e
trascurano la distribuzione di costi e benefici;
 Orizzonte temporale considerano un orizzonte di medio
periodo e trascurano il periodo più lungo;
 Funzionamento dei mercati alcuni suppongono che i
mercati siano abbastanza concorrenziali da potervi
applicare la teoria classica.

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PROBLEMI E LIMITI
DELLA POLITICA
ECONOMICA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Problemi e limiti della politica economica”

Indice

1. PROBLEMI E LIMITI DELLA POLITICA ECONOMICA ------------------------------ 3


2. I LIMITI DELLA CONOSCENZA-------------------------------------------------------------- 5
3. LA MODELLISTICA E I SUOI LIMITI ------------------------------------------------------ 9
4. LA FIDUCIA DEL DECISORE ----------------------------------------------------------------- 11

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1. PROBLEMI E LIMITI DELLA POLITICA


ECONOMICA

La politica economica nel tempo si evolve quanto a paradigmi e


obiettivi.
Negli anni Settanta del secolo scorso si aveva una concezione
ingegneristica della politica economica. Successivamente negli anni
Ottanta la politica economica si è evoluta come gioco strategico tra
una pluralità di attori ciascuno dei quali prevede calcola e attua il
proprio gioco perseguendo i suoi interessi sulla base delle sue
previsioni.
I successi e gli insuccessi registrati quali lezioni dell’esperienza
hanno determinato una maggiore consapevolezza dei limiti
dell’intervento pubblico, assistendosi ad un’attenuazione delle
regolamentazioni. In realtà e i sistemi di autorizzazione
amministrativa hanno fatto sentire un peso maggiore nei mercati dei
capitali, minore nei mercati del lavoro. Un’altra caratteristica dei
tempi più recenti è l’ampliamento del numero dei soggetti che
intervengono nella politica economica con una separazione orizzontale
delle sfere dell’autorità pubblica. Da queste nuove tendenze derivano
implicazioni sulla capacità di intervento del decisore ed implicazioni
sui trade off fra obiettivi diversi.
I governanti fanno i conti con lo sviluppo della separazione
verticale tra autorità di governo, basti pensare alle interferenze
possibili nell’azione tra WTO, FMI, Comitati internazionali e Unione
Europea. D’altro canto la maggioranza degli Stati hanno fatto
un’opera significativa di devoluzione di competenze ad enti territoriali
rendendo più complesso e talvolta inefficace il sistema di governance.

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L’internazionalizzazione crescente dei processi e le connesse


interdipendenze nelle azioni di governo hanno reso più complessa la
politica economica. I limiti principali all’impostazione tradizionale
alla luce di quanto sopra vanno ricercati nel fatto che:
 i governi hanno una conoscenza imperfetta della
struttura dell’economia;
 le famiglie reagiscono alle decisioni non sempre nel
senso auspicato;
 i decisori non sono sempre convincenti nel sostegno
delle proprie tesi;
 i decisori non hanno accesso a tutta l’informazione e
scontano quindi problemi di asimmetria informativa;
 i decisori difendono interessi particolari, subendo,
talvolta, il condizionamento delle lobbies.

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2. I LIMITI DELLA CONOSCENZA

L’azione di governo si deve confrontare con taluni limiti che ne


colpivano l’efficacia.
Limiti nella conoscenza sono:
 L’onerosità delle informazioni necessarie al decisore in
termini di acquisizione delle stesse nel tempo e nello
spazio;
 L’onerosità del trattamento in termini di processi di
gestione, conservazione, elaborazione.
Quattro questioni, che non si escludono a vicenda, influiscono
sulla conoscenza dei processi:
 Incertezza dei parametri impiegati nei processi
decisionali;
 Un cattivo uso delle previsioni medie e una scarsa
considerazione delle distribuzioni dei rischi annessi
alle scelte di politica economica talvolta non
adeguatamente conosciuti e valutati;
 L’opportunità di utilizzo di un principio di
precauzione come si fa nelle previsioni ambientali.
I modelli alla base delle scelte di politica economica osservati
con intervalli di tempo successivo prendono in considerazione:
 Variabili endogene risultanti dal gioco delle forze del
mercato
 Variabili esogene controllabili dal decisore
 Parametri che descrivono il comportamento dei privati
 Shock dei quali il decisore può non avere
consapevolezza.

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Tutto ciò potrebbe consentire la messa a punto di modelli


rispetto ai quali nella realtà occorre tener conto del fatto che esistono
due fonti di incertezza sui comportamenti dei privati.
Innanzitutto incertezze sul modello da assumere in relazione
alle problematiche di scelta dei modelli. Gli interrogativi riguardano
ad esempio i tassi d’interesse e la loro influenza nelle famiglie.
Problematiche le decisioni delle banche relativamente al prestito alle
imprese in espansione. Quale tipo di modello?
L’operatore di politica economica sulla ricerca del modello più
adeguato dsi confronta con l’incertezza sui parametri dei modelli
econometrici che risulta dall’imprecisione nella stima di questi ultimi.
Una differenza non può essere taciuta tra i comportamenti del
decisore pubblico e quello del decisore privato.
I dirigenti del settore privato sono più attenti alla distribuzione
dei rischi nella politica economica cioè realizzazione di valori diversi. I
decisori privati sarebbero più attenti alla distribuzione dei rischi ed al
loro calcolo viene effettuato attraverso il
 Cost at risk per l’identificazione dell’importo che può
essere perduto,
 Value at risk nel caso di un portafoglio, come misura
del valore complessivo di un portafoglio relativamente a
un dato orizzonte temporale
L’avversione al rischio degli agenti economici rappresenta lo
strumento utilizzato per modellare l’atteggiamento nei confronti del
rischio.
Le famiglie in particolare avrebbero orientamenti più incisivi di
avversione al rischio, mentre le imprese nell’ottica di far fruttare
meglio i loro capitali, sono più neutrali.

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In termini più chiari le imprese massimizzano il valore atteso


dei profitti futuri, mentre le famiglie massimizzano la speranza
matematica che potrebbe derivare dall’utilità del consumo futuro.
Non sempre si tiene conto della distribuzione dei rischi e quindi
della varianza delle variabili. Tutto ciò costituisce un grave limite in
presenza di meccanismi non lineari o di fenomeni di isteresi non si
tiene conto del fatto che alcuni shock consentono il ritorno ad una
situazione normale con molta difficoltà. Una recessione
particolarmente forte può precipitare un paese nella deflazione
mentre un’inflazione troppo forte può indurre ad aspettative di
aumento dei prezzi e meccanismi di indicizzazione dei salari difficili
da smontare. Non tutti gli eventi di shock sono adeguatamente
prevedibili e modellabili (ad esempio catastrofi naturali, eventi bellici,
mucca pazza, aviaria). Nel 1921 Frank Knight ha distinto la nozione
di rischio relativo a casualità quantificabili matematicamente, da
quella di incertezza relativa a casualità che non lo sono. Infatti il
rischio è un caso che può essere quantificato mentre l’incertezza non è
modellizzabile.
Certamente il rischio connesso alle difficoltà relative
all’innalzamento della temperatura con le relative implicazioni sul
ciclo dell’acqua e quindi sulla corrente del Golfo con tutte le difficoltà
connesse.
La condizione di irreversibilità delle decisioni di politica
economica è determinata dall’avverarsi di un possibile momento
favorevole e dalla specificità di talune modalità.
La possibilità di differire il progetto può essere tradotta in un
valore, analogo a quello di un’opzione finanziaria. Conseguentemente
si parla del concetto di valore di opzione o di valore dell’attesa.

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Il decisore può confrontarsi con gravi difficoltà di decisione


quando la scelta di inazione può comportare conseguenze irreversibili.
Un aspetto connesso è quello della scelta del tasso intergenerazionale
di sconto rinvio all’introduzione del principio di precauzione.

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3. LA MODELLISTICA E I SUOI LIMITI

I modelli macroeconomici degli anni ‘60 sono stati messi in


discussione in quanto fortemente connotati da caratteristiche
meccanicistiche:
 Il decisore fissava gli obiettivi
 Il tecnico sceglieva il modello di riferimento
 Il tecnico stimava con l’econometria le funzioni da
usare.
Questo approccio, ritenuto inadeguato, ha condotto
all’introduzione delle aspettative razionali da John Muth. In altri
termini occorre valutare le reazioni attese dei soggetti coinvolti
integrando la strategia in esame con altre strategie e per alcuni
soggetti (banche e assicurazioni) le aspettative sono realtà dominate
con l’evoluzione dei prezzi, aumento tassi d’interesse e tassi di
cambio.
Uno studioso, Lucas, ha criticato l’utilizzo di modelli
macroeconometrici importati su equazioni di comportamento relative
a variabili di comportamento quali consumi, investimenti et al
fondate sull’ipotesi che le aspettative dei diversi soggetti siano
invarianti rispetto alle modifiche del regime di politica economica (ad
esempio per cambi flessibili o per cambi fissi). Secondo Lucas i modelli
sono validi nella utilizzazione dei regimi di politica economica in
vigore ma non quelli che riguardano i cambiamenti e comunque nella
politica economica gli eccessi di semplificazione non aiutano nella
messa a punto di strategie.

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In conclusione non si può non convenire sulla opportunità di


utilizzare dei modelli ma è la loro appropriatezza che deve essere
adeguatamente testata.

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4. LA FIDUCIA DEL DECISORE

I governi per ottenere il risultato non può ingannare i cittadini


o i soggetti che in presenza di aspettative cercheranno di anticipare
l’origine
Uno dei limiti nell’azione del decisore pubblico è costituito dalla
fiducia riposta nello stesso da parte degli agenti in termini di
credibilità. In altre parole l’attesa che il decisore si comporti come
annunciato. L’attesa non è per un’applicazione meccanicistica delle
aspettative dei vari agenti ma per la capacità di guida delle
aspettative stesse.
In una situazione di instabilità lo stato di fiducia nel decisore è
dirimente.
Si fa riferimento all’azzardo morale se si ritiene che il decisore
possa ingannare gli agenti privati. Ma si parla anche di azzardo
morale quando si fa riferimento alla volontà di soccorrerli in caso di
negatività. A titolo di esempio si possono richiamare le pratiche
assicurative per indennizzare le vittime delle catastrofi.
L’esempio delle costruzioni in aree esondabili dei fiumi nelle
quali si sia costruito abusivamente e dell’indennizzo relativo in caso
di inondazioni sono un esempio di azzardo morale, di situazioni in cui
gli agenti non hanno reale consapevolezza degli oneri
La politica economica rivela la sua inefficacia se le
concretizzazioni ex post non sono coerenti con le valutazioni ex ante.
Alcuni autori hanno suggerito di mettere al bando le politiche
discrezionali derivanti da un’ottimizzazione istante per istante.
La politica economica deve essere intesa come una scelta fra
regole fisse e non come somma di decisioni discrezionali.

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IL RUOLO
DELL’INFORMAZIONE
NELLA POLITICA
ECONOMICA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Il ruolo dell’informazione nella
politica economica”

Indice

1. L’ASIMMETRIA INFORMATIVA ------------------------------------------------------------- 3


2. LA BENEVOLENZA DEL DECISORE -------------------------------------------------------- 5
3. ATTUALITA’ DELLE SCELTE DI POLITICA ECONOMICA ------------------------- 9

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1. L’ASIMMETRIA INFORMATIVA

Un limite nello svolgimento dell’azione pubblica riguarda


l’utilizzazione strategica dell’informazione da parte di coloro che vi
hanno accesso. Si definisce asimmetria informativa il fenomeno per
cui diversi attori economici non sono a conoscenza delle medesime
informazioni.
Gli agenti pubblici o privati della politica economica dispongono
sovente di informazioni più approfondite di quelle di cui dispone il
decisore pubblico. Gli agenti privati cercano di trasformare in rendita
pecuniaria il proprio vantaggio informativo. Il possesso di
informazioni è strategico per la politica economica. L’esempio più
chiaro di una situazione di questo tipo è la relazione tra il Gosplan e
le imprese sovietiche: nelle informazioni che esse trasmettevano a
Mosca tendevano a sovrastimare i propri bisogni di materie prime e
sottostimare la produttività. L’amministrazione del Gosplan non
aveva le stesse informazioni che avevano i gestori delle imprese.
Passando a casi più prossimi a noi l’utilizzazione di questa
riflessione si pone, ad esempio, anche nel caso della fissazione delle
tariffe telefoniche pubbliche
Un altro esempio è il controllo dell’erogazione del credito da
parte delle istituzioni di vigilanza; il controllore bancario non conosce
nei particolari i rischi che le banche scelgono di assumersi.
Analogamente il Ministero della Sanità si propone di sanzionare i
medici che incentivano l’eccesso di spesa nelle cure, ma soltanto i
medici conoscono realmente le patologie dei pazienti.
L’informazione asimmetrica non è tipica della sfera pubblica,
ma è centrale nell’economia capitalista, fondata sulla relazione tra un

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mandante e un mandatario o agente. Gli agenti privati cercano di


trasformare in rendita pecuniaria il proprio vantaggio informativo.
Per ridurre la perdita sociale che ne risulta, la soluzione migliore è
quella di definire i contratti in modo da incentivare l’agente a rivelare
al proprio principale l’informazione di cui dispone. Questo problema
fu discusso da Adam Smith nel caso delle relazioni tra i proprietari
terrieri e i mezzadri. Lo studio della relazione principale - agente è il
tema di fondo della teoria dei contratti. Per esempio se un mercato
pubblico è soggetto a rischi tecnici il contratto deve essere concepito in
modo che l’impresa concessionaria non abbia interesse né a celare le
difficoltà incontrate né a esagerarle per beneficiare di supplementi.
Per essere incentivante il contratto concede all’impresa parte della
rendita. Il sussidio versato all’impresa è una funzione convessa e
decrescente dei suoi costi di produzione che può essere descritto come
un menù dei contratti offerto alle imprese: le imprese efficienti sono
pronte a prendere in carico una frazione più significativa dei costi, che
sanno essere bassi, mentre le imprese meno efficienti cercano di far
sopportare i costi allo stato. Scegliendo il suo contratto, l’impresa
rivela l’informazione di cui dispone sulla struttura di costo. Si tratta
di un esempio di meccanismo di autoselezione.
Si pensi ad esempio all’affidamento di un servizio pubblico di
una collettività locale ad un’impresa pubblica o privata per il
trattamento e la distribuzione dell’acqua o al partenariato pubblico
privato con un imprenditore incaricato di costruire strade, ospedali o
carceri.
La concorrenza tra agenti sulla base di una conoscenza reale
delle condizioni di mercato e cioè sulla base di una informazione
trasparente rende più funzionale ed efficiente il mercato.

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2. LA BENEVOLENZA DEL DECISORE

Il postulato della benevolenza del decisore politico, della


dirigenza, dell’amministrazione che vorrebbe una connaturale
propensione dell’operatore pubblico a rispondere benevolmente ai
bisogni dei cittadini è fondato?
La massimizzazione della funzione di benessere sociale può
essere il frutto di una visione ideale alla Rousseau per cui il governo è
“uno strumento di realizzazione della volontà del popolo”.
Sussistono molti motivi per rimettere in discussione il
paradigma di Rousseau.
I governi risentono delle pressioni dei fruitori della politica
economica e dei loro interessi attraverso il voto ed il lobbying e ciò
comporta il rischio di carenza di credibilità e di incoerenza temporale
al contrario delle agenzie indipendenti che hanno obiettivi definiti e
quindi limitati, orizzonti più lunghi, più difese da ribaltamenti
politici. Si crea una catena interesse/esponente politico/autorità
intermedia/decisore politico.
Inoltre, come ci insegna l’esperienza, i governi subiscono
costante la pressione degli interessi costituiti attraverso le varie
forme di lobby. Inoltre i cittadini non condividono tutti le stesse
preferenze e legittimamente ritengono che la decisione collettiva
debba riflettere i loro interessi. Il raggiungimento di questo obiettivo
può essere ottenuto con il voto ma anche con la pressione politica delle
lobby sui politici e funzionari. Solo per citare un esempio è il caso del
Ministro dell’Agricoltura quale rappresentante degli agricoltori
all’interno del governo ma anche agente dello stato nei confronti degli

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agricoltori. Nello stesso modo tutte le agenzie o autorità di spesa


risentiranno della pressione dei diversi gruppi organizzati, come nel
caso dell’industria, della difesa o delle professioni.
Le pressioni delle lobby sulla politica economica costituiscono
un momento importante del processo di formazione del bilancio in
ogni paese.
Questa rappresentazione frammentata dello stato è stata
ignorata per lungo tempo dai teorici della politica economica e solo di
recente si è per affrontato la questione della cosiddetta “cattura del
regolatore” da parte degli interessi che il regolatore ha l’incarico di
sorvegliare.
Va sottolineato inoltre il rischio della politicizzazione delle
decisioni e la formazione di veri e propri cicli politici legati alle
scadenze elettorali sotto la pressione delle lobbies.

Come afferma Weber il politico è conteso tra l’etica della


responsabilità che fa di lui un servitore del bene comune e l’etica della
convinzione che gli impone di rendere conto all’elettorato della
coerenza fra la sua azione e le sue promesse. Questo approccio ideale
tralascia il fatto che il responsabile politico si prepara sempre alla sua
rielezione e la politica economica, non può non risentirne.
L’esperienza mette in luce che l’indebitamento pubblico è
fortemente correlato al grado di instabilità politica e la distribuzione
delle risorse pubbliche può essere resa inefficiente dalla
differenziazione tra aree del paese, gruppi etnici, gruppi sociali
fortemente consistenti, benefici tangibili.
L’elettore del decisore è caratterizzato da preferenze eterogenee
(per spesa, sensibilità, ecc). Il comportamento dei responsabili politici

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può essere rappresentato in diversi modi: nei modelli “semplici” i


politici non hanno preferenze ma ambiscono semplicemente a essere
rieletti, mentre nei modelli “cinici” della democrazia i politici si
garantiscono il potere. Tutto ciò finisce per tradursi in aumento della
spesa pubblica.
La funzione di benessere sociale “asettica” non tiene conto di
esigenze di rielezione, di potere personale, di garanzia di rendite, di
realizzazione di progetti ideali da parte del decisore politico eletto. Il
politico cerca di individuare le preferenze di quello che è definito
l’elettore mediano ed è il livello di spesa che divide gli elettori in parti
eguali secondo un ordine di preferenze crescente. La preferenza
dell’elettore mediano non coincide con quella dell’elettore meno
fortunato né con quella più efficiente. Il riferimento al processo di
decisione fondato sull’elettore mediano richiama ai meccanismi del
processo decisionale di organismi nei quali ogni decisione è sottoposta
al voto di un organismo collegiale (Consiglio UE, FMI, BCE). Il voto
all’interno del FMI è censuario, il voto all’interno del Consiglio dei
ministri europeo dipende da un meccanismo di ripartizione tra paesi
fissato nel Trattato sul funzionamento dell’ Unione Europea; il voto
all’interno del Consiglio dei Governatori della BCE è egualitario.
Il processo di decisione in questi gruppi è connesso agli
interessi dei partecipanti e alle regole del voto. E’ complesso assumere
delle regole condivise quando i criteri che orientano le politiche sono
diversi (ambientali, sociali, economicistici, ecc), dovendosi tenerlo
conto della necessaria conciliazione tra scelte politiche e interesse
generale.
La situazione è più complessa quando i criteri ispiratori della
politica economica sono molteplici (trasferimenti sociali,

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immigrazione, ambiente, ecc.), e quindi l’elettore deve effettuare una


scelta del politico che lo rappresenterà sulla base degli stessi. La
teoria delle scelte sociali ha studiato i meccanismi per passare dalle
preferenze individuali a una scelta collettiva. L’esame dei fattori
politici conduce ad una maggiore attenzione per le condizioni
istituzionali che favoriscono le coincidenze tra scelta politica e
interesse generale.
In sintesi le istituzioni politiche plasmano a se stesse le
esigenze e le performance economiche in alcuni casi ed il processo
politico può non contribuire in modo diretto all’interesse generale.
A titolo di chiarimento si può sottolineare che gli obiettivi dei
decisori possono divergere dagli obiettivi della dirigenza
amministrativa in quanto l’obiettivo primario del decisore è la
rielezione mentre l’obiettivo primario del dirigente è la carriera. I
paesi avanzati hanno messo in opera delle regole rigide di
funzionamento dei mercati dei servizi pubblici e dei codici deontologici
che regolano le relazioni tra i funzionari e il settore privato.
Ovviamente l’esperienza insegna che il rischio di corruzione è più
elevato nelle aree a basso reddito.

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3. ATTUALITA’ DELLE SCELTE DI POLITICA


ECONOMICA

Uno degli strumenti utilizzati per razionalizzare l’impegno


della politica minimizzando gli impatti delle lobbies, è costituito dalle
agenzie indipendenti.
Il fenomeno delle autorità amministrative indipendenti è nato
in Francia dove si è inteso sottrarre ai poteri del governo una serie di
settori significativi in cui il conflitto tra interessi pubblici e interessi
privati di rilievo costituzionale necessitava di una specifica
attenzione, e dove le autorità amministrative si mostravano poco
indipendenti del potere politico. Il fenomeno è diffuso ampiamente nei
paesi di Common Law: nascono nel tempo Antitrust Authorities e
Regulatory Agencies, con il compito di favorire e proteggere la
concorrenza e procedere a meccanismi regolatori dei mercati non
competitivi. In Italia organismi istituiti per legge con funzione di
regolazione e controllo sono: la Banca d’Italia, l’Autorità per l’energia
elettrica, il gas e il sistema idrico, l’Autorità per la garanzia nelle
comunicazioni, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la
commissione nazionale sulle società e le borse, la commissione di
vigilanza sui fondi pensione, l’Autorità nazionale anticorruzione e
molte altre.
Occorrerebbe aggiungere le agenzie che all’interno
dell’esecutivo beneficiano delle proprie regole deontologiche e di una
competenza indipendente (istituti di statistica), o godono di una
autonomia maggiore rispetto ai servizi di amministrazione centrale
(agenzie che detengono le partecipazioni dello stato). Inoltre le
agenzie paritarie per l’occupazione ed autorità di controllo a livello

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europeo o ancora le istanze di regolazione private, come il Comitato


delle norme contabili (International Accounting Standards Board) che
stabilisce le regole contabili, esercitano nei loro campi un potere
considerevole sugli agenti economici.
La moltiplicazione delle autorità indipendenti pone due
questioni:
 La prima riguarda le motivazioni alla base della
preferenza sottrarre determinate aree della decisione
politica all’autorità dei politici.
 La seconda riguarda le difficoltà che possono derivare
dall’opzione di guidare la politica economica in un
sistema dove gli strumenti della politica sono in mano
ad organismi indipendenti e non sempre fra loro
coordinati.

Non si può concordare sul fatto che sia la decisione politica sia
quella tecnocratica rappresentano modi di governare imperfetti e
pertanto sull’esigenza di definire i criteri in base ai quali valutare
l’opportunità di delegare certe decisioni ad organi di natura
tecnocratica, nel quadro di un mandato definito dal legislatore e di cui
lo stesso deve mantenere il controllo. La modellazione teorica dei
comportamenti del tecnocrate e del politico permette di cogliere alcuni
insegnamenti generali che devono essere completati sul piano della
valutazione.
La decisione tecnocratica si giustifica quando:
 La materia è molto tecnica;
 Sussiste un rischio di incoerenza temporale;

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 I provvedimenti giovano a certi gruppi o lobbies


specifiche;
 Vi è un coinvolgimento in scelte intergenerazionali;
 Gli elettori non sono in grado di osservare i risultati
delle scelte;
Quindi affidare alcune materie ad agenzie indipendenti
comporta il riflesso di tutta una serie di fenomeni:
 Una tecnicizzazione accresciuta da un insieme di
decisioni;
 La natura giudiziaria di certe decisioni;
 La crescita implica delle preoccupazioni intertemporali;
 L’adeguamento del modello di governance tramite
autorità indipendenti alle condizioni attuali
all’integrazione economica internazionale.

La governance tramite le regole è nata a partire dalle


riflessioni svolte negli anni Settanta e Ottanta sulla valutazione delle
politiche economiche e sull’incoerenza temporale.
Negli anni Novanta un numero crescente di banche centrali ha
adottato una politica di fissazione di obiettivi dell’inflazione. Questo
approccio consiste nel fissare un valore di riferimento del tasso di
crescita dei prezzi e nel subordinare tutte le decisioni della banca
centrale a un obiettivo in modo che l’inflazione sia compatibile in ogni
momento con l’obiettivo prefissato.
L’obiettivo è garantire la sostenibilità dei bilanci, controllando
il deficit attraverso l’utilizzo della leva fiscale. Con riferimento a ciò il
Patto di Stabilità e di crescita ha permesso un risanamento di bilancio
in alcuni paesi ma ha avuto meno successo in altri. L’effettiva

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Giovanni Cannata “Il ruolo dell’informazione nella
politica economica”

acquisizione delle norme europee da parte di governi e parlamenti


nazionali è stata insufficiente e il Patto di bilancio stipulato nel 2012
(il cosiddetto Fiscal Compact) è stato concepito proprio a questo scopo.

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LE INTERDIPENDENZE
NELLA POLITICA
ECONOMICA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

Indice

1. LE INTERDIPENDENZE ------------------------------------------------------------------------- 3
2. LA NECESSITÀ DI UN COORDINAMENTO INTERNAZIONALE DELLE
POLITICHE ------------------------------------------------------------------------------------------ 5
3. ISTITUZIONI PER LA GOVERNANCE MONDIALE ----------------------------------- 10
4. FORME DI FEDERALISMO INTERGOVERNATIVO ---------------------------------- 11
5. L’UNIONE EUROPEA E LA POLITICA ECONOMICA -------------------------------- 13

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

1. LE INTERDIPENDENZE

Le conseguenze delle proprie decisioni su altri paesi e la


necessità di prevedere le implicazioni interne costituiscono l’ampio
spettro delle interdipendenze in politica economica. Vi sono norme che
tendono a limitare gli effetti delle scelte nazionali poiché le istituzioni
sovranazionali verificano la loro compatibilità con gli accordi
sottoscritti e mettono in atto a loro volta decisioni assunte per conto
della comunità internazionale. Infine importanti competenze sono
state trasferite ad istituzioni sovranazionali “regionali” riferite cioè ad
ambiti di specifici continenti.
Alcuni esempi permettono di illustrare il grado di
interdipendenza raggiunto dai nostri sistemi economici.
Il Comitato di Basilea, costituito dai rappresentanti delle
Banche centrali dei principali paesi OCSE, ha stabilito una serie di
regole per le banche nazionali.
L’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) ha la
responsabilità di regolare le controversie tra i paesi membri sulla
base di accordi commerciali multilaterali come l’Accordo generale
sulle tariffe doganali e il commercio internazionale.
L’interdipendenza in ogni caso non è un concetto univoco e le
sue manifestazioni cambiano nel corso del tempo. Le manifestazioni
più significative dell’interdipendenza avvengono attraverso gli scambi
commerciali o finanziari e più specificatamente attraverso i flussi
internazionali di merci, di servizi e di lavoro, i movimenti di persone
quali i flussi migratori e l’investimento all’estero in capitali fisici e
finanziari. Tutto ciò dà una misura abbastanza attendibile del livello
di integrazione economica internazionale. Le istituzioni internazionali

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

verificano la compatibilità con gli accordi sottoscritti, ma non è


infrequente che da parte dei singoli stati vengano erette frontiere o
frappongano difficoltà nelle integrazioni.
Le migrazioni internazionali furono un canale di
interdipendenza e attualmente sono divenute significative. Ma i flussi
all’interno dell’Unione Europea restano limitati a determinate
categorie e paesi, a dispetto della progressiva rimozione delle
restrizioni giuridiche agli spostamenti dei lavoratori. In sintesi i
principali esempi di interdipendenze possono essere sintetizzate in:
 Flussi di capitali
 Flussi di lavoratori o migrazioni
 Effetti ambientali attraverso il commercio esempio gas
serra
 Flussi di investimenti
 La nascita di un effetto frontiera

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

2. LA NECESSITÀ DI UN COORDINAMENTO
INTERNAZIONALE DELLE POLITICHE

Il governo dell’interdipendenze economica tra gli stati sovrani è


stato ritenuto importante così da condurre alla creazione di molteplici
organismi internazionali, per favorire il coordinamento delle politiche
economiche e la fissazione di regole comuni di comportamento. Di
seguito si ricorderanno alcuni di questi organismi.
Il Fondo monetario internazionale (FMI) è stato istituito nel
1945in seguito alla Conferenza di Bretton Woods del 1944.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(OECD) è nata nel 1961 per sostituirsi all’OECE l’istituzione che
amministrava gli aiuti americani all’Europa e rappresenta una sede
di confronto tra le economie sviluppate.
I Capi di stato e di governo del Gruppo degli Otto o G8(Stati
Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada) si
riuniscono annualmente a partire dal 1975.
Il Gruppo dei Venti o G20 creato nel 1999 dopo le crisi
finanziarie dei paesi emergenti che comprende Argentina, Brasile,
Cina, India, Indonesia, Russia, Arabia Saudita, Sud Africa e Turchia.
Con riferimento alle questioni finanziarie il Consiglio di
stabilità finanziaria (FSB) riunisce i ministri delle Finanze, le banche
centrali e i regolatori bancari e di borsa.
La finalità del coordinamento delle politiche economiche può
ritrovarsi con riferimento a due motivazioni principali:
 Tener conto delle interdipendenze nell’elaborazione
delle politiche economiche alla luce del fatto che le

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

stesse influenzano in qualche misura le politiche dei


paesi partner.
 Favorire la produzione di beni pubblici mondiali come
la tutela dell’ambiente, il governo del clima o la
stabilità finanziaria internazionale.

Un bene pubblico è contraddistinto da due caratteristiche


significative: si tratta di:
 bene non esclusivo che non posso impedire ad altri di goderne
 bene non rivale il suo consumo non può influenzare la
disponibilità per gli altri
Un esempio di bene non esclusivo può essere costituito
dall’innovazione non brevettabile, dal clima mondiale, dalla gestione
delle risorse naturali, dalla stabilità finanziaria, dallo sviluppo
economico.
Le due caratteristiche sopra richiamate sono indipendenti il
che conduce all’individuazione di quattro casi:
 un bene rivale ed esclusivo: la penna con cui scrivo
 un bene rivale e non esclusivo: la circolazione stradale
 un bene non rivale ed esclusivo: l’invenzione
brevettabile
 un bene non rivale e non esclusivo: il clima della terra.
La difesa del clima, la gestione durevole delle risorse naturali o
la stabilità finanziaria sono presentati come beni pubblici mondiali
che richiedono una cooperazione tra stati.
La gestione di tale cooperazione solleva tre difficoltà operative
relative alla ricerca di un accordo su ciò che è bene pubblico mondiale,
sugli strumenti o regole che permettono di produrlo,

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

all’identificazione dei soggetti chiamati a sostenere i costi della


produzione.
Il riscaldamento del pianeta costituisce un caso di studio
significativo, per il quale mentre il governo americano ha dato
maggiore peso alla ricerca di nuove fonti di energia, l’Europa ha scelto
la strada della fissazione di quote vincolanti per le emissioni di gas.
La lotta alla povertà di massa nei paesi meno avanzati
costituisce un altro bene pubblico da perseguire con effetto sul
benessere degli abitanti dei paesi ricchi per molti aspetti in quanto i
paesi in via di sviluppo rappresentano un mercato per le imprese dei
paesi ricchi.
L’aiuto pubblico allo sviluppo da parte dei paesi ricchi nei
confronti dei paesi poveri, è un classico esempio di relazioni bilaterali
tra erogatori e destinatari del finanziamento così come si configurano
per ragioni geografiche e storiche.
Molteplici sono gli approcci alla cooperazione internazionale.
Una scelta semplice ed efficace è la fissazione di regole con modalità
che ne rendono possibile il rispetto. Il commercio internazionale è un
esempio di cooperazione attraverso le regole. In modo analogo gli stati
membri dell’area euro ratificando del Trattato di Maastricht hanno
accettato di incorrere in sanzioni nel caso in cui il deficit delle loro
finanze pubbliche diventi eccessivo.
Un altro tipo di cooperazione può fondarsi sull’adozione di
principi di carattere meno esigente piuttosto che su rigide norme di
diritto può basarsi su impegni non vincolanti. Si pensi al ruolo che
l’OECD ha svolto quale di incubatore di norme in campi molto diversi
tra loro, dall’ambiente all’energia.

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

Anche l’Unione Europea ha fatto ricorso a processi cosiddetti di


soft law nell’Agenda di Lisbona per la crescita così come
nell’elaborazione della Strategia Europa 2020.
Si può sostenere quindi che non esiste un unico modello per la
governance a livello mondiale delle interdipendenze, ma piuttosto un
insieme di impostazioni e quadri istituzionali di varia natura
all’interno dei quali muoversi.
Il coordinamento internazionale delle politiche economiche è
determinato anche dal tener conto degli effetti esterni della politica
economica, tenuto conto del fatto che gran parte delle decisioni
assunte in modo autonomo in contesto internazionale non sono
ottimali e possono dare luogo a problemi di coordinamento:
Si pensi ad esempio alle ripercussioni su manovre relative a
tassi di cambio fisso colpiti dallo shock esterno. A manovra al rialzo
dei tassi di interesse degli Stati Uniti, interagendo sul livello dei
prezzi di altri paesi finisce per condizionare i detentori dei prestiti in
dollari di altri Paesi con conseguenti implicazioni nell’area del dollaro.
La riduzione della domanda estera deteriorerà il saldo commerciale di
entrambi i paesi.
Un altro esempio riguarda il coordinamento di politiche
monetarie in regime di cambio flessibili. Conseguentemente ad uno
shock mondiale, alcuni paesi che agiscono isolatamente tendono ad
utilizzare il proprio tasso di cambio come strumento strategico. In
caso di shock negativo, la diminuzione dei tassi d’interesse
deprezzando la moneta finisce per determinare un effetto di
esportazione della disoccupazione. Al contrario, in caso di shock
positivo attraverso manovre di politica monetaria finiscono per
esportare l’inflazione.

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

Ovviamente è auspicabile il coordinamento delle politiche,


tuttavia non infrequente è il suo insuccesso:
 Per omessa realizzazione delle decisioni assunte come
accade nel caso di coordinamento non vincolante;
 Per disaccordo sull’esatta conoscenza dell’economia
quando i suoi meccanismi non sono sufficientemente
noti;
Si deve segnalare inoltre che il coordinamento inteso come
collusione tra gli Stati può finire per non consentire una utile
concorrenza tra le politiche economiche ed in alcune circostanze può
essere peggiore rispetto ad azioni non coordinate.
Ovviamente occorrerebbero sempre più studi empirici per
valutare i benefici concreti del coordinamento delle politiche
economiche.
L’applicazione di politiche di coordinamento è più favorevole in
ambiti tecnici, in particolare nel caso delle banche centrali. Si devono
ricordare al riguardo i provvedimenti assunti in reazione a taluni
episodi di crisi sui mercati finanziari da eventi quali lo shock negativo
causato dal fallimento della Lehman Brothers nell’autunno del 2008,
o le decisioni assunte dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2011 che
hanno visto un proficuo coordinamento fra le autorità monetarie
europee e americane.

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

3. ISTITUZIONI PER LA GOVERNANCE MONDIALE

L’esperienza dello sviluppo economico ci insegna che la politica


economica è caratterizzata da processi di interazione reciproca tra
poteri locali, nazionali e internazionali. Un esempio molto
significativo di ciò è lo sviluppo di cosiddetti “accordi regionali”. Nel
caso dell’Organizzazione mondiale del commercio, l’obiettivo
principale degli accordi è il libero scambio delle iniziative regionali
ma sono coinvolti anche altri ambiti della politica economica quali la
libertà e la protezione degli investimenti, la libertà e la circolazione
delle persone, il riconoscimento delle qualifiche professionali, lo
sviluppo di politiche comunitarie e la costituzione di mercati di
capitali regionali. Ma a questo elenco, ovviamente, si possono
aggiungere altri temi che sono quelli determinati dall’evoluzione
dell’economia. Ovviamente l’intreccio tra le politiche deriva dal livello
di interazione. Nel caso dell’Unione Europea, tutte queste
problematiche sono contestualmente affrontate.
Come governare un’economia globalizzata senza un governo
mondiale?
Il modello di riferimento della governance per diverse materie è
quello delle autorità indipendenti. Le decisioni di queste istituzioni
sono assunte a maggioranza o secondo protocolli specifici. Non esiste
una funzione di benessere sociale mondiale senza un soggetto che
abbia autorità per esprimerla
La governance mondiale è necessariamente una governance a
più voci come le istituzioni ma anche le ONG.
Ma la gerarchia attuale delle istituzioni internazionali non
riflette la gravità dei problemi internazionali.

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4. FORME DI FEDERALISMO
INTERGOVERNATIVO

Nell’economia mondiale, la forma di integrazione tra stati è


molto frequente ed assume la forma di federazioni o confederazioni
relative a paesi di vaste dimensioni come il Brasile, l’Australia, la
Germania, l’India e gli Stati Uniti. Nel caso di federazioni o
confederazioni le decisioni di politica economica sono prevalentemente
assunte dagli stati federati
Il federalismo intergovernativo prevede il decentramento di
grandi ambiti della politica economica alla competenza dei singoli
stati, dal commercio alla concorrenza della moneta. Il federalismo si
svolge a vari livelli ed il dibattito è concentrato spesso sulle questioni
di competenza inerenti alla devoluzione delle missioni
Il punto critico è quello dell’individuazione del livello politico al
quale assumere le decisioni.
Il principio fondamentale è quello dell’equivalenza
fiscale(OLSON 1969), in base al quale la portata amministrativa e
finanziaria di una politica pubblica dovrebbe coincidere con
l’estensione della sua incidenza geografica, più semplicemente le
spese locali dovrebbero essere sostenute su entrate locali. Ovviamente
c’è una scelta obbligata senza dimenticare le internalità dato che
anch’esse possono ridurre i livelli di benessere.
In assenza di esternalità o di economie di scala, il
decentramento è preferibile all’accentramento così come è ovvio che
entrambi i sistemi portati all’eccesso diventino inefficienti.

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Il teorema del decentramento di Oates (1972) afferma che in


assenza di esternalità e di economie di scala il decentramento è
preferibile.
Nella misura in cui un bene pubblico fornito localmente non
incide sul benessere di una località vicina conviene la produzione
decentralizzata.
Tuttavia regioni diverse con preferenze diverse possono trovare
convenienza nel meccanismo associativo se i benefici sono rilevanti
(esempio azione di difesa).
Accanto alle forme di federalismo, occorre tener conto delle
differenti modalità con cui si realizzano le Unioni economiche.
Le forme elementari sono costituite dalle zone di libero scambio
in cui vigono solo la franchigia e diritti doganali interni degli stati
aderenti ed ogni stato ha politica commerciale autonoma nei confronti
dei paesi terzi.
L’unione doganale prevede che ogni importazione proveniente
da paesi esterni all’unione si assoggettata agli stessi diritti doganali
senza differenziazione di origine ed ovviamente permangono i
controlli alle frontiere. Con il mercato unico si ottiene l’eliminazione
di ogni ostacolo alla mobilità di beni, prestazioni di servizi e di
capitali, mentre l’unione monetaria è lo stato più avanzato di
cooperazione federativa con la creazione di una moneta unica..

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5. L’UNIONE EUROPEA E LA POLITICA


ECONOMICA

La Comunità europea, attualmente denominata Unione


Europea (UE), è stata fondata nel 1957 da sei paesi (Belgio, Francia,
Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda), sulla base della Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Il trattato che fondava la
Comunità europea noto come inizialmente Trattato di Roma è stato
rivisto sia nel 1992, con il Trattato di Maastricht e successivamente
nel 2001 col Trattato di Nizza per incorporare diverse allargamenti
nella compagine degli Stati. Un nuovo trattato il Trattato di Lisbona
che riprende la maggior parte delle disposizioni del progetto di
costituzione è entrato in vigore nel 2009.
Il Trattato di Lisbona include almeno tre principi che sono:
 Il principio di attribuzione con il quale si ottiene che
l’Unione agisce nei limiti delle competenze che gli stati
membri le hanno attribuito nel trattato, al fine di
raggiungere gli obiettivi stabiliti.
 Il principio di sussidiarietà per il quale l’Unione
interviene solo nella misura in cui gli obiettivi
dell’azione prevista non possano essere raggiunti in
maniera sufficiente da parte degli stati membri.
 Il principio di proporzionalità per il quale il contenuto e
la forma dell’azione dell’Unione non possono eccedere
ciò che è necessario per raggiungere gli obiettivi della
costituzione.

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

Questi principi preservano gli stati contro un eccesso di


centralizzazione e sono coerenti con il principio di decentramento
della teoria del federalismo fiscale.
Inoltre nel Trattato di Lisbona per giustificare il trasferimento
di una competenza all’Unione Europea non occorre soltanto la
dimostrazione di subottimalità del decentramento ma occorre provare
che la centralizzazione è necessaria.
Il Trattato di Lisbona enumera cinque grandi categorie di
competenze dell’Unione:

 Le competenze esclusive per le quali il potere


appartiene all’Unione;
 Le competenze condivise per le quali l’iniziativa
appartiene all’Unione;
 Il coordinamento delle politiche economiche e
dell’occupazione degli stati membri;
 La definizione e realizzazione di una politica estera e di
sicurezza comune;
 Competenze per sostenere coordinare o completare
l’azione degli stati in ambiti specifici come la sanità,
l’industria, la cultura o l’istruzione.
Quanto sopra illustrato conferma che l’Unione europea ha
natura federale in quanto dispone di ambiti di competenze superiori a
quelle degli stati. Non può non segnalarsi la complessità del sistema
decisionale europeo dal momento che in esso coesistono cinque
categorie di competenze non sempre distinguibili e risultano
sovrapposte le une alle altre, mentre la logica di distribuzione delle
politiche fra i diversi ambiti non sempre appare chiaramente.

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Giovanni Cannata “Le interdipendenze nella politica economica”

Alla luce delle esperienze fin qui verificate si deve sottolineare


che il processo federativo previsto dai padri fondatori è un processo
incompleto in quanto (come affermato da Padoa-Schioppa):
 Vi è mobilità di beni e di capitali fra i paesi dell’Unione
ma quella del lavoro è ridotta;
 La gestione del mercato unico è sotto la responsabilità
dell’Unione ma gli stati rimangono in concorrenza per
le altre politiche di allocazione;
 Il mercato unico implica la moneta unica e questo non
accade per tutti gli Stati;
 La moneta unica non implica un bilancio federale ma
una sorveglianza delle politiche di bilancio nazionali;
 L’Unione non interviene nella redistribuzione
interpersonale ma ha un ruolo di redistribuzione fra
regioni e fra i paesi.

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LA POLITICA DI BILANCIO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica di bilancio”

Indice

1. ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI----------------------------------------------------- 3


2. SALDI DI BILANCIO E DEBITO PUBBLICO ---------------------------------------------- 5
3. IL DEBITO FINANZIARIO ---------------------------------------------------------------------- 8
4. STRUMENTI DEL DEBITO E PREZZI ------------------------------------------------------- 9
5. LA GESTIONE DEL DEBITO ------------------------------------------------------------------ 11

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Giovanni Cannata “La politica di bilancio”

1. ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI

La politica di bilancio o politica fiscale fa riferimento alla


funzione di stabilizzazione fondata sull’intervento fiscale per
controllare la spesa pubblica, governare le oscillazioni del ciclo
economico, garantire un livello alto di occupazione e controllare le
spinte inflazionistiche o deflazionistiche.
Nella messa a punto della politicarisulta centrale il rapporto
tra spesa pubblica e PIL come obiettivo al quale tendere.
Nel tempo questo rapporto cresce per l’accollo da parte dello
stato di nuove funzioni quali una diffusa istruzione la gestione della
salute ma anche il rafforzamento di investimenti tradizionali in
infrastrutture o innovativi (quali la ricerca), oltre agli interventi
crescenti per i trasferimenti sociali da cui discendono importanti
effetti distributivi
Il dibattito ricorrente sulla materia riguarda la dimensione
dell’intervento pubblico, le forme organizzative dello stesso, le
implicazioni sulla domanda interna. L’intervento dello stato per la
spesa pubblica di funzionamento, di investimento, di trasferimento
sociale, per la difesa è finanziato attraverso:
 Il prelievo obbligatorio connesso alla tassazione
(imposte e contributi sociali)
 L’indebitamento (emissione di debito pubblico da cui si
genera un costo per interessi)
 La creazione di moneta attraverso l’emissione di
moneta da parte della banca centrale).
Il bilancio è sottoposto ad una precisa normativa che ne
prevede gli elementi salienti ai quali gli Stati si debbono attenere, che

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Pag. 3 di 12
Giovanni Cannata “La politica di bilancio”

nel caso di Stati aderenti a Unioni o Federazioni sono particolarmente


severe. E’ questo il caso dell’Europa che con il Trattato di Maastricht
del 1992, il Patto di stabilità e crescita del 1997 e il Trattato di
stabilità, cooperazione e governance del 2012, ha introdotto una rigida
disciplina di bilancio.
Il bilancio dello stato è il documento che illustra l’origine e la
quantità delle entrate (gettito), l’impiego delle risorse nella spesa. Il
bilancio è per il decisore pubblico strumento di autorizzazione alla
spesa e di controllo della stessa
La predisposizione e gestione del bilancio ha luogo attraverso
l’iter articolato e complesso di formazione del bilancio e la
negoziazione dello stesso all’interno delle amministrazioni preposte e
con i portatori di interesse e le parti sociali. Il bilancio può avere
ipotesi di pluriennalità.
Come accade anche nell’esperienza italiana, questo iter prende
le mosse dalla definizione del quadro macroeconomico che tiene conto
anche delle questioni di quadro economico internazionale. In tale
quadro le varie amministrazioni predispongono le proposte che una
volta sintetizzate, vengono sottoposte al vaglio del Parlamento e una
volta approvate, costituiscono il riferimento di autorizzazione della
spesa. Tale autorizzazione con analogo iter può essere modificata in
corso d’anno.

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Giovanni Cannata “La politica di bilancio”

2. SALDI DI BILANCIO E DEBITO PUBBLICO

Il bilancio, a pena di incremento del debito pubblico, ha limiti di


manovra contenuti a causa della spesa fissa per dipendenti, dei
trattamenti pensionistici, dell’assolvimento delle funzioni sovrane,
degli oneri derivanti dal debito pubblico.
Si definisce saldo di bilancio la differenza tra gettito fiscale e
spesa pubblica. L’avanzo di bilancio si registra quando il saldo di
bilancio è positivo mentre si tratta di deficit di bilancio in caso
contrario. L’avanzo di bilancio può essere destinato al rimborso del
debito pubblico e alla costituzione di fondi sovrani ai quali attingere
per investimenti specialmente all’estero.
Il saldo di bilancio ha differenti configurazioni:
 il saldo dello stato e delle amministrazioni pubbliche fa
riferimento a quello che si definisce il settore senza
scopo di lucro che raccoglie i suoi introiti con la
tassazione. L’utilizzo di dati aggregati per il settore
pubblico nel suo insieme può cancellare situazioni
contrastanti tra differenti settori;
 il saldo primario è il saldo di bilancio di cui si è detto in
precedenza al netto degli interessi sul debito
pubblico:In sintesi il saldo finanziario è quello che
deriva dalla differenza Entrate-Spese.
Il saldo strutturale è una misura costruita per tener conto delle
oscillazioni nel tempo per effetto del ciclo economico.
Di conseguenza, il saldo finanziario di un paese è il risultato
della somma delle due componenti e cioè il saldo strutturale

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Giovanni Cannata “La politica di bilancio”

dell’economia e quello congiunturale che tiene conto dell’andamento


dell’economia.
Con maggiore precisione il saldo finanziario è la risultante
della somma del saldo primario congiunturale e del saldo primario
strutturale dedotti gli interessi sul debito.
Il calcolo del saldo di bilancio è ovviamente condizionato dalla
posizione dell’economia nel ciclo economico e dalla sensibilità del
saldo stesso al ciclo.
I problemi di misurazione del saldo strutturale hanno portato
allo sviluppo di un metodo alternativo di calcolo con una posizione
dell’economia nel ciclo e una sensibilità del saldo bilancio al ciclo.
Appare chiaro che il finanziamento del saldo di bilancio non piò
che avvenire da parte del contribuente odierno, da parte del
contribuente di domani o dal finanziamento della Banca centrale con
emissione di moneta.
La monetizzazione del deficit consiste nel finanziamento delle
spese dello stato con anticipo della Banca centrale (il cosiddetto
signoraggio), anticipo che laddove non adeguatamente controllato ha
portato all’inflazione nelle sue manifestazioni anche critiche
L’emissione di debito pubblico determina un impegno dello
Stato al pagamento di sorte capitale e interessi a una scadenza a
favore di creditori interni o internazionali. Mentre il deficit pubblico è
una variabile di flusso che cioè si rinnova ad ogni esercizio, il debito
pubblico è una variabile di stock che si accumula e genera l’evoluzione
del rapporto debito/PIL. La stabilizzazione del rapporto Debito/PIL è
difficile in un paese caratterizzato da una debole crescita
dell’economia.

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Ovviamente, in assenza di una politica di controllo del debito,


nel susseguirsi del tempo, il debito alla fine del periodo considerato, si
compone del debito del periodo precedente al quale vanno aggiunti gli
oneri finanziari relativi allo stesso debito del periodo precedente ed il
deficit primario del periodo in esame.
L’inflazione permette di svalutare ex post il debito pubblico per
effetto di una diminuzione del valore reale dei rimborsi ed una
conseguente diminuzione del pagamento degli interessi. Nei fatti si
tratta di una forma di monetizzazione a posteriori. In sintesi un
governo il cui debito è detenuto sotto forma di obbligazioni a tasso
fisso può ridurre il valore reale dei rimborsi e dei pagamenti degli
interessi.
Il debito estero di un Paese è costituito dagli impegni di tutti i
residenti nei confronti del resto del mondo ed ovviamente non va
confuso con il debito pubblico.
Un altro concetto al quale fare riferimento è il debito pubblico
netto inteso come il valore del Debito pubblico lordo al valore di
mercato al quale va sottratto il Valore degli asset pubblici che
potrebbero essere usati a copertura del debito.
Il problema è valutare se gli asset pubblici sono in grado di
compensare il debito pubblico anche perché prevalentemente e
sovente si tratta di beni che non sono facili da smobilizzare

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3. IL DEBITO FINANZIARIO

Naturalmente per la valutazione del debito pubblico si fa


riferimento al concetto contabile di debito finanziario. In pratica si
tratta dell’insieme dei titoli del debito pubblico in circolazione. In
Europa il debito, definito secondo le regole del Trattato di Maastricht,
comprende il debito finanziario al quale vanno aggiunte le garanzie
accordate dagli stati, come nel caso delle garanzie al Fondo europeo di
stabilità finanziaria.
Elemento centrale del debito pubblico sono i titoli di stato il cui
prezzo dipende dai tassi di interesse (e che ovviamente sono differenti
nel caso del prestito redimibile e di quello irredimibile).
I titoli di Stato sono correntemente scambiati nel mercato
finanziario ed il loro valore oscilla come quello di qualsiasi merce.
Il prezzo di un titolo perpetuo o irredimibile varia inversamente
al variare del tasso di interesse che ne esprime l’apprezzamento. Nel
caso di un’obbligazione a scadenza finita, ma senza interesse il prezzo
dipende dalla probabilità che il valore nominale sia rimborsato.
Il Premio per il rischio (risk premium) è un supplemento di
remunerazione per il rischio che si corre nel rimborso di un titolo da
parte di un acquirente. Ne consegue che se un’obbligazione è
giudicata rischiosa più il tasso d’interesse richiesto dagli investitori è
elevato.
Lo spread, termine frequentemente usato, è la differenza tra il
tasso dei diversi mutuatari e quello di un mutuatario sicuro, tra il
tasso di interesse di un paese come il nostro e quello della Germania,
ritenuto paese sicuro.

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4. STRUMENTI DEL DEBITO E PREZZI

Il fabbisogno finanziario è normalmente coperto con l’emissione


di titoli di debito che assumono differenti configurazioni in relazione a
diversi tipi di contratti o strumenti del debito distinti in relazione al
termine.
I buoni del tesoro sono strumenti a breve termine
Le obbligazioni pubbliche rappresentano strumenti a lungo
termine.
Le emissioni di titoli del debito pubblico possono riguardare
titoli a tasso fisso, a tasso variabile.
I titoli sono emessi con aste sul mercato primario alle quali
partecipano investitori istituzionali (banche, assicurazioni, ecc.), i
quali li riversano sui mercati secondari.
Centrale per la fluidità dei mercati è la reputazione di chi
emette i titoli.
La solvibilità degli stati è valutata dalle agenzie di rating in
relazione alla possibilità di fallimento prevedibile (Fitch, Standard &
Poor, Moody’s) vanno da AAA che misura il rischio di fallimento più
basso a C o D che sostanzialmente individuano la condizione di
default. Il ruolo delle agenzie di rating influenza la composizione dei
portafogli degli operatori. Nel tempo, anche in relazione a critiche
mosse ai meccanismi di valutazione, emerge la necessità tendenziale
all’abbandono da queste pratiche di rating.
Accanto ai tradizionali strumenti del debito, occorre prendere
in considerazione i debiti e gli impegni fuori bilancio classificabili in:
 Espliciti, derivanti cioè da o contratti (come nel caso
delle pensioni dei dipendenti pubblici);

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 Impliciti non contrattuali ma probabili e comunque


prevedibili come nel caso di garanzie prestate da
operatori pubblici;
 Impegni legati a un evento specifico (catastrofi)

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5. LA GESTIONE DEL DEBITO

La gestione del debito è significativamente influenzata dal


tasso d’interesse richiesto sui titoli che dipende dai rischi di
insolvenza del debitore. Un elevato premio per il rischio che si traduce
in un alto tasso di interesse determina un maggiore indebitamento
che per conseguenza determinerà una riduzione delle emissioni ma
nello stesso tempo finirà per generare difficoltà nel controllo del
rapporto debito/PIL.
La gestione del debito diventa molto difficile quando i mercati
giudicano che un paese non è più solvibile ed è quindi incapace di
rimborsare i debiti. In tal caso diventa impossibile emettere titoli sul
mercato obbligazionario, anche pagando premi elevati per il rischio.
In questa situazione è possibile intervenire con tre soluzioni in
caso di insolvenza:
 richiesta dello stato in crisi di assistenza finanziaria da
parte del FMI con un rigoroso programma di
aggiustamento che consenta in un determinato lasso di
tempo di poter raggiungere un avanzo primario;
 ristrutturazione del debito attraverso una politica di
negoziazione con i creditori in modo da poter ridurre gli
impegni sottoscritti con i prestatori;
 monetizzazione del debito: la banca centrale acquista i
titoli del debito pubblico che i mercati non vogliono
pagando con moneta creata per l’occasione.

Gli approcci indicati non sono equivalenti in termini di impatto


sulle differenti categorie di soggetti coinvolti.

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Giovanni Cannata “La politica di bilancio”

Gli aggiustamenti con un aumento dei prelievi fiscali e la


riduzione delle spese colpiscono tutte le categorie di contribuenti,
dipendenti pubblici e beneficiari di trasferimenti di reddito.
Una dichiarazione di default danneggia direttamente i creditori
interessati ma fa crollare l’immagine anche se l’insieme dell’economia
potrebbe non essere influenzata.
In conclusione si deve sottolineare che l’inflazione finisce per
penalizzare tutti gli agenti con redditi non indicizzati, i detentori di
titoli a tasso fisso, le banche creditrici di imprese e famiglie mentre
avvantaggia i soggetti indebitati in moneta nazionale che vedono il
proprio debito svalutato.

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APPROCCI ALLA POLITICA
DI BILANCIO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Approcci alla politica di bilancio”

Indice

1. L’APPROCCIO KEYNESIANO ----------------------------------------------------------------- 3


2. CRITICHE ALL’APPROCCIO KEYNESIANO --------------------------------------------- 6
3. LA SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO PUBBLICO ------------------------------------------- 8

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Giovanni Cannata “Approcci alla politica di bilancio”

1. L’APPROCCIO KEYNESIANO

E’ con la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della


moneta di Keynes che viene contemplato l’impiego della politica di
bilancio per influenzare il livello della domanda aggregata. Mentre la
teoria classica si preoccupava della solvibilità, le analisi di Keynes
conducono a privilegiare il controllo dei flussi delle spese e delle
entrate pubbliche e pongono il problema dell’accumulo del debito.
Le ipotesi alla base sono:
 Rigidità dei prezzi nel breve periodo
 Elasticità dell’offerta
 Dipendenza dei consumi e delle famiglie dal reddito
corrente.
Fondamentale è che un equilibrio si realizza con adeguamento
delle quantità prodotte alla domanda e che la variazione positiva
della domanda ha effetti moltiplicativi sull’economia
Occorre richiamare il concetto di moltiplicatore keynesiano o
della spesa pubblica da intendere come percentuale di incremento del
reddito nazionale per effetto di variabili macroeconomiche che
compongono la domanda aggregata (consumo, investimenti, spesa
pubblica), intervenendo quindi su spesa pubblica, entrate,
investimenti, commercio estero sono esogene.
E’ noto che il risparmio è determinato dalla propensione al
risparmio della società.
Il ciclo keynesiano può essere rappresentato dalla sequenza
 Aumento della spesa pubblica
 Aumento della produzione

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In assenza di imposte aumenta il reddito dei privati il che


comporta un:
 Aumento dei consumi
 Aumento della produzione e del reddito disponibile.

Non possono essere traslocate alcune considerazioni limitative


del meccanismo del moltiplicatore e dei suoi effetti in un’economia
aperta:
 L’incremento di reddito stimola importazioni
 La domanda di investimento da parte delle imprese è
funzione decrescente del tasso d’interesse che la banca
centrale può rialzare determinando minore convenienza
all’investimento
 L’incremento della domanda può stimolare inflazione in
relazione alla flessibilità dell’offerta
 L’inflazione è tuttavia limitata se i prezzi e i salari sono
rigidi e se esiste capacità produttiva non utilizzata
 Una parte delle famiglie quella che può disporre di
accesso al credito, non decide il consumo in base al
reddito corrente ma su scelte intertemporali.
Alla luce delle considerazioni precedenti, secondo l’approccio
keynesiano, è utile intervenire con mix di politiche ma le famiglie
potrebbero ricorrere al credito, proponendosi di rimborsare in seguito
e pagando un interesse.
Il consumo attuale dipende quindi dalle aspettative di redditi e
dalla permanenza nel tempo dello shock eventualmente intervenuto.
Si deve sottolineare poi che la politica di sostegno al reddito
abbassando le tasse, crea deficit ma non ha effetto sul consumo.

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In futuro lo stato alzerà le tasse per rimborsare il debito con


una politica fondata su aumento di spesa pubblica e le famiglie
saranno costrette a ridurre i consumi per effetto dei rimborsi del
debito pubblico.
Ovviamente questa è una schematizzazione mentre sarebbe
possibile fare riferimento a differenti tipologie di famiglie portatrici di
bisogni differenti e differenti schemi di consumo.

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2. CRITICHE ALL’APPROCCIO KEYNESIANO

L’approccio keynesiano ha registrato ha registrato nel tempo


alcune critiche da parte dei neoclassici. Innanzitutto le differenti
valutazioni intertemporali dei consumatori possono ridurre, ed in
talune circostanze annullare, l’effetto delle politiche fiscali sulla
domanda aggregata e sull’attività economica complessiva.
Altri argomenti sono stati avanzati dalla critica neoclassica nei
confronti del moltiplicatore keynesiano:
 Spiazzamento finanziario: secondo cui l’aumento del deficit
provoca un aumento del tasso d’interesse e da ciò deriva una
depressione della domanda privata
 Rigidità dell’offerta: situazione nella quale l’aggiustamento dei
prezzi è veloce per cui l’equilibrio non è determinato dall’offerta
 Effetti dal lato dell’offerta: fanno ci che aumenti permanenti
della spesa pubblica debbano essere finanziati da equivalenti
aumenti delle imposte con effetti negativi sull’offerta e
conseguente minore offerta di lavoro o di capitale.

Come si è ricordato, le politiche di bilancio non sono neutrali e


per valutare gli effetti gli studiosi utilizzano diversi tipi di approccio:
• Simulazioni con modelli macroeconomici tipo che hanno il
vantaggio di prendere in considerazione un insieme di canali di
trasmissione delle politiche a seconda del comportamento delle
diverse categorie interessate, dalle famiglie alle imprese, ai canali
internazionali. Mentre i modelli neokeynesiani tradizionali
presuppongono che il consumo sia funzione del reddito corrente,

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mentre altri modelli presuppongono comportamenti e si basano in


parte su parametri calibrati, non stimati empiricamente.
• Stime empiriche fondate su forme ridotte presentano ipotesi a
priori. Alcuni autori hanno applicato alla valutazione della politica
fiscale tecniche di regressione ottenendo dei moltiplicatori di breve
periodo dell’ordine dell’unità, sia per gli shock sulle spese che per gli
shock sulle imposte.
La questione della sostenibilità del debito pubblico è
ovviamente legata alla solidità dello Stato ed anche alla sua vita.

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3. LA SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO PUBBLICO

Saremmo portati a ritenere che lo stato ha vita infinita e quindi


teoricamente il suo debito possa essere rimborsato integralmente sia
pure nel tempo. Ciò consente di ipotizzare che il debito a scadenza
sarà rimborsato con nuovi prestiti. Occorre riflettere tuttavia sul fatto
che le generazioni future siano disponibili ad investire una parte dei
loro risparmi nei titoli del debito pubblico. Questo ci fa riflettere in
ogni caso sulla necessità di valutare la solvibilità in ogni istante
appurare la possibile esistenza di risorse che consentano allo Stato di
far fronte alle sue scadenze. Ciò significa tener conto delle situazioni
finanziarie, delle situazioni politiche, dell’inerzia delle spese e del
gettito fiscale.
Una condizione di insostenibilità si registra quando, alla luce
della politica economica e delle condizioni politiche generali, le
previsioni fanno ipotizzare una situazione di insolvenza (con uno
spazio fiscale ridotto) vale a dire con un esiguo margine di manovra
per le politiche di stimolo fiscale che rischiano di determinare una
spirale d’indebitamento insostenibile.
Una prima valutazione sulla sostenibilità poggia sulla stabilità
del rapporto debito/PIL; si confronta il saldo primario osservato con il
saldo primario teorico. Il saldo teorico dipende da Debito/PIL e dalla
differenza tra crescita PIL e tasso d’interesse.
La lezione dell’esperienza ci dice che siamo in presenza di
valutazioni empiriche.
L’indebitamento pubblico può essere accettato per ragioni
macroeconomiche connesse per esempio al sostegno all’indebitamento

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Giovanni Cannata “Approcci alla politica di bilancio”

delle imprese in condizioni di crisi o distributive con riferimento allo


scambio degli oneri tra generazioni.
Una condizione più attenta di sostenibilità si fonda sul vincolo
intertemporale (per cui il valore attuale delle entrate future deve
essere uguale al valore attuale delle spese future a cui va aggiunto il
valore iniziale del debito).
Un altro approccio di valutazione della sostenibilità delle
finanze è fondato sul rapporto tra la pressione fiscale globale e il
concetto di aliquota di imposizione sostenibile: un’aliquota che anche
tenendo conto della contabilità intergenerazionale, assicuri la
sostenibilità del debito per determinate proiezioni di spesa pubblica.
Tutto quanto fin qui detto fa si che il modello keynesiano
espansivo non sia applicabile agli stati che hanno problemi di
solvibilità
Alla luce di quanto discusso si sono sviluppate le Politiche di
rigore dell’Europa. Politiche di severo controllo si hanno se il livello
del debito è particolarmente critico e sia la monetarizzazione che il
ripudio del debito sono impossibili. In tali casi occorre un programma
di stabilizzazione a breve.
In quest’ottica gli agenti risparmiano se aumentano le imposte.
In caso di diminuzione permanente delle spese gli agenti
consumano di più
Taluni hanno parlato di modello a generazioni sovrapposte.
Questo si ha quando i consumatori stimano una durata della vita
finita
Nel caso di debito pubblico basso il modello keynesiano può
essere mantenuto e si ha un rinvio a generazioni future per il
pagamento del debito

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Giovanni Cannata “Approcci alla politica di bilancio”

Differente e quindi antikeynesiano diventa il comportamento


degli agenti se stimano che l’onere debba ricadere sulla generazione
attuale

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POLITICA DEL BILANCIO
PUBBLICO. QUADRO
TEORICO (PARTE PRIMA)
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Politica del Bilancio Pubblico.
Quadro teorico (parte prima)”

Indice

1. IL RUOLO DELLA FINANZA PUBBLICA SECONDO I CLASSICI E I


NEOCLASSICI -------------------------------------------------------------------------------------- 3
2. IL DEFICIT FENOMENO STRAORDINARIO. LE MODALITÀ DI
FINANZIAMENTO DEL DEFICIT SECONDO LA FINANZA “NEUTRALE” ----- 10
3. LA FINANZA KEYNESIANA ------------------------------------------------------------------ 18

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Salvatore Della Corte “Politica del Bilancio Pubblico.
Quadro teorico (parte prima)”

1. IL RUOLO DELLA FINANZA PUBBLICA


SECONDO I CLASSICI E I NEOCLASSICI

Nel quadro dell'economia classica e neoclassica, è diffusa l'idea


che tutto il reddito non consumato, cioè risparmiato, si trasformi in
investimenti in capitale fisico: ciò determina la convinzione che il
sistema sia portato a raggiungere naturalmente l'equilibrio generale.
La disoccupazione è solamente volontaria e mai involontaria, in
quanto i salari reali, come tutti gli altri prezzi sono perfettamente
flessibili sia in salita che in discesa.
Secondo tale ricostruzione teorica, il reddito nazionale, che
possiamo indicare sia con Y che con PQ, è un fenomeno monetario e
dipende dalla quantità di moneta in circolazione.
Y=vM [1]

In termini grafici all'aumentare dei miliardi di euro in


circolazione aumenta PQ.1

1Il lettore stia attento. In genere gli economisti sono soliti porre la variabile
indipendente sulle ordinate e sulle ascisse la variabile dipendente. In
matematica si fa il contrario. Noi seguiamo la regola economica per rispetto
dello studente, in modo che ritrovi gli stessi schemi su altri testi.

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Salvatore Della Corte “Politica del Bilancio Pubblico.
Quadro teorico (parte prima)”

Figura 1

Il tasso di interesse, invece, è un fenomeno esclusivamente


reale e mette in equilibrio domanda ed offerta di moneta

S (+ i) = I ( - i ) [2]
dove
S = save, in italiano risparmio
i = interest rate (tasso di interesse)
I = investimento
La formula precedente dice che al crescere del tasso di interesse
aumenta la disponibilità degli operatori a risparmiare, ma diminuisce
quella degli operatori a richiedere denaro in prestito.
Esiste però sempre un punto in cui domanda ed offerta si
equilibrano e quel punto determina il tasso di interesse di equilibrio.

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Quadro teorico (parte prima)”

In termini grafici

Figura 2

Il punto di equilibrio è il punto in cui si incontrano le due rette


(il punto E).
Secondo questo schema teorico, nel breve periodo, il livello di
produzione è dato perché vige la piena occupazione in quanto, in caso
di disoccupazione, si abbassa il salario reale e tutti vengono occupati.
Infatti, anche il mercato del lavoro è regolato dalla domanda e
dall'offerta secondo la formula:
LD ( - w/p ) = OD ( + w/p) [3]
in cui
LD è la domanda di lavoratori. Essa diminuisce al salire del
salario reale da corrispondere.

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Salvatore Della Corte “Politica del Bilancio Pubblico.
Quadro teorico (parte prima)”

LO è il numero di lavoratori che offrono le proprie prestazioni.


Questo numero cresce al salire del salario reale.
W/P è il salario reale.
La disoccupazione, in questo quadro teorico, può essere soltanto
momentanea, perché i salari sono completamente flessibili e pertanto,
in caso di disoccupazione, essi scendono fino al salario che spinge le
imprese ad assumere integralmente tutta la manodopera
disoccupata. In termini grafici

Figura 3

Sia il coefficiente K della scuola di Cambridge che il coefficiente


V nella teoria quantitativa ortodossa della moneta, sono
sostanzialmente stabili.
Date queste ipotesi, l'aumento di moneta genera unicamente
inflazione per cui la [1] può essere riscritta così:

PQ = v M

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Quadro teorico (parte prima)”

dal momento che Q è dato

P=vM

Secondo i classici e i neoclassici l'aumento della moneta genera


esclusivamente un incremento dei prezzi, cioè inflazione.
Da questi presupposti non potevano che derivare taluni principi
di politica del bilancio, sui quali si creò un consenso tra gli economisti
antecedenti a Keynes, per la loro capacità di offrire fondamentali
garanzie di correttezza nella gestione della finanza pubblica.
Sulla base di questi principi, tali economisti, tra i quali si
ricorda De Viti De Marco, hanno anche saputo forgiare teorie generali
della finanza pubblica ortodossa o cosiddetta “neutrale” fondata sulla
ipotesi della capacità del mercato di realizzare situazioni di ottimo
nell'impiego delle risorse, produceva in quegli economisti, un
atteggiamento di generale diffidenza verso gli interventi dello Stato
nella vita economica, che li induceva a prescrivere di limitare al
massimo simili interventi, per non corrompere, con l'interferenza
pubblica, gli equilibri raggiunti dal mercato.
I principali capisaldi della Politica di bilancio per tali
economisti sono i seguenti:

a) l'intervento dello Stato è legittimo se è finalizzato al


soddisfacimento dei cosiddetti bisogni collettivi;

b) lo Stato è, al pari di ogni altro organismo produttivo, obbligato


al reintegro dei costi di produzione;

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Quadro teorico (parte prima)”

c) il suo prelievo fiscale deve “turbare il meno possibile· le scelte


individuali di mercato”;

d) lo Stato è tenuto al pareggio del bilancio.


Secondo gli economisti classici e neoclassici, il mercato è in
grado di soddisfare autonomamente tutte le produzioni di beni di
mercato richieste dalla collettività, fatta eccezione per i beni collettivi,
che sono espressione dei bisogni collettivi e non di quelli privati.
La finanza classica riconosce la legittimità della produzione
statale solo con riferimento ai beni collettivi.
Non tutte le produzioni necessarie al consorzio civile infatti
sono di carattere individuale e possono essere negoziate sui mercati.
Vi sono bisogni il cui soddisfacimento non formano oggetto delle
contrattazioni di mercato.
Si tratta del soddisfacimento di bisogni collettivi quali
l'amministrazione della difesa della comunità politica, l'esercizio della
giustizia nei conflitti civili tra privati o per violazione delle norme
penali; la capacità di saper assicurare l'ordine pubblico e l'incolumità
fisica dei singoli cittadini; l'esigenza di assicurare l'istruzione a tutti i
cittadini, anche ai meno abbienti; la costruzione delle opere pubbliche.
La scuola economica classica e neoclassica ammette che lo
Stato prelevi imposte nella misura indispensabile a soddisfare i
suddetti bisogni collettivi, ma solo ed esclusivamente perché collettivi
e di nessun interesse per il mercato.
La convinzione che il sistema raggiunga in modo automatico la
piena occupazione impone la necessità del pareggio del bilancio,
postula, cioè, che la spesa statale si mantenga rigorosamente nei
limiti del prelievo fiscale occorrente per appagare i bisogni collettivi.

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Supponiamo infatti che lo Stato spenda in misura maggiore di


quanto preleva con le imposte dai privati. In questo caso, la domanda
di beni dello Stato non è sostitutiva, ma è parzialmente aggiuntiva
(per la parte in cui spende oltre a quanto incassa) rispetto a quella
degli operatori privati. La spesa totale (data dalla somma di quella
dei privati più quella effettuata dallo Stato) tenderà ad aumentare.
Ricordiamoci però che, secondo la scuola classica e neoclassica,
l'offerta di beni non può espandersi, perché vi è la piena occupazione
delle risorse produttive
La maggiore domanda, determinata dal deficit, in questo
quadro teorico, genererà inflazione.

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2. IL DEFICIT FENOMENO STRAORDINARIO. LE


MODALITÀ DI FINANZIAMENTO DEL DEFICIT
SECONDO LA FINANZA “NEUTRALE”

Con queste premesse è chiaro che, secondo la finanza ortodossa


un disavanzo del bilancio pubblico, poteva dipendere esclusivamente
da eventi di carattere straordinario, estranei ai problemi di
conduzione di una sana finanza ordinaria, quali ad esempio le guerre
e le calamità naturali.

La finanza neutrale non poteva concepire l'ipotesi di una


manovra delle dimensioni del disavanzo come strumento di politica
economica, (come proporrà Keynes) né poteva concepirla per
realizzare il pieno impiego dei fattori, perché la finanza ortodossa
muove dal presupposto che la piena occupazione sia spontaneamente
realizzata dal mercato.
Dal momento che la finanza neutrale considerava l'ipotesi di un
disavanzo come una possibilità dovuta a eventi straordinari, il
principale problema che essa si pose era quello di individuare la scelta
del modo più adeguato di finanziare il disavanzo stesso,
individuandole nelle imposte straordinarie, nei prestiti pubblici, nel
signoraggio, ovvero la creazione di mezzi monetari aggiuntivi.
Dopo Keynes, l'analisi delle conseguenze esercitate
sull'economia dalla scelta tra alternativi sistemi di copertura del
disavanzo sarà svolta soprattutto con riferimento agli effetti che la
·scelta stessa esercita sul livello della domanda globale.

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In quel contesto occorreva comprendere quale modalità di


finanziamento era più efficiente nel caso di disavanzi causati da
eventi straordinari.
Dal momento che gli economisti della finanza ortodossa sono
anche sostenitori della teoria quantitativa pura, è evidente che per gli
stessi un incremento della quantità di moneta comporta un
incremento dei prezzi.
Il problema consiste allora nello scegliere se finanziare il deficit
pubblico straordinario con un incremento di tasse o con prestiti, cioè
emissioni di titoli del debito pubblico.
Il contributo principale della scuola della finanza ortodossa su
tale argomento si deve a Ricardo che elaborò sia la teoria della non
equivalenza che quella della equivalenza (sotto determinate
condizioni) del finanziamento di deficit straordinari con le due
modalità sopra descritte.
Ricardo affronta il problema considerando gli effetti delle due
forme di finanziamento con riferimento agli effetti esercitati
sull'accumulazione di capitale che, nel quadro della teoria classica, è il
motore dello sviluppo economico.
Se lo Stato ricorre al prestito, cioè al collocamento di titoli
pubblici sul mercato. La collettività, secondo Ricardo, destinerà una
parte del risparmio già esistente all'acquisto dei titoli pubblici. Il
risultato finale del prestito pubblico consisterà dunque in una
sottrazione di risparmio agli impieghi privati e nella sua devoluzione
alle esigenze di finanziamento delle spese straordinarie dello Stato.
Se lo Stato, invece di ricorrere all'emissione di titoli pubblici,
ricorrerà all'imposta straordinaria, la collettività pagherà l'imposta
comprimendo in misura quasi equivalente la propria spesa di

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consumo. In questo secondo caso la collettività risparmia di più per


affrontare il maggiore onere fiscale.
Quando il deficit straordinario è finanziato con l'emissione di
titoli del debito pubblico, sono gli investimenti privati a subire la
pressione derivante dalle esigenze di finanziamento dello Stato e
l'accumulazione di capitale diminuisce.
Quando il deficit è finanziato con nuove tasse sono i consumi
privati ad essere sacrificati.
Siccome l'accumulazione di capitale è il fondamento dello
sviluppo capitalistico, secondo Ricardo, il ricorso all'imposta
straordinaria è da preferirsi al prestito.
Ricardo elaborò anche la teoria dell'equivalenza tra le due
forme di finanziamento del deficit straordinario. Secondo questa
teoria l'imposta costringe la collettività ad un maggior risparmio e
cioè a ridurre i consumi, per far fronte alla maggiore imposizione
fiscale. Tuttavia, se non c'è illusione fiscale, la collettività sarà
consapevole che, anche se lo Stato ricorre al prestito pubblico, esso
dovrà introdurre in futuro nuove imposte, sia per restituire il prestito,
sia per pagare gli interessi sui titoli pubblici emessi.
Se la collettività è colta e intelligente sa che l'unica differenza
tra l'introduzione di un'imposta istituita oggi ed il prestito sta nel
fatto che in quest'ultimo caso l'imposta è differita nel tempo.
Se la collettività è consapevole che sarà chiamata in un
momento successivo a sostenere nuove imposte per pagare gli
interessi del debito pubblico e il debito stesso, contrarrà i propri
consumi e il suo risparmio tenderà ad aumentare, anche qualora il
deficit fosse finanziato con l'emissione di titoli del debito.

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Se non c'è illusione fiscale, allora, il prestito e l'imposta


straordinaria hanno effetti macroeconomici simili e, in entrambi i
casi, si contraggono i consumi e vengono stimolati i risparmi.
Se utilizziamo lo schema IS – LM per descrivere il
funzionamento dell'economia secondo quanto abbiamo enunciato fino
ad ora, dobbiamo rappresentare la curva LM come verticale (figura 4)
e parallela all'asse delle ordinate, in quanto, secondo questo schema,
la domanda di moneta dipende esclusivamente dal motivo transattivo,
mentre possiamo descrivere come decrescente la curva IS.

Figura 4

D'altra parte, come lo studente ricorderà, una politica fiscale


espansiva si rappresenta con uno spostamento a destra della curva
IS. Gli investimenti pubblici sono rappresentati come investimenti

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aggiuntivi rispetto a quelli privati (la curva più a destra è data dalla
somma dei due tipi di investimento). Pertanto i nuovi punti di
equilibrio gli investimenti e i risparmi sono a destra di quelli
precedenti, in cui avevamo considerato soltanto l'investimento
privato.

Figura 5

Se trasferiamo il tutto nello schema IS - LM, la nuova curva IS'


sarà a destra di quella precedente, con un tasso di interesse maggiore
per ogni livello di reddito considerato.

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Nella figura 6 abbiamo disegnato la nuova curva IS'

Figura 6

E' ovvio che, nello schema ricardiano, lo spiazzamento della


spesa pubblica è totale, indipendentemente dalla forma di
finanziamento e l'incremento della spesa pubblica non avrà alcun
effetto sul reddito.
In termini grafici, nello schema IS – LM, quanto previsto da
Ricardo si descrive come nella figura 7.
Figura 7

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Secondo Ricardo e tutti gli esponenti della finanza “neutrale”


esiste uno spiazzamento completo del deficit pubblico straordinario,
comunque esso sia finanziato.
Si definisce “spiazzamento” degli investimenti privati, in
economia, l'insieme degli effetti di contrazione della domanda, che
contrastano quelli espansivi della medesima.
Secondo Ricardo, lo spiazzamento tende ad essere totale: gli
impulsi restrittivi e quelli espansivi si annullano reciprocamente,
sicché il disavanzo pubblico, non finanziato da creazione di moneta, è
incapace di suscitare in definitiva aumenti della domanda globale e
del reddito.
Il finanziamento del disavanzo statale attraverso l'emissione di
titoli pubblici può comportare, in assenza di illusione fiscale, anche
una contrazione dei consumi.
In concreto la collettività, prevedendo maggiori imposte future
per pagare gli interessi e i debiti contratti dallo stato, contrae la spesa
di consumo anticipatamente.
In economia, questa contrazione della domanda globale (o
aumento del risparmio forzoso) è detto anche “spiazzamento reale” o
“anticipato” per distinguerlo da quello “finanziario”, subito dagli
investimenti privati, che avviene essenzialmente per l'incremento del
costo del denaro.
Ovviamente l'equivalenza ricardiana è subordinata alla
mancanza dell'illusione fiscale ed è lo stesso Ricardo ad avvertire che
l'illusione fiscale normalmente c'è.
Altri economisti hanno successivamente osservato che, se il
pagamento degli interessi si trasferisce sulle generazioni future, è

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poco probabile che si verifichi lo spiazzamento reale, detto anche


anticipato.
Occorre infine aggiungere che nello schema classico, sarebbe
inutile finanziare il deficit straordinario con una politica monetaria
espansiva, perché in questo caso, data l'ipotesi della piena
occupazione dei fattori, si avrebbe soltanto inflazione.
Nello schema IS – LM questa situazione si rappresenta come
nella figura 8

Figura 8

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3. LA FINANZA KEYNESIANA

La personalità scientifica di J.M. Keynes ribaltò


completamente gli schemi e le teorie economiche precedenti anche in
tema di Politica fiscale.
Keynes aveva mostrato in più occasioni, anche prima
dell'apparizione della sua Teoria Generale, la propria posizione
autonoma nei confronti delle tematiche e dei canoni propri della
tradizionale ortodossia finanziaria. Tuttavia, questa sua insofferenza
verso gli schemi del passato aveva suscitato vivaci polemiche da
parte di coloro che rimanevano tenacemente ancorati ai presupposti
tradizionali dell'analisi finanziaria.
Secondo Keynes la teoria quantitativa non si è resa conto che
gli operatori non chiedono moneta soltanto per il motivo transattivo e
precauzionale, ma anche per quello speculativo. Dal momento che
esiste una relazione inversa tra il tasso di interesse e la domanda di
moneta per il motivo speculativo, la domanda di moneta aumenta al
diminuire del tasso di interesse, ma tutto ciò ha una conseguenza
sull'economia reale, perché gli imprenditori decideranno se effettuare
o meno un nuovo investimento, confrontando i tassi con le attese di
profitto.

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Figura 9

Sul mercato esiste una certa curva dell'efficienza marginale del


capitale. In altri termini gli imprenditori hanno una certa aspettativa
di profitti futuri per gli investimenti in capitale fisico aggiuntivo.
Figura 10

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Dati tutti i possibili rendimenti dei vari investimenti, dobbiamo


vedere quale tasso di interesse si crea sul mercato monetario per
comprendere quali investimenti si realizzeranno.

Figura 11

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Figura 12

Il punto E indica il punto di incontro tra il tasso d'interesse,


determinatosi sul mercato monetario, e l'EMK.
La proiezione di quel punto sull'asse delle ascisse ci indica il
volume di investimenti in capitale fisico che si realizzerà, ma tale
tasso, a differenza di quanto previsto dalla teoria classica, è ottenuto
non dall'equilibrio tra risparmi ed investimenti sul mercato reale, ma
dall'incontro tra il tasso di interesse (generato dall'incontro
tra la domanda di moneta per il fine speculativo e l'offerta di
moneta stabilita dalle autorità monetarie) e l'aspettativa di
profitti futuri da parte degli imprenditori.
Determinato l'incremento degli investimenti, avremo
l'incremento del reddito, tramite il moltiplicatore Keynesiano:

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Δ Y = 1/(1 – c) · ΔI [4]

Figura 13

Secondo Keynes il saggio di interesse è essenzialmente un


fenomeno monetario e mette in equilibrio domanda e offerta di
moneta, mentre il reddito è un fenomeno reale e mette in equilibrio il
risparmio e l'investimento.
Gli imprenditori decidono se effettuare un investimento o
meno, tenendo conto del costo del denaro e delle attese future di
profitto. In questo modo il mercato monetario e quello reale si
incontrano.
Le conseguenze di politica economica sono molto differenti da
quelle quantitative. In un economia monetaria, la moneta non è
soltanto strumento di scambio e di conservazione del valore nel

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tempo; la moneta non è esclusivamente un velo che copre l'andamento


reale dell'economia.
La politica monetaria ha grandi conseguenze sull'andamento
dell'economia reale perché il tasso d'interesse che si crea sui mercati
finanziari, determina le variazioni di capitale fisico. Le variazioni di
capitale fisico determinano gli incrementi dell'occupazione e questi
ultimi generano, tramite la spesa, ulteriori incrementi di occupazione.
Se è così, allora la politica monetaria può aumentare
l'occupazione, se rende possibili il maggior numero di investimenti
data la curva esistente dell'efficienza marginale del capitale.
Ma Keynes si rende conto che la politica monetaria ha due
limiti enormi:
 non può modificare le aspettative di profitto futuro degli
industriali;
 esiste il fenomeno della trappola della liquidità.
Il contributo fondamentale di Keynes risiede nella sua critica
alla presunta adeguatezza dei meccanismi spontanei del mercato a
realizzare la piena occupazione.
La finanza così detta ortodossa, partendo dal presupposto della
piena occupazione dei fattori, non poteva che prescrivere l'obbligo del
pareggio del bilancio.
Keynes sostituì l'idea che esistesse sempre un saggio di
interesse corrente di mercato che eguaglia il risparmio con gli
investimenti con l'idea opposta, nutrita dall'evidenza della grande
depressione del 1929, della sistematica tendenza delle economie di
mercato ad assestarsi spontaneamente su equilibri di
sottoccupazione.

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Il problema centrale dell'analisi di Keynes è dunque quello di


trovare un meccanismo che rende possibile che il risparmio si tramuti
in investimento in capitale fisico aggiuntivo, visto che questo non
avviene spontaneamente se non in particolari momenti storici di
grande aspettativa per il futuro.
Tuttavia la sua impostazione epistemologica della scienza
economica non gli consentiva di considerare gli aspetti storici,
istituzionali o antropologici. Egli cercava una soluzione quantitativa,
che partisse dall'idea che l'operatore è un agente egoista e
massimizzante: visti tutti i limiti della politica monetaria, la
soluzione, in determinate situazioni poteva venire soltanto da una
politica fiscale di spesa pubblica in deficit (deficit spending).
Lo schema IS – LM può essere di utile chiarimento.

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Fig. 14

Nella figura 14 l'economia si trova in piena trappola della


liquidità. In questa situazione ogni immissione di denaro nel sistema
da parte della Banca centrale è inutile perché i soldi saranno
trattenuti dagli operatori finanziari.
Infatti il corso dei titoli è troppo alto (e di conseguenza il tasso
di interesse troppo basso) per cui gli operatori si attendono una
diminuzione dei prezzi dei titoli (e di conseguenza un aumento dei
tassi). Per questa ragione trattengono la moneta in attesa degli eventi
futuri.
Allo stesso modo, lo studente noterà che la curva IS è molto
ripida. Questo significa che notevoli diminuzioni del tasso di interesse
comporteranno un aumento minimo degli investimenti.

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Ciò accade perché le aspettative degli investitori e degli


imprenditori sono negative.
In questa situazione ci troviamo di fronte a una disoccupazione
involontaria e ad un fallimento dei meccanismi di allocazione delle
risorse da parte dei mercati.
L'unica ricetta è far ripartire la domanda globale, ma ciò è
difficile viste le aspettative pessime degli operatori privati e la
situazione di generale disoccupazione?
In presenza di una disoccupazione derivante da un livello
insufficiente della domanda globale, l'unica possibilità è costituita
dalla formazione di disavanzi del bilancio pubblico.
Occorrono cioè spese e investimenti sostituivi di quelli privati,
anche effettuati con una spesa straordinaria dello stato, spesa che
trova giustificazione nell'esigenza, manifestata dal sistema, di porre
in atto misure di sostegno della domanda globale.
L'eccesso della spesa compiuta dallo Stato rispetto alle sue
entrate - rispetto, cioè, al potere d'acquisto sottratto alle possibilità di
spesa degli operatori privati - implica per definizione, come abbiamo
già visto prima, un'espansione della spesa totale.
In una situazione come quella descritta sopra sono del tutto
diverse le conseguenze di tale spesa rispetto a quanto previsto dalla
finanza “neutrale”.
Nel caso sopra descritto non si verificheranno fenomeni
inflattivi, né ci sarà uno spiazzamento, come prevedeva Ricardo.
L'eccesso di spesa compiuta dalla Stato rispetto alle sue entrate
promuoverà invece una ripresa dell'occupazione, ed un aumento del
livello di equilibrio del reddito. Inoltre l'espansione della spesa
globale, conseguente ad un disavanzo pubblico, assumerà una

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grandezza amplificata rispetto a quella del disavanzo stesso secondo


la logica del moltiplicatore.
Ecco allora emerge la fondamentale contrapposizione tra la
finanza keynesiana e la tradizionale ortodossia finanziaria.
Le giustificazioni della mutata ottica keynesiana in cui la
formazione di disavanzi pubblici viene considerata sono esplicite.
Keynes è in tutto un neoclassico. Anche lui è convinto che se
nell'economia vi fosse una domanda globale sistematicamente capace
di realizzare la piena occupazione, i disavanzi pubblici non avrebbero
motivazione economica (salvo che in presenza di eventi straordinari),
ed anzi si risolverebbero in un'infrazione degli equilibri raggiunti dal
sistema.
Il problema è il verificarsi sistemico di questa insufficiente
domanda globale.
Tale insufficiente domanda genera le aspettative negative.
Nello schema keynesiano non c'è insufficienza di moneta in
circolazione. C'è insufficienza di domanda globale: i consumi sono
insufficienti , ovvero il risparmio è troppo alto e gli investimenti in
capitale fisico non sono in grado di compensare i mancati consumi:
ovvero il risparmio non si tramuta in investimenti, perché le
aspettative sono negative, ovvero i tassi troppo alti rispetto alle
aspettative.
Il limite del pensiero di Keynes è di aver avvicendato il
presupposto della disoccupazione endemica a quello, sicuramente
sbagliato (classico e neoclassico) della piena (e spontanea)
occupazione.

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Questo diverso presupposto ha prodotto una sostanziale


revisione dei temi trattati dalla scienza finanziaria nel periodo di
maggiore fulgore delle teorie keynesiane.
In questa nuova concezione il vero onere per la collettività non
è rappresentato dalla distorsione che comporta per la collettività un
deficit sostenuto non per finanziare i beni collettivi ma altre spese.
Nella concezione keynesiana il vero onere è rappresentato
dall'esistenza di risorse produttive disoccupate.
Se nel sistema economico sussistesse la piena occupazione dei
fattori produttivi, dice Keynes, la spesa pubblica in deficit
sottraerebbe effettivamente risorse produttive agli impieghi privati.
Quando c'è la piena occupazione, ciò è legittimo soltanto nella
misura in cui ciò avviene nei limiti necessari al soddisfacimento di
bisogni collettivi
In tal caso lo Stato deve prelevare nella misura necessaria
imposte ordinarie e non vi è disavanzo. Il prelievo delle imposte
ordinarie sottrae -è vero- risorse ai privati, ma questi sono compensati
dal soddisfacimento dei bisogni collettivi.
In questa situazione, quella di piena occupazione, se la
distorsione delle risorse si verifica in deficit, allora vuol dire che essa
non trova compensazione nel soddisfacimento di tali bisogni.
Comunque sia finanziato, il disavanzo comporta un sacrificio per la
collettività, consistente nella rinunzia - non giustificata dai bisogni
collettivi - ad altri impieghi delle risorse.
L'onere del disavanzo si raffigura in questa rinuncia, che si
sarebbe distribuita tra consumi ed investimenti a seconda dei sistemi
di copertura del disavanzo di volta in volta prescelti.

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Secondo Keynes il discorso è completamente diverso se nel


sistema economico vi sono risorse produttive disoccupate. In questo
caso, anche se la spesa pubblica eccede i limiti strettamente necessari
al soddisfacimento dei bisogni collettivi, essa non sottrae
necessariamente risorse produttive agli impieghi privati: in questo
caso essa si limita ad assorbire risorse produttive lasciate appunto
disoccupate dall'insufficienza della domanda privata e dal fallimento
dei mercati.
Non c'è sacrificio per i privati a seguito dell'utilizzazione
pubblica di risorse che sarebbero altrimenti rimaste inoperose.
Il grande merito di Keynes è quello di aver rotto il consenso
degli economisti sul funzionamento spontaneo dei mercati anche se ne
è derivata una teoria valida soltanto in determinati contesti e non
generale.
In Keynes il problema del metodo di copertura delle spese
effettuate in deficit è del tutto ribaltato.
Il disavanzo pubblico, nella politica fiscale keynesiana, è
utilizzato per produrre un aumento della domanda globale, e, per
questa via, ridurre la disoccupazione esistente. La creazione di mezzi
monetari aggiuntivi, ed il ricorso ai prestiti pubblici costituiscono
pertanto i sistemi di copertura del disavanzo fortemente preferibili
rispetto all'incremento delle imposte.
E' evidente che questa conclusione dipende anche dal profondo
monetarismo della teoria keynesiana: l'offerta di moneta comporta un
aumento del reddito, perché riduce il tasso di interesse e aumenta gli
investimenti, ma, anche qualora tale incremento dell'offerta non si
riversasse sul mercato finanziario, ma direttamente su quello dei
beni, come avviene quando esso finanzia gli acquisti e gli investimenti

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della pubblica amministrazione, se c'è disoccupazione, esso si tramuta


in un incremento della spesa e, mediante il moltiplicatore, aumenta il
reddito.
E' ora importante che il lettore rifletta su di un aspetto
fondamentale.
Tutti gli economisti keynesiani, fino all'inizio degli anni
ottanta, consiglieranno politiche di deficit spending, finanziate con
aumento dell'offerta di moneta da parte della banca centrale oppure
mediante l'emissione di titoli del debito.
E' evidente che un incremento della domanda globale si ottiene
sia attraverso un incremento della spesa pubblica, sia attraverso una
riduzione delle tasse.
Gli economisti keynesiani sostengono che ha più effetto sul
moltiplicatore un incremento della spesa che una riduzione delle tasse
e, dal momento che non si considerano altri aspetti fondamentali del
funzionamento dell'economia
Se si introduce la spesa pubblica nella identità del reddito, il
reddito non è dato esclusivamente da Consumi e Risparmi. A queste
due grandezze occorre aggiungere la spesa pubblica, per cui:

Y=C+I+G [5]

dove Y è il reddito monetario nazionale, C il consumo privato, I


gli investimenti in capitale fisico aggiuntivo, G la spesa pubblica.

Alla luce del bilancio pubblico, avendo introdotto la spesa


pubblica, dobbiamo introdurre nello schema le tasse che colpiscono i
consumi. Essi allora non saranno esclusivamente una percentuale del

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reddito, ma saranno una percentuale del reddito disponibile, il quale è


dato dal reddito monetario nazionale meno le tasse.

C = c (Y – T) [6]

Se sostituiamo la [6] nella [5] avremo:

Y = c (Y – T) + I + G [7]

da cui

Y = (I + G – c T) / (1 - c) [8]

in termini di variazioni la [8] può essere riscritta come:

ΔY = (ΔI + ΔG – Δ c T) / (1 - c) [9]
Quello che lo studente deve tenere bene a mente è che nella
realtà economica, le variabili della [9] non sono indipendenti tra di
loro o, per lo meno non è detto che lo siano.
Quando abbiamo parlato della tesi di Ricardo di uno
spiazzamento totale o parziale, abbiamo inteso dire che l'incremento
di ΔG comportava una totale o parziale diminuzione di ΔI.
Per un momento, però, dimentichiamo quali conseguenze
l'incremento di G può determinare sugli investimenti privati e
ipotizziamo che essi siano pari a 0 in modo da poter studiare le
diverse conseguenze sul reddito di una diminuzione delle tasse o di un
incremento della spesa. Se ipotizziamo che ΔI = 0, allora la [9]
diventa:

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ΔY = ΔG / (1 – C) – Δ c T / (1 - c) [9]

E allora facile notare che l'incremento della domanda che


deriva dall'incremento unitario della spesa pubblica è maggiore
dell'incremento della domanda che deriva dalla riduzione unitaria
delle imposte.
Infatti se supponiamo esistere una propensione al consumo del
70% l'incremento della domanda che deriva dall'incremento unitario
della spesa pubblica sarà 1/(1 - c), cioè 3,33, mentre l'incremento
della domanda che deriva dalla riduzione unitaria delle imposte sarà
0,70 / 1 – 0,70 = 2,33
Da questa osservazione, gli economisti keynesiani fanno
discendere la loro preferenza per l'incremento della spesa piuttosto
che per la riduzione delle tasse, trascurando tutta una serie di effetti
collaterali che la scelta di incrementare la spesa determina e che
vedremo nelle prossime lezioni.
E' evidente che è molto diverso ottenere l'incremento della
domanda globale con la riduzione delle tasse, piuttosto che con
l'incremento della spesa pubblica e la prima strada poteva e forse è
indicato seguirla.

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POLITICA DEL BILANCIO
PUBBLICO. QUADRO
TEORICO (PARTE
SECONDA)
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Politica del Bilancio Pubblico.
Quadro teorico (parte seconda)”

Indice

1. L'AFFERMAZIONE DELLA FINANZA FUNZIONALE --------------------------------- 3


2. LA CRESCITA DEI DEBITI SOVRANI: LA SPIEGAZIONE DELLA SCUOLA
DELLA PUBBLIC CHOICE -------------------------------------------------------------------- 10
3. LE CONDIZIONI DI SOSTENIBILITÀ FINANZIARIA DEL DEBITO PUBBLICO
--------------------------------------------------------------------------------------------------------- 17
4. LE CONDIZIONI DI SOSTENIBILITÀ OGGETTIVE DEL DEBITO PUBBLICO 25

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1. L'AFFERMAZIONE DELLA FINANZA FUNZIONALE

Secondo autorevoli economisti il concetto di finanza


«funzionale» riflette un particolare modo di considerare il ruolo e gli
obiettivi della politica del bilancio pubblico. Secondo tali autori la
politica fiscale del governo, la politica della spesa e del prelievo
fiscale, del prestito e dell'ammortamento del debito, dell'emissione e
del drenaggio di mezzi monetari, dovrebbe essere attuata con lo
sguardo rivolto ai risultati di tale politica sulla economia e non alle
concezioni di una qualsiasi consolidata e tradizionale teoria.
La finanza funzionale, pertanto, non dà indicazioni teoriche
circa gli obiettivi che la Politica economica deve perseguire, ma offre
una serie di strumenti per la valutazione della situazione e per
perseguire i più svariati obiettivi.
Gli obiettivi di Politica economica e, in particolare, di politica
fiscale, possono essere dunque i più vari, ed il “giudizio” sull'azione di
bilancio intrapresa non dipenderà da una analisi logica e teorica, ma
dipenderà unicamente dalla capacità di conseguire di volta in volta i
risultati perseguiti.
E' evidente che, con questo approccio euristico, le scelte di
politica fiscale si avvicineranno maggiormente alla scuola classica
oppure a quella keynesiana, a seconda della vicinanza della
situazione concreta dell'economia alle ipotesi di partenza dei due
modelli.
E' evidente che l'utilizzo della politica di deficit spending è la
situazione più idonea nel caso descritto dalla figura 1.

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Figura 1

Nella figura 1 rappresentiamo una situazione in cui gli


investimenti sono poco reattivi alle variazioni del tasso di interesse e
sui mercati finanziari c'è grande elasticità della domanda di titoli,
esistono cioè ingenti quantità di denaro speculativo, capace di
affrontare l'incremento di offerta dei titoli pubblici.
In queste condizioni è ovvio che la politica fiscale di deficit
spending, finanziata mediante l'emissione di titoli pubblici, ha un
ruolo efficace da svolgere, anche se rimane da comprendere (e lo
schema IS – LM non aiuta) quanta disoccupazione esista nel sistema
e quanta parte dell'incremento del reddito nominale sia dovuta alla
crescita dei prezzi e quanta alla crescita delle quantità prodotte.
Questi due ultimi dati statistici sono però rilevabili a latere
dello schema IS – LM.

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Supposto che ci si trovi in una situazione di sottoccupazione, il


sistema accrescerà la produzione complessiva, grazie ad un
incremento della spesa globale.
La ragione per cui si ha, in questo caso, un grande incremento
del reddito monetario nazionale dipende dalla circostanza che gli
investimenti privati non subiscono alcuno spiazzamento, cioè nessuna
riduzione conseguente al finanziamento mediante titoli pubblici.
In altre parole la formula [1] può esplicitare tutti i suoi effetti,
perché gli incrementi di ΔG o le riduzioni di Δ c T non sono
compensate da decrementi di ΔI.

ΔY = (ΔI + ΔG – Δ c T) / (1 - c) [1]

Ma perché questo avviene se, in realtà stiamo qui esaminando


il caso di un aumento del disavanzo pubblico finanziato con
l'emissione di titoli pubblici? In altre parole, cosa accade sul mercato
dei titoli per cui la concorrenza fra i titoli emessi dallo Stato e le
imprese private alla ricerca di finanziamenti non determina la
riduzione del loro prezzo? Perché, nonostante aumenti l'offerta dei
titoli, il loro prezzo non si riduce e, di conseguenza, il tasso di
interesse non si innalza?
Il prezzo dei titoli non si abbassa perché esiste un imponente
massa di denaro speculativo che riesce ad assorbire la maggiore
offerta di titoli pubblici. Il prezzo dei titoli scende relativamente poco
e relativamente poco sale il tasso di interesse. Dal momento che il
tasso di interesse non sale, gli investimenti privati non si riducono.
Dal momento che gli investimenti non scendono l'incremento del
reddito monetario è tutto quello atteso.

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Secondo la finanza funzionale è invece completamente diversa


la politica raccomandabile in una situazione economica come quella
raffigurata nella figura 2.

Figura 2

In questo caso la politica di deficit spending non avrebbe alcun


significato economico positivo e non consentirebbe di raggiungere
l'incremento del reddito monetario atteso. In questo caso lo
spiazzamento degli investimenti privati è consistente.
Anche in questo caso la spesa pubblica è finanziata con
l'emissione dei titoli pubblici, ma il mercato finanziario non è in grado
di assorbire l'aumento dell'offerta dei titoli. L'incremento dei titoli
comporta la diminuzione dei prezzi dei titoli e la crescita del tasso di
interesse.
Nel caso considerato, la crescita del tasso di interesse comporta
una diminuzione consistente degli investimenti, che determina un

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aumento del reddito monetario molto inferiore, corrispondente alla


proiezione sull'asse delle ascisse del punto E, invece del punto G.
In un caso del genere, perché la politica di bilancio abbia gli
effetti attesi, è indispensabile che essa sia finanziata con il
signoraggio, cioè con l'emissione di moneta da parte della Banca
centrale (quando essa esista e sia sottomessa alle autorità
democraticamente elette di un popolo sovrano).
In tal caso si verifica quanto viene rappresentato nella figura 3

Figura 3

L'incremento dell'offerta di moneta, in questo caso, fornisce la


moneta necessaria ad assorbire l'incremento dei titoli pubblici e in
questo modo:
a) dal momento che l'offerta di moneta consente di assorbire il
maggiore volume di titoli, il prezzo dei titoli non scende e il
tasso di interesse non sale;

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b) dal momento che il tasso di interesse non sale, gli investimenti


privati non subiscono alcun spiazzamento e il reddito
monetario subisce tutto l'incremento atteso;
c) l'equilibrio, in questo caso, si determina nel punto E,
coincidente con quello atteso.
Due esempi ci faranno comprendere ancora meglio la differenza
tra l'approccio euristico della finanza funzionale e quello delle due
scuole precedenti (finanza neutrale e finanza keynesiana).
Ipotizziamo un'onda recessiva, che comporti una riduzione del
gettito fiscale dovuta alla flessione delle attività produttive. Il reddito
monetario nazionale scende e innesca una recessione come è
raffigurata nella figura 4.

Figura 4

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La finanza neutrale, con il suo postulato del pareggio del


bilancio, solleciterebbe un'equivalente riduzione della spesa pubblica.
Secondo i sostenitori della finanza funzionale, in questo caso è
evidente che la recessione è determinata da un'insufficienza della
domanda globale e che la riduzione della spesa pubblica tenderebbe
inevitabilmente ad inasprirne la portata.
In questo caso, secondo la scuola della finanza funzionale è
evidente che una politica di disavanzi pubblici consentirebbe di
ripristinare la situazione di equilibrio precedente.
In questo caso è difficile prevedere che esisteranno effetti di
spiazzamento, al contrario i disavanzi pubblici, in questo caso,
compensano la caduta degli investimenti autonoma realizzatasi
nell'economia.
Un ragionamento analogo potrebbe realizzarsi in situazioni in
cui la scuola keynesiana prescriverebbe comunque una politica di
Deficit spending, mentre la politica fiscale funzionale, di fronte a
situazioni di persistente inflazione, consiglia la riduzione dei deficit di
bilancio, anche in presenza di livelli di occupazione, inferiori a quelli
naturali.
La finanza funzionale sembrò e sembra a molti aver trovato un
modo pragmatico e utile di affrontare la politica economica, ma ci
sono molti critici che fanno osservare che essa non indaga e non
comprende le cause dei fenomeni economici e questo riduce
fortemente la sua capacità di affrontare efficacemente nel lungo
termine le mutevoli situazioni economiche congiunturali e strutturali.

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2. LA CRESCITA DEI DEBITI SOVRANI: LA


SPIEGAZIONE DELLA SCUOLA DELLA PUBBLIC
CHOICE

Quale che sia il giudizio storico sulla scuola della finanza


funzionale è evidente che essa si è affermata negli anni ‘60 del secolo
scorso come la scuola predominante di politica fiscale e che ancora
oggi le scelte effettive di politica economica vengano prese, in gran
parte, anche sulla base di quegli schemi teorici. L'adozione prima
dello schema di finanza keynesiana e, in seguito , dello schema di
finanza funzionale, comunque fortemente influenzato dal pensiero
keynesiano, ha determinato la crescita consistente di politiche di
deficit spending e la crescita dei debiti pubblici, detti anche debiti
sovrani, in tutti i Paesi del mondo. Per misurare la consistenza dei
debiti pubblici e offrire una misura relativa, in grado di dare
immediatamente l'idea del peso del debito pubblico accumulato
sull'economica di un Paese, gli economisti rapportano il volume
complessivo del debito pubblico al reddito nazionale. Nella tabella
sottostante, si indica tale rapporto a giugno del 2013, secondo i dati
Eurostat, elaborata dalla Reuters.

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Figura 5

La teoria economica funzionale aveva elaborato l'idea che la


finanza pubblica potesse modellarsi a seconda delle esigenze del ciclo
economico, alternando fasi di disavanzo con fasi di avanzo di bilancio,
ma come il grafico sopra indicato dimostra chiaramente questo non è
accaduto e, quasi tutti i Paesi del mondo hanno da affrontare pesanti
debiti sovrani da finanziare costantemente, tanto che le tecniche e le
modalità di tale finanziamento sono divenute esse stesse, come
vedremo, una parte importante e, secondo alcuni fondamentale della
politica fiscale.
Le ragioni della crescita consistente dei debiti pubblici è dipesa
dalle ragioni che sono state spiegate in modo brillante dalla scuola
della Public Choice. Si tratta di una scuola economica che affronta il
comportamento massimizzante della classe politica.
A lungo inascoltati, i concetti elaborati da questa scuola si sono
fatti faticosamente strada all'interno delle scuole economiche, le quali

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hanno faticosamente iniziato a comprendere l'influenza delle


dinamiche politiche sulle decisioni economiche.
Questa scuola smentisce in modo categorico l'idea di partenza
dell'economia politica. La scuola liberale classica inglese e i fisiocrati
(due correnti di pensiero economico influenzate dagli illuministi
francesi), in polemica con la conclusione mercantilista che è lo Stato
(Il Principe, il Monarca assoluto) la causa della ricchezza delle
nazioni, descrissero l'economia come qualcosa che si impone
autonomamente e si regola autonomamente.
I fatti economici si spiegano solo con leggi sociali ed
economiche.
Si trattava in realtà, come gli studi economici di Keynes e le
drammatiche crisi economiche che si sono susseguite nel tempo
dimostreranno, di pura ideologia.
Non è affatto vero, come insegnano gli epigoni del capitalismo
individualista e, poi, del marxismo collettivista che l’economia sia la
scienza esatta alla base di tutto il resto, che ne è una sovrastruttura.
Può accadere e accade anzi di norma il contrario: che siano
esigenze totalmente diverse (sociali, antropologiche, etiche e religiose)
ad imporre le scelte economiche.
La scuola della Public Choice ci dà una mano consistente a
dimostrare che sia proprio così.
È un'esperienza innegabile della storia economica che
l'interferenza dei fattori extra-economici abbia dato un grande
impulso alle politiche di deficit spending.
Questa circostanza dimostra che le decisioni relative alle
variazioni da imprimere ai volumi delle entrate e delle uscite

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pubbliche suscita o lede gli interessi (legittimi e talvolta illegittimi) di


molti operatori o gruppi organizzati di operatori.
In questa situazione, non è assolutamente facile ai centri
preposti alla gestione del bilancio pubblico modificare il quantum
delle imposte e delle spese lasciandosi ispirare esclusivamente dagli
schemi elaborati dalla “finanza funzionale”, ovvero dal bene comune.
La scuola economica della Public Choice ha analizzato la
condotta della classe politica in relazione agli obiettivi che essa
realmente persegue.
Gli economisti di questa scuola sono arrivati alla conclusione
che i politici non perseguano finalità di interesse generale quali quelle
classiche della stabilità dei prezzi, della piena occupazione,
dell'equilibrio dei conti con l'estero, etc.
In realtà, la classe politica segue comportamenti massimizzanti
il consenso.
Quello che è realmente accaduto nelle economie occidentali,
date le dinamiche esistenti di formazione del consenso appena viste, è
che le teorie keynesiane prima e quelle funzionali dopo sono state
interpretate sempre nel senso di incrementare i deficit perché in
questo modo l'onere del debito si riversava sulle generazioni future, le
uniche incapaci di entrare nel gioco della massimizzazione del
consenso attuale.
Secondo la scuola della Public Choice la ricerca della
massimizzazione del consenso, spinge la classe politica a decisioni di
spesa o a modalità di tassazione che siano utili al proprio specifico
elettorato e ai corrispondenti gruppi di pressione, non all'interesse
generale, anche quando tali spese o tassazioni siano chiaramente

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criticate dalla disciplina economica o inopportune in una data


congiuntura economica.
Ma come è possibile che questo accada con il consenso generale?
Questi fenomeni vengono spiegati dalla scuola della Public
Choice sulla base della teoria delle asimmetrie informative. La prima
asimmetria deriva dalla contrapposizione tra i benefici di un
eventuale spesa pubblica, spesso concentrati a favore di una ristretta
categoria o numero di persone, e i costi invece diluiti della stessa.
I gruppi di pressione si formano in base alla massa di denaro e i
voti concentrati che riescono a muovere, non sulla base della
correttezza delle ricette di politica economica dichiarate in pubblico.
Per il politico contano molto più mille persone interessate ad un
provvedimento che i rimanenti 60 milioni ignari delle reali cadute del
provvedimento stesso: quei mille elettori ricambieranno il favore con
consistenti finanziamenti legali al politico e voti propri e dei propri
familiari, parenti, amici.
E' a causa di questo meccanismo che si organizzano i gruppi di
pressione, per ottenere che precise decisione di spesa vengano prese.
Ovviamente, i gruppi di pressione utilizzano giornali e mass
media per favorire o colpire i politici più o meno sensibili alle loro
richieste e, gran parte dell'informazione, non tutta per fortuna, entra
in questo gioco di asimmetrie informative.
Questo meccanismo appena descritto determina la crescita
della spesa pubblica, quando i benefici di essa siano concentrati ed i
costi distribuiti sull'intera collettività.
Questo meccanismo determina che nelle attuali democrazie si
tenda normalmente a privilegiare la spesa che reca vantaggi ai gruppi

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organizzati di pressione, a scapito di quella corrispondente a buone


condotte e pratiche di politica economica.
Esiste un' altra asimmetria informativa, che abbiamo già visto
essere stata indicata da Ricardo, che nasce dall'illusione monetaria e
di cui abbiamo accennato in occasione della spiegazione della
cosiddetta equivalenza ricardiana.
Quando la spesa è finanziata con l'emissione di titoli del debito
pubblico o con il signoraggio, cioè l'emissione di nuova moneta da
parte della Banca centrale (qualora questa sia sotto la sovranità dei
rappresentanti del popolo sovrano), la collettività non percepisce
chiaramente i costi delle spese pubbliche. L'illusione fiscale nasconde
il costo del finanziamento.
Quando il finanziamento della spesa pubblica avvenisse con
l'emissione di titoli del debito pubblico e questo fosse reiterato per
anni il suo reale costo ricadrebbe sulle generazioni future.
Quando il finanziamento della spesa pubblica avvenisse con
l'emissione di moneta il suo reale costo dipenderebbe dal verificarsi di
fenomeni inflazionistici.
Anche questo secondo meccanismo rafforza l'espansione della
spesa pubblica:
 gli elettori vedono i benefici della spesa e danno ai politici che
la sostengono il necessario appoggio politico elettorale,
 le generazioni future invece non votano
La dilatazione dei deficit pubblici e la crescita dei debiti sovrani
sono dunque insite nei meccanismi attuali sia di funzionamento delle
istituzioni, sia degli stessi mercati e degli operatori economici che di
fatto si organizzano in gruppi di pressione piuttosto che perseguire il

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bene comune, nonostante essi stessi saranno danneggiati


economicamente dal non perseguirlo.
Esiste per così dire una generale “miopia del vantaggio”, per cui
gli operatori economici riescono a vedere il vantaggio che la pressione
reca a se stessi, ma non lo sfascio che questo modo di procedere
determina a sfavore di tutti.

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3. LE CONDIZIONI DI SOSTENIBILITÀ
FINANZIARIA DEL DEBITO PUBBLICO

I costanti deficit annuali utilizzati per sostenere le politiche


espansive della domanda intraprese nel passato hanno lasciato in
tutti i Paesi notevoli debiti pubblici (sovrani) e gran parte della
politica del bilancio pubblico consiste oggi nel riuscire a sostenerne il
peso, soprattutto quando il debito pubblico è enorme.
Nella valutazione del debito pubblico è importante il giudizio
delle società di rating.
Le società di rating esprimono un giudizio sull'affidabilità
finanziaria di una società o di uno Stato sovrano che emette un titolo
del debito.
Il loro giudizio è molto importante perché è di fatto utilizzato
dagli operatori finanziari per decidere gli acquisti o le vendite dei
titoli stessi, inclusi quelli sovrani.
In questa tabella sottostante è spiegato velocemente il
significato della scala alfabetica utilizzata dalle tre principali agenzie
di rating.

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Figura 7

Standard & Poor ha tagliato i primi di luglio 2013 ancora il


rating ai titoli italiani, portandoli da BBB + a BBB. L'ultimo scalino
dei titoli buoni è BBB-. Al di sotto di quel rating, quando si arriva a
BB+ si è in cima ai titoli spazzatura (Qualità discutibile: titolo dalla

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solidità incerta molto sensibile alle circostanza avverse / area di non


investimento / speculativo).
Molti fondi e operatori internazionali di grandi dimensioni
hanno il divieto di negoziare titoli con affidabilità BBB-
Il rating sui debiti sovrani è la valutazione sulla capacità di
uno Stato di adempiere alle proprie obbligazioni puntualmente e
interamente.
Le agenzie di rating sono nate per motivi di trasparenza,
intermediazione e per facilitare le scelte degli investitori, negli ultimi
anni sono state oggetto di due critiche:
 innanzitutto sono state giustamente criticate in seguito al
fallimento di alcune società sulle quali esse avevano emesso
ottimi giudizi: che razza di criteri adottano queste agenzie se
addirittura le società con tripla A falliscono? Vengono spesso
citate al riguardo l'analisi di rating positiva fornita nei
confronti dell'istituto di credito Lehman Brothers appena una
settimana prima del suo fallimento nel 2008, oppure la
valutazione di Parmalat poco prima del suo crack;
 il conflitto d’interessi:
 innanzitutto si osserva che l’azionariato delle agenzie è
costituito anche da suoi importanti clienti;
 in secondo luogo le agenzie siano pagate dalle stesse società
che devono valutare. (SIC!)
Il sistema delle agenzie di rating va velocemente aggiornato e
depurato da questi insopportabili conflitti d'interesse. Nel frattempo,
comunque centinaia di migliaia di operatori finanziari tengono conto
delle loro valutazioni.

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Quadro teorico (parte seconda)”

Dati i meccanismi propri delle Borse, il giudizio di queste


agenzie è di fatto importantissimo.

Ecco nella tabella sottostante il rating dei principali debiti sovrani.


azione S&Poor's Moody's Fitch Dagong

Italia BBB BAA2 BBB+ BBB

Germania AAA AAA AAA AA+

Francia AA+ AA1 AA+ A+

Spagna BBB- BAA3 BBB A

Portogallo BB BA3 BB+ BB+

Stati Uniti d'America AA+ AAA AAA A

Regno Unito AAA AA1 AA+ A+

Giappone AA- AA3 A+ AA-

Svizzera AAA AAA AAA AAA

Federazione Russa BBB BAA1 BBB A

Canada AAA AAA AAA AA+

Australia AAA AAA AAA AA+

Nuova Zelanda AA AAA AA AA

Brasile BBB BAA2 BBB A-

Corea del Sud A+ AA3 AA- AA-

Cina AA- AA3 A+ AAA

Argentina CCC+ B3 CC CCC

Bulgaria BBB BAA2 BBB-

Romania BB+ BAA3 BBB- BB

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Quadro teorico (parte seconda)”

La domanda che sorge spontanea è comprendere come mai il


Giappone che ha un rapporto Debito pubblico/PIL del 236% e gli Stati
Uniti che hanno un rapporto Debito Pubblico/PIL federale del 104%
(che però arriva al 140% se aggiungiamo anche i debiti degli Stati e
degli enti locali americani, che pesano per il 17-18% del pil federale e
se ancora sommiamo le esposizioni del governo federale verso gli
istituti Fannie Mae e Freddie Mac, a garanzia del mercato
immobiliare) abbiano rispettivamente un rating AA- e AA+ (giudizio
Standard & Poor's) mentre l'Italia, con un rapporto Debito Pubblico /
PIL del 130%, abbia un rating BBB, come detto sopra poco sopra
l'area di non investimento.
Sia il Giappone che gli USA hanno una Banca Centrale sovrana
che è in grado di contenere la spesa per interessi sul debito stesso e
che può resistere a qualsiasi tentativo di speculazione.
Cerchiamo di spiegare i due concetti:
 interessi: l'incremento dell'offerta di moneta, in questo caso,
consente di assorbire il maggiore volume di titoli, e pertanto il
prezzo dei titoli non scende e il tasso di interesse non sale;
 speculazione: sui mercati finanziari, abbiamo imparato nella
quarta lezione, si possono guadagnare soldi sia quando i titoli
salgono, si quando i titoli scendono. Il guadagno per la
diminuzione di valore di un titolo avviene quando si effettuano
le vendite allo scoperto. La vendita allo scoperto è chiamata
anche vendita a nudo ed è un'operazione finanziaria che
consiste nella vendita, effettuata nei confronti di uno o più
soggetti terzi, di titoli non direttamente posseduti dal
venditore, ma che gli sono stati prestati dal proprietario. I titoli
vengono forniti allo speculatore da una banca o da un

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intermediario finanziario. Data l'entità del debito pubblico


italiano è evidente che sia molto facile ottenere il prestito di un
titolo. Il venditore allo scoperto riceve in prestito dal fornitore i
titoli e quindi provvede subito alla loro vendita. Per quanto
attiene ai rapporti tra il fornitore e il venditore allo scoperto, la
vendita allo scoperto si configura come un prestito non di
denaro, bensì di titoli e, come solitamente accade in quello di
denaro, vi è un interesse che lo speculatore deve corrispondere
al datore del prestito. L'ammontare dell'interesse da pagare
cresce in relazione all'aumento della durata di questo prestito
di titoli. Lo speculatore che effettua la vendita a nudo deve,
entro un certo lasso temporale, acquistare sul mercato, a prezzo
di mercato, i titoli, restituendoli così al prestatore. Tale
operazione è tecnicamente definita ricopertura dello scoperto.
Per questa ragione, chi acquista il titolo è del tutto ignaro che
l'operazione è effettuata da uno speculatore. Per il compratore
non vi è differenza tra i titoli acquistati da una vendita allo
scoperto o non allo scoperto. A questo punto il venditore allo
scoperto ha già venduto il titolo ed incassato i soldi. Lo ha fatto
nell'aspettativa che il titolo scenderà di prezzo. Con la sua
speculazione al ribasso potrà riacquistarlo pagandolo meno del
prezzo a cui l'ha venduto e avrà avuto un guadagno. Siccome
l'incasso generato dalla vendita dei titoli è antecedente rispetto
al momento dell'effettivo acquisto da parte del venditore del
titolo, la vendita allo scoperto viene effettuata quando lo
speculatore prevede che il costo della successiva acquisizione
dei titoli sul mercato, quella destinata alla ricopertura dello
scoperto, sarà inferiore al prezzo precedentemente incassato. Si

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può dire che la vendita allo scoperto sia una vendita in cui si
cerca, come in tutte le vendite, di guadagnare acquistando al
prezzo più basso possibile e di vendere al prezzo più alto
possibile, ma si vende qualcosa prima di averla acquistata,
perché si prevede che, tra qualche ora o qualche giorno, il
prezzo di acquisto sarà più basso di quello a cui oggi si vende il
titolo. La vendita è resa possibile dalle regole del gioco, che
consentono sui mercati delle Borse valori, di poter vendere
qualcosa preso in prestito da un altro operatore, purché entro
un termine fissato, si restituisca al prestatore il titolo che si è
ricevuto in prestito. Ovviamente c'è un guadagno solo se la
previsione dello speculatore è esatta, cioè se il corso del titolo è
ribassista. Ed è qui che interviene la Banca Centrale. Gli
speculatori sanno che se, al contrario di quanto previsto, il
prezzo dei titoli aumenta durante il tempo del prestito, il
rendimento dell'operazione sarà risultato in perdita. Per queste
ragioni gli speculatori non si permettono mai di tentare
speculazioni al ribasso contro titoli del debito, quando sanno
che dovranno vedersela con una Banca Centrale in grado di
assorbire tutte le vendite effettuate dagli speculatori . La
Banca Centrale ha la forza di acquistare tutti i titoli che vuole e
far perdere molti soldi agli speculatori. Facciamo un esempio:
milioni di titoli del debito giapponese vengono venduti sul
mercato finanziario in un attacco speculativo (ma con un
contratto che lo obbliga a restituire entro una certa data la
stessa azione) dal fornitore del titolo allo speculatore, che
subito la vende al prezzo sul mercato di 1000 yen; se non c'è
una Banca Centrale ad assorbire l'attacco con equivalenti

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massicci acquisti il prezzo del titolo scenderebbe, ipotizziamo a


800 yen e la speculazione avrebbe gioco facile; siccome invece la
Banca centrale interviene il prezzo del titolo guapponese sale a
1200 yen. L'attacco speculativo è respinto e gli speculatori
avranno registrato una forte perdita, oltre ad aver pagato
l'interesse dovuto ai datore del prestito.
Esiste un'altra ragione per cui il Giappone, pur avendo un
rapporto Debito pubblico / PIL del 236% ha un rating alto.
Il debito pubblico giapponese è detenuto quasi totalmente al
suo interno.
Questo comporta due vantaggi:
 è tecnicamente molto più difficile che sia attaccato dalla
speculazione di investitori stranieri;
 i cittadini giapponesi sono i beneficiari della spesa per
interessi del Giappone.
Possiamo allora concludere quali sono le condizioni di stabilità
finanziaria di un Debito sovrano:
 l'esistenza di una Banca Centrale sovrana
 che il debito sovrano sia essenzialmente in mano ai propri
cittadini e che questi abbiano la forza di finanziarlo
interamente

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4. LE CONDIZIONI DI SOSTENIBILITÀ
OGGETTIVE DEL DEBITO PUBBLICO

Ma quali sono le condizioni oggettive di sostenibilità di un


debito sovrano? Le condizioni per raggiungere questo obiettivo
possono essere così descritte1
La spesa totale G è dovuta dalle spese primarie di bilancio (G1)
e da quelle per interessi (G2). La spesa per interessi è data dal tasso
di interesse medio (i) pagato sull'intero volume del Debito:

G2 = i D [2]

La differenza tra le spese primarie e le entrate (le tasse pagate


dai cittadini) rappresenta il disavanzo primario (G1 – T).
L'incremento del debito dipende dall'incremento dei disavanzi
primari e dalla spesa per interessi. Un modo per ridurre il debito
sovrano è dunque senza dubbio ridurre i disavanzi primari.
Qualora l'obiettivo del pareggio del bilancio primario sia
raggiunto l'incremento del Debito sovrano dipende esclusivamente
dalla spesa per interessi.
ΔD=iD [3]

cioè Δ D/ D = i [4]
Il tasso di crescita del debito dipenderà dal tasso di interesse.

1Esistono molte formalizzazioni matematiche delle condizioni di sostenibilità


oggettiva dei debiti sovrani. Quella qui proposta è tratta da “Politica Economica dei
grandi Aggregati” Antonio Marzano – 1994 Cacucci editore – Bari. Essa è stata
scelta per la sua semplicità

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Questo significa allora che, affinché il rapporto Debito pubblico


/PIL non cresca, è necessario che il tasso di crescita del PIL sia
almeno uguale al tasso di interesse pagato sul debito.
Condizione di sostenibilità del debito sovrano è dunque che lo
Stato raggiunga il pareggio di bilancio e il tasso di crescita del
prodotto interno lordo eguagli il tasso di interesse medio pagato sul
debito.

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LA POLITICA DEL
BILANCIO PUBBLICO.
PROBLEMI DI
INTERVENTO
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Problemi di intervento”

Indice

1. LA POLITICA QUANTITATIVA DEL BILANCIO PUBBLICO. L'ESEMPIO


ITALIANO DALLA LEGGE FINANZIARIA ALLA LEGGE DI STABILITÀ ------- 3
2. LA POLITICA DI SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO PUBBLICO IN AREA EURO - 8
3. IL PRESTITO FORZOSO E IL PAGAMENTO DEI DEBITI DELLA P.A. IN
ITALIA ----------------------------------------------------------------------------------------------- 18
4. LA POLITICA DI SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO PUBBLICO IN GIAPPONE E
USA---------------------------------------------------------------------------------------------------- 22
5. L'ELUSIONE, L'EVASIONE E LA SOTTRAZIONE FISCALE------------------------ 25
6. CONCLUSIONI ------------------------------------------------------------------------------------ 28

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1. LA POLITICA QUANTITATIVA DEL BILANCIO


PUBBLICO. L'ESEMPIO ITALIANO DALLA
LEGGE FINANZIARIA ALLA LEGGE DI
STABILITÀ

La politica del Bilancio pubblico include tutte le decisioni di


politica economica che comportano conseguenze sul bilancio stesso. Le
decisioni che hanno conseguenze sul bilancio sono tutte quelle che
determinano un entrata e tutte quelle che determinano un'uscita.
La politica del Bilancio pubblico varia a seconda del sistema
istituzionale vigente. In Italia, come abbiamo visto nella quarta
lezione si è passati dalla legge finanziaria alla legge di stabilità, che
comporta il rispetto di alcuni indici, concordati con i restanti Paesi
europei.
L'imposizione fiscale e gli effetti della spesa pubblica sono
oggetto di studio sia dei macroeconomisti, che si dedicano a descrivere
quanto avviene, sia degli studiosi di politica economica, che si
occupano soprattutto di perseguire determinati risultati politico -
economici sia, della scienza della finanze, che si concentra sopratutto
sugli aspetti tecnici delle misure.
L'accumulo dei deficit ha creato in molti Paesi, tra cui l'Italia,
un enorme debito pubblico, la cui stabilizzazione è diventato un
aspetto fondamentale della politica economica. Le condizioni oggettive
di sostenibilità del debito comportano la necessità del raggiungimento
di un sostanziale pareggio del bilancio primario e la condizione che il
tasso di interesse medio pagato sul debito non sia superiore al tasso di
crescita del PIL: soltanto l'insieme di queste condizioni consentono la
stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e PIL.

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In questa situazione macroeconomica con il peso di un grande


debito pubblico, è difficile che i gruppi di pressione ottengano politiche
di deficit spending, di fatto proibite dalle regole di Maastricht,
sottoscritte dall'Italia. I gruppi di pressione riescono a ottenere la
conservazione delle spese a loro favore o le esenzioni dal pagamento di
tasse soltanto nell'ambito dello sforamento dell'equilibrio di bilancio,
attualmente consentito dalle regole europee, pari al 3%, e devono
ottenere i propri vantaggi a scapito di altri gruppi di pressione. Sono
dunque le attuale regole regole dell'Unione monetaria a impedire
ulteriori crescenti disavanzi in Italia.
Come abbiamo già avuto modo di dire, in Italia, dal 2010 la
legge finanziaria è stata sostituita con la legge di stabilità. Oggi il
processo che porta alla legge di stabilità è strettamente collegato ai
nostri impegni europei.
Il suo scopo dichiarato è che gli Stati membri allineino le loro
politiche economiche e di bilancio con gli obiettivi e le regole
concordate a livello UE.
Intorno al mese di dicembre precedente il semestre, la
Commissione europea e l'Eco fin fanno il punto della situazione
macroeconomica. Tra gennaio e febbraio, Commissione e Consiglio
europeo, nelle loro varie articolazioni, esprimono orientamenti e
conclusioni, di cui gli Stati membri, che hanno preso parte alle
decisioni comuni, devono tener conto. A marzo il Consiglio europeo a
livello di Presidenti del Consiglio, tenuto conto dei lavori dei mesi
precedenti, fornisce gli orientamenti politici. La Commissione
pubblica studi approfonditi degli squilibri economici in corso e
formula raccomandazioni agli Stati membri, interessati dagli squilibri

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Gli Stati membri della UE presentano entro il mese di aprile


di ogni anno alla Commissione e al Consiglio Europeo i loro piani
politici per essere discussi, prima che il dibattito avvenga nei
parlamenti nazionali. In particolare presentano: programmi di
stabilità e convergenzae programmi nazionali di riforma.
La Commissione europea valuta i piani di politica nazionale e
presenta progetti di raccomandazioni specifiche per ogni Paese
membro entro maggio.
Il Consiglio dell'Unione europea discute il progetto e concorda
alcune finali raccomandazioni specifiche per paese. Le
raccomandazioni vengono poi presentate al Consiglio europeo per
l'approvazione e sono adottate entro luglio.
I Governi europei inadempienti sono sanzionati con a una
multa massima pari allo 0,2% del PIL.
Alla fine di questo processo, in autunno, il governo italiano
presenta la legge di stabilità al Parlamento, entro il 15 ottobre. La
legge di stabilità, insieme alla legge di bilancio, costituisce
attualmente a manovra di finanza pubblica per il triennio di
riferimento e rappresenta lo strumento principale di attuazione degli
obiettivi programmatici definiti con la Decisione di finanza pubblica.
La legge di stabilità riporta: il livello massimo del saldo netto
da finanziarie e del ricorso al mercato, la variazione delle aliquote
delle imposte, l'importo dei fondi speciali, l'importo complessivo
destinato al rinnovo dei contratti pubblici, le norme eventuali
necessarie all'attuazione del Patto di stabilità interno e alla
realizzazione del Patto di convergenza, le misure correttive delle leggi
che comportano oneri superiori a quelli previsti; altre regolazioni
meramente quantitative.

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La legge di stabilità deve rispettare i criteri di convergenza


europea, noti anche come parametri di Maastricht:
 il rispetto del 3% per il rapporto fra disavanzo pubblico e
prodotto interno lordo (PIL);
 il 60% del rapporto fra debito pubblico e PIL (può non essere
soddisfatto, a condizione però che il valore si riduca in misura
significativa e si avvicini alla soglia indicata con ritmo
adeguato);
 il tasso medio di inflazione che non può superare di oltre 1,5
punti percentuali quello dei tre Stati membri che, durante
l'anno precedente a quello in esame, hanno conseguito i
migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi;
 il tasso d'interesse nominale a lungo termine che non deve
eccedere di oltre 2 punti percentuali quello dei tre Stati membri
che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità
dei prezzi.
In queste nuove condizioni e considerata l'attuale situazione del
Debito pubblico italiano, pari al 130% del PIL, i gruppi di pressione
favorevoli alla spesa pubblica non hanno più lo spazio di manovra,
come accadeva prima dell'adesione alla moneta unica. Il loro attuale
spazio di manovra consiste unicamente nella capacità di bloccare ogni
riforma che metta in discussione l'attuale situazione. Ovviamente il
Governo italiano in questa situazione, pur di rispettare le indicazioni
del semestre europeo, è costretto a colpire i gruppi di pressione meno
forti o ostili politicamente.
Nella situazione politica italiana, dunque, la politica di deficit
spending è utilizzata nel limite del 3%. Altrettanto dicasi di tutti i

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Paesi di area euro. Il problema di Politica di Bilancio più rilevante nei


Paesi di area euro è di rendere sostenibile il debito pubblico.
Per riuscire in questo, non solo occorre un pareggio del bilancio
primario, ma occorre stabilizzare il tasso di interesse. Diversa è la
situazione di Paesi come il Giappone e gli Stati Uniti. Questi Paesi
hanno intrapreso politiche di monetizzazioni del Debito pubblico.

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2. LA POLITICA DI SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO


PUBBLICO IN AREA EURO

Ricapitoliamo come sia stato possibile giungere a così alti debiti


pubblici.
Un discorso importante riguarda il finanziamento temporale
dei vari tipi di spesa. Un sano principio di ragioneria vuole che esista
coerenza in bilancio tra le fonti e gli impieghi. Nel bilancio pubblico
questo dovrebbe comportare che le spese in conto corrente annuali
siano finanziate di regola mediante le entrate fiscali annuali, le
entrate cioè che lo Stato ottiene con le imposte e le tasse che può
imporre ai cittadini di pagare.
Viceversa non avrebbe senso invece far pagare ai cittadini in un
solo anno le spese che in quell'anno lo Stato sostiene per costruire
strade, ferrovie e altre opere pubbliche, il cui ammortamento e
utilizzo dura almeno diversi decenni successivi se non 100 anni
(durata attuale delle opere in cemento armato chimico).
La modalità razionale di finanziamento di queste spese a medio
e lungo termine è il ricorso al mercato finanziario: lo Stato cioè, al
pari di un privato, si fa prestare i mezzi necessari dai privati cui
pagherà un interesse. I titoli che lo Stato mette sul mercato per
ottenere i mezzi per finanziare gli investimenti pubblici a medio e
lungo termine sono in genere titoli a scadenza pluriennale (Buoni
Pluriennali del Tesoro).
Il costo per la gestione del prestito, e cioè l'ammontare degli
interessi e la quota di rimborso del debito che viene sostenuta ogni
anno per la durata del prestito, deve essere coperto dalle imposte.

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Lo Stato, quando ha sovranità monetaria, a differenza di un


privato, può ottenere una parte dei mezzi liquidi di cui ha bisogno
dalla Banca centrale. Fino al 1994, data in cui si stabilisce a livello
europeo l'indipendenza delle Banche centrali dai governi, lo Stato ha
fatto ampio ricorso a questo strumento, imponendo il finanziamento
parziale del debito alla Banca d'Italia.
Inoltre lo Stato, come ogni impresa privata, si trova a sostenere
spese soprattutto in certi mesi dell'anno e a riscuotere le imposte in
genere in altri. Vi sono quindi dei mesi in cui esso si trova a corto di
mezzi liquidi, mentre in altri registra entrate in eccesso alle spese.
Nei primi deve farsi prestare del denaro: nei mesi in cui si trova con
disponibilità liquide, sarà in grado di rimborsare i prestiti ottenuti.
Lo strumento per compensare la differenza tra le spese e le
entrate, che si possono registrare in certi periodi dell'anno, sono i
titoli a breve (i Buoni Ordinari del Tesoro: BOT): con essi i privati
prestano denaro allo Stato a tre, sei mesi. Quando le entrate
superano le uscite (ad esempio perché lo Stato incassa le imposte sul
reddito), lo Stato è in grado di rimborsare i BOT che vengono a
scadenza.
Tutto ciò premesso analizziamo cosa è accaduto in Italia a
partire dagli anni 60 del secolo scorso.
Purtroppo, in quegli anni la politica non rispettò questa
distinzione tra il ricorso al mercato monetario per indebitamenti a
breve (per le temporanee carenze di liquidità) e quello finanziario
effettuato per indebitamenti a lungo periodo (questi ultimi per
finanziare spese in conto capitale).
Le spese correnti non furono più totalmente finanziate a mezzo
delle imposte, i deficit furono continui, perché, come abbiamo visto, la

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spinta dei gruppi di pressione a favore della spesa fu elevata e la


politica, profondamente propensa a massimizzare il consenso,
soprattutto in funzione anticomunista, non lesinò deficit ai bilanci
pubblici.
Lo Stato ricorse al mercato finanziario, emettendo BOT che
non furono rimborsati alla scadenza, ma che, alla scadenza, venivano
rinnovati in aggiunta ai BOT necessari per colmare i nuovi deficit.
L'Italia ricorse dal 1975 al 1985 al signoraggio, cioè al
finanziamento del deficit pubblico con la moneta, in media per il 28%.
I problemi economici che questa politica di deficit spending
permanente produsse furono molteplici:
◦ l'Italia perse competitività a livello internazionale,
perché l'espansione della spesa pubblica aumentò i settori dipendenti
dallo Stato e ridusse quelli competitivi con l'estero;
◦ si innescò un processo inflazionistico;
◦ la lira si svalutò.

Per riuscire a rimanere nel Sistema Monetario europeo, l'Italia


dal 1985 dovette accettare di ancorarsi in qualche modo al marco, ma
nel frattempo aveva accumulato un grosso debito pubblico e il suo
finanziamento sui mercati iniziò ad essere sempre più costoso.
La spesa per interessi, una volta abbandonato il signoraggio
per questioni valutarie, divenne notevole e contribuì ad accrescere il
debito pubblico. La spesa per interessi crebbe in Italia in modo
esponenziale.
Occorre però avvertire che, dal momento che il debito era
posseduto all'epoca quasi esclusivamente da cittadini italiani, gli

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interessi pagati costituivano un sostegno alla domanda globale che


agiva positivamente sulla crescita del PIL.
Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero
quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda
dei titoli stessi, l’eliminazione di una componente importante della
domanda, quale era la domanda della Banca centrale, attuata a
partire dal 1994, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli
interessi e, quindi, di far esplodere il debito totale e di accrescerlo nel
tempo.
Inoltre, la mancanza del cordone protettivo della Banca d’Italia,
non sostituito dal cordone protettivo del Sistema delle Banche centrali
europee, espose ed espone il nostro debito alle manovre speculative
degli investitori internazionali.
In ogni caso, l'Italia, anche con la speranza di poter uscire in
questo modo dalla difficile situazione in cui si trovava, decise di
aderire alla moneta unica europea.
Oggi il vero problema del bilancio pubblico, come abbiamo
detto, è l'ingente spesa per interessi, che porta a un aumento del
debito pubblico, nonostante il pareggio del bilancio primario. Il
problema fondamentale della politica di bilancio consiste dunque nel
trovare un modo per ridurre la spesa per interessi.
In questo quadro si inserisce il ruolo della Banca Centrale
Europea. Essa opera essenzialmente attraverso operazioni sul
mercato aperto di breve termine, operazioni su richiesta del sistema
bancario per la gestione giornaliera della liquidità, modifica del
coefficiente della riserva obbligatoria.

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In seguito alla crisi economica mondiale del 2008, la BCE è


stata costretta ad assumere un ruolo più interventista applicando due
misure straordinarie:
 in due diversi momenti ha stanziato fondi a favore delle Banche
europee, tramite aste a tasso fisso ed a piena aggiudicazione,
con scadenza a 36 mesi, invece dell'usuale settimana.
 Ha ridotto, dal 2% al'1% e a titolo temporaneo, il coefficiente di
riserva obbligatoria
Le manovre non hanno avuto gli effetti sperati per la semplice
ragione che la crisi avrebbe potuto essere superata solo nel momento
in cui la Banca centrale europea avesse agito come una normale
Banca centrale ed acquistare i titoli direttamente dagli Stati,
esattamente ciò che è proibito dagli attuali regolamenti e non sarà
possibile senza un Governo unitario europeo, espressione di tutti i
popoli europei.
Per far fronte alla situazione venutasi a creare sui mercati del
debito sovrano e al tempo stesso rispettare il divieto, imposto dalle
regole fondazionali della BCE, di poter prestare direttamente il
denaro agli Stati, l'Europa e la Banca centrale europea hanno messo a
punto sue sistemi di intervento:

 Le operazioni monetarie definitive, anche note con l'acronimo


OMT, che nasce dalla definizione inglese Outright monetary
transactions quando le tensioni sui mercati obbligazionari dei
paesi dell'area dell'euro facevano temere per la conservazione
della valuta europea.

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Problemi di intervento”

L'obiettivo delle Operazioni monetarie definitive non è il


salvataggio dei singoli debiti sovrani, ma l'irreversibilità dell'euro e
dunque rientra pienamente nell'ambito della competenza della BCE.
La BCE, con esse, intende salvaguardare il canale di
trasmissione della politica monetaria per la area dell'euro. Per fare
questo occorre anche impedire che forti tensioni sui mercati dei titoli
di stato (detti anche mercati del debito sovrano) o veri e propri
attacchi speculativi possano portare a innalzamenti eccessivi e
ingiustificati dei tassi di interesse sui debiti sovrani, che a loro volta
impedirebbero alle banche e alle imprese di finanziarsi a condizioni
economicamente sostenibili e accelererebbero la spirale recessiva del
paese interessato, fino all'eventuale fallimento.
Le operazioni monetarie definitive intervengono
esclusivamente quando il Paese europeo avvia un programma di aiuto
finanziario o un programma precauzionale con il Meccanismo Europeo
di Stabilità o con la Struttura Europea per la Stabilità Finanziaria.
In tal caso il Paese sottoscrive un memorandum di impegni.
Le OMT consistono nell’acquisto diretto da parte della BCE di
titoli di stato a breve termine o a lungo termine con vita residua non
maggiore ai tre anni, emessi da paesi in difficoltà macroeconomica
grave e conclamata. Non sussistono limiti ex ante all’ammontare
complessivo delle transazioni. La data di avvio, la durata e la fine
delle OMT sono decise dal Consiglio direttivo della BCE in totale
autonomia e in accordo con il suo mandato istituzionale.
La principale peculiarità di queste operazioni è che con esse la
BCE si è impegnata a ricevere lo stesso trattamento di un qualsiasi
creditore privato, ricevendo uguale remunerazione e non potendo
vantare alcuna priorità in caso di ristrutturazione del debito.

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La BCE, nell'ambito del suo statuto, effettua gli acquisti


soltanto sul mercato secondario e mai in asta ed è pienamente
autonoma nella politica di acquisti.
Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche Fondo
salva-Stati, istituito dalle modifiche al Trattato di Lisbona (art. 136)
del 2011, non ha la finalità di aiutare gli Stati europei in difficoltà,
ma nasce come fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria
della zona euro.

Esso ha assunto però la veste di organizzazione


intergovernativa, in analogia al modello del Fondo Monetario
Internazionale:
▪ Il fondo è gestito:
 dal Consiglio dei governatori, formato dai ministri finanziari
dell'area euro;
 da un Consiglio di amministrazione nominato dal Consiglio dei
governatori;
 da un direttore generale, con diritto di voto;
 dal commissario UE agli Affari economico-monetari e dal
presidente della BCE nel ruolo di osservatori.

Le decisioni del Consiglio devono essere prese a maggioranza


qualificata. Le quote di capitale autorizzato e richiamabili sono
emesse alla pari (prezzo uguale al valore nominale), senza essere in
alcun modo gravate da oneri, mentre pegni ed ipoteche non sono
trasferibili. In caso di mancato pagamento, lo Stato membro perde il
diritto di voto finché non risolve la posizione debitoria, e il numero dei
diritti di voto è ricalcolato fra gli altri stati. Ciascuno stato mantiene

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invece l'obbligo di contribuire al capitale autorizzato, anche se


diviene beneficiario o riceve assistenza finanziaria dal MES. Per tutte
le decisioni è necessaria la presenza della maggioranza relativa di due
terzi dei membri aventi diritto di voto, che rappresentino almeno i
due terzi dei diritti di voto.
Il MES sostituirà il Fondo europeo di stabilità finanziaria
(FESF) e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF)
attualmente ancora in vigore, nati per salvare dall'insolvenza gli stati
di Portogallo e Irlanda, investiti dalla crisi economico-finanziaria.
Il fondo emetterà prestiti a tassi fissi o variabili per assicurare
assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà e acquisterà titoli sul
mercato primario, mentre il programma Outright Monetary
Transaction, opera esclusivamente sul mercato secondario.
Il problema del MES è rappresentato dalle condizioni troppo
onerose, sia in termini di tassi che di interferenza di Politica
economica.
Le stesse spaziano dalla richiesta di programma di correzioni
macroeconomiche, al rispetto costante di condizioni di ammissibilità
predefinite.
Potranno essere attuati, inoltre, interventi sanzionatori per gli
stati che non volessero rispettare le scadenze di restituzione i cui
proventi andranno ad aggiungersi allo stesso MES.
È previsto, tra le altre cose, che "in caso di mancato pagamento,
da parte di un membro del MES, di una qualsiasi parte dell'importo
da esso dovuto a titolo degli obblighi contratti in relazione a quote da
versare [...] detto membro del MSE non potrà esercitare i propri diritti
di voto per l'intera durata di tale inadempienza"

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In realtà, come insegnano l'esperienza greca e quella


portoghese, questo tipo di interventi non sembra per niente risolutivo:
l'errore di fondo è continuare a credere che si possano risollevare
queste economie avviando profonde ristrutturazioni del bilancio
primario per ottenere velocemente il suo pareggio e finanziando il
processo con prestiti a medio termine a un tasso, al di sotto di quello
insostenibile raggiunto sui mercati, ma comunque oneroso per questi
Paesi in difficoltà.
L'insoddisfazione per gli attuali istituti di gestione delle crisi
del debito sovrano è un aspetto chiaro nel dibattito economico
europeo.
Il 20 febbraio 2013 il Consiglio dell'UE, il Parlamento europeo e
la Commissione europea hanno raggiunto un accordo, poi approvato
dal Parlamento europeo, da sottoporre per l’approvazione definitiva
del Consiglio.
L’accordo prevede, tra le altre cose, l’impegno della
Commissione europea a istituire un gruppo di lavoro con il compito di
preparare un rapporto, da presentare entro marzo 2014, relativo ai
vantaggi e ai rischi connessi alla sostituzione parziale delle emissioni
nazionali di debito con una emissione comune, sotto forma di un fondo
di redenzione (redemption fund) o di eurobills. Al fondo di redenzione
confluirebbe l’importo dei debiti pubblici dei paesi membri per la
parte eccedente il 60 per cento del PIL; il fondo emetterebbe titoli per
una durata massima di 20-25 anni garantiti dal gettito delle imposte
riscosse a livello domestico e da asset pubblici dei paesi assistiti.
Gli eurobills individuano una soluzione alternativa e avrebbero
una durata fino a due anni e dovrebbero sostituire gradualmente
l’attuale debito a breve termine dei singoli Stati senza aumentare

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l’importo complessivo del debito nazionale a breve termine della zona


euro.

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3. IL PRESTITO FORZOSO E IL PAGAMENTO DEI


DEBITI DELLA P.A. IN ITALIA

Dal momento che diventa prioritario ridurre il tasso di


interesse pagato sul debito pubblico, che raggiunge cifre
impressionanti nel bilancio pubblico, occorre domandarsi se esistano
strumenti economici che consentano di ridurre tale spesa riducendo la
stretta della finanza.
Nell'attuale sistema i banchieri prestano soldi ai Governi dei
popoli e questi tassano i cittadini per pagare gli interessi sugli ingenti
debiti esistenti. I cosiddetti mercati finanziari stabiliscono il prezzo in
base alle valutazioni delle società di rating. Se i tassi aumentano, i
governi aumentano le tasse.
Questo schema può essere bloccato, con uno strumento
semplice, che riequilibra i rapporti tra i cittadini e i banchieri
costituito dal risparmio forzoso, una forma di risparmio coatta,
imposto dallo Stato e consiste in un prelievo alla fonte del reddito del
risparmiatore, che questo sia la busta paga, lo stipendio, un
pagamento statale da erogare.
La riduzione del tasso di interesse dipende dall'andamento
delle aste del Tesoro di un Paese: maggiore è la domanda titoli del
debito pubblico e minore sarà il tasso di interesse applicato sui titoli
offerti dallo Stato in quella asta.
Il risparmio forzoso interviene in questo meccanismo e consente
di aggiungere alla richiesta di titoli di operatori finanziari nazionali e
internazionali una domanda aggiuntiva, tale da poter determinare il
tasso di interesse.

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Lo Stato ha tutto il potere di poter procedere con questi


strumenti, che sono senza dubbio meno impositivi delle tasse, ma ad
essi si oppongono fortemente le Banche e i mercati finanziari, perché
colpiscono i loro proventi.
In Italia, la manovra del risparmio forzoso sarebbe più facile da
realizzare che in altri Paesi del mondo.
Si potrebbero pagare in parte con titoli del Debito pubblico i
dirigenti pubblici italiani.
In Italia con il prestito forzoso di potrebbero anche saldare i
debiti della P.A..
Le imprese che riceveranno i titoli avranno due possibilità:
rivendere i titoli ottenuti alle banche o chiedere a queste ultime un
prestito al prime rate, in attesa della scadenza dei titoli stessi.
La situazione per le aziende è sicuramente più positiva: le
banche in questo caso non rifiuterebbero di erogare il prestito a favore
delle imprese, perché il prestito sarebbe garantito da titoli reali.
In alternativa, invece di effettuare il pagamento con titoli a un
prezzo prestabilito, lo Stato può consentire alle imprese che avanzano
crediti di partecipare alle aste dei titoli del Tesoro, in concorrenza con
le banche straniere e nazionali.
Con una norma sul prestito forzoso sarebbe dunque più facile
collocare il debito pubblico e soprattutto sarebbe possibile collocare il
debito a un tasso molto basso rispetto a quello imposto dalla
speculazione internazionale.
Da un punto di vista macroeconomico, in uno schema classico,
in cui il tasso di interesse è considerato un fenomeno reale, la
rappresentazione degli effetti dell'incremento forzoso del risparmio
sono facili da rappresentare.

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L'incremento del risparmio comporta una diminuzione del tasso


di interesse di equilibrio, come rappresentato nella figura 1, in cui
l'equilibrio passa da E a H.
In uno schema keynesiano l'incremento del risparmio agisce da
un lato sul volume degli investimenti e dall'altro sulla propensione al
risparmio.
Dal momento che il reddito mette in equilibrio risparmio e
investimento, l'incremento del risparmio, anche se forzoso, comporta
un incremento del reddito, nonostante una diminuzione della
propensione al consumo, come rappresentato in figura 2, in cui
l'equilibrio passa da E a K.

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4. LA POLITICA DI SOSTENIBILITÀ DEL DEBITO


PUBBLICO IN GIAPPONE E USA

Una strada completamente diversa è stata intrapresa dal


Giappone e dagli USA per stabilizzare il debito pubblico molto elevato
di questi Paesi.
Entrambi i Paesi stanno procedendo a una monetizzazione
spinta del Debito pubblico.
Il loro schema di politica economica è tipicamente quello della
finanza funzionale e l'obiettivo che stanno perseguendo è quello di
incrementare la piena occupazione.
Di fronte al persistere della disoccupazione e a un mancato
rilancio degli investimenti, stanno proseguendo in una politica
fortemente espansiva e di sostegno monetario della domanda globale.
Di fronte alla considerazione che non si assiste alla crescita dei
prezzi, la Federal reserve sta continuando a perseguire l'incremento
dell'occupazione.
Il Comitato ha anche stabilito di continuare il suo programma
di estendere la scadenza media del suo patrimonio in titoli,
reinvestendo a scadenza le disponibilità liquide in titoli a lungo
termine.
Queste azioni, che aumentano la durata media dei titoli
detenuta dal la Federal, con una iniezione di liquidità nel sistema ha
lo scopo di tenere bassi i tassi di interesse a lungo termine, sostenere i
mercati dei mutui.
Nel più classico degli schemi keynesiani la Federal Reserve
inietta liquidità nel sistema al fine di tenere bassi i tassi di interesse
e di incrementare gli investimenti in capitale fisico per questa via.

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Analoga politica sta effettuando la Banca centrale giapponese.


Le politiche messe in atto da USA e Giappone consentono di
spiegare bene il meccanismo per raggiungere la sostenibilità
finanziaria e oggettiva del debito.

Come sappiamo tale condizione è:

Δ y/ y = i [1]

Ovvero il tasso di crescita del PIL deve essere uguale al tasso di


interesse medio pagato sul debito.
Gli interventi della Federal Reserve e della Bank of Japan
agiscono da un lato facendo aumentare il tasso di crescita del PIL,
dall'altro riducendo il tasso di interesse per via monetaria.
La necessità delle due Banche di operare sul mercato
secondario, acquistando titoli con durate diverse, nasce invece dalla
cosiddetta “struttura” dei tassi.
Finora, per semplificare lo studio allo studente, abbiamo fatto
sempre riferimento ad un unico tasso di interesse o, meglio, al tasso
medio pagato sul debito.
In realtà la situazione è più complessa e sul mercato finanziario
esistono sempre una gamma di titoli da prendere in considerazione,
con diverse scadenze.
Nella realtà finanziaria, dunque, gli operatori e gli speculatori
non si trovano di fronte un unico tasso di interesse, ma una serie di
titoli aventi scadenze e tassi di interesse diversi: questa situazione
viene definita dagli economisti “struttura dei tassi”.

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La distinzione tra i titoli, e quella corrispondente tra i rispettivi


tassi, è principalmente basata sulla loro diversa durata (a breve, a
medio, a lungo termine).
Il divario (spread) tra tassi di interesse su titoli di diversa
durata è spiegato con due diverse teorie:

 secondo una prima teoria le differenze di tasso sono spiegate


dalla preferenza per la liquidità dei risparmiatori. Dal
momento che in questa teoria il tasso di interesse è considerato
come il premio per la rinunzia alla liquidità, è considerato
normale che i tassi di interesse sui titoli crescano al crescere
della durata dei titoli: secondo questa teoria i tassi dovrebbero
muoversi tutti nello stesso senso.
 Altre teorie ritengono invece che la struttura dei tassi di
interesse dipenda dalle aspettative degli operatori, e dalle
attese speculative e di massimizzazione del profitto attraverso
la migliore composizione del proprio portafoglio in titoli di
diversa durata: questa seconda teoria spiega le situazioni di
strutture dei tassi non spiegate dalla preferenza per la
liquidità, a cui si assiste sempre più nei complessi mercati
secondari.
Dall'esistenza della struttura dei tassi, risulta chiara la
necessità di monitorare la struttura dei tassi e di intervenire su di
essa da parte delle Banche centrali.

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5. L'ELUSIONE, L'EVASIONE E LA SOTTRAZIONE


FISCALE

Quando le imposte raggiungono un livello troppo elevato,


nell'economia di un Paese si assiste a tre fenomeni:

 l’evasione fiscale. Essa consiste nel dichiarare un imponibile


minore rispetto a quello reale, al fine di pagare meno imposte.
E' talvolta ricorrente nei piccoli commercianti e artigiani, che
non possono tollerare le attuali aliquote fiscali e la gestione
contabile pesante prevista da molti ordinamenti. E' anche
collegata a tutte le attività illegali, quali traffico di persone,
riduzione in schiavitù di persone, prostituzione, spaccio di
sostanze stupefacenti.
 L’elusione fiscale. Essa consiste nel “camuffare” la natura
dell’operazione con lo scopo di beneficiare di minori imposte. A
differenza dell’evasione l’elusione non si presenta come illegale;
essa infatti formalmente rispetta le leggi vigenti, ma le aggira
nel loro aspetto fondamentale. L'elusione aggira il principio per
cui la differente imposta è stata stabilita. E' un uso non etico
della cultura e della legge. Essa sottrae ingenti entrate allo
Stato. E' favorita da situazioni in cui le leggi siano numerose,
difficili da interpretare e la giustizia molto lenta.
 La sottrazione fiscale. Essa consiste nel sottrarre l’imponibile
dalla tassazione eliminandolo o spostandolo in un altro Paese.
Il gettito è ricavato dai redditi delle imprese e da quello dei
lavoratori. Quando le imposte salgono troppo in un Paese
rispetto ad altri le produzioni si spostano dal Paese con

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l'imposta più alta a quello con l'imposta più bassa. L’eccessiva


pressione fiscale della produzione globale può incidere sulla
crescita del paese in questione. Alcuni economisti utilizzano la
questione della sottrazione per contestare la progressività delle
imposte, la cui esistenza sottrarrebbe produzione (alcune ditte
piuttosto che pagare più imposte preferiscono non produrre
oltre un certo livello). La progressività ha un significato
profondo e condivisibile. In realtà a livello macroeconomico non
ci sono danni prodotti dalla progressività, mentre è importante
la pressione fiscale media di un Paese, in confronto con i suoi
competitori.
L'evasione, l'elusione e la sottrazione danneggiano le condizioni
di stabilità oggettiva del debito perché:

 riducono il tasso di crescita del reddito (Δ y/ y), nascondendolo


 diminuiscono il gettito e comportano maggiore necessità di
prestiti. Innalzano cioè l'offerta di titoli pubblici e,
indirettamente, il tasso medio pagato sul debito.
Quale che sia la formazione (e l'ideologia) di un economista,
occorre comunque riconoscere che, oltre un certo livello di aliquota
fiscale, si registra una diminuzione del gettito e non un suo
incremento.
Il fenomeno è noto come legge o curva di Laffer.
La curva di Laffer è una curva a campana che mette in
relazione l'aliquota di imposta (asse delle ascisse) con le entrate fiscali
(asse delle ordinate). Laffer ipotizzò che esiste un livello del prelievo
fiscale oltre il quale l'attività economica non è più conveniente e il

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gettito diminuisce, fino ad azzerarsi quando il prelievo raggiunge il


100% del reddito.
Io credo invece che abbia una validità scientifica se applicata ai
redditi medio bassi, ferma la tassazione dei ricchi.

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Salvatore Della Corte “La Politica del Bilancio Pubblico.
Problemi di intervento”

6. CONCLUSIONI

Sono ormai noti gli effetti di destabilizzazione indotti dagli


enormi debiti pubblici ereditati dalle politiche di deficit spending del
secolo scorso così come è convenuta la condizione oggettiva di
sostenibilità: Δ y/ y = i

Sono state esaminate le vie percorse in Europa, Giappone e


USA per stabilizzare tale rapporto, percorsi dei quali risultano chiari i
limiti.
Per far fronte alle condizioni di crisi finanziaria e di bilancio, la
BCE e la Commissione Europea agiscono secondo i principi del
Washington Consensus.

In caso di crisi economica suggeriscono:


 tagli alle spese drastici
 alti incrementi delle tasse e imposte
 liberalizzazione del regime dei prezzi
 liberalizzazione del mercato del lavoro
 liberalizzazione dell'import - export
 totale e completa liberalizzazione dei flussi di capitali vendita
di imprese pubbliche al settore privato
 banca centrale totalmente autonoma e non più vincolata al
controllo statale, ma vincolata a quello della Banca Centrale.
Occorre in ogni caso sottolineare che tali politiche con
significativa probabilità possono determinare una depressione e un
calo del PIL.

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PRINCIPI DELLA
POLITICA DI BILANCIO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

Indice

1. LEZIONI DALL’ESPERIENZA ----------------------------------------------------------------- 3


2. LE REGOLE DI POLITICA FISCALE -------------------------------------------------------- 5
3. POLITICA DI BILANCIO ED EUROZONA ------------------------------------------------- 8

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

1. LEZIONI DALL’ESPERIENZA

Alla luce dell’esperienza di vari lustri e con riferimento ai


diversi paesi, le indicazioni dell’economia keynesiana appaiono utili in
particolare nel breve periodo ed in condizioni di eccesso di offerta di
beni, oltre che e moderato debito. Uno stimolo fiscale da parte del
governo può produrre un aumento della domanda e della produzione
così come una politica di deficit può indurre una crescita minore.
La partecipazione a un’unione monetaria nella quale com’è noto
vi è libera circolazione dei capitali, l’efficacia della politica fiscale è
maggiore. In mercati finanziari liberalizzati la percezione di un
potenziale rischio d’insolvenza da parte del Paese finisce per
influenzare il costo dell’indebitamento a causa delle insorgenti
preoccupazioni annesse.
La politica fiscale del medio periodo ha costituito oggetto di
attenzione di molti paesi e sono state introdotte regole utili a
controllare i processi di discrezionalità dei governi. Il Patto di
stabilità e di crescita previsto dal Trattato di Maastricht si inserisce
in questo tipo di valutazione anche se nonostante tale Patto si sono
registrati da parte di alcuni Paesi sfondamenti del deficit.
Nei paesi con elevato debito pubblico l’impatto della politica
fiscale può ridursi per la reazione delle famiglie in relazione ad una
modifica della propensione al risparmio e dai mercati obbligazionari.
Gli effetti connessi agli aggiustamenti con la manovra della
spesa influenzano l’impatto delle manovre di bilancio perché danno
segnali sul futuro della politica di bilancio.
L’analisi degli effetti delle politiche keynesiane mette in luce
che nel lungo periodo la politica fiscale influenza il livello della

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

produzione potenziale, attraverso i processi di accumulazione del


capitale delle politiche sul processo predetto.

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

2. LE REGOLE DI POLITICA FISCALE

A fondamento della politica fiscale sono senza dubbio e prima di


tutto credibilità e reputazione. I governi in linea di principio debbono
esercitare un’azione di controllo affinché le decisioni attuali sul debito
non finiscano per ricadere sulle generazioni future e sono chiamati
pertanto a controllare l’incoerenza temporale. Questo significa altresì
un adeguato controllo delle influenze delle lobbies sulla formazione
del debito pubblico.
Centrale è quindi la determinazione di regole di bilancio volte
ad assicurare in modo credibile e duraturo la gestione delle finanze
pubbliche in relazione alla progettazione di politiche anticicliche.
L’analisi delle esperienze ha consentito l’introduzione di regole
vincolanti destinate a guidare le decisioni di politica fiscale, regole che
possono essere sintetizzate:
 Nella fissazione di un livello massimo del debito
pubblico
 Nell’individuazione di obiettivi di spesa eventualmente
differenziata per ramo di attività;
 Nella fissazione di regole di gestione degli avanzi del
gettito.
Questi ambiti di intervento sono applicabili quali strumenti
preventivi di controllo dell’insorgenza di fenomeni onerosi di debito o
come strumenti correttivi e generalmente fanno riferimento allo stato
o al sistema pubblico allargato secondo l’articolazione dello stesso.
L’esperienza europea si fonda sul Trattato di stabilità che
impone a tutti i paesi di adottare nella Costituzione norme che
limitano il deficit strutturale allo 0,5% del PIL salvo casi eccezionali.

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

Alla luce di quanto sopra si può affermare che la regola del


pareggio di bilancio è la regola aurea delle finanze pubbliche, la
cosiddetta golden rule.
Anche se il quadro descritto appare logico e coerente esso si
scontra con limiti oggettivi in quanto le regola di bilancio così severe
non tengono conto del ciclo economico, non impediscono il differimento
del disavanzo, non tengono conto dello stock di debito con il quale i
governi debbono fare i conti.
Tutto ciò ci fa comprendere come non esista una regola di
bilancio ottimale, ma ovviamente la stessa va individuata per le
condizioni specifiche.
Per non penalizzare significativamente un’economica, l’autorità
preposta può autorizzare il finanziamento degli investimenti pubblici
con indebitamento e ripartizione nel tempo degli oneri relativi. In
Italia l’obbligo dell’equilibrio di bilancio è stato introdotto in
Costituzione con un’apposita modifica e con legge specifica se ne è
rafforzata la disciplina. Sussistono alcuni inconvenienti.
La sorveglianza sulla formazione del deficit è attuata mediante
la politica di bilancio tuttavia tale azione viene integrata mediante il
controllo sulle istituzioni che partecipano alla spesa pubblica anche
attraverso la supervisione sulle procedure.
L’attuazione di una politica di bilancio genera certamente
conflitti intertemporali ed intratemporali. Innanzitutto occorre tener
conto dei conflitti di interessi tra generazioni attuali, che potrebbero
avere interesse a scaricare sulle generazioni future gli oneri delle
politiche, e generazioni future che tuttavia non sono in grado di
esprimere all’attualità i loro desiderati. Si pensi al rugardo al caso
delle gestione pensionistiche.

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

Ma va tenuto conto per valutare gli effetti delle politiche


dell’equità intragenerazionale connessa alla frammentazione sociale
tra gruppi, generazioni, territori che può rendere fragile la
solidarietà.
La costruzione di una politica di bilancio fa emergere il tema
della qualità delle istituzioni e delle procedure oltre che
l’individuazione di livelli adeguati di decentramento delle politiche

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

3. POLITICA DI BILANCIO ED EUROZONA

Un banco prova delle principali questioni delle politiche fiscali


si ritrova nei principali problemi che possono derivare
dall’appartenenza all’unione monetaria europea.
A livello europeo sono ormai chiare le implicazioni della
disciplina di bilancio nei paesi membri: Politiche fiscali lassiste
possano far correre rischi alla stabilità monetaria e cioè legittima
l’intervento comunitario di richiamo.
La presenza di una politica monetaria europea impone di
portare la gestione a livello federale della politica monetaria. Tutto ciò
anche in considerazione del fatto che si rende necessario il
coordinamento delle politiche di bilancio con la politica monetaria.
Il riferimento precedente è all’Europa, ma questi fondamenti si
ispirano alla pratica degli stati federali con riferimento ai quali si
ritiene che il debito sovrano di ciascun paese debba essere solvibile.
Infatti se lo stato non garantisce il servizio del debito e se lo
stato detiene altri titoli sovrani c’è rischio di contagio
Con riferimento a questa problematica sussiste il divieto alla
BCE e alle banche centrali di acquistare direttamente titoli sovrani di
paesi euro all’asta primaria; tuttavia possono essere fatti acquisti sul
mercato secondario oppure con prestiti alle singole banche per
effettuare acquisti.
In sintesi, con riguardo alla politica fiscale, il Trattato di
Maastricht sancisce il dovere degli Stati di evitare deficit eccessivi,
fissa i criteri di sorveglianza del bilancio e fissa una procedura di
sorveglianza e sanzione per i paesi inadempienti.

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

L’esperienza segnala che i programmi degli stati sono basati su


ipotesi talvolta distorte e pervase da ottimismo e pertanto alto deve
essere la sorveglianza comunitario.
L’obiettivo delle riforme di bilancio dell’Unione europea è:
 Decentrare agli stati nazionali la responsabilità delle politiche
di bilancio;
 affidare agli stati il compito di definire regole e procedure per
raggiungere gli obiettivi di bilancio comunitari;
 sollecitare la predisposizione di leggi di bilancio sulla base di
previsioni indipendenti caratterizzate da responsabilità e
affidabilità.

Le riforme del bilancio introdotte nel 2011-2012 ha lasciato


molte questioni in sospeso relative a:
 Le variabili da sorvegliare;
 Il calcolo dei debiti fuori bilancio;
 Il calcolo delle pensioni con il sistema retributivo;
 Esclusione di alcune spese dalla sorveglianza;
 I rischi finanziari inerenti alle garanzie fornite dagli Stati;
 La definizione del profilo temporale del vincolo;
 Il grado di centralizzazione delle politiche.

L’evoluzione del processo d’integrazione europea ha messo in


luce l’accresciuta importanza del bilancio, ma proprio in
considerazione dell’integrazione vengono in evidenza problemi relativi
allo spostamento a livello europeo delle funzioni di trasferimento
sociale e (aspetti criticati da molti detrattori dell’Europa) il problema
del trasferimento in Europa di funzioni sovrane.

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Giovanni Cannata “Principi della politica di bilancio”

Nell’articolazione attuale il bilancio europeo è fondato su:


 Contributi degli stati membro
 Gettito dell’iva trasferito all’UE
 Tariffe doganali e gettito dei prelievi (dazi) sulle importazioni
agricole
 Il coordinamento delle politiche di bilancio
Un coacervo di voci di entrata con le quali l’Europa, tenendo
fede ai principi che ha imposto anche ai suoi stati membri deve
garantire un’adeguata composizione della spesa che tenga conto di
un’efficace allocazione di risorse tra le differenti politiche, alcune delle
quali ancora particolarmente onerose (quali la Politica Agricola
Comune o dello Sviluppo rurale), oltre che da un’equa distribuzione
tra paesi caratterizzati da una significativa differenziazione
economica e sociale.

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GLI OPERATORI E IL
SISTEMA POLITICO
ECONOMICO IN ITALIA
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Gli operatori e il sistema politico
economico in Italia”

Indice

1. GLI OPERATORI ---------------------------------------------------------------------------------- 3


2. DALLA LEGGE FINANZIARIA ALLA LEGGE DI STABILITÀ ---------------------- 8
3. LA COMPETITIVITÀ DELL'ITALIA-------------------------------------------------------- 16
4. LE IMPRESE --------------------------------------------------------------------------------------- 18
5. IL MERCATO FINANZIARIO E LA BORSA VALORI ---------------------------------- 20

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Salvatore Della Corte “Gli operatori e il sistema politico
economico in Italia”

1. GLI OPERATORI

I soggetti che con le loro decisioni concorrono a configurare la


politica economica in Italia oggi sono:
 i cittadini e le famiglie
 le imprese private
 le banche
 le associazioni di categoria, i sindacati e i gruppi di pressione
 la stampa e i mezzi di comunicazione
 i partiti politici
 le Regioni e le amministrazioni locali
 il Parlamento italiano
 il Governo italiano
 la Commissione dell'Unione Europea
 il Consiglio Europeo
 il Parlamento Europeo
 l'amministrazione pubblica
 il sistema delle Banche centrali europee
 la Borsa valori di Milano
 Enti, commissioni e Autorità appositamente create.

Come si vede immediatamente, una miriade di soggetti e


istituzioni concorrono a determinare la politica economica del nostro
Paese. Dimostreremo che molte di queste istituzioni e gruppi,
perseguendo finalità differenti, possono agire in concorrenza tra di
loro e in parte può condizionare l’articolazione e la lunghezza del
processo decisionale di molte situazioni.

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Salvatore Della Corte “Gli operatori e il sistema politico
economico in Italia”

Il grado di democrazia effettiva di una nazione dipende in


larga misura dal grado di partecipazione dei cittadini alle
deliberazioni che li interessano.
Centrale il ruolo della famiglia che assicura il benessere ai suoi
membri in difficoltà o più deboli.
Un ruolo fondamentale rivestono le autonome decisioni di
investimento e livello occupazionale delle imprese, che possono
ricorrere o alla Borsa Valori di Milano per finanziarsi, oppure alle
banche, le cui autonome decisioni di concessione di credito sono
fondamentali in politica economica. Esistono poi le associazioni di
categoria e i sindacati, che hanno il ruolo istituzionale di difendere gli
interessi di una determinata categoria di operatori economici e gli
interessi dei lavoratori.
Altre associazioni, costituite per scopi che, a prima vista,
appaiono non avere alcuna attinenza con i problemi di politica
economica, concorrono a condizionarne l'impostazione e a
determinarne le soluzioni.
Sono i gruppi di pressione. La loro influenza è, in genere,
considerata fortissima. Non vanno considerati gruppi di pressione solo
le associazioni che difendono particolari interessi di particolari gruppi
industriali o bancari. Sono ad esempio gruppi di pressione le
confessioni religiose, le massonerie, etc.
I gruppi di pressione sono particolarmente interessati
all'acquisto e al mantenimento del possesso dei mezzi di informazione
sia della carta stampata, sia delle televisioni e radio, sia di internet.
Con il controllo di queste fonti di informazione cercano di costruire il
consenso dei propri obiettivi e di condizionare i partiti e l'attività

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Salvatore Della Corte “Gli operatori e il sistema politico
economico in Italia”

parlamentare perché assumano decisioni di politica economica a loro


favorevoli.
In Italia si parla di funzione legislativa concorrente tra Regioni
e Stato, per cui, per un numero notevole di questioni, occorre la
decisione concorde di Regioni e Stato, che in alcuni casi può rallentare
l'iter di provvedimenti urgenti.
Occorre aggiungere che lo Stato italiano, a partire dal 1994,
aderendo al processo di Unione monetari, ha scelto di limitare la
propria sovranità non solo in materia monetaria, ma in una miriade
di altre questioni, avendo sottoscritto trattati internazionali, in cui ha
stabilito di armonizzare la propria legislazione con quella degli altri
27 Paesi aderenti all'Unione Europea.
Per questa ragione, il Parlamento deve sottostare alle decisioni
che il Governo italiano concorre ad assumere, in occasione dei
Consigli europei e e deve rispettare le raccomandazioni della
Commissione dell'Unione europea.
Al tempo stesso in Italia nello sviluppo della politica economica
occorre tener conto della onerosa macchina burocratica, in parte del
tutto autonoma dalle direttive politiche degli organi eletti.
La politica monetaria è regolata dal Sistema delle banche
centrali europee.
In merito ai gruppi di pressione esiste da parte di alcuni una
critica circa la loro azione, che sarebbe antidemocratica. Secondo altri,
la contrapposizione tra poteri contrapposti, ad esempio degli
agricoltori contro gli industriali, dei sindacati contro i datori di lavoro,
dei risparmiatori e dei finanzieri contro le grandi imprese, è ciò che
rende efficace il sistema democratico. La questione allora non è tanto

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Salvatore Della Corte “Gli operatori e il sistema politico
economico in Italia”

l'esistenza dei gruppi di pressione, che è legittima, quanto le loro


modalità di azione, che devono sempre essere trasparenti.
In ogni caso le scelte politiche e le pressioni dei cittadini, delle
famiglie, delle Banche, dei gruppi di pressione, della stampa hanno
un luogo istituzionale dove si scontrano e/o incontrano: il Parlamento.
Il Parlamento concorre alla determinazione della politica
economica per 3 vie:
 con la normale attività legislativa, perché ogni provvedimento
di legge ha una ricaduta diretta o indiretta sulla Politica
economica. Infatti alcuni interventi di politica economica si
attuano mediante disposizioni legislative, altri si configurano
attraverso l'attività amministrativa che si realizza con gli
strumenti e secondo le procedure stabilite da apposite leggi;
 con l'approvazione della Legge finanziaria, oggi chiamata Legge
di stabilità, e il Documento di economia e finanza in cui
vengono scritti rispettivamente nel primo il Programma
economico annuale di governo e nel secondo le linee
fondamentali di politica economica triennale che si intendono
adottare;
 con l'approvazione annuale del Bilancio dello Stato in cui, di
fronte ad un certo volume di entrate che lo Stato è autorizzato a
riscuotere nell'anno, si autorizzano spese per la normale
attività dell'apparato pubblico e per conseguire alcuni risultati
specifici di Politica economica. La Legge di bilancio è lo
strumento previsto dall'art. 81 della Costituzione, attraverso il
quale il Governo con un documento contabile di tipo preventivo,
comunica al Parlamento le spese e le entrate previste per
l'anno successivo in base alle leggi vigenti (a differenza del

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Rendiconto consuntivo, che è un documento contabile nel quale


sono elencate le entrate e le spese che si sono realizzate
nell'anno finanziario a cui il Bilancio si riferisce).
In base al citato art. 81, la legge di approvazione del bilancio
non può introdurre nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra norma che
introduca nuove spese deve indicarne la rispettiva copertura
finanziaria. In base a questo articolo, il Presidente della Repubblica
può rifiutare la firma di leggi prive di copertura finanziaria.

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2. DALLA LEGGE FINANZIARIA ALLA LEGGE DI


STABILITÀ

L'approvazione del Programma di governo in cui vengono


indicate le linee fondamentali di politica economica che si intendono
adottare avviene con l'approvazione della Legge finanziaria.
La finanziaria è una legge ordinaria della Repubblica Italiana
recante nel proprio titolo, secondo una formula ricorrente,
"Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato", che dal 2010 è stata sostituita dalla Legge di stabilità.
Come già detto, insieme alla legge del bilancio dello Stato, è la
norma principale prevista dall'ordinamento italiano per regolare la
vita economica del Paese
La legge finanziaria venne introdotta in Italia nel 1978.
Nell'intenzione del legislatore, con questa legge si sarebbe
dovuto annualmente realizzare un coordinamento dinamico della
finanza pubblica. Per poter concretamente realizzare le linee della
politica economica che il Governo intendeva sviluppare, la Legge
finanziaria consentiva di operare "modifiche e integrazioni a
disposizioni legislative aventi riflessi sul bilancio dello Stato, su quelli
delle aziende autonome e su quelli degli enti che si ricollegano alla
finanza statale".
L'intenzione del legislatore era quella di governare il deficit del
settore pubblico e a tal fine era fissato il tetto al fabbisogno dello
Stato.
Accadde il contrario di quanto desiderato dal legislatore e il
tetto finì per essere espressione della forza effettiva dei gruppi di
pressione sindacalmente e politicamente più forti.

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La Legge stabilisce stabilisce il prelievo fiscale e le spese che


effettuerà.
Il prelievo fiscale avviene con le imposte e le tasse.
Le imposte possono essere:
 dirette (colpiscono i redditi delle persone fisiche e delle persone
giuridiche)
 indirette (come le accise o l'IVA che colpiscono i consumi)
 parafiscali o cosiddetti oneri sociali: in Italia imprese ed
individui sono tenuti a finanziare alcuni enti pubblici (enti
mutualistici, Cassa Integrazione Guadagni, ecc.) con tributi che
sono in genere stabiliti in proporzione a certe grandezze (per le
imprese, ad esempio, ai livelli di occupazione);
Le tasse si differenziano dalle imposte in quanto le tasse
vengono applicate secondo il principio della controprestazione, cioè
esse sono legate a un pagamento, dovuto da un soggetto come
corrispettivo, per la prestazione a suo favore di un servizio pubblico
offerto da un ente pubblico (ad es. tasse scolastiche, tasse portuali e
aeroportuali, concessioni, autorizzazioni, licenze).
In Italia le tasse non coprono mai l'intero importo del servizio,
ma una parte di esso.
Lo Stato, imponendo le imposte e le tasse:
 con le imposte dirette, riduce i redditi disponibili;
 con le imposte sulle società, diminuisce i profitti di cui possono
disporre le società
 con le imposte indirette, aumenta i costi dei vari prodotti.
 con le tasse, decide quanta parte di un servizio è pagata dai
beneficiari del medesimo e quanta parte ricade sull'intera
collettività;

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Lo Stato effettua due ordini di spese:


a) le spese correnti, in genere quelle effettuate per soddisfare
dei bisogni pubblici (consumi pubblici), ad esempio le spese per pagare
gli stipendi dei dipendenti pubblici (giudici, ambasciatori, poliziotti
etc.) e il funzionamento delle relative strutture;
b) le spese in conto capitale, che in genere sono sostenute per
espandere e migliorare le infrastrutture. Ad esempio, le spese per
costruire nuove strade e ferrovie.
Lo Stato, erogando potere d'acquisto con la spesa pubblica,
aumenta i redditi delle famiglie e delle imprese, che lavorano al suo
servizio e determina una serie di ripercussioni economiche sulla
struttura dei prezzi e sulle quantità offerte dei prodotti
L'imposizione fiscale e gli effetti della spesa pubblica sono
oggetto di studio sia dei macroeconomisti, che si dedicano a descrivere
il funzionamento dell’economia quanto avviene, sia degli studiosi di
politica economica, che si occupano soprattutto di perseguire
determinati risultati politico - economici sia, della scienza della
finanze, che si concentra soprattutto sugli aspetti tecnici delle misure.
Un discorso importante riguarda il finanziamento temporale
dei vari tipi di spesa.
Un sano principio contabile vuole che esista coerenza in
bilancio tra le fonti e gli impieghi.
Nel bilancio pubblico questo dovrebbe comportare che le spese
in conto corrente annuali siano finanziate di regola mediante le
entrate fiscali annuali, le entrate cioè che lo Stato ottiene con le
imposte e le tasse che può imporre ai cittadini di pagare.
Viceversa non avrebbe senso invece far pagare ai cittadini in un
solo anno le spese che in quell'anno lo Stato sostiene per costruire

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strade, ferrovie e altre opere pubbliche, il cui ammortamento e


utilizzo dura almeno diversi decenni successivi.
La modalità razionale di finanziamento di queste spese a medio
e lungo termine è il ricorso al mercato finanziario: lo Stato cioè, al
pari di un privato, si fa prestare i mezzi necessari dai privati cui
pagherà un interesse.
I titoli che lo Stato mette sul mercato per ottenere i mezzi per
finanziare gli investimenti pubblici a medio e lungo termine sono in
genere titoli a scadenza pluriennale (Buoni Pluriennali del Tesoro).
In un mondo ordinato, ciò che deve essere coperto dalle imposte
è, appunto, il costo per la gestione del prestito, e cioè l'ammontare
degli interessi e la quota di rimborso del debito, che viene sostenuta
ogni anno per la durata del prestito.
Lo Stato, quando ha sovranità monetaria, a differenza di un
privato, può ottenere una parte dei mezzi liquidi di cui ha bisogno
dalla Banca centrale. Fino al 1994, data in cui si stabilisce a livello
internazionale l'indipendenza delle Banche centrali dai governi, lo
Stato ha fatto ampio ricorso a questo strumento, imponendo il
finanziamento del debito alla Banca d'Italia.
Lo Stato, come ogni impresa privata, si trova a sostenere spese
soprattutto in certi periodi dell'anno e a riscuotere le imposte in
genere in altri. Vi sono quindi dei mesi in cui esso si trova a corto di
mezzi liquidi, mentre in altri registra entrate in eccesso alle spese.
Nei primi deve farsi prestare del denaro: nei mesi in cui si trova con
disponibilità liquide, sarà in grado di rimborsare i prestiti ottenuti.
Lo strumento per compensare la differenza tra le spese e le
entrate, che si possono registrare in certi periodi dell'anno, sono i
titoli a breve (i Buoni Ordinari del Tesoro: BOT): con essi i privati

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Salvatore Della Corte “Gli operatori e il sistema politico
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prestano denaro allo Stato a tre, sei mesi. Quando le entrate


superano le uscite (ad esempio perché lo Stato incassa le imposte sul
reddito), lo Stato è in grado di rimborsare i BOT che vengono a
scadenza.
Nel tempo la politica non ha sempre rispettato questa
distinzione tra il ricorso al mercato finanziario per indebitamenti a
breve (per le temporanee carenze di liquidità) e quello effettuato per
indebitamenti a lungo periodo (questi ultimi per finanziare spese in
conto capitale) è saltata.
I problemi economici che questa politica di deficit spending
permanente produce sono molteplici, quali la perdita di competitività,
l’innesco di un processo inflazionistico, la svalutazione della moneta.
La spesa per interessi, una volta abbandonato il signoraggio
per questioni valutarie, divenne notevole e contribuisce ad accrescere
il debito pubblico facendo crescere la spesa per interessi.
La crescita dei debiti pubblici dipende da molte cause, ma è
evidente che politiche sbagliate di finanza pubblica possono rendere
ingestibile la situazione del debito, come è avvenuto in Italia.
Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero
quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda
dei titoli stessi, l’eliminazione di una componente importante della
domanda, quale era la domanda della Banca centrale, ovvero il
signoraggio, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli interessi
e, quindi, di far esplodere il debito totale e di accrescerlo nel tempo,
esponendo il debito alle manovre speculative degli investitori
internazionali.
Dal 2010 la legge finanziaria è stata sostituita con la legge di
stabilità.

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Oggi il processo che porta alla legge di stabilità è strettamente


collegato ai nostri impegni europei e alla procedura del semestre
europeo. Il "semestre europeo" è un ciclo di coordinamento delle
politiche economiche e di bilancio nell'UE. La sua attenzione si
concentra sul periodo di sei mesi dall'inizio di ogni anno. Da questa
circostanza discende il nome.
Il suo scopo dichiarato è che gli Stati membri allineino le loro
politiche economiche e di bilancio con gli obiettivi e le regole
concordate a livello UE.
Intorno al mese di dicembre precedente il semestre, la
Commisione europea e l'Ecofin fanno il punto della situazione
macroeconomica. Tra gennaio e febbraio, Commissione e Consiglio
europeo, nelle loro varie articolazioni, esprimono orientamenti e
conclusioni, di cui gli Stati membri, che hanno preso parte alle
decisioni comuni, devono tener conto. A marzo il Consiglio europeo a
livello di Presidenti del Consiglio, tenuto conto dei lavori dei mesi
precedenti, fornisce gli orientamenti politici. La Commissione
pubblica studi approfonditi degli squilibri economici in corso e
formula raccomandazioni agli Stati membri, interessati dagli squilibri
Gli Stati membri della UE presentano entro il mese di aprile
di ogni anno alla Commissione e al Consiglio Europeo i loro piani
politici per essere discussi, prima che il dibattito avvenga nei
parlamenti nazionali.
In particolare presentano programmi di stabilità e convergenza
e programmi nazionali di riforma.
La Commissione europea valuta i piani di politica nazionale e
presenta progetti di raccomandazioni specifiche per paese entro
maggio. Il Consiglio dell'Unione europea discute il progetto e concorda

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finali raccomandazioni specifiche per paese. Vengono poi presentati al


Consiglio europeo per approvazione., che sono adottate entro luglio. i
Governi inadempienti sono sanzionati con a una multa massima pari
allo 0,2% del PIL.
Alla fine di questo processo, in autunno, il governo italiano poi
presenta la legge di stabilità al Parlamento entro il 15 ottobre.
La Legge di stabilità, insieme alla legge di bilancio, costituisce
attualmente a manovra di finanza pubblica per il triennio di
riferimento e rappresenta lo strumento principale di attuazione degli
obiettivi programmatici definiti con la Decisione di finanza pubblica.
Nella prima sezione, la legge di stabilità riporta:
 il livello massimo del saldo netto da finanziarie e del ricorso al
mercato;
 la variazione delle aliquote delle imposte;
 l'importo dei fondi speciali;
 l'importo complessivo destinato al rinnovo dei contratti
pubblici;
le norme eventuali necessarie all'attuazione del Patto di
stabilità interno e alla realizzazione del Patto di convergenza;
le misure correttive delle leggi che comportano oneri superiori a
quelli previsti; altre regolazioni meramente quantitative.
La legge di stabilità deve rispettare i criteri di convergenza
europea, noti anche come parametri di Maastricht:
 un rapporto fra disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e
prodotto interno lordo (PIL) del 3%;
 un rapporto fra debito pubblico e PIL (può non essere
soddisfatto, a condizione però che il valore si riduca in misura

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significativa e si avvicini alla soglia indicata con ritmo


adeguato) del 60%;
 un tasso medio di inflazione che non può superare di oltre 1,5
punti percentuali quello dei tre Stati membri che, durante
l'anno precedente a quello in esame, hanno conseguito i
migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi;
 un tasso d'interesse nominale a lungo termine che non deve
eccedere di oltre 2 punti percentuali quello dei tre Stati membri
che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità
dei prezzi.
In queste nuove condizioni e considerata l'attuale situazione del
Debito pubblico italiano, i gruppi di pressione favorevoli alla spesa
pubblica non hanno più lo spazio di manovra, come accadeva prima
dell'adesione alla moneta unica.
Il loro attuale spazio di manovra consiste unicamente nella
capacità di bloccare ogni riforma che metta in discussione l'attuale
situazione, favoriti in questo dal sistema bicamerale perfetto e
dall'instabilità permanente caratteristica dell'Italia.

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3. LA COMPETITIVITÀ DELL'ITALIA

La pubblica amministrazione ha una significativa incidenza in


Italia nel funzionamento della politica economica.
I dati che ora riferisco sono relativi al conto annuale 2011.
Eppure l'Italia è poco competitiva e la pubblica
amministrazione particolarmente inefficiente.
Ma andiamo con ordine.
La competitività è la capacità di un’azienda, di un ente pubblico
o di un territorio di fornire beni o servizi concorrenziali.
Per misurare la competitività di uno Stato vengono misurate
nove variabili:

 le istituzioni con riferimento al rispetto dei diritti di proprietà,


al livello di corruzione, all’efficienza della giustizia;
 le infrastrutture quali le vie di comunicazione, la rete tele
informatica;
 i dati macroeconomici relativi allo stato delle finanze pubbliche,
al tasso di inflazione;
 la salute della popolazione misurate dall’impatto economico a
medio-termine di alcune malattie, la speranza di vita,
 la scolarità primaria ossia l’alfabetizzazione;
 l’istruzione media e superiore il livello della scolarità, degli
apprendistati, dei tirocini;
 l’efficienza del mercato misurata dalle distorsioni, dalla
competizione interna, dalla bilancia commerciale, dalla
capacità di attrarre cervelli, dalla flessibilità;

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 il livello tecnologico calcolato sulla percentuale degli


utilizzatori di internet, sulla diffusione e la recezione delle
nuove tecnologie fra le aziende e fra la popolazione;
 la sofisticazione del business in termini di posizione mondiale,
vantaggi competitivi) e
 l’innovazione, come risulta dalla spesa per la ricerca e lo
sviluppo dello stato e delle aziende; dalla presenza di centri di
ricerca, dalla collaborazione fra centri di ricerca e imprese, dal
numero dei brevetti, dalla capacità di innovare.

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4. LE IMPRESE

E’ possibile suddividere le imprese in quattro gruppi:

 grandi. Quelle con più di 250 dipendenti e fatturato maggiore


ai 50 milioni di euro.
 medie. Per essere una impresa media occorre occupare meno di
250 dipendenti, e avere o un fatturato minore o uguale a 50
milioni di euro o, in alternativa un bilancio annuo di 43 milioni
di euro.
 piccole. Per essere una piccola impresa occorre occupare meno
di 50 dipendenti, e avere o un fatturato minore o uguale a 10
milioni di euro o, in alternativa un bilancio annuo dello stesso
importo.
 Micro. Secondo la nuova raccomandazione europea 2005 è
un'impresa “ogni entità, a prescindere dalla forma giuridica
rivestita, che eserciti un’attività economica”. Possono essere
considerate imprese i lavoratori autonomi, le imprese familiari,
le partnership e le associazioni che esercitano regolarmente
un’attività economica. Per essere una micro impresa occorre
occupare meno di 10 dipendenti, e avere o un fatturato minore
o uguale a 2 milioni di euro o, in alternativa un bilancio annuo
dello stesso importo.
Come si evince da quanto detto sopra, per l'Unione europea non
si fa caso alla natura giuridica delle società per la loro classificazione.
In ogni caso la classificazione in base alla forma giuridica
consente di comprendere aspetti importanti circa le imprese.
Dal punto di vista giuridico le imprese si classificano in:

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 Società di capitali, come le società per azioni, le società in


accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata
La società per azioni è un'entità a sé, con una personalità
giuridica distinta da quella dei suoi proprietari e nessuno dei singoli
proprietari è responsabile per la conduzione aziendale o per i debiti
contratti dall'impresa.
Oltre alle società di capitali esistono:
 L'impresa individuale: vi è un solo proprietario, che è
personalmente responsabile di tutto ciò che accade nella
conduzione dell'azienda e quindi ne ha il pieno controllo. Ormai
solo le piccole imprese sono organizzate in questa forma, perché
il capitale che un singolo proprietario può avere o ottenere in
prestito è sempre limitato.
 Le società di persone. In questo tipo di società vi sono due o più
soci proprietari, ciascuno dei quali risponde illimitatamente
(come il singolo proprietario nell'impresa individuale) per ciò
che accade nello svolgimento degli affari e quindi per i debiti
dell'impresa. In altri termini il socio della società di persone
(così come il singolo proprietario nell'impresa individuale) è
tenuto a pagare i debiti dell'impresa anche con il proprio
patrimonio personale: questo è il principio della responsabilità
illimitata dei soci.
Data la responsabilità illimitata di ciascuno dei soci, anche in
questo caso è difficile reperire grandi quantità di capitali, perché
pochi sono disposti a unirsi in società e a rischiare di perdere il loro
intero patrimonio personale nel caso in cui l'impresa (cioè la società)
fallisse.

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5. IL MERCATO FINANZIARIO E LA BORSA


VALORI

Sul mercato finanziario (o mercato dei capitali) vengono


contrattati i prestiti a media e lunga scadenza.
I soggetti che domandano prestiti a medio e lungo termine sono:
 le società per azioni: emettono azioni ed obbligazioni
 altre imprese e le famiglie: chiedono prestiti a medio e lungo
termine alle banche, per esempio i mutui per l'acquisto di un
immobile;
 le banche: raccolgono il danaro dai privati; costituiscono
presso di esse depositi vincolati a medio e lungo termine,
oppure emettono obbligazioni;
 lo Stato: emette titoli del debito pubblico (a medio e lungo
termine) per finanziare le sue spese.
Le imprese utilizzano i prestiti a medio e lungo termine per
effettuare investimenti in capitale fisso, cioè per l'acquisto di
impianti e macchinari.
Le famiglie utilizzano tali prestiti per acquistare, ad esempio,
la casa.
I soggetti che offrono prestiti a media e lunga scadenza sono:
 le banche
 i risparmiatori: acquistano le azioni e le obbligazioni e i titoli di
Stato a medio e lungo termine e depositano tali titoli e il loro
denaro presso le banche
Pertanto le operazioni che si svolgono sul mercato finanziario
riguardano i prestiti a medio e lungo termine: cioè le azioni, le

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obbligazioni, i depositi vincolati a medio e lungo termine e


l'erogazione dei prestiti a medio e lungo termine.
Esiste una grande differenza in Italia tra le grandi e medie
imprese, che finanziano i loro programmi di investimento a lungo
termine mediante l'emissione di azioni e obbligazioni, e le piccole e
medie imprese, non organizzate sotto forma di società per azioni,
per le quali il credito bancario è la fonte quasi esclusiva di
finanziamento. Le piccole e medie imprese in Italia di rado emettono
obbligazioni. Queste nel nostro Paese sono emesse dallo Stato, da enti
pubblici, dalle grandi società per azioni e dalle banche.
Di fatto le piccole e medie imprese sono finanziate unicamente
con il mercato a breve (entro i 18 mesi), detto mercato monetario.
Vengono finanziate con degli scoperti di conto a breve, a revoca.
Questo significa che la banca può revocare in qualsiasi momento i
crediti erogati.
Questa circostanza fa dipendere le piccole e medie imprese
dalle banche.
Le grandi aziende invece possono emettere titoli e finanziarsi al
di fuori del canale bancario. I luoghi dove si svolgono le contrattazioni
relative ai titoli a lungo termine, azioni e obbligazioni, prendono il
nome di borse valori.
In Italia la principale borsa è la borsa valori di Milano, che
opera sotto il controllo della CONSOB (Commissione nazionale per le
società la borsa).

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Analizziamo quali caratteristiche differenziano le azioni dalle


obbligazioni:

 le azioni sono titoli a reddito variabile: il reddito dell'azione


(dividendo) è variabile, perché dipende dalla decisione del
consiglio di amministrazione dell'impresa su quanta parte dei
profitti distribuire agli azionisti e quanta reinvestirne
nell'impresa stessa.
 le obbligazioni sono titoli a reddito fisso
L'impresa (o l'ente) che emette il titolo (azione o obbligazione)
ne determina il valore nominale, che viene stampato sul titolo stesso.
I titoli possono essere emessi:
 alla pari. In questo caso colui che acquista il titolo, detto
sottoscrittore, paga una somma uguale al valore nominale
 sotto la pari. Questo avviene esclusivamente per le
obbligazioni. Essa si verifica quando il sottoscrittore paga un
prezzo minore del valore nominale, cioè meno di quanto gli
dovrà essere rimborsato al momento della scadenza
dell'obbligazione. In effetti l'emissione sotto la pari consiste
nell'emettere un titolo ad un tasso di interesse maggiore di
quello nominale risultante dal titolo stesso. Se ad esempio si
emette un'obbligazione del valore nominale di 1000 euro, con
un rendimento pari a 50 euro, al prezzo di 920 euro, il
rendimento dell'obbligazione al momento dell'emissione non è il
5% (50/1000), ma è il 5,43% (50/920)
 sopra la pari. Avviene per le azioni.
Mentre nelle borse valori si contrattano titoli, nelle borse merci
si contrattano le principali materie prime (petrolio, ferro, rame, etc.) e

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alcuni prodotti omogenei di largo mercato come il grano ed altri tipi di


cereali.
Diverso è quando il titolo è emesso o negoziato sul mercato
primario e quando è negoziato sul mercato secondario.
Soltanto in sede di emissione, il titolo comporta il
finanziamento di un'attività reale e il trasferimento di risorse dal
mercato finanziario al mercato reale: in generale l'emissione di nuove
azioni ed obbligazioni dipende dalle esigenze di finanziamento delle
imprese e degli organismi che le emettono (Stato, Regioni, enti vari.
La domanda e l'offerta di titoli, dopo il momento dell'emissione
e del primo scambio dei titoli stessi, avviene sul mercato secondario.
Infatti colui che ha acquistato un titolo (dalla società o dall'ente che
lo ha emesso) può rivenderlo ad un altro soggetto, e così via. Mentre
il valore nominale di un titolo è fisso, il prezzo a cui viene venduto
sul mercato secondario nel corso della sua durata, detto anche corso
o quotazione del titolo, è normalmente diverso (maggiore o minore),
perché varia a seconda della domanda e dell'offerta del titolo stesso.
Ad esempio, quando la domanda di azioni di una società
aumenta, il prezzo di quelle azioni cresce.
Quando l'offerta di azioni di una società aumenta, il prezzo di
quelle azioni diminuisce.
Il problema consiste nell'individuare i fattori che determinano
la domanda e l'offerta di titoli.
Per le azioni, potrebbe sembrare, che la domanda e l'offerta
dipendano essenzialmente dalle previsioni sui profitti futuri (specie
quelli che verranno distribuiti) delle imprese che le hanno emesse.

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Se un operatore prevede che i profitti di un'impresa in futuro


aumenteranno, comprerà le azioni di questa, o non le venderà se già
le possiede.
In questo caso la domanda di queste azioni aumenterà e
l'offerta diminuirà; di conseguenza il prezzo di queste azioni
aumenterà.
Le previsioni, però, che si possono fare sui profitti di
un'impresa sono legate a quelle sull'andamento del settore cui
l'impresa appartiene o dell'intera economia nazionale a cui
appartiene, per cui dati statistici relativi al settore e al Paese possono
influenzare la quotazione del titolo.
Per comprendere il corso delle azioni e delle obbligazioni
occorre quindi conoscere moltissimi elementi del mercato finanziario e
soprattutto il ruolo che giocano la speculazione e le società di rating.
In periodi di consistente inflazione, gli operatori preferiscono
vendere i titoli, per acquistare beni, come gli immobili e l'oro, i
cosiddetti beni rifugio, perché questi mantengono meglio il proprio
valore e, anzi, in momenti di forte inflazione, si rivalutano.
In queste particolari situazioni, per indurre gli operatori a
comprare le obbligazioni, i Governi e le imprese• emettono a volte le
cosiddette obbligazioni indicizzate, cioè obbligazioni il cui rendimento
varia al variare dell'inflazione: esso è maggiore quando l'inflazione
accelera ed è minore quando l'inflazione decelera.
Come abbiamo visto i dividendi attuali non assicurano la
richiesta di un titolo azionari sul mercato. Infatti gli operatori dei
mercati azionari non si soffermano sull'attuale situazione, ma si
basano sulle previsioni future di andamento di quel titolo. Se gli
operatori prevedono per diversi motivi già da oggi che l'impresa che

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ha emesso quell'azione si troverà in difficoltà, allora anche la


domanda, e quindi il prezzo, di un'azione, nonostante gli alti dividendi
che può pagare oggi, potrebbe scendere anziché salire.
Occorre allora comprendere meglio i tipi di contratto esistenti
in borsa e il ruolo della speculazione.
I contratti sia nelle borse valori che in quelle merci possono
essere a pronti e a termine.
I contratti a pronti sono per contanti e realizzano subito lo
scambio tra la somma e i titoli o la merce.
I contratti a termine invece pattuiscono subito la somma da
pagare in cambio delle merci o dei titoli che viene pattuita, ma
l'effettivo scambio tra titoli o delle merci e denaro è rinviato ad un
termine fissato nel contratto.
In borsa esistono due figure di operatori:
 I cassettisti. Essi tendono a tenere le azioni in portafoglio per
lunghi periodi, o perché sono interessati a diritti di natura
amministrativa, come il diritto di voto in assemblea o perché a
questa categoria di azionisti preme comunque l'entità dei
dividendi futuri.
 Gli speculatori, al contrario, non sono interessati ai dividendi
futuri e mantengono in portafoglio le azioni per un breve o
brevissimo arco di tempo, aspettando che il loro prezzo salga
abbastanza per permettere loro di realizzare un guadagno. Il
loro interesse si concentra sul prezzo dell'azione.
Le società per azioni o le banche possono detenere i titoli sia
perché sono interessati ai diritti di natura amministrativa, sia perché
intendono effettuare acquisti o vendita di titoli e di merci senza
mirare di solito allo scambio effettivo, ma allo scopo di rivenderli o

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riacquistarli dopo un certo termine per lucrare un guadagno, se nel


frattempo i prezzi dei titoli o delle merci acquistati sono aumentati o
diminuiti.
Più in generale gli speculatori fanno largo uso di contratti a
termine, perché, se al "termine" stabilito per lo scambio il prezzo della
merce o dei titoli è aumentato, lo speculatore potrà rivendere
immediatamente la merce o i titoli a pronti e lucrare la differenza.
Il giudizio sulla speculazione è molto diverso tra le scuole di
pensiero economico.
Ovviamente per la scuola marxista o la dottrina sociale della
Chiesa, anche se per ragioni diverse, l'attività speculativa è
completamente nefasta, per il solo fatto che ci sia un operatore, che,
venuto a conoscenza o ritenendo che il valore di una merce o di un
bene debba scendere, approfitti della situazione per accelerare la
discesa del titolo, magari in compagnia di altri speculatori, e guadagni
i soldi a scapito dell'acquirente.
Nell'ambito dell'economia capitalistica due invece sono le
posizioni fondamentali circa la speculazione: quella neoclassica e
quella keynesiana.
I pensatori della scuola neoclassica intendono la speculazione
come l'attività di un operatore che si assume dei rischi per i quali
richiede una adeguata remunerazione.
Secondo questa scuola di pensiero lo speculatore è un elemento
fondamentale del mercato poiché assicura liquidità e concorre alla
formazione di un prezzo efficiente.
La speculazione, secondo i neoclassici ha effetti positivi, perché
tende a livellare i prezzi nello spazio e nel tempo:
 livellamento dei prezzi nello spazio.

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◦ Gli speculatori aiutano l'economia quando compiono


operazioni di arbitraggio. L'arbitraggio consiste nel comprare un titolo
o una merce su una piazza (ad esempio Milano) e nel rivenderlo
contemporaneamente su un'altra piazza (ad esempio Parigi), in cui il
prezzo è più elevato.
 Livellamento dei prezzi nel tempo
◦ Uno speculatore compra o vende (con le vendite allo
scoperto) subito una merce di cui prevede rispettivamente un futuro
aumento o diminuzione di prezzo, per rivenderla o riacquistarla
successivamente. Ma, in caso di speculazione al rialzo, comprando
subito (cioè accrescendo la domanda), farà salire il prezzo attuale e,
vendendo in futuro (accrescendo cioè l'offerta), farà scendere il prezzo
futuro. In caso di speculazione al ribasso, farà l'inverso. In ogni caso
livellerà i prezzi. Questa azione di livellamento dei prezzi permette
quindi di graduare i consumi nel tempo, cosa utile soprattutto per le
merci e le materie prime essenziali, ma in fondo, secondo i neoclassici,
per tutti i titoli.
I neoclassici condannano soltanto la speculazione disonesta,
detta anche aggiotaggio. Si ha aggiotaggio quando lo speculatore
diffonde o fa diffondere voci tendenziose, provoca artificiosamente
variazioni di prezzo: ad esempio un rialzo del prezzo di merci (o di
titoli) che ha precedentemente acquistato.
Secondo Ludwig von Mises, appartenente alla scuola austriaca,
ogni attore economico può essere definito uno speculatore, in quanto
tutti gli operatori economici cercano di guadagnare il massimo
profitto e sempre l'azione umana è diretta verso il futuro sconosciuto e
incerto.

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Di diverso avviso è John Maynard Keynes, che pure, nella vita,


oltre ad essere stato docente universitario, fu gestore, tra l'altro
brillantissimo, di fondi e dovette comunque adoperare tecniche
speculative per ottenere tali risultati in Borsa.
Nella Teoria generale egli descrive la speculazione come l'arte
di capire cosa gli altri operatori di mercato avessero pensato riguardo
al futuro.
Secondo K., lo scopo privato dei più esperti investitori di oggi
(in Borsa) è to beat the gun come dicono gli americani (scattare prima
del segnale di partenza) mettere nel sacco la gente, riuscire a passare
al prossimo la moneta cattiva o svalutata.”
Questo è un problema per Keynes perché un conto è
l'investimento reale, che produce occupazione e prodotti, che devono
trovare un mercato di sbocco e soddisfare le esigenze di un cliente,
producendo benessere per tutti (produttore, lavoratore e cliente), un
altro è ridurre tutta l'economia ad una scommessa, in cui uno dei due
scommettitori vince e l'altro perde, ma il saldo per l'economia è zero e
non c'è stato nessun progresso.
Secondo Keynes quindi l'imprenditore e lo speculatore sono
completamente diversi e sbagliano i neoclassici ad eguagliarli.
E' vero che entrambi perseguono il profitto e si assumono dei
rischi, ma il primo, producendo beni o servizi per altri in
collaborazione con i suoi dipendenti, moltiplica il suo investimento. Il
secondo guadagnerà sottraendo risorse a coloro che hanno scommesso
in senso opposto al suo, senza alcun benessere per la comunità e lo
sviluppo economico.
Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra
un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria

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se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di


speculazioni. Quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa
il sottoprodotto delle attività di un Casinò, è probabile che le cose
vadano male. Se alla Borsa si guarda come a una istituzione la cui
funzione sociale appropriata è orientare i nuovi investimenti verso i
canali più profittevoli in termini di rendimenti futuri, il successo
conquistato da Wall Street non può proprio essere vantato tra gli
straordinari trionfi di un capitalismo del laissez faire. Il che non
dovrebbe meravigliare, se ho ragione quando sostengo che i migliori
cervelli di Wall Street sono in verità orientati a tutt'altri obiettivi.

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LA POLITICA MONETARIA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica monetaria”

Indice

1. LA POLITICA MONETARIA ------------------------------------------------------------------- 3


2. IL RUOLO DELLE BANCHE CENTRALI --------------------------------------------------- 5
3. LA LIQUIDITÀ ------------------------------------------------------------------------------------- 6
4. LA BANCA CENTRALE EUROPEA --------------------------------------------------------- 10

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Giovanni Cannata “La politica monetaria”

1. LA POLITICA MONETARIA

Se la moneta è uno strumento antico dell’economia, la politica


comunitaria, intesa come complesso di norme, strumenti ed interventi
è un concetto più moderno. Al riguardo basti ricordare che alcune
banche centrali sono state fondate diversi secoli fa, come la Bank of
England, il Monte di Paschi di Siena, mentre più recente sono la
Federal Reserve degli Stati Uniti (1914) e la Banca Centrale Europea
nel 1998. In precedenza le banche svolgevano la funzione di custodire
delle riserve auree, emettevano banconote e facevano la fortuna dello
stato utilizzando la differenza tra il valore nominale della moneta e il
contenuto in oro. Fino agli anni sessanta la politica di bilancio ha
ceduto il passo alla politica monetaria. Negli anni Settanta
l’inflazione generata dalle Banche Centrali ed esplosa dopo la crisi
petrolifera fece assegnare il compito di ridurla. Questo processo si
accompagnò alla modifica del ruolo delle banche centrali che
successivamente divennero organismi indipendenti.
Il dibattito di politica economica degli anni Novanta non
assegnava alla politica monetaria l’obiettivo principale della stabilità
dei prezzi. Si era in presenza di modelli differenti di rapporto delle
banche stesse con il governo da cui discendevano relative modalità di
comunicazioni con il pubblico. Il dibattito verteva principalmente
sulla strategia e sulla tattica per raggiungere gli obiettivi
focalizzandosi meno sugli obiettivi.
Il tema della comunicazione era significativamente connesso
alla cosiddetta credibilità e reputazione.
Dopo il 2007 le Banche Centrali hanno avuto un ruolo
importante negli interventi di gestione della crisi con la funzione di

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Giovanni Cannata “La politica monetaria”

rassicurare il mercato magari anche attraverso lo strumento della


fornitura di risorse finanziarie al sistema.

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2. IL RUOLO DELLE BANCHE CENTRALI

Il ruolo centrale delle Banche centrali è quello di essere garante


della compensazione dei pagamenti e fornitore di liquidità all’interno
del settore bancario.
La Banca centrale ha il compito di:
 banchiere dello stato
 banca delle banche
 controllore dell’inflazione
 garante nella stabilità finanziaria
 finanziare istituzioni finanziarie in temporanea difficoltà
 vigilare sul sistema dei pagamenti
 creare una base monetaria
 produrre statistiche e informazioni sul credito.

Una serie complessa di funzioni che implicano alti livelli di


professionalità accompagnati da una solida indipendenza e
reputazione.

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Giovanni Cannata “La politica monetaria”

3. LA LIQUIDITÀ

La Banca centrale crea la base monetaria stampando moneta in


quantità idonea ad assicurare la stabilità dei prezzi e favorire
l’efficienza del sistema dei pagamenti pur controllando
significativamente la moneta in circolazione.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), bisogna
distinguere due tipi di liquidità:
 La liquidità di mercato che si identifica con la possibilità di
vendere attività finanziarie senza modificare il prezzo e che
auspicabilmente dovrebbe essere attuata con obbligazioni
meglio che con i cosiddetti derivati
 La liquidità di finanziamento che è rappresentata dal modo in
cui una istituzione solvibile onora i propri impegni utilizzando
depositi presso la banca centrale, depositi presso altre
istituzioni finanziarie e attraverso l’emissione di titoli di
credito. L’esperienza mostra che le grandi banche sono più
facilitate rispetto alle piccole in queste situazioni.
Le banche centrali assicurano la liquidità del sistema di
operazioni quotidianamente effettuate nel mercato monetario o
interbancario dagli operatori privati (famiglie, investitori, imprese) e
pubblici attraverso il controllo dei tassi di interesse; vigilando sulla
liquidità delle banche purché solvibili.
Le banche fanno credito agli operatori, si scambiano
reciprocamente denaro su un mercato denominato mercato monetario
o mercato interbancario rispetto al quale si esercita il controllo della

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parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n.
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Giovanni Cannata “La politica monetaria”

Banca centrale. Senza l’intervento della banca centrale il tasso


d’interesse varierebbe moltissimo.
Le variazioni dipendono dall’ingresso e dall’uscita di capitali
dal paese, dai continui movimenti tra moneta corrente (metallica o
banconote) e moneta scritturale (rappresentata dai depositi bancari),
o ancora dai prelievi e depositi del Tesoro dello Stato presso la banca
centrale.
La Banca centrale interviene nei confronti delle banche
accreditando i conti delle stesse presso di se o attraverso le cosiddette
operazioni di mercato aperto.
La Banca centrale piò prestare liquidità alle banche per un
periodo determinato acquistando asset o pacchetti di asset in prestito.
Come indicatore di qualità delle operazioni da effettuare si utilizza il
rating dei titoli che esprime sinteticamente la valutazione degli stessi.
La moneta creata dalla Banca centrale (moneta ad alto
potenziale) è parte della moneta in circolazione costituendo nei fatti
un debito delle istituzioni purchè anche le banche creano moneta tra
famiglie e imprese. Nelle poste attive di bilancio della Banca centrale
si ritrova il valore dei titoli acquistati come investimenti.
Gli aggregati monetari dell’Eurozona sono i seguenti:
o M0 primo aggregato monetario.
La moneta ad alto potenziale è quella immessa direttamente
dalla Banca centrale e costituisce il primo degli aggregati monetari
quali a mano a mano si possono aggiungere:
o M1 moneta e biglietti in circolazione; depositi a
scadenza inferiore a due anni, depositi rimborsabili a
meno di 3 mesi, strumenti del mercato monetario.

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In aggiunta l’attivo del bilancio è costituito da i fondi propri di


dotazione, dalle riserve in valuta estera e oro, dai titoli relativi agli
investimenti di fondi propri, dai titoli acquistati per le operazioni.
La moneta ad alto potenziale si aggiunge alla moneta creata
dalle banche commerciali e costituisce la moneta in circolazione.
La Banca centrale può imporre alle banche commerciali di
depositare presso di se una parte di depositi ricevuti dal pubblico a
titolo di riserva obbligatoria e come strumento di manovra
Molteplici sono le tipologie di banche: si distinguono Banche
commerciali, o banca di deposito, quelle che si dedicano alla raccolta
di depositi al pubblico e al finanziamento delle famiglie e delle
imprese, Banche di investimento che operano a sostegno delle imprese
per le quali svolgono anche funzioni di consulenza, ed altri
intermediari finanziari controllati dalle banche ma distinti come i
fondi di investimento che sono parte di quello che è definito sistema
bancario ombra.
Le banche per approvvigionarsi di moneta si rifinanziano
presso le banche centrali alle quali e pagano un costo (tasso di
rifinanziamento) che influisce in maniera inversa sulla domanda di
liquidità
La Banca centrale europea fissa il tasso di rifinanziamento
delle operazioni settimanali (refi), il tasso marginale di prestito per le
marginal lending facility, con il quale vien fornita liquidità a
brevissimo termine il cambio di garanzie ed il tasso marginale di
deposito per la margin deposit facility relativo ai depositi a breve
termine. Questi tre tassi di interesse sono chiamati leading interest
rates, cioè tassi guida, perché regolano i tassi di mercato.

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Una banca può accedere alla liquidità sia dalla banca centrale
sia dal mercato interbancario. Allo stesso modo può cedere liquidità
sia ad altre banche sia alla banca centrale al tasso del marginal
deposit facility concorrendo in questo modo alla movimentazione del
mercato interbancario.

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4. LA BANCA CENTRALE EUROPEA

La Banca centrale europa BCE è un istituto di credito di scala


federale con una sua propria governance. L’Eurosistema è costituito
alla BCE e dalle 17 banche centrali, mentre il sistema europeo delle
banche centrali è costituito dalla BCE e da tutte le banche centrali.
Gli strumenti di politica monetaria adottati dalla BCE sono
costituiti da:
• Le riserve obbligatorie pari all’1% dei depositi a vista e di
quelli con meno di 2 anni;
• La marginal lending ( tasso alto) e la marginal deposit facility
(tasso negativo) e cioè le operazioni di prestito a brevissimo;
• Le operazioni principali di rifinanziamento settimanali (aste);
Gli strumenti di politica monetaria non convenzionali,
consistente in acquisti di attivi e titoli di stato sul mercato secondario
con l’obiettivo di salvaguardare la stabilità dei prezzi e l’efficacia della
trasmissione della politica monetaria, si suddividono in:
 Covered Bond Purchase Program e cioè obbligazioni
garantite
 Security Markets Programm, acquisti di titoli per
frenare l’aumento dello spreas nei paesi colpiti dalla
crisi del debito sovrano.

Le banche centrali dell’Eurozona possono intervenire con


finanziamento a proprio rischio a banche solvibili che non riescono a
rifinanziarsi sul mercato previa garanzie opportune.

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Giovanni Cannata “La politica monetaria”

Le banche centrali possono effettuare politiche di quantitative


easing con l’acquisto su larga scala di attività finanziarie e titoli di
stato a medio e lungo termine al fine di aumentare la massa
monetaria e diminuire i tassi di interesse
Il mercato interbancario può conoscere condizioni di blocco per
la presunzione di difficoltà di solvibilità o per previsioni di scarsa
liquidità in futuro.
Il tasso di rifinanziamento è un riferimento per i tassi di
interesse a breve termine, in relazione all’arbitraggio che fanno le
banche tra operazioni con la banca centrale e sul mercato
interbancario; il tasso di rifinanziamento influenza anche le
operazioni a lunga.
I tassi di interesse di cui si è detto sono tassi nominali e vanno
distinti dal tasso di interesse reale che si ottiene sottraendo il tasso
d’inflazione, che ovviamente è influenzato dalle aspettative sulle
stesse, dal tasso nominale.
Le ipotesi sulla solvibilità delle istituzioni creditizie
influenzano il mercato dei capitali; normalmente le banche si fanno
credito sul mercato interbancari. Esiste una sequenza di tassi
d’interesse legata alla scadenza. La Banca centrale fissa il tasso
giornaliero di riferimento delle operazioni.

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LA MONETA
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “La moneta”

Indice

1. DAL BARATTO ALLA MONETA ELETTRONICA --------------------------------------- 3


2. L'OFFERTA DI MONETA NEL SISTEMA CARTACEO INCONVERTIBILE ---- 13
3. LA MOLTIPLICAZIONE DEI DEPOSITI BANCARI ------------------------------------ 20
4. IL SISTEMA EUROPEO DELLE BANCHE CENTRALI -------------------------------- 24
5. IL VALORE DELLA MONETA E L'INFLAZIONE--------------------------------------- 31

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Salvatore Della Corte “La moneta”

1. DAL BARATTO ALLA MONETA ELETTRONICA

Nelle società primitive la moneta non esisteva. Lo scambio era


effettuato con il baratto. Si scambiavano merci contro merci: ad
esempio un agricoltore dava una certa quantità di frutta ad un
allevatore, per ottenere in cambio una certa quantità di polli. Il
baratto però è difficoltoso da attuare: perché possa avvenire un
baratto, infatti, occorrono due individui che intendano effettuare uno
scambio nello stesso momento e che dispongano ciascuno dei beni che
desidera l'altro. In alternativa uno dei due deve farsi carico di trovare
la merce che desidera l'altro.
Con il baratto, inoltre, moltissimi scambi non possono avvenire
a causa della indivisibilità e della deperibilità di molti beni.
Man mano che la società umana si è sviluppata, è nata la
divisione del lavoro, cioè la specializzazione nella produzione di alcuni
beni al fine di ottenere con lo scambio tutti gli altri beni.
Si è passati così dal baratto alla compravendita, in cui il
venditore vende una qualunque merce e il compratore paga
esclusivamente con una merce data, riconosciuta da tutti come mezzo
di scambio.
La prima merce usata come mezzo di pagamento negli scambi è
stato il bestiame. Presso gli antichi Romani la moneta era chiamata
pecunia, da “pecus”, che significa pecora, il bestiame più utilizzato
dagli antichi romani.
Innanzitutto il bestiame è abbastanza omogeneo e per gli
uomini di allora era facile riconoscere l'età e lo stato di un animale. Il
bestiame è anche utile in vai autonoma, perché, come dicevamo prima
produce lana, latte e carne. Ma il bestiame era scomodo da

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trasportare e soprattutto aveva una durata limitata nel tempo, non


poteva conservare il suo valore che per alcuni mesi o anni, sempre che
l'animale non si ammalasse.
Fu così che i Romani sostituirono il bestiame con i metalli
preziosi, in particolare l'oro e l'argento. Infatti l'oro e l'argento, a
differenza del bestiame sono inalterabili nel tempo, essi cioè si
conservano nel tempo senza alterarsi, addirittura l'oro e l'argento
hanno una durata pressoché infinita e possono essere ereditati dai
figli.
Inoltre i metalli preziosi erano più omogenei del bestiame, più
facilmente divisibili. Inoltre anche l'oro e l'argento sono utili, perché
possono essere utilizzati per fabbricare oggetti preziosi. L'oro e
l'argento sono più facilmente trasportabili del bestiame e immensi
valori possono essere concentrati in piccole dimensioni.
Siamo ora in grado di comprendere quali funzioni svolge la
moneta (la merce utilizzata per la compravendita):
• è intermediaria degli scambi
• è misura dei valori
• è mezzo di conservazione dei valori (mezzo di
trasferimento nel tempo)
• è mezzo di trasferimento nello spazio dei valori;
Queste caratteristiche della moneta spiegano perché i metalli
preziosi hanno sostituito il bestiame come moneta: sono molto più
efficienti nel trasferimento dei valori nello spazio, ma soprattutto nel
tempo, data l'inalterabilità degli stessi.
Come il lettore accorto avvertirà: l'esistenza stessa della
moneta è un fenomeno sociale, frutto di una convenzione sociale, che è
variato nel tempo.

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La descrizione del resto della storia della moneta renderà


ancora più chiaro questo aspetto.
Inizialmente l'oro e l'argento vennero utilizzati in lingotti sui
quali era apposto un timbro dell'autorità statale che garantiva il peso
e la percentuale di metallo prezioso all'interno della lega (questa
percentuale è definita tecnicamente titolo).
Successivamente vennero emesse le monete: era sempre
l'autorità statale a garantirne il peso e il titolo.
In seguito fu trovato un metodo ancora più efficiente per il
trasporto dei valori nello spazio e nel tempo: le monete d'oro furono
sostituite da biglietti di carta emessi dalle banche. Chi possedeva
questi biglietti di carta (definito portatore) aveva il diritto di ottenere
dalle banche, che avevano emesso il biglietto una determinata
quantità di oro o di argento.
Tale sistema è stato definito: monetario cartaceo con
cartamoneta convertibile.
Dopo una serie di bancarotte (il termine deriva dal fatto che
l'autorità rompeva il banco del banchiere incapace di restituire l'oro
dietro presentazione della cartamoneta) di alcune banche private, la
possibilità di emettere cartamoneta convertibile fu riservato
esclusivamente alla Banca centrale dei singoli principati o Stati.
I sistemi monetari fin qui descritti si chiamano:

• sistema mono metallico


• sistema bimetallico
• sistema cartaceo convertibile

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1) Nel sistema mono metallico hanno corso legale solo le


monete di un tipo di metallo prezioso. In questo sistema accade che il
metallo prezioso utilizzato come moneta ha due prezzi, quello stabilito
dal Governo (definito prezzo ufficiale) e quello cosiddetto di mercato,
quando cioè il metallo prezioso è acquistato e venduto per utilizzarlo
industrialmente.
In questo tipo di sistema monetario possono esserci problemi
quando i due prezzi sono diversi. Se però sono riconosciuti ai cittadini
il diritto di coniazione (trasformare il metallo prezioso in monete) e di
fusione (trasformare le monete in metallo per utilizzo industriale), i
due prezzi tendono sempre ad eguagliarsi dopo un po' di tempo,
perché i cittadini esercitano i loro diritto in caso di divergenze tra i
due prezzi e, dopo un po', si determina sempre l'eguaglianza tra i due
prezzi.
2) Nel sistema bimetallico circolano contemporaneamente
monete d'oro e monete d'argento. In questo sistema esiste la seguente
legge, nota come legge di Gresham:
«Quando in un sistema economico circolano
contemporaneamente due monete che hanno lo stesso valore legale,
ma diverso valore intrinseco, la moneta cattiva scaccia dalla
circolazione la moneta buona. Quest'ultima viene in parte
tesoreggiata e in parte fusa».
Per comprendere la legge dobbiamo capire cosa sia il valore
intrinseco e il valore legale.
Il primo si ottiene moltiplicando il metallo prezioso contenuto
nella moneta per il valore di mercato; il secondo moltiplicando il
metallo prezioso contenuto nella moneta per il prezzo ufficiale
stabilito dallo Stato.

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La moneta cattiva è quella che ha minor valore intrinseco e


quella buona è la moneta con il metallo prezioso più caro sul mercato
e quindi il maggior valore intrinseco.
Quando esiste un divario tra il prezzo legale e quello di mercato
dei metalli preziosi, la moneta buona viene tesaurizzata e viene
utilizzata quella cattiva.
Un fenomeno simile avviene in molte altre situazioni
economiche che esamineremo in dettaglio.
3) il sistema cartaceo convertibile è in tutto simile al sistema
mono metallico, perché anche in esso esistono il diritto di coniazione e
di fusione e pertanto esistono i medesimi meccanismi di equilibrio tra
il prezzo industriale e legale del minerale convertibile.
Il sistema bimetallico scomparì lentamente per l'azione della
legge di Gresham e definitivamente nel 1870. Dal 1870 alla prima
guerra mondiale ha funzionato un sistema di carta moneta
convertibile in oro (è il cosiddetto gold standard).
Quando la carta-moneta viene dichiarata inconvertibile, si ha
un sistema di corso legale o corso forzoso. In questo caso la quantità di
moneta in circolazione è determinata dalle autorità monetarie
(Governo e Banca centrale) indipendentemente dall'ammontare di oro
che quest'ultima possiede. In un sistema di tale tipo, la moneta non
ha alcun valore intrinseco, se non il valore del costo della stampa e del
trasporto dei biglietti.
Per impedire la bancarotta della propria Banca centrale, i
Governi devono però dichiarare l'inconvertibilità momentanea della
moneta cartacea, altrimenti la Banca centrale vedrebbe ridotte le
proprie riserve auree.

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Il sistema cartaceo durò fino alla prima guerra mondiale


appunto per questo: dopo la prima guerra mondiale, in tutti i Paesi
che avevano preso parte al conflitto, esisteva molta più moneta
cartacea rispetto a quella convertibile ed era anche imbarazzante
dichiarare eventuali nuovi coefficienti di convertibilità con l'oro.
Nel periodo tra le due guerre mondiali, in piena politica
neomercantilista di tutte le nazioni europee e dopo la crisi di Wall
Street, prese vita il sistema cartaceo inconvertibile.
Dopo la seconda guerra mondiale, nel mondo occidentale con
economia di mercato, prese vita un sistema che permetteva la
convertibilità delle monete nazionali con il dollaro, non più con l'oro,
ma anche questo sistema sarà abbandonato dopo la sconfitta degli
USA in Vietnam.
Il sistema cartaceo inconvertibile nasce dunque dopo la prima
guerra mondiale.
La tosatura delle monete e il sistema cartaceo inconvertibile
danno vita al fenomeno del cosiddetto “signoraggio bancario”, che il
premio nobel Krugman nel testo di economia internazionale scritto
con Obstfeld definisce il flusso di «risorse reali che un governo
guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi». E'
signoraggio bancario specificatamente l'eccesso tra l'acquisto e la
vendita di titoli di debito pubblico del Tesoro di un Paese da parte
della Banca centrale dello stesso Paese.
C'è da spiegare la nascita nel frattempo della moneta bancaria
dovuta ai mercanti moderni, che nel Rinascimento prendono a fare
affari non scambiandosi oro o moneta, ma documenti scritti.
A quell'epoca i mercanti andavano ancora in giro con i metalli
preziosi, come si faceva al tempo degli antichi romani. Trovando la

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cosa fortemente pericolosa ed insicura, i mercanti italiani iniziarono


a lasciare il proprio oro nei forzieri di custodi fidati e a scambiarsi tra
di loro testi scritti in cui si dava incarico al custode di pagare le
somme messe in deposito.
Era la nascita dell'assegno: la prima forma di moneta bancaria.
Colui che ha costituito un deposito in conto corrente, o colui che
riceve un prestito dalla banca, ottiene un libretto di assegni. Mediante
questi assegni il titolare del conto può effettuare i pagamenti.
L'assegno emesso dal nostro titolare del conto, a seconda che sia
trasferibile o non trasferibile, può passare da un individuo ad un
altro, finché qualcuno decide di portarlo finalmente in banca per
l'incasso. Si noti che nel il denaro in realtà restano nei forzieri del
custode e gli scambi sono avvenuti esclusivamente in base alla
fiducia. Questo significa che la compravendita è avvenuta non più in
cambio della moneta cartacea inconvertibile, ma in base all'assegno,
che è moneta bancaria.
Quando i custodi hanno imparato che il denaro rimanevano in
realtà nelle loro cassaforti e non venivano mai ritirati, hanno iniziato
a moltiplicare i depositi reali posseduti, come vedremo poi meglio.
Esistono inoltre tutta una serie di strumenti analoghi:
• la cambiale commerciale. Essa è una promessa di
pagamento di un privato ad un altro: è previsto che il soggetto che la
sottoscrive pagherà la somma di danaro all'altro privato entro un
certo termine. La banca in questo caso, se richiesta, interviene
anticipando la somma al beneficiario della cambiale: infatti colui che
riceve la cambiale, se non vuol attendere il pagamento della somma,
può fare usarla per effettuare altri pagamenti, dandola ad un terzo
individuo, (questa operazione si chiama girata) , ovvero darla ad una

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banca in garanzia di un prestito, in cambio di un tasso da riconoscere


alla banca. Questa operazione si chiama sconto. Se alla scadenza la
cambiale sarà onorata, andrà tutto bene, altrimenti il cliente della
banca dovrà comunque provvedere a restituire la somma alla banca e
tentare di recuperarla dal suo debitore.
• L'assegno circolare. Un individuo può trasferire ad una
banca una certa somma ed ottenere in cambio un assegno circolare.
Questo quindi è sempre coperto dalla corrispondente somma di
danaro, mentre l'assegno bancario potrebbe essere scoperto, essere
cioè stato emesso senza la corrispondente copertura.
• La carta di credito, è un documento (oggi elettronico),
emesso da una banca, che garantisce il credito all'intestatario e con
cui egli può comprare merci e servizi. I fornitori invieranno il conto
intestato all'individuo presso la banca che ha emesso la carta di
credito. La banca preleverà dal deposito del cliente la somma
necessaria e pagherà, per conto dell'individuo suo cliente, i negozi, gli
alberghi, ecc. La banca effettuerà sempre i pagamenti anche se le
somme non sono disponibili sul conto corrente e questa circostanza
spiega perché tutti gli esercizi commerciali accettino i pagamenti
effettuati attraverso la carta di credito.
• La moneta elettronica. Il moderno sviluppo tecnologico
consente di inoltrare via internet ordini di addebito o il pagamento di
tasse, bollette. La Banca, una volta ricevuto l'ordine provvede.
Gli assegni bancari, grazie al progresso tecnologico, sono stati
sostituiti da strumenti molto più efficienti e rapidi, ma il concetto non
cambia: la carta-moneta non convertibile resta nei depositi della
banca e gli operatori effettuano transazioni con degli ordini di
pagamento presso il conto corrente bancario.

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Gli strumenti sopra descritti sono quelli tipici delle banche a


breve termine.
In realtà in Italia, nel campo delle aziende di credito, fino alla
grande crisi del 1929, prevalse il modello della banca mista che può
erogare sia prestiti a breve termine (entro i 18 mesi) sia prestiti a
lungo termine (oltre i cinque anni).
Questo sistema svolse un ruolo importante nel finanziamento
dello sviluppo industriale italiano tra la fine dell'Ottocento e gli inizi
del Novecento, ma mostrò i suoi limiti in occasione della grande crisi.
Difronte alla crisi economica, dal momento che le Banche
avevano finanziato le imprese a lungo termine, esse si mostrarono più
interessate all'andamento dell'impresa affidata, erogando ulteriori
prestiti, che non a tutelare gli interessi dei risparmiatori che avevano
depositato i loro soldi in banca.
Di fatto, dopo la crisi del 1929, il fallimento delle grandi
imprese coinvolse anche le banche maggiori. Per evitare il fallimento
delle principali banche, le azioni di imprese possedute dalle banche
vennero trasferite ad un apposito istituto creato nel 1933, l'Istituto
per la ricostruzione italiana (IRI).
La legge bancaria del 1936, per evitare il pericolo in cui erano
incorse le cosiddette Banche universali creò due tipi di banche:
 le banche di credito ordinario, che erogavano esclusivamente
prestiti entro i 18 mesi e si finanziavano mediante i depositi
dei risparmiatori.
 Gli Istituti di credito speciali, specializzati nei prestiti di medio
e lungo termine che si sarebbero finanziati emettendo
obbligazioni sia sul mercato nazionale che su quello

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internazionale, ricevendo prestiti in conto corrente dalle


banche ordinarie e mediante fondi forniti dallo Stato.
Tale modello è rimasto in vigore fino al 1993.
Ma anche questo modello mostrava i suoi limiti, perché rendeva
molto arduo in Italia il finanziamento di nuove imprese, dal momento
che era molto difficile per nuovi imprenditori raccogliere fondi a
medio e lungo termine per nuove iniziative economiche.
Nell'ambito del processo di armonizzazione europea,
l'ordinamento bancario italiano è stato ampiamente riformato nel
1994.
Tuttavia con la riforma è tornato a prevalere il modello della
Banca Universale. Per evitare che si ripetano gli errori che hanno
portato alla crisi del 1929, però, è stato posto il divieto a qualunque
impresa industriale di possedere una quota di azioni di una Banca
superiore al 15% del capitale e l'obbligo di preventiva autorizzazione
da parte della Banca d'Italia per acquisire partecipazioni uguali o
superiori al 5%.
In conclusione nelle economie moderne le funzioni della moneta
vengono esplicate non solo dalle monete metalliche e dalla
cartamoneta non convertibile, ma anche da altri mezzi di pagamento,
legati al sistema bancario, strumenti che costituiscono tutti insieme la
moneta bancaria.
Questa circostanza è molto importante per comprendere la
politica monetaria e il suo attuale funzionamento, che dipende anche
dalle leggi che regolano l'attività stessa delle banche.

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2. L'OFFERTA DI MONETA NEL SISTEMA


CARTACEO INCONVERTIBILE

Ci si chiede con quali criteri e con quali meccanismi la Banca


centrale emette moneta cartacea non convertibile se non c'è alcun
ancoraggio ad un bene reale , armenti o metalli preziosi che sia.
I criteri con cui la Banca di emissione o Banca centrale del
sistema economico emette moneta cartacea non convertibile, sono
criteri di politica economica e saranno studiati in una successiva
lezione; in ogni caso deve risultare chiaro che la moneta in un sistema
cartaceo inconvertibile è uno strumento essenziale per il
funzionamento dell'economia e spetta alla Banca centrale regolarne la
quantità in circolazione, attraverso l'emissione di moneta a fronte
della quale vengono acquistati titoli, per lo più di stato (BOT, CCT,
ecc) o bancari. Nel decidere la quantità di moneta in circolazione le
autorità monetarie guardano all'andamento generale dell'economia.
Per comprendere e studiare i meccanismi con cui la Banca di
emissione crea moneta dobbiamo comprendere i seguenti principi:
• tutte le volte che si ha passaggio di moneta dalla Banca
centrale ad un qualunque altro soggetto (Tesoro, banche, privati, ecc.),
si ha creazione di moneta per il sistema economico, cioè aumento della
quantità di moneta in circolazione.
• quando si ha passaggio di moneta da qualunque soggetto
alla Banca centrale, si ha distruzione di moneta, cioè diminuisce la
quantità di moneta in circolazione.
In sintesi la moneta che è nella Banca centrale (o di emissione)
è fuori dal sistema economico ed entra nel sistema economico solo
quando passa dalla Banca centrale ad un altro soggetto.

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Salvatore Della Corte “La moneta”

Quando la Banca d'Italia presta moneta ad una Banca


commerciale, si ha creazione di moneta. La Banca commerciale userà
questa moneta per i più svariati scopi: pagare gli stipendi dei propri
dipendenti, acquistare titoli del Tesoro di un governo, effettuare
prestiti etc.
Per lo stesso principio secondo cui la moneta che è nella Banca
centrale è fuori dal sistema economico, possiamo affermare che,
quando la Banca commerciale restituisce il prestito alla Banca
centrale (che gliela aveva prestata), si ha distruzione di moneta.
Non si ha distruzione o creazione di moneta quando si ha un
passaggio di moneta da un soggetto a un altro soggetto, e nessuno dei
due è la Banca centrale. In questo caso non si ha né creazione né
distruzione di moneta, e quindi la quantità di moneta cartacea in
circolazione nel sistema economico resta invariata,
Ciò significa che il prestito della Banca centrale ad una Banca o
al Tesoro di un Paese (lì dove è consentita questa pratica) è creazione
di moneta, quando una banca ordinaria presta invece del denaro a
un'impresa, non si ha né creazione né distruzione di moneta, perché
nessuno dei due soggetti (banca e impresa) è la Banca centrale.
Compreso questo concetto fondamentale possiamo descrivere i
canali attraverso cui la moneta viene immessa nel sistema economico.
I principali canali sono quattro: a) i rapporti Banca centrale-
sistema bancario; b) la bilancia dei pagamenti; c) le operazioni di
mercato aperto; d) i rapporti Banca centrale-Tesoro;
L'ordine così delineato vale per i Paesi dell'area euro, che
hanno vietato il prestito diretto della Banca centrale Europea ai Paesi
aderenti alla moneta unica, per cui il canale d) attualmente non
esiste. Per i Paesi con sovranità monetaria come USA o Gran

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Bretagna, o Giappone o Russia, solo per fare alcuni esempi, il primo


canale è il rapporto tra la Banca centrale e il Tesoro. Niente esclude
che lo sviluppo storico futuro porti ad una vera integrazione politica
delle nazioni europee e al superamento dell'attuale fase delle nazioni
e dell'unione tra nazioni. In questo caso un parlamento ed un governo
europeo potrebbero rivedere i rapporti tra Banca centrale e Tesoro
europeo.
Questo si potrà effettuare solo se si supererà l'attuale visione
nazionalistica, soprattutto tedesca, e se ci sarà un superamento di
tutti i governi e i parlamenti nazionali.
Il primo canale è costituito dai rapporti tra il sistema europeo
delle Banche centrali e il sistema bancario italiano.
Questi rapporti si concretizzano in diverse operazioni,
attraverso cui la Banca centrale dà dei finanziamenti alle banche
ordinarie, in cambio di garanzie:
• Attualmente il canale realmente utilizzato sono i prestiti
che la Banca centrale può concedere alle banche ordinarie. Questi
prestiti vengono chiamati anticipazioni e il tasso a cui vengono
concessi tasso di riferimento. Queste a loro volta fanno prestiti ai loro
clienti. È chiaro che le anticipazioni della Banca centrale europea alle
banche ordinarie italiane consistono in un passaggio di moneta dalla
prima alle seconde, e quindi determineranno creazione di moneta.
• Un'altra operazione tra Banca centrale europea e le
banche ordinarie sarebbe in linea teorica costituita dal risconto delle
cambiali, ma questo strumento è caduto quasi del tutto in disuso.
Come funzionerebbe. Consideriamo un cittadino italiano o, meglio un
impresa italiana che ha una cambiale o un effetto che scade fra tre
mesi. Questa impresa vanta cioè un credito nei confronti di un altro

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Salvatore Della Corte “La moneta”

soggetto, ma tale credito è esigibile fra tre mesi. Egli porta la


cambiale ad una banca, la quale gli darà una somma equivalente
meno una parte, trattenuta dalla banca stessa. Questa prima
operazione, tra l'impresa e la banca, come sappiamo, si chiama sconto
e il tasso a cui viene compiuta tasso di sconto. Queste operazioni
avvengono quotidianamente. Quello che invece non accade più e che
un tempo era molto frequente è l'operazione cosiddetta di risconto.
Come gli operatori economici scontano le cambiali presso le banche
ordinarie, così queste possono scontare presso la Banca centrale.
L'operazione è identica, solo che, quando avviene tra una banca
ordinaria e la Banca centrale, prende il nome di operazione di
risconto, e il tasso a cui l'operazione è compiuta si chiama saggio di
risconto o saggio ufficiale di sconto, a differenza di quello praticato
dalle banche ordinarie ai clienti, che né il saggio libero di sconto.
Anche attraverso le operazioni di risconto la Banca centrale crea
moneta, in quanto dà moneta alle banche ordinarie, in cambio di
cambiali.
La seconda via attraverso cui la moneta viene immessa nel
sistema economico è costituita dalla bilancia dei pagamenti. Ad
esempio un italiano che esporta merci all'estero (fuori Europa) viene
pagato in valuta straniera, normalmente dollari. Egli consegna poi
questi dollari alla propria Banca, questa Banca può venderli al
sistema delle Banche centrali europee, che gli dà in cambio euro.
Questa operazione determina passaggio di moneta (cioè di euro) dalla
Banca centrale Europea ad un altro soggetto, e quindi creazione di
moneta. Lo stesso effetto ha l'acquisto di un buono del Tesoro italiano
da parte di un cittadino non europeo. il Tesoro in questo caso riceve
dal cittadino straniero valuta estera che cede alla Banca centrale

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europea in cambio di euro. Le importazioni invece danno luogo a


distruzione di moneta. Infatti un italiano che importa beni dall'estero
deve pagarli in dollari e, per ottenere dollari dal sistema bancario
europeo, deve dare a quest'ultimo euro, che vengono così sottratte alla
circolazione.
Fino al 1990, in Italia L'UIC era l'organo di controllo del
mercato valutario, e ad esso riservato, in regime di monopolio il
«commercio delle divise e di qualsiasi altro mezzo che possa servire
per pagamenti all'estero, in tutte le possibili forme».
Tali competenze però sono state di fatto soppresse dal processo
di liberalizzazione valutaria, che ha portato ad una completa
abolizione di tutte le restrizioni in precedenza esistenti in materia di
movimenti di valute: per questo motivo il monopolio dei cambi in
precedenza detenuto dall'UIC è da intendersi abolito e le funzioni di
quest'organo sono ora limitate alla gestione delle riserve ufficiali in
valuta e alla raccolta delle informazioni per l'elaborazione delle
statistiche sulla bilancia dei pagamenti e sulla posizione patrimoniale
verso l'estero.
Il terzo canale di creazione della moneta è costituito dalle
cosiddette operazioni di mercato aperto da parte delle Banche
centrali aderenti al sistema europeo delle Banche centrali.
In buona sostanza, l'acquisto o la vendita di obbligazioni da
parte della Banca centrale in genere nel breve termine. Il meccanismo
è il seguente: quando la Banca centrale europea acquista obbligazioni
dai privati, dà loro in cambio moneta, e quindi immette moneta nel
sistema economico, cioè crea moneta. Quando vende obbligazioni ai
privati, riceve da loro in cambio moneta, e quindi ritira moneta dal
sistema, cioè la distrugge.

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Si tratta di uno strumento efficacissimo, ma anche questo


messo in discussione attualmente nell'Unione europea. Il problema è
che i Paesi più ricchi non vogliono che la BCE acquisti titoli degli
Stati più poveri e indebitati per stabilizzare il tasso di questi, almeno
fino a quando non avranno garanzie certe che i debiti dei Paesi poveri
non continuino a far crescere il proprio debito. Il timore dei Paesi più
ricchi è che la BCE si trovi li portafogli pieno di titoli che valgano poco
e i cittadini delle loro nazioni ricche debbano pagare i debiti dei
cittadini delle nazioni più povere e indebitate. Si è tentato di ovviare a
questo cercando di emettere titoli europei e non più nazionali, ma
ancora una volta i Paesi più ricchi, in particolare la Germania
riunificata, si sono opposti, perché vogliono certezze sulle politiche
del debito delle altre nazioni. Tale strumento sarà difficilmente
utilizzabile in modo totale finché esisteranno politiche economiche
nazionali distinte.
In un economia con sovranità monetaria e signoraggio
bancario, il principale canale di creazione della moneta è costituito
dai finanziamenti della Banca centrale al Tesoro. E' il caso degli USA,
ad esempio, o del Giappone. Occorre far presente che le spese dello
Stato (stipendi degli impiegati pubblici, somme che lo Stato deve
pagare a imprese che hanno realizzato opere pubbliche, ecc.) vengono
pagate da un apposito organo, il Tesoro che può finanziare la parte
non coperta dalle entrate tributarie in diversi modi: può ad esempio
emettere buoni del Tesoro e col ricavato finanziare le spese. Se tali
buoni vengono acquistati da privati cittadini o da imprese, ciò
evidentemente non determina un aumento della quantità di moneta
in circolazione, ma solo un trasferimento di essa da questi soggetti al
Tesoro. Se invece i buoni del Tesoro vengono acquistati dalla Banca

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centrale, si ha un passaggio di moneta dalla Banca centrale al Tesoro,


per cui l'operazione si tradurrà in un aumento della quantità di
moneta in circolazione. In questo periodo, come abbiamo già detto,
nei Paesi dell'Unione Europea, e quindi anche in Italia, tale canale
non viene utilizzato, perché il Trattato di Maastricht fa esplicito
divieto di usarlo. Lo Stato italiano quindi emette i titoli del debito
pubblico, ma questi possono essere acquistati solo da privati e dalle
Banche commerciali. Solo queste ultime hanno diritto di finanziarsi
presso la Banca centrale europea e di lucrare la differenza tra il tasso
di riferimento e il tasso di mercato dei titoli.

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3. LA MOLTIPLICAZIONE DEI DEPOSITI BANCARI

Le banche ordinarie, a differenza delle banche di emissione,


non hanno la capacità di creare moneta, però possono moltiplicarla.
Tale processo di moltiplicazione può essere facilmente illustrato
nel modo seguente.
Immaginiamo che esista una sola banca e che il banchiere che
la dirige si sia imposto di trattenere a riserva per eventuali richieste
dei suoi clienti una quota dei depositi dei clienti, mentre decida di
prestare la parte rimanente dei depositi.
Il banchiere, anche utilizzando questa precauzione, è
consapevole di un grosso rischio: se tutti i depositanti si presentassero
contemporaneamente a chiedere la restituzione dei propri valori, la
banca non sarebbe in grado di restituire loro il denaro depositato,
perché esso non è nelle casse. Egli confida che ciò non accada: che la
gente si scambi ordini di pagamento e non moneta cartacea.
Un deposito iniziale può creare tutta una serie di depositi
successivi. La realtà ovviamente è ben più complessa.
La legge che impone alle banche di trattenere una quota dei
depositi dei clienti e gli ispettori della Banca centrale, per essere
sicuri che questo realmente accada, impongono di versare la riserva
obbligatoria presso la Banca centrale, mentre lasciano alle banche la
facoltà di prestare la parte rimanente dei depositi.
I sistemi bancari inoltre impongono alle singole banche di
ancorare il volume dei prestiti al capitale sociale della Banca piuttosto
che ai valori dei depositi.
Per ogni prestito, a seconda del rischio insito nel prestito, viene
prescritto un patrimonio di garanzia.

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Se le cose per la singola banca, soprattutto se piccola, sono


molto complicate, per il sistema bancario nel suo complesso possiamo
in prima approssimazione considerare l'incidenza della riserva
obbligatoria sul volume complessivo dei depositi nel seguente modo.
Ipotizziamo che la Banca centrale obblighi le Banche ordinarie
ad una riserva obbligatoria del 20%
I deposi totali del sistema bancario sono dati dai depositi
originari + quelli indotti.

Formalmente:

D=B+Z (1)

in cui:
D = depositi totali
B = depositi originari
Z = depositi indotti

Se supponiamo, per semplificare e come ipotesi di scuola, che


tutti i crediti concessi dalle banche si trasformino in depositi indotti,
possiamo scrivere

Z=zD (2)

in cui z = 1 – q

infatti, se ipotizziamo che tutti i crediti erogati dalle banche si


trasformano in depositi indotti, allora è anche vero che tutti i depositi

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indotti sono pari ai crediti concessi dalle banche. Questi, a loro volta
sono una frazione di quelli totali D. Precisamente sono la frazione una
volta trattenuta di volta in volta la percentuale di riserva
obbligatoria.

Se sostituiamo la (2) nella (1) otteniamo:

D=B+zD (3)

da cui

D–zD =B (4)

e quindi

D (1 – z) = B (5)

per cui infine

D = B 1/ (1-z) (6)

ricordando che (1 – z) = q

la (6) può essere anche scritta

D = B • 1/q

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Ad esempio, se ipotizziamo che q (riserva obbligatoria) sia 20%


e i depositi originari siano pari a 100 miliardi di euro, i depositi totali
saranno pari a 500 miliardi.

A questo punto abbiamo compreso tre questioni fondamentali


relativa alla moneta:
1. la Banca centrale è l'unica che crea moneta e, da quando
il sistema monetario è a moneta cartacea inconvertibile, la Banca
centrale emette moneta in modo discrezionale secondo obiettivi di
politica economica.
2. Le banche ordinarie sono in grado di moltiplicare i
depositi originari. Questa capacità di moltiplicare i depositi originari
è sottoposto alla vigilanza della Banca centrale, che la controlla
innanzitutto con lo strumento della riserva obbligatoria e inoltre con
una serie di altri strumenti che vedremo in seguito. La
moltiplicazione dei depositi bancari dipende dall'andamento generale
dell'economia, dalla politica delle banche e dalla domanda di
finanziamenti da parte degli operatori economici.
3. La Banca centrale controlla sia l'emissione di nuova
moneta nel circuito economico, sia il coefficiente di riserva
obbligatoria e quindi la capacità di moltiplicare i depositi proprio delle
banche ordinarie e con questo strumento controlla l'ammontare
complessivo dei depositi e della moneta bancaria in circolazione.

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4. IL SISTEMA EUROPEO DELLE BANCHE


CENTRALI

In Europa, in passato, la funzione di emettere moneta era


affidata alle Banche centrali nazionali. Esse avevano provveduto nel
tempo a centralizzare l'emissione di moneta delle loro nazioni, che
storicamente era stata effettuata da una serie di banche di emissione
locali, le quali spesso svolgevano anche delle operazioni tipiche delle
banche ordinarie.
La necessità di dare un indirizzo unitario alla politica
monetaria nazionale aveva infatti determinato la concentrazione di
questa funzione nelle mani di un unico istituto nazionale per ogni
Paese europeo.
In Italia, la storia dell'istituto centrale ha caratteristiche
analoghe a quelle di altri Paesi europei. Nel 1861, al momento della
conquista piemontese delle altre regioni italiane, che va sotto il nome
di unificazione, esistevano sei banche di emissione, che svolgevano
anche normale attività bancaria. Con un provvedimento legislativo,
nel 1893 le banche di emissione vennero ridotte a tre, che operavano
in stretto coordinamento tra di loro, secondo il modello attualmente
ancora vigente negli USA, ma non quello vigente attualmente in
Europa, perché la Banca centrale era sotto controllo dell'autorità
politica.
Nel 1926, durante il periodo fascista, l'attività di Banca
centrale venne affidata in via esclusiva alla sola Banca d'Italia. In un
primo momento essa continuò a svolgere la normale attività bancaria,
accanto alle funzioni di vigilanza sull'attività delle altre banche.

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Successivamente cessò di svolgere le attività delle banche ordinarie e


divenne solo banca di emissione.
Nel 1926 la Banca d'Italia era ancora una società privata di
capitali (cioè una società per azioni). Nel marzo del 1936, in seguito
all'emanazione della nuova legge bancaria e alla nazionalizzazione del
sistema bancario, (fallito in seguito alla crisi globale del 1929), la
Banca d'Italia venne dichiarata istituto di diritto pubblico, e il suo
capitale venne ripartito tra numerosi istituti di credito e di
assicurazione, ormai divenuti pubblici, definiti partecipanti (e non più
soci).
In seguito alla riforma bancaria del 1994 e alla privatizzazione
delle banche, oggi assistiamo alla contraddizione di società private,
che sono partecipanti della Banca d'Italia, per altro verso Istituto di
Diritto pubblico.
La Banca d'Italia è un istituto di diritto pubblico, come stabilito
dalla legge bancaria del 1936, ribadita anche da una sentenza della
Corte Suprema di Cassazione. Le quote di partecipazione al suo
capitale sono per il 94,33% di proprietà di banche e assicurazioni
private, e sono i proprietari (chiamati partecipanti) che esprimono il
Consiglio superiore della Banca d’Italia. Organi della Banca d’Italia
sono: l'assemblea dei partecipanti (i partecipanti, cioè le banche e le
assicurazioni). Questo organo elegge, presso ciascuna delle 13 Sede
regionali, i componenti del Consiglio Superiore della Banca d'Italia ed
approva il bilancio dell'Istituto. Il Consiglio Superiore: esprime un
parere sulla nomina e revoca del Governatore e su proposta del
Governatore, nomina e revoca gli altri membri del Direttorio; tali
provvedimenti sono nella prassi ratificati da un Decreto del
Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio

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dei ministri; il Direttorio svolge funzioni amministrative, di vigilanza


e controllo sull'andamento della gestione; interviene in merito
all'attività di vigilanza, all'operato dei servizi e delle filiali. In sintesi,
gli azionisti della Banca d’Italia nominano il Consiglio Superiore della
Banca d’Italia. Questo organismo designa il Direttorio e, laddove
possibile, il Governatore. Il Governo, unica espressione della volontà
popolare, per prassi consolidata, ratifica quasi sempre le designazioni
del Consiglio Superiore.
Tutto ciò pone notevoli problemi rispetto alla democrazia del
processo di decisione di Politica Monetaria, soprattutto se si considera
che, a partire dal 1994 è stata introdotta l'autonomia della Banca
centrale dal potere esecutivo.
Un tempo tale autonomia non esisteva e la Banca d'Italia
doveva curare l'esecuzione delle delibere dell'organo a cui era
demandata la gestione della politica monetaria. Tale organo si
chiamava Comitato interministeriale per il credito e il risparmio: ad
esso partecipavano i ministri che avevano competenza su questioni
economiche.
In ogni caso, al di là delle attuali problematiche riguardanti la
governance della Banca d'Italia è importante descrivere i passaggi che
hanno condotto, a partire dal 1990, a raggiungere l'unione monetaria
europea e l'adozione dell'Euro da parte dell'Italia.

Il processo ha avuto tre passaggi fondamentali:

 dal 1990 è stata stabilita:


◦ la completa libertà di circolazione dei capitali tra i Paesi
all'interno dell'Unione europea;

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◦ il rafforzamento della cooperazione fra le banche centrali;


◦ il libero utilizzo dell’ECU (Unità di conto europea,
sostituito in seguito dall’euro);
◦ il miglioramento della convergenza economica
 dal 1994 è stato stabilito:
◦ il divieto di finanziare il Tesoro dei rispettivi Paesi da
parte delle Banche centrali nazionali;
◦ il distacco e l'autonomia delle Banche centrali dai
legittimi Governi nazionali
 dal 1999:
◦ sono stati stabiliti i tassi di conversione delle monete ;
◦ la conduzione della Politica monetaria unica da parte del
Sistema europeo di banche centrali;
◦ l'introduzione dell'Euro.
Il Sistema europeo delle banche centrali comprende, a norma
dell'articolo 107 (ex art. 106) del trattato che istituisce la Comunità
europea, la Banca centrale europea e le banche centrali nazionali dei
27 stati membri dell'Unione europea a prescindere dall'adozione della
moneta unica; solo i governatori delle banche nazionali dei paesi
appartenenti all'euro zona, però, prendono parte al processo
decisionale ed attuativo della politica monetaria della BCE: il
cosiddetto euro sistema è infatti composto dalla BCE e dalle banche
centrali nazionali dei paesi che hanno introdotto la moneta unica.
Le banche centrali nazionali dei paesi al di fuori della "zona
euro" sono invece abilitate a condurre una politica monetaria
nazionale autonoma.
Dunque, a partire dal 2000 si è deciso di dare un indirizzo
unitario alla politica monetaria dell'intera Europa e la funzione di

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Banca di emissione è stata affidata al Sistema europeo delle Banche


centrali. Solo la Banca centrale europea ha il diritto di autorizzare le
banche centrali del sistema ad emettere banconote all'interno
dell'area dell'euro.
Organi della Banca centrale europea sono:
 Il Presidente;
 il Comitato esecutivo;
 il Consiglio direttivo;
 il Consiglio generale
Il Presidente e il Comitato esecutivo (composto dal Presidente,
dal vicepresidente e da altri 4 membri) sono nominati dal Consiglio
Europeo su designazione della Commissione dell'Unione europea,
sentito il parlamento europeo e il Consiglio direttivo della BCE.
Il Consiglio direttivo è composto dal Comitato esecutivo e dai
rappresentanti delle Banche centrali aderenti all'euro. E' il Consiglio
direttivo a stabilire la politica monetaria dell'euro.
Il Consiglio generale è composto da Presidente e Vicepresidente
della Banca centrale e dai governatori delle Banche centrali europee
dei 27 paesi aderenti, incluse le Banche centrali, come la Banca
d'Inghilterra, non aderenti all'euro.
Il sistema europeo delle banche centrali affida attualmente alle
Banche centrali dei singoli Paesi aderenti all'euro zona le funzioni di
controllo e di coordinamento sugli istituti di credito nazionali.
L'idea di poter avere una politica monetaria europea unitaria
senza una corrispondente politica fiscale e del debito pubblico unitaria
e, più in generale, una vera e propria politica economica unitaria, si
sta mostrando fallimentare.

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Gli Stati Uniti d'America, la Gran Bretagna, il Giappone


rappresentano invece Stati a sovranità monetaria. In questi Paesi, le
banche centrali, nel decidere la quantità di moneta da creare,
normalmente si adeguano agli indirizzi che dà loro il Governo. Le
Banche centrali hanno anche in questi Paesi un margine di
autonomia nelle decisioni, che in taluni casi è più ampio e in altri
meno, ma mai l'autonomia completa.
Nel caso del sistema europeo delle banche centrali, tale
autonomia è invece totale, proprio perché non esiste un governo
politico eletto democraticamente da tutti i cittadini europei, ma
soltanto un Consiglio europeo e una Commissione dell'Unione, dove i
veti incrociati delle varie Nazioni europee, non permettono una vera
politica unitaria.
Come dicevamo questa realtà pone gravi e non risolte questioni
politiche.
Esistono profonde differenze tra una Banca centrale come la
Federal reserve statunitense e l'attuale Sistema europeo delle Banche
centrali.
La prima ha tutti i canali di creazione di moneta, mentre
l'attività della Banca centrale europea è molto limitata al confronto.
Essa opera essenzialmente: operazioni sul mercato aperto di breve
termine, operazioni su richiesta del sistema bancario per la gestione
giornaliera della liquidità, modifica del coefficiente della riserva
obbligatoria.
In seguito alla crisi economica mondiale del 2008, la BCE è
stata costretta ad assumere un ruolo più interventista.
A partire dall'otto dicembre 2011, la Banca centrale Europea ha
applicato due misure straordinarie:

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 in due diversi momenti ha stanziato fondi a favore delle Banche


europee per un totale ad oggi di oltre 1000 miliardi di euro,
tramite aste a tasso fisso ed a piena aggiudicazione, con
scadenza a 36 mesi, invece dell'usuale settimana.
 Ha ridotto, dal 2% al' '1% e a titolo temporaneo, il coefficiente
di riserva obbligatoria

Le manovre non hanno avuto gli effetti sperati per la semplice


ragione che la crisi sarebbe superata solo nel momento in cui la Banca
centrale europea potesse agire come una normale Banca centrale ed
acquistare i titoli direttamente dagli Stati, esattamente ciò che è
proibito dagli attuali regolamenti e non sarà possibile senza un
Governo unitario europeo, espressione di tutti i popoli europei.

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5. IL VALORE DELLA MONETA E L'INFLAZIONE

Il valore della moneta quindi è eguale al reciproco del livello


generale dei prezzi.
In termini formali possiamo scrivere:
Vm = 1 / P
dove P è appunto il livello generale dei prezzi
Per calcolare esattamente il livello generale dei prezzi è
fondamentale distinguere i prezzi dei beni che hanno un'importanza
maggiore, dai prezzi dei beni meno acquistati. Per tener conto di ciò
non è sufficiente procedere con la media aritmetica semplice, ma è
necessario pesare (tecnicamente si dice ponderare) i prezzi dei beni,
dando a ciascuno di essi il giusto peso.
Non bisogna dunque confondere un incremento di prezzo
relativo (in confronto alle altre merci) di una singola merce, con
l'aumento generalizzato dei prezzi dei beni. Soltanto se la media dei
prezzi di tutti i beni raddoppia, allora il potere di acquisto della
moneta si dimezza.
In generale, considerando tutti i beni, possiamo dire che, se i
prezzi di tutte le merci (o il livello generale dei prezzi) raddoppiano, il
potere d'acquisto della moneta si dimezza. Infatti, se si verifica
questa circostanza, con una data quantità di moneta posso acquistare
di ciascun bene la metà di quanto acquistavo prima.
Occorre ricordare che i prezzi dei beni normalmente non
aumentano tutti alla stessa velocità: i prezzi di alcuni beni
aumentano rapidamente; i prezzi di altri beni meno rapidamente,
altri per niente.

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coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
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A prima vista si potrebbe pensare di esprimere l'aumento del


livello generale dei prezzi come una media aritmetica semplice degli
aumenti dei prezzi dei singoli beni, ma, calcolare in questo modo
l'incremento del livello generale dei prezzi è sbagliato, perché, come
abbiamo visto prima, occorre ponderare i beni tenendo conto del loro
peso nel paniere dell'economia di un determinato Paese.
La rilevazione dei prezzi è in realtà molto elaborata, come la
ricerca delle giuste ponderazioni e la scelta dei pesi, che, entro certi
limiti, è sempre in parte arbitraria e questi problemi sono studiati
dagli statistici.
L'aumento del livello generale dei prezzi, può dunque essere
espresso come una media ponderata degli aumenti dei prezzi di tutti i
beni, in cui i beni più importanti hanno peso maggiore e i beni meno
importanti peso minore.
In conclusione, ponderando gli aumenti dei prezzi dei beni in
un economia in un determinato momento si può esprimere con un solo
numero l'aumento di migliaia di prezzi, cioè il livello generale dei
prezzi, e il suo inverso, cioè la perdita di capacità di acquisto della
moneta.
La domanda che dobbiamo porci a questo punto è se l'inflazione
sia un fenomeno positivo o negativo e cosa rappresenti esattamente
da un punto di vista concreto.
Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto
comprendere a cosa serve il sistema dei prezzi in un'economia non
pianificata o di mercato. Il sistema dei prezzi in un'economia di
mercato consente di assicurare l'efficienza economica del sistema. Il
sistema dei prezzi relativi infatti segnala la scarsità relativa dei beni
come dei fattori produttivi.

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L'inflazione distorce il sistema dei prezzi relativi in 3 modi:

 altera il meccanismo di trasmissione dei valori tra i mercati dei


diversi beni di uno stesso mercato;
 altera la trasmissione dei valori nel tempo:
 altera la trasmissione dei valori tra diverse economie
Esaminiamo in dettaglio le singole alterazioni:
 Trasmissione dei valori tra i mercati:
quando si assiste ad un fenomeno inflazionistico, infatti, viene
scardinato il sistema dei prezzi relativi per ragioni che non dipendono
da mutamenti nella loro scarsità. In particolare, nel mercato del
lavoro, vendono danneggiati i percettori di redditi fissi, stipendiati e
pensionati e avvantaggia i percettori di redditi variabili. Inoltre
l'inflazione erode il saggio di interesse, quando non esistano clausole
che prevedano l'indicizzazione dello stesso all'inflazione.
 Trasmissione dei valori nel tempo.
Quando abbiamo descritto le funzioni della moneta, abbiamo
detto che una delle sue funzioni è quella di conservare il valore nel
tempo e trasferire un valore dal tempo T al tempo t + 1. Dal momento
che l'inflazione è per definizione la perdita di valore della moneta
rispetto ai beni, essa corrompe la ricchezza accumulata in forma
monetaria e rivaluta la ricchezza nella forma di beni reali.
 Trasmissione dei valori tra diverse economie.
A meno che l'inflazione non venga accompagnata dalla
svalutazione della moneta, l'aumento generalizzato dei prezzi rende
meno competitiva un'economia in confronto alle altre.
La maggior parte degli economisti, considerano l'inflazione
come un flagello che può colpire l'economia, come il risultato di

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politiche con le quali i cittadini vengono privati di una parte del loro
potere d'acquisto, senza che questa grave decisione sia assunta in
modo trasparente e, nelle democrazie, tramite il voto del Parlamento,
come avviene quando vengono aumentate le imposte.
Senza dubbio l'opinione pubblica prevalente condanna
l'inflazione
Secondo la scuola neoclassica l'inflazione è associata sempre ad
una espansione eccessiva della quantità di moneta.
Ai tempi in cui la moneta era metallica Smith scriveva "in ogni
paese del mondo l'avarizia e l'ingiustizia dei principi e degli stati
sovrani, abusando della fiducia dei loro sudditi, hanno gradatamente
diminuito la quantità reale di metallo contenuto originariamente
nelle loro monete".
Il filosofo John Locke affermava che il valore intrinseco (in
termine di metallo prezioso) della moneta era fissato dal generale
consenso e doveva essere garantito dallo Stato. La cosiddetta
tosatura della moneta era- né più, né meno - una frode dello Stato a
danno dei cittadini. Ora che abbiamo studiato una serie di
espressioni tecniche, proprie degli economisti, diremmo che l'obiettivo
dello Stato, in tema di moneta, era, per Locke, garantire la stabilità
del suo valore intrinseco, in termine della merce (metallo prezioso)
che la costituiva.
Con il diffondersi delle banconote, la tosatura è divenuta più
facile perché per attuarla, è sufficiente che lo Stato stampi più
moneta, ma si tratta comunque di una frode dello Stato nei confronti
dei suoi cittadini e avviene storicamente, secondo questa
interpretazione, per le tendenze ad incrementare la spesa dei governi.

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Pareto trattando dei processi inflazionistici parla di moneta


falsa.
Marshall ritiene che obiettivo fondamentale della politica
monetaria sia quello di mantenere stabile il livello dei prezzi: una
convinzione che sarà fatta propria praticamente da tutti gli
economisti neoclassici.
Di tutt'altro avviso è Schumpeter, che scrive in proposito:
"Niente... ci può dare un'errata impressione del modo di operare del
credito come l'assumere una veduta meccanicistica e statica di esso e
ignorare il fatto che il nostro processo, in virtù del suo proprio
funzionamento, allarga i limiti che, ex visu da un dato punto di
tempo, sembrano rigide catene. Se questo ha da chiamarsi inflazione,
allora l'inflazione è andata avanti praticamente per tutto il tempo, in
nessun luogo più che in questo paese [l'autore parla degli Stati Uniti
d'America] mentre l 'influenza deflazionistica originantesi nel sistema
monetario- scarsità di oro o simili- è un mito".
Secondo questa valutazione realistica dei processi di inflazione,
essi hanno stabilmente accompagnato lo sviluppo capitalistico. Per
quanto Schumpeter resti una voce pressoché isolata, ha da la sua
parte l'evidenza storica e la stessa esperienza personale di ciascuno di
noi. Fermatevi un attimo e pensate a quanto costava un gelato in lire
quando eravate piccoli e pensate a quanto costa oggi.
Solo Keynes sottolinea la pratica impossibilità di conciliare
l'obiettivo della stabilità dei prezzi interni con quello del
mantenimento del valore esterno della moneta e il costo che il
perseguimento di questi obiettivi può comportare in termini di
occupazione. Ma egli stesso non si allontanerà dallo schema

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neoclassico e cercherà una soluzione che consenta uno sviluppo


collegato ad una bassa inflazione.
A prescindere se l'inflazione sia da considerarsi un dato
ineluttabile dello sviluppo capitalistico o meno, cerchiamo alcuni
punti fermi a cui è giunta la Politica economica sull'inflazione, a
prescindere dal giudizio sull'inflazione stessa.
Viste le alterazioni che l'inflazione introduce nel meccanismo
del sistema dei prezzi, tutti gli economisti, a qualsiasi scuola essi
appartengono, condividono i seguenti punti:
 l'inflazione determina sempre ridistribuzione della ricchezza;
 l'inflazione determina sempre ridistribuzione dei redditi;
 l'inflazione determina le conseguenze sopra descritte nella
misura in cui è imprevista e secondo la sua entità.

Esaminiamo in dettaglio questi aspetti.

 Redistribuzione della ricchezza.


◦ L'inflazione danneggia sempre i creditori: essi, in
presenza di inflazione, infatti vedranno ridursi il valore reale della
parte del loro patrimonio rappresentata appunto da crediti
(obbligazioni, depositi bancari, moneta).
◦ L'inflazione avvantaggia i debitori: essi vedono ridursi il
peso reale dei debiti.

 Redistribuzione dei redditi.


I redditi non crescono tutti allo stesso tasso cui crescono i
prezzi: i salari, gli stipendi e le pensioni sono convenzionalmente
stabili, a differenza dei prezzi che possono essere variati anche

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quotidianamente dai commercianti, ferma la concorrenza tra gli


stessi.
◦ I salari, gli stipendi e le pensioni crescono meno dei
prezzi. Le pensioni in genere non si adeguano o si adeguano solo in
parte alla crescita dei prezzi.
◦ Le rendite crescono meno dei profitti.
◦ L'inflazione determina drenaggio fiscale. L'inflazione,
infatti, ha effetti sulla distribuzione dei redditi grazie ad alcuni
riflessi sul sistema tributario. In genere nelle economie vige un
sistema di imposte dirette progressivo. Significa che all'aumentare del
reddito si paga un aliquota (una percentuale sul reddito) più alta.
Questi scaglioni d'imposta sono nominali. L'inflazione aumenta il
reddito nominale e per questa via aumenta lo scaglione al quale è
sottoposta a tassazione il reddito. In altre parole introduce
occultamente una maggiore imposta.

 L'inflazione non determina questi effetti quando è prevista.


Quando l'inflazione è un fenomeno consistente e duraturo in
una determinata comunità politica, i ceti sociali che ne sono colpiti, al
fine di tutelarsi, propongono e ottengono sistemi di indicizzazioni dei
propri redditi. In effetti se i valori dei titoli a reddito fisso fossero
indicizzati - e così
i salari e le rendite - l'inflazione potrebbe essere neutrale con
riferimento alla distribuzione del reddito. Gli effetti dell'inflazione,
dunque, sono molto diversi a seconda che essa sia attesa o no in un
sistema economico.

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Gli economisti concordano anche sulla circostanza che esistono


due tipi di inflazione:

 l'inflazione da domanda;
 l'inflazione da costo.
L'inflazione da domanda è dovuta ad una crescita dei prezzi
provocata da una espansione del potere d'acquisto indotta o da
politiche monetarie, o da politiche fiscali. L'inflazione da costi è
quando l'aumento dei prezzi è provocato da un aumento dei costi
fondamentali per la nostra economia. Nel caso specifico un aumento
del prezzo del petrolio, che è la base energetica della nostra economia,
determina impennate inflazionistiche.
Possiamo anche iniziare a comprendere il diverso giudizio che
le scuole economiche danno dell'inflazione.
Se un economista, come nel caso di Shumpeter, è convinto che
siano gli imprenditori e l'innovazione il motore dello sviluppo e che
siano questi fattori a generare posti di lavoro, egli vedrà parzialmente
in modo positivo l'inflazione, almeno nella misura in cui essa di fatto
aumenta i redditi degli industriali e diminuisce le rendite e la
ricchezza dei creditori.
Se un economista, come nel caso di Keynes, ha davanti a sé la
vista milioni di uomini senza lavoro, e ritiene prioritaria la lotta alla
disoccupazione, pur essendo contrario in linea di principio
all'inflazione, è disponibile a correre qualche rischio.
Se invece un economista si sofferma sui diritti dei vari agenti
economici e sulla trasparenza delle decisioni fiscali e politiche, non
può che solennemente condannare l'inflazione.

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LE TEORIE DELLA
MONETA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Le teorie della moneta”

Indice

1. LA NEUTRALITÀ DELLA MONETA --------------------------------------------------------- 3


2. LA CREDIBILITÀ DELLA BANCA CENTRALE ------------------------------------------ 6
3. I CANALI DELLA POLITICA MONETARIA ----------------------------------------------- 8

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Giovanni Cannata “Le teorie della moneta”

1. LA NEUTRALITÀ DELLA MONETA

La teoria della moneta è un campo molto attivo, negli anni


Sessanta e Settanta la teoria keynesiana della moneta è stata
criticata dalla corrente monetarista dell’operato delle banche centrali.
La teoria delle aspettative razionali, l’incoerenza temporale e la
credibilità sono comparse in studi di economia monetaria. La crisi del
2007 ha aiutato a comprendere meglio partendo dal
malfunzionamento dei mercati. Il quesito di fondo è se la politica
monetaria modifica le variabili reali. Nel lungo periodo influenza le
variabili nominali ma non quelle reali. Nel breve periodo se aumenta
la quantità di moneta si può produrre illusione di crescita del potere
di acquisto.
Se si utilizza il concetto di velocità della circolazione come
rapporto tra produzione nominale e la quantità di moneta secondo
l’ipotesi di neutralità la velocità è costante; la produzione PQ è
limitata dalla capacità di offerta di beni o anche il valore delle
transazioni che in un anno è determinato da una quantità di moneta
La teoria quantitativa della moneta si fonda sulla equazione
PY=MV in cui
P è il livello generale dei prezzi
Y è il livello generale della produzione in quantità
M è la massa di moneta
V è la velocità di circolazione della moneta
Nel caso in cui la banca centrale controlla la velocità di crescita
della massa monetaria, la stessa banca controlla i processi di

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inflazione, come mostra la seguente elaborazione dell’equazione


precedente :
𝐷𝑃 𝐷𝑉 𝐷𝑀 𝐷𝑌
= 𝑉 +𝑃𝑀 -𝑃𝑌
𝑃

L’output è determinato dalla capacità di produzione di beni e


servizi. Nel lungo periodo c’è legame tra crescita ed inflazione
Se un aumento dell’offerta di moneta non determina un
aggiustamento istantaneo dei prezzi o dei salari ciò deriva da quella
che viene definita una rigidità nominale.
Secondo la teoria keynesiana nel breve periodo si ha un per
effetto di un aumento della massa monetaria, si registra una
diminuzione del tasso d’interesse. Se non si realizza un aumento dei
prezzi, l’offerta è maggiore della domanda di moneta e ciò comporta
una diminuzione del tasso di interesse dalla quale deriva uno stimolo
della domanda di beni e servizi.
Nel lungo periodo un aumento dei prezzi stimola la domanda di
moneta e riporta a livello iniziale. In sintesi di può affermare che i
prezzi non si aggiustano istantaneamente.
La teoria economica propone tre modelli d’interpretazione
dell’esistenza di rigidità nominali.
Una prima riguarda la sussistenza di condizioni di
informazione asimmetrica in cui i produttori hanno una migliore
percezione dei prezzi dei loro mercati di riferimento rispetto a quelli
del sistema e tratti in inganno da questa percezione aumentano le
produzioni.
L’esistenza di contratti di lavoro che disciplinano salari e prezzi
per gli straordinari e indicizzazione dei salari per un periodo non
breve. Ciò fa si che salari e prezzi non reagiscono immediatamente a

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domanda e offerta ma alla contrattazione successiva che avverrà dopo


qualche tempo.
Una terza spiegazione si fonda sul costo di aggiustamento dei
prezzi (i cosiddetti menu costs) secondo cui le imprese adeguano i
prezzi una o due volte l’anno quindi non immediatamente alla
modifica del mercato, anche se le condizioni economiche in cui
operano (materie prime, tassi di cambio) sono più rapide.
In sintesi, per effetto della rigidità iniziale dell’espansione
monetaria verrà annullato nel tempo dall’adeguamento dei prezzi.
Le banche centrali fissano obiettivi di riferimento per i tassi di
interesse a breve. Inoltre la banca centrale fissa il tasso di interesse a
breve per controllare il tasso di inflazione futuro e, conseguentemente
dimensionare l’output gap futuro in linea con gli obiettivi. In questo
senso la banca centrale non controlla il livello attuale dell’inflazione o
della produzione ma quello atteso

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2. LA CREDIBILITÀ DELLA BANCA CENTRALE

La credibilità delle banche centrali è oggetto di attenzione da


parte di tutti gli agenti dell’economia e, conseguentemente delle
reazioni.
Analisi di letteratura hanno messo in luce che, se la banca
centrale cerca di far crescere l’output al di sopra del livello naturale,
un livello di equilibrio giudicato troppo basso (che implica un tasso di
disoccupazione elevato) e non impiega politiche di carattere
strutturale ciò può avere significative implicazioni.
Infatti, il non uso di politiche strutturali ma politiche
monetarie per ridurre la disoccupazione può condizionare l’operato
dell’agente famiglie.
Le famiglie anticipano l’inflazione dovuta al calo dei tassi di
interesse e la mettono nelle loro rivendicazioni per cui alla fine ci si
ritrova con un’inflazione più alta, e si registra un effetto di disturbo
(inflation bias).
Questo effetto distorsivo si dissolve se la banca centrale, anche
in relazione alla sua indipendenza, si impegna nel controllo
dell’inflazione o se è contraria per mandato e strategia all’inflazione,
cioè se alla stessa banca non sono affidati solo compiti monetari.
E’ importante pertanto la credibilità della banca centrale, cioè
la sua riconosciuta autorevolezza e capacità di tener fede agli impegni
di politica economica.
Si possono determinare situazioni di incoerenza temporale per
cui ciò che è stato indicato come politica ottimale può non esserlo più

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in un tempo successivo per cui la banca deve attuare strategie


alternative
La banca centrale può garantire la credibilità delle sue azioni
imponendosi regole monetarie fisse come ad esempio la fissazione di
un livello obiettivo per gli aggregati o un tasso di inflazione massimo,
ovvero attraverso la fissazione di un regime di cambi fissi rispetto ad
una valuta assunta come riferimento. Necessità imprenscindibile è
quella di progettare interventi in un arco temporale lungo, il che
comporta un’indipendenza degli organi di governo dalle banche
rispetto ai mandati o di nomine elettorali che non debbono essere
brevi. A ciò si può ovviare, come accade nell’esperienza di qualche
paese, con la stipula di contratti incentivanti per la governance
rispetto all’obiettivo del controllo dell’inflazione. In ogni caso regola
fondamentale di garanzia della credibilità della banca centrale è la
sua indipendenza della banca dal potere politico.

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3. I CANALI DELLA POLITICA MONETARIA

La politica monetaria incide nell’economia attraverso alcuni


canali di trasmissione principali che sono:
 I tassi di interesse
 Il prezzo delle attività finanziarie
 Il credito.
A ciò possono essere aggiunti altri interventi attraverso
 il tasso di cambio
 il risk taking e cioè l’assunzione dei rischi nel settore
finanziario.
I canali possono agire contemporaneamente a seconda della
congiuntura
Il canale del tasso d’interesse può agire con l’espansione
monetaria che fa diminuire il tasso d’interesse, determinando un
aumento degli investimenti che genera aumento della domanda di
beni e servizi per effetto del moltiplicatore. Occorre tener di conto che
gli investimenti dipendono dal tasso di interesse reale a lungo
termine e quindi occorre valutare con attenzione le prospettive.
Ovviamente esistono differenze tra differenti economie rispetto
alle variazioni del tasso di interesse e le reazioni che influenzano la
domanda di credito al consumo.
Un secondo canale di trasmissione della politica monetaria è il
canale del prezzo delle attività finanziarie (azioni, obbligazioni, beni
immobili).
La diminuzione del tasso di interesse fa crescere il prezzo del
patrimonio mobiliare e immobiliare delle famiglie.

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Giovanni Cannata “Le teorie della moneta”

Un aumento del prezzo delle azioni delle imprese aumenta la


probabilità che l’investimento generi profitto e quindi genera
incremento degli investimenti
Questo canale cresce d’importanza con il crescere della
partecipazione delle imprese e delle famiglie ai mercati finanziari.
Il terzo canale è quello del prezzo delle attività finanziarie che
ha influenza quando famiglie e imprese vi si affacciano
significativamente. Il canale del credito è connesso alla capacità delle
banche di aumentare o diminuire l’offerta di credito in relazione al
modo in cui si finanziano sui mercati. Ovviamente l’offerta di credito
varia durante a seconda dell’andamento del ciclo economico e la
domanda di credito varia secondo i soggetti (es. famiglie e PMI). Il
canale del credito non fa leva sul costo del finanziamento ma sulla
disponibilità di finanziamento per le famiglie e le imprese.
Le banche possono decidere di razionare il credito piuttosto che
aumentarne il costo.
Ciò è conseguenza della onerosità nella verifica della qualità
dei progetti per i quali è stato richiesto il credito attraverso le
condizioni e i processi di istruttoria
Ciò fa si che le banche richiedano un premio che sarà più
probabilmente corrisposto da imprese con progetti più rischiosi ma
con maggiori prospettive di profitto.
In questo senso le restrizioni del credito da parte delle banche
colpiscono di più le piccole e medie imprese.
Si deve segnalare inoltre che l’ampiezza dei finanziamenti
dipende dal valore delle attività offerte in garanzia.
In sintesi si può affermare che lo stato di salute delle banche
condiziona la trasmissione della politica monetaria.

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Giovanni Cannata “Le teorie della moneta”

Tutto il quadro fin qui tracciato deve tenere in conto la salute


del sistema bancario. Si registrerà minore erogazione di credito da
parte di banche con portafogli svalutati o con bilanci pieni di crediti in
sofferenza
Nel caso di insolvenza dei bilanci come mostrano molti casi
recenti, le autorità pubbliche, a salvaguardia dell’impatto
sull’economia, debbono:
 Esigere una ricapitalizzazione
 Chiedere fusioni tra istituti o emissioni di nuove azioni
 In extremis intervenire con fondi pubblici
Tra gli strumenti impiegati a garanzia del sistema del sistema
economico e della clientela, le autorità possono imporre alle banche
norme di pubblicazione delle informazioni sulle imprese affidate
Le banche sono inoltre tenute all’effettuazione di test di
resistenza per verificare e valutare la capacità di sopportazione di
avvenimenti critici estremi.
L’analisi delle esperienze condotte in differenti paesi e in
differenti condizioni dell’economia mettono in luce una variegata
importanza dei canali di trasmissione della politica comunitaria.

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LA POLITICA MONETARIA.
QUADRO TEORICO:
INTRODUZIONE
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “La politica monetaria. Quadro
teorico: introduzione”

Indice

1. LE DIVERSE FORMULAZIONI DELLA TEORIA QUANTITATIVA DELLA


MONETA --------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2. LA DOMANDA DI MONETA E LA SCUOLA DI CAMBRIDGE ---------------------- 10
3. LA TEORIA KEYNESIANA DELLA MONETA ------------------------------------------ 20
4. IL MOLTIPLICATORE DEGLI INVESTIMENTI ---------------------------------------- 30

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Salvatore Della Corte “La politica monetaria. Quadro
teorico: introduzione”

1. LE DIVERSE FORMULAZIONI DELLA TEORIA


QUANTITATIVA DELLA MONETA

Numerose teorie monetarie possono essere classificate come


appartenenti all'indirizzo quantitativo. Esistono teorie di questo
genere anche nel pensiero antico greco.
Il tratto comune di queste teorie consiste nell'attribuire un
ruolo determinante alla quantità di moneta in circolazione.
Appartengono senza dubbio alle teorie quantitative le teorie
mercantiliste, anche se tale teoria non è espressa in quegli autori in
modo rigoroso.
Ricordiamo che i mercantilisti consigliarono divieti di
esportazione della moneta e dei metalli preziosi; imposero l’obbligo ai
mercanti di riportare in moneta nel paese parte almeno del prezzo
ricavato all’estero e un saldo positivo della bilancia dei pagamenti.
La teoria quantitativa mercantilista può essere enunciata in
questo modo: l'incremento della moneta genera incremento delle
transazioni e della produzione all'interno del Paese.
L'esperienza storica aveva però mostrato che questo non era
sempre vero e che un aumento della quantità di moneta, invece di
aumentare la produzione, poteva far aumentare il livello generale dei
prezzi.
L'idea che l'incremento della quantità di moneta genera
esclusivamente un incremento dei prezzi ed una diminuzione del
valore della moneta è definita teoria quantitativa della moneta.
Vediamo la formulazione rigorosa che Irving Fisher diede alla
teoria quantitativa. E' un assioma che esiste una corrispondenza tra il
valore monetario delle transazioni di beni effettuate sul mercato in un

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dato periodo di tempo ed il volume complessivo degli esborsi monetari


compiuti per effettuare quelle transazioni.
Se indichiamo con M la quantità di moneta esistente nel
sistema economico e con V la velocità di circolazione della stessa, cioè
il numero di volte che la moneta passa di mano in mano, e li
moltiplichiamo, abbiamo il volume complessivo degli esborsi
finanziari.
Consideriamo ora tutti i beni e i servizi che vengono scambiati
e supponiamo che essi siano moltissimi, o, come si usa dire, pari a n.
Indichiamo con q1 la quantità scambiata del bene l, con q2 la
quantità scambiata del bene 2, ecc., e con P1, P2 ... i rispettivi prezzi,
abbiamo il valore monetario delle transazioni.

Scriviamo ora:

il valore monetario degli esborsi = valore monetario delle


transazioni di beni

ovvero

MV = p1 q1 + p2 q2 + p3 q3 + ….............. + pn qn

da cui

MV = PQ [1]

in cui P rappresenta il livello generale dei prezzi e Q le


quantità scambiate dei beni.

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Esiste anche un'altra versione della stessa formula, enunciata


dallo stesso Fisher, in cui si tiene conto della moneta bancaria

la formula è la seguente

MV + M'V' = PQ [2]

dove M' rappresenta la moneta creata dal sistema bancario e V'


la sua velocità di circolazione.

Ci si può chiedere perché il volume monetario delle transazioni


non sia uguale esclusivamente alla quantità di moneta in circolazione
(cartacea M e bancaria M').
Occorre sempre ricordare che in un determinato periodo di
tempo ogni unità monetaria si scambia più volte contro merci. La
stessa moneta passa più volte da un operatore ad un altro ed è
utilizzata per diversi scambi monetari.
Quando, come oggetto delle transazioni, non si considerano i
beni intermedi, ma solo i beni finali, si parlerà piuttosto che di volume
monetario delle transazioni commerciali, di valore monetario delle
transazioni di reddito.
In tal caso si modifica anche i valori di V e V' della [2], in
quanto andranno registrati solamente quei passaggi di moneta che
avvengono negli scambi dei soli beni finali.
La formula precedente [1] è nota come equazione di Fisher o
equazione degli scambi, e afferma che la quantità di moneta in
circolazione, moltiplicata per il numero di volte che la moneta passa

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di mano in mano, è eguale alla somma delle quantità dei beni


scambiate, ciascuna moltiplicata per il rispettivo prezzo.

Come si vede, l'equazione di Fisher è sempre verificata, perché


è una semplice identità contabile.
L'importanza di questa equazione per la politica economica è
che Fisher attribuì ad essa un preciso significato causale: egli
sosteneva che, nel breve periodo, V e Q sono costanti, per cui, al
variare di M, P muta nella stessa proporzione
In altri termini, allorché aumenta o diminuisce la quantità di
moneta in circolazione, il livello generale dei prezzi aumenta o
diminuisce nella stessa proporzione.

In termini formali:

P = MV / Q [3]

dal momento che V e Q sono costanti possiamo scrivere MQ = a

e quindi

P=aM [4]

Ciò ovviamente è vero nella [1] soltanto se V e Q sono


costanti, perché, altrimenti, una variazione nella quantità di
moneta potrebbe non avere gli effetti descritti sul livello dei prezzi.

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Questa osservazione ci consente di dare una formalizzazione,


ad esempio, alla teoria mercantilista della quantità di moneta, con la
medesima equazione di Fisher.
Si supponga ad esempio che, invece di considerare costanti V
e Q, si considerino costanti V e P. In questo caso, come si vede
chiaramente dalla [5], un aumento di M determinerebbe un aumento
di Q nella stessa proporzione.

Q=aM [5]

in cui a = V/P ritenuti costanti

La teoria quantitativa mercantilista della moneta può essere


descritta come la teoria che ritiene che gli aumenti della quantità di
moneta in circolazione aumentino la produzione di beni.
Si possono poi fare tutta una serie di altri esempi.
Si supponga che all'aumentare di M, V diminuisca.
In tal caso un aumento di M non genererebbe un aumento
proporzionale di P e, al limite, potrebbe non generare alcun aumento
di P o addirittura causarne una diminuzione e tutto deriverebbe dalla
proporzione con cui V varia al variare di M.
Perché Fisher riteneva che V e Q fossero costanti?
Egli affermava che V, cioè il numero di volte che la moneta
passa di mano in mano, dipende dalle abitudini degli individui e
quindi non muta nel breve periodo.
L'assunto è che il valore medio delle transazioni compiute
dall'unità di moneta dipende dalle consuetudini degli operatori

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economici circa le modalità di pagamento, dall'organizzazione del


sistema bancario e che tutti questi fattori siano costanti nel tempo.
Se V dipende dalle consuetudini, V è costante.
D'altra parte anche la quantità dei beni prodotti, per Fisher, è
costante, se si considera un periodo abbastanza breve.
Gli economisti classici ritengono infatti che il sistema
economico raggiunga spontaneamente la piena occupazione.
E' la legge di Say ad assicurare l'equilibrio economico.
“Un prodotto terminato offre da quell'istante uno sbocco ad altri
prodotti per tutta la somma del suo valore. Difatti, quando l'ultimo
produttore ha terminato un prodotto, il suo desiderio più grande è
quello di venderlo, perché il valore di quel prodotto non resti morto
nelle sue mani. Ma non è meno sollecito di liberarsi del denaro che la
sua vendita gli procura, perché nemmeno il denaro resti morto. Ora
non ci si può liberare del proprio denaro se non cercando di comperare
un prodotto qualunque. Si vede dunque che il fatto solo della
formazione di un prodotto apre all'istante stesso uno sbocco ad altri
prodotti.”1
In altre parole in un'economia in cui vi è la divisione del
lavoro, le imprese vendono tutti i beni che producono, e quasi
nessuno produce direttamente i beni che usa, ma li acquista da altri
soggetti.
Pertanto i beni prodotti vengono scambiati, e quindi le quantità
dei beni scambiate sostanzialmente coincidono con le quantità dei
beni prodotte.

1 Capitolo XV Trattato di economia politica. 1803

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Questa conclusione è in effetti conforme alla regola della


contabilità a partita doppia, la quale afferma che in ogni transazione
un individuo è, contemporaneamente, sia addebitato sia accreditato.
Le quantità dei beni prodotte, secondo la teoria classica,
possono aumentare nel tempo, perché possono crescere le quantità
dei fattori (capitale e lavoro) impiegate nei processi produttivi o può
incrementare il progresso tecnico, ma tali fattori operano solo nel
lungo periodo, mentre nel breve periodo la quantità scambiata dei
diversi beni non muta.
La disoccupazione, in questo quadro teorico, può essere soltanto
momentanea, perché i salari sono completamente flessibili e pertanto,
in caso di disoccupazione, essi scendono fino al salario che spinge le
imprese ad assumere integralmente tutta la manodopera disoccupata
Pertanto, se il sistema economico è sempre in piena
occupazione, nel breve periodo le quantità prodotte dei beni non
possono variare, e quindi Q è costante.
In realtà le analisi dell'economia classica che portano alla
conclusione della costanza di Q e V non erano affatto convincenti e si
mostrano risiedere in assunti che non era possibile dimostrare.

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2. LA DOMANDA DI MONETA E LA SCUOLA DI


CAMBRIDGE

Nella teoria quantitativa di Fisher si prende in considerazione


in modo generico la quantità di moneta in circolazione,
Si deve alla scuola di Cambridge – dal Marshal al Keynes del
“Trattato della moneta” - la capacità di esplicitare in modo chiaro
due concetti, che giocano un ruolo fondamentale nelle moderne teorie
monetarie: la domanda e l'offerta di moneta.
Questa scuola fu la prima a studiare il comportamento del
pubblico e quello delle autorità governative.
Queste ultime stabiliscono l'offerta di moneta, mentre è il
comportamento degli operatori economici che spiega la domanda di
moneta.
La domanda di moneta di un operatore economico, è la quantità
di reddito che il soggetto detiene sotto forma di moneta.
La domanda di moneta è il volume di scorte monetarie
possedute da un operatore economico. Più precisamente si può dire
che è la parte di ricchezza e di reddito (patrimonio + risparmio)
detenuta in modo liquido. La liquidità è la capacità di una forma di
detenzione della ricchezza di trasformarsi rapidamente in ricchezza
senza perdite.
Sia il reddito che la ricchezza possono essere impiegati in modi
diversi. Un individuo che ha un certo patrimonio può detenerlo in
parte sotto forma di moneta, in parte sotto forma di titoli (azioni e
obbligazioni), in parte sotto forma di immobili (case, locali, ecc.), e
così via.

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Si faccia quindi attenzione a non confondere il risparmio con la


domanda di moneta: il risparmio è dato dalla differenza tra reddito e
consumo, mentre la domanda di moneta è una forma in cui può essere
detenuto il risparmio.
Detenere la ricchezza in immobili è senza dubbio un modo di
detenere la ricchezza meno liquido che possedere titoli azionari
quotati sulla borsa.
Il metodo più liquido di detenere la ricchezza è possedere
moneta, ma la moneta, da quando è inconvertibile e non ha valore
intrinseco, può vedere velocemente depauperato il suo valore e, a
differenza dei titoli, non consente nessun interesse.
In ogni caso, nonostante sia meno redditizio che possedere la
ricchezza in altro modo, gli operatori sono costretti ad avere una parte
della propria ricchezza in forma liquida per evitare perdite dovute
alla necessità di monetizzare immediatamente la propria ricchezza.
Per quali ragioni gli operatori economici detengono contante?
Il volume delle scorte monetarie dipende dal volume delle
transazioni da dover effettuare.
La domanda di moneta dell'intera collettività si ottiene
sommando la domanda di moneta degli individui che la compongono.
Come la domanda di moneta di un individuo è una parte del
reddito individuale, così la domanda di moneta di un Paese è una
parte del reddito nazionale.
Circa l'offerta di moneta abbiamo già parlato nella lezione
relativa alla moneta. Essa può essere definita come la quantità di
moneta in circolazione in un Paese.
In prima approssimazione possiamo ritenere che l'offerta di
moneta sia determinata dalla banca centrale, a cui va aggiunta la

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moneta prodotta dalle banche ordinarie, che, come abbiamo visto,


hanno la capacità di moltiplicare la moneta.
Un punto su cui è importante soffermarsi è costituito dalla
relazione che c'è tra domanda e offerta di moneta.
Empiricamente noi rileviamo la quantità di moneta in
circolazione in un dato periodo. Questa rappresenta sia la domanda
che l'offerta di moneta, grandezze che sono sempre uguali.
Infatti tutta la moneta (cartacea e bancaria) che viene immessa
nel sistema economico dalla Banca centrale e dalle banche ordinarie
viene detenuta dagli operatori economici (famiglie e imprese).
Chiariamo il problema mediante un esempio. Supponiamo che
le autorità vogliano immettere 10 miliardi di euro nel sistema
economico. Esse possono scegliere diverse vie: possono ad esempio
finanziare con un miliardo di euro il sistema bancario. Se la riserva
obbligatoria è del 10%, le banche, con i loro prestiti, moltiplicheranno
quel miliardo fino a farlo diventare 10 miliardi.
Viceversa il sistema delle banche centrali europee può
comprare obbligazioni dal pubblico per 10 miliardi e in tal modo
immettere questa quantità di moneta
In ogni caso l'offerta complessiva di moneta in più sarà
detenuta da qualcuno ed essa diviene quindi anche domanda di
moneta.
Quello che dunque accade è, secondo la scuola di Cambridge,
che, difronte a un eccesso di offerta di moneta, gli operatori economici
riversano la moneta eccedente rispetto alle proprie necessità sul
mercato dei beni, con un maggiore acquisto di beni e servizi.

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L'aumento di questi ultimi, ferma la percentuale del valore


delle transazioni detenuta in modo liquido, comporta l'aumento della
domanda di moneta e il riequilibrio con l'offerta.
Alla luce dei concetti espressi precedentemente possiamo
esaminare la teoria monetaria della scuola di Cambridge

Questa teoria può essere ben espressa nell'equazione:

M= k PQ [6]

dove M rappresenta la quantità di moneta in circolazione; P e


Q hanno lo stesso significato che nell'equazione di Fisher:
Q è un indice delle quantità dei beni scambiati, P è il livello
medio dei prezzi dei beni, e PQ è pertanto il volume delle transazioni.

Dalla [6] si deduce facilmente:

K = M / PQ [7]

da cui risulta evidente che K è la quantità di moneta in


circolazione divisa per il volume delle transazioni, cioè la percentuale
del volume di transazioni detenuta dagli operatori economici sotto
forma di moneta.
Se si considerano solo le transazioni finali allora K è quindi la
domanda di moneta della collettività divisa per il reddito nazionale.

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L'equazione di Fisher e quella di Cambridge sono facilmente


riconducibili l'una all'altra. Infatti la [7] può essere scritta nella
forma:

P = M / KQ

Ricordando che nell'equazione di Fisher

P = MV / Q

Le due equazioni sono identiche se V = 1/K


In effetti V è sempre eguale a 1/K, anche se il significato
economico di questa eguaglianza può non apparire ovvio a prima
vista.
Secondo la loro ricostruzione teorica, il reddito nazionale, che
possiamo indicare sia con Y che con PQ è un fenomeno monetario e
dipende dalla quantità di moneta in circolazione.

Y=vM [8]

In termini grafici all'aumentare dei miliardi di euro in


circolazione aumenta PQ.2

2 Il lettore stia attento. In genere gli economisti sono soliti porre la variabile
indipendente sulle ordinate e sulle ascisse la variabile dipendente. In
matematica si fa il contrario. Noi seguiamo la regola economica per rispetta
dello studente, in modo che ritrovi gli stessi schemi su altri testi.

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Figura 1

Il tasso di interesse, invece, è un fenomeno esclusivamente


reale e mette in equilibrio domanda ed offerta di moneta

S (+ i) = I ( - i ) [9]
dove
S = save, in italiano risparmio
i = interest rate (tasso di interesse)
I = investimento

La formula precedente dice che al crescere del tasso di interesse


aumenta la disponibilità degli operatori a risparmiare, ma diminuisce
quella degli operatori a richiedere denaro in prestito.

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Esiste un punto in cui domanda ed offerta di equilibrano e quel


punto determina il tasso di interesse di equilibrio.
In termini grafici

Figura 2

Il punto di equilibrio è il punto in cui si incontrano le due rette


(il punto E).

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Anche la scuola di Cambridge dunque giunge alle medesime


conclusioni della teoria quantitativa della moneta, perché condivide
due ipotesi di fondo:
nel breve periodo il livello di produzione è dato perché vige la
piena occupazione in quanto in caso di disoccupati si abbassa il
salario reale e tutti vengono occupati.

Infatti, anche il mercato del lavoro è regolato dalla domanda e


dall'offerta secondo la formula:

LD ( - w/p ) = OD ( + w/p) [10]


in cui
LD è la domanda di lavoratori. Essa diminuisce al salire del
salario reale da corrispondere.
LO è il numero di lavoratori che offrono le proprie prestazioni.
Questo numero cresce al salire del salario reale.
W/P è il salario reale.
La disoccupazione, in questo quadro teorico, può essere soltanto
momentanea, perché i salari sono completamente flessibili e pertanto,
in caso di disoccupazione, essi scendono fino al salario che spinge le
imprese ad assumere integralmente tutta la manodopera
disoccupata. In termini grafici:

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Figura 3

Anche K, come V nella teoria quantitativa della moneta, è


sostanzialmente stabile.
Date queste ipotesi, nonostante la maggiore spiegazione
economica della formazione della domanda e dell'offerta di moneta, le
conclusioni non sono dissimili da quelle di Fisher e l'aumento di
moneta genera unicamente inflazione per cui la [8] può essere
riscritta così:

PQ = v M

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dal momento che Q è dato

P=vM

Anche secondo la scuola di Cambridge, l'aumento della moneta


genera esclusivamente un incremento dei prezzi, cioè inflazione.

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3. LA TEORIA KEYNESIANA DELLA MONETA

L'equazione di Cambridge rappresenta un progresso rispetto


alla teoria di Fisher, in quanto distingue la domanda di moneta
dall'offerta di moneta e mette in evidenza che la prima dipende dalla
preferenza del pubblico a detenere il proprio reddito sotto forma di
moneta anziché sotto altre forme di ricchezza (azioni, obbligazioni,
immobili, oro etc.).
Keynes portò più avanti la teoria della domanda di moneta e
criticò in modo esplicito l'equazione di Fisher.
Per Keynes tale equazione rimane sempre valida come identità
contabile, ma non ha il significato causale che Fisher le attribuiva.
Infatti Keynes contestò le due ipotesi su cui era basata la teoria
quantitativa della moneta: la costanza di V e quella di Q.
In sintesi Keynes propone:

una diversa concezione della domanda di moneta;


una diversa concezione dei meccanismi attraverso cui la
moneta influenza l'economia reale;
una diversa concezione del funzionamento del mercato del
lavoro;

Queste tre critiche fondamentali alla macroeconomia a lui


precedente, lo porteranno a descrivere il funzionamento dell'economia
in modo del tutto nuovo rispetto ai suoi predecessori, sia i
mercantilisti, per cui l'aumento di moneta generava immediatamente
e direttamente l'aumento della produzione, sia dalla scuola classica e

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neoclassica inglese, per cui al contrario, l'incremento della quantità di


moneta poteva soltanto comportare inflazione.
Ma procediamo con ordine, partendo dalla concezione
keynesiana della moneta e dalla sua radicale critica della velocità di
circolazione della moneta e del suo reciproco.
Keynes dimostra che V non può essere costante. V non è
costante, afferma Keynes, perché la percentuale di reddito detenuta
sotto forma di moneta (K) varia per diversi motivi e in particolare
ogni volta che muta il saggio di interesse. Se muta il valore di K, muta
ovviamente anche quello di V, che è il suo reciproco.
Prima di Keynes erano stati Wicksell e Hawtrey a chiarire
come il comportamento degli operatori economici influenzasse la
domanda di moneta. Wicksell aveva introdotto il concetto di tasso di
interesse naturale distinto da quello di mercato.
Come vedremo, questo concetto sarà ripreso da Keynes, che
distinguerà l'efficienza marginale del capitale dal tasso di interesse.
Il primo tasso misura il rendimento atteso degli investimenti, il
secondo è il costo del denaro disponibile sul mercato bancario o
finanziario.
Wicksell aveva dimostrato che, quando gli operatori avevano
prospettive molto ottimistiche sui rendimenti futuri, per quanto
potesse aumentare il costo del denaro, non diminuivano le richieste di
prestiti da parte degli operatori e, attraverso i noti meccanismi del
moltiplicatore dei depositi bancari che abbiamo studiato, aumentava
la domanda e l'offerta di moneta e in generale la velocità di
circolazione della stessa moneta.
Ma Keynes è ancora più radicale.

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La scuola monetarista non ha compreso le ragioni per cui si


domanda moneta, anzi ne ha compresa soltanto una parte.
Quali sono i moventi che inducono l'individuo a detenere una
parte del suo reddito sotto forma di moneta. Keynes ne individua tre:

il movente transazionale
il movente precauzionale,
il movente speculativo.

Il primo consiste nel fatto che, per effettuare i pagamenti


relativi agli acquisti dei beni e dei servizi, gli individui devono
disporre di una certa quantità di moneta e la scoperta di questo
movente per la domanda di moneta era stata la novità essenziale
della scuola di Cambridge.
Il secondo dipende dalla circostanza che gli individui
desiderano detenere moneta per far fronte ad esigenze impreviste, che
si possono presentare nella vita, ad esempio malattie, incidenti,
perdita del lavoro o eventualità analoghe.
La domanda di moneta per questi due moventi dipende dal
livello del reddito del soggetto, secondo Keynes, perché è normale che
al crescere del reddito si preferisca detenere una cifra maggiore del
reddito in forma liquida.
In realtà Keynes sbaglia perché la domanda di moneta a scopo
transazionale e precauzionale di un individuo dipende, oltre che dal
reddito, anche dalla ricchezza e dal patrimonio dell'operatore
economico in questione.

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Per la collettività nel complesso, afferma Keynes, la quantità


di moneta desiderata a scopo transazionale e precauzionale è una
funzione crescente del reddito nazionale.
Senza dubbio, se consideriamo l'economia nel breve termine, in
prima approssimazione, possiamo accettare la tesi di Keynes. Quanto
maggiore è il livello del reddito nazionale, tanto maggiore è la
domanda di moneta per gli scopi transazionale e precauzionale. Fino a
questo punto, l'analisi keynesiana non si differenzia sostanzialmente
dalla scuola di Cambridge. Secondo Keynes, però, esiste anche la
domanda di moneta per scopi speculativi e questa varia molto
frequentemente. Le sue variazioni frequenti ci dimostrano che K non
può essere stabile come credono i monetaristi.
La domanda di moneta a scopo speculativo dipende dal
comportamento degli speculatori sui mercati secondari. Dice Keynes
che il loro comportamento determina gran parte della domanda di
moneta.
Abbiamo visto che gli speculatori, al contrario dei cassettisti,
non sono interessati ai dividendi futuri delle azioni e al tasso
d'interesse dei titoli a reddito fisso. Essi mantengono in portafoglio le
azioni per un breve o brevissimo arco di tempo, aspettando che il loro
prezzo salga abbastanza o diminuisca abbastanza per permettere loro
di realizzare un guadagno. Abbiamo visto che gli speculatori possono
trarre guadagno sul mercato secondario sia giocando al ribasso che al
rialzo di un titolo o di un azione.
Il loro interesse si concentra sul prezzo dell'azione e sui
guadagni che si possono ottenere se si prevede il futuro andamento
del titolo o dell'azione.

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Nella realtà angloamericana degli anni Trenta, cui si riferiva


Keynes, i titoli più trattati erano le obbligazioni e il saggio di
interesse più rilevante era costituito dal tasso di interesse pagato su
di esse.
Ciascun individuo può detenere il proprio reddito sotto diverse
forme, ma supponiamo, afferma Keynes, che due siano quelle
principali:
moneta e titoli a reddito fisso, che chiameremo obbligazioni.

Quando l'individuo detiene il suo reddito sotto forma di moneta,


contanti o deposito in conto corrente, non ha alcun rendimento o un
rendimento bassissimo, ma ha il vantaggio di avere a disposizione
quei valori e di poterli immediatamente negoziare. Se viceversa il
soggetto investe il suo reddito in obbligazioni, perde questo
vantaggio, però ha un guadagno derivante dal fatto che le
obbligazioni fruttano un certo rendimento o saggio di interesse, a
differenza della moneta.
Questo però è l'approccio di quello che viene chiamato il
cassettista, cioè che si limita a detenere i titoli.
Completamente diverso è l'approccio dello speculatore, che mira
a guadagnare sulle variazioni future del prezzo dei titoli.
Per comprendere il comportamento degli speculatori bisogna
innanzitutto capire che fra tasso di interesse e prezzo delle
obbligazioni.

Quando sale il prezzo di un titolo a reddito fisso, a differenza di


quanto accade quando aumenta un azione, il rendimento annuale
dell'obbligazione rimane costante, mentre il tasso di interesse scende.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è


coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n.
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Più precisamente il tasso di interesse di un titolo a reddito fisso


è una frazione, in cui al numeratore vi è il reddito nominale del titolo
e al denominatore vi è il prezzo, detto anche quotazione o corso, del
titolo (p).
Pertanto il tasso di interesse di un titolo è

R/p = i

Poiché R (il reddito nominale) è fisso mentre p (il corso del


titolo) varia, il valore della frazione varierà in direzione inversa al
variare di p: cioè quando il prezzo di un titolo aumenta, il tasso di
interesse del titolo diminuisce e viceversa.
Ecco spiegata e dimostrata la relazione inversa tra il tasso
d'interesse e il prezzo dei titoli.
Il lettore si domanderà perché questa spiegazione, visto che il
corso di lezioni è un corso di Politica economica e non di speculazione
sui mercati finanziari. Perché questa relazione inversa ha grandi
conseguenze sulla domanda di moneta per il motivo speculativo.
Gli speculatori, infatti, osservano il mercato e cercano di
prevedere l'andamento futuro dei titoli a reddito fisso.
Se considerano il corso dei titoli a reddito fisso relativamente
basso (il che d'altra parte significa che considerano il tasso d'interesse
relativamente alto) acquistano i titoli e la quantità di moneta per
movente speculativo diminuirà.
Viceversa, se considerano il corso dei titoli a reddito fisso
relativamente alto (il che d'altra parte significa che considerano il
tasso d'interesse relativamente basso) faranno il contrario.

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Se formalizziamo quanto abbiamo detto fino ad ora possiamo


scrivere:

M1 = k (+ Y) [11]

e fino a questo punto nulla di nuovo rispetto alla scuola di


Cambridge, ma alla domanda di moneta per il motivo transattivo e
precauzionale, dobbiamo aggiungere la domanda di moneta per il fine
speculativo che possiamo scrivere formalmente:
M2 = f (- i) [12]

che vuol dire che la domanda di moneta per il motivo


speculativo è inversa al tasso di interesse.
Cerchiamo di rappresentare graficamente la domanda di
moneta complessiva.
Dato un sistema di assi cartesiani sull'asse delle ordinate
poniamo il tasso di interesse (i) e sull'asse delle ascisse la quantità di
moneta per il movente speculativo. La domanda di moneta per il
movente speculativo è discendente in quanto a tassi alti corrisponde
una bassa domanda da parte degli speculatori e a bassi tassi di
interesse corrisponde invece un'alta domanda di moneta.

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Figura 4

Come si determina il saggio di interesse di equilibrio


dell'economia?
Abbiamo visto che gli operatori, con il loro comportamento,
influenzano l'offerta di moneta, perché con la richiesta dei prestiti
possono moltiplicare i depositi originari e aumentare l'offerta
complessiva di moneta. Questo ci potrebbe portare a concludere che
l'offerta di moneta non è determinabile dalle autorità. Abbiamo però
visto anche che, per quanto il comportamento del pubblico
contribuisca a determinarne il volume, le autorità monetarie sono

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sempre in grado, con una serie di strumenti, di decidere in modo


definitivo l'offerta della stessa.
L'idea di Keynes di considerare l'offerta di moneta come decisa
dalle autorità monetarie è dunque giusta. Il saggio di interesse
d'equilibrio è dato dall'incontro tra domanda e offerta di moneta.
Dunque l'autorità monetaria è in grado di definire sia l'offerta
di moneta, che il tasso di interesse.
Dal momento che l'offerta è data, nel grafico essa è una retta
parallela all'asse delle ordinate. In questo modo rappresentiamo che
essa non dipende dal tasso di interesse.

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Figura 5

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4. IL MOLTIPLICATORE DEGLI INVESTIMENTI

Si noti che già siamo difronte a una completa rivoluzione del


pensiero economico.
Se si confronta la figura 5 con la figura 2 si comprende che per i
classici e i neoclassici inglesi (figura 2) il tasso d'interesse è
considerato un fenomeno reale, che mette in equilibrio risparmi e
investimenti, mentre nello schema teorico keynesiano il tasso
d'interesse è spiegato come un fenomeno essenzialmente monetario,
che mette in equilibrio la domanda complessiva di moneta con
l'offerta.
Diversa sono anche le conseguenze degli squilibri monetari.
Secondo la scuola quantitativa un eccesso di offerta dei prezzi si
scarica sul mercato dei beni. Secondo Keynes un eccesso di offerta di
moneta si scarica sul mercato dei titoli, il corso dei titoli cresce e il
tasso scende e si riequilibra.
Ma la rivoluzione keynesiana non finisce qui.
Come anticipato Keynes non contesta soltanto l'ipotesi della
stabilità della velocità di circolazione della moneta. Egli contesta
anche l'assunto classico e neoclassico della piena occupazione.
Quando Keynes scrive ha davanti a sé milioni di disoccupati e
le fabbriche con i macchinari che non ripartono. L'evidenza storica
smentisce l'ottimismo delle scuole economiche.
Nel pensiero Keynesiano centrale è il ruolo dell'imprenditore in
antitesi allo speculatore. Perché? Perché secondo Keynes
l'investimento è al cuore dello sviluppo economico. L'investimento, a
differenza della speculazione, accresce la disponibilità di beni capitali
reali da impiegare nel processo produttivo. Occorre stare attenti

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perché gli economisti usano il termine investimento con un preciso


significato, diverso da quello usato comunemente. L'acquisto di
un'impresa o di impianti già esistenti o delle azioni di un'azienda per
acquisirne il controllo, non sono investimento in senso
macroeconomico. E' investimento esclusivamente l'incremento di
capitale reale da impiegare nel processo produttivo.
Che cosa muove l'imprenditore nel fare l'investimento?
L'aspettativa di profitto.
Keynes riprende il concetto già introdotto da Wicksell e
specifica che l'imprenditore decide di effettuare l'investimento
pensando ai rendimenti prospettici attesi dall'investimento.
Tali rendimenti attesi, che Keynes chiama efficienza marginale
del capitale, non devono essere inferiori al tasso di interesse corrente
sul mercato. In questo caso infatti all'imprenditore converrebbe
acquistare i titoli sul mercato, se utilizza fondi propri.
Se invece deve indebitarsi, non sarebbe in grado di onorare la
restituzione del prestito, visto che vedrebbe realizzati rendimenti
inferiori al costo del finanziamento.
Quali e quanti investimenti si realizzeranno complessivamente
nell'economia?
Tutti quelli pari o maggiori al costo del denaro, cioè al tasso di
interesse corrente di mercato.
Nel grafico successivo indichiamo tutti i rendimenti possibili di
una serie di investimenti possibili.

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Figura 6

Dati tutti i possibili rendimenti dei vari investimenti, dobbiamo


andare sul mercato monetario, dice Keynes, per comprendere quali
investimenti si realizzeranno.

Figura 7

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Nel grafico della figura 7 l'equilibrio si è raggiunto sul mercato


monetario al 4%. In tal caso si realizzeranno tutti gli investimenti
superiori o uguali al 4%.

Figura 8

Il punto E indica il punto di incontro tra il tasso d'interesse e


l'EMK e la proiezione sull'asse delle ascisse ci indica il volume di
investimenti che si realizzerà, ma tale tasso, a differenza di quanto
previsto dalla teoria classica, è ottenuto non dall'equilibrio tra
risparmi ed investimenti sul mercato reale, ma dall'incontro tra il
tasso di interesse (generato dall'incontro tra la domanda di moneta
per il fine speculativo e l'offerta di moneta stabilita dalle autorità
monetarie) e l'aspettativa di profitti futuri da parte degli
imprenditori.

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Ma perché è così importante determinare il volume degli


investimenti secondo Keynes?
E' semplice: perché è il volume degli investimenti che
determina il livello del reddito.
Il reddito si compone della spesa in beni di consumo e di spesa
in investimenti (incremento di capitale reale).

In termini formali:

Y=C+I [13]

Anche questa, come Y = PQ è un'identità.


Perché abbia un significato bisogna introdurre una causalità
tra le variabili.
Dice Keynes, il consumo di una persona, come quello di una
collettività dipende dal suo reddito. Si consuma una parte del proprio
reddito. Pertanto

C=cY [14]

dove c è la propensione al consumo di una determinata


collettività e nel breve termine è costante.

possiamo allora riscrivere la [13]

Y=cY+I [15]

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Gli investimenti invece sono indipendenti dal reddito. Abbiamo


visto che essi dipendono dal confronto tra l'attualizzazione delle
aspettative future di profitto (EMK) e il costo del denaro (tasso
d'interesse corrente di mercato).
La [15] può essere anche scritta

I=Y–cY

I = Y · (1 - c)

Il reddito è allora dato da:

Y = 1/ (1 – c) · I [16]

e lo stesso vale per le variazioni degli investimenti:

Δ Y = 1/(1 – c) · ΔI [17]

Le variazioni degli investimenti determineranno sempre una


variazione del reddito superiore a quella della variazione della
variabile indipendente (gli investimenti).
Ricordiamo che per investimenti Keynes intende sempre
capitale reale aggiuntivo a quello esistente.
Immaginiamo che in una collettività esista una propensione
media al consumo del 50%.
Si tratta di una società non consumista e abbastanza ricca per
sostenere le spese di base con la metà del proprio reddito.

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Immaginiamo che ci siano investimenti in nuovo capitale reale


per 1 miliardo di euro.
Dovremo solo sostituire alla [17] i dati appena indicati e
avremo:

Δ Y = 1/(1 – 0,50) · 1

Δ Y = 1/0,50 · 1

ΔY=2·1=2

In questo caso la variazione del reddito nominale (ricordati che


Y = PQ e non sappiamo se saranno aumentati i prezzi o le quantità) è
doppia rispetto all'investimento.
Se invece registriamo una propensione al consumo del 80%, la
variazione del reddito sarà ancora maggiore. Infatti:

Δ Y = 1/(1 – 0,80) · 1

Δ Y = 1/0,20 · 1

ΔY=5·1=5

La variazione del reddito nominale è ora 5 volte la variazione


dell'investimento.
L'aumento di spesa in beni di investimento si traduce in un
aumento della produzione delle imprese che forniscono tali beni e
sulla catena dei loro fornitori e subfornitori. Per rispondere alla

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commessa sarà necessario aumentare l'occupazione e i nuovi occupati


avranno reddito da spendere, ma la loro spesa aumenterà
corrispondentemente il reddito dei commercianti, una parte di questo
reddito sarà speso e così via in un processo moltiplicativo, che
dipenderà essenzialmente dalla percentuale di reddito speso, cioè
dalla propensione al consumo di quella comunità.

Ora è importante un'osservazione: la [17] può essere scritta


anche così:

Δ Y = 1/(1 – c) · ΔS [17]

infatti

S=Y–C

C=cY

quindi

S=Y–cY

S = Y (1 – c)

Y = S 1/(1 – c) [18]

Questo significa che nella teoria economica keynesiana è il


reddito a determinare l'equilibrio tra risparmio e investimento.

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Figura 9

Il livello degli investimenti dipende dal confronto tra


l'efficienza marginale del capitale ed è data in questo grafico. Il
risparmio, invece è funzione crescente del reddito monetario.
L'equilibrio tra risparmi e investimenti determina il reddito nazionale
monetario d'equilibrio in corrispondenza dell'asse delle ascisse.
Ma, se questo è vero, significa che in Keynes il ribaltamento
della teoria economica rispetto alla teoria quantitativa e classica è
totale.

Confrontiamo le due teorie:

a) nella teoria classica e quantitativa il saggio di interesse è un


fenomeno reale e mette in equilibrio risparmio e investimenti
(Figura 2), mentre il reddito è un fenomeno monetario e mette
un equilibrio la domanda e l'offerta di moneta (Figura 1) ;

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b) secondo Keynes, invece, il saggio di interesse è essenzialmente


un fenomeno monetario e mette in equilibrio domanda e offerta
di moneta, (Figura 7), mentre il reddito è un fenomeno reale e
mette in equilibrio il risparmio e l'investimento.
Esistono però, secondo Keynes, due situazioni in cui il
meccanismo di trasmissione dell'incremento della moneta non ha
conseguenze sul volume degli investimenti

 La trappola della liquidità: il tasso di interesse, secondo


Keynes, non scenderà mai al di sotto di un valore, che è, a
suo dire, circa del 2% l'anno. Quando il saggio di interesse
ha quel valore, il prezzo delle obbligazioni è talmente alto
che gli speculatori giocano al ribasso. Per fare questo
detengono tutto il loro reddito sotto forma di moneta, in
attesa che il prezzo delle obbligazioni cominci a diminuire.
In queste circostanze, qualsiasi incremento da parte delle
autorità monetarie, viene trattenuto e non comporta un
incremento dell'acquisto delle azioni e dunque una
diminuzione del tasso di interesse. In termini grafici
significa che la curva di M2 è piatta e che gli incrementi di
MS non determinano nessuna variazione del tasso.

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Figura 10

 una perfetta rigidità degli investimenti: in questo caso le


previsioni degli imprenditori sono così pessimistiche, che per
quanto scenda il tasso corrente di interesse, gli investimenti
non mostrano nessuna variazione. In questo caso la curva
dell'efficienza marginale del capitale è rappresentata come
una parallela all'asse delle ascisse e non vale più che gli
investimenti dipendono da EMK ≥ i

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Figura 11

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LA POLITICA MONETARIA.
QUADRO TEORICO
Salvatore Della Corte
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Indice

1. IL SUPERAMENTO DELLO SCHEMA QUANTITATIVO E DI QUELLO


KEYNESIANO--------------------------------------------------------------------------------------- 3
2. LO SCHEMA IS - LM----------------------------------------------------------------------------- 13
3. L'UTILIZZO DELLO SCHEMA EURISTICO IS – LM NELLA POLITICA
ECONOMICA. CRITICHE AL MODELLO -------------------------------------------------- 22

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1. IL SUPERAMENTO DELLO SCHEMA


QUANTITATIVO E DI QUELLO KEYNESIANO

Esistono due descrizioni del funzionamento macroeconomico


completamente opposte.
Da un lato abbiamo la spiegazione della teoria quantitativa
della moneta, secondo la quale il reddito è un fenomeno monetario che
equilibra domanda e offerta di moneta. In questo schema l'incremento
della moneta genera inflazione e questo avviene perché V e Q sono
costanti.
V perché dipende dalle consuetudini circa la domanda di
moneta per il motivo transattivo (nella formulazione di Cambridge) e
Q perché, secondo la scuola quantitativa, la flessibilità assoluta dei
salari, consente sempre l'occupazione dei fattori produttivi e la
produzione massima d'equilibrio.
P=aM [1]

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Figura 1

Il tasso di interesse, invece, è un fenomeno esclusivamente


reale e mette in equilibrio domanda ed offerta di moneta
S (+ i) = I ( - i ) [2]
dove
S = save, in italiano risparmio
i = interest rate (tasso di interesse)
I = investimento
Al crescere del tasso di interesse aumenta la disponibilità degli
operatori a risparmiare, ma diminuisce quella degli operatori a
richiedere denaro in prestito.
Esiste un punto in cui domanda ed offerta di equilibrano e quel
punto determina il tasso di interesse di equilibrio.

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In termini grafici

Figura 2

Il punto di equilibrio è il punto in cui si incontrano le due rette


(il punto E).
Le conclusioni di Politica economica sono altrettanto semplici:
dal momento che l'economia raggiunge l'equilibrio in modo autonomo,
gli interventi del governo sull'economia non sono soltanto inutili, ma
possono essere anche dannosi.
In particolare è dannosa qualsiasi espansione dell'offerta di
moneta perché questa crea inflazione.

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La descrizione del funzionamento macroeconomico da parte di


Keynes è completamente opposto.
La teoria quantitativa non si è resa conto che gli operatori non
chiedono moneta soltanto per il motivo transattivo e precauzionale,
ma anche per quello speculativo. Dal momento che esiste una
relazione inversa tra il tasso di interesse e la domanda di moneta per
il motivo speculativo, la domanda di moneta aumenta al diminuire del
tasso di interesse, ma tutto ciò ha una conseguenza sull'economia
reale, perché gli imprenditori decideranno se effettuare o meno un
nuovo investimento, confrontando i tassi con le attese di profitto.

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Figura 3

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Figura 4

Dati tutti i possibili rendimenti dei vari investimenti, dobbiamo


vedere quale tasso di interesse si crea sul mercato monetario, per
comprendere quali investimenti si realizzeranno.
Figura 5

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Figura 6

Il punto E indica il punto di incontro tra il tasso d'interesse,


determinatosi sul mercato monetario e l'EMK. La proiezione di quel
punto sull'asse delle ascisse ci indica il volume di investimenti che si
realizzerà, ma tale tasso, a differenza di quanto previsto dalla teoria
classica, è ottenuto non dall'equilibrio tra risparmi ed investimenti
sul mercato reale, ma dall'incontro tra il tasso di interesse (generato
dall'incontro tra la domanda di moneta per il fine speculativo e
l'offerta di moneta stabilita dalle autorità monetarie) e l'aspettativa di
profitti futuri da parte degli imprenditori.
Determinato l'incremento degli investimenti, avremo
l'incremento del reddito, tramite il moltiplicatore Keynesiano:

Δ Y = 1/(1 – c) · ΔI [3]
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Figura 7

Il ribaltamento è completo. Secondo Keynes il saggio di


interesse è essenzialmente un fenomeno monetario e mette in
equilibrio domanda e offerta di moneta, mentre il reddito è un
fenomeno reale e mette in equilibrio il risparmio e l'investimento. Il
punto in cui il mercato monetario e quello reale si incontrano è nel
momento in cui gli imprenditori decidono se effettuare un
investimento o meno, tenendo conto del costo del denaro e delle attese
future di profitto.
Le conseguenze di politica economica sono molto differenti da
quelle quantitative.
In un economia monetaria, la moneta non è soltanto strumento
di scambio e di conservazione del valore nel tempo; la moneta non è
esclusivamente un velo che copre l'andamento reale dell'economia.
La politica monetaria ha grandi conseguenze sull'andamento
dell'economia reale perché il tasso d'interesse che si crea sui mercati

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finanziari, determina le variazioni di capitale fisico. Le variazioni di


capitale fisico determinano gli incrementi dell'occupazione e questi
ultimi generano tramite la spesa ulteriori incrementi di occupazione.
Se è così, allora la politica monetaria può aumentare
l'occupazione, se rende possibili il maggior numero di investimenti
data la curva esistente dell'efficienza marginale del capitale.
Dal momento che essa agisce indirettamente, esistono dei limiti
alla sua azione, di cui lo stesso Keynes è consapevole. Può accadere
che il saggio d'interesse arrivi ad avere un livello così basso, e
corrispondentemente i corsi dei titoli un livello così alto, che gli
speculatori trattengano moneta in attesa dei futuri ribassi. In tal caso
ulteriori immissioni di liquidità, vengono sempre trattenute dagli
operatori. E' la trappola della liquidità.

Figura 8

Le previsioni degli imprenditori sono così pessimistiche, che per


quanto possa scendere il tasso corrente di interesse, nessuno avrà il
coraggio di investire.

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parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n.
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Figura 9

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2. LO SCHEMA IS - LM

Gli studiosi di economia debbono senza dubbio moltissimo a


Keynes, perché, demolendo l'idea che il risparmio e l'investimento
fossero esclusivamente un fenomeno reale e il reddito uno monetario,
ci ha permesso una visione più articolata della realtà economica.
Keynes cioè vide l'altra faccia della medaglia. Scoprì che
l'investimento e il risparmio sono fenomeni anche monetari e che il
reddito è un fenomeno anche reale.
Come sempre accade quando scoperte così importanti
avvengono, nella sua opera maggiore si soffermò sulla critica, la
falsificazione delle teorie precedenti e l'introduzione di concetti del
tutto nuovi nella teoria macroeconomica.
Leggendo la “Teoria generale” si può quindi giungere a
conclusioni parziali e considerare il quadro teorico Keynesiano
incompleto.
Soprattutto due rimangono le indeterminatezze logiche della
teoria keynesiana.

1. La teoria keynesiana determina il livello di equilibrio del


reddito secondo il seguente processo logico:
a) domanda e offerta di moneta determinano (→) il tasso di
interesse di equilibrio:
b) il tasso di interesse di equilibrio determina (→) (considerata
una determinata curva dell'efficienza marginale del capitale) il
livello degli investimenti;
c) il livello degli investimenti determina (→) (mediante il
moltiplicatore degli investimenti) il livello del reddito

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Ma, per conoscere la domanda di moneta per il movente


transattivo, occorre conoscere il livello del reddito. Allora la variabile
indipendente dipende essa stessa dalla variabile da determinare.

2. Nella teoria keynesiana è il reddito a determinare l'equilibrio


tra risparmio e investimento. Ma il risparmio dipende esso
stesso dal reddito, per cui, ancora una volta, una delle due
variabili indipendenti del modello dipende essa stessa dalla
variabile indeterminata.
Keynes ha scoperto l'altra faccia della medaglia della
macroeconomia, ma, non seguendo il metodo della falsificazione della
propria teoria, ma quello della verifica, ha finito con il rifiutare
interamente la teoria precedente, anche negli elementi di verità che
essa contiene.
Hicks e Hausen superarono l'indeterminatezza del modello
keynesiano e proposero una sintesi tra i classici e Keynes.
L'equilibrio tra risparmio e investimento è determinato nei
classici dal tasso di interesse e in Keynes dal reddito. Abbiamo anche
visto che anche Keynes considera il risparmio una funzione crescente
del reddito e che il suo modello è indeterminato perché non formalizza
questo aspetto.
Costruiamo un sistema di equazioni che consideri tutti questi
aspetti. Ovviamente siamo in un economia semplificata, come
abbiamo ipotizzato fino ad ora, senza rapporti con l'estero.
Il risparmio è allora funzione sia del reddito che del tasso di
interesse: cresce al crescere del reddito e cresce al crescere del tasso di
interesse.

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Possiamo scrivere:
S = S (+Y, +i) [4]

nella [4], a differenza che nella teoria classica, il risparmio


dipende anche dal reddito e non solo dal tasso di interesse corrente
sul mercato; a differenza che nella teoria keynesiana il risparmio
dipende anche dal tasso di interesse di mercato, oltre che dal reddito.

I = I (-i) [5]

l'investimento è funzione esclusivamente del tasso di interesse.


Classici e Keynesiani su questo punto concordano, anche se vedremo
che in realtà gli investimenti, almeno quelli dipendenti da
ammortamenti di capitale fisico esistente, dipendono anche dal
reddito. In ogni caso accettiamo la semplificazione. Data una
determinata curva dell'EMK di un determinato Paese in un certo
momento storico, consideriamo l'investimento dipendente
esclusivamente dal tasso corrente di mercato.
Ovviamente condizione di equilibrio del mercato reale è che
risparmi e investimenti si eguaglino.

S=I [6]
Graficamente, dal momento che possiamo rappresentare su di
un piano unicamente due variabili, porremo sull'asse delle ordinate il
tasso di interesse e il risparmio e l'investimento sull'asse delle ascisse.
Questa volta disegneremo una curva del risparmio per ogni
determinato livello di reddito. Ogni curva del risparmio avrà

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ovviamente andamento crescente, al crescere del tasso di interesse.


Avremo invece un'unica curva per gli investimenti
Nei punti E1, E2 ed E3 si raggiungerà l'equilibrio.

Figura 10

Su di una altro grafico indicheremo sull'asse delle ascisse i


livelli di redditi 1, 2, 3 …... in base ai quali abbiamo costruito le curve
S1, S2 S3 …. e sulle ordinate i corrispondenti livelli di tasso di
interesse che equilibrano domanda e offerta di risparmio E1 = i1, E2 =
i2 etc..
Avremo disegnato in questo modo la curva IS.

Tale curva indica le combinazioni di reddito e di tasso corrente


di interesse che assicurano l'equilibrio del mercato dei beni. La retta è

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discendente perché al crescere del reddito cresce il risparmio, perché


gli investimenti aumentino corrispondentemente, i tassi di interesse
devono scendere.
Al crescere del reddito la condizione di equilibrio sul mercato
dei beni è assicurata dalla discesa dei tassi di interesse.

Figura 11

L'equilibrio sul mercato dei beni è assicurato se al crescere del


reddito diminuiscono corrispondentemente i tassi di interesse, in

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modo che gli investimenti crescano fino ad eguagliare la crescita del


risparmio.
Cerchiamo adesso di individuare le condizioni che assicurino
analogamente livelli di equilibrio tra la domanda di moneta e l'offerta
di moneta.
A differenza di quanto ritenuto dalla scuola di Cambridge,
accanto alla domanda di moneta per il movente transattivo esiste la
domanda di moneta per il movente speculativo.
Possiamo allora scrivere

L = L (+Y, - i) [7]

La quantità di moneta è da considerarsi per entrambe le teorie


controllabile dalle autorità monetarie, che sono in grado di controllare
sia l'emissione di nuova moneta, sia il processo moltiplicativo dei
depositi originari di cui è capace il sistema bancario.
Questa volta avremo una curva che rappresenta la domanda di
moneta per il motivo speculativo per ogni reddito considerato.

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Figura 12

Al crescere del reddito aumenta la domanda di moneta per il


movente transattivo e precauzionale. Perché si mantenga l'equilibrio
con una data offerta di moneta è necessario che la domanda di moneta
per il movente speculativo diminuisca. Sappiamo che questo accade
quando sale il tasso di interesse e si preferisce acquistare titoli, il cui
prezzo è corrispondentemente sceso.
Anche questa volta possiamo associare su di un grafico i livelli
di reddito e i corrispondenti livelli di tasso di interesse che
equilibrano il mercato monetario.

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Avremo allora la curva LM


Questa curva cresce da sinistra a destra perché l'equilibrio sul
mercato monetario, data una certa quantità di moneta stabilita
dall'autorità monetaria, necessita che, al crescere della domanda per
il motivo transattivo e precauzionale (funzione crescente) diminuisce
la domanda di moneta per il movente speculativo (il che accade
unicamente quando il tasso di interesse corrente di mercato sale e
quindi scende il prezzo dei titoli a reddito fisso e gli speculatori
preferiscono mantenere titoli piuttosto che moneta).

Figura 13

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La curva LM indica i punti che assicurano l'equilibrio sul


mercato monetario.
Il punto di equilibrio dell'intero sistema economico è assicurato
nel punto in cui sono contemporaneamente assicurati l'equilibrio
monetario e quello del mercato dei beni, che sono entrambi sia
fenomeni monetari sia fenomeni reali.
Soltanto il punto di incontro tra la curva IS e la curva LM
assicura il contemporaneo soddisfacimento dell'equilibrio sui due
mercati.

Figura 14

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3. L'UTILIZZO DELLO SCHEMA EURISTICO IS –


LM NELLA POLITICA ECONOMICA. CRITICHE
AL MODELLO

Una politica monetaria espansiva si rappresenta con lo


spostamento della curva LM a destra.
Perché?
Bisogna ricordare che per costruire la curva LM abbiamo
considerato data la quantità di moneta stabilita dalle autorità
monetarie e abbiamo registrato che, al crescere della quantità di
moneta domandata per il movente transattivo, doveva
necessariamente scendere quella per il movente speculativo.
Ora dobbiamo fare un esercizio più sofisticato e dobbiamo
registrare, tenuto conto delle diverse domande di moneta per il
movente speculativo corrispondenti a redditi diversi, come impatta un
incremento dell'offerta complessiva di moneta dipendente dalle
seguenti manovre:

 dalla stampa di nuovi biglietti;

 dall'incremento delle operazioni sul mercato aperto (nel caso


specifico acquisto di titoli);

 dall'allentamento della riserva obbligatoria dei depositi


bancari;

 dalla diminuzione del tasso di interesse di riferimento a cui


la banca centrale rilascia credito alle banche ordinarie.

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In termini grafici questo si rappresenta su di un grafico analogo


a quello della figura 12 con una nuova curva parallela all'asse delle
ordinate (perché l'offerta di moneta delle autorità monetarie è
indipendente dal tasso di interesse) maggiore della precedente e per
questo più a destra.
Immaginiamo una nuova offerta di moneta che sale, per
esempio, dai precedenti 2 bilioni e trecento miliardi di euro a 4 bilioni.

Figura 15

La figura mostra chiaramente come l'aumento di offerta delle


autorità monetarie da M1 a M2 determini nuovi equilibri rispetto ai

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precedenti (E1', E2', E3' …..) tutti con redditi più alti e tassi di
interesse più bassi.
Se trasponiamo questi risultati sulla sistema delle curve IS
LM, la nuova curva LM' sarà a destra della precedente.

Figura 16

Dall'analisi del modello risulta evidente che il livello del reddito


e il livello del tasso di interesse sono determinati dall'interagire delle
funzioni del risparmio, dell'investimento, della domanda e dell'offerta
di moneta.
In questo modello, a differenza che in quello della teoria
quantitativa della moneta (cosiddetto classico) e quello della teoria

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generale (cosiddetto keynesiano semplificato), non esiste una


dicotomia tra il settore reale e quello monetario.
La moneta però, a differenza di quanto previsto dalla teoria
quantitativa, non è mai neutrale (se non in particolari casi che
andremo a studiare).
L'offerta di moneta contribuisce a determinare le grandezze
reali. Nella figura 16, infatti, l'incremento della quantità di moneta
da LM a LM' comporta un incremento di reddito e un abbassamento
del tasso di interesse.
Cerchiamo ora di rappresentare una politica fiscale espansiva
all'interno di questo modello.
Una politica fiscale espansiva si rappresenta con uno
spostamento a destra della cura IS.

Infatti gli investimenti pubblici non possono che essere


rappresentati come investimenti aggiuntivi rispetto a quelli privati,
pertanto i nuovi punti di equilibrio gli investimenti e i risparmi sono
a destra di quelli precedenti della figura 10, in cui avevamo
considerato soltanto l'investimento privato.

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Figura 17

Se trasferiamo il tutto nello schema IS la nuova curva IS' sarà


a destra di quella precedente, con un tasso di interesse maggiore per
ogni livello di reddito considerato.

Nella figura 18 abbiamo disegnato la nuova curva IS'

Figura 18

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Il modello IS – LM è un modello euristico. L'euristica è quella


parte dell'epistemologia che adotta un procedimento euristico, cioè un
metodo di approccio alla soluzione dei problemi che non segue un
percorso chiaro, ma che si affida allo stato temporaneo delle
circostanze.
Come tale è un modello che può essere ricondotto, nei suoi casi
particolari alle circostanze individuate dalle varie teorie economiche
classica o Keynesiana (all'opposto di carattere algoritmico, in cui,
invece si adotta un procedimento di risoluzione di un problema che lo
risolve attraverso un numero finito di passi elementari e univoci).
Per questa ragione il modello si adatta a tutte le circostanze e
le teorie già studiate.
Rappresentiamo il caso, già studiato in Keynes, della rigidità
degli investimenti.
La rigidità degli investimenti nel modello IS - LM si
rappresenta con una curva IS molto rigida.
Perché?
Se riprendiamo la figura 10 della presente lezione, nel caso di
rigidità degli investimenti, alle variazioni del tasso di interesse, la
curva degli investimenti va rappresentata molto rigida. Ne discende
che la curva IS sarà altrettanto rigida.

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Figura 19

La discesa del tasso di interesse necessaria a compensare


l'incremento del risparmio dipeso dalla crescita del risparmio non
comporta notevoli investimenti e variazioni del reddito.

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Figura 20

Allo stesso modo lo schema IS – LM rappresenta il caso della


trappola della liquidità con una curva LM piatta.

Figura 21

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In questo caso il tasso di interesse rimane immutato a livelli di


reddito diversi perché il tasso di interesse è così basso (e i prezzi dei
titoli così alti) che gli speculatori domandano infinitamente moneta.
Possiamo raffigurare anche la visione classica della teoria
quantitativa della moneta con lo schema euristico denominato IS –
LM
In questo caso la curva LM deve essere rappresentata verticale
e parallela all'asse delle ordinate (dove abbiamo i livelli del tasso di
interesse).
Così vogliamo significare che la domanda di moneta dipende
soltanto dalla domanda di moneta per il motivo precauzionale e
transattivo e mai da quello speculativo, per questo non esiste alcun
legame con il tasso di interesse.

Figura 20

Lo schema IS – LM è dunque uno strumento euristico che ci


richiama alla necessità di verificare empiricamente, tramite
strumenti econometrici, la reale situazione dei mercati e ci dice che

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Pag. 30 di 31
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senza questa verifica empirica non è possibile giungere a una


strategia valida ed efficace.
La storia economica è così imprevedibile e articolata, le
situazioni così diverse, che il responsabile della Politica economica
deve individuare l'esatta situazione dei mercati con verifiche
empiriche e decidere sulla base di queste.
In ogni caso lo schema IS – LM è stato aspramente criticato
dagli economisti monetaristi perché non riesce, per come è
congegnato, a mettere in risalto la formazione dei prezzi e studiare e
prevedere l'inflazione. In effetti tutte le variabili sono variabili
monetarie. Il reddito è il reddito monetario, così come il tasso di
interesse è quello monetario. Per queste ragioni il modello non è
utilizzabile per studiare l'inflazione. La nuova macroeconomia
classica ha invece contestato il modello per l'incapacità di considerare
le aspettative degli operatori economici e le conseguenze di queste
reazioni sull'economia. Lo studio di queste teorie avverrà in altra
lezione e qui vengono solo accennate. Al momento attuale è comunque
riconosciuta dagli studiosi un ottimo grado di validità come processo
euristico e un buon grado di approssimazione e predizione delle
conseguenze di una politica monetaria, in caso di rilevazione empirica
di inflazione moderata.

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POLITICA MONETARIA E
RELAZIONI
INTERNAZIONALI
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Politica monetaria e relazioni
internazionali”

Indice

1. EFFETTI DEL MERCATO APERTO --------------------------------------------------------- 3


2. LA STABILITÀ FINANZIARIA ---------------------------------------------------------------- 5

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Giovanni Cannata “Politica monetaria e relazioni
internazionali”

1. EFFETTI DEL MERCATO APERTO

Un’economia aperta e con libera circolazione di capitali


certamente realizza una diminuzione dei tassi d’interesse e una
minore remunerazione delle attività finanziarie interne. Infatti, se
non ci sono controlli sui movimenti di capitale gli investitori vendono
immobilizzazioni nazionali e acquistano immobilizzazioni estere e il
prezzo relativo di quelle nazionali diminuisce.
Un aumento del tasso d’interesse determina una valorizzazione
della moneta secondo un circuito per il quale le variazioni del tasso di
cambio incidono sul livello dei prezzi a causa della rivalutazione o
della svalutazione delle importazioni. Tutto ciò si riverbera sulla
domanda aggregata a causa della sostituzione tra beni interni e
esterni tra beni commerciabili e non commerciabili ma anche
sull’offerta aggregata a causa della variazione del prezzo relativo delle
materie prime, dei beni di carattere intermedio importati.
Il ruolo della politica monetaria sull’estero è particolarmente
rilevante nelle economie minori con relazioni internazionali.
Con alta mobilità dei capitali il tasso di cambio dipende dal
movimento dei capitali privati alla luce del rendimento differente nei
diversi paesi in condizioni di neutralità al rischio. In questo caso
qualsiasi differenza di rendimento determina uno spostamento di
capitali.
Si parla di parità scoperta dei tassi di interesse (Uncovered
Interest Rate Party) quando non ci sono restrizioni sui mercati dei
capitali, gli investimenti sono sostituibili e gli investitori sono
neutrali al rischio. Se i residenti non prevedono variazioni di tasso di
cambio investono all’estero se meglio remunerati e conseguentemente

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Giovanni Cannata “Politica monetaria e relazioni
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i svalutano le monete nazionali fino al momento di una ipotesi di


rivalutazione.
Il tasso di cambio reagisce istantaneamente ai cambiamenti
delle aspettative sulle politiche monetarie future in relazione a eventi
attesi che possano modificarle. Una variazione del tasso d’interesse
può comportare un overshooting, un deprezzamento (apprezzamento)
di breve del tasso di cambio nominale superiore al valore di lungo
periodo a seguito di un aumento (diminuzione) dell’offerta di moneta.
L’overshooting può essere determinato da un qualche shock iniziale
(investimenti valutari, politica monetaria espansiva, un calo dei tassi
d’interesse nelle stesse proporzioni).
L’overshooting si fonda quindi sull’ipotesi di aspettative
razionali degli agenti dell’economia e di aggiustamento graduale dei
prezzi dei beni e dei servizi.

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2. LA STABILITÀ FINANZIARIA

La stabilità finanziaria costituisce il mandato, esplicito o


implicito, al quale debbono rispondere molte Banche centrali. Il
concetto di stabilità finanziaria è un concetto labile che deve essere
specificamente definito.
La stabilità finanziaria può essere definita come la situazione
in cui gli agenti dell’economia fanno affidamento ad un adeguato
funzionamento del sistema finanziario nelle sue articolazioni e su
un’adeguatezza di borse, camere di compensazione, sistemi di
pagamento. Ma stabilità significa anche un insieme di regole valide,
ben accettate e rispettate.
Stabilità finanziaria significa altresì la disponibilità di mezzi
finanziari costituiti da liquidità erogabile da parte della banca
centrale o anche la messa a disposizione di capitali da parte del
governo. Centrale nella politica della stabilità è il controllo di possibili
contagi per gli effetti devastanti che possono derivare sul resto
dell’economia.
Le situazioni di instabilità possono determinare ripercussioni
significative per la collettività per cui debbono essere controllate e
minimizzate le criticità delle crisi dei debiti sovrani.
Il ciclo della trasformazione finanziaria coinvolge a vario livello
e tutti gli agenti (le famiglie, le imprese, gli operatori) che sono
implicate in modo differente in quanto sono caratterizzati da
differenti preferenze, bilanci, orizzonti temporali e propensioni al
rischio.

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Giovanni Cannata “Politica monetaria e relazioni
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Le banche effettuano una raccolta di depositi dalle famiglie per


concedere prestiti con un processo di trasformazione che implica
rischi di vario tipo e cioè:
 Rischi di controparte connessi alla possibilità di
bancarotta del debitore;
 Rischi di mercato relativi al cambiamento di valore dei
beni coinvolti in seguito a variazioni di prezzi o tassi
d’interesse;
 Rischi di liquidità quando un bene offerto in garanzia
non può essere smobilizzato per onorare un impegno.
Tenuto conto del fatto che le banche hanno alti livelli di
coinvolgimento reciproco e il default di una banca può estendersi ad
un’altra determinando ripercussioni complessive sul sistema
finanziario nel complesso e conseguentemente determinando una crisi
sistemica. Questo è quello che costituisce il classico caso di panico
bancario non infrequente nella storia dell’economia ma che può essere
spiegato in modo indifferenziato.
Alcuni autori hanno definito la liquidità interna è (la capacità
del sistema finanziario di attivare e redistribuire le risorse presenti e
future dell’economia attraverso l’emissione di obbligazioni e azioni),
mentre la liquidità esterna è quella fornita da un attore esterno del
mercato.
Nel caso di crisi il ricorso alla liquidità esterna può essere
garantita dalla Banca centrale, FMI, dal mercato internazionale dei
capitali. L’intervento di liquidità delle Banche centrali ha luogo
attraverso interventi di politica monetaria o anche mediante
l’erogazione di prestiti di carattere temporaneo alle banche nei casi in
cui non riescono a finanziarsi.

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L’intervento della Banca centrale, è certamente preferibile ma


non è privo di inconvenienti perché si rivela oneroso per i
risparmiatori i quali trasferiscono risorse alle banche in relazione ai
bassi tassi di interesse.
Inoltre può determinarsi l’inconveniente che le banche
continuino a finanziare progetti non redditizi. A ciò va il rischio di
ulteriori crisi laddove le banche non riducano le dimensioni del
bilancio;
Tutto quanto fin qui ricordato sollecita un rigoroso controllo
della rischiosità delle banche a garanzia di un buon funzionamento
dell’economia.
E’ stato notato che le crisi finanziarie sono scoppiate al termine
di un periodo caratterizzato da bassi tassi di interesse una condizione
che favorisce l’espansione del credito ma anche l’assunzione di rischio.
In questa condizione si ritiene che gli investitori cercano di
raggiungere un valore di riferimento per il capitale nominale a
prescindere dal livello dei tassi di interesse a breve.
Se i tassi d’interesse sono bassi c’è un assunzione del rischio,
ma questo determina un indebitamento più facile dal quale possono
derivare implicazioni in ordine alla rischiosità.

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LA POLITICA MONETARIA:
LE ISTITUZIONI
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica monetaria: le istituzioni”

Indice

1. OBIETTIVI DELLA POLITICA MONETARIA--------------------------------------------- 3


2. LE ISTITUZIONI DELLA POLITICA MONETARIA ------------------------------------- 6

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Giovanni Cannata “La politica monetaria: le istituzioni”

1. OBIETTIVI DELLA POLITICA MONETARIA

Gli obiettivi delle Banche centrali sono fissati dai parlamenti


nazionali o, nel caso di unioni monetarie, dai Trattati istitutivi.
Nel tempo gli obiettivi sono mutati anche alla luce delle nuove
emergenze e dell’evoluzione dell’economia internazionale.
Da una condizione di mandati ampi e talvolta vaghi si è passati
ad obiettivi più definiti, dei quali la stabilità è l’elemento centrale, è
un esempio relativo alla Banca Centrale Europea.
Tenuto conto del fatto che l’inflazione distorce le informazioni
economiche e va controllata se non si vogliono avere ripercussioni
sull’economia. L’inflazione costituisce una vera e propria forma di
tassazione dell’economia, alterando i segnali che i mercati ricevono
dai prezzi.
Le banche centrali sono le garanti dell’inflazione e del valore
della moneta, valore come misura del potere di acquisto. Può essere
utile distinguere un Valore esterno, delle monete (rilevante per
piccole economie aperte), che altro non è che il tasso di cambio da un
Valore interno (rilevante per economie più grandi) che è
rappresentato dal reciproco del valore del livello dei prezzi al
consumo, di un paniere di beni per un consumatore rappresentativo.
La scuola monetarista di Friedman ha sempre sostenuto che
occorre tenere sotto controllo la moneta in circolazione e alla luce di
ciò ritiene che la politica monetaria è lo strumento di controllo
dell’inflazione.
In quest’ottica alla Banca centrale è affidata la missione della
lotta all’inflazione. Gli economisti contemporanei affermano la

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neutralità della moneta nel lungo periodo che implica le grandezze


nominali quali il livello dei prezzi, dei salari, dei tassi d’interesse o del
cambio nominale, non sono collegate alle grandezze reali.
Le politiche monetarie hanno effetto nel lungo periodo solo
sulle grandezze nominali; mentre la politica fiscale influenza la
domanda tanto nel breve quanto nel lungo periodo.
Si conviene poi sul fatto che il controllo dell’inflazione è
facilitato dall’assenza di interferenze con altri obiettivi quali la
stabilizzazione delle produzioni o il finanziamento del deficit pubblico.
Alla luce delle lezioni dell’esperienza occorre una indipendenza
delle banche centrali, e l’attestamento delle stesse sugli obiettivi del
controllo dell’inflazione.
Ruolo rilevante della stabilità è dato dal tasso di cambio nella
politica monetaria. Tenere il tasso di cambio nominale fisso dà luogo
ad un ancoraggio nominale che influisce sui prezzi. Il tasso di cambio
è una misura facilmente osservabile a differenza dell’inflazione che è
manipolabile e pertanto il suo controllo è centrale nell’economia
In Europa solo alcuni paesi fissano il tasso di cambio nominale
per una scelta connessa alla contrarietà all’euro per motivi nelle more
di una sua adozione.
La politica monetaria ha precisi risvolti sulla domanda
aggregata nel breve periodo e la stabilità della produzione. In
presenza di prezzi rigidi e di tassi di interessi bassi si determina un
aumento degli investimenti ed aumento delle esportazioni in
conseguenza dell’aumento di competitività.
L’inflazione determina effetti sulle attività non indicizzate con
ripercussioni sull’economia delle famiglie

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La politica monetaria influenza la stabilità finanziaria e si


ripercuote sui prestiti e sui finanziamenti di famiglie e imprese; L’uso
della politica monetaria per stabilizzare la produzione, è controverso
tuttavia le banche centrali anche in assenza di mandato di
stabilizzazione dell’output gap lo assumono come obiettivo. L’output
gap è una misura dell’eccesso di domanda rispetto all’offerta e dunque
delle tensioni inflazionistiche future Per concludere efficacemente
sulla svalutazione della stabilità si può convenire che essa
rappresenta il codice genetico delle banche centrali.
In sintesi gli obiettivi assegnabili alle banche sono quelli della
stabilità dei prezzi , quello della stabilità dei tassi di cambio, quello
del livello di produzione più prossimo alla stabilità potenziale e quello
della stabilità finanziaria. In realtà solo quello della stabilità dei
prezzi è comune alla gran parte delle Banche centrali.
Gli obiettivi assegnati alla Banca centrale Europea dal Trattato
sono:
 Non quello della stabilità dei tassi di cambio, ma la possibilità
di intervento nel mercato valutario;
 La possibilità di nterventi di stabilità sulla produzione se
coerente con obiettivo stabilità dei prezzi
 L’ntervento di stabilità finanziaria se coerente con gli obiettivi
sulla stabilità dei prezzi.

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2. LE ISTITUZIONI DELLA POLITICA MONETARIA

L’voluzione del sistema istituzionale è iniziata negli anni


Ottanta e poi accelerata verso una concezione di indipendenza del
governo. La Banca centrale viene interpretata come agenzia
indipendente dalle strategie del governo che potrebbe essere
interessato ad un’inflazione più alta. Compito della Banca centrale è
produrre banconote a costi molto basso (K) e le emette al valore
nominale (V) quindi V-K= valore di un prestito senza interessi che
gli agenti dell’economia concedono al Governo.
L’inflazione finisce per essere un’imposta sui detentori di
moneta (tassa d’inflazione) che da un gettito all’autorità centrale
(signoraggio) la cui misura è collegata al livello di indipendenza.
Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea disciplina
l’indipendenza della Banca centrale europea e delle Banche centrali
secondo norme che possono essere cambiate solo con una rigorosa
procedura.
Ciò nell’ipotesi di tutela delle economie europee.
L’indipendenza statutaria è alla base della credibilità della
Banca centrale. La credibilità è legata anche all’adozione di regole
fisse di politica monetaria o tasso di cambio fisso rispetto ad alcune
valute come l’aggancio del marco tedesco nello SME di alcuni paesi
che hanno deciso di agganciare la loro economia al dollaro.
Un altro approccio alla credibilità fa riferimento alla scelta di
banchieri centrali conservatori con un profilo apolitico e contro
l’inflazione, ovvero all’adozione di mandati di lunga per i governatori

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della Banca centrale come nel caso della (14 anni), della BCE (8
anni).
Possono anche essere adottati i contratti incentivanti per i
governatori ai quali possono essere imposte regole di trasparenza
(fare ciò che si dice e dire ciò che si fa)
In generale si richiese alle banche centrali una responsabilità
ovvero una rendicontazione, con una relazione annuale e tecniche
differenziate.
Tendenze più recenti hanno portato alla messa a punto di
procedure di collegialità, con la creazione di comitati di politica
monetaria nei quali le decisioni adeguate vengono assunte
pluralisticamente piuttosto che decisioni singole.
Ovviamente si pongono problemi in ordine alla numerosità
della composizione di questi organismi ed ai poteri ed alle forme
decisionali attribuite ai componenti secondo regole differenti. Aspetti
critici sono quelli delle responsabilità delle decisioni e dei meccanismi
di trasparenza. Altro tema centrale è quello del coordinamento
dell’azione delle banche con il governo.
Il coordinamento e l’interlocuzione con il governo varia da
Paese a Paese: negli USA esiste uno stretto rapporto di lavoro tra
FED e Tesoro mentre nell’Eurozona il commissario affari economici e
il Presidente eurogruppo possono assistere al Governing Council ed il
Presidente della BCE può partecipare all’Eurogruppo.
Va ricordato da ultimo che le Banche centrali sono responsabili
della prevenzione e della risoluzione delle crisi finanziarie.
L’attività di prevenzione concerne il controllo delle istituzioni
finanziarie ma non va confuso con il controllo dei mercati che compete
ad altri soggetti istituzionali come accade in Italia ove la vigilanza

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sulle banche spetta alla Banca d’Italia mentre sui mercati alla
CONSOB.
Nell’Unione Europea l’azione di vigilanza è demandata a livello
di Stato membro anche se esiste un coordinamento delle agenzie
operanti a livello europeo come l’autorità bancaria europea, l’autorità
europea delle assicurazioni, l’autorità europea degli strumenti
finanziari e dei mercati.
Nell’Eurozona il controllo bancario ha luogo sulla base di regole
di buon comportamento e la diffusione delle informazioni relative.
Il cosiddetto Comitato di Basilea ha fissato, in sede
internazionale, esigenze di coordinamento delle procedure. Il controllo
bancario e il tasso di adeguata capitalizzazione (capital adequacy
ratio), è stato previsto dagli accordi di Basilea. Inoltre è stata
predisposta una definizione di un livello del rapporto tra fondi propri
delle banche e ammontare dei prestiti concessi ponderati con il rischio
di controparte .

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LE SCELTE PER
L’INFLAZIONE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Le scelte per l’inflazione”

Indice

1. GLI OBIETTIVI DELLE SCELTE ------------------------------------------------------------- 3


2. EFFETTI DEL MERCATO APERTO --------------------------------------------------------- 6
3. LA PREVISIONE DELLE CRISI --------------------------------------------------------------- 7
4. L’EUROZONA -------------------------------------------------------------------------------------- 9

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Giovanni Cannata “Le scelte per l’inflazione”

1. GLI OBIETTIVI DELLE SCELTE

L’individuazione del tasso d’inflazione ottimale è problematica


a causa di difficoltà sia di tipo statistico che teorico. Quindi vi possono
essere difficoltà nella determinazione degli obiettivi per difficoltà di
misura delle variabili.
L’indice dei prezzi al consumo misura il prezzo di un paniere di
beni rappresentativi del consumo delle famiglie.
Studi effettuati hanno messo in luce, che molteplici possono
essere le cause di sovrastima dell’indice:
 La sostituzione tra i prodotti
 La sostituzione delle forme commerciali e dei punti di
vendita
 Il miglioramento della qualità dei prodotti
 La comparsa di nuovi prodotti
 Problemi di percezione dell’inflazione da parte dei
consumatori

Secondo Phelps il tasso di un’inflazione ottimale deve essere il


risultato di un trade - off tra tasso di inflazione ed effetti delle altre
imposte; l’inflazione la pagano tutti i settori economici, compresa
l’economia sommersa e pertanto può essere ottimale mantenere
un’inflazione moderata. Un’inflazione elevata incide
significativamente sui redditi a minore indicizzazione e colpisce le
fasce più povere che dipendono da redditi non indicizzati. In presenza
di inflazione elevata gli agenti economici hanno la tendenza a
proteggersi da questa perdita di potere d’acquisto facendo ricorso a
contratti indicizzati, ovvero detenendo la propria ricchezza all’estero.

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Giovanni Cannata “Le scelte per l’inflazione”

Un’elevata indicizzazione si accompagna ad un elevata


variabilità dei prezzi che possono indurre aspettative inadeguate ed
errori di previsione con contrazione degli investimenti e della crescita.
Un’inflazione troppo bassa per effetto di asimmetrie
informative e per le rigidità nominali può determinare il fenomeno
denominato trappola della liquidità. Questo comporta un tasso
d’interesse molto basso, domanda per fini speculativi molto alto,
detenzione di moneta, e quindi può generare una politica monetaria
impotente. Secondo alcuni economisti in alcuni contesti un livello di
inflazione può migliorare gli ingranaggi dell’economia ed in ogni caso
si conviene diffusamente che l’inflazione ha comunque un tasso
maggiore di zero.
La manovra attraverso il tasso d’inflazione ha il suo effetto solo
nel lungo periodo e in modo disuguale, con effetti di ritardo che gli
economisti ritengono essere di circa 18 mesi.
Lars Svensson propone di distinguere delle regole per fissare il
tasso di interesse per conseguire un determinato obiettivo:
 La fissazione di regole strumentali che legano il valore
del tasso ad alcuni dati macroeconomici;
 Le targeting rules. Con la minimizzazione di una
funzione di perdita per l’economia specificando gli
obiettivi della banca centrale e i trade offs con le altre
politiche.
 Le targeting rules intermedie. Con la fissazione di
obiettivi sub ottimali ma più facilmente raggiungibili
 Con la fissazione di una regola fondata sulla fissazione
attesa a medio termine comporta:

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 Limiti nella disponibilità delle informazioni per


stabilire la previsione di inflazione;
 Positività di trasparenza con la pubblicazione dei
risultati e del metodo.
La fissazione di obiettivi guarda avanti nel tempo ignora gli
shock se il loro effetto è temporaneo e facilita il coordinamento
internazionale e la stabilizzazione dei tassi di cambio.

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2. EFFETTI DEL MERCATO APERTO

In un’economia aperta e con libera circolazione di capitali si ha una:


o Diminuzione del tasso d’interesse
o Minore remunerazione attività finanziarie interne
o Vendita di asset interni
o Il prezzo degli asset nazionali diminuisce
Inoltre le variazioni del tasso di cambio incidono sulla:
o domanda aggregata
o offerta aggregata

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3. LA PREVISIONE DELLE CRISI

Attraverso meccanismi di controllo delle crisi si possono:

o Mantenere permanentemente le somme disponibili per


il rimborso;
o Effettuare meccanismi di assicurazione dei depositi ed
incentivare ad assumere più rischi. Anche se si possono
determinare atteggiamenti di azzardo morale in quanto
le banche possono speculare su disponibilità della
Banca Centrale;
o Costituire delle riserve di liquidità con buoni del tesoro
come previsto da Basilea III.
Nei casi in cui, nonostante tutte le prevenzioni, si realizzano le
crisi bancarie la Banca Centrale deve intervenire con meccanismi di
salvataggio.
La Banca Centrale è tenuta come prestatore di ultima istanza
ad esercitare una vigilanza ex ante sulle banche (livello adeguato di
fondi propri, liquidità, controlli interni) con un eventuale intervent.
I vantaggi e gli inconvenienti del prestito di ultima istanza sono
oggetto di un antico dibattito. L’azione della Banca Centrale deve
limitarsi alle situazioni di non liquidità che possono essere risolte con
un prestito d’urgenza ed in questo caso la banca centrale deve
proteggersi esigendo che il prestito abbia delle garanzie. Quando la
banca è insolvente allora dev’essere assorbita da un’altra banca
oppure chiusa.

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La ripartizione del costo dell’intervento è abbastanza complessa


per la pluralità delle funzioni della banca centrale (vigilanza,
ricapitalizzazione, prestiti di ultima istanza)
Inoltre occorre una compatibilità tra obiettivi di stabilità
finanziaria e obiettivi di stabilità dei prezzi. Le banche centrali
sostengono che non vi è contraddizione tra la loro missione di fornire
liquidità a istituzioni finanziarie in difficoltà e i loro obiettivi
macroeconomici. Questo è vero nel caso di assistenza ad un’istituzione
di dimensioni medio piccole ma più problematico nel caso di fornitura
di liquidità a tutto l’insieme delle banche.

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4. L’EUROZONA

Nell’Eurozona la BCE deve far fronte a un problema specifico.


Oltre alla necessità di costruire la sua credibilità, la BCE vede il suo
compito più difficile dalla non omogeneità della zona stessa.
L’unificazione monetaria è stata accompagnata prima della
crisi da una sincronizzazione del ciclo economico dei paesi che
partecipano all’euro. Le condizioni strutturali e le dinamiche erano
differenti, così come l’evoluzione di medio periodo del PIL, dei prezzi,
del commercio estero.
Le correzioni strutturali dovevano essere affrontate a livello
nazionale con coordinamento fissato successivamente nel 2012 con il
Trattato di Maastricht, prevedendo raccomandazioni e sanzioni; che
prevede che la BCE fissi il livello del tasso di interesse unico non
tenendo conto delle differenze.
La crisi dei debiti sovrani del 2010 ha incrementato
l’eterogeneità dei canali di trasmissione della politica monetaria
L’eterogeneità dipende dalle caratteristiche dei sistemi bancari
rispetto alla crisi:
o Grecia e Irlanda sono paesi sotto assistenza;
o Germania,Paesi bassi, Finlandia sono paesi poco toccati
dalla crisi;
o Italia, Francia sono paesi con difficoltà di alcune
banche.
La BCE è intervenuta in modo specifico su certi mercati
ritenuti importanti per la trasmissione della politica monetaria
garantendo la circolazione della liquidità e supplendo al cattivo
funzionamento del mercato. Inoltre ha fornito liquidità con operazioni

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Giovanni Cannata “Le scelte per l’inflazione”

straordinarie per tre anni ed è intervenuta con misure specifiche su


specifici mercati quali quello delle obbligazioni garantite e quello delle
obbligazioni di stato.
L’intervento della BCE non ha infranto le regole del divieto
statutario di finanziamento agli stati.
Si pongono tuttavia due questioni fondamentali.
La prima è quella degli incentivi agli stati nazionali e alle
banche a stabilizzare i bilanci perché la banca centrale rifinanzia a
tassi molto bassi.
La seconda è quella della capacità del sistema finanziario
dell’Eurozona di ritrovare un funzionamento normale al termine della
crisi con conseguenti minori oneri.

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LA POLITICA MONETARIA:
ASPETTI OPERATIVI
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “La politica monetaria: aspetti operativi”

Indice

1. INTRODUZIONE ----------------------------------------------------------------------------------- 3
2. UNA POLITICA MONETARIA CHE PERSEGUE L'OBIETTIVO DELLA
STABILITÀ DEI PREZZI ----------------------------------------------------------------------- 13
3. UNA POLITICA MONETARIA CHE PERSEGUE L'OBIETTIVO DELLA PIENA
OCCUPAZIONE ----------------------------------------------------------------------------------- 27
4. EFFICACIA DELLA POLITICA MONETARIA ------------------------------------------- 34

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Salvatore Della Corte “La politica monetaria: aspetti operativi”

1. INTRODUZIONE

La politica monetaria è l'insieme degli strumenti, degli obiettivi


e degli interventi adottati per modificare e orientare la moneta, il
credito e la finanza, al fine di raggiungere obiettivi prefissati di
politica economica, di cui la politica monetaria fa parte.
La prima grande questione attiene al soggetto titolare della
politica monetaria.
In Europa, in passato, la funzione di governare la politica
monetaria era affidata alle Banche centrali nazionali, sotto stretto
controllo dell'esecutivo nazionale. Esse, avevano provveduto nel
tempo a centralizzare l'emissione di moneta delle loro nazioni, che in
precedenza era stata effettuata da una serie di banche di emissione
locali, le quali spesso svolgevano anche delle operazioni tipiche delle
banche ordinarie.
La necessità di dare un indirizzo unitario alla politica
monetaria nazionale aveva infatti determinato la concentrazione di
questa funzione nelle mani di un unico istituto nazionale per ogni
Paese europeo.
In seguito al processo di unificazione monetaria oggi la Banca
d'Italia appartiene al sistema europeo delle Banche centrali.
Questa circostanza pone molti gravi interrogativi politici.
Come abbiamo già ricordato, in seguito alla riforma bancaria
del 1994 e alla privatizzazione delle banche, oggi assistiamo alla
contraddizione di società private, che sono partecipanti della Banca
d'Italia, per altro verso Istituto di diritto pubblico.
Si pone però, per questa circostanza, un grave problema di
conflitto di interessi, e questo avviene in particolar modo per il

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Salvatore Della Corte “La politica monetaria: aspetti operativi”

metodo di elezione del Governatore della Banca d'Italia, che vede la


partecipazione del Consiglio superiore della Banca, nominato dai
partecipanti stessi (Banche e assicurazioni private), oggetto
dell'attività di controllo amministrativo della stessa Banca d'Italia.
A questo grave problema si associano problemi ancora più gravi
riguardanti il sistema europeo delle banche centrali.
Il Sistema europeo delle banche centrali comprende, come
abbiamo visto, a norma dell'articolo 107 (ex art. 106) del trattato che
istituisce la Comunità europea, la Banca centrale europea e le banche
centrali nazionali dei 27 stati membri dell'Unione europea a
prescindere dall'adozione della moneta unica.
Solo i governatori delle banche nazionali dei paesi appartenenti
all'euro zona, però, prendono parte al processo decisionale ed
attuativo della politica monetaria della BCE: il cosiddetto euro
sistema è infatti composto dalla BCE e dalle banche centrali nazionali
dei paesi che hanno introdotto la moneta unica.

Le banche centrali nazionali dei paesi al di fuori della "zona


euro" sono invece abilitate a condurre una politica monetaria
nazionale autonoma.
Il sistema europeo delle banche centrali affida attualmente alle
Banche centrali dei singoli Paesi aderenti all'euro zona le funzioni di
controllo e di coordinamento sugli istituti di credito nazionali.
L'idea di poter avere una politica monetaria europea unitaria
senza una corrispondente politica fiscale e del debito pubblico unitaria
e, più in generale, una vera e propria politica economica unitaria, si
sta dimostrando fallimentare.

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Salvatore Della Corte “La politica monetaria: aspetti operativi”

Dal momento che non può esistere una politica monetaria seria,
che non sia inserita nell'ambito di una più generale politica
economica, l'attuale sistema europeo è molto deficitario dal punto di
vista della politica economica.
Diversa è invece la situazione negli Stati Uniti d'America, in
Gran Bretagna, in Giappone e in tutti quelle nazioni che possiedono
una sovranità monetaria e le Banche Centrali agiscono in stretto
contatto con le autorità democraticamente elette per stabilire la
politica economica del Paese.
In questi Paesi, le banche centrali, nel decidere la quantità di
moneta da creare, normalmente si adeguano agli indirizzi di politica
monetaria che dà loro il Governo e che sono coerenti con le politiche
del lavoro e di finanza pubblica attuate.
Vista la questione del soggetto titolare di decidere la politica
monetaria di un Paese, la seconda grande questione riguarda gli
strumenti utilizzabili dalla banca centrale.
Attualmente l'attività della Banca Centrale europea è molto
limitata.
Essa opera essenzialmente:
a) operazioni sul mercato aperto di breve termine;
b) operazioni su richiesta del sistema bancario per la gestione
giornaliera della liquidità;
c) modifica del coefficiente della riserva obbligatoria.
Ovviamente è impensabile che una Banca centrale, per le
ragioni che andiamo ad approfondire in questa lezione, possa
governare il sistema monetario e finanziario, definito da taluni
economisti istituzionalmente instabile con questi strumenti.

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Salvatore Della Corte “La politica monetaria: aspetti operativi”

Questa osservazione è talmente vera che, in seguito alla crisi


economica mondiale del 2008, la BCE è stata costretta ad assumere
un ruolo più interventista, applicando due misure straordinarie,
rispetto a quelle ordinarie previste, quali lo stanziamento di fondi a
favore delle Banche europee e la riduzione del coefficiente di riserva
obbligatoria
Le manovre sono state però fallimentari in alcuni Paesi, soprattutto
quelli dell'area meridionale.
La terza questione preliminare riguarda gli obiettivi che la
Banca Centrale deve perseguire.
Innanzitutto gli obiettivi si distinguono in obiettivi finali e
obiettivi intermedi. La politica monetaria può avere due diverse
impostazioni, con riferimento agli obiettivi intermedi:
 può tentare di modificare le condizioni del credito attraverso
variazioni nei tassi di interesse;
 può avere come obiettivo intermedio un certo tasso di sviluppo
o di decrescita della base e quindi della circolazione monetaria.
A tal riguardo occorre avvisare che da ultimo è diventato molto
più difficile controllare i mercati monetari per una serie di fenomeni a
cui si assiste, in particolare la finanziarizzazione dell'economia.
Nel corso degli anni tutti gli Stati democratici occidentali e l'Italia in
particolare, come abbiamo visto in una precedente lezione, hanno
emesso una quantità crescente di titoli pubblici, che i vari governi
hanno collocato sui mercati finanziari per finanziare un livello delle
spese molto superiore a quello delle entrate.
Da un lato questo processo ha avuto l'effetto di far crescere i
tassi di interesse e di aumentare le rendite finanziarie, dall'altro
molte famiglie hanno reinvestito le rendite finanziarie ottenute dal

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rimborso dei titoli pubblici sottoscritti in altri titoli con le stesse o


analoghe caratteristiche.
In generale si è assistito a una crescita impressionante del
corso della azioni sul mercato secondario per le attività speculative e
per le acquisizioni di imprese e di fusioni, che poi hanno visto
improvvise crisi di fiducia sui mercati finanziari e crolli improvvisi
delle quotazioni in più occasioni.
L'evoluzione dell'economia mondiale ha influito notevolmente
sul funzionamento dei mercati finanziari.
 E' diventata più labile la distinzione tra mercato monetario e
mercato finanziario:
 nel primo mercato i titoli erano rappresentati essenzialmente
dal credito entro i 18 mesi, offerto dalle banche a breve termine
e domandato soprattutto dagli imprenditori per gli sfasamenti
temporali tra incassi e pagamenti;
 Il mercato finanziario è invece il capitale domandato da
imprenditori e famiglie per l'acquisto di case, macchinari,
capannoni e, in genere, di beni durevoli: oltre i 18 mesi fino a
30 anni.
Il fenomeno a cui si assiste è l'utilizzo di risorse del mercato
monetario per lo svolgimento di attività per le quali si usava
ricorrere al mercato finanziario.
 Assistiamo al processo di cartolarizzazione dei crediti e
all'internazionalizzazione dei mercati monetari: alle borse dei
grandi Paesi industrializzati affluiscono, in quantità sempre
più rilevanti, capitali dall'estero. Tali movimenti di capitali
dipendono dalle aspettative circa la dinamica dei tassi di

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interessi, le valutazioni delle prospettive future delle economie


coinvolte, le attese circa i possibili provvedimenti dei governi.
Con riferimento agli obiettivi finali, questi sono gli stessi
della politica economica. I principali obiettivi sono pertanto i prezzi,
l'occupazione e lo sviluppo. Ovviamente le varie scuole di pensiero
economico non condividono tutte le stesse priorità.
La divisione rimane quella che siamo andati mettendo in rilievo
nel corso delle lezioni.
Da una parte ci sono i neoclassici e, attualmente i monetaristi e
la nuova macroeconomia classica, per i quali l'obiettivo principale
della politica monetaria deve essere la stabilità dei prezzi e dei cambi.
Come abbiamo più volte cercato di spiegare, per i neoclassici il tasso
di interesse svolge solo il ruolo di prezzo per l'uso del capitale,
riflettendo la predisposizione delle famiglie a risparmiare e quella
delle imprese ad investire.
Il tasso di interesse nell'analisi neoclassica quindi riflette
fattori reali, quali sono i gusti dei consumatori e i fattori da cui
dipende la produttività del capitale: sono questi i fattori che gli
imprenditori cercano di prevedere e di valutare. Variazioni nel tasso
di interesse comportano solo variazioni nella struttura della
produzione. Abbiamo più volte rappresentato questa concezione
graficamente nel seguente modo:

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Figura 1

In questo contesto, un aumento della quantità di moneta non


può avere alcun effetto reale sulla economia: esso comporta solo un
aumento del potere di acquisto che, avendo i meccanismi reali portato
il sistema a valorizzare integralmente le risorse disponibili (perché si
presume che sul mercato del lavoro i salari reali siano flessibili),
produce solo la crescita dei prezzi. Esattamente quanto abbiamo visto
nelle scorse lezioni afferma la teoria quantitativa della moneta.
Figura 2

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Nella figura 2, infatti, dal momento che Q è dato, incrementano


soltanto i prezzi.
Se si accetta questa concezione del ruolo che nel processo
economico ha la moneta, la constatazione che la dinamica
dell'economia è caratterizzata da fluttuazioni cicliche può solo indurre
a porre alla politica economica il compito di stabilizzare il processo
attraverso un opportuno governo della moneta.

Viceversa, invece abbiamo visto che tale impostazione è


contestata da Keynes, il quale sottolinea il ruolo che può avere la
speculazione. Per Keynes, in borsa, accanto ai risparmiatori che
impiegano i loro risparmi a lungo termine e attendono il pagamento di
un interesse o di un dividendo, operano i grandi speculatori che
acquistano e vendono titoli per realizzare dei guadagni, non sui
dividendi pagati dai titoli, ma a causa dell'andamento dei prezzi.
L'andamento dei prezzi dei titoli condiziona tutti gli operatori che
sono comunque costretti a seguire tale dinamica per tutelare i propri
fondi.
Gli speculatori operano sul mercato secondario e non si
preoccupano delle prospettive reali e a lungo termine delle imprese
che hanno emesso i titoli, ma di prevedere gli umori del pubblico a
breve termine.
Se prevedono che il pessimismo si impadronirà del grosso del
pubblico, il quale sarà così portato a vendere, essi giocheranno al
ribasso. Al contrario se anticiperanno aspettative favorevoli del grosso
degli investitori, giocheranno al rialzo. La borsa quindi introduce un
elemento terribile di instabilità, che poi ha effetti sull'andamento
dell'economia reale.

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Negli anni 80 si sono affermati in Italia i Fondi Comuni di


investimento, che attuavano lo schema delle scelte di portafoglio. Non
potendo avere i singoli risparmiatori conoscenze adeguate per
impostare e risolvere il problema della scelta della combinazione del
portafoglio più conveniente in relazione alle loro scelte di profitto
atteso e i rischi accettabili, si pensò che affidare allora a professionisti
la gestione dei loro risparmi e la decisione concreta di quali titoli
acquisire e mantenere all'interno di Fondi Comuni di investimento
fosse garanzia di un rendimento migliore dei loro risparmi e una
tutela maggiore del risparmio.
Tutti i crolli delle quotazioni dei titoli che si sono susseguite a
Wall Street e nelle altre borse mondiali dagli anni ottanta ad oggi,
però, ci mostrano quanto fondate fossero le preoccupazioni di Keynes
circa l'instabilità istituzionale dei mercati secondari e come anche i
professionisti possono solo limitarsi a seguire i mercati in situazioni
di crisi.
Quando in essi di diffonde il convincimento di un crollo delle
quotazioni, l'attuale automazione dei processi di vendita (che
avvengono automaticamente mediante computer al raggiungimento di
determinate soglie prezzo) ha solo aggravato la loro instabilità, invece
di diminuirla, accentuando l'uniformità dei comportamenti.
Si diffonde l'impressione tra gli economisti e gli analisti che la
politica monetaria delle Banche centrali ormai sia attuata più per
stabilizzare le borse ed impedire il fallimento degli operatori
finanziari, che per influire sull'economia reale.
In ogni caso, nella concezione keynesiana, la moneta non è
neutrale e compito delle autorità è quello di abbassare il tasso di
interesse, in modo da assicurare una maggiore quantità di

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investimenti di capitale reale aggiuntivo e, attraverso il


moltiplicatore, avere maggiore sviluppo e occupazione.

Dal momento che si sta svolgendo un semplice corso di lezioni,


al fine di favorire la comprensione da parte dello studente del reale
svolgimento di una politica monetaria, ho scelto di immaginare due
specie di politiche monetarie.

 Una politica monetaria che si proponga l'obiettivo finale della


stabilità dei prezzi.

 Una politica monetaria che si proponga l'obiettivo finale della


crescita economica e dell'aumento dell'occupazione.
Come abbiamo avuto modo di evidenziare, sono completamente
diversi gli strumenti utilizzabili a seconda che tali politiche monetarie
siano messe in campo da una Banca centrale con sovranità monetaria
piena (inclusa anche la facoltà di acquisto dei titoli di debito statali) o
con limitazioni.
Per questa ragione si distingueranno, per ognuna delle due
politiche monetarie delineate, il caso di una Banca centrale sovrana
da quello di una Banca centrale non pienamente sovrana.

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2. UNA POLITICA MONETARIA CHE PERSEGUE


L'OBIETTIVO DELLA STABILITÀ DEI PREZZI

In altra lezione è stato trattato il tema dell'inflazione che


determina sempre:
 ridistribuzione della ricchezza;
 ridistribuzione dei redditi;
In particolare, in merito alla redistribuzione della ricchezza,
abbiamo sottolineato che:
 l'inflazione danneggia sempre i creditori: essi, in presenza di
inflazione, infatti vedranno ridursi il valore reale della parte
del loro patrimonio rappresentata appunto da crediti
(obbligazioni, depositi bancari, moneta);
 l'inflazione avvantaggia i debitori: essi vedono ridursi il peso
reale dei debiti.
In merito alla redistribuzione dei redditi abbiamo messo in
evidenza che
 I salari, gli stipendi e le pensioni crescono sempre meno dei
prezzi. Le pensioni in genere non si adeguano o si adeguano
solo in parte alla crescita dei prezzi.
 Le rendite crescono meno dei profitti.
 L'inflazione determina drenaggio fiscale. L'inflazione, infatti,
ha effetti sulla distribuzione dei redditi grazie ad alcuni riflessi
sul sistema tributario. In genere nelle economie vige un
sistema di imposte dirette progressivo. Significa che
all'aumentare del reddito si paga un aliquota (una percentuale
sul reddito) più alta. Questi scaglioni d'imposta sono nominali.
L'inflazione aumenta il reddito nominale e per questa via

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aumenta lo scaglione al quale è sottoposta a tassazione il


reddito. In altre parole introduce occultamente una maggiore
imposta.
Del resto l'esperienza storica ha comunque dimostrato che
inflazioni importanti destabilizzano totalmente l'economia e la
politica di una nazione.
Nella visione neoclassica l'inflazione è un male perché:
 altera il meccanismo di trasmissione dei valori tra i mercati dei
diversi beni di uno stesso mercato;
 altera la trasmissione dei valori nel tempo;
 altera la trasmissione dei valori tra diverse economie;
Il che equivale pressappoco a dire che l'inflazione comporta una
redistribuzione della ricchezza e dei redditi, ma dando a ciò un
significato negativo.
Quando le autorità monetarie intendono ridurre l'inflazione
hanno a disposizione i seguenti strumenti:
 la manovra del tasso ufficiale di riferimento o di sconto;
 la manovra delle riserve bancarie obbligatorie;
 le operazioni sul mercato aperto;
 i massimali e i vincoli sul credito:
Analizziamo come funziona e quanto sia efficace la prima
manovra.
La manovra agisce sul prezzo del finanziamento prima per la
banca di credito ordinaria e successivamente per l'operatore, cercando
per questa via di ridurre la pressione inflazionistica.
Se il costo dei finanziamenti cresce per gli imprenditori, si
ridurrà la domanda di credito di quest'ultimi per l'eccessivo prezzo, si
ridurrà il numero di depositi indotti e diminuirà la moneta bancaria.

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Dal momento che, come abbiamo visto, nelle moderne economie


la circolazione di moneta bancaria è una proporzione molto alta del
totale della moneta in circolazione, il risultato di un incremento del
tasso di riferimento produce una contrazione dei mezzi monetari in
circolazione, che agisce da freno della domanda globale di beni.
La manovra del tasso di riferimento è inefficace quando le
banche ordinarie di credito godono di notevole liquidità e non
necessitano di effettuare di operazioni di finanziamento presso la
Banca centrale, perché ad esempio ricorrono a finanziamenti sul
mercato interbancario o vendono titoli sul mercato finanziario.
In ogni caso, in caso di una fase di forte espansione della
domanda di beni e, di conseguenza di forte domanda di credito da
parte delle imprese, è difficile che le banche ordinarie, alla lunga, non
registrino una esaurimento della propria liquidità e la necessità di
ricorrere ai finanziamenti presso la Banca centrale.
L'efficacia della manovra, almeno per quello che riguarda la
prima reazione, quella delle Banche ordinarie, è riconosciuta
pacificamente dagli operatori, soprattutto quando si registri una fase
inoltrata di espansione economica.
Meno scontata è la reazione degli operatori economici che
domandano denaro per investimenti reali aggiuntivi in base alle
aspettative future di profitto. Se le aspettative sono fortemente (anche
se infondatamente) ottimistiche, gli imprenditori continueranno a
domandare finanziamenti, nonostante il rialzo del costo del denaro.
Si consideri, inoltre, che gli operatori conoscono perfettamente
la circostanza che l'inflazione favorisce il debitore e danneggia il
creditore, per cui l'aspettativa stessa dell'inflazione genera richiesta
di credito.

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Per questa ragione possiamo concludere che, in caso di


espansione economica, per quanto le Banche ordinarie non rimangano
indifferenti al rialzo del tasso di riferimento, viceversa niente
garantisce che la domanda di credito da parte degli operatori
economici diminuisca e che si ottengano i risultati attesi.
Da un punto di vista grafico possiamo rappresentare quanto
avviene nel seguente modo:
Figura 3

Nell'esempio raffigurato le autorità monetarie raddoppiano il


tasso di interesse di riferimento, con la speranza di ridurre gli
investimenti (data la curva di EMK1) da 3 biliardi di euro a circa 1,
ma le aspettative degli operatori sono talmente ottimistiche che si
sono spostate da EMK1 a EMK2 e gli investimenti non si sono ridotti.
Sarebbe scorretto dire che la manovra del tasso ufficiale non ha
avuto alcuna conseguenza, perché in realtà, se il tasso di riferimento
non fosse salito si sarebbero realizzati circa 5 bilioni di investimenti,
ma certamente non ha conseguito la riduzione attesa.

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C'è poi un'altra circostanza alla quale occorre stare attenti.


Per quanto abbiamo considerato l'ipotesi di un'economia chiusa
e non stiamo considerando le conseguenze sul cambio e sull'equilibrio
della bilancia dei pagamenti, non possiamo trascurare le conseguenze
che un innalzamento del tasso di interesse comportano sui mercati
finanziari, vista la finanziarizzazione e l'internazionalizzazione dei
mercati a cui si assiste ultimamente.
I cosiddetti capitali vaganti o moneta calda registrano
l'innalzamento del tasso di interesse. L'innalzamento del tasso attira
capitali stranieri e trattiene capitali nazionali e si ottiene
un'espansione della moneta in circolazione.
Qualora l'afflusso di capitali si accompagni al miglioramento
delle aspettative di profitto da parte degli operatori economici,
l'incremento del tasso di interesse, lungi dall'ottenere una
diminuzione dell'inflazione, ha effetti espansivi degli investimenti e
della domanda globale.
Un secondo strumento offerto alle autorità monetarie è la
manovra della riserva bancaria obbligatoria. Questo strumento è
senza dubbio più efficiente, efficace e diretto perché agisce
direttamente sul moltiplicatore dei depositi bancari.
Ricordiamo che i depositi totali potenziali di un sistema
bancario considerato nel suo complesso sono dati dai depositi originari
moltiplicati per l'inverso della riserva bancaria obbligatoria

D = B · 1/q [1]

Immaginiamo che la riserva passi da 1% al 5% e immaginiamo


che una Banca detenga 10 miliardi di depositi originari, il totale

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teorico dei depositi totali passerà da 1000 a 200, con un effetto


impressionante sulla disponibilità di credito bancario totale
potenziale:

D = 10 · 1/0,01 = 10 · 100 = 1000

D = 10 · 1/0,05 = 10 · 20 = 200
Come si vede dall'esempio precedente la manovra della riserva
bancaria è efficacissima e determina immediate e notevoli
ripercussioni sul sistema bancario.
In questo caso non esistono i limiti che abbiamo individuato nel
caso della manovra del tasso di riferimento.
Le banche devono immediatamente aderire al nuovo vincolo e
gli operatori vedranno ridotta la disponibilità di finanziamenti, non
peggiorate le condizioni economiche degli stessi.
Nel caso di un'inflazione in corso, la manovra della riserva
obbligatoria è senza dubbio efficace e vincente.
In termini grafici essa può essere rappresentata come una
riduzione consistente e immediata della quantità di moneta in
circolazione e nello schema IS – LM come uno spostamento a sinistra
della LM.

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Figura 4

Come si vede nella figura 4 la manovra della riserva bancaria si


rappresenta in uno schema IS – LM con uno spostamento a sinistra
della curva LM, dovuta alla riduzione della moneta bancaria e una
riduzione della disponibilità di moneta.
Dal momento che si considera in corso un forte processo
inflazionistico, la manovra genera una riduzione consistente dei
prezzi, mentre le quantità possono essere considerate stabili.
La terza manovra a disposizione delle autorità monetarie è
rappresentata dalle cosiddette operazioni di mercato aperto da parte
delle Banche centrali aderenti al sistema europeo delle Banche
centrali.
Nel caso specifico si tratta della vendita di obbligazioni da
parte della Banca centrale effettuate in genere nel breve termine con
operazioni di pronti contro termine.

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Occorre ricordare che le operazioni sul mercato aperto


riguardano sempre:
 operazioni effettuate dalla Banca centrale sul mercato;
 titoli pubblici;
 operazione che hanno come controparte prevalentemente
banche ordinarie e operatori finanziari.
Quando la Banca centrale vende obbligazioni pubbliche alle
banche ordinarie, assorbe, come contropartita, moneta dal sistema,
cioè, in altre parole, distrugge moneta.
Si tratta di uno strumento efficientissimo, la cui efficacia è
notevole in caso di pressioni inflazionistiche.
Esistono tutta una serie di vantaggi di questa manovra
rispetto alle altre: innanzitutto la vendita di titoli pubblici da parte
della Banca centrale avviene in assenza di pubblicità. Se si considera
il peso delle aspettative nell'economia, si tratta di un grande
vantaggio, perché non rende pubblico agli operatori la valutazione di
situazione inflazionistica dato dalla Banca centrale
In secondo luogo, la manovra delle operazioni di mercato aperto
è senza dubbio più tempestiva della manovra del tasso ufficiale di
sconto e della manovra della riserva obbligatoria, che necessitano di
un certo periodo di tempo perché entrino pienamente in funzione.
In terzo luogo le operazioni sul mercato aperto sono reversibili,
e questo è utilissimo, perché permette alle autorità di politica
monetaria di correggere eventuali errori di valutazione
immediatamente e senza pubblicità.
Anche questo strumento è messo in discussione attualmente
nell'Unione europea e non può essere utilizzato pienamente da parte
della BCE.

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Come abbiamo visto in precedenza, il problema nasce dalla


circostanza che i Paesi europei più ricchi (o, secondo altri, più
virtuosi) non vogliono che la BCE abbia nel proprio portafogli titoli
pubblici degli Stati più poveri (o meno virtuosi) ed è chiaro che le
operazioni di mercato aperto sono efficaci se la Banca centrale non ha
vincoli di questo genere e non deve chiedere autorizzazioni particolari
per acquisire, oltre un certo ammontare, i titoli pubblici di un certo
Paese, piuttosto che quelli di un altro dell'area euro.
Purtroppo, i nazionalismi dei vari Paesi europei incidono di
fatto sull'autonomia della Banca centrale europea ed essa non può
intervenire con piena autonomia tecnica, perché nel Consiglio
Direttivo europeo i governatori delle varie Banche centrali si dividono
in partiti e bloccano le decisioni tecniche del Governatore e della
Commissione, per i contrastanti interessi nazionali.
Questa situazione limita fortemente l'autonomia e l'efficacia
dell'azione di politica economica della Banca Centrale soprattutto
quando si trova a operare con situazioni economiche diverse
all'interno della stessa area monetaria e non può utilizzare
pienamente uno dei pochi strumenti che permetterebbero una politica
monetaria selettiva, diversa per singolo Paese europeo.
L'ultima manovra a disposizione della banca centrale è
rappresentata dai controlli amministrativi sul credito.
I controlli amministrativi sono di due tipi:
 il controllo amministrativo dei criteri di erogazione del credito
che le imprese bancarie debbono rispettare;
 la concessione di crediti agevolati a particolari tipologie di
imprese.

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Controlli amministrativi dei criteri di erogazione del credito. In


seguito agli accordi di Basilea del 2004, dal 2007 i controlli
amministrativi sono stabiliti da questi accordi. A partire da gennaio
2013 e fino a gennaio 2017 le imprese bancarie stanno sperimentando
criteri ancora più stringenti di quelli attualmente vigenti (Basilea 2),
che vanno sotto il nome di Basilea 3.
I precedenti accordi internazionali (Basilea 1) consentivano alle
Banche di valutare le aziende private affidate in base a requisiti
molto semplificati.
In parole povere ci si limitava a prendere atto della storia
patrimoniale di una ditta e della capacità attuale di rimborso della
stessa.
Questo induceva un notevole immobilismo e penalizzava
fortemente tutta una serie di settori e di investimenti, primi fra tutti
quelli sull'innovazione e sulla ricerca.
Gli attuali accordi (Basilea 2) in essere hanno elevato la
riserva frazionaria delle banche al 2% e fissato il coefficiente di
salvaguardia all'8%.
Tale coefficiente fissa l'ammontare minimo di capitale che le
banche devono possedere in rapporto al complesso delle attività
ponderate in base al loro rischio creditizio.
In altri termini si calcola in questo modo: al numeratore si pone
l'ammontare di patrimonio di cui dispone una banca e al
denominatore l'ammontare delle attività ponderate per classi di
rischio.
Se si considera invece il rapporto tra attivo ponderato e
patrimonio di vigilanza il valore richiesto dagli accordi di Basilea II
corrisponde al 12,5%.

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I requisiti minimi patrimoniali devono coprire le perdite


inattese dovute a tre classi di rischio:
 Rischio di credito
 Rischio di mercato
 Rischio operativo
Rischio di credito.
Al fine di individuare il rischio di credito, le Banche ordinarie
oggi devono dare una valutazione (rating) delle imprese affidate.
Il rating è l'insieme di procedure di analisi e di calcolo grazie al
quale una banca valuta quanto un cliente sia rischioso e quanto sarà
produttivo in futuro, in caso di concessione del credito. Il rating
calcola la probabilità di fallimento dell'azienda affidata.
Basilea II introduce la possibilità, per gli istituti di credito, di
affiancare ai rating emessi dalle agenzie specializzate, rating prodotti
al proprio interno (internal rating), approvati dalle autorità
monetarie.
Questa procedura consente alle Banche ordinarie di avere
molte più informazioni sulle imprese affidate e permette di fare
valutazioni molto più concrete e realistiche.
I processi e i metodi selezionati dalle Banche italiane sono
state sottoposte a valutazione e autorizzazione della Banca d'Italia.
Il metodo di valutazione del rischio crea un rapporto diretto tra
banca e impresa e consente una valutazione più realistica del valore
dell'impresa affidata.
Il rischio di mercato delle banche ordinarie è definito come il
rischio di perdite derivanti da negoziazione di strumenti finanziari sui
mercati, indipendentemente dalla loro classificazione in Bilancio. Fra

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i rischi considerati e ponderati sono presenti il rischio di cambio e


quello di tasso.
I principali rischi operativi cui vanno incontro le Banche
ordinarie e che sono stati considerati dagli accordi di Basilea del 2004
ci sono la frode interna (ad esempio alterazione di dati), quella
esterna (ad esempio emissione di assegni a vuoto), la sicurezza sul
lavoro, il riciclaggio di denaro di provenienza illecita, disfunzioni
tecniche e procedurali.
Il rischio operativo nella sua versione più semplificata si calcola
moltiplicando l'attuale coefficiente del 15% al margine di
intermediazione lordo medio dell'ultimo triennio.
L'adozione di questi nuovi criteri ha costituito un problema per
le piccole e medie imprese italiane le quali sono tipicamente poco
capitalizzate.
Secondo le nuove regole la ristrettezza del capitale proprio non
è un segnale negativo e la possibilità di diminuire la rischiosità di un
prestito con il rilascio di garanzie personali a fronte dei finanziamenti
è bassa con le nuove regole.
La realtà di proprietari di imprese e famiglie molto ricche e di
società poco capitalizzate tipicamente italiana è destinata nel nuovo
contesto di regole europee a modificarsi e le PMI italiane dovranno
sempre di più immettere capitale di rischio all'interno delle proprie
società, se vorranno avere credito a buon mercato.
La fase in corso si sperimentazione (Basilea 3) lascia inalterato
l'impianto generale dei controlli amministrative ma comporta
ulteriori criteri, ancora più rigorosi, in merito al capitale di vigilanza,
alla copertura dei rischi, al contenimento della leva finanziaria, della
gestione dei rischi e della disciplina di mercato.

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In particolare per il capitale Basilea 3 prevede, rispetto alle


regole già descritte:
 per quanto riguarda la qualità e livello del patrimonio di
vigilanza, maggiore enfasi su azioni ordinarie e riserve di utili
(common equity). Il requisito minimo è stato innalzato al 4,5%
delle attività ponderate per il rischio, al netto degli
aggiustamenti;
 per quanto riguarda l'assorbimento delle perdite al punto di
non sopravvivenza, gli strumenti del patrimonio di vigilanza
saranno provvisti di una clausola contrattuale che ne consenta,
a discrezione dell'autorità competente, la cancellazione o
conversione in azioni ordinarie qualora la banca non sia più
ritenuta solvibile. Ciò accrescerà il contributo del settore
privato alla risoluzione delle crisi bancarie future, riducendo
l'azzardo morale;
 buffer (provvedimento tampone) di conservazione del capitale:
esso è costituito da common equity in misura pari al 2,5% delle
attività ponderate per il rischio, il buffer porta il requisito
totale di common equity al 7%. Sono imposti vincoli inoltre alle
distribuzioni discrezionali quando il capitale della banca scende
all'interno dell'intervallo del buffer.
 buffer anticiclico: esso è costituito da common equity in misura
compresa fra lo 0 e il 2,5%, viene imposto quando le autorità
ritengono che la crescita del credito stia generando un
accumulo
 la concessione di crediti agevolati.
Ultimamente l'unione europea effettua piani per finanziare le
PMI europee ad un tasso agevolato o parzialmente a fondo perduto o

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parzialmente garantiti dall'Unione. In questo caso una parte degli


interessi che vengono fatti pagare per certi tipi di credito (in genere a
medio o a lungo termine) alle PMI sarà a carico del bilancio europeo;
di questo strumento parleremo meglio quando affronteremo una
politica monetaria espansiva.

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3. UNA POLITICA MONETARIA CHE PERSEGUE


L'OBIETTIVO DELLA PIENA OCCUPAZIONE

In questo caso la politica monetaria è utilizzata come


supporto a una politica economica che cerchi di aumentare
l'occupazione e l'obiettivo di controllare i prezzi è meno urgente.
Ci troviamo di fronte per esempio a una grave depressione o
una persistente deflazione.
Gli strumenti a disposizione delle autorità sono gli stessi, ma,
come vedremo l'efficacia degli stessi è assai inferiore.

Manovra del tasso di riferimento


La manovra agisce, come abbiamo visto, sul prezzo del
finanziamento prima per la banca di credito ordinaria e
successivamente per l'operatore economico. Questa volta il prezzo
viene reso più basso cercando per questa via di aumentare i prestiti
erogati dal sistema.
Se il costo dei finanziamenti diminuisce per gli imprenditori,
aumenterà la domanda di credito di quest'ultimi per il costo ridotto,
aumenterà il numero di depositi indotti e aumenterà la moneta
bancaria.
Dal momento che, come abbiamo visto, nelle moderne economie
la circolazione di moneta bancaria è una proporzione molto alta del
totale della moneta in circolazione, il risultato di un abbassamento del
tasso di riferimento produce un aumento dei mezzi monetari in
circolazione, che agisce da stimolo della domanda globale di beni.
Analizziamo in quali condizioni la manovra è capace di
espletare tutti gli effetti attesi.

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Dal momento che si tratta di una diminuzione del prezzo del


finanziamento di un prestito per la banca e, di conseguenza per gli
operatori economici, per comprendere quando la manovra è
pienamente efficace, occorre studiare le reazioni alla diminuzione del
tasso di riferimento prima delle Banche ordinarie di credito e, in
seguito, degli operatori economici.
Quando l'economia è attraversata da una forte depressione o da
una forte deflazione le banche ordinarie di credito godono già di
notevole liquidità e non necessitano in realtà di effettuare di
operazioni di finanziamento presso la Banca centrale.
Ma quale sarà la reazione degli operatori economici alla
riduzione del costo del denaro?
Abbiamo visto che gli operatori economici domandano denaro
per investimenti reali aggiuntivi in base alle aspettative future di
profitto.
Se le aspettative sono fortemente (anche se infondatamente)
pessimistiche, gli imprenditori continueranno a non domandare
finanziamenti, nonostante il minor costo del denaro.
Per questa ragione possiamo concludere che, in caso di
depressione economica, la manovra del tasso di riferimento è
abbastanza debole.
Da un punto di vista grafico possiamo rappresentare quanto
avviene nel seguente modo:

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Figura 5

Nell'esempio raffigurato le autorità monetarie dimezzano il


tasso di interesse di riferimento, con la speranza di aumentare gli
investimenti (data la curva di EMK1) da 3 biliardi di euro a circa 5,
ma le aspettative degli operatori si sono spostate da EMK1 a EMK2 e
gli investimenti non aumentano.
Occorre poi ricordare le conseguenze della manovra sui mercati
finanziari, dato il loro alto grado di internazionalizzazione. I
cosiddetti capitali vaganti o moneta calda registrano l'abbassamento
del tasso di interesse. L'abbassamento del tasso di riferimento non
attira capitali stranieri e non trattiene capitali nazionali e si ottiene
una contrazione ulteriore della moneta in circolazione.
Qualora la fuoriuscita di capitali si accompagni al
peggioramento delle aspettative di profitto da parte degli operatori
economici, la diminuzione del tasso di interesse, lungi dall'ottenere

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una l'incremento della domanda globale, ha effetti depressivi sugli


investimenti e la domanda globale.
Un secondo strumento offerto alle autorità monetarie è la
manovra della riserva bancaria obbligatoria. Come abbiamo visto,
questo strumento è senza dubbio più efficiente, efficace e diretto
perché agisce direttamente sul moltiplicatore dei depositi bancari.
Ricordiamo che i depositi totali potenziali di un sistema bancario
considerato nel suo complesso sono dati dai depositi originari
moltiplicati per l'inverso della riserva bancaria obbligatoria

D = B · 1/q [1]

Immaginiamo questa volta che la riserva passi da 5% al 1% e


immaginiamo che una Banca detenga 10 miliardi di depositi originari,
il totale teorico dei depositi totali passerà da 200 a 1000, con un
effetto impressionante sulla disponibilità teorica di credito bancario
totale potenziale:
D = 10 · 1/0,05 = 10 · 20 = 200
D = 10 · 1/0,01 = 10 · 100 = 1000
Occorre avvisare il lettore che, però questa volta, l'incremento è
solo teorico.
La disponibilità teorica di giungere a quei depositi indotti
potenziali resi disponibili dalla manovra non è detto che comporti che
effettivamente gli operatori economici richiedano i prestiti. Ancora
una volta prevalgono, in caso di uso antidepressivo della manovra, le
aspettative degli operatori e, se queste sono negative o molto poco
elastiche (reattive) alla maggiore disponibilità di credito, non si
produrranno effetti sulla domanda globale.

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Una situazione come quella appena descritta si rappresenta


all'interno dello schema IS – LM nel seguente modo:
Figura 6

Come si vede nella figura 5 la manovra della riserva bancaria si


rappresenta in uno schema IS – LM con uno spostamento a destra
della curva LM, dovuta all'incremento della moneta bancaria e un
aumento della disponibilità di moneta, ma se la curva IS è molto
rigida non si raggiunge un incremento del reddito e dell'occupazione e
l'incremento della moneta bancaria rimane solo ipotetico.
La terza manovra a disposizione delle autorità monetarie è
rappresentata dalle cosiddette operazioni di mercato aperto da parte
delle Banche centrali aderenti al sistema europeo delle Banche
centrali.
Nel caso specifico si tratta dell'acquisto di obbligazioni da parte
della Banca centrale nel breve termine, in genere con operazioni di
pronti contro termine. Occorre ricordare che le operazioni sul mercato
aperto riguardano sempre operazioni effettuate dalla Banca centrale
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sul mercato dei titoli pubblici con banche ordinarie e operatori


finanziari.
Quando la Banca centrale acquista obbligazioni dalle banche
ordinarie, immette moneta nel sistema, cioè crea moneta.
Si tratta di uno strumento efficientissimo, la cui efficacia è
comunque subordinata alle richieste di credito degli operatori
economici.
Fermi i vantaggi di questa manovra rispetto alle altre per
l'assenza di pubblicità, per la sua tempestività e reversibilità, niente
può escludere, come più volte si è registrato nel corso della storia, che
la manovra finisca con il creare nuovi depositi inoperosi presso le
banche private, che nessun operatore economico richiede.
Come negli altri due casi, la manovra è molto più efficace in
caso di inflazione, che in caso di depressione.
L'ultima manovra a disposizione della banca centrale è
rappresentata dai controlli amministrativi sul credito.
I controlli amministrativi sono di due tipi:
 il controllo amministrativo dei criteri di erogazione del credito
che le imprese bancarie debbono rispettare;
 la concessione di crediti agevolati a particolari tipologie di
imprese.
Il controllo amministrativo dei criteri di erogazione del credito,
su cui ci siamo soffermati in precedenza, conservano la caratteristica
delle altre manovre. Sono cioè più efficaci nel caso di contrasto
all'inflazione che alla depressione.
Diverso è il caso della manovra della concessione agevolate di
credito o della garanzia statale su parte del credito erogato. Con
questo strumento si rende possibile l'impiego di una maggiore

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quantità di credito per lo sviluppo di certi tipi di impresa, o di certi


settori o di certe regioni. Questa forma di incentivo è molto efficace
soprattutto quando è parzialmente in conto capitale ed è la meno
sgradita per il sistema bancario, perché lascia alla singola banca la
massima autonomia nella valutazione circa l'affidabilità dell'impresa
richiedente.
In genere la legge europea che stabilisce l'agevolazione
prevede in alternativa:
 un contributo interesse fisso, così che l 'interesse pagato
dall'impresa varia al variare del tasso di riferimento,
 fissare il tasso che deve essere pagato dal cliente e allora è il
contributo europeo a variare al variare dei tassi di riferimento.
Il tasso di riferimento deve essere mantenuto in linea
con il tasso di mercato.

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4. EFFICACIA DELLA POLITICA MONETARIA

Come abbiamo dimostrato ampiamente la politica monetaria è


in grado di esercitare la sua influenza in modo efficace sui fenomeni
monetari, ma non può esercitare un influenza determinante nelle
situazioni in cui il costo del denaro si confronta con le aspettative e la
competitività del sistema economico.
Questo significa che la sua efficienza ed efficacia massima
riguarda il controllo dell'inflazione.
Nel caso di inflazione, anche quando questa sia innescata da
una crescita dei costi, una politica monetaria restrittiva è in grado di
contrastare efficacemente la crescita dei prezzi e l'incremento della
velocità della moneta, prima o poi, non è in grado di contrastare la
diminuzione della quantità di moneta in circolazione.
Meno efficace è invece la capacità di influenzare l'espansione
economica.
In questo caso la politica monetaria si scontra con le
aspettative degli operatori e queste non sono un fenomeno monetario,
per cui la politica monetaria non può influenzare in modo
determinante le scelte degli operatori economici.
Faccio un esempio paradossale per far comprendere cosa
intendo dire.
Immaginiamo che le autorità monetarie rendano talmente
vantaggioso chiedere prestiti, che addirittura l'imprenditore riceva un
interesse per la richiesta di un prestito.
In questo caso l'imprenditore dovrebbe restituire il solo
capitale.

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Immaginate però che in quel Paese, l'autorità governativa non


è in grado di assicurare la sicurezza fisica e difendere gli imprenditori
da bande armate che vagano e depredano chiunque incontrino, che in
quel Paese non esistano infrastrutture che assicurino la
comunicazione e il trasporto delle merci.
Ebbene, nonostante il bassissimo prezzo del denaro, nessuno
continuerà ad investire in quel Paese, fintantoché non saranno
rimossi gli ostacoli alla comunicazione e al trasporto della merce e
assicurata l'incolumità fisica agli imprenditori e alle loro famiglie.
Se non esistono forti contrapposizioni tra gli economisti circa la
convinzione che la politica monetaria sia più efficace per contrastare
l'inflazione, che per aumentare l'occupazione, esistono differenze circa
la maniera più efficace circa le modalità di erogazione della politica
monetaria.
Da questo punto di vista esistono due tipi di politiche
monetarie:
 la politica dello stop and go;
 il tasso di crescita monetaria stabile.
Nel primo caso la politica monetaria consiste in un'alternanza
di adozione di misure espansive e di misure restrittive. Le politiche
monetarie espansive sono adottate per contrastare le fasi di
depressione e quelle restrittive quando si individuano pressioni
inflazionistiche.
I critici di questo tipo di politica monetaria sottolineano due
pericoli insiti in questo tipo di tecnica:
 il primo problema è il sovradosaggio di politiche monetarie: le
autorità monetarie intraprendono una politica espansiva o
antiinflazionistica, ma, se il sistema tarda a dare la risposta

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sperata le misure possono essere appesantite, per cui si rischia


di generare involontariamente nell'economia lo squilibrio
opposto a quello che si voleva combattere,
 il secondo grosso problema per i critici della politica monetaria
stop and go è che essa non tiene sufficientemente conto degli
sfasamenti temporali, per cui gli effetti di una politica
monetaria adottata oggi potrebbero manifestarsi tra due anni,
in un periodo in cui la situazione economica è totalmente
modificata.
Il tasso di crescita monetaria costante è suggerito in particolare
dalla scuola monetarista.
Ad avviso di questa scuola la politica monetaria dello stop and
go finisce con il determinare impulsi destabilizzanti nell'economia di
un Paese, mentre un tasso di crescita costante consente di
stabilizzare, come vedremo meglio in seguito, sia le aspettative
inflazionistiche, sia il tasso d'inflazione di un economia.

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LA POLITICA DEL
COMMERCIO
INTERNAZIONALE
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Indice

1. CENNI ALLE DIVERSE TEORIE FAVOREVOLI AL LIBERO SCAMBIO E AL


COMMERCIO INTERNAZIONALE SENZA DAZI ---------------------------------------- 3
2. LE TEORIE ECONOMICHE AVVERSE AL LIBERO SCAMBIO --------------------- 6
3. GLI STRUMENTI DELLA POLITICA COMMERCIALE INTERNAZIONALE -- 10
4. STRUMENTI PER FAVORIRE IL LIBERO SCAMBIO E L'UNIONE
ECONOMICA TRA PAESI ---------------------------------------------------------------------- 15
5. LA POLITICA COMMERCIALE DEGLI STATI ALL'INTERNO DEI MERCATI
COMUNI E DELLE UNIONI ECONOMICHE E MONETARIE ----------------------- 18
6. CENNI DI STORIA DELLE RELAZIONI COMMERCIALI INTERNAZIONALI 25

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1. CENNI ALLE DIVERSE TEORIE FAVOREVOLI


AL LIBERO SCAMBIO E AL COMMERCIO
INTERNAZIONALE SENZA DAZI

Lo scambio non avviene solo all'interno di uno Stato, ma anche


tra Nazioni diverse. Gli scambi di beni, che avvengono tra imprese di
Nazioni diverse, costituiscono il commercio internazionale.
Mentre è comprensibile ed evidente la ragione per cui la
divisione del lavoro comporta indubbi vantaggi alla comunità politica
che l'adotta e ad ogni singolo suo componente: occorre domandarsi se
sia lo stesso quando una comunità politica non produca tutti i beni di
cui ha necessità, ma si specializzi nella produzione di alcuni di essi e
li scambi con altri.
Ricardo elaborò a tale proposito la teoria dei costi comparati,
per cui affinché si verifichi lo scambio internazionale non è
importante che esista un divario tra i costi assoluti dei beni oggetto di
scambio, ma è sufficiente che esista un divario tra i costi relativi (o
comparati).
Ricardo è un economista classico, per il quale il costo di una
merce è determinato dalle quantità di lavoro impiegate per produrlo.
Il costo comparato, o ragione di scambio interna, è il rapporto
tra i costi di due beni nello stesso Paese. La ragione di scambio
internazionale è il rapporto tra i prezzi dei due beni nello scambio
internazionale.
Secondo la teoria ricardiana:

1. lo scambio internazionale avviene quando ciascun paese ha un


vantaggio nella produzione di un bene;

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2. non avviene quando un Paese ha un vantaggio uguale nella


produzione di entrambi i beni;
3. lo scambio avviene anche quando un Paese ha un vantaggio
nella produzione di entrambi i beni, ma tale vantaggio è
maggiore per uno dei due beni. Si tratta del cosiddetto
paradosso ricardiano. Essendovi convenienza per entrambi i
Paesi, lo scambio si effettuerà nonostante uno di essi abbia un
vantaggio nella produzione di entrambi i beni.

I costi di produzione dei beni venivano da Ricardo misurati in


ore-lavoro, secondo i principi della teoria classica, per cui il valore di
un bene è dato dalla quantità di lavoro che occorre per produrlo.
Di fronte alla critica marxista del plus valore e alla critica della
scuola storica tedesca, la scuola inglese rispose con l'affermarsi
dell'indirizzo neoclassico, ancora maggioritario nelle Università
italiane, per cui i prezzi dei beni sono determinati dalle preferenze
soggettive e non dalle quantità di lavoro in essi incorporate.
Come del resto in altri campi del pensiero economico, la teoria
ricardiana fu aggiornata e inserita nello schema marginalista,
misurando i costi di produzione dei beni non più in termini di ore-
lavoro, ma in termini di costo-opportunità e considerando molti beni e
molti Paesi in uno schema di equilibrio economico generale.
In questo schema teorico, il costo opportunità indica la
produzione alternativa di un bene a cui bisogna rinunciare per
ottenere un'unità addizionale di un dato bene (ovvero è il saggio
marginale di sostituzione di un bene con un altro). La sostituzione del
concetto di costo opportunità al concetto di ragione di scambio interna

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permette dunque di confermare la teoria ricardiana nell'ambito dello


schema marginalista.
Una diversa spiegazione delle ragioni per cui avviene il
commercio internazionale è fornita dagli economisti svedesi E.F.
Heckscher (1887-1952) e B.G.Ohlin (1899-1979). Essi sostengono che
ogni Paese tende ad esportare quei beni la cui produzione richiede un
uso più intenso del fattore della produzione che in quel Paese è
abbondante. La ragione dello scambio è dunque nella diversa
dotazione dei fattori produttivi dei vari Paesi.
Secondo questa teoria i Paesi con maggiori dotazioni di capitale
si dovrebbero specializzare in prodotti capital intensive, viceversa i
Paesi con abbondante manodopera si specializzeranno in lavori labor
intensive.
Esiste anche una teoria del commercio internazionale basata
sulla teoria del ciclo del prodotto.
Quelle che è importante qui sottolineare è che tutte queste
teorie sostengono una precisa politica commerciale: il libero scambio.
Quando vi è un divario tra i costi comparati, secondo queste teorie, lo
scambio internazionale è vantaggioso per entrambi i Paesi.
Una politica ispirata al libero scambio è pertanto la politica
economica delle relazioni internazionali più valida, perché consente
ad ogni nazione di specializzarsi nelle produzioni in cui ha i costi
minori e in questo modo tutte le nazioni ottengono i massimi vantaggi
e i beni vengono prodotti al minor costo possibile.
In buona sostanza, secondo queste teorie, i vantaggi del
commercio internazionale sono pressapoco gli stessi della divisione del
lavoro all'interno di una medesima comunità politica.

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2. LE TEORIE ECONOMICHE AVVERSE AL LIBERO


SCAMBIO

Il mercantilismo non ebbe trattazione sistematica. Gli scrittori


mercantilisti si occuparono infatti di problemi singoli, soprattutto
monetari e commerciali, e sempre da un punto di vista
essenzialmente pratico.
I mercantilisti consigliarono divieti di esportazione della
moneta e dei metalli preziosi; imposero l’obbligo ai mercanti di
riportare in moneta nel paese parte almeno del prezzo ricavato
all’estero; consigliarono dazi all’importazione, premi all’esportazione e
divieti all’uscita delle materie prime.
I mercantilisti furono dunque apertamente protezionisti e
consigliarono la creazione di grandi compagnie commerciali,
l’incremento della marina mercantile, la politica colonialista, la
politica demografica espansiva, la formazione di un unico mercato
nazionale, la creazione di industrie di Stato cioè reale politica
perseguita dalle grandi e piccole potenze europee fino alla seconda
guerra mondiale.
Da un punto di vista teorico economico i principi del
mercantilisti sono quattro:
a) il saldo positivo della bilancia dei pagamenti genera un
incremento della prodotto interno lordo;
b) la concorrenza internazionale distrugge l'industria nazionale
nascente;
c) il dominio coloniale permette l'acquisto di materie prime a
basso prezzo;

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d) la politica demografica espansiva permette: a) l'aumento dei


consumi; b) l'abbassamento dei salari al livello di sussistenza;
c) un esercito numeroso;
Si può dire che essi sono dei monetaristi che non credono alla
piena occupazione dei fattori della produzione.
L'incremento dei metalli preziosi aumenta la quantità di
moneta in circolazione e questa si ripercuote direttamente sul
mercato dei beni ed aumenta la domanda globale e attiva l'iniziativa
commerciale e produttiva dei cittadini. L'introduzione di un dazio,
consigliato dalla scuola mercantilista, fa aumentare la produzione e,
di conseguenza, l'occupazione nei settori protetti.
Dal momento che, quando scrivono i mercantilisti, l'industria è
nascente e vi sono risorse disoccupate, le misure protezionistiche
generano la riduzione delle importazioni e stimolano la domanda di
beni di produzione nazionale e quindi la produzione e l'occupazione.
Se poi le misure protezionistiche stimolano anche le esportazioni, ciò
determinerà un'ulteriore espansione della produzione e
dell'occupazione.
Tali politiche generano ritorsioni da parte dei Paesi
danneggiati, e l'effetto finale è la guerra, l'impiego peggiore e meno
efficiente che si possa fare dei propri fattori della produzione, quale
che sia il giudizio etico che si ha su di essa.
Ma anche tra i liberali il consenso sulla politica economica
libero scambista fu rotto da un genio, liberale e positivista, come John
Stuart Mill che riteneva che solo le leggi di produzione fossero leggi
naturali e quindi immutabili mentre considerava le leggi di
distribuzione come una fenomenologia etico politica, determinate da
ragioni sociali e, quindi, modificabili.

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In merito al libero scambio, Mill sostenne che, nella fase


iniziale dello sviluppo industriale, una nazione deve adottare misure
di protezione dalla concorrenza estera, altrimenti le industrie non
potrebbero nascere e quelle nate da poco non potrebbero sopravvivere
alla concorrenza internazionale.
Dopo questa prima fase protezionista, la politica protezionistica
dovrebbe essere abbandonata, quando le industrie si fossero
irrobustire e consolidate.
Mill ritiene che non è possibile una concorrenza tra le industrie
consolidate e quelle nascenti e ritiene necessario consentire uno
sviluppo alle aziende appena nate, prima di poter affrontare la
concorrenza delle aziende già consolidate.
Molto più radicale è la critica della scuola storica tedesca, in
particolare LIST contrappose alla teoria dei valori (fondamento
dell'analisi ricardiana e marginalista) la cosiddetta teoria delle “forze
produttive.”
La teoria delle forze produttive critica la teoria ricardiana
perché essa considera e giudica lo scambio guardando esclusivamente
il valore monetario degli stessi, ma non considera:
 gli effetti che si associano alle diverse alternative tra cui
scegliere: se si ignora la possibile evoluzione dei mercati
internazionali, un Paese con una grande industria siderurgica
può ritenere di potersi specializzarsi in quella produzione e non
dover seguire l'evoluzione tecnologica, le ripercussioni delle
innovazioni di informatica, chimica, etc. Se si tiene conto di
questa evoluzione dei mercati, invece, i vantaggi a breve che
comporta la specializzazione in un certo mercato non sono

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compensati dagli svantaggi a lungo termine dalla mancanza di


capacità o forza produttiva nei settori emergenti;
 la presenza industriale di una Nazione in settori strategici e
con impatto innovativo su tutti gli altri settori produttivi
comporta il rafforzamento della complessiva capacità
produttiva di quella Nazione.
Le teorie economiche avverse al libero scambio sono
formalmente corrette dal punto di vista economico, ma sono sempre
state utilizzate all'interno di schemi nazionalistici o di politiche
aggressive.
Viceversa essa sono profondamente importanti per capire
alcune leggi dell'economia anche privata (microeconomia) attinenti le
conseguenze dello scambio, perché integrano le considerazioni relative
ai vantaggi monetari dello stesso, con le conseguenze sulle capacità
future permanenti dei soggetti che effettuano lo scambio e fanno
emergere il ruolo centrale dell'educazione e della formazione
professionale per il funzionamento dell'economia.

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3. GLI STRUMENTI DELLA POLITICA


COMMERCIALE INTERNAZIONALE

Il seguente è un elenco dei principali strumenti di politica


commerciale internazionale possono essere adoperati da un Paese se
esso non ha aderito a specifici accordi di libero scambio:

Strumenti protezionistici

 Il dazio è una barriera doganale ai flussi di merci o fattori tra


due o più nazioni, e si manifesta con il pagamento di una
specifica tassa su alcuni beni. Nella maggior parte dei casi il
dazio viene riscosso attraverso una dichiarazione doganale. Il
dazio è direttamente legato alla classificazione internazionale
della merce, ottenuta utilizzando la tariffa doganale. Il
sistema armonizzato è un sistema internazionale
standardizzato, che classifica ogni singolo prodotto attraverso
l'uso di una serie di numeri. L’armonizzazione è gestita dalla
Organizzazione mondiale delle dogane OMD (World Customs
Organization-WCO), organizzazione a carattere
sovranazionale con oltre 170 stati membri e sede a Bruxelles,
Belgio. Tale numerazione viene usata negli scambi
commerciali tra le nazioni, sia nelle esportazioni che nelle
importazioni, per consentire una chiara e rapida
identificazione delle merci movimentate. Le classificazioni di
base, armonizzate a livello globale, sono contenute nelle prime
6 cifre del codice e ogni stato (o unione di stati) può
suddividere ulteriormente le merci comprese in queste voci,

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perciò dalla settima cifra in poi le varie tariffe doganali


possono differire tra loro. Il dazio doganale è usato
prevalentemente in importazione, ma può consistere anche in
imposte sull'esportazione. Esistono due tipi di dazi:
 quello generale è applicato a tutti i Paesi con cui non esistono
trattari generali.;
 la tariffa convenzionale o contrattuale è invece quella che lo
Stato applica alle merci provenienti da Paesi con cui ha
stipulato trattati di commercio.
 I premi all'esportazione sono sussidi statali, sia diretti e
indiretti che promuovono la produzione industriale e agraria
destinata all’estero.
 I contingentamenti.
I contingentamenti sono restrizioni quantitative stabilite da un
paese all'importazione di un determinato bene. I contingentamenti si
esercitano soprattutto attraverso la concessione, da parte dello Stato
che li ha decisi, di licenze di importazione fino al raggiungimento del
quantitativo stabilito. Gli effetti economici di un contingentamento
sono del tutto simili a quelli di un dazio all'importazione (aumento del
prezzo interno del bene) con la differenza che, mentre il dazio viene
incassato dallo Stato, il contingentamento va a beneficio dei detentori
della licenza di importazione. Il drawback. Abbiamo visto che i dazi
doganali possono essere imposti sia alle importazioni di beni finiti, sia
alle importazioni di materie prime o semilavorati. Ipotizziamo che un
Governo, per tutelare i coltivatori nazionali di grano, imponga un
dazio alle importazioni di questo bene. Il Governo intende tutelare gli
agricoltori, ma non ha alcuna preoccupazione ad impedire da parte
delle industrie di trasformazione del grano, di trasformare il grano

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per le esportazioni. Infatti quel grano sarebbe comunque lavorato da


altri Paesi. I dazi che colpiscono l'importazione di materie prime o di
semilavorati determinano però indirettamente aumenti dei costi dei
prodotti finiti e dei manufatti, che derivano dalla trasformazione delle
materie prime e dei semilavorati colpite dal dazio e quindi finiscono
per tradursi in un ostacolo all'esportazione dei prodotti finiti, di cui
invece il Governo in genere ha tutto il vantaggio a favorire la
produzione interna. Per evitare questo aggravio dei costi per gli
esportatori, il Governo ricorrere al drawback, che consiste nel
meccanismo per cui lo Stato rimborsa al produttore del manufatto, nel
momento in cui questi lo esporta, il dazio che il produttore stesso ha
pagato sulle materie prime che ha importato e impiegato nella
fabbricazione del manufatto;
 La temporanea importazione in franchigia. E' un
meccanismo più snello del precedente, ma che ha la medesima
finalità: consiste nel consentire di importare le materie prime
in franchigia (cioè senza pagare il dazio), a condizione che
entro un determinato periodo i manufatti e i prodotti con tali
materie prime vengano esportati.
 Il dumping. Il dumping si attua quando le grandi imprese
nazionali vendono i loro prodotti sui mercati stranieri ad un
prezzo inferiore al costo di produzione e recuperano la perdita
vendendoli all'interno del Paese ad un prezzo assai più alto di
quello a cui potrebbero vendere quelle stesse merci. Perché
possano permettersi di applicare i due prezzi diversi, è
necessario che lo Stato imponga un dazio, in modo da
impedire che i prodotti esportati a basso prezzo possano
essere acquistati da importatori e introdotti nel territorio

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nazionale ad un prezzo più basso di quello delle aziende


produttrici.
 La svalutazione del cambio. Il commercio internazionale
avviene tra diverse monete nazionali ed esiste un prezzo di
una valuta nei termini di un'altra. Quando i cambi sono
flessibili, una perdita di valore della divisa nazionale,
comporta un peggioramento del cambio. Se la divisa nazionale
vale meno è come se si attuasse uno sconto sui prezzi delle
merci vendute con quella divisa. La svalutazione del cambio
può dunque essere usata per aumentare le esportazioni dei
prodotti di un determinato Paese.
 La clausola di nazione più favorita. Quando un Paese gode
di questo accordo da parte di un altro, ogni riduzione della
tariffa generale, che un Paese A accorda ad un qualunque
altro Paese B, si estende automaticamente a quel Paese C con
cui il Paese A ha stipulato tale clausola.
 Barriere non tariffarie.
Esistono tutta una serie di strumenti della politica
commerciale, che sono strumenti di protezionismo, diversi da quelli
classici considerati finora. Essi sono noti come barriere non tariffarie.
Si tratta di ostacoli ai commerci, però diversi dai dazi e dai
contingentamenti. Le principali sono:
 le pressioni politico commerciali internazionali;
 le norme tecniche;
 le norme sanitarie.
Tali barriere hanno avuto un forte sviluppo a partire dalla
metà degli anni Settanta del secolo scorso ed hanno rappresentato un
modo attraverso cui molti Stati hanno eluso quei trattati

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internazionali che prevedevano una diminuzione del protezionismo


nel mondo da attuarsi attraverso la riduzione dei dazi e dei
contingentamenti di importazioni.

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4. STRUMENTI PER FAVORIRE IL LIBERO


SCAMBIO E L'UNIONE ECONOMICA TRA P AESI

 Area di libero scambio. Si ha un'area di libero scambio


quando più Nazioni si impegnano e di fatto eliminano i dazi tra
di loro. A differenza di una unione doganale, i membri di una
area di libero scambio non hanno la stessa politica doganale
verso i paesi non membri, ciò significa che ciascun paese
membro può applicare differenti dazi o contingentamenti a
paesi non-membri. Per evitare l'evasione dei dazi da parte dei
paesi non-membri attraverso la riesportazione, (un Paese terzo
cioè esporta prima nel Paese dell'Area di libero scambio con il
dazio inferiore e poi da questo verso il Paese obiettivo finale,
evitando il dazio o il contingentamento verso terzi stabilito) i
Paesi usano il sistema della certificazione di origine, attraverso
cui sono definiti i requisiti di quantità minima di fattori
produttivi e valore aggiunto locali immessi nel bene. I beni che
non soddisfano questi requisiti minimi non hanno diritto al
trattamento speciale previsto dal trattato di libero scambio.
Un esempio di area di libero scambio è l'EFTA. attualmente
costituita da quattro stati: Islanda, Liechtenstein, Norvegia e
Svizzera. Essa nacque come reazione britannica per la
creazione della CEE (ora Unione Europea).
 Unione doganale. Quando una serie di Paesi, oltre ad aver
eliminato i dazi esistenti tra di loro, attua una politica di dazi
doganali comuni nei confronti di Nazioni terze, si dice che
esiste un unione doganale. Un importante esempio storico di
unione doganale Lo Zollverein, o Unione doganale tedesca

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fu creato nel 1834 tra 38 stati della Confederazione Tedesca


durante la Rivoluzione industriale per creare un miglior flusso
commerciale e per ridurre la competizione interna. Lo
Zollverein escluse l'Austria, a causa dell'alto protezionismo
delle sue industrie, ma anche in funzione filoprussiana; in
seguito ciò aumentò la conflittualità austro-prussiana. Lo
Zollverein si dissolse il 1866 per il sostegno dato dagli stati
tedeschi meridionali all'Austria nella Guerra austro-prussiana
(parallela alla Terza guerra di indipendenza italiana), ma fu
ripristinata nel 1867 con la partecipazione anche questa volta
degli stati tedeschi meridionali. Il nuovo Zollverein era più
forte poiché nessuno stato singolo aveva più il potere di veto. Lo
Zollverein trae le sue origini dall'Unione doganale
prussiana, creata appunto dalla Prussia nel 1818. Dapprima
includeva solo i vicini più stretti della Prussia ed era
considerato come un mezzo per permettere il trasporto delle
merci tra la Provincia del Reno, acquisita dalla Prussia dopo il
Congresso di Vienna, e il resto del regno, che non le era
contiguo. La grande unione con 38 stati fu il frutto di uno sforzo
continuo della burocrazia prussiana durato per diversi decenni.
Il suo inizio graduale fece da contraltare agli sforzi modesti
della burocrazia austriaca nell'allargare la propria unione
doganale con gli stati vicini.
 Mercato Comune. Quando un'unione doganal prevede anche
la libertà di movimento di uomini e capitali, si ha un mercato
comune. La comunità economica europea è stata un mercato
comune.

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 Unione economica. Se i Paesi aderenti ad un mercato


comune, oltre agli impegni del mercato comune, prevedono
anche politiche economiche comuni, o quanto meno coordinate,
si ha un'unione economica. L'Unione Europea è un unione
economica.
 Lo Stato Federale. Uno Stato federale (dal latino foedus,
cioè patto, alleanza) o federazione di stati è uno Stato
composto da vari stati federati (variamente chiamati stati,
province autonome, territori autonomi, repubbliche autonome,
cantoni, etc.) che, entro certi limiti, si governano da soli in base
a prefissati principi di autonomia, a partire da una base
amministrativo-politica comune fissata da un governo centrale
detto federale, che stabilisce la politica economica e fiscale
federale.

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5. LA POLITICA COMMERCIALE DEGLI STATI


ALL'INTERNO DEI MERCATI COMUNI E DELLE
UNIONI ECONOMICHE E MONETARIE

Occorre interrogarsi se resti valida la teoria dei costi comparati


all'interno di un mercato comune, in cui il capitale e le persone hanno
libera mobilità?
La teoria dei costi comparati sostiene che i fattori produttivi, le
conoscenze tecnologiche e le risorse naturali (clima, fertilità dei
terreni, materie prime) sono distribuiti in modo diseguale tra i diversi
Paesi e presuppone che non esista la mobilità dei fattori.
Presupponendo che i fattori della produzione non possano
spostarsi liberamente ritiene che la produzione dei beni avvenga a
costi diversi nei vari Paesi e quindi che, date le ragioni interne di
scambio, esista un vantaggio nel commercio internazionale e nella
specializzazione nella produzione di quei beni in cui il singolo Paese
ha un vantaggio comparato.
L'esperienza storica della Comunità Economica Europea, ora
Unione monetaria ed economica europea, smentisce ampiamente
queste previsioni.
La rapida crescita del PIL che si è avuta in tutti i Paesi della
CEE dal 1958 all'inizio degli anni Settanta è avvenuta soprattutto
attraverso i movimenti dei fattori produttivi e non lo scambio di
merci.
L'immigrazione di lavoratori italiani in Paese come il Belgio e
la Germania da un lato favorì la crescita dell'industria tedesca,
dall'altro creò reddito in Italia, mediante le rimesse degli immigrati.

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Questo modello di crescita ha favorito la crescita della


produzione e dell'occupazione in tutti i Paesi della Comunità
economica, ma non ha determinato la specializzazione produttiva
prevista dalla teoria dei costi comparati.
Fatta eccezione per alcune attività (agricole e turistiche) legate
al clima, territorio o al contenuto paesaggistico e artistico, nell'Unione
monetaria si producono pressappoco gli stessi beni in tutti i Paesi.
I vantaggi dell'integrazione economica tra i Paesi della CEE
non derivano quindi dalla specializzazione produttiva dei suoi Paesi,
ma dalla maggiore ampiezza del mercato dei beni e dei capitali e da
un processo di armonizzazione e emulazione, che porta a seguire i
modelli migliori rispetto a quelli peggiori.
In questo contesto, nessuno degli strumenti di politica
commerciale indicati in precedenza è utilizzabile da un Paese
aderente all'unione economica, perché l'unione economica comporta
per definizione la rinuncia ai dazi e ai contingentamenti e la mobilità
di persone e capitale.
Ma il vero punto discriminante è che l'adozione di una
medesima valuta comporta la perdita dell'ultimo strumento di politica
commerciale internazionale a disposizione di un Paese: la
svalutazione della moneta.
Quando si perde la possibilità di attuare dazi,
contingentamenti, il dumping, la svalutazione del cambio, la clausola
di nazione più favorita, le barriere non tariffarie, la produzione
industriale e dei servizi viene allocata all'interno delle unioni
economiche con riferimento alla competitività di un sistema
economico ed alla pressione fiscale.

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La teoria del costo opportunità viene così ad essere modificata.


Fatta eccezione per particolari attività legate a clima, paesaggio,
monumenti, servizi alle persone e tutte le altre attività si
allocheranno nei Paesi con competitività e fiscalità migliori.
Si ricorda che per misurare la competitività in genere si
misurano le seguenti variabili:

 le istituzioni:

◦ il rispetto dei diritti di proprietà;

◦ il livello di corruzione;

◦ l’efficienza della giustizia;


 le infrastrutture:

◦ le vie di comunicazione;

◦ la rete tele informatica;


 i dati macroeconomici:

◦ lo stato delle finanze pubbliche;

◦ il tasso di inflazione;
 la salute della popolazione:

◦ l’impatto economico a medio-termine di alcune malattie;

◦ la speranza di vita,
 la scolarità primaria ossia l’alfabetizzazione;
 l’istruzione media e superiore:

◦ il livello della scolarità;

◦ degli apprendistati;

◦ dei tirocini;
 l’efficienza del mercato:

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◦ le distorsioni,

◦ la competizione interna,

◦ la bilancia commerciale,

◦ la capacità di attrarre cervelli;

◦ la flessibilità;
 il livello tecnologico:

◦ la percentuale degli utilizzatori di internet,

◦ la diffusione e la recezione delle nuove tecnologie fra le


aziende e fra la popolazione;
 la sofisticazione del business:

◦ la posizione mondiale,

◦ i vantaggi competitivi
 l’innovazione:

◦ la spesa per la ricerca e lo sviluppo dello stato e delle


aziende;

◦ la presenza di centri di ricerca,

◦ la collaborazione fra centri di ricerca e imprese;

◦ il numero dei brevetti,

◦ la capacità di innovare.
Tutti gli indici sopraddetti indicano la difficoltà oggettiva che
comporta avviare un'azienda in una nazione, piuttosto che in un'altra.
Ma c'è un indice, calcolato dalla Banca Mondiale, che dice,
quanta parte dei profitti commerciali di un'azienda sono sottratti da
un Stato piuttosto che da un altro.
Questo è diventato l'indice più importante per la politica
industriale e commerciale internazionale di un Paese all'interno di un

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Unione economica. Il Total Tax rate è l’indice internazionale della


pressione fiscale totale in rapporto ai profitti delle imprese: l'indice
tiene conto di ogni imposta potenziale a carico delle imprese (sulla
proprietà, sugli utili, sul lavoro, sui rifiuti, sulle auto, la politica
doganale , i capitali).
E' evidente che un imprenditore privato europeo, una
multinazionale europea, che godono di piena libertà di movimento del
proprio capitale all'interno dell'Unione, nel considerare l'efficienza
marginale del capitale, la considera al netto del Total Tax rate.
A parità di profitto atteso, l'imprenditore sceglierà il Paese
europeo che gli consente di avere profitti reali (al netto delle tasse
maggiori).
Ricordiamo che, secondo Keynes perché ci siano investimenti in
capitale fisico reale è necessario che l'efficienza marginale del capitale
sia maggiore del tasso corrente di mercato.
Perché si accresca questo divario, si può agire sull'offerta di
moneta, in modo da abbassare il tasso corrente di mercato, oppure
sulle aspettative (aspetto questo tralasciato da Keynes).
Nell’economia reale, caratterizzata dall'incertezza e
dall'incompletezza dell'informazione, l'aspettativa razionale coincide
con l'aspettativa matematica condizionata e assume da essa alcune
proprietà che è bene evidenziare. L'espressione formale del fatto che
l'aspettativa matematica è uguale alla tendenza centrale di una
distribuzione di probabilità è la seguente:
n
Aspettativa matematica = E (X) = Σ Pi Xi
i=l

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Dove Pi ... Pn rappresentano le probabilità assegnate al


verificarsi degli eventi Xi ... Xn.
L'aspettativa matematica condizionata non è altro che
l'aspettativa matematica soggetta a un ben specificato insieme di
informazioni.

In termini formali:

n
Aspettativa matematica condizionata = E (X/I) = Σ Pi Xi / I
i=l

dove I rappresenta l'insieme di informazioni utilizzato da cui


dipende la distribuzione di probabilità.
E' evidente che per un imprenditore privato europeo o una
multinazionale europea, il Total Tax Rate attuale e il suo andamento
nel tempo finiscono per rappresentare uno degli elementi informativi
fondamentali, insieme al posizionamento competitivo internazionale
di un Paese, per decidere dove investire all'interno di una medesima
unione monetaria.
Gli stessi imprenditori nazionali operanti in settori aperti alla
concorrenza europea, per la necessità di dover competere a livello
europeo, prima ancora che internazionale, devono avere il flusso di
profitti necessari per effettuare gli investimenti e le spese di
marketing necessarie a mantenere la propria posizione competitiva, e
quindi sono costretti a chiudere gli stabilimenti negli ambienti
dell'Unione con bassa competitività e alto Total Tax Rate e a

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trasferire le attività nei Paesi dell'Unione con alta competitività e


basso Total Tax Rate.
In altre parole in un mercato unico, ma ancora più in un'unione
economica, il Total Tax Rate e l'indice di competitività hanno assunto
un ruolo importante al tasso corrente di mercato. Mentre
quest'ultimo rimane il termine di paragone, il Total Tax Rate e
l'indice di competitività influenzano la variabile macroeconomica
fondamentale per la crescita economica: modificano il tasso naturale
di interesse (per usare il linguaggio di Wicksell) ovvero l'EMK, per
esprimersi alla maniera dei Keynes, perché modificano il quadro
informativo che condiziona le aspettative razionali di profitto
economico da parte degli imprenditori.
Questo fenomeno spiega l'attuale processo di perdita di attività
industriali in Italia al quale stiamo assistendo.

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6. CENNI DI STORIA DELLE RELAZIONI


COMMERCIALI INTERNAZIONALI

I rapporti commerciali internazionali sono stati improntati, fino


alla fine della seconda guerra mondiale, alla politica commerciale
internazionale mercantilista e anche la divisione tra libero scambisti
e protezionisti ha fatto parte della guerra mercantile in atto tra le
principali nazioni europee fino al 1945.
Nel XVI secolo, quando si vanno formando gli Stati nazionali. I
monarchi cercano di capire come aumentare la ricchezza economica
delle proprie nazioni e il benessere dei cittadini governati. Alcuni
elementi propri della politica mercantilistica si possono già ritrovare
nella prassi dei maggiori Comuni medievali, specialmente italiani, ma
fu soprattutto l'avvento del potere sovrano assoluto che determinò il
sorgere di nuove funzioni e conseguentemente di nuove esigenze
finanziarie. La nascente burocrazia professionale stipendiata, le
rappresentanze diplomatiche all’estero, l'esercito, non più mercenario
ma permanente, resero insufficienti le rendite patrimoniali del Re. Gli
intellettuali vicini alle grandi monarchie assolute erano chiamati a
dare indicazioni di politica economica, al fine di rafforzare l'unità
della nazione e incrementare la ricchezza nazionale, al fine di
accrescere la forza geopolitica della monarchia.
La prassi economica consigliata dai mercantilisti durerà fino a
tutto il XVII secolo.
Colbert ne fece una scuola amministrativa di politica
economica. Le condotte delle grandi potenze, a cavallo delle prime due
guerre mondiali, sono assolutamente ispirate dai principi di politica
economica del mercantilismo e anche il comportamento attuale delle

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nazioni europee all'interno della comunità europea possiedono forti


tratti mercantiliste Nonostante molti principi del mercantilismo siano
di fatto utilizzati nella prassi amministrativa dei governi, anche se
ancora oggi è in corso una guerra commerciale a colpi di dazi tra la
Cina comunista e l'Unione europea per i dazi che la Cina ha sollevato
nei confronti dei vini europei in risposta ai dazi sollevati dall'Unione
sui pannelli solari cinesi, una guerra tipicamente mercantilista nel
senso più stretto del termine), il mercantilismo è assolutamente
trascurato a livello accademico.
In Inghilterra, a differenza che in Francia, la borghesia aveva
conquistato il potere gradualmente, collegando a se buona parte della
nobiltà. Dopo la sconfitta dell'invicible armada del 1588, l'Inghilterra
si affermò come la principale potenza marittima mondiale.
Nei successivi 300 anni si formò l'Impero britannico, che
divenne il più vasto impero nella storia dell'umanità: nel 1921
l'impero britannico dominava su oltre 37 milioni di km quadrati e 500
milioni di persone.
Mentre alla luce della politica mercantilistica l'Impero
britannico cresceva e la Compagnia delle indie orientali aveva il
monopolio degli scambi commerciali, le sue università e i suoi studiosi
divennero i più letti al mondo e diffondevano il pensiero economico
liberista fondato su due principi: il lasciar fare e il libero scambio. A
prima impressione le teorie economiche inglesi potrebbero sembrare
contraddittorie con la prassi dell'impero inglese, ma in realtà il trionfo
dell'impero inglese è il trionfo della borghesia inglese:
- la teoria del “lasciar fare” è funzionale a stabilire un primato
della borghesia sulla corona;

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 la teoria dei vantaggi comparati e, in genere, le teorie del libero


scambio sono anche esse funzionali, forse senza compiacimento
e volontà dei loro autori, all'affermazione a livello mondiale
della predominanza dell'industria inglese su tutte le altre.
Solo i pensatori tedeschi sono in grado di elaborare una teoria
alternativa a quella delle Università inglesi e, al tempo stesso,
funzionale agli interessi tedeschi.
In Germania l'industrializzazione del Paese avvenne
successivamente all'Inghilterra, intorno alla seconda metà
dell'ottocento e venne decisa nell'ambito della politica di
rafforzamento dell'apparato produttivo tedesco. Le banche vi
giocarono un ruolo predominante, raccogliendo le cifre enormi
necessarie per giungere al capitale di rischio necessario ad avviare gli
immensi impianti siderurgici e l'industria pesante propria di quegli
anni.
La nascente industria nazionale doveva essere difesa nel
momento della sua nascita rispetto alla ben più avviata e forte
industria dell'impero britannico così come occorre riconoscere che
l'osservazione storica dà la certezza che il libero scambio si è sempre
affermato all'interno degli imperi e non tra di essi.
Alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1947 è nato il
GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, cioè Accordo
generale per i dazi e il commercio), che è un trattato stipulato
originariamente da ventitré Paesi e ora riguarda più di cento nazioni.
Il GATT oggi si chiama WTO (World Trade Organization, cioè
Organizzazione del commercio mondiale) e i suoi scopi sono:
 ridurre l'impiego dei contingentamenti di importazione e dei premi
all'esportazione;

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 armonizzare le politiche tariffarie dei Paesi aderenti;


 ridurre progressiva mente i dazi.
Nell'ambito del GATT (oggi WTO) sono state organizzate
diverse conferenze. Le principali di esse sono:
 il Kennedy Round: Il congresso degli USA nel 1962 ha
autorizzato la Casa Bianca a condurre negoziati tariffari
reciproci.Sessantasei nazioni, che rappresentano l'80% del
commercio mondiale, hanno partecipato l'apertura ufficiale il
4 maggio 1964. L'accordo definitivo è stato firmato il 30
giugno 1967. Il Kennedy Round si proponeva di ridurre le
barriere doganali tra l'Europa e gli Stati Uniti, ma ha
mancato largamente l'obiettivo
 l'UNCTAD (United Nations Conference and Trade and
Development); si proponeva di accrescere gli scambi tra i
Paesi industrializzati e i Paesi in via di sviluppo, ponendoli su
basi più favorevoli per questi ultimi, che esportano
prevalentemente prodotti agricoli e materie prime. Però i
Paesi industrializzati hanno perseverato nelle loro politiche
volte a proteggere l'agricoltura e si è registrato uno scarso
progresso nella liberalizzazione degli scambi
 il Tokyo Round
 l'Uruguay Round.
Anche il Tokyo Round (iniziato a Tokyo nel 1973 e conclusosi a
Ginevra nel 1979) e l'Uruguay Round (iniziato nel 1986) hanno fatto
registrare progressi assai limitati sulla via della liberalizzazione degli
scambi.
Il WTO è stato istituito il 1 gennaio 1995, alla conclusione
dell'Uruguay Round, i negoziati che tra il 1986 e il 1994 hanno

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impegnato i paesi aderenti al GATT ed i cui risultati sono stati


sanciti nell"Accordo di Marrakech" del 15 aprile 1994. Membri
dell'Organizzazione mondiale del commercio sono gli Stati e i
"territori doganali separati".
Il WTO ha così assunto, nell'ambito della regolamentazione del
commercio mondiale, il ruolo precedentemente detenuto dal GATT: ha
infatti recepito gli accordi di quest'ultimo e le convenzioni adottati con
l'incarico di amministrarli ed estenderli.
Il WTO prevede una struttura comparabile a quella di analoghi
organismi internazionali, a differenza del GATT, che non aveva una
vera e propria struttura organizzativa istituzionalizzata.
Obiettivo generale del WTO è quello dell'abolizione o della
riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale; a
differenza di quanto avveniva in ambito GATT, oggetto della
normativa del WTO sono, però, non solo i beni commerciali, ma anche
i servizi e le proprietà intellettuali.
Tutti i membri del WTO sono tenuti a garantire verso gli altri
membri dell'organizzazione lo "status" di "nazione più favorita" (most
favourite nation):
Le due funzioni principali del WTO possono, dunque, essere
identificate nelle seguenti:
quella di conferenza negoziale per la discussione sulla normativa
del commercio internazionale (nuova ed esistente);
quella di organismo per la risoluzione delle dispute internazionali
sul commercio.
Il limite attuale al funzionamento del WTO attiene proprio alla
capacità di svolgere questa seconda funzione. Infatti, il WTO non ha
un effettivo potere per sostenere le proprie decisioni nelle dispute fra

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Salvatore Della Corte “La Politica del commercio internazionale”

paesi membri e tutto è affidato alle misure ritorsive tra i contendenti,


ma questo genera una legge del più forte: i paesi ad economia
maggiormente sviluppata e solida possono sostanzialmente ignorare i
reclami avanzati dai paesi economicamente più deboli, dal momento
che a questi ultimi semplicemente mancano i mezzi “di ritorsione” per
poter porre in atto misure realmente efficaci nei confronti di
un'economia fortemente più solida che obblighino quindi il paese
verso il quale il reclamo è indirizzato a cambiare le proprie politiche.
Il fatto politico più importante degli ultimi anni, in termini di
relazioni commerciali internazionali, è stata l'adesione della Cina
(WTO), dopo 7 anni dall'ingresso nella stessa.

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LA BILANCIA DEI
PAGAMENTI
Giovanni Cannata
Giovanni Cannato “La bilancia dei pagamenti”

Indice

1. IL MERCATO DEI CAMBI ---------------------------------------------------------------------- 3


2. LA BILANCIA DEI PAGAMENTI ------------------------------------------------------------- 5
3. IL TASSO DI CAMBIO --------------------------------------------------------------------------- 7

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Giovanni Cannato “La bilancia dei pagamenti”

1. IL MERCATO DEI CAMBI

Nei paesi in cui il sistema finanziario è poco sviluppato o con


convertibilità della moneta non perfetta, possono esistere una
pluralità di tassi di cambi definiti tassi di cambio informali.
Il mercato dei cambi può essere visto come un mercato
all’ingrosso in cui operano intermediari finanziari, grandi imprese e
banche centrali nel quale sono scambiate le valute.
Il moderno mercato dei cambi è nato dopo il 1971, anno dal
quale le monete hanno avuto l’opportunità di oscillare lasciando lo
stretto margine di oscillazione previsto dagli Accardo di Bretton
Woods.
Il mercato è caratterizzato da volumi significativi di scambi da
una ricca pluralità di operatori, da una grande liquidità, da un
decentramento geografico, da una durata giornaliera degli scambi con
l’eccezione dei week end.
Gli operatori sono divisibili in due grandi categorie quelle del
mercato interbancario e quelle del mercato al dettaglio. Le prime
riguardano operazioni tra istituti centrali, banche commerciali e
grandi intermediari, mentre quello cosiddetto al dettaglio concerne
piccoli speculatori e investitori, che operano attraverso agenti
intermedi (broker), quali i fondi speculativi, le imprese s….
Le operazioni consistono in scambio di biglietti di banconote o
storno tra conti bancari per operazioni a pronti cioè con scambio
immediato o a termine.
Il prezzo delle monete dipende dalla data di consegna (tasso di
cambio spot che corrisponde ad una consegna immediata) e quindi a
un valore certo e tasso di cambio a termine che corrispondono alle

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Giovanni Cannato “La bilancia dei pagamenti”

consegne differite per le quali gli operatori indicano la data del tasso
di cambio da applicare allo scambio.
Gli strumenti finanziari derivati del tasso di cambio sono:
 Swap scambio di valute (flussi monetari in entrata e
uscita) per un periodo di tempo prefissato quando avrà
luogo l’operazione inversa
 Opzioni acquisto o vendita alle quali corrisponde il
diritto di acquistare o vendere valuta estera in una data
fissata o entro una certa data ad un prezzo prefissato.
Questi strumenti derivati possono essere impiegati per coprirsi
da un rischio di cambio, per mera speculazione o per arbitraggio in
attesa di condizioni più favorevoli.
La realizzazione dell’euro ha ridotto la dimensione del mercato
il mercato dei cambi in quanto molte valute dei paesi europei
partecipi del mercato mondiale sono scomparse.
Il mercato dei cambi è stato caratterizzato da un’ampia
evoluzione in relazione allo sviluppo del commercio internazionale,
alla liberalizzazione del mercato dei capitali, alla crescente
sofisticazione delle tecniche di gestione del rischio.
Il dollaro continua ad assolvere il ruolo di moneta veicolare per
le transazioni commerciali e in generali per la transazioni valutarie
anche se il dominio del dollaro non è il dominio di New York come
piazza finanziaria. L’euro come altre monete di economie emergenti
potrà sovvertire questo ruolo.

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Giovanni Cannato “La bilancia dei pagamenti”

2. LA BILANCIA DEI PAGAMENTI

Nelle moderne economie non regolamentate, nelle quali vi è


convertibilità delle monete, il tasso di cambio è fondamentalmente il
risultato dell’equilibrio fra domanda e offerta di valute che si
contabilizza nella bilancia dei pagamenti.
La bilancia dei pagamenti è il documento contabile nel quale si
registrano le transazioni economiche che hanno luogo in un
determinato periodo di tempo fra residenti di un paese e non residenti
da cui derivano introiti o esborsi di valuta. La bilancia dei pagamenti
include tutte le transazioni con l’estero
La bilancia si compone di:
o Conto corrente registra da un canto tutti i redditi
derivanti dalle transazioni, i ricavi delle esportazioni di
beni e servizi per le sole merci della bilancia
commerciale, i redditi da lavoro e da capitale, dall’altro
i pagamenti effettuati al resto del mondo, le spese per
importazioni di beni e servizi, pagamenti per redditi da
lavoro e capitale. A queste poste vanno aggiunte quelle
relative agli aiuti allo sviluppo.
o Conto capitale registra trasferimenti di capitale senza
contropartita quali le cancellazioni dei debiti o le
sovvenzioni per le attività di investimento.
o Conto finanziario che descrive tutte i movimenti di
capitali a breve, medio, lungo; investimenti diretti
(azioni e partecipazioni con aziende all’estero),
investimenti di portafoglio, derivati, crediti commerciali
e capitali bancari e variazioni di riserve.

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La bilancia commerciale, che è parte del conto corrente,


riguarda il saldo delle partite inerenti alle importazioni ed
esportazioni di beni e servizi.
L’equilibrio della bilancia dei pagamenti è l’uguaglianza tra
acquisto netto di beni e servizi e asset nazionali (in moneta nazionale)
da parte di non residenti e l’acquisto netto di beni, servizi ed asset
esteri da parte dei residenti. Un paese in cui le importazioni di beni e
servizi sono maggiori delle esportazioni ha un deficit delle partite
correnti o deficit di conto corrente.
Gli interventi nel mercato dei cambi possono influenzare la
politica monetaria seguita dalla banca centrale se la banca centrale
vende riserve valutarie riduce l’offerta di moneta nazionale se la
moneta ricevuta in cambio della valuta estera venduta viene ritirata
dalla circolazione.
Un paese che ha un tasso di risparmio basso finisce per
indebitarsi molto con il resto del mondo per effetto anche di
investimenti elevati che consegnano ad altri paesi la proprietà di
patrimoni, titoli, beni immobiliari in genere.

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3. IL TASSO DI CAMBIO

Il tasso di cambio è il prezzo di una valuta in termini di altra


valuta (tasso di cambio bilaterale) o anche il numero di unità di
valuta estera che può essere acquistato con una unità di valuta
nazionale.
Due tipi di quotazione:
 Incerto per certo: l’unità monetaria di riferimento è
quella estera e il prezzo di tale unità è espresso in
moneta nazionale
 Certo per incerto: è fissa la quantità di moneta
nazionale e variabile quella della moneta estera (in uso
per euro)
La politica economica è più interessata al prezzo relativo dei
beni, dei servizi e del lavoro per le implicazioni che possono derivare
sulla competitività. Un aumento del tasso di cambio nominale può
comportare un’inflazione minore e quindi agire sui termini di
convenienza.
Il tasso di cambio reale è il tasso di cambio nominale depurato
dagli effetti dell’inflazione attraverso l’impiego di opportuni indici dei
prezzi tarati rispetto ai fenomeni che si vogliono indagare
Il tasso di cambio multilaterale è la media ponderata dei tassi
di cambio bilaterali (secondo il peso dello specifico paese rispetto agli
altri alla luce del peso assunto nel commercio mondiale); il tasso di
cambio è un indicatore di competitività.
Ritengo utile segnalare che il tasso di cambio può dipendere da
diversi fattori tra i quali è rilevante il tasso d’interesse fissato dalla

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Giovanni Cannato “La bilancia dei pagamenti”

banca centrale. Laddove la stessa fissi elevati tassi di interesse ne


consegue una valida attrazione di investitori esteri che finiscono per
aumentare la domanda di valuta ed il relativo valore.
Va sottolineato inoltre che, mentre nelle economie sviluppate il
tasso di cambio oscilla intorno ad un valore sostanzialmente stabile,
nel lungo periodo, nei paesi in fase di sviluppo esso cresce in relazione
alla dinamica di sviluppo del paese stesso.

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LA BILANCIA DEI
PAGAMENTI E LE
RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “La bilancia dei pagamenti e le relazioni
economiche internazionali”

Indice

1. IL CAMBIO, LA BILANCIA DEI PAGAMENTI, LA RISERVA VALUTARIA ----- 3


2. LA NECESSITÀ DELL'EQUILIBRIO DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI ----- 6
3. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI AL TEMPO DEL SISTEMA
AUREO ----------------------------------------------------------------------------------------------- 10
4. GLI AGGIUSTAMENTI AUTOMATICI DELLE BILANCE DEI PAGAMENTI AL
TEMPO DEL SISTEMA AUREO -------------------------------------------------------------- 15
5. IL DOPPIO USO DELL'ORO NEL SISTEMA AUREO, L'AFFERMAZIONE
DELLA STERLINA QUALE MONETA DI RISERVA, LE RAGIONI DEL CROLLO
DEL SISTEMA -------------------------------------------------------------------------------------- 25

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Salvatore Della Corte “La bilancia dei pagamenti e le relazioni
economiche internazionali”

1. IL CAMBIO, LA BILANCIA DEI PAGAMENTI, LA


RISERVA VALUTARIA

In questa lezione ci porremo il problema di come si pagano i


debiti agli stranieri e come si riscuotono i crediti dagli stranieri.
Capiremo cos'è la bilancia dei pagamenti. Ci chiederemo se
esiste una moneta internazionale utilizzata per gli scambi
commerciali tra Paesi e come si converte una moneta nazionale in
quella di un altro Paese.
Le relazioni valutarie e commerciali hanno fortemente risentito
e risentono delle relazioni internazionali esistenti.
Procediamo con ordine e chiariamo innanzitutto due concetti:
 il tasso di cambio;
 la bilancia dei pagamenti;
Il tasso di cambio può essere definito come il numero di unità di
moneta estera che possono essere acquistate con un’unità di moneta
nazionale.
Il tasso di cambio è determinato dal valore di mercato delle
varie valute sul mercato internazionale: in altre parole, come ogni
altra merce il suo prezzo dipende dalla domanda e dall'offerta di
valuta.
La bilancia dei pagamenti, come essa è definita dal Manuale
della bilancia dei pagamenti e della posizione patrimoniale sull'estero
dell'Italia, pubblicato dalla Banca d'Italia, è “(lo) schema statistico che
registra le transazioni economiche realizzatesi, in un determinato
periodo di tempo, tra residenti e non residenti in un’economia. Sono
definite tali le relazioni di tipo economico che determinano il
cambiamento di proprietà di un bene o di un'attività finanziaria,

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economiche internazionali”

l'erogazione di un servizio, l'utilizzo dei fattori lavoro e capitale


(redditi) o il trasferimento unilaterale senza contropartita di un bene
o valore. Le transazioni registrate nella bilancia dei pagamenti,
quindi, hanno per oggetto lo scambio tra residenti e non residenti di
beni, servizi, redditi, trasferimenti unilaterali e attività finanziarie”
La bilancia dei pagamenti è articolata in quattro sezioni:
 Conto corrente, dove vengono registrate le transazioni relative
a beni e servizi, i redditi da lavoro dipendente e da capitale, i
trasferimenti correnti;
 Conto capitale. Il conto registra le acquisizioni, al netto delle
cessioni, di attività non finanziarie e misura la variazione del
patrimonio netto dovuta al risparmio ed ai trasferimento in
conto capitale;
 Conto finanziario. Il conto finanziario, redatto dalla Banca
d'Italia per il Paese, per singoli settori e per il Resto del mondo,
descrive le variazioni nelle consistenze delle attività e passività
finanziarie attraverso le quali il Paese o i settori istituzionali
assumono debiti o concedono crediti;
 Errori ed omissioni.
In ciascun conto si registrano debiti e crediti:
 debiti (il termine indica un aumento di attività del paese o una
diminuzione di passività): le uscite di moneta conseguenti ad
acquisti di beni e servizi (importazioni), pagamenti di redditi,
trasferimenti unilaterali, acquisizioni di attività non
finanziarie non prodotte, aumenti di attività o diminuzioni di
passività finanziarie sull'estero;
 crediti (la voce indica una diminuzione di attività del paese o
un aumento di passività): le entrate di moneta derivanti da

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vendite di beni e servizi (esportazioni), incassi di redditi,


trasferimenti unilaterali, cessioni di attività non finanziarie
non prodotte, diminuzioni di attività o aumenti di passività
finanziarie sull'estero.
Se si considerano le sole partite correnti, è evidente che la
domanda e l'offerta di una valuta dipende, prevalentemente
dall'andamento della bilancia commerciale: ogni acquisto della merce
di un Paese straniero è anche richiesta della sua valuta e ogni vendita
di una merce nazionale è anche offerta di valuta nazionale.
Quello che adesso dobbiamo comprendere è perché ogni Paese
deve preoccuparsi di avere la bilancia dei pagamenti in equilibrio e
perché questo non valga, entro certi limiti, per il Paese che detiene la
moneta più utilizzata negli scambi commerciali.

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2. LA NECESSITÀ DELL 'EQUILIBRIO DELLA


BILANCIA DEI PAGAMENTI

Gli scambi di merci e servizi vengono registrati, all'interno


della bilancia dei pagamenti di un Paese nel conto delle partite
correnti, insieme con le transazioni internazionali relative ai redditi
dei fattori produttivi, cioè i redditi da capitale e i redditi da lavoro),
nonché con i trasferimenti unilaterali privati e pubblici, come le
rimesse degli emigrati.
I movimenti di capitale registrano invece:
 gli investimenti diretti da e per l'estero;
 i crediti commerciali
Il conto finanziario, invece, abbiamo detto, registra i movimenti
finanziari internazionali.
Per semplificare l'insegnamento della materia, nell'esempio
precedente, abbiamo considerato esclusivamente l'andamento delle
operazioni su merci e servizi, ovvero le partite correnti della Bilancia
dei Pagamenti.
In realtà non è vero, che l'economia si limiti ad effettuare con
l'estero solo esportazioni ed importazioni di merci o di scambi di
servizi.
E' importante comunque che lo studente prenda intanto
dimestichezza con la circostanza che le esportazioni rappresentano le
operazioni attive della bilancia dei pagamenti, perché, come abbiamo
visto, danno luogo a riscossioni dall'estero.
Le importazioni, invece, costituiscono le operazioni passive
della bilancia dei pagamenti, perché danno luogo a pagamenti a
favore dell'estero.

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Per quanto riguarda la sola sezione di conto corrente della


bilancia dei pagamenti possono verificarsi ovviamente tre situazioni:
 il valore monetario delle esportazioni eguaglia quello delle
importazioni: l' economia di quel dato Paese è in equilibrio con
l'estero. Dal momento che infatti le importazioni e le
esportazioni complessive verso tutti i Paesi di un dato Paese si
eguagliano, anche le riscossioni e i pagamenti si bilanceranno
perfettamente, se non si considerano i saldi delle altre sezioni
della bilancia dei pagamenti.

 il valore delle esportazioni e quello delle importazioni


divergono:
◦ la divergenza può consistere in un surplus delle partite
correnti, che genera, abbiamo visto, un avanzo dei pagamenti (le
esportazioni sono maggiori delle importazioni)
◦ la divergenza può consistere in un deficit delle partite
correnti (le importazioni eccedono le esportazioni) che determinano un
disavanzo dei pagamenti.
Il deficit o il surplus della bilancia dei pagamenti determina
una conseguenza nella bilancia valutaria della banca centrale di un
determinato Paese:
 i Paesi in cui le cui importazioni superano le esportazioni,
registrano un deficit valutario e devono attingere alle proprie
riserve valutarie o di oro, come vedremo, per colmarlo;
 i Paesi in cui le cui esportazioni superano le importazioni,
registrano invece un surplus valutario e registrano un
incremento delle proprie riserve valutarie o di oro.

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E' evidente che, fatta eccezione per il solo Paese che possiede la
cosiddetta moneta di riserva, (vedremo dopo cos'è), gli squilibri della
bilancia dei pagamenti dovrebbero avere esclusivamente carattere
temporaneo, sia in caso di surplus che di deficit.
Ipotizziamo che un Paese registri un deficit della bilancia dei
pagamenti: quel paese può sì saldare il deficit della propria bilancia
mediante pagamenti effettuati con le sue riserve internazionali, ma
queste riserve non sono illimitate.
Se il deficit nei confronti dell'estero fosse persistente, la banca
centrale del Paese tenderebbe presto ad esaurirle. È vero che il paese
deficitario può far fronte al deficit grazie al credito concesso dagli altri
paesi, ma il credito che l'estero è disposto a concedere deve ritenersi
illimitato.
Se il surplus nei confronti dell'estero fosse persistente, la banca
centrale del Paese tenderebbe invece ad accumulare un livello molto
alto di riserve valutarie.
Gli squilibri valutari dovrebbero pertanto essere
tendenzialmente temporanei perché, dal punto di vista del paese
deficitario, l'eccesso delle importazioni sulle esportazioni rappresenta
un afflusso netto di beni prodotti da collettività estere, mentre, per un
Paese in surplus, l'eccesso delle esportazioni sulle importazioni
costituisce una sottrazione netta dei beni all'uso della propria
collettività, senza contropartita in un equivalente valore di beni
provenienti dall'estero.
I processi di riequilibrio delle bilance possono essere automatici
o deliberati.

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 i processi di aggiustamento automatici sono quelli promossi


spontaneamente dai meccanismi di funzionamento del sistema
monetario internazionale storicamente vigente.
 i processi di aggiustamento deliberati vengono decisi dalle
autorità di politica economica per riparare i limiti degli
aggiustamenti automatici. Essi riparano le insufficienze dei
meccanismi automatici, i quali possono rivelarsi troppo lenti o
determinare deflazioni o inflazioni che le autorità di Politica
economica desiderano evitare. Il complesso delle iniziative di
politica economica, l'insieme delle misure di politica monetaria,
di politica del bilancio pubblico, di politica dei redditi può
essere deliberatamente indirizzata allo scopo di conseguire il
riequilibrio delle bilance con maggiore rapidità e con minori
sacrifici di quanto non sarebbe dato ottenere mediante i soli
processi automatici di aggiustamento.
Quello che deve essere assolutamente chiaro allo studente è che
i meccanismi automatici dipendono dal sistema monetario esistente e
che questo dipende:
 dalla valuta di riserva utilizzata;
 dall'esistenza di cambi flessibili o fissi.
Per questa ragione i meccanismi di aggiustamento automatici o
deliberati saranno considerati all'interno dei sistemi esistenti.

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economiche internazionali”

3. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI AL TEMPO DEL SISTEMA
AUREO

Il sistema aureo è il sistema monetario internazionale fondato


sull'oro (definito per questo gold standard) o, con definizione di altro
autore, “Il sistema di scambi internazionale sistema della sterlina”, in
quanto. la prima nazione ad adottare questo sistema monetario fu
l'Impero britannico.
A partire dal 1815 conservò uno standard bimetallico (oro e
argento), ma l'oro in realtà era sopravvalutato dalla Zecca, pertanto le
monete d'oro, le famose "ghinee" che portavano il nome della regione
africana (Guinea) da cui proveniva il metallo, rimpiazzarono
largamente quelle d'argento nell'uso del sistema bimetallico.
Durante le guerre napoleoniche, la Banca d'Inghilterra, con
l'autorizzazione del governo, sospese la convertibilità delle monete
emesse, cioè si rifiutò di pagare oro e argento in cambio delle proprie
banconote e utilizzò il signoraggio per far fronte alla guerra.
Dopo la vittoria su Napoleone, il governo decise di ritornare ad
uno standard metallico, ma scelse l'oro, lo standard de facto del
Settecento, invece dell'argento, nonostante la moneta fosse ancora
chiamata sterlina (da "pound of sterling silver").
L'unità di conto fu la sterlina d'oro, definita come 113,0016
grani (7.32 grammi) di oro fino (puro).
Dato l'assoluto primato dell'Impero britannico nel commercio
internazionale, il sistema britannico si impose de facto negli scambi
internazionali.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è


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La prima nazione dopo l' Impero britannico ad aderire


ufficialmente al gold standard fu il nuovo Impero tedesco.
Dato che il peso dell'Impero prussiano nel commercio
internazionale era in crescita e influenzava tutta l'area europea, le
altre Nazioni continentali aderirono al movimento verso il gold
standard.
Negli Stati Uniti, invece, durante la guerra civile, sia gli Stati
del Nord, industrializzati e pertanto protezionisti (per difendere le
loro industrie nascenti dalle affermate industrie britanniche), che
quelli del Sud, agricoli e libero scambisti (per non vedersi imporsi dazi
alle esportazioni dei propri prodotti agricoli), emisero moneta
inconvertibile per sostenere le spese di guerra e il Gold standard fu
legalmente adottato dal Congresso nel 1900.
Dopo la crisi del bimetallismo nel 1871, il sistema aureo venne
progressivamente adottato dalle maggiori potenze economiche
dell'epoca, sia da quelle sotto l'influenza economica dell'Impero
britannico, sia quelle sotto l'influenza economica dell'Impero
prussiano:
Il gold standard si affermò dunque gradualmente attraverso
l'adesione forzata o volontaria di un numero via via crescente di Paesi
al sistema di relazioni internazionali che si sviluppo intorno al
commercio dell'Impero britannico, dopo che questo impero, con un
atto del 1816, diede riconoscimento legale all'oro come moneta
principale in circolazione e durò fino allo scoppio della prima guerra
mondiale.
Per illustrare il funzionamento del gold standard è necessario
richiamare i principali requisiti organizzativi di questo sistema
monetario:

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 nelle singole nazioni aderenti, le monete in circolazione o erano


di metallo prezioso o sono convertibili in oro. Questo non
significa necessariamente che le monete dei singoli paesi
fossero rappresentate da pezzi del metallo. Significa però che i
singoli governi definivano l'unità monetaria circolante nel
paese in termini di oro: ossia, dichiaravano che a ciascuna
unità di moneta corrispondeva un determinato quantitativo di
oro: questa dichiarazione si chiama parità aurea.
 la moneta circolante, anche se cartacea, in ogni nazione
aderente al sistema del gold standard era liberamente
convertibile in oro presso le Banche centrali delle nazioni,
secondo i termini dell'unità monetaria dichiarata;
 viceversa, l'oro, in ogni nazione aderente al sistema del gold
standard era liberamente convertibile in moneta nazionale;
 le nazioni aderenti al sistema del gold standard si impegnavano
a possedere una massa complessiva di moneta proporzionale
con 1'oro posseduto nelle riserve bancarie del Paese: del resto
questa condizione era l'unica che rendesse possibile la reciproca
convertibilità dell'oro in moneta nazionale e viceversa;
 le nazioni che aderivano al sistema si impegnavano al libero
movimento dell'oro, sia in forma di moneta, sia di oro greggio;
L'insieme dei requisiti stabiliti per aderire al gold
standard determina due conseguenze:
 la rinuncia alla discrezionalità nella politica monetaria: si
tratta di una rinuncia non percepita in fondo all'epoca neanche
come tale

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 Un sistema di cambi fissi, strettamente legato alle definizioni


dell'unità monetaria in termini di oro e alle spese che si
sostengono per trasferirlo da una nazione ad un altra.
◦ Il cambio tra le varie monete è facilmente desumibile nel
gold standard. Infatti se ad esempio il governo statunitense dichiara
che ad ogni dollaro corrispondono 0,10 grammi d'oro, ed il governo
inglese definisce ogni sterlina essere convertibile in 0,20 grammi di
oro, il cambio ufficiale tra le due monete è di una sterlina ogni due
dollari. Si tratta di un ipotesi di scuola per semplificare lo studio, in
realtà i cambi tra le due monete reali che si attuarono fra le due
monete dipendono dalle parità auree realmente dichiarate. Quindi
useremo da ora approssimativamente il seguente cambio 5 dollari per
una sterlina.
◦ Ma capiamo ora perché nel sistema internazionale del
gold standard i cambi furono sostanzialmente fissi e variarono poco
intorno al cambio sopra delineato: supponiamo che sul mercato
valutario, a fronte di un incremento della vendita di prodotti da parte
dell'Impero inglese agli Stati Uniti d'America esista una accresciuta
domanda di sterline e che per cedere, cioè per vendere, una sterlina
gli operatori economici vogliano più dei circa 5 dollari, come stabilito
dalle parità auree dichiarate dalle due nazioni. E' semplice: colui che
desidera acquistare le sterline cedendo dollari ha un'alternativa
rispetto al mercato valutario. Infatti egli può portare i dollari ad una
Banca americana e ottenere in cambio l'oro previsto; successivamente
può spedire questo oro alla Banca di Inghilterra e ottenere in cambio
le sterline previste. Finché le banche centrali degli Stati coinvolti
rispettano la regola della convertibilità sulla base della parità
dichiarata, il cambio tra due monete cartacee sarà sempre

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determinato dal rapporto tra le parità di queste monete rispetto


all'oro. Esiste però un margine di fluttuazione. Il prezzo di mercato
esistente per trasportare e assicurare l'oro nel suo viaggio dagli Stati
Uniti alla Banca d'Inghilterra.

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4. GLI AGGIUSTAMENTI AUTOMATICI DELLE


BILANCE DEI PAGAMENTI AL TEMPO DEL
SISTEMA AUREO

Studiata la reale evoluzione storica della nascita e affermazione


del sistema cosiddetto aureo e le regole istituzionali dello stesso, è
giunto il momento di approfondire il tema degli aggiustamenti
automatici degli squilibri della bilancia dei pagamenti che esso
comporta.
Per semplificare l'apprendimento allo studente, torneremo
all'esempio precedente, un esempio scolastico, dei due Paesi, gli USA
e l'Impero britannico, e supporremo che gli USA abbiano la bilancia
dei pagamenti in deficit mentre l'Impero Britannico ce l'abbia in
surplus.
In un primo momento, supponiamo che il deficit statunitense
della bilancia dei pagamenti e il •surplus della bilancia dei pagamenti
siano dovuti entrambi ad un deficit e ad un surplus della sola bilancia
delle partite correnti, meglio ancora e sempre per semplificare, della
bilancia commerciale tra le due nazioni.
Questo significa che, nel nostro caso di scuola, gli USA hanno
un eccesso di importazioni sulle esportazioni e l'impero britannico un
eccesso di esportazioni sulle importazioni.
Sempre ai fini della semplificazione dell'apprendimento dello
studente, inseriamo l'ipotesi che il mondo sia costituito solo da questi
due Paesi, per cui le esportazioni degli USA, in questo mondo
immaginario, sono eguali alle importazioni dell'Impero britannico e
viceversa.

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Per pagare le importazioni di merce britannica, gli importatori


statunitensi domanderanno sterline sui mercati valutari, mentre i
britannici, per pagare le merci che importano dagli USA
domanderanno dollari. D'altra parte gli statunitensi per acquistare
sterline offriranno dollari in cambio, per cui la domanda di sterline è
eguale all'offerta di dollari e viceversa.
Abbiamo ipotizzato che esista uno squilibrio della bilancia dei
pagamenti, perché gli statunitensi importano più di quanto esportano.
Conseguentemente la domanda di sterline sarà più alta
dell'offerta di dollari.
Abbiamo anche imparato che l'ascesa del cambio non potrà
superare i cosiddetti punti dell'oro: l'ascesa del cambio sterlina-
dollaro si arresterà al punto superiore dell'oro.
Infatti, dal momento che la parità sterlina-dollaro è 1/5, cioè 1
sterlina = 5 dollari, se ipotizziamo le spese di assicurazione e
spedizione di 5 grammi d'oro dagli Usa alla Germania siano pari a 0,5
dollari, non appena il cambio raggiunge il livello per cui per
acquistare una sterlina occorrono 5,5 dollari, il prezzo della sterlina in
termini di dollari non salirà più, data la possibilità della conversione
in oro delle due valute.
Pertanto, una volta che il cambio ha raggiunto il punto
superiore dell'oro, gli operatori commerciali statunitensi non
acquisteranno più sterline sul mercato delle valute, ma spediranno
oro in Gran Bretagna.
Ma questo, nell'ipotesi che abbiamo costruito, avrebbe una
conseguenza sulla politica monetaria interna agli USA: l'oro
comincerebbe a defluire dagli USA verso l'Impero britannico, o meglio

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dai forzieri delle Banche statunitensi a quelli della Banca


d'Inghilterra.
Questa circostanza (che i dollari vengono restituiti al sistema
bancario) comporta che negli USA si registra una diminuzione della
quantità di moneta, sempre che le banche centrali non reintroducano
dollari in circolazione, ad esempio comprando obbligazioni sul
mercato finanziario.
Ma è difficile che questo accada, perché qualora le banche
americane effettuassero l'acquisto di obbligazioni sul mercato
finanziario, presto non avrebbero più una quantità di oro sufficiente a
convertire i dollari e dovrebbero dichiarare la non convertibilità
uscendo dal sistema. (Parlo al plurale (banche e non banca centrale)
perché gli Usa si doteranno di un sistema di banche centrale (Federal
Reserve) solo nel 1913).
E' evidente che, viceversa, l'impero britannico registrerebbe un
incremento della quantità di moneta in circolazione.
Anche la Banca di Inghilterra dovrebbe rispettare le regole del
sistema, per cui, aumentando le sue riserve auree, dovrebbe lasciar
espandere la quantità di moneta in circolazione.
Se vuole rispettare il sistema aureo, deve evitare di vendere
obbligazioni, che sterilizzerebbero una parte della moneta in
circolazione.
La variazione della quantità di moneta in circolazione nelle due
economie, nel sistema aureo, determina il riequilibrio automatico
della bilancia dei pagamenti.
Occorre distinguere come è spiegato il riequilibrio secondo la
teoria quantitativa della moneta, e secondo la teoria keynesiana:

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 secondo la teoria quantitativa della moneta, il livello generale


dei prezzi dipende dalla quantità di moneta in circolazione e,
dunque, un aumento della quantità di moneta in circolazione
determina un aumento del livello generale dei prezzi e
viceversa. Pertanto, dal momento che negli Usa si assiste,
nell'esempio scolastico di cui sopra, ad una diminuzione della
quantità di moneta e viceversa nell'Impero britannico, i prezzi
delle merci statunitensi diminuiranno e quelli delle merci
britanniche aumenteranno. A questo punto sia gli operatori
commerciali britannici sia quelli statunitensi troveranno più
conveniente comprare le merci statunitensi anziché quelle
britanniche. La teoria quantitativa si attende che la domanda
di merci statunitense salga e di conseguenza che le esportazioni
statunitensi aumentino, e che accada il contrario per quelle
britanniche. Le bilance dei pagamenti dei due Paesi
tenderanno così a tornare in equilibrio. Secondo questa teoria il
ritorno all'equilibrio della bilancia dei pagamenti comporta
nuovi prezzi delle merci nei due Paesi, diversi da quelli iniziali:
per la precisione, nell'esempio precedente, l'equilibrio passa per
un abbassamento dei prezzi delle merci statunitensi ed un
aumento dei prezzi delle merci britanniche e da una diversa
distribuzione dell'oro tra i due Paesi. Nella teoria quantitativa
si ritiene che le industrie dei due Paesi continueranno a
lavorare, che ci sarà piena occupazione: l'unica riduzione sarà
quella dei salari dei lavoratori e dei prezzi delle merci prodotte.
 Completamente diverso è il processo di aggiustamento
automatico secondo la teoria keynesiana. L'aumento della
quantità di moneta nell'Impero britannico e la diminuzione

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della quantità di moneta negli USA (per tornare all'esempio


scolastico) non si scaricherebbe sui prezzi delle merci, ma
determinerebbe una diminuzione del tasso d'interesse
nell'Impero britannico e un aumento del tasso d'interesse negli
USA. Nell'Impero britannico, i minori tassi d'interesse
determinano un aumento degli investimenti, che, attraverso il
moltiplicatore degli investimenti, determina un aumento del
reddito nazionale e dell'occupazione. Una diminuzione della
quantità di moneta ipotizzata negli USA, invece
determinerebbe il processo opposto negli USA: rialzo del tasso
d'interesse, diminuzione degli investimenti, diminuzione del
reddito e dell'occupazione. Gli USA importerebbero di meno
anche in questo caso, ma non per via dei prezzi, ma a causa
della diminuzione del reddito.
Come avevamo convenuto, per semplificare allo studente la
comprensione dei meccanismi di aggiustamento automatico, finora
abbiamo fatto l'ipotesi di considerare la sola bilancia commerciale. Il
quadro si articola ulteriormente se si considera anche il conto capitale
e quello finanziario della bilancia dei pagamenti.
Le variazioni del tasso d'interesse dell'esempio precedente
avrebbero anche una conseguenza sul flusso dei capitali diretti e delle
partite finanziarie.
Il Paese dove si registrasse l'aumento del tasso di interesse
registrerebbe un aumento dei investimenti di portafoglio e un
ingresso di capitali stranieri. Ovviamente la realtà è più complessa.
Il primo aspetto che occorre integrare riguarda la spiegazione
data al riequilibrio automatico dalla teoria quantitativa. Nella
spiegazione che è largamente utilizzata nei principali testi

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universitari disponibili, l'aumento dei prezzi nel Paese in cui è affluito


l'oro e la diminuzione dei prezzi in una Nazione in cui fuoriuscisse
l'oro, sono stati descritti come aggiustamenti automatici.
In realtà non è così e dobbiamo a due economisti la spiegazione
della condizione necessaria perché l'abbassamento del prezzo delle
merci comporti un effettivo miglioramento della bilancia commerciale:
gli economisti in questione sono Marshall e Lerner e la legge da loro
individuata ha preso il nome di condizione delle elasticità critiche.
Per comprenderla dobbiamo innanzitutto capire il concetto di
elasticità della domanda.
La definizione di elasticità della domanda rispetto al prezzo fu
elaborata dall'economista Walras e indica la variazione percentuale
della domanda di un dato prodotto o servizio, cioè quantità venduta di
quel prodotto Q, rispetto ad una variazione percentuale del prezzo
dello stesso prodotto:
ep = ΔQ/Q / Δp/p [1]
L' elasticità incrociata misura invece la variazione della
quantità venduta di un determinato prodotto al variare del prezzo di
un altro prodotto:
ep = ΔQ/Q / Δp1/p1 [2]
Gli incrementi possono essere fatti tendere a zero in modo da
considerare variazioni infinitesime ed utilizzare i relativi strumenti di
calcolo infinitesimale.
Si possono verificare tre situazioni diverse:
 Quando una variazione del prezzo di un bene dell' 1% genera
una variazione della quantità domandata superiore all'1% si ha
una domanda elastica rispetto al prezzo.

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 Quando una variazione del prezzo dell'1% genera una


variazione della quantità domandata inferiore all'1% si ha una
domanda rigida rispetto al prezzo.
 Quando una variazione del prezzo dell'1% genera una
variazione della domanda del 1% si ha una domanda a
elasticità unitaria.
Per quanto riguarda il rapporto elasticità-ricavo, dove il ricavo
è dato dal prodotto fra quantità e prezzo, si verificano tre casi:
 se la domanda è rigida rispetto al prezzo, una diminuzione del
prezzo riduce il ricavo totale.
 se la domanda è elastica rispetto al prezzo, una diminuzione
del prezzo aumenta il ricavo totale.
 se la domanda è a elasticità unitaria, una diminuzione del
prezzo lascia invariato il ricavo totale.
Ogni bene differisce dall'altro per quanto riguarda l'elasticità,
ossia la sensibilità alle variazioni del prezzo. L'elasticità della
domanda dipende da numerosi fattori economici.
Marshall e Lerner hanno dimostrato che si ottiene un
riequilibrio della bilancia commerciale internazionale di un Paese in
deficit soltanto quando la somma delle elasticità della domanda di
esportazioni e di importazioni sia maggiore di 1.
Una bilancia commerciale in equilibrio comporta l'equilibrio tra
le importazioni e le esportazioni.
B = X P - E M P* [3]
in cui E è il cambio nominale, il prezzo di una unità di valuta
estera in termini di valuta domestica, X indica le quantità ponderate
dei beni esportati, P il livello medio ponderato dei prezzi delle merci
esportate, M è l'indice delle quantità ponderate dei beni importati, P*

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il livello medio ponderato dei prezzi delle merci importate ai prezzi


stranieri.
Esprimendo tutto in termini di valuta nazionale la [3] diventa:
b = B / P = X – E P*/P M = X – e M [4]
dove e è il tasso di cambio reale, il prezzo dei beni esteri in
termini di beni nazionali.
differenziando rispetto al tasso di cambio reale (e) la [4]
diventa:
db/de = dX/de – e dM / de – M [5]
dividendo tutto per X possiamo scrivere la [5] nel seguente
modo:
db/de 1/X= dX/de 1/X – e/X dM / de – M/X [6]
inserendo la condizione di pareggio di una bilancia commerciale
in pareggio che è X = e M nella [6] otteniamo:
db/de 1/X= dX/de 1/X – e/eM dM / de – M/eM [7]
semplificando:
db/de 1/X= dX/de 1/X – 1/M dM / de – 1/e [8]

moltiplicando entrambi i lati della [8] per e possiamo scrivere:


db/de e/X= dX/de e/X – e/M dM / de – 1 [9]
che è esattamente dove volevamo arrivare. Infatti possiamo
riscrivere la [9] nel seguente modo:
db/de e/X= dX/X e/de – e/ de dM /M – 1 [9]
Se lo studente è attento noterà che dX/X e/de non è altro che
l'elasticità delle esportazioni al cambio reale mentre dM /M e/ de non
è altro che l'elasticità delle importazioni al cambio reale (si confronti
con la [1] e la [2]).

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perché allora db/de e/X > 1 è necessario che:


ἑx + ἑm > 1 [10]
in cui ἑx è un modo abbreviato per scrivere l'elasticità delle
esportazioni e ἑm è un modo abbreviato che uso per scrivere
l'elasticità delle importazioni.
Perché si abbia un miglioramento della bilancia commerciale
quando peggiora la ragione di scambio commerciale di un Paese che
ha diminuito i prezzi delle proprie merci? Il valore delle esportazioni
deve aumentare più del valore delle importazioni. Questo avviene se
l'elasticità delle esportazioni più l'elasticità delle importazioni sono
maggiori di 1.
Gli economisti neoclassici tendono ad affermare che si tratta di
una condizione facile da raggiungere. Quello che si osserva nella
pratica, invece, è che ad un deprezzamento delle ragioni di scambio
del commercio internazionale o al deprezzamento del tasso di cambio
reale fa sempre seguito, nell'immediato, un peggioramento della
bilancia commerciale.
Tale effetto, noto come effetto J, è causato dalla bassa elasticità
di prezzo che la domanda di importazioni e esportazioni ha nel breve
periodo, per via della presenza di rigidità contrattuali e delle
abitudini dei consumatori.
Nel breve periodo si manifesta esclusivamente il peggioramento
della bilancia commerciale in quanto si manifesta solo l'effetto prezzo,
mentre l'effetto quantità tende ad essere nullo: questo è dovuto al
fatto che nella realtà i consumatori e i produttori reagiscono alle
variazioni dei prezzi delle importazione e delle esportazioni in tempi
differenti rispetto alle variazioni dei loro prezzi e dalla circostanza
che le quantità scambiate rimangono per un certo periodo immutate.

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Nel lungo termine l'effetto quantità si manifesta con intensità


crescente e riesce a produrre un incremento delle quantità esportate e
una diminuzione delle importazioni. Questo fa sì che nel lungo
periodo la bilancia commerciale migliori, ma non è detto che giunga al
pareggio.
Alcune importazioni potrebbero infatti mostrarsi
assolutamente rigide, come quelle di greggio o, in generale di energia
(l'Italia per esempio importa energia elettrica di origine nucleare
dalla Francia).
Allo stesso modo potrebbero mostrarsi assolutamente rigide
molte altre domande di beni.

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5. IL DOPPIO USO DELL 'ORO NEL SISTEMA


AUREO, L'AFFERMAZIONE DELLA STERLINA
QUALE MONETA DI RISERVA, LE RAGIONI DEL
CROLLO DEL SISTEMA

La realtà economica internazionale ai tempi del sistema aureo


era ancora più complicata di quanto descritto sopra, perché il sistema
aureo non funzionò esattamente come descritto per due ragioni, che
ora andremo ad esaminare:
 l'uso che si fece dell'oro come riserva di valore;
 la sostituzione dell'oro con la sterlina quale valuta di riserva.
Ragioniamo nei termini proposti dalla teoria quantitativa.
PQ = MV
Questa teoria considera stabile nel breve termine il reddito e
l'occupazione, ma le considera in crescita nel medio e lungo periodo a
causa della crescita della popolazione e del progresso tecnico.
Al crescere del reddito (Q), perché si mantenga stabile il livello
dei prezzi possono accadere due condizioni alternative:
 varia la circolazione monetaria V;
 aumenta M.
Nel sistema aureo, perché aumenti la quantità di moneta in
circolazione è necessario che aumentino le riserve di oro, in modo che
le banche centrali possano espandere la quantità di moneta circolante
in misura adeguata.
Ma la quantità di oro utilizzato come riserva nelle banche
centrali può aumentare a condizione di estrarne di più dalle miniere e
tesaurizzarlo invece di utilizzarlo per produrre oggetti di ornamento.

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Il problema che si è presentato agli operatori economici durante


il sistema aureo è se la quantità di oro cresce in misura tale, e si
distribuisce tra i vari paesi in modo tale, da consentire, in ciascuno di
essi, una crescita della circolazione monetaria che consenta di
sostenere l'aumento della quantità prodotta. Perché questo possa
accadere è necessario che i Paesi produttori di oro registrino un
avanzo della bilancia commerciale, grazie all'esportazione di oro a cui
non corrispondesse l'acquisto di beni.
Nel Gold Standard l'oro è domandato sia come fattore
produttivo, sia come moneta internazionale. Per una nazione che
estrae e produce oro, l'esportazione di oro ha sulla sua economia gli
stessi effetti che ha l'esportazione di qualsiasi altro bene. Le nazioni
cui affluisce l'oro che viene usato a scopo monetario, per incrementare
cioè le riserve, sono in condizione di espandere la circolazione
monetaria.
Ma questo significa che per il sostegno monetario alla crescita
dell'economia mondiale nel suo complesso nel gold standard sono
necessarie le seguenti condizioni:
 che l'esportazione di oro dalle Nazioni produttrici non fosse
compensata dall'importazione di altri prodotti.
 che nel sistema economico internazionale le esportazioni
superassero nel complesso le importazioni e che l'eccesso delle
esportazioni risultasse dall'acquisto di oro da parte delle
autorità monetarie delle varie nazioni a fini monetari.
Ben presto l'oro venne sostituito di fatto dalla sterlina, quale
valuta di riserva, tanto che verso la fine dell'ottocento le riserve di
tutte le Banche centrali aderenti al sistema sono di fatto
rappresentate oltre che dell'oro, dalla divisa dell'Impero britannico.

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Salvatore Della Corte “La bilancia dei pagamenti e le relazioni
economiche internazionali”

Il motivo è semplice: dal momento che la Banca d'Inghilterra


assicura la convertibilità dell'oro, era meglio per una Banca centrale
aderente al sistema detenere una parte delle proprie riserve in titoli
in valuta dell'Impero inglese, che fruttavano interesse, piuttosto che
detenere tutte le riserve in oro, che non fruttava interesse. La sterlina
aveva così assunto il ruolo la moneta di riserva.
Una valuta di riserva, chiamata dagli economisti anche valuta
dell'ancoraggio, è una valuta che, appunto come la sterlina nel
sistema aureo, è detenuta da molte Banche centrali e internazionali
come componente importante e predominante delle loro riserve di
divise estere ed è la valuta di valutazione internazionale per le
transazioni internazionali sul mercato globale.
Perché fosse assicurata la stabilità al sistema di pagamenti
internazionali, non furono più i soli paesi produttori di oro ad avere
nel loro complesso un saldo attivo della bilancia dei pagamenti
corrispondente alla quantità di oro esportata, ma accanto ad essi era
necessario che anche l'Impero britannico avesse un attivo della
bilancia dei pagamenti.
Fu proprio l'Impero britannico ad assicurare la liquidità
necessaria al sistema monetario internazionale cosiddetto sistema
aureo, almeno dal 1880 in poi: gli investimenti diretti all'estero delle
società dell'impero inglese crebbero e profitti e interessi affluirono in
Inghilterra.
Si manifestarono storicamente per la prima volta i due
vantaggi di cui beneficiano sempre le monete di riserva:
 La nazione che emette la moneta di riserva può comprare i
prodotti internazionali mediante il signoraggio (battendo
moneta);

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economiche internazionali”

 i titoli emessi nella divisa pagano un tasso di interesse inferiore


rispetto ai titoli emessi in altre divise, poiché si registra sempre
una domanda e un mercato più grande per quella valuta.
Possiamo inoltre affermare che quando la valuta di un Paese
assume il ruolo di valuta di riserva, gli altri paesi restano a lungo
indebitati verso il Paese la cui moneta è moneta di riserva.
Il sistema aureo però crollò.
Alcuni economisti omettono di spiegare le ragioni del crollo del
sistema aureo o lo spiegano essenzialmente a causa della prima
guerra mondiale, che avrebbe costretto i paesi intervenuti nel
controllo a spese economiche che avrebbero reso inconvertibile le
valute con l'oro.
In realtà uno studio storico accorto ci permette di affermare che
il gold standard crollò per due ragioni:
 l'abbandono graduale della convertibilità delle monete da parte
dei Paesi aderenti per evitare le deflazioni determinate dalla
diminuzione delle riserve auree;
 l'emergere degli Stati Uniti quale potenza economica mondiale,
in sostituzione dell'Impero britannico.
Analizziamo le ragioni per cui via via la maggior parte dei paesi
abbandonarono la convertibilità dell'oro fino all'abbandono della
convertibilità anche da parte della Gran Bretagna nel 1931.
Da un lato i paesi con un deficit della bilancia dei pagamenti
cominciarono a non rispettare le regole del gold standard. Tra le
regole che le autorità monetarie delle Nazioni aderenti al Gold
Standard si impegnavano a rispettare c'era quella di accettare una
deflazione sia nel caso fuoriuscisse oro dal Paese, sia se l'oro non

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affluiva in maniera sufficiente per sostenere una crescita reale dal


punto di vista monetario.
Un Paese, infatti, che aveva la bilancia dei pagamenti in deficit,
registrava una diminuzione delle sue riserve auree. Per rimanere nel
sistema monetario internazionale, quel Paese si era impegnato
secondo le regole internazionali, al fine di poter convertire la propria
moneta in oro secondo la parità definita, a diminuire la quantità di
moneta in circolazione in proporzione alla diminuzione di oro
registrata presso le proprie riserve.
La diminuzione della moneta in circolazione non faceva
diminuire i prezzi, come previsto dalla teoria quantitativa, ma, più
spesso, il livello dei redditi e dell'occupazione.
In altri termini si determinava una deflazione interna per
assicurare l'equilibrio della bilancia dei pagamenti.
La deflazione interna determinava disoccupazione, con
conseguenze non accettabili nell'ambito della ricerca del consenso,
necessario per mantenere il potere.
I Paesi deficitari si posero come prioritario l'obiettivo della
piena occupazione e, ben prima che Keynes scrivesse la sua Teoria
generale, impiegarono la politica monetaria per espandere la
domanda. Si delineò in questo modo un conflitto tra il perseguimento
dell'obiettivo della piena occupazione e quello della bilancia dei
pagamenti.
Alcuni Paesi, dunque, a fronte di una bilancia dei pagamenti in
deficit e della corrispondente diminuzione delle riserve auree, e
evitarono di diminuire la quantità di moneta, violando così le regole
del sistema aureo a cui aderivano. A fronte della diminuzione delle
monete in circolazione portate alla Banca Centrale per richiedere

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l'oro, la Banca centrale reagiva acquistando con quelle monete titoli


del debito. Questo avveniva, come abbiamo detto, perché le autorità
monetarie intendevano evitare di creare disoccupazione, ma, in questo
modo, queste Nazioni non furono più in grado, alla lunga, di
convertire la moneta in oro (per non rimanere senza riserve auree
presso la banca centrale) e dovettero uscire dal sistema.
Era così accaduto che diverse volte alcuni Stati avevano
sospeso la convertibilità della propria moneta in oro, perché non
avevano ridotto la circolazione monetaria quando perdevano oro, per
evitare di avere una diminuzione del livello di occupazione.
Inoltre le condizioni dell'economia mondiale erano
completamente mutate rispetto agli anni in cui era emerso il ruolo
predominante dell'Impero britannico. Una buona quantità dell'oro era
affluito agli Stati Uniti, che doveva il suo sviluppo alla capacità di
fornire i beni necessari allo sforzo bellico dell'Impero britannico contro
la Germania e l'Austria e che aveva potuto sviluppare un grande
mercato interno.
Gli USA, pur vedendo accrescersi le proprie riserve valutarie
non attuò la politica monetaria espansiva prevista dalle regole
internazionali e provvide a sterilizzare l'oro: man mano che
aumentavano le sue riserve di oro, non aumentò la quantità di
moneta in circolazione con operazioni sul mercato aperto di vendita di
titoli pubblici.
Quando provvide ad aumentare la quantità di moneta in
circolazione, questa venne assorbita dal mercato interno. Il rapporto
con l'Europa fu di carattere creditizio. Quando intervenne la caduta di
Wall Street, le banche americane ritirarono i loro crediti presso le
banche europee e questo riuscì a gettare le potenze europee in

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aggressive politiche mercantiliste che le portarono ai regimi totalitari


e alla guerra.
Gli USA e il dollaro, in altre parole, non si sostituirono
all'Impero britannico come valuta di riserva e non furono in grado di
contribuire come mercato di sbocco alla produzione dei beni che
avevano stimolato con i loro crediti: il crollo fu inevitabile.
Mentre i Paesi deficitari avevano abbandonato il sistema prima
della guerra mondiale, l'Impero britannico abbonderà il sistema il 21
settembre 1931 e gli USA nel 1933.

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L’EQUILIBRIO DEL TASSO
DI CAMBIO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “L’equilibrio del tasso di cambio”

Indice

1. IL TASSO DI CAMBIO DI EQUILIBRIO ---------------------------------------------------- 3


2. TASSO DI CAMBIO REALE E BILANCIA DEI PAGAMENTI ------------------------- 6

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Giovanni Cannata “L’equilibrio del tasso di cambio”

1. IL TASSO DI CAMBIO DI EQUILIBRIO

Il tasso di cambio nel regime di cambi flessibili è il prezzo di


equilibrio del mercato dei cambi. E’ la risultante dell’incontro tra
domanda e offerta di valuta.
Il tasso di cambio di equilibrio è il tasso che corrisponde
all’equilibrio macroeconomico. L’equilibrio macroeconomico dipende a
sua volta da differenti variabili quali il tasso di interesse, la
produttività, i prezzi. I tassi di cambio possono assumere valori
decisivi in relazione alle prospettive temporali considerate.
Il tasso di cambio varia secondo la prospettiva temporale ed in
relazione a shock improvvisi. Nel lungo periodo e tra paesi integrati il
prezzo dei beni non differisce (legge del prezzo unico). I differenziali
dipendono da costi di trasporto, diritti doganali, tasse importazione o
per imperfezioni del mercato; informazione imperfetta dei
consumatori esistenza di condizioni monopolistiche. Se si registra una
competitività di prezzo il paese migliora la bilancia commerciale e in
Gold Standard accumula più oro. L’accumulo genera domanda interna
che a sua volta determina aumento dei prezzi. Analogamente in
regime di cambi fissi con l’accumulo di riserve valutarie le variazioni
dei prezzi tra paesi sono un meccanismo di aggiustamento
macroeconomico rilevante.
Questa uguaglianza del livello dei prezzi è chiamata parità del
potere d’acquisto assoluta, l’eguaglianza del livello dei prezzi dei beni
espressi in una stessa moneta in paesi aperti agli scambi reciproci. In
altri termini le parità di potere d’acquisto assolute sono prezzi relativi
che esprimono un rapporto tra prezzi degli stessi beni o servizi in

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Giovanni Cannata “L’equilibrio del tasso di cambio”

paesi diversi nelle valute nazionali. La parità del potere di acquisto


relativa tiene conto delle imperfezioni del mercato.
Il tasso di cambio di parità di potere d’acquisto assoluta è il
livello di tasso di cambio nominale che consente di uguagliare i prezzi
tra paesi, il tasso di cambio di parità di potere d’acquisto assoluta è
un buon riferimento per il tasso di cambio.
La legge del prezzo unico non si applica a settori che producono
beni e servizi non commerciabili cioè quei beni e servizi che non sono
esposti alla concorrenza internazionale quali il commercio dettaglio,
ristorazione, artigianato, servizi pubblici in quanto non vi è motivo di
eguaglianza tra Paesi.
Le parità di prezzi assolute sono utilizzate anche per
confrontare il valore di una stessa valuta in diverse realtà di una
stessa area geografica, come ad esempio per calcolare differenziabili
di livelli di prezzo tra i comuni di uno stesso paese
Differenziali di produttività e differenziali di prezzo in paesi a
differente livello di sviluppo. L’effetto Balassa – Samuelson (dal nome
degli autori che lo hanno teorizzato), esamina il rapporto che esiste
tra l’incremento della produttività nella produzione di beni e servizi
commerciabili con l’apprezzamento reale del cambio. I beni non
commerciabili, come ad esempio il servizio reso alle persone, sono
prodotti nello stesso modo ovunque.
La produttività ed il suo tasso di crescita, secondo questi effetti,
variano di più nel settore dei beni commerciali, che sono soggetti per
definizione alla concorrenza internazionale, che non in quello dei beni
non commerciabili.
Il livello generale dei prezzi di ciascun paese dipende dai prezzi
sia dei beni commerciali che di quelli non commerciabili e i salari si

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uguagliano nei due settori tenuto conto della variabilità del lavoro
all’interno dello stesso stato. Tenuto conto del fatto che i prezzi
dipendono positivamente dal rapporto esistente tra salari e
produttività e quelli dei beni commerciabili sono uguali in relazione al
commercio internazionale, i salari relativi rispecchieranno il
vantaggio dei produttività nel settore dei beni commerciali e il prezzo
dei beni non commerciabili sarà maggiore laddove sia presente
maggiore produttività.
La produttività dei beni commerciabili è maggiore nei paesi
sviluppati. Nei paesi in via di sviluppo per identicità del prezzo i
salari debbono essere più bassi, i salari bassi si ripercuotono sui
settori non commerciabili con mobilità dei lavoratori. Si innesca un
circuito che alla fine si ripercuote sul livello dei prezzi nel paese meno
sviluppato.

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2. TASSO DI CAMBIO REALE E BILANCIA DEI


PAGAMENTI

Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti incidono sul tasso di


cambio reale e pertanto è utile tener conto della competitività degli
esportatori nel processo economico.
Il tasso di cambio incide sull’equilibrio macroeconomico
attraverso domanda e offerta aggregata.
L’effetto sulla domanda aggregata dipende dalle variazioni del
commercio con l’estero e dalle variazioni di potere d’acquisto dei
residenti. La stessa è costituita dalla somma della spesa per consumi,
da quella per investimenti, dalla spesa pubblica e dalla spesa dei non
residenti.

Y = C + I + G + ( X - M/Q ) in cui:

( X - M/Q ) è la bilancia commerciale, nella quale X rappresenta


le esportazioni, M il valore reale delle importazioni e Q il tasso reale
di cambio
M/Q valore delle importazioni in termini di beni nazionali
prodotti.
La diminuzione del tasso di cambio reale (e cioè un
deprezzamento), sta a significare che occorrono meno prodotti interni
per acquistare prodotti esteri e quindi si ha un apprezzamento in
termini reali. Gli effetti sulla bilancia commerciale sono un aumento
del volume delle esportazioni, una riduzione del volume delle
importazioni e un incremento del valore relativo delle unità
importate.

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Giovanni Cannata “L’equilibrio del tasso di cambio”

La teoria di Marshall – Lerner è la condizione secondo la quale


affinché una svalutazione della moneta nazionale determini un
miglioramento della bilancia dei pagamenti e del tasso di copertura
degli scambi, è necessario che export e import siano sensibili al tasso
di cambio.
Richiamando il concetto di elasticità, il deprezzamento del tasso
di cambio migliora la bilancia commerciale se la somma delle
elasticità della domanda di importazioni ed esportazioni rispetto al
prezzo è maggiore dell’unità. Nel caso di prezzo fissato nella moneta
del produttore, il deprezzamento del tasso di cambio determina un
incremento del valore delle importazioni e una diminuzione del prezzo
in valuta estera delle importazioni del paese estero.
La svalutazione determina un aumento unitario delle
importazioni e una diminuzione delle esportazioni comportando uno
stallo del volume dei cambi. Questo comporta un miglioramento della
competitività dei prodotti sui mercati nazionali e mercati esteri.
Il deprezzamento della moneta nazionale determina aumento
dei prezzi, l’effetto sulla produzione è ambiguo
L’aggiustamento tra prezzi e quantità dipende da:
 Reattività delle esportazioni e importazioni alla
competitività
 Flessibilità dell’offerta in relazione alla reattività
dell’offerta.
 Inflazione importata dipende dall’ampiezza dello
spostamento della curva di offerta aggregata di breve
periodo.
Il tasso di cambio di equilibrio fondamentale è quello per cui un
paese può mantenere equilibrio interno ed equilibrio esterno e cioè

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Giovanni Cannata “L’equilibrio del tasso di cambio”

quel tasso che consente, nel medio periodo, ad un’economia, di


raggiungere un equilibrio esterno, tenendo conto del fatto che la
produzione interna ha raggiunto il suo livello potenziale di equilibrio
interno.
Il tasso di cambio reale naturale Natrex è quello che si
determina tenendo conto di un obiettivo di conto corrente sulla base
delle sue determinanti naturali e cioè produttività, consumi pubblici e
consumi privati. Il NATREX viene definito come il tasso di cambio che
prevarrebbe se i fattori ciclici e speculativi fossero rimossi
L’approccio intertemporale alla bilancia dei pagamenti fa
riferimento alla bilancia dei pagamenti come risultato delle decisioni
intertemporali di risparmio e investimento e tiene conto
dell’arbitraggio dei consumatori tra i diversi periodi e i diversi beni.
L’approccio intertemporale considera il debito delle nazioni come
quello degli agenti privati. Il consumo aggregato dipende dal reddito,
il che implica di tener conto delle aspettative come nel caso della
crescita della produttività. Questo approccio viene utilizzato come
punto di riferimento per stabilire se la moneta è sopravalutata o
sottovalutata.
Consideriamo da ultimo la teoria della scelta di portafoglio
tiene conto del ruolo delle attività finanziarie nella determinazione
del tasso di cambio. In altri termini il cambio reagisce alle dinamiche
dei tassi d’interesse che si registrano trai differenti paesi secondo le
aspettative riposte sugli andamenti futuri.
Il tasso di cambio dipende dai differenziali di rendimenti attesi
oltre che dall’incremento degli squilibri accumulati.
In presenza di un aumento dei tassi di interesse nazionali, di
un calo di interesse estero, di una crescita della posizione estera

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netta, un calo delle riserve valutarie si determina un apprezzamento


della moneta nazionale.

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LA SCELTA DEL REGIME
VALUTARIO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La scelta del regime valutario”

Indice

1. LA SCELTA DEL REGIME VALUTARIO --------------------------------------------------- 3


2. LE AREE MONETARIE OTTIMALI ---------------------------------------------------------- 5
3. TIPOLOGIA DI SHOCK E CONDIVISIONE DEI RISCHI ------------------------------ 7
4. LE CRISI VALUTARIE --------------------------------------------------------------------------- 9

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1. LA SCELTA DEL REGIME VALUTARIO

Il regime valutario, come noto, è l’insieme di norme che


regolamentano in un paese tutte le operazioni valutarie e i cambi con
l’estero garantendo una condizione di equilibrio tra domanda e
offerta. Si rammenti altresì che sono possibili due categorie ben nette,
quelle a tasso perfettamente fisso, quelle a tasso variabile e, tra
questi due estremi, una pluralità di situazioni intermedie.
I tassi di cambio sono instabili e possono dar luogo a
differenziali significativi e durevoli in regime di cambi flessibili.
L’effetto conseguente è impatto sui prezzi e sul PIL. Nel caso di
adozione di tassi di cambio fissi possono determinarsi squilibri ancora
più significativi per effetto della mancata possibilità di aggiustamenti
o con aggiustamenti particolarmente onerosi; i regimi a cambio fisso
possono determinare serie crisi valutarie.
Ciascuno dei regimi valutari scelti ha elementi positivi ed
elementi critici.
Nel caso di cambi fissi tra gli elementi positivi, accanto ad una
minore instabilità dei prezzi relativi che favorisce una distribuzione
attuale delle risorse, si registra una maggiore efficacia della politica
fiscale ed una più contenuta inflazione. Di contro, tra gli elementi
critici, in aggiunta all’indisponibilità di opportuni strumenti macro-
economici di aggiustamento, vanno segnalate le possibili crisi di
cambio non facilmente governabili.
Nel caso di cambi flessibili, per definizione si dispone di
strumenti che consentono un efficace aggiustamento del quadro
macroeconomico, una indipendenza della politica monetaria interna
da quella internazionale, una più efficace politica monetaria. Per

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converso cambi flessibili significano maggiori instabilità dei prezzi


relativi, ma anche possibili conflitti dei tassi di cambio in presenza di
shock asimmetrici tra paesi.
Le aree monetarie attuali sono costituite da insiemi di paesi tra
i quali si verificano condizioni utili per la progettazione e lo sviluppo
di processi di unificazione monetaria.

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2. LE AREE MONETARIE OTTIMALI

Vi sono infatti una pluralità di motivazioni per la scelta di un


modello valutario in cui ciascun modello ha costi e benefici.
La teoria delle aree monetarie ottimali si fonda sul fatto che la
moneta è tanto più utile quante più persone la condividono. La teoria
quindi studia le convenienze di condivisione di una moneta o di
adozione di tassi di cambio fissi.
La teoria valuta i costi e i benefici associabili alla costituzione
delle aree ottimali alla luce di elementi comuni e condivisi che i Paesi
chiamati a far parte dell’area debbono soddisfare per conseguire un
successo.
L’analisi aiuta a comprendere meglio il grado di integrazione
tra le economie e i livelli di asimmetria degli shock e si fonda su il
grado di integrazione delle economie che influisce sui benefici e sul
grado di asimmetria degli shock con impatto sui costi.
In sintesi gli Stati candidati debbono avere economie con
caratteristiche tali da minimizzare eventuali shock asimmetrici.
I criteri alla base del successo di un’area valutaria attuale sono
quelli dell’apertura significativa al commercio internazionale ed alla
diversificazione delle esportazioni, un’elevata mobilità del fattore
lavoro ed una flessibilità delle remunerazioni, una possibilità di
trasferimenti fiscali all’interno dell’area.
Gli strumenti dell’aggiustamento avvengono:
 Attraverso le quantità reali del lavoro
 Attraverso il movimento dei capitali
 Attraverso il bilancio federale degli stati aggregati

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I costi legati alla rinuncia del tasso di cambio come strumento


di aggiustamento sono bassi se salari e prezzi sono sufficientemente
flessibili reagendo adeguatamente a squilibri del mercato dei beni, dei
servizi o del lavoro.
In caso di rigidità di prezzi e salari l’aggiustamento tra le
economie ha luogo attraverso variazioni dell’occupazione o mobilità
del lavoro tra ambiti territoriali dell’area ottimale con immigrazioni
di lavoratori. La presenza di un portafoglio diversificato e la mobilità
dei capitali consentono una migliore risposta alle condizioni di crisi.
Una ulteriore possibilità di aggiustamento si può avere con
l’utilizzo delle risorse del bilancio dello stato federale al quale fa
riferimento l’area . L’utilizzo del bilancio federale fa sì che le regioni
con effetti positivi dello shock possono contribuire di più delle regioni
con effetti negativi che godono di trasferimenti.
In sintesi sul punto la valutazione dei costi e delle opportunità
sulle quali si può fondare un’area valutaria attuale, è fondata sulle
potenzialità di integrazione delle economie delle quali far discendere i
vantaggi da massimizzare e sul grado di asimmetria degli shock che
costituiscono la grandezza da minimizzare.

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3. TIPOLOGIA DI SHOCK E CONDIVISIONE DEI


RISCHI

Secondo alcuni autori la scelta ottimale di politica monetaria


tra shock di moneta o livello del tasso d’interesse, dipende
dall’incertezza che riguarda il mercato dei beni o quello finanziario
Gli shock nominali concernono l’offerta di moneta e la velocità
di circolazione invece gli shock reali riguardano la domanda
aggregata.
Nel caso di economie percosse da shock nominali se il settore
privato detiene molta liquidità in valuta estera o se il sistema
finanziario è instabile il tasso di cambio fisso consente una maggiore
stabilità dei redditi.
Se gli shock sono reali, come può accadere nel caso di paesi con
forte specializzazione e conseguente dipendenza da alcuni cicli
produttivi, il regime di cambi flessibili è più adeguato. La scelta tra
cambi fissi e cambi flessibili nelle economie emergenti incide in
positivo o in negativo sul sentiero di sviluppo delle stesse. In molti
casi le economie emergenti sono partite dall’adozione di cambi fissi
che ha stabilizzato l’economia per arrivare a cambi flessibili.
L’integrazione finanziaria nell’ambito dell’area valutaria,
consente di contare su ripercussioni meno incisive nelle aree stesse
per effetto della diversificazione di portafogli nel caso di shock.
Si deve sottolineare inoltre che in presenza di shock negativo
asimmetrico della produttività vi è una minore produzione mitigata
da percezione di rendimenti di capitale all’estero.
La condivisione di rischi dipende anche dalla politica fiscale che
consente una redistribuzione tra regioni e stati dell’area valutaria.

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L’integrazione finanziaria e bilancio federale sono alla base della


formazione di una unione monetaria da intendere come regime di
cambio contraddistinto da nessun costo di transazione tra le valute,
bassa inflazione, coordinamento delle politiche monetarie e minore
instabilità dei prezzi relativi nel caso in cui si registrino shock esterni
all’area.

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4. LE CRISI VALUTARIE

Le crisi valutarie si originano da un calo di fiducia nella valuta


che sollecita gli investitori a vendere i loro investimenti in quella
valuta e vengono tutelati in prima fase dall’intervento della Banca
centrale che cerca di tutelarli attraverso la manovra del tasso
d’interesse o la vendita di riserve. Normalmente una crisi valutaria si
accompagna a un’inversione del flusso di capitali
I modelli di spiegazione delle crisi valutarie sono classificati
secondo il ruolo che viene giocato dagli investitori internazionali o
secondo le cause della crisi.
I modelli di crisi valutaria di prima generazione considerano la
crisi il risultato di una reazione razionale degli agenti economici
rispetto a un tasso di interesse inadeguato. La crisi è determinata da
incoerenza tra situazione e strumenti della politica economica e
regime valutario vigente con richiamo al panico bancario.
In caso di cambio fisso gli agenti economici fanno eccesso di
domanda di valuta per assicurarsi la conversione e si ha un’attenta
alle riserve.
Un limite in questi modelli può essere cercato nel considerare
un comportamento meccanico da parte delle autorità, nel fatto che le
stesse non sono in grado di utilizzare altri strumenti che il tasso
d’interesse o il ricorso ai mercati internazionali dei capitali. Inoltre gli
investitori reagiscono ai cambiamenti dell’ambiente economico ma il
loro comportamento non cambia l’ambiente stesso. Essi cioè non
incidono nel timing della crisi.

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Giovanni Cannata “La scelta del regime valutario”

I modelli di seconda generazione sono quelli in cui le


aspettative degli investitori determinano il verificarsi o meno di una
crisi.
I modelli di crisi di seconda generazione sono il risultato di un
mix di economia debole e aspettative sfavorevoli. Il mercato anticipa
una crisi e ciò può contribuire a scatenarla. Invece se gli agenti
anticipano l’inflazione chiedono salari più alti mentre se la produzione
è vincolata dall’offerta si registrerà un aumento della disoccupazione
tranne che il governo non aumenti la svalutazione per sostenere le
imprese.
I modelli di crisi di terza generazione si fondano sulla
compresenza di due tipi di crisi (crisi valutarie e crisi bancarie) in
quanto le crisi bancarie possono essere le determinanti di crisi
valutarie.
I modelli di terza generazione spiegano gli effetti di contagio a
livello regionale
Gli economisti prevedono le crisi valutarie sulla base di
approcci probabilistici e approcci econometrici ma su questi metodi e
sulla loro efficacia si rinvia a studi più approfonditi.

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IL SISTEMA MONETARIO
INTERNAZIONALE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Il sistema monetario internazionale”

Indice

1. I FONDAMENTALI -------------------------------------------------------------------------------- 3
2. L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA -------------------------------------------------------------- 4
3. IL GOLD STANDARD----------------------------------------------------------------------------- 6
4. IL PERIODO TRA LE DUE GUERRE -------------------------------------------------------- 7
5. GLI ACCORDI DI BRETTON WOODS------------------------------------------------------- 8
6. TRA LA CRISI DEI CAMBI FISSI E LO SME --------------------------------------------- 10

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario internazionale”

1. I FONDAMENTALI

Un sistema monetario è costituito da un insieme di regole e di


norme sancite da trattati internazionali ma sostenute da convenzioni,
usi e procedure che vengono praticamente accettati dai paesi
sottoscrittori del trattato.
Costituiscono oggetto del sistema monetario i criteri di
regolamento dei pagamenti internazionali, il livello di stabilità dei
tassi di cambio tra le differenti valute, i sistemi di aiuto finanziario
tra paesi in crisi e le loro banche centrali in caso di difficoltà della
bilancia dei pagamenti.
Occorre ricordare i tre principali obiettivi di politica economica
assegnati alle politiche monetarie:
 Mantenere tassi di cambio fissi per ridurre i rischi di
cambio ed incentivare i mercati internazionali
 Garantire l’autonomia monetaria da parte dei governi
per governare le fluttuazioni del ciclo economico
 Garantire la libera mobilità dei capitali tenendo conto
del fatto che è possibile realizzare investimenti
maggiori del risparmio disponibile
Tutti gli obiettivi politici sono difficilmente conseguibili
simultaneamente.

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario internazionale”

2. L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA

Nell’evoluzione del sistema monetario internazionale si possono


distinguere periodi come:
 Il Gold Standard e cioè quello in cui ha avuto luogo la
circolazione di monete d’oro e di biglietti di banca
pienamente convertibili in oro, accompagnata dal
diritto di fondere e coniare oro con libertà di
importazione ed esportazione. Il gold standard è stato
in vigore dal 1870 fino alla Prima guerra mondiale e ha
garantito la stabilità delle monete.
 Il periodo tra le due guerre mondiali contraddistinto
dalle difficoltà di garantire parità tra monete ed oro a
causa dell’eccessiva quantità di spesa connessa alla
guerra ed alla scarsità di oro in circolazione.
 Il periodo del cambio aureo dopo la secondo guerra
mondiale con i vantaggi del gold standard e cioè cambi
fissi ma con le banche centrali che potevano detenere
sia oro sia riserve di valute convertibili in oro.
 Il periodo antecedente l’avvento dell’euro dopo la
sospensione della convertibilità del dollaro, il definitivo
abbandono degli accordi di Bretton Woods e con la
fluttuazione delle principali monete.
 La stagione dell’euro che prende le mosse dal 1979 con
la creazione del sistema monetario europeo.
 La stagione di crisi più recente contraddistinta da un
susseguirsi di crisi quali la crisi europea del 1992, la

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario internazionale”

crisi messicana del 1995, quella del sud est asiatico del
1997-98 ed infine la crisi argentina.

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario internazionale”

3. IL GOLD STANDARD

Il Gold standard in vigore fino alla prima guerra mondiale era


un sistema monetario a base aurea nel quale il valore delle differenti
monete era determinato dalla quantità di riserve auree disponibili
dallo stato sovrano. La moneta nazionale era convertibile in oro, le
banche centrali dichiaravano la parità fissa rispetto alla quale
cambiare monete in oro ed esisteva la libera circolazione di capitali e
di oro tra i paesi.
Il legame tra sistema monetario e sistema del commercio
internazionale può essere sintetizzato come un eventuale deficit della
bilancia dei pagamenti con minori riserve auree, minore circolazione
della moneta, minore domanda di beni, minori importazioni con
diminuzione dei prezzi
La maggiore competitività delle merci interne comportava un
aumento delle esportazioni, un controllo del deficit, una maggiore
disponibilità di riserve auree, una maggiore circolazione di moneta e
una maggiore domanda. In quel periodo assunse un ruolo significativo
il Regno Unito.
La lunga vigenza nel mondo del sistema monetario
internazionale è stata determinata sia dall’impegno degli stati a
riportare sollecitamente in pareggio le eventuali situazioni di crisi,
dalla diffusa fiducia nella persistenza nel tempo di tassi fissi
e da una sostanziale condizione di simmetria tra i paesi nel
senso che nessuno ha avuto influenza maggiore degli altri.
A queste condizioni il Gold Standard ha assicurato stabilità nel
tempo in quanto l’inflazione e la deflazione comuni a tutti i paesi ha
portato ad obiettivi di politica interna non influenti.

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4. IL PERIODO TRA LE DUE GUERRE

Durante la prima guerra mondiale il Gold standard viene


sospeso in quanto i governi finanziavano la spesa pubblica con il
debito pubblico e la banca centrale provvedeva all’immissione di
moneta nel sistema economico.
In molti paesi i livelli elevati di inflazione e l’espansione
dell’interscambio internazionale dopo il conflitto finisce per influire
sui tassi di cambio.
Nella ricerca di nuovi equilibri gli Stati Uniti tornano al Gold
standard con riferimento agli scambi tra le banche centrali.
Ma si verifica un comportamento non omogeneo dei Paesi, il
Regno Unito e nei Paesi scandinavi ritornano al Gold Standard e
applicano la parità prebellica nel tentativo di ricostruire la fiducia nel
sistema monetario a causa della presenza di una elevata
disoccupazione.
La Francia applicò una parità ad un livello percentuale molto
inferiore a quello prebellico e ciò implicò una sopravvalutazione delle
monete di Regno Unito e nei Paesi scandinavi. Il dollaro si afferma
come valuta di riferimento riducendo il ruolo della sterlina

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5. GLI ACCORDI DI BRETTON WOODS

Nel luglio del 1944 i rappresentanti di 44 Paesi sottoscrivono a


Bretton Woods lo statuto del Fondo Monetario Internazionale ( FMI).
L’ipotesi di fondo alla luce dell’esperienza non fruttuosa dei
cambi flessibili ritenuti causa dell’instabilità e delle difficoltà del
commercio internazionale era la creazione di un sistema
caratterizzato da tassi di cambio fissi e dalla possibilità di impiegare
la politica monetaria senza determinare restrizioni sul commercio
internazionale.
Successivamente il Gold Standard si trasforma in Gold
Exchange Standard fondato sull’ipotesi del prezzo fisso dell’oro in
dollari, della costituzione di riserve in oro o attività in dollari, del
diritto di vendere dollari in cambio di oro, un valore fisso di tutte le
valute rispetto al dollaro nel breve periodo, una variazione eventuale
di tale valore nel lungo periodo, una responsabilità di ciascun paese
nel mantenere il tasso di cambio ed una responsabilità degli Stati
Uniti di mantenere stabile il prezzo del dollaro in oro.
Il fondo di dotazione del FMI era costituito da oro e valute dei
paesi membri da utilizzare a vantaggio dei paesi con disavanzi nelle
partite correnti e che non potevano attuare politiche restrittive senza
aumento della disoccupazione.
I paesi con disequilibrio strutturale della bilancia dei
pagamenti potevano svalutare la moneta rispetto al dollaro.
Quindi il sistema di Bretton Woods diede luogo alla
costituzione del FMI e della Banca Mondiale ed utilizzava lo
strumento dei Diritti Speciali di Prelievo.

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario internazionale”

Le implicazioni politiche di Bretton Woods furono il


riconoscimento del ruolo leader degli Stati Uniti come banchieri del
mondo.
Fino al 1971 il sistema si resse ma con difficoltà dovute al fatto
che la crescita della massa monetaria in dollari non poteva soddisfare
contemporaneamente le esigenze dell’economia USA e quelle esterne
del commercio.
Tra il 1971 e il 1973 anche in relazione allo sforzo significativo
per la guerra del Vietnam, gli Stati Uniti riducevano la convertibilità
del dollaro in oro determinando una crisi di fiducia nel dollaro.

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario internazionale”

6. TRA LA CRISI DEI CAMBI FISSI E LO SME

Dal 15 agosto 1971 il cambio del dollaro fluttua liberamente ma


successivamente alla rescissione della convertibilità del dollaro in oro
dichiarata da Nixon, il dollaro comunque riesce a mantenere il ruolo
di valuta maggiormente accettata a livello mondiale nel sistema dei
pagamenti ed utilizzata dal governo per l’intervento nel mercato dei
cambi.
L’emergenza di nuove monete come marco tedesco, yen
giapponese, franco svizzero e quindi euro e la crisi della convertibilità
ha ceduto il passo a oscillanti politiche di cooperazione nelle politiche
economiche da parte dei governi, a tentativi di gestione comune delle
crisi, a cambi instabili, a disavanzi nelle partite correnti della bilancia
dei pagamenti.
Può essere utile ricordare le tappe della instabilità dallo shock
petrolifero del 1973 ed il successivo alla fine anni’70 dalla crescita
diffusa della spesa pubblica, alla crisi del debito dei Paesi in via di
sviluppo ma anche di alcune economie sviluppate.
Il FMI è intervenuto nel tempo con programmi di assistenza a
favore di paesi in condizioni di difficoltà per shock nell’economia con
l’introduzione del concetto di condizionalità rispetto a obiettivi
temporali posti nel programma di assistenza (controllo del credito,
rientro dal disavanzo pubblico, ecc) ed una flessibilità dei cambi
considerata, durante il monetarismo, come uno strumento utile per gli
obiettivi di equilibrio interno ed estero e si è rilevata uno strumento
critico per gli scambi internazionali.

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IL SISTEMA MONETARIO
EUROPEO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Il sistema monetario europeo”

Indice

1. IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE ECONOMICA -------------------------------------- 3


2. L’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA ------------------------------------------------- 4
3. L’EURO ----------------------------------------------------------------------------------------------- 6

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario europeo”

1. IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE ECONOMICA

Il processo di integrazione economica, che costituisce una fase


avanzata del processo di integrazione politica si sviluppa in molte fasi
che ne scandiscono l’evoluzione: attuazione di una zona di scambio
preferenziale (con tariffe doganali ridotte), zona di libero scambio
(senza tariffe interne su talune merci o su tutte le merci scambiate),
unione doganale (tariffe doganali esterne identiche nei confronti dei
paesi terzi e politica commerciale comune), mercato unico
(regolamentazione comune dei prodotti e libera circolazione di beni,
capitali, lavoro e servizi),unione economica e monetaria (mercato
unico con una moneta e una politica monetaria comuni) e completa
integrazione economica (tutti gli elementi suddetti più
l’armonizzazione delle politiche di bilancio e delle altre politiche
economiche).
Al momento dell’istituzione della Comunità Economica Europea
da cui sarebbe derivata l’Unione Europea, l’obiettivo era quello di
istituire un’unione doganale e un mercato comune per l’agricoltura.
Successivamente l’ambito di attività del mercato comune fu ampliato
fino a creare un mercato unico anche per i beni e i servizi.
Il mercato unico è stato completato in larga parte nel 1993.
Attualmente l’Unione europea si trova nella quinta delle tappe sopra
descritte.

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2. L’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA

L’Unione economica e monetaria (UEM) rappresenta un


importante passo avanti del processo d’integrazione delle economie
dell’UE. Essa comporta il coordinamento delle politiche economiche e
di bilancio, una politica monetaria comune e una moneta unica, l’euro.
Tutti i 28 Stati membri dell’UE partecipano all’unione economica, ma
alcuni paesi hanno spinto oltre l’integrazione, adottando l’euro. Questi
paesi costituiscono l’area dell’euro.
La decisione di dar vita ad un’Unione economica e monetaria è
stata presa dal Consiglio europeo di Maastricht nel dicembre 1991, e
successivamente sancita dal trattato sull’Unione europea (trattato di
Maastricht).
L’Unione economica e monetaria dà ulteriore slancio al
processo di integrazione economica dell’UE iniziato nel 1957.
L’integrazione economica si propone l’obiettivo di una maggiore
efficienza e robustezza dell’economia dell’UE nel complesso e per i
singoli Stati membri, maggiore crescita e maggiore.
Sinteticamente si può affermare che l’Unione economica e
monetaria si fonda sul coordinamento delle politiche economiche tra
gli Stati membri, sul coordinamento delle politiche di bilancio con
particolare riferimento alla limitazione del debito e del disavanzo
pubblico, su una politica monetaria autonoma gestita dalla Banca
centrale europea (BCE), ed una moneta unica.
La governance dell’Unione monetaria è complessa e condivisa
tra gli Stati membri e le istituzioni dell’UE. Infatti il Consiglio
europeo decide gli orientamenti politici, il Consiglio dei ministri
coordina le politiche economiche nell’UE e decide sull’adozione

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario europeo”

dell’euro da parte di uno Stato membro, l' ”Eurogruppo” coordina le


politiche di interesse comune per gli Stati membri dell’area dell’euro e
gli Stati membri definiscono i propri bilanci nazionali entro i limiti
concordati per il debito e il disavanzo pubblico e formulano le proprie
politiche strutturali in materia di lavoro, pensioni e mercati dei
capitali, la Commissione europea vigila sui risultati e sul rispetto
delle regole, la Banca centrale europea (BCE), stabilisce la politica
monetaria con l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi ed il
Parlamento europeo condivide con il Consiglio il compito di formulare
testi legislativi e sottopone la governance economica al controllo
democratico, in particolare nel quadro del nuovo dialogo economico.

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario europeo”

3. L’EURO

Un momento centrale nella costruzione dell’unione economica e


monetaria è costituito dalla realizzazione di una moneta unica.
L’introduzione di una moneta unica europea è quindi un
passaggio nel processo di convergenza delle economie dei paesi
secondo le indicazioni del Trattato di Maastricht rappresenta uno
strumento utile per una più adeguata omogeneizzazione delle
dinamiche di sviluppo dei paesi aderenti.
L’utilità di una moneta unica può essere ravvisata:
 In una maggiore stabilità dei prezzi per i consumatori
 In una maggiore sicurezza e maggiori opportunità per
le imprese e i mercati
 In una maggiore stabilità e crescita economica
 In una maggiore integrazione dei mercati finanziari
 Nel rafforzamento del peso dell’UE nell’economia
mondiale
 In una migliore identificazione dell’Unione

L’euro è una moneta utilizzata nel mondo per l’emissione di


titoli del debito pubblico o di obbligazioni societarie.
Inoltre è la seconda moneta più scambiata sui mercati valutari
rappresentando una delle divise coinvolte in poco meno della metà
delle transazioni giornaliere, è impiegato per l’emissione di fatture e
per i pagamenti nelle transazioni commerciali internazionali insieme
con il dollaro costituisce moneta di riferimento per molti paesi in via
di sviluppo

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Giovanni Cannata “Il sistema monetario europeo”

Appare chiaro che un paese candidato che intende aderire


all’Unione deve adeguare molti aspetti della sua società – sociali,
economici e politici – ai livelli dell’UE. Il paese candidato deve essere
in grado di operare con successo nel quadro del mercato unico di beni,
servizi, capitali e lavoro.
Il processo di adesione è un processo di integrazione nel quale
l’adozione dell’euro e l’ingresso nell’area dell’euro aumentano il grado
di integrazione
L’adozione dell’euro richiede complessi preparativi, con
particolare riferimento agli aspetti della convergenza economica e
giuridica. Lo stato deve soddisfare i criteri economici e giuridici.
I criteri di convergenza economica garantiscono che l’economia
di uno Stato membro sia pronta per l’adozione della moneta unica e si
possa integrare facilmente nel regime monetario; mentre i criteri di
convergenza giuridica garantiscono la compatibilità col trattato della
normativa nazionale relativa alla banca centrale nazionale e alle
questioni monetarie
Riepilogando le condizioni che uno stato deve garantire per
aderire all’euro sono:
 la stabilità dei prezzi;
 la situazione delle finanze pubbliche;
 la partecipazione al meccanismo di cambio del sistema
monetario europeo;
 la convergenza dei tassi d'interesse.

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CRESCITA E SVILUPPO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

Indice

1. ALCUNI CONCETTI INTRODUTTIVI ------------------------------------------------------- 3


2. LA MISURA DELLA CRESCITA -------------------------------------------------------------- 5
3. LA CONVERGENZA DELLE ECONOMIE -------------------------------------------------- 8
4. LA PRODUTTIVITÀ ----------------------------------------------------------------------------- 10

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Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

1. ALCUNI CONCETTI INTRODUTTIVI

Il tema dello sviluppo delle economie e delle società che vi si


riferiscono è centrale nel dibattito storico economico ed in modo
conseguente l’analisi del ritmo dello sviluppo economico è differente
nel tempo e nello spazio anche in relazione al fatto che la
globalizzazione nonostante la proposta di schemi di consumo e
produzione omologati non determina uniformazione nei risultati dello
sviluppo. L’analisi descrittiva è certamente utile ma non fornisce
spiegazioni adeguate sull’evoluzione.
La contabilità della crescita utile per un’analisi della
convergenza si fonda sull’esame dei fattori della produzione, lavoro,
capitale materiale e capitale umano. Due le famiglie di modelli che
possono essere impiegate, quelli neoclassici e quelli di crescita
endogena.
I modelli di crescita neoclassici spiegano la crescita con l’analisi
dell’evoluzione del risparmio e investimento mentre i modelli di
crescita endogena si fondano sul ruolo dell’innovazione e anche sul
contributo che le istituzioni danno alla crescita.
E’ indubbio peraltro che tra le determinanti della crescita
vanno inclusi anche l’istruzione, la ricerca ed il relativo trasferimenti,
le modalità del finanziamento dell’economia, il sistema delle regole e
quindi tutte le altre determinanti sociali di contesto.
L’analisi storico economica mette in luce che la crescita rapida
è fenomeno recente e sono comunque presenti condizioni differenziali
che mettono in evidenza la mancanza di sincronizzazione da PIL pro
capite e della produttività per paesi allo stesso livello di sviluppo. E’
noto che alcuni paesi hanno raggiunto la convergenza con i principali

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Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

paesi sviluppati rimanendo tuttavia ancora molti altri


significativamente indietro. Inoltre si è registrato che le
disuguaglianze sono talvolta aumentate all’interno di uno stesso
paese o tra paesi con caratteristiche omogenee. Si deve segnalare
inoltre che il progresso tecnologico e la sua diffusione ha contribuito
talvolta ad alimentare le disuguaglianze nello stesso paese tra aree
differenti o tra paesi con caratteristiche simili. mentre il progresso
tecnologico agisce sulle disuguaglianze.

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Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

2. LA MISURA DELLA CRESCITA

Il Prodotto Interno Lordo è l’indicatore più elementare


utilizzato per la misura della crescita e costituisce la misura sintetica
del risultato finale dell’attività produttiva dei soggetti operanti
nell’economia di un paese.
IL PIL è il valore complessivo dei beni e dei servizi finali
prodotti in un paese in un determinato intervallo di tempo. Rilevante
è la grandezza del PIL di un paese che dà la misura della crescita
economica ma occorre accompagnare questa misura con una misura
della distribuzione dei redditi costituita dal suo rapporto con la
popolazione che viene indicata come PIL pro capite.
Perché questa misura sia utile per il confronto intertemporale
la necessità di introduzione di prezzi costanti e la necessità di
correttivi con i tassi di cambio in una prospettiva di confronto
geografico.
Uno dei limiti di espressione che viene sottolineato del PIL è la
mancata considerazione delle esternalità positive o negative ad esso
associabili.
In questa prospettiva il concetto di sviluppo sostenibile impone
di correggere il PIL per tener conto dell’esaurimento delle risorse
naturali e del degrado dell’ambiente.
Il Programma delle nazioni Unite sullo sviluppo ha introdotto
un indice dello sviluppo umano per misurare il benessere in maniera
più accurata, tenendo conto di aspetti non contabilizzati
tradizionalmente dal PIL. L’efficienza della produzione si misura con
la produttività del lavoro ma tutte le misure presentano dei limiti.

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Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

Va sottolineato inoltre che per effettuare confronti


intertemporale occorre deflazionare il dato utilizzando una misura a
prezzi costanti, così come per il confronto tra paesi occorrerebbe
deflazionare i prezzi con adeguate misure valutarie.
Accanto a indici così aggregati se ne possono aggiungere altri
più idonei a misurare l’efficienza della macchina economica quali la
produttività del lavoro costituita dal rapporto tra PIL e occupati.
La crescita e la variazione del tenore di vita hanno avuto luogo
nel mondo e nella storia con discontinuità ma si sono accelerate
nell’ultimo secolo.
Ripercorrendo l’evoluzione delle economie si deve segnalare che
i grandi fenomeni di rottura sono stati: le grandi scoperte geografiche,
le concentrazioni urbane, le innovazioni tecnologiche, i fenomeni
recenti di globalizzazione.
La storia della crescita non è stata lineare ma presenta sia crisi
mondiali, sia ondate di innovazione tecnologica (motore a scoppio,
ICT). Va sottolineato inoltre come l’evoluzione della crescita mondiale
sia stata accompagnata dall’emergere di nuove convergenze e
dall’affermarsi imperioso di giovani economie rilevanti sotto il profilo
demografico, come i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina,
Sud Africa).
L’analisi dello sviluppo passa attraverso un esame del legame
tra disuguaglianza e crescita è in un rapporto doppio: l’effetto della
crescita del reddito sulla disuguaglianza e l’incidenza delle
disuguaglianze di reddito tra paesi.
Processi di convergenza nella crescita si sono registrati in
Europa ed in modo minore in Asia ma siamo ancora ben distanti dal
poter affermare processi di convergenza in Africa con mutamenti

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Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

nell’occupazione nelle economie avanzate per effetto dell’innovazione


tecnologica.

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Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

3. LA CONVERGENZA DELLE ECONOMIE

Il tema della convergenza è centrale nelle teorie della crescita


economica.
La convergenza economica tra Paesi si realizza quando i livelli
del PIL pro-capite tendono verso un livello comune che costituisce il
livello di equilibrio nel processo di crescita.
Si possono distinguere due definizioni di convergenza:
 convergenza  se i paesi con un basso livello di PIL pro
capite crescono più dei paesi ricchi;
 convergenza  quando la variabilità dei livelli di PIL
pro capite misurata con qualche indicatore statistico
tende a diminuire e c’è dispersione di convergenza tra
paesi
Le variabili che influenzano la dinamica del tasso di crescita
del PIL nel lungo periodo sono:
 variabili inerenti a indicatori demo-sociali quali la
qualità del capitale umano:livello di istruzione,
speranza di vita;
 Il buon funzionamento dei mercati: espresso dal grado
di concorrenza, dall’inesistenza di fenomeni di
corruzione;
 La stabilità macroeconomica e la stabilità dei prezzi;
 La stabilità politica: espressa da un clima politico non
belligerante all’interno e all’esterno dell’area economica
considerata. Quello che si verifica tra paesi o aree
caratterizzate da variabili strutturali omogenee che cioè

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godono dello stesso ambiente o clima socio-economico


come può accadere ad esempio tra Germania e Paesi
Bassi, ma non tra Germania e Sudan.
Si definisce convergenza condizionale quando si verifica tra due
paesi con valori simili delle variabili.

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4. LA PRODUTTIVITÀ

Le attuali teorie della crescita fanno riferimento a due


categorie di fattori, fattori di natura strettamente economica e fattori
extraeconomici e istituzionali.
I principali fattori di crescita di lungo periodo sono:
 Il progresso tecnologico
 L’accumulazione del capitale
 Il miglioramento delle competenze
 L’integrazione socio economica e politica tra i paesi
La possibilità di dare una misura alla crescita si fonda sulla
funzione di produzione rispetto alla quale vengono misurate le
dinamiche dei quattro fattori indicati in precedenza.
Occorre tener conto dei concetti di fondo e di flusso che vale sia
per il capitale (deprezzamento) che per il lavoro (mobilità) e tener
conto della produttività totale dei fattori.
L’aumento della produttività del lavoro è influenzato dalla
dinamica della produttività totale dei fattori e dalla variazione di
capitale per lavoratore. La produttività è il rapporto tra il valore
aggiunto in volume ad uno o più dei fattori produttivi (ad es. il lavoro
o il capitale) la produttività totale è il rapporto tra il valore aggiunto e
l’impiego complessivo dei servizi del capitale e del lavoro. Un insieme
di indicatori di progresso tecnologico o di know how per misurare la
evoluzione della produttività totale dei fattori
Lo sviluppo delle ICT ha contribuito alla crescita della
produttività totale dei fatotri attraverso:
 Aumenti della produttività

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Giovanni Cannata “Crescita e sviluppo”

 Nuove forme di capitale e di investimento


 Nuove strategie del mercato del lavoro
Ovviamente lo sviluppo delle ICT ha inciso diversamente nei
paesi, mettendo in evidenza il ritardo dell’Europa continentale
rispetto agli Stati uniti e al Regno Unito pur con alcune eccezioni in
Europa, come nel caso della Svezia.

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LA CRESCITA E
L’ACCUMULAZIONE DEL
CAPITALE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La crescita e l’accumulazione del capitale”

Indice

1. L’ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE ----------------------------------------------------- 3


2. LE TEORIE DELLA CRESCITA ENDOGENA --------------------------------------------- 7

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Giovanni Cannata “La crescita e l’accumulazione del capitale”

1. L’ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE

Per comprendere la dinamica della crescita del capitale è


necessario porre attenzione alla dinamica della forza lavoro, ai
processi di accumulazione del capitale e all’innovazione tecnologica.
La dinamica della forza lavoro può portare a cambiamenti
demografici dovuti alla natalità, alla dinamica dei tempi del lavoro,
all’aumento del livello di scolarizzazione ed istruzione o ad una più
ampia partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Per un lungo periodo, nel secondo dopoguerra si è registrato un
forte sviluppo di studi sull’accumulazione del capitale. A partire dagli
anni ottanta si è sviluppata una teoria della crescita endogena
fondata sulle determinanti della Produttività totale dei fattori.
Questa teoria fu ripresa dalle elaborazioni teoriche di Schumpeter sul
ruolo giocato in economia dall’innovazione.
Nei tempi più recenti gli sviluppi più interessanti sono stati
generati dalla geografia economica attraverso lo studio delle
determinanti spaziali e dallo studio dell’interazione tra crescita e
qualità degli apparati istituzionali.
In un’economia chiusa l’accumulazione del capitale costituita
da una maggiore dotazione di beni capitali quali impianti o
macchinari è frutto del confronto tra domanda di capitale dalle
imprese e offerta di capitale derivante dal risparmio.
Tenuto conto peraltro del fatto che il capitale è sottoposto a
processi di deterioramento fisico o tecnologico per l’introduzione di più
moderne tecnologie e che quindi è soggetto ad ammortamenti, la
crescita si registrerà quanto l’investimento sarà maggiore degli

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ammortamenti e maggiore della nuova domanda per nuovi processi di


investimento produttivo.
In caso di disequilibrio come nel caso di scarsità di capitali si
genera disoccupazione mentre se c’è disoccupazione si genera
inflazione. L’intervento pubblico nei casi in cui occorre colmare il
deficit di finanziamento dovuto all’insufficienza del risparmio si rende
così necessario.
Alla luce del fatto che esiste un chiaro nesso tra accumulazione
e risparmio la redditività del capitale è il motore dell’investimento in
quanto le imprese continuano ad essere attratte dalla redditività degli
investimenti fino al raggiungimento di uno stato stazionario. Nel
modello di Solow i fattori di produzione sono sostituibili, il rendimento
marginale del capitale è decrescente, l’accumulo di capitale ha un
reddito minore e comporta nel tempo di raggiungimento di uno stato
stazionario.
Secondo tale autore il valore di equilibrio del capitale pro-capite
dipende dal tasso di risparmio, dal tasso di crescita della popolazione
attiva e dal deprezzamento del capitale. Inoltre se il rendimento
marginale del capitale è decrescente è inutile influenzare il tasso di
crescita di lungo periodo con politiche che incentivano il risparmio o
l’investimento. Tali politiche sono solo temporaneamente efficaci, il
tasso di crescita del PIL dipende dall’evoluzione demografica e dal
progresso tecnologico.
Più specificatamente ci soffermiamo ancora sul rapporto tra
accumulazione e risparmio partendo dal fatto che gli investimenti
sono associati al risparmio che viene effettuato dai cittadini residenti
nel paese considerato depurato dagli investimenti effettuati all’estero.
Ciò significa tener conto, in un’economia aperta, non solo delle

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Giovanni Cannata “La crescita e l’accumulazione del capitale”

preferenze interne, ma anche di quelle estere. Occorre tenere in conto


la capacità di attrazione di capitali, e quindi di risparmio, dall’estero.
Per mantenere un alto PIL pro capite occorre investire molto
mantenendo un alto livello di capitale pro capite sottraendo al
consumo immediato. Un tema centrale è quindi quello di fissare il
livello attuale di capitale pro-capite.
Gli economisti definiscono regola aurea o golden rule quel
livello di tasso di risparmio che rende massimo il benessere economico
così come espresso dai consumi pro-capite. Il tasso di risparmio nella
regola aurea è dato dalle quote di reddito da capitale sul reddito
nazionale. Ne consegue che in un’economia stazionaria ogni
generazione risparmia la stessa percentuale di reddito per poter
mantenere costanti i consumi che quindi finiscono per rimanere una
costante del reddito.
Nei modelli di crescita il valore ottimale del risparmio è quello
che uguaglia il rendimento del capitale depurato dal deprezzamento e
il tasso di crescita della produzione che a sua volta è influenzato dal
progresso tecnologico e dal tasso di crescita della popolazione.
L’obiettivo sociale è max consumo pro-capite nel corso del
tempo. Nelle ipotesi di pianificazione della crescita viene deciso il
tasso di risparmio delle famiglie, questo tasso è pari al peso del
capitale nella funzione di produzione in cui i redditi di capitale sono
reinvestiti, i redditi da lavoro sono consumati.
Un limite dei modelli di crescita fondati sulla teoria di Solow è
non considerare l’accumulazione del capitale umano. Il ruolo giocato
dalla formazione e dalla conseguente accumulazione di capitale
umano in quanto l’istruzione migliora la capacità produttiva dei

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Giovanni Cannata “La crescita e l’accumulazione del capitale”

soggetti. Questo viene sovente sottolineato invitando a considerare la


spesa per istruzione come investimento.
In conclusione occorre considerare la spiegazione della crescita
solo con l’utilizzo di fattori esogeni quali la demografia e il progresso
tecnologico.

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2. LE TEORIE DELLA CRESCITA ENDOGENA

Se come si è visto l’accumulazione non dipende solo dal capitale


fisico, ma anche del capitale umano, occorre tuttavia tener conto
anche di altre determinanti.
Si parla in questo caso di economie esterne, mettendo in rilievo
che l’efficienza della produzione dipende anche dal modo in cui le
imprese interagiscono tra di loro, dall’accumulazione di conoscenze,
da benefici di agglomerazione, dall’accesso a mercati interni più
grandi dai quali possono derivare economie di scala.
Centrale nella crescita è il ruolo del progresso tecnologico e
della sua origine anche in relazione al contesto sociale, culturale e
storico in cui si sviluppa. Ma altrettanto rilievo hanno gli incentivi
economici al progresso tecnologico, tanto da parte dello Stato quanto
da parte degli operatori pubblici.
Laddove si tenga conto di quelle appena richiamate come
esternalità positive il rendimento sociale del capitale è superiore al
rendimento privato. Talvolta si parla di esternalità di rete nel caso
delle reti di telecomunicazione che meglio connettono gli operatori
esaltando i rendimenti dei capitali investiti nelle imprese.
La crescita consente l’accumulazione di conoscenze sui territori
attraverso l’apprendimento di nuovi processi e l’accumulo di capacità
e specializzazioni professionali learning by doing. Si pensi al riguardo
all’accumulazione di conoscenze che si realizza nei cosiddetti distretti
industriali di specializzazione. Le professionalità accumulate sono un
patrimonio di capitale spontaneamente agglomeratori e che può
essere utilizzato come bene pubblico. Un modo per arginare la
diminuzione dei rendimenti marginali di capitale è rappresentato

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Giovanni Cannata “La crescita e l’accumulazione del capitale”

dalle spese pubbliche in istruzione e servizi quali fattori di produzione


aggiuntivi.
La spesa pubblica è fattore di crescita dell’offerta intervenendo
nell’offerta il che sottolinea un ruolo per le politiche fondate sullo
sviluppo di infrastrutture e comunque su aiuti pubblici allo sviluppo.
Ovviamente la spesa pubblica non è gratuita ma è finanziata
con imposte e tasse che riducono la redditività degli investimenti e in
taluni casi possono frenarli.
Tener conto degli effetti di congestione dei beni pubblici
accessibili a tutti, l’utilità può diminuire all’aumentare degli
utilizzatori e comporta al saturazione di servizi.
Nella teoria della crescita un ruolo di riflessione deve essere
svolto con riferimento a Schumpeter. La teoria fa riferimento ad
un’economia che si trova in un equilibrio iniziale con processi di
routine e si muove verso un nuovo equilibrio per effetto di
imprenditori innovativi. Questa azione di disturbo, ovvero questa
distruzione creatrice attraverso la creazione e realizzazione di nuovi
prodotti o di nuove qualità di prodotti, attraverso nuovi metodi di
produzione, attraverso nuove forme di organizzazione dell’industria,
l’apertura di nuovi mercati di sbocco delle produzioni o nuovi mercati
di approvvigionamento delle materie prime.
L’imprenditore distruttore introduce innovazioni che rompono
l’equilibrio precedente determinando così una successiva diffusione
delle innovazioni stesse (come in uno sciame) e una crescita
quantitativa dell’offerta della quale si origina un ciclo di crescita.
La teoria della distruzione creatrice di Schumpeter mette in
luce il ruolo destabilizzante che deriva dall’introduzione di nuove
innovazioni concorrenti che generano profitto, il concetto di

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Giovanni Cannata “La crescita e l’accumulazione del capitale”

distruzione creatrice spiega perché viene scoraggiato il mantenimento


delle industrie in declino e favorito il rinnovamento delle attività
economiche con una transizione dai settori in declino ai nuovi ed
illustra il limite della riallocazione della forza lavoro.
Le analisi empiriche mettono in luce il contributo al processo di
costruzione e distruzione, del modo differente in cui operano vecchie e
nuove imprese nella creazione di guadagni di produttività ma anche
le differenze che si registrano nei processi di crescita nelle varie aree.
Ad esempio negli Stati Uniti le imprese nascono piccole ma quelle che
sopravvivono raddoppiano in dimensioni, mentre in Europa la crescita
è più lenta.
Il grado di concorrenza sul mercato dei prodotti e il regime di
protezione intellettuale giocano un ruolo di rilievo rispetto
all’innovazione.
L’innovazione si esplica da un lato come ampliamento gamma
di prodotti disponibili ed è definita come orizzontale, mentre
l’innovazione come miglioramento della qualità è definita come
innovazione verticale.
Ovviamente il modello fondato sull’innovazione implica minori
risorse da destinare all’innovazione nel caso di facile replicabilità
dell’innovazione per assenza del sistema di brevetti ma questo accade
anche in presenza di un aumento della concorrenza nel mercato dei
beni.
La letteratura mette in luce come proteggere i brevetti
incoraggi l’innovazione la diffusione delle innovazioni stimoli
l’adozione ogni nuovo prodotto e conseguentemente, spinge la
frontiera tecnologica.

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ALTRI APPROCCI ALLE
POLITICHE DELLA
CRESCITA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Altri approcci alle politiche della crescita”

Indice

1. CRESCITA E COMMERCIO INTERNAZIONALE---------------------------------------- 3


2. LA DISTRIBUZIONE DELLA CRESCITA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO ------ 4
3. LE DISUGUAGLIANZE NELLA CRESCITA ----------------------------------------------- 5
4. LE ISTITUZIONI NELLA CRESCITA -------------------------------------------------------- 6

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Giovanni Cannata “Altri approcci alle politiche della crescita”

1. CRESCITA E COMMERCIO INTERNAZIONALE

L’integrazione delle teorie del commercio internazionale nelle


teorie della crescita si è sviluppata in modo significativo a partire
dagli anni ottanta del secolo scorso. Per molto tempo la teoria della
crescita e la teoria del commercio internazionale sono state
considerate separatamente. Si sono consolidate teorie che hanno
endogenizzato le innovazioni che determinano un progresso tecnico e
spiegano l’evoluzione dei divari tecnologici tra paesi. La
specializzazione produttiva determina il vantaggio comparato.
Inoltre la liberalizzazione degli scambi promuove la
concorrenza, sviluppa la produttività, la ricerca e l’uso
dell’innovazione. In concreto il commercio internazionale veicola il
progresso tecnologico all’estero. L’ampliamento dei mercati determina
un effetto di scala utile al sistema ed il commercio internazionale
influisce sull’innovazione nel commercio di varietà simili
L’innovazione aumenta la gamma di prodotti inclusi nel
paniere e questo incide sull’utilità dei consumatori aumentando il
numero delle varietà disponibili e sostituibili all’interno del paniere
alla luce di una differenziazione orizzontale. Il commercio
intraindustriale cresce rispetto al commercio interindustriale
La preferenza per la varietà può essere misurata con l’elasticità
di sostituzione derivante da una preferenza esogena del consumatore
per un consumo diversificato o dalla ricerca come ad esempio può
accadere nei prodotti agroalimentari industriali (prodotti bio e non).

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Giovanni Cannata “Altri approcci alle politiche della crescita”

2. LA DISTRIBUZIONE DELLA CRESCITA NELLO


SPAZIO E NEL TEMPO

I modelli di crescita endogena spiegano che la crescita sarebbe


più sostenuta in presenza di un mercato ampio e dinamico e si fosse in
presenza di raggruppamenti di imprese nelle quali si manifestano
effetti di learning by doing cioè di apprendimento attraverso l’attività
produttiva. La geografia dello sviluppo spiega il modo in cui si
realizzano i raggruppamenti di imprese e come gli stessi influenzino
la crescita.
Le motivazioni del raggruppamento delle imprese in aree sono
da ricercare in fattori geografici quali l’accesso alle vie di
comunicazione e alle risorse naturali, in fattori culturali e socio
politici, in fattori industriali riguardanti l’accesso ai fornitori e
accesso ai mercati di consumo.
La nuova geografia economica integra le teorie della crescita
endogena con le questioni dei costi di trasporto e di congestione che
influiscono sulle scelte di concentrazione. La risultante dell’equilibrio
è il risultato del confronto tra forze della concentrazione e forze della
dispersione.
Non è possibile affermare la presenza di un solo modello di
equilibrio, ma esiste una pluralità di equilibri in dipendenza del costo
del trasporto: ad esempio con un costo di trasporto elevato
dominavano le forze di dispersione, con costo basso dominano le forze
di aggregazione e le imprese si raggruppano. L’equilibrio in ogni caso
è discontinuo ed un piccolo cambiamento può portare ad una
delocalizzazione di attività.

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3. LE DISUGUAGLIANZE NELLA CRESCITA

La crescita non raramente si accompagna a disuguaglianze che


la politica economica deve arginare.
Molteplici sono i problemi indotti dalle disuguaglianze dei
redditi nella crescita. Si pensi all’accesso alle opportunità del mercato
del credito con effetti conseguenti sull’investimento nel capitale fisico
o nell’istruzione, al ricorso al microcredito, Le disuguaglianze sono
fattori di criticità e di incertezza per gli investimenti.
La disuguaglianza può determinare politiche redistributive che
possono tuttavia costituire un freno all’accumulazione.
In assenza di politiche redistributive l’aumento della
disuguaglianza può favorire la crescita se la ricchezza accumulata
viene investita in attività che determinano crescita di produttività.
Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito hanno effetti
negativi in particolare nelle economie arretrate mentre possono
generare effetti positivi nelle economie più sviluppate.
L’analisi storica mette in luce che le disuguaglianze più critiche
sono quelle nella distribuzione delle dotazioni di risorse ed in
particolare della terra.

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4. LE ISTITUZIONI NELLA CRESCITA

La crescita dell’economia e della produttività totale dei fattori è


prevalentemente spiegata con il progresso tecnologico.
Una componente importante nella spiegazione della crescita è
rappresentata dall’organizzazione giuridica e sociale cioè dalle
istituzioni. Le istituzioni sono «le regole del gioco nella società» ovvero
i vincoli creati dagli uomini che modellano le interazioni umane.
Teorie più recenti hanno messo in rilievo costi di transazione
nella costruzione dell’ambiente istituzionale e della sicurezza dei
contratti. Con questo terminesi intendono tutti gli oneri che i
partecipanti ad uno scambio, un contratto o una transazione
economica, debbono sostenere per realizzare lo stesso quali ad
esempio costi di contrattazione, costi legali, costi di ricerca di una
controparte.
Ai fini fella sicurezza delle transazioni è rilevante il ruolo della
tradizione giuridica nei paesi con diritto discendente dal diritto
romano. Negli stessi talvolta ci si deve confrontare con una
regolamentazione eccessiva che può frenare l’economia. Differente è la
situazione di economie in cui si opera in regime di common law.
L’inesistenza di un approccio istituzionale unico in cui le buone
istituzioni dei paesi sviluppati non è detto che vedano bene i paesi in
via di sviluppo è un fattore che determina la diversità nei sistemi di
crescita.
La teoria dello sviluppo può essere interpretata come processo
di transizione tra istituzioni.
Altrettanto rilevante è il ruolo che nello sviluppo dell’economia
assolve il cosiddetto ordine seriale, costituito dai valori sui quali si

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Giovanni Cannata “Altri approcci alle politiche della crescita”

fonda la convivenza in una società, in particolare la sicurezza e la


tranquillità in cui possono vivere e svilupparsi i cittadini, le
istituzioni.
Tre differenti ordini nella storia, l’ordine sociale primitivo
antecedente alle società organizzate, l’ordine sociale ad accesso
limitato relativo a società con un sistema politico fondato sulla
distribuzione delle rendite e l’ordine sociale aperto che caratterizza le
moderne economie di concorrenza politica ed economica.
La teoria della distanza dalla frontiera tecnologica che è
rappresentata dall’economia più avanzata in un dato periodo
costituisce un’altra spiegazione delle varietà dei processi di sviluppo.
Più si è vicini alla frontiera più si incoraggia l’innovazione a creare
istituzioni specifiche che promuovano lo sviluppo.
Gli studi empirici hanno provato a costruire degli indicatori
della qualità delle istituzioni in qualche modo collegate all’evoluzione
del PIL.
Secondo la Banca mondiale gli indicatori che mettono in rilievo
il ruolo svolto dalle istituzioni nella crescita dell’economia sono:
 la qualità della democrazia rappresentativa
 la stabilità politica
 l’efficienza dell’amministrazione
 la qualità della regolamentazione
 il rispetto dello stato di diritto
 la lotta alla corruzione
 la relazione tra la qualità delle istituzioni e livello del
PIL
 Buone istituzioni aiutano la crescita

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Giovanni Cannata “Altri approcci alle politiche della crescita”

In generale si può sottolineare come del rapporto Spence


commissionato dalla Banca Mondiale occorre mettere in evidenza che
non si tratta di un rapporto lineare.

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LE POLITICHE PER LA
CRESCITA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Le politiche per la crescita”

Indice

1. ENUNCIAZIONE DI OBIETTIVI -------------------------------------------------------------- 3


2. INTERVENTI PER LA CRESCITA ------------------------------------------------------------ 5

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Giovanni Cannata “Le politiche per la crescita”

1. ENUNCIAZIONE DI OBIETTIVI

L’analisi dei documenti di politica economica proposta nel


tempo dai governi nazionali e istituzioni internazionali mette in luce
l’enunciazione di obiettivi sovente molto ambiziosi e fa emergere
necessità di agire su più fronti talvolta non coerenti.
Può essere utile ricordare che di volta in volta vengono assunte
misure della crescita differenziate che comunque possono coesistere
tra di loro, quali il PIL pro capite, indicatori relativi a misure di
contrasto della povertà e migliore distribuzione del reddito, indicatori
di sviluppo della produttività del lavoro, indicatori di sviluppo
sostenibile.
Questi indicatori si debbono ricondurre a variabili esplicative
della crescita quali la qualità della vita, il buon funzionamento dei
mercati, la stabilità economica e quella politica.
Con riferimento all’UE un esempio di indicazione di obiettivi
ambiziosi si può ritrovare anche nell’art.2 del Trattato «promuovere,
nell’insieme della Comunità, uno sviluppo armonioso, equilibrato e
duraturo delle attività economiche».
Altrettanto ampi sono gli obiettivi che vengono dalla strategia
di Lisbona ha come obiettivo la stabilità macroeconomica, la crescita,
l’innovazione, la competitività, il pieno impiego, l’inclusione sociale,
l’ambiente.
Più recente, ma in linea con l’evoluzione dei documenti
comunitari è il programma Europa 2020 che prevede una strategia di
governance che fa riferimento a tre priorità:
 La cosiddetta crescita intelligente (smart) con
un’economia fondata sulla conoscenza e l’innovazione

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Giovanni Cannata “Le politiche per la crescita”

 La crescita sostenibile con un’economia fondata su un


uso efficace delle risorse e della competitività
 La crescita inclusiva che sollecita una più elevata
occupazione, la coesione sociale e territoriale.
Queste indicazioni di obiettivi generali si traducono in obiettivi
principali da conseguire entro il 2020 e che fanno riferimento a:
 Tasso occupazione
 Investimenti in R&S
 Obiettivi in materia di clima ed energia
 Riduzione del tasso di abbandono scolastico
 Riduzione della condizione di povertà
E’ ovvio, ed in questo caso emerge chiaramente, che le
indicazioni di obiettivi generali richiedono che la governance politica
sappia individuare le priorità, l’indicazione di un calendario, i soggetti
attivatori delle politiche proposte, anche alla luce delle risorse
disponibili.

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2. INTERVENTI PER LA CRESCITA

Con riferimento al tema della calendarizzazione degli obiettivi


per un’utile accertamento successivo dei risultati, occorre distinguere
nel breve, medio e lungo periodo.
Nel lungo periodo sono l’evoluzione demografica della società e
gli interventi sulla produttività totale dei fattori a determinare la
crescita attraverso politiche dell’innovazione; dell’istruzione; del
miglioramento del funzionamento dei mercati, del miglioramento
della qualità delle istituzioni
Nel medio periodo sono previsti interventi sul capitale con
incentivi fiscali e funzionamento del mercato dei beni, dei servizi e dei
capitali; sul lavoro con regolamentazioni e incentivi fiscali.

Nel breve periodo occorre tener conto degli effetti delle


fluttuazioni congiunturali e degli effetti indotti dalle politiche di
stabilizzazione attraverso politiche di stabilizzazione, politiche di
allocazione. In generale si può affermare che non esiste completa
indipendenza tra politiche congiunturali e politiche di lungo-medio
periodo a causa di
 Necessità di tener conto dei costi dell’instabilità
macroeconomica dalla quale potrebbero discendere
comportamenti di cautela dell’operatore famiglie o delle
imprese
 isteresi della disoccupazione cioè _____________ del
tasso di disoccupazione a ritornare alle posizioni iniziali
dopo la cessazione delle cause di shock che ne avevano
determinato il mutamento. Questi fenomeno può essere

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determinato di ripercussioni durature della crisi sulla


produttività dei fattori, sul ciclo degli investimenti, ma
anche dall’impoverimento del capitale umano e dallo
scoraggiamento alla ricerca di nuova occupazione da
parte dei disoccupati.
 effetti della recessione sulla demografia delle imprese
in quanto molto imprese potrebbero non essere in grado
di restare sul mercato avendo peraltro come
conseguenza una dinamica delle forze lavoro sul
mercato. In ogni caso la mortalità delle imprese
potrebbe comportare la perdita di competenze
accumulate.

Una grande attenzione, in particolare in tempi più recenti, è


stata posta con riferimento al miglioramento del funzionamento delle
istituzioni come contributo all’efficacia della politica economica.
Politiche economiche di successo richiedono interventi per un
ambiente legale favorevole allo sviluppo dell’iniziativa privata, un
sistema giuridico indipendente, un controllo della corruzione, una più
incisiva sicurezza dei contratti, una riduzione delle formalità
amministrative ed una trasparenza nell’informazione economica.
Un esempio di costruzione di efficaci road maps per il successo
delle politiche economiche può essere ritrovato nel caso del
Washington Consensus.
Questa esperienza di deve ad un economista (Williamson) che
identificava un insieme di dieci misure di politica economica da
proporre a paesi in via di sviluppo in condizioni di crisi.

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Giovanni Cannata “Le politiche per la crescita”

Nato con questa finalità il Washington Consensus ed il


pacchetto di misure connesso che prevede:
 una disciplina fiscale adeguata a non determinare
deficit di bilancio •
 il riaggiustamento della spesa focalizzata sulla crescita
 tassi di interesse positivi
 riforma fiscale pro imprese e protezione diritti proprietà
 liberalizzazione finanziaria
 tassi di cambio determinati dal mercato
 liberalizzazione degli scambi e apertura estera
investimenti
 deregolamentazione e privatizzazione delle imprese
 tutela dei diritti di proprietà
In realtà il Washington Consensus può essere connotato come
un approccio neoliberista alla politica economica ma in sintesi la sua
applicazione è rivolta a far si che le strategie di politica economica
siano fortemente focalizzate sulla situazione dei singoli paesi.

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LE POLITICHE PER LA
CRESCITA: LE DOTAZIONI
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Le politiche per la crescita: le dotazioni”

Indice

1. FORMAZIONE, RICERCA E INNOVAZIONE --------------------------------------------- 3


2. IL CAPITALE INFRASTRUTTURALE MATERIALE ------------------------------------ 6
3. IL LAVORO ----------------------------------------------------------------------------------------- 8
4. IL FUNZIONAMENTO DEI MERCATI ------------------------------------------------------ 9
5. I MERCATI FINANZIARI ---------------------------------------------------------------------- 10

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1. FORMAZIONE, RICERCA E INNOVAZIONE

La formazione e il consolidamento delle dotazioni di capitale


umano costituisce il centro dello sviluppo della produttività totale dei
fattori. Questo è alla base del fatto che le politiche pubbliche
intervengono sull’istruzione e sulla ricerca e sviluppo. Con il termine
capitale umano si intende l’accumulazione di capacità, di competenze,
di conoscenze e di abilità acquisite dall’individuo o da gruppi sociali
talvolta con riferimento alla specificità dei territori. Un insieme di
conoscenze prodotto ed accumulato che facilitano la creazione di
benessere personale, sociale ed economico (secondo l’OCSE). Il
capitale umano, in analogia al capitale fisico è una risorsa prodotta e
può essere accumulato tramite gli investimenti, rinunciando a
consumi attuali a vantaggio di benefici futuri. Come il capitale fisico
quello umano può essere soggetto ad obsolescenza e deterioramento.
L’autorità pubblica può agire con interventi diretti ad esempio come
accade con il finanziamento pubblico ed interventi indiretti ad
esempio come incentivi ai privati. L’istruzione può essere considerata
un bene di consumo quando è riferita ad un’esigenza di arricchimento
o piacere personale, ma può essere considerata bene d’investimento
durevole quando serve a migliorare il reddito di una società.
Le politiche dell’istruzione e della formazione sono politiche a
supporto del capitale sociale ma delle quali non sempre è agevole
determinare il valore per cui si possono riscontrare difficoltà nella
valutazione delle politiche di istruzione, come ad esempio valutare
l’incidenza di un anno in più di studio su salario aggiuntivo
percepibile. Un metodo di valutazione dell’istruzione è quello del
calcolo dei differenziali salariali, altro è quello della probabilità di

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occupazione, o ancora un metodo algebrico-finanziario del calcolo di


un tasso di rendimento interno.
In sintesi il sistema formativo trasmette conoscenza, fa
emergere talenti, riproduce il capitale sociale. L’istruzione come
applicazione della teoria della distanza dalla frontiera, va letta alla
luce della differenziazione tra paesi dell’investimento in capitale
umano. Nei paesi avanzati l’investimento in istruzione si concentra
sull’istruzione terziaria, mentre occorre investire in istruzione
primaria e secondaria nei paesi in ritardo di sviluppo.
L’Europa se vuole mettersi al passo con gli Stati Uniti deve
investire ancora più in istruzione superiore. La strategia europea
della crescita pone importanza alla ricerca. Non esiste una relazione
meccanica tra l’impegno quantitativo in ricerca e sviluppo e la sua
performance, né con il PIL pro capite tuttavia occorre sottolineare che
la ricerca e sviluppo è uno degli ingredienti del processo
d’innovazione. Una misura di questo impegno, oltre al rapporto con il
PIL è costituito dalla spesa per le imprese o dal numero di brevetti.
Le politiche pubbliche a sostegno dell’innovazione sono di
diversa natura: commesse con contenuto di ricerca e sviluppo come
accade ad esempio ricerca militare, incentivi alle imprese, incentivi
fiscali alle famiglie e finanziamento di specifiche strutture di ricerca
dedicate a particolari tematiche.
Gli indicatori utilizzati per valutare lo sforzo di ricerca,
riguardano il numero di brevetti, la partecipazione a pubblicazioni
internazionali, ed il posizionamento dei paesi nelle graduatorie
internazionali.

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Ogni intervento pubblico comporta dei limiti e differenti


incentivi debbono essere ovviamente utilizzati per la soluzione di
incentivi ai problemi di differenti settori.
Per esempio gli incentivi pubblici al finanziamento privato
cercano di rispondere alle imperfezioni del mercato (rappresentate
dall’avversione al rischio dei finanziatori) con riferimento ai settori
che richiedono tecnologie innovative.

Uno degli strumenti sovente impiegati è costituito dagli sgravi


fiscali, che diminuiscono il costo di accesso all’innovazione
dell’impresa anche se talvolta possono essere ritenuti strumenti che
alterano la concorrenza in un mercato.
Nella produzione di innovazione la questione della protezione
della proprietà intellettuale assume un ruolo cruciale. Il tema di fondo
è quello dell’appropriazione dei risultati dell’innovazione che, nel caso
delle imprese private si traduce in aumenti dei profitti che tuttavia
non sempre tiene conto del fatto che l’innovazione è stata finanziata
con risorse pubbliche. L’investimento in ricerca e sviluppo genera
profitti elevati che sono appropriabili anche se l’invenzione è bene
pubblico. Da ciò deriva la problematica della protezione
dell’innovazione protezione che può avere anche una durata limitata
nel tempo.
In sintesi l’investimento in ricerca e sviluppo ha dei costi e dei
benefici la cui corretta ripartizione costituisce oggetto della politica
pubblica.

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2. IL CAPITALE INFRASTRUTTURALE
MATERIALE

Le infrastrutture costituiscono l’armatura di un territorio di un


Paese. Con questo termine si intendono tutte le infrastrutture
strategiche per lo sviluppo di un’economia.
Il finanziamento delle infrastrutture materiali a:
 Scuole
 Strade e altre infrastrutture di comunicazione fisica
quali ferrovie, aeroporti, porti
 Infrastrutture di dotazione del territorio (dighe,ecc)
 Reti elettriche e di comunicazione
 Impianti di igiene pubblica
Normalmente o quanto meno nelle fasi iniziali di sviluppo di un
Paese queste infrastrutture, che costituiscono la dotazione di capitale
fisico, sono finanziate dallo Stato o dagli enti pubblici appositamente
costituiti, mentre in fasi più avanzate dello sviluppo si può
differenziare la proprietà dell’uso (come accade per le reti ferroviarie o
per le reti elettriche).
Tali infrastrutture possono essere anche di proprietà privata,
ma tenuto conto dell’esigenza dell’uso eventuale da parte dei privati
se ne richiede una disciplina. Questo è il caso del controllo di monopoli
come nel caso delle autostrade che possono essere assegnate in
concessione. Alcune infrastrutture creano esternalità positive come
nel caso della sanità che richiede investimenti ingenti per garantire
l’accesso più ampio ai cittadini, ma anche alcuni casi nei quali
sussistono difficoltà di finanziamento da parte del mercato. Da ciò
deriva la messa a punto di una teoria della scelta degli investimenti

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pubblici e la valutazione secondo adeguate tecniche messe a punto in


relazione al livello raggruppati dall’economia.

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3. IL LAVORO

Le politiche del lavoro rientrano a pieno titolo nelle politiche


della crescita. Le condizioni di fluidità del mercato del lavoro stanno
alla base della crescita delle economie e concorrono a spiegare i
differenziali di crescita trai Paesi e le grandi aree socio economiche e
politiche.
Politiche del welfare che migliorino le dotazioni ed i relativi
accessi ad esempio ai servizi a sostegno dell’occupazione femminile
(Asili nido, tempi scuola, ecc.) concorrono certamente allo sviluppo con
un adeguato impiego della forza lavoro. Altrettanto si può affermare
con riferimento all’occupazione giovanile o, per converso, alle politiche
connesse al pensionamento dei lavoratori.
E’ chiaro che nel lungo periodo vi è un impatto dovuto alle
questioni demografiche, al popolamento, ai grandi flussi migratori che
finiscono per incidere su le variabili come il tasso di crescita della
popolazione in età lavorativa.
L’esperienza sotto gli occhi di tutti mette in luce che è
improvvido considerare il tasso di fertilità o il tasso di immigrazione
sono considerate come variabili extraeconomiche così come occorre
avere consapevolezza che la politica economica può influenzare tali
variabili che diventano a tutto tondo componenti della politica
economica.

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4. IL FUNZIONAMENTO DEI MERCATI

Tra gli strumenti che vanno considerati nella messa a punto


delle politiche per la crescita deve essere menzionata la necessità di
un funzionamento corretto dei mercati dei beni, dei servizi, dei servizi
finanziari e del lavoro. Un buon funzionamento dei mercati come
accennato è condizione necessaria per migliorare la produttività totale
dei fattori. Eliminare i problemi di eccesso di regolamentazione o
comunque le barriere di accesso ai mercati costituisce certamente
obiettivo per lo sviluppo di una sana economia.
In questo filone di riflessioni il ruolo della concorrenza nei
mercati è centrale anche come acceleratore o freno dell’innovazione e
dello sviluppo. Libertà di accesso delle imprese, processi di
concentrazione eccessiva costituiscono ambiti d’intervento per le
autorità di controllo della concorrenza che debbono comunque
controllare gli accessi. In letteratura viene citato il caso delle
industrie a rete aperte alla concorrenza quali quelle dell’energia o
delle telecomunicazioni.
Infatti ha assunto un’importanza sempre maggiore il ruolo
delle autorità di regolazione. La politica economica della concorrenza
si fonda su un impianto normativo presidiato da autorità indipendenti
(quanto meno concepite come tali) dalla concorrenza o dalla
regolamentazione settoriale, ma non può prescindere dal ricorso alla
autorità giudiziaria in caso di inefficienza o inadeguato intervento
delle precedenti.

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5. I MERCATI FINANZIARI

Ultimo strumento al quale si vuole fare riferimento è quello


dell’intervento nell’organizzazione e gestione dei mercati finanziari.
Il sistema finanziario raccoglie ed alloca il risparmio delle
famiglie Il governo dei mercati dei capitali svolge un’importante
funzione allocativa e la sua regolamentazione è importante per la
crescita dell’ economia reale.
Si possono individuare tre strumenti principali di gestione dei
mercati finanziari: la diminuzione del costo del capitale, lo stimolo al
risparmio ed una valida allocazione del capitale disponibile.
La raccolta del risparmio e i relativi costi di transazione
riflettono i costi di produzione dei servizi finanziari anche in
relazione alle questioni tributarie connesse ed al grado di
concentrazione del sistema degli intermediari finanziari. La
concorrenza nel settore finanziario può ridurre i costi del capitale
meno oneroso ed il sistema stesso più efficiente.
Gli strumenti dei governi per controllare il costo del capitale
sono i tassi d’interesse, i prestiti agevolati nei confronti di alcuni
settori dell’economia e l’erogazione di garanzie statali sui prestiti.
L’analisi della letteratura mette in luce che gli interventi sulle
caratteristiche del sistema dei finanziamenti sono prevalentemente di
natura fiscale e temporanei e comunque non riescono a cambiare il
comportamento delle imprese. Se si vuole operare per un più incisivo
cambiamento delle caratteristiche più strutturali del sistema
produttivo occorre intervenire su aspetti fiscali, come il regime di
ammortamento, il calcolo imponibile, le aliquote fiscali sugli utili
della società, cioè prevalentemente manovre fiscali.

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L’utilizzo delle politiche fiscali a sostegno del finanziamento


delle imprese tuttavia può determinare effetti distorsivi.
Nell’allocazione delle imprese all’interno di un paese o di un’area
economica, come nel caso dell’Europa la scelta del regime
pensionistico a ripartizione o a capitalizzazione è una scelta che incide
sulle capitalizzazioni. Va ricordato da ultimo che il tasso di risparmio
e tasso d’investimento sono correlati e delle politiche a sostegno.
La capitalizzazione costituisce un risparmio forzato sia nella
sua forma decentralizzata attraverso i fondi pensione sia in quella
centralizzata con la costituzione di un fondo di riserva pubblica.
Da ultimo i governi possono decidere di intervenire a favore di
settori produttivi ritenuti di maggiore interesse mediante l’uso di
strumenti fiscali per l’orientamento del risparmio verso gli
investimenti. Si potrebbe ritenere opportuno concentrare il
finanziamento verso l’innovazione o verso un segmento di imprese
quali ad esempio le start up o le piccole e medie imprese. Per fare
questo l’autorità dovrebbe disporre di informazioni adeguate sui
settori, avere una conoscenza ed una capacità di controllo della
diversificazione del rischio idonea ad indirizzare gli investimenti
verso settori più produttivi. Le lezioni dell’esperienza della crisi
finanziaria hanno svemtito queste capacità. Inoltre l’innovazione dei
servizi finanziari quali quello della cartolarizzazione, e cioè la
cessione di attività o passività di beni o debiti di privati o di crediti di
una società con la trasformazione del bene o del credito in un titolo
obbligazionario da riemettere sul mercato, subisce oggi un
ripensamento significativo. Analogo ripensamento ha riguardato
l’utilizzo della leva finanziaria cioè delle operazioni per cui un
soggetto ha le capacità di acquistare o vendere attività finanziarie per

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un ammontare superiore al capitale posseduto e conseguentemente di


beneficiare di un rendimento potenziale maggiore di quello derivante
da un investimento diretto nel sottostante che comporta il rischio di
perdite maggiori.

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GLI SQUILIBRI
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Gli squilibri”

Indice

1. DEFINIZIONE DI SQUILIBRI REGIONALI ------------------------------------------------ 3


2. I PRINCIPALI INDICATORI DEGLI SQUILIBRI ----------------------------------------- 6
3. GLI OBIETTIVI DELL’INTERVENTO------------------------------------------------------- 7
4. GLI STRUMENTI DI INTERVENTO --------------------------------------------------------- 8

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Giovanni Cannata “Gli squilibri”

1. DEFINIZIONE DI SQUILIBRI REGIONALI

Il modello di crescita delle economie contraddistinto da


differenti velocità dello sviluppo è stato identificato come
caratterizzante per molti paesi del mondo e si realizza talvolta anche
all’interno dello stesso paese. Basti pensare che sovente parliamo di
Nord/Sud con riferimento al nostro Paese come al resto del mondo.
Un’importante disamina riguarda la ricerca delle cause degli
squilibri, le condizioni della loro persistenza, la capacità del mercato
di risolvere.
Differenti sono le possibili definizioni di squilibri con
riferimento ai modelli interpretativi ed alle conseguenti teorie di
intervento
I principali modelli di interpretazione e conseguente azione sono:
 Il modello neoclassico
 Il modello connesso al commercio estero
 Il modello di crescita bilanciata
 Il modello dei poli di sviluppo
 Gli approcci della nuova geografia economica di
Krugman

Per il modello neoclassico sono centrali nella determinazione


del livello di attività economica, e quindi per gli squilibri, l’offerta di
lavoro, la dotazione di capitale, la diffusione del progresso tecnico.
Laddove non sussistano ostacoli al lavoro e al capitale le
attività imprenditoriali si spostano verso regioni o paesi che

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Giovanni Cannata “Gli squilibri”

assicurano migliori remunerazioni e migliori condizioni di


rendimento.
La mobilità interregionale nel tempo produrrà una contrazione
dei divari tra costi, prezzi e redditi dei fattori della produzione
facendo tendere alla convergenza.
Nel caso di una ridotta domanda, interna del mercato occorre
far riferimento alle potenzialità di domanda esterna all’area in ritardo
facendo riferimento alla presenza di risorse naturali da utilizzare o a
una tradizione di specializzazione produttiva dell’area.
La specializzazione determina aumento della produzione
specializzata, aumento dell’impiego di fattori, aumento conseguente
dei relativi prezzi e attrazione da altre regioni con possibili effetti di
congestionamento e comunque con innesco di una dinamica dei divari
interregionali.
Si ritiene necessario intervenire coordinando gli interventi e
concentrando gli stessi nelle dotazioni di capitale fisso sociale carenti
e relative a infrastrutture di base oltre che sociali e con riferimento ai
settori produttivi strategici in specifici comparti.
Il modello di intervento per poli di sviluppo prevede la
concentrazione territoriale degli interventi da realizzare in un
sistema di poli o di aree opportunamente sparse sul territorio.
I modelli di crescita bilanciata ipotizzano il superamento degli
squilibri nella capacità di investimento in particolare nei settori
innovativi (si tratta di regioni in ritardo di sviluppo innovativo).
Si tratta di modelli applicabili a regioni caratterizzate da
particolari dotazioni naturali o da condizioni di ambiente culturale
idoneo o da un’espansione di una particolare produzione.

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Giovanni Cannata “Gli squilibri”

I poli di sviluppo saranno impostati su attività innovative,


possibilmente caratterizzate da innovazione tecnologica che possono
concorrere a mitigare i maggiori costi di insediamento. I poli possono
essere anche ipotizzati per lo sviluppo di settori di investimento di
base. La funzione del polo è quella di coinvolgere a valle altre
industrie locali.
Le teorie della nuova geografia economica di Krugman si
fondano sull’ipotesi che la concentrazione geografica sia determinata
da rendimenti crescenti nella produzione. Krugman sostiene che gli
effetti che derivano in regioni più ricche dall’accumulazione realizzata
attraverso processi di apprendimento si concretizzano in ulteriori
aumenti di produzione e quindi la regione già ricca continuerà a
produrre beni di alta qualità.
La localizzazione vincente delle aree in sviluppo è quella
prossima ai mercati di fornitura di fattori o di collocazione dei
prodotti, concentrazione che sollecita i fattori di produzione mobili
quali il lavoro.
I processi di attrazione di lavoratori incidono
conseguentemente sul mercato dei consumi determinando un
aumento della domanda con attrazione di nuove imprese.

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2. I PRINCIPALI INDICATORI DEGLI SQUILIBRI

La letteratura sugli squilibri, formatasi attraverso un’analisi


empirica degli stessi, da un conto ha guardato all’analisi del rapporto
tra squilibri regionali e sviluppo economico in relazione all’evoluzione
dei paesi considerati, dall’altra si è concentrata sugli approcci di
convergenza e cioè sulle tendenze delle differenti aree di un paese o
delle differenti economie nazionali rispetto alle economie
sovranazionali, di convergere verso valori comuni del reddito o di altre
variabili assunte quali obiettivo.
Sono stati utilizzati indici che misurano la dispersione del
reddito regionale pro-capite con riferimento al peso della popolazione
dell’area interessata rispetto alla popolazione normale.
In ogni caso per dare una misura dell’entità degli squilibri
regionali si fa ricorso ad alcuni indicatori come:
 Reddito pro-capite
 Tassi di attività, di occupazione e disoccupazione
 Distribuzione dell’occupazione per settori di attività
 Produttività dei fattori di produzione
 Dotazioni infrastrutturali
 Dotazioni di infrastrutture immateriali (servizi)
 Indicatori di benessere
Questi indicatori possono essere di tipo statico e cioè riferiti ad
una certa data o dinamico e cioè riferiti ad un arco di tempo ritenuto
utile per l’osservazione.

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3. GLI OBIETTIVI DELL ’INTERVENTO

La politica economica per il controllo degli squilibri territoriali


richiede un accurato processo di determinazione delle aree di
riferimento.
Alla luce di sistemi di indicatori occorre procedere
all’identificazione delle partizioni regionali sulle quali si vuole
intervenire e rispetto alle quali attivare le politiche.
Si caratterizzeranno così aree metropolitane centrali per lo
sviluppo, aree a formo connotazione tecnologica, aree a connotazione
commerciale, aree rurali, aree a vocazione turistico ambientale,
regioni periferiche e molte altre possibili connotazioni.
Questa politica di differenziazione è stata posta in essere ad
esempio nell’Unione Europea nel cui ambito sono state individuate
aree di paesi o ambiti geografici che accedono in modo competitivo alle
politiche europee ed aree in transizione che non sono in grado di farlo
e debbono essere accompagnate nel processo di sviluppo.
L’obiettivo generale di una politica di controllo degli squilibri è
quello di determinare alla luce di principi di coesione, una
convergenza verso gli indicatori di sviluppo dell’area più ampia nella
quale si registrano gli squilibri.
Gli obiettivi specifici possono essere:
 La promozione dello sviluppo endogeno
 Un innalzamento dei livelli di reddito, occupazione e
consumi comparabili con le aree di riferimento
 Il controllo di flussi di emigrazione
 La riqualificazione ambientale del territorio

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4. GLI STRUMENTI DI INTERVENTO

Gli strumenti di intervento nelle politiche regionali mirano ad


agire sulle decisioni di localizzazione degli agenti economici e sociali
(famiglie e imprese), sulla possibilità di modificare il livello e la
distribuzione del reddito e della spesa pubblica e privata nelle
differenti regioni.
Si può intervenire con strumenti di tipo macroeconomico (a
livello dei grandi aggregati che caratterizzano la regione) o
microeconomico ( a livello delle decisioni che caratterizzano i processi
d’impresa relativamente ai differenti settori.
A livello macroeconomico si interviene sui fattori di reddito e di
spesa che caratterizzano l’economia regionale attraverso
l’attribuzione di poteri ad autorità specifiche o regionali, la modifica
delle condizioni fiscali, l’intervento sulle condizioni all’esportazione o
sui controlli alle importazioni.
A livello microeconomico si agisce sui principali fattori della
produzione (capitale e lavoro) con riferimento alla distribuzione e
intensità tra le regioni e i differenti settori di attività produttiva
attraverso strumenti specifici quali l’incentivazione fiscale, le
procedure amministrative e di governo dedicate, le politiche creditizie
di vantaggio, gli interventi sul mercato del lavoro per l’incentivazione
di forme di mobilità e gli interventi di controllo del costo del lavoro.

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LA POLITICA TRIBUTARIA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica tributaria”

Indice

1. CONCETTI INTRODUTTIVI ------------------------------------------------------------------- 3


2. TIPOLOGIE DI IMPOSTA ----------------------------------------------------------------------- 8
3. LA REDISTRIBUZIONE DELLE IMPOSTE ----------------------------------------------- 11

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Giovanni Cannata “La politica tributaria”

1. CONCETTI INTRODUTTIVI

Il prelievo obbligatorio fa riferimento alla necessità di far


pagare tutti i cittadini prescindendo dal consumo effettivo di servizi
pubblici dei quali gli stessi godono e dalle loro preferenze personali.
E’ mediante la leva dei tributi che le moderne democrazie
hanno finanziato le due funzioni principali degli stati che le
contraddistinguono e cioè l’erogazione dei servizi essenziali e la
redistribuzione del reddito.
Ed è attraverso il voto, diretto ed indiretto, che i cittadini
possono esprimere la propria scelta in merito al prelievo obbligatorio.
Il tema della pressione fiscale è ampiamente dibattuto tra le varie
correnti politiche ed è comunque alla base della democrazia
economica che pone alla propria base il diritto ad una condizione
economica e sociale del cittadino dignitoso, il diretto a migliorare la
propria condizione, il diretto a controllare i mezzi di produzione e
quello alla sovranità economica nel territorio in cui si vive.
La politica tributaria si propone di conciliare le funzioni di
allocazione, redistribuzione e stabilizzazione imponendo rispetto a
queste funzioni un confronto tra efficienza ed equità.
Nella discussione sulla tassazione è centrale il tema della
giustizia e della legittimità dei tributi imposti un tema che, come
detto, rinvia alla stessa concezione di società, di stato e di democrazia.
I prelievi obbligatori sono prelievi coattivi di ricchezza che la
pubblica amministrazione fa nei confronti dei cittadini secondo
principi tracciati ddalla Corte Costituzionale e necessari per
finanziare la spesa pubblica. Essi sono classificabili a seconda dei
percettori (amministrazioni centrali, locali e di sicurezza sociale), a

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seconda della base imponibile (il reddito, il consumo, il patrimonio), a


seconda dell’importo sul quale è calcolato il prelievo e della struttura
delle aliquote di prelievo. Le imposte, le tasse e i contributi sociali
derivano da un preciso obbligo sancito dalla legge, l’obbligo di versare
le tasse deriva da un preciso rapporto giuridico contributivo. Le
imposte sono tributi senza contropartita specifica, le tasse sono
prestazioni di un servizio alle persone che coprono solo parzialmente
il costo, i contributi sociali sono forme di prelievo obbligatorio ed in
alcuni casi facoltativo versato a organismi pubblici e privati per
l’erogazione di prestazioni e sono commisurate ai salari che gravano
sui datori di lavoro. In particolare la tassazione si dice progressiva se
la somma pagata aumenta all’aumentare della base imponibile; si
definisce proporzionale se il rapporto non varia con la base
imponibile.
Annualmente con la legge di bilancio e quindi con un voto
parlamentare, in relazione al volume della spesa pubblica previsto si
definisce la base imponibile ed il livello della pressione tributaria cioè
il livello dell’incidenza sui redditi determinato dal livello delle
aliquote.
I governi nel definire la politica tributaria definiscono il modo
in cui acquisire le risorse necessarie per soddisfare i bisogni pubblici,
ma usano la stessa politica tributaria per correggere eventuali
inefficienze economiche ed intervenire sulla distribuzione del reddito.
La politica tributaria presenta quindi livelli significativi di
interferenze con le tre funzioni della politica economica (allocazione,
distribuzione, stabilizzazione).
Utilizzando la tassazione è possibile modificare i prezzi relativi
di beni e servizi e tra fattori della produzione. La tassazione pertanto

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non è neutrale e può provocare distorsioni fiscali. Con riferimento


all’imposta sul reddito il suo livello può incidere cambiando i termini
della scelta tra lavoro e tempo libero; un’imposta sui prodotti di
importazione determina un rincaro rispetto ai prodotti locali e quindi
finisce per riorientare produzione e consumi degli stessi.
Quando trattiamo dell’imposta occorre tener presente che la
stessa si fonda su un presupposto e cioè su un fatto giuridico dal quale
in modo diretto o indiretto deriva l’obbligo tributario. Vanno inoltre
individuate la base imponibile e l’aliquota di applicazione.
Con riferimenti specifici alle imposte si può dare il caso di
imposte a somma fissa sui beni e servizi si parla di imposta capitaria
fruito in modo uguale per tutti i contribuenti che lo stesso non può
trasferire né può usufruire sull’ammontare del trasferimento con una
modifica del proprio comportamento. Le imposte a somma fissa sono
criticabili in quanto derogano al principio della contribuzione secondo
le possibilità reali del contribuente.
La imposizione consente inoltre di correggere esternalità e
comunque le distorsioni nel mercato come nel caso dell’inquinamento
dell’aria, ma consente altresì il finanziamento di beni pubblici non
prodotti dal mercato.
La tassazione agisce sulla distribuzione del reddito e quindi
può svolgere un ruolo di protezione sociale, può avere effetti
intragenerazionali redistribuendo redditi tra le categorie e effetti
intergenerazionali, ma interviene altresì nella distribuzione dei
redditi tra capitale e lavoro.
La tassazione può intervenire nei processi di stabilizzazione
dell’economia: infatti se la tassazione aumenta in fase di ripresa frena

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la domanda e quindi l’inflazione; se diminuisce in fase di


rallentamento dell’economia può contribuire a sostenere la domanda.
La politica tributaria ovviamente non è neutrale rispetto allo
sviluppo dell’economia e intervenendo in modo inadeguato può
incidere sul ciclo economico. Le tre funzioni di allocazione,
distribuzione e stabilizzazione possono essere compresenti, per
esempio l’imposta capitaria elimina le distorsioni ma pesa sui meno
abbienti; l’imposta progressiva pesa di più sugli abbienti e quindi
redistribuisce ma riduce l’incentivo al lavoro e l’efficienza economica.
Tema centrale nello studio delle politiche tributarie è costituito
dalla pressione fiscale.
Talvolta si fa riferimento anche alla pressione finanziaria
quando si considerano non solo gli elementi della pressione tributaria
ma anche si aggiungono anche tutti gli altri proventi pubblici quali
imposte e contributi, ma anche prezzi, tariffe e canoni.
Annualmente si parla di pressione tributaria quale rapporto tra
l’insieme delle imposte dirette e indirette percepite dallo Stato
rispetto al Prodotto Interno Lordo, ma forse una indicazione più
precisa si ha con la "pressione fiscale" sull'economia che rappresenta
il costo dello Stato, espresso attraverso un rapporto numerico che
esprime l'incidenza del totale delle imposte e dei contributi sociali
effettivi e figurativi rispetto al prodotto interno lordo.
Il rapporti quali quelli indicati non forniscono alcuna
indicazione sulla qualità e quantità dei servizi pubblici forniti a fronte
dei tributi per misurare le quali occorre far ricorso ad altro tipo di
indicativi.

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Si registra una tendenza per molti paesi all’aumento della


pressione fiscale ed una conseguente significativa differenza del
livello di pressione fiscale tra i paesi.
Con riferimento all’Europa la tassazione maggiore si riscontra
nei paesi scandinavi, mentre è minore nei paesi anglosassoni con una
fiscalità molto impegnata a sostenere l’istruzione, la sanità pubblica e
i servizi sociali.
In Italia le spese per la protezione sociale (vecchiaia, sanità,
famiglia, disoccupazione) assorbono di più di un terzo del bilancio
degli enti pubblici.
Comunque gli studiosi di politica tributaria hanno messo a
punto misure più accurate della pressione includendo, ad esempio i
redditi incassati ma un prodotti esclusi dal calcolo del prodotto
nazionale (trasferimenti alle famiglie, pensioni, interessi sul debito
pubblico, trasferimento dall’estero) sui quali si possono pagare
__________ .
In sintesi i problemi relativi alla costruzione di indici di misura
della pressione tributaria fanno riferimento da un conto alla necessità
di disporre di un indicatore dal sacrificio imposto nella rinuncia
all’uso di risorse private per effetto del prelievo, dall’altro al fatto che
gli indici non fanno normalmente riferimento a gruppi sociali
omogenei di contribuenti.
Da ultimo questi indici non tengono conto degli effetti di
traslazione delle imposte che debbono essere misurati con altro tipo di
strumento.

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2. TIPOLOGIE DI IMPOSTA

Normalmente i termini imposta o tassa sono considerati come


sinonimi, ma ciò non corrisponde ai principi della teoria tributaria in
quanto sotto il profilo giuridico individuano situazioni differenti.
L’imposta, come già anticipato, è l’onere che lo Stato impone al
cittadino contribuente senza un nesso specifico ed attività svolte dallo
Stato stesso o da altri enti pubblici.
Le imposte di scopo sono quelle il cui gettito è destinate a
finanziare una specifica attività dello Stato non rispondendo quindi al
generico obiettivo di approvvigionamento di risorse, ma per esempio
per finanziarie la costruzione di una scuola o il sostegno alle comunità
colpite da calamità naturali. Talvolta le stesse sono denominate
imposte extra-fiscali.
Le imposte generali sono quelle che finanziano servizi generali.
Tra le stesse ricordiamo l’imposta sul reddito, quella sugli utili delle
società.
Accanto al gettito derivante delle entrate fiscali una parte delle
spese pubbliche viene finanziata da entrate non tributarie come i
proventi e dividendi delle imprese pubbliche, il ricavato delle
privatizzazioni e di cespiti patrimoniali, i proventi delle vendite di
beni e di servizi e le pene pecuniarie.
La suddivisione delle imposte può essere fatta con riferimento
ai differenti livelli dei soggetti e delle amministrazioni che
percepiscono l’imposta non è necessariamente percepita dall’autorità
che la stabilisce e questo finisce per determinare (statali, locali) divari
territoriali significativi.

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L’imposizione può fare riferimento all’impiego o alla titolarità


di fattori della produzione, alla produzione, allo scambio o al consumo
di beni o servizi, al compimento o scambio di atti giudiziari.
L’ imposizione può essere sia diretta che indiretta.
L’imposizione diretta interviene sulla capacità contributiva
immediata dei soggetti e rientrano in questa categoria l’imposta sul
reddito che tiene conto del valore della famiglia, le imposte sul
patrimonio, quelle sulle società, le imposte locali sulla produzione
quali l’IRAP. Nell’imposizione diretta vanno inclusi anche i contributi
sociali a carico dei datori e dei lavoratori. L’imposta diretta è
personalizzabile nel senso che possono fare riferimento alla situazione
reddituale personale del singolo contribuente.
L’imposta indiretta colpisce la manifestazione della capacità di
reddito di un soggetto, come i consumi, gli scambi ed i trasferimenti.
Le imposte indirette sono correlate al valore delle transazioni o
certificazioni oggetto degli atti o al prezzo dei beni o servizi scambiati
(imposte ad valorem), ovvero alla quantità di beni o servizi scambiati
(imposte specifiche), ma possono essere determinate anche
indipendentemente da elementi quantitativi o di valore, come nel caso
delle imposte fisse. Vi sono poi le accise sulla benzina, alcolici e
tabacco in relazione alla quantità consumata.
Circa l’incidenza rispetto alla base imponibile le imposte
possono essere proporzionali, progressive o regressive, sia con
riferimento al reddito del singolo contribuente che con riferimento
all’intero sistema tributario.
Le imposte indirette diminuiscono il rischio di evasione fiscale,
sono flessibili perché possono essere variate rapidamente in relazione
alle esigenze della politica economica e non scoraggiano gli

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investimenti, come invece accade frequentemente nel caso delle


imposte dirette.
Inoltre presentano lo svantaggio di poter essere trasferite dal
contribuente di diritto al contribuente di fatto.
Da ultimo l’analisi dell’evoluzione dei sistemi di sicurezza
sociali fa riferimento a due grandi categorie: sistemi di imposizione
bismarckiano ( Germania, Austria, Francia Svezia, Olanda) e sistemi
di tipo beveridgiano (Regno Unito, Italia, Danimarca, Irlanda) con
riferimento ai trasferimenti sociali.
Col primo sistema dato che i trasferimenti sociali altro non
sono che redditi differiti occorre che i lavoratori che ne godranno i
benefici contribuiscano al loro finanziamento.
Il secondo è alla base della riforma dello stato sociale relativo a
tutte le questioni della sicurezza sociale e dei servizi connessi e
pertanto occorre garantire anche ai meno abbienti l’accesso ai servizi
essenziali.
Ed ancora volendo far riferimento alle categorie degli agenti
economici chiamati realmente al pagamento delle imposte essi sono
sintetizzati nell’individuo, nelle famiglie e nelle imprese così come
volendo classificare le imposte in alcune categorie connesse alla base
imponibile si farà riferimento al capitale, al lavoro o al consumo.
Nei Paesi Scandinavi e Gran Bretagna prevalgono imposte
dirette mentre Francia, Svezia, Germania si fondano su contributi
sociali.

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3. LA REDISTRIBUZIONE DELLE IMPOSTE

Uno degli obiettivi d’indagine nelle scienze delle finanze è


quello della misura dell’impatto redistributivo delle imposte, analisi
fondata sul confronto della distribuzione dei redditi antecedente e
susseguente all’introduzione di un’imposta. Ovviamente accanto agli
effetti dell’imposizione vera e propria occorre tener conto di
trasferimenti sociali, aiuti al reddito, sussidi erogati dall’operatore
pubblico a sostegno di politiche dallo stesso poste come obiettivo.
Nella valutazione del carico tributario agli effetti della
redistribuzione occorre tener conto di
 Reddito primario cioè quello prodotto dall’attività
economica o dal possesso di beni mobili e immobili
 Reddito iniziale quello depurato dai contributi sociali
 Reddito disponibile, derivante dalla decurtazione delle
imposte dirette dal reddito iniziale
 Reddito netto, costituito dall’aggiunta delle prestazioni
sociali al reddito disponibile
 Reddito finale, cioè il reddito netto decurtato dalle
imposte indirette
Nella valutazione occorre far riferimento alle unità di consumo
e la redistribuzione può far riferimento a livelli di reddito (verticale) o
categorie di soggetti (orizzontale).
Una delle ottiche con cui guardare l’azione di redistribuzione
del reddito per finalità di politica economica è quella di non
scoraggiare il lavoro e conseguentemente l’impegno rivolto
all’acquisizione di un reddito più alto.

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L’indicatore adeguato per misurare l’incentivo all’impiego è


l’aliquota marginale di imposta che misura il rapporto tra
l’incremento dell’imposta e l’incremento dell’imponibile, uno
strumento impiegato per valutare gli effetti di incentivo o disincentivo
dell’imposta alla produzione del reddito.

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LA TASSAZIONE
Giovanni Cannata
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Indice

1. L’INCIDENZA DELLA TASSAZIONE ------------------------------------------------------- 3


2. LE DISTORSIONI DELLA TASSAZIONE --------------------------------------------------- 6

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1. L’INCIDENZA DELLA TASSAZIONE

L’esame degli effetti di attuazione delle politiche fiscali è di


grande rilievo. L’incidenza fiscale fa riferimento all’individuazione
degli effetti di una tassa sulla distribuzione del benessere economico
facendo riferimento a chi sostiene le imposte quale effetto
dell’eventuale distorsione fiscale e dei provvedimenti per eliminare le
imperfezioni dei mercati. Analisi più approfondite sono dovute per
l’individuazione degli effetti al fine di giungere ad una tassazione
attuale. La tassazione attuale è fondata sulla capacità contributiva
che dipende dalle potenzialità di reddito degli individui.
La dimensione normativa della tassazione riguarda le regole
per la fissazione dell’aliquota dell’imposta ad un livello utile per
conseguire la tassazione ottimale in termini di efficienza e di equità.
In economia aperta sussistono possibilità di concorrenza fiscale tra
paesi connessa alla mobilità delle persone e dei capitali e quindi tale
concorrenza deve essere tenuta in conto per la valutazione
dell’efficacia delle politiche.
In modo analogo chi sostiene l’imposta può non essere chi l’ha
pagata. Un esempio è quello del pagamento dei contributi sociali in un
mercato con offerta rigida. In questo caso il numero di ore offerte è
costante per ogni livello di salario; un aumento del livello dei
contributi sociali a carico dei datori di lavoro è trasferito sui lavoratori
con una conseguente diminuzione del salario netto versato.
Differente è il comportamento che si registra nel caso di
imposta specifica o imposta ad valorem, un’imposta specifica cioè
importo fisso per unità di beni o fattori di produzione mentre
un’imposta ad valorem è quella fissata proporzionalmente al valore

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che fa aumentare automaticamente il gettito nei casi in cui vi sia


inflazione.
Nel caso dell’imposta specifica si dimostra che la stessa è
sostenuta principalmente dall’agente meno sensibile ai prezzi in cui
ogni offerente chiede un prezzo unitario più alto sull’imposta che deve
pagare.
Questa indicazione che può ritenersi semplicistica richiede
alcune precisazioni con riferimento alle differenti attività sulle quali
si esplica la tassazione. Con riferimento alle imposte sui consumi le
stesse sono sostenute dalle imprese e ciò si tradurrà in margini di
guadagno più contenuti se l’offerta dipende poco dal livello dei prezzi
invece sono sostenute dai consumatori se gli stessi poco sensibili ai
prezzi.
Nel caso della contribuzione e quindi del finanziamento della
protezione sociale occorre determinare come la stessa va ad incidere
rispetto alle condizioni del mercato e delle parti coinvolte.
Nel caso della tassazione di redditi da capitale in caso di
risparmio mobile a livello internazionale la tassazione pesa sulla
domanda di capitale e cioè le imprese ed i tassi di rendimento tendono
ad eguagliarsi.
Ovviamente la formulazione di politiche fiscali dipende in modo
significativo dalla misurazione degli effetti distorsivi che possono
essere associati alla politica stessa ma occorre tener conto altresì dei
problemi di asimmetria informativa relativi alle difficoltà da parte
dello stato di disporre delle informazioni rilevanti per l’applicazione di
imposte ottimali.
In sintesi quanto il governo delinea una politica tributaria deve
rispondere ad alcuni quesiti di fondo.

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In primo luogo deve chiarire qual è l’obiettivo attuale che vuole


conseguire ed a questo associare il tipo di tassa più adeguato. Deve
inoltre disporre di conoscenze adeguate dei comportamenti dei
soggetti a settori di attività percossi, sui quali cioè ricade la
tassazione, e deve disporre di un’adeguata struttura istituzionale che
implementi la tassazione.

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2. LE DISTORSIONI DELLA TASSAZIONE

Le teorie della tassazione attuale si propongono di individuare i


sistemi di tassazione che minimizzano le distorsioni e le inefficienze
economiche. La nostra esperienza ci insegna che l’introduzione di una
tassa su di un bene o su una attività provoca uno spostamento verso
altri beni sostituti.
Il secondo insegnamento della teoria della tassazione è che
l’applicazione di un’imposta non a somma fissa in un mercato perfetto
modificando i prezzi e facendo perdere loro il valore di informazione
determina una perdita sociale cioè fa diminuire il surplus di utilità
dei diversi soggetti un surplus dei produttori, consumatori e
amministrazione.
La teoria suggerisce di non tassare basi imponibili molto
elastiche e di utilizzare più imposte ad aliquota ridotta piuttosto che
un’aliquota molto alta
Per minimizzare la perdita sociale occorre tassare nei casi in
cui domanda e offerta sono poco sensibili ai prezzi con un’ aliquota
inversamente proporzionale all’elasticità-prezzo. Questa è la
cosiddetta Regola di Ramsey (dal nome dell’economista) che si pone
come obiettivo di riscuotere il gettito evitando ogni possibile
distorsione.
Occorre determinare una tassazione cercando di evitare ogni
distorsione, questo principio può essere contradditorio con l’equità
perché porta a intervenire sui soggetti meno reattivi alla tassazione.
Effetto della tassazione è che l’aumento dell’aliquota d’imposta
pur aumentando il gettito fiscale, modifica i comportamenti dei
consumatori e finisce per incidere sul gettito. Per valutare gli effetti

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occorre tener conto dell’elasticità rispetto al reddito della domanda e


dell’offerta che la tassazione influenza il comportamento degli agenti
il gettito.
L’esistenza possibile di distorsioni della tassazione comporta la
necessità di passare da un approccio di analisi di equilibrio parziale a
un approccio di equilibrio generale su più mercati. L’analisi in
equilibrio generale ci fa riflettere sul fatto che i consumatori decidono
circa la composizione del paniere di consumo sulla base di una lista
delle preferenze, sulla base della considerazione dei prezzi relativi dei
differenti beni, e tenendo conto da ultimo del vincolo di bilancio. Gli
imprenditori per parte loro, tengono conto del loro giro d’affari, di una
organizzazione della produzione e del costo del lavoro relativi al
momento storico in cui ha luogo l’eventuale tassazione. Ne consegue,
in un’analisi di equilibrio, che la tassazione su un mercato ha
incidenza su altri mercati modificando i prezzi relativi dei beni con
effetto di sostituzione ed incide sul potere di acquisto determinando
quello che viene denominato effetto di reddito.
Soffermandoci sulla tassazione dei redditi da capitale, la stessa
porta ad incrementare il prezzo del consumo differito rispetto al
consumo immediato.
La tassazione dei redditi di capitale riduce il tasso di
rendimento del risparmio e anche incide sul prezzo del consumo. Le
scelte di consumo sono influenzate dalle modifiche dei prezzi relativi.
Le conseguenze sono determinate dal ruolo che gioca l’effetto di
sostituzione. Se gli agenti del mercato preferiscono consumare subito
perché temono rincari domani, il tasso di risparmio diminuisce. Il
contrario accade se prevale un effetto di reddito e cioè se preferisco
risparmiare oggi per garantire domani un effetto di consumo.

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Occorre esaminare anche l’incidenza fiscale in equilibrio


generale in un’economia aperta con mobilità dei capitali. Ipotizziamo
che l’offerta dei risparmiatori sia data mentre la domanda di capitale
delle imprese decresce al variare del tasso d’interesse sui capitali.
L’imposta sui redditi da capitale fa aumentare il rendimento
richiesto dai risparmiatori. L’investimento si riduce e le imprese
sopportano l’onere dell’imposta. Ma l’impresa è il luogo in cui si
combinano capitale e lavoro per produrre e vendere beni e servizi e
quindi se i detentori del capitale non sono colpiti da tassazione questa
potrà colpire gli altri soggetti del sistema, i clienti o i lavoratori.
Tuttavia dato che i clienti sono mobili mentre i lavoratori sono meno
mobili saranno i lavoratori a subire le conseguenze.
La necessità di coniugare l’efficienza ed equità per identificare
la tassazione ottimale portano a preferire imposte ad aliquote ridotte
su basi imponibili ampie e anelastiche.
L’imposta è sopportata dalla base imponibile meno flessibile,
alla luce delle difficoltà nella contribuzione da parte dei detentori di
beni e capitali finanziari. La teoria della tassazione ottimale cerca di
coniugare efficienza ed equità e di minimizzare le distorsioni per
avere un gettito determinato.
La tassazione ottimale è focalizzata sulla tassazione del reddito
che fa riferimento ad una funzione di benessere sociale che tiene conto
dei livelli di utilità dei meno abbienti. L’obiettivo è quello di
massimizzare tale funzione con il vincolo delle entrate per lo stato ed
il vincolo dell’incentivo al lavoro.
Conseguenza potrebbe essere la tassazione della produttività
dell’individuo con il rischio di penalizzare i lavoratori a più alta

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produttività ed alla fine determinare la contrazione della base


imponibile
La determinazione di un’aliquota ottimale comporta una
aliquota marginale elevata per i meno abbienti e deve essere
combinata con un reddito minimo garantito, una aliquota marginale
d’imposta che deve essere inferiore nelle fasce più dense della
distribuzione dei redditi con difficoltà di determinazione delle
aliquote.

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LA TASSAZIONE COME
STRUMENTO DI
CORREZIONE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La tassazione come strumento
di correzione”

Indice

1. TASSAZIONE E IMPERFEZIONE DEI MERCATI --------------------------------------- 3


2. TASSAZIONE E SCAMBI INTERNAZIONALI--------------------------------------------- 7

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è


coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n.
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1. TASSAZIONE E IMPERFEZIONE DEI MERCATI

Le imposte introducono delle distorsioni in un’economia


perfetta andando ad incidere sui pezzi che non funzionano più come
trasmettitori di segnali di mercato. Ciò va ad incidere sulle categorie
economiche o agenti del mercato quali i produttori, i consumatori o
l’amministrazione nelle sue articolazioni. Ciò costituisce quella che
viene definita una perdita sociale.
Un’analisi attenta e formale può mettere in luce il valore della
perdita di benessere determinata dall’applicazione di un imposta. Un
facile esempio può chiarire come, nel caso di un imposta che
introdotta sui consumi, facendo aumentare il prezzo dei beni, ne
riduce il consumo, determinando a cascata la caduta del prezzo con
effetti sui profitti dei produttori. Quanto meno occorre tener presente
che ciò implica di non sottoporre a tassazione beni o attività
contraddistinte da elevata elasticità.
Si afferma che l’aliquota dell’imposta deve essere inversamente
proporzionale alle elasticità al prezzo dell’offerta e della domanda.
Vi è chi consiglia in ogni caso l’opportunità di non utilizzare
una sola imposta con aliquota elevata, ma piuttosto una pluralità di
imposte con aliquote più basse anche se in questo caso occorre tener
conto del costo di riscossione.
Nel valutare gli effetti della tassazione occorre tener conto del
fatto che variazioni in aumento delle aliquote, certamente in un primo
momento fanno aumentare il gettito fiscale, ma ripercuotendosi sul
livello dei consumi e conseguentemente della produzione possono
avere effetti successivi sul reddito.

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L’analisi soprariportata fa riferimento al comportamento


rispetto ad un singolo bene, ma nei fatti occorre tener conto del fatto
che il consumatore acquista un paniere di beni e quindi occorre
monitorare l’impatto sugli altri beni che ne fanno parte.
Analogamente si hanno ripercussioni da parte dei produttori con
riferimento all’organizzazione del lavoro al relativo costo. In sintesi si
determinano sia effetti di sostituzione per la modifica dei panieri, sia
effetti di reddito per le ripercussioni sul potere di acquisto.
I problemi che sono stati evidenziati sono alla base di quella
che viene definita come la ricerca del livello di tassazione ottimale in
grado cioè di superare, conciliandole, le questioni dell’efficienza della
tassazione con quelle dell’equità. Si tratta dell’applicazione della
cosiddetta Regola di Ramsey che afferma che per minimizzare
l’eccesso di pressione totale, l’eccesso di pressione marginale
dell’ultimo euro di gettito derivante da ciascun bene deve essere
identico, o più semplicemente che la riduzione relativa delle quantità
domandate determinata dalla pressione tributaria deve essere uguale
per tutti i beni da tassare.
Gli schemi di principio adottati non tengono conto del fatto che
i mercati sono afflitti da carenze e imperfezioni di ogni genere per il
cui controllo la tassazione può costituire un rimedio. In quest’ottica si
può sostenere che la tassazione può costituire un sostituto della
regolamentazione o essere impiegata come incentivo all’uso di buone
pratiche intendendo con questo termini le procedure o comunque le
azioni che consentono di ottenere i migliori risultati rispetto agli
obiettivi preposti.
La tassazione correttiva vede la luce negli anni Venti quando
l’economista Pigou propose di istituire un ‘imposta sulle emissioni

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delle industrie (le c.d. imposte pigouviane). Si tratta di elevare il costo


privato verso il costo sociale che include i danni determinati
dall’attività produttiva sugli agenti. A questo approccio fa riferimento
il c.d. principio “chi inquina paga” che viene impiegato nell’economia
ambientale.
Un esempio di questa tassazione correttiva si ritrova nel
pedaggio per l’accesso al centro delle città.
Le imposte pigouviane debbono essere valutate sia in termini di
costo sociale, di reazioni nei comportamenti, di internalizzazione delle
esternalità.
Un‘altra soluzione alle carenze del mercato con riferimento
all’inquinamento consiste nell’intervenire proponendo la creazione di
un sistema di cosiddetti permessi di inquinamento o di emissioni
negoziabili, misura molto utilizzata in economia ambientale per la
quale l’organismo regolatore può emettere dei titoli che consentono
alle imprese che ne dispongono, o che se li scambiano, di immettere
nell’ambiente un determinato volume di inquinante. I diritti sono
acquistati dalle imprese che possono anche non utilizzarli e rivenderli
sul mercato. La validità di questo strumento dipende dagli ambiti di
applicazione, dalle modalità di vendita e negoziazione. Si tratta di
approcci utili che non necessitano di analisi pregressa e possono
essere sottoposti a vendita a un prezzo adeguato. L’inconveniente è
l’incertezza al prezzo, come il rischio di evasione. Si tratta di
strumenti impiegati negli Stati come sistema per combattere le piogge
acide (Clear air act) mentre L’Unione Europea ha istituito il mercato
dei permessi di emissione di anidride carbonica.
Il mercato può essere anche utilizzato per controllare le
esternalità. Si richiama il teorema di Coase, premio Nobel per

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l’economia nel 1991 secondo cui attraverso l’assegnazione di diritti di


inquinamento agli agenti del mercato (inquinatori o inquinati) e la
contrattazione sulla cessione del diritto di chi subisce il danno o di chi
inquina, e senza l’intervento dello stato si raggiunge un equilibrio
nell’uso delle risorse.
Si osserva la validità del teorema in quanto vi sia una assenza
dei costi di transazione non sussistono asimmetrie informative.
L’utilizzazione del gettito dell’imposta può consistere in un
indennizzo forfettario degli inquinatori al fine di indennizzare i costi
del controllo ambientale.
Un’altra forma di utilizzo consiste nell’utilizzare le somme
raccolte per ridurre imposte ritenute distorcenti: Gli economisti
parlano di doppio dividendo, facendo riferimento al fatto che con la
tassazione ambientale si ha un primo dividendo costituito dal
vantaggio del miglioramento della qualità ambientale ed un secondo
dividendo è costituito da una migliore allocazione delle risorse nel
sistema economico. Vi è poi chi considera un cosiddetto doppio
dividendo occupazionale che può derivare dal riciclo del gettito delle
tassi ambientali nella riduzione delle tasse sul lavoro. Il gettito può
essere utilizzato inoltre per la produzione di beni pubblici a tutela
dell’ambiente , ovviamente anche con riferimento agli effetti del
doppio dividendo occorre tener conto delle reazioni del sistema
economico all’introduzione di tasse pigouviane, così come può essere
misurata attraverso l’elasticità relativa.

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2. TASSAZIONE E SCAMBI INTERNAZIONALI

Il commercio internazionale può costituire una fonte di proventi


per l’erario attraverso la tassazione delle importazioni che tuttavia
non è esente dall’introduzione di distorsioni sull’economia. Infatti per
effetto della tassazione degli scambi commerciali i consumatori
subiscono oneri per maggior costo dei beni, mentre per converso le
imprese guadagnano in termini di protezione anche se si dimostra che
il gettito finale non indennizza completamente i consumatori per cui
la collettività registra una perdita netta.
Il livello di protezione deriva dalla compattezza dei produttori
nell’esercizio dell’attività di lobbying, ma è anche condizionato dalla
elasticità al prezzo del commercio esterno. In ogni caso occorre tener
conto delle difficoltà connesse alla protezione nel commercio
internazionale in relazione alle relazioni tra stati e aree
geoeconomiche.
Può essere utile analizzare gli effetti sull’economia nel caso dei
dazi doganali alle importazioni e con riferimento al caso di prezzo del
bene interno maggiore del prezzo praticato. Per il consumatore
interno sarebbe più utile approvvigionarsi sul mercato mondiale.
Se lo stato tassa l’importazione il prezzo per il consumatore
interno aumenta e diminuisce anche la sua rendita del consumatore
Il produttore locale registra aumento del suo prezzo e aumenta
il surplus. Lo stato aumenta il gettito che può essere destinato a
indennizzo dei consumatori. In sintesi la perdita del consumatore non
è compensata dal beneficio prodotto ponendo attenzione all’effetto su
altri mercati.

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Queste alterazioni nei comportamenti degli agenti delle


economie e nei confronti tra gli stati determinano da un canto guerre
commerciali dall’altro Accordi.
Un cenno deve essere fatta alla cosiddetta Tobin tax relativa
alla tassazione delle transazioni internazionali studiata non in
relazione ad obiettivi di incrementi erariali ma con l’obiettivo di
garantire l’autonomia dei governi nella politica monetaria e
nell’azione di politica economica.
Tenuto conto del fatto che i governi non possono conservare il
tasso di cambio nominale stabile e realizzare una politica monetaria
indipendente dai paesi partner è stata ipotizzata una tassazione in
valuta con aliquote non rilevanti ma comunque utili per scoraggiare
comportamenti meramente speculari. Gli effetti della Tobin tax
studiati dagli economisti mettono in luce che la stessa è inefficace per
correggere comportamenti a breve termine dei mercati mentre in
mercati efficienti la Tobin tax non ha incidenza significativa.
I processi di internalizzazione delle economie che
contraddistinguono sempre di più i tempi recenti, costituiscono un
vincolo e debbono essere considerati con riferimento alle ripercussioni
per la politica tributaria. Infatti i consumatori possono scegliere tra
merci provenienti da paesi diversi se la base imponibile è mobile dal
punto di vista internazionale.
Un esempio di limiti di rilievo è costituito dalla questione della
contribuzione sociale.
Vi possono essere difficoltà delle politiche tributarie in
economie aperte a trasferire i contributi sociali sui prezzi al consumo
così come è altrettanto improbabile la partecipazione dei consumatori
al controllo dell’inquinamento da parte di imprese produttrici di beni

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scambiati sul mercato internazionale. In sintesi questo influisce sul


tipo di strumenti scelti per raggiungere l’obiettivo.
Un’analisi specifica è richiesta sugli impatti della mobilità
internazionale della base imponibile con riferimento al caso dei
redditi da capitale. Laddove si registra mobilità dei capitali, vi sono
due approcci per tassare questi redditi: il criterio della residenza ed il
criterio della fonte.
Nel caso del criterio della residenza il detentore di capitali paga
nel luogo di residenza, come per esempio accade per una famiglia
italiana che percepisce interessi su titoli americani e che pagherà
l’imposta sui redditi da capitale in Italia. In tal caso vi è neutralità
all’esportazione di capitali in quanto i capitali sono tassati allo stesso
modo. Il possessore di capitali potrà realizzare un’elusione facendo
ricorso al trasferimento di residenza in paradisi fiscali o in paesi a
tassazione più contenuta.
Nel secondo caso e cioè del criterio della fonte il reddito è
tassato nel paese dove lo stesso si produce. Se una famiglia italiana
detiene azioni americane i dividendi che ne trarrà proverranno
dall’utile netto delle imprese coinvolte al netto dell’ imposta sulla
società. In questo caso si determina neutralità all’importazione dei
capitali.
Al di là dei criteri scelti, la mobilità internazionale dei capitali
tenderà ad eguagliare il rendimento al netto delle imposta tra paesi.
Questo è agevolato da una strategia cooperativa tra paesi, se
non tutti i paesi si comportano nello stesso modo e cioè non cooperano,
si determineranno distorsioni. La concorrenza fiscale fa riferimento
alla riduzione non cooperativa delle aliquote d’imposta.

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La concorrenza fiscale si realizza per la presenza di


giurisdizioni fiscali differenti tra differenti paesi in relazione alla
mobilità dei fattori produttivi e dei redditi che possono essere soggetti
a tassazione.
Come sottolineato da autori ogni collettività tassa i redditi degli
individui in cambio della fornitura di beni pubblici e dato che gli
individui sono mobili («gli individui votano con i piedi») essi scelgono
di stabilirsi dove la combinazione di imposte e di beni pubblici è più
vicina alle loro preferenze.
La concorrenza fiscale elimina le collettività inefficienti con una
bassa produzione di beni pubblici rispetto alle imposte.
Secondo la scuola della nuova geografia economica la
concorrenza fiscale economica non conduce necessariamente alla corsa
al ribasso fiscale per la presenza di rendite di localizzazione per
specifici cicli produttivi . Ciò può essere determinato anche da rendita
di agglomerazione, legata alle economie di scala che portano a
concentrarsi su attività produttive in un determinato contesto per
effetti di fattori localizzativi specifici o anche per effetto di fattori
naturali e tecnici oltre che sociali e culturali.
Sull’agglomerazione ovviamente hanno influenza i differenziali
nei costi di trasporto o i divari nel costo del lavoro così come la
prossimità con strutture commerciali.

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LE POLITICHE FISCALI
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Indice

1. L’EFFICIENZA ------------------------------------------------------------------------------------- 3
2. L’EQUITA’ ------------------------------------------------------------------------------------------- 6
3. LA CORREZIONE DELLE INSUFFICIENZE DEI MERCATI ------------------------- 8
4. LE IMPOSTE PIGOUVIANE ------------------------------------------------------------------- 10
5. LA CONCORRENZA FISCALE --------------------------------------------------------------- 12

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1. L’EFFICIENZA

Realizzare una politica fiscale efficiente significa introdurre la


minore distorsione possibile nell’economia realizzando la cosiddetta
neutralità del sistema fiscale.
Il problema di fondo delle politiche fiscali può essere
individuato nel giusto equilibrio tra economicità ed efficienza della
tassazione, due termini differenti che ovviamente fanno riferimento a
condizioni diverse. L’efficienza economica della tassazione fa
riferimento alla possibilità di acquisire il più ampio gettito fiscale con
il minor costo. Questo può avvenire applicando basse aliquote a un
sistema ampio di basi imponibili contraddistinte dall’essere
abbastanza anelastiche (?).
In questo senso è più agevole colpire il consumo, i salari, il
reddito delle famiglie, il reddito delle imprese piuttosto che
intervenire sulla tassazione di beni capitali.
Attivare una politica fiscale efficace richiede tenere in adeguato
conto gli aspetti di carattere distributivo del reddito senza
determinare ripercussioni significative sulle dei componenti
significative dell’economia e cioè il capitale e il lavoro. Nella messa a
punto delle politiche occorre necessariamente tener conto delle
differenti prospettive di valutazione da parte delle categorie
interessate così dei differenti scenari temporali.
Tra le varie forme di imposizione si riconosce nel lungo periodo
l’equivalenza fra contributi sociali, imposta sul reddito, imposte
generali sul consumo i quattro tipi di prelievo (contributi a carico di

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lavoratori, a carico datori di lavoro, imposte sul reddito, imposte sui


consumi) che si ritiene hanno lo stesso effetto.
Tale condizioni di equivalenze non valgono a livello del salario
minimo definito al netto dei contributi ma lordo IVA. In situazioni di
questo tipo implica un aumento dei contributi, aumento del salario
super lordo dato che il salario minimo non può diminuire, mentre un
aumento dell’IVA vedrà un calo dei consumi e del potere di acquisto.
L’equivalenza fiscale non si realizza nel caso dei redditi da
capitale gravati da IVA e imposte sul reddito ma non sono soggetti ai
contributi sociali
L’IVA rappresenta l’imposta più neutrale in termini di
efficienza sia nei confronti del capitale che del lavoro. L’IVA inoltre è
meno suscettibile di evasione anche se occorre tener conto del modo in
cui viene riscossa in quanto il pagamento delle prestazioni in nero
elude la base imponibile.
In ogni caso il bilancio pubblico non può fondarsi solo sull’IVA
in quanto, tale imposta non è personalizzabile né regressiva.
Le imposte possono essere proporzionali e progressive e le
stesse possono essere esenti da distorsioni laddove adeguatamente
(calibrate
L’esperienza mette in luce la necessità di compresenza di
imposte sul reddito delle persone fisiche e imposte sul reddito delle
società.
Tuttavia le imposte sulle società comportano alcuni limiti in
quanto inducendo un aumento del costo dell’ investimento si
ripercuotono sul processo di accumulazione. Inoltre si determinano
differenziazioni sul costo dell’investimento per le tipologie di
finanziamento scelto. Analoghe differenziazioni sul caso dell’imposta

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sulla società di registrano secondo la nazionalità degli investitori.


Inoltre indubbiamente la tassazione sui capitali ha un effetto
differente a seconda che si tratti di grandi imprese o di piccole
imprese ed inoltre distorsioni sono anche relative alla tassazione di
redditi da capitale produttivo e altri redditi.
In sintesi, con riferimento alla distribuzione efficiente della
tassazione non vanno trascurati i problemi sulla mobilità delle
imprese e dei lavoratori, così come la concorrenza all’interno degli
stati, l’impatto sulla concorrenza internazionale. Analogamente non
può essere trascurata l’influenza della concorrenza internazionale sul
reddito delle persone fisiche che può avere alla lunga effetti
significativi sulla mobilità internazionale del lavoro.

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2. L’EQUITA’

Il giudizio, per certi aspetti positivo, degli effetti sull’imposta


IVA, riguardano certamente la condizione di efficienza delle imposte
mentre è l’imposta sul reddito quella che i deve utilizzare per
realizzare una reale redistribuzione e conseguire quindi un’equità
fiscale tra cittadini percossi da uno stesso tipo d’imposta ma che
dispongono di un livello differente di reddito (concetto di equità
verticale) e cittadini o contribuenti che dispongono di differenti
tipologie di redditi (equità orizzontale).
Nelle fasce basse la redistribuzione si realizza con i
trasferimenti di reddito, mentre nelle fasce alte i processi di
redistribuzione si fondono sulle imposte sul reddito e la ricchezza.
Quando si operano processi redistributivi occorre ovviamente
trovare un giusto equilibrio tra efficienza ed equilibrio fiscale.
La scelta è sempre quella tra livello dell’aliquota e ampiezza
della base imponibile tenendo conto del fatto che aliquote marginali
alte possono avere effetti di disincentivo sui contribuenti.
Da ciò deriva il ricorso ad aliquote uniche e costanti (flat tax)
che tuttavia per essere efficienti richiedono una forte esenzione nelle
prime unità di reddito. l’abbinamento a un trasferimento universale a
somma fissa del tipo di un sussidio che nelle fasce basse dovrebbe
prevedere prevalere sull’imposta
Occorre inoltre tener conto degli effetti dinamici della
tassazione in termini di equità per le persone.
Volendo esprimere un giudizio sull’imposta progressiva, essa
limita l’accumulazione della ricchezza il che in combinazione con la
tassa sulle successioni concorre a ridurre le disuguaglianze ereditarie.

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Passando ad esaminare il rapporto tra equità verticale e


imprese non vi è dubbio sul fatto che una imposizione più gravosa
sulle imprese di dimensioni minori frena il rinnovamento,
l’innovazione e la crescita di tale segmento produttivo.
Come è noto la distribuzione del carico tributario è connessa al
principio della capacità contributiva. L’equità orizzontale è il principio
che prevede che siano tassati nello stesso modo tutti i contribuenti
che hanno la stessa capacità contributiva rispetto ad uno stesso tipo
di reddito.
L’equità orizzontale fa particolare riferimento ai redditi da
capitale. La motivazione della tassazione dei redditi da capitale
dipende dall’eterogeneità degli agenti, dalle difficoltà nel distinguere i
redditi da capitale e da lavoro, dal trasferimento fiscale da agenti che
detengono i capitali non vincolati finanziariamente ad agenti vincolati
e che non ne dispongono. Tenuto conto dell’incertezza dei redditi
futuri la tassazione sui redditi da capitale attua trasferimenti verso
contribuenti o settori meno dotati.
Sovente l’aliquota sull’imposizione dei redditi di capitale è più
bassa di quella sui redditi da lavoro, come accade nel caso del
cosiddetto prelievo liberatorio che consiste nell’obbligo del debitore del
reddito a trattenere a vantaggio dell’amministrazione tributaria una
parte d’imposta, prima di distribuire il reddito al suo beneficiario.
La tassazione dei dividendi degli azionisti implica l’aspetto
della doppia tassazione, alla fonte e del percettore del dividendo.
I sistemi che eliminano la doppia tassazione possono generare
due tipi di distorsioni e cioè quelli relativi alla nazionalità delle
imprese ed al trattamento differenziato fra redditi da capitale
finanziario e redditi da lavoro.

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3. LA CORREZIONE DELLE INSUFFICIENZE DEI


MERCATI

La tassazione paternalistica è quella per cui lo Stato interviene


per correggere le miopie di individui e famiglie come ad esempio con
riferimento alla protezione sociale che in caso di inadeguatezza del
contributo sociale sollecita a forme di contributo a fondi pensione per
la tutela previdenziale del futuro del contribuente.
Tutta la problematica e l’evoluzione della salute pubblica si
fonda sul confronto tra paternalismo dello stato e responsabilità del
contribuente e si riconduce a quello che da taluno è stato definito
come il paternalismo giuridico.
L’imposizione di un sistema di assicurazione pubblica
finanziato da prelievi è fondato sull’ipotesi di una strategia di
uguaglianza fondata sui principi redistributivi che consentono ai più
abbienti di finanziare l’accesso ai servizi da parte dei più poveri. Ma
la stessa può essere determinata dalla volontà di sopperire a miopia o
mancanza di razionalità dei contribuenti nella valutazione di rischi
futuri o dalla necessità di incentivi all’assicurazione per la pensione o
da incentivi all’acquisto della proprietà. Si tratta in ogni caso di scelte
che determinano comunque distorsioni.
La tassazione paternalistica è tra i fondamenti dell’istituto del
quoziente familiare e cioè alla necessità di tener conto della
numerosità della famiglia ai fini della tassazione del reddito. La
tassazione paternalistica ha un impatto se applicata a livello
familiare sulle scelte di organizzazione della famiglia.
Può far riferimento alla cosiddetta allocazione genitoriale di
istruzione, relativa cioè alla possibilità di sostenere, con adeguata

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remunerazione, quei geitori che possono dedicare parte significativa


del proprio tempo all’educazione diretta dei figli. Si fa riferimento alla
tassazione paternalistica anche nel caso di tassazione di bevande
alcoliche e di tabacchi per fini salutistici, idem per la tassazione di
bibite zuccherate o alimenti ricchi di grassi e di sale.
La critica che viene mossa alla tassazione paternalistica è che
essa sarebbe contraria alla libertà di scelta individuale.

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4. LE IMPOSTE PIGOUVIANE

Con questo termine si fa riferimento al sistema di tassazione,


applicato in particolare con riferimento alle problematiche ambientali
e fondato sul principio “chi inquina paghi” per cui l’inquinatore colpito
da un imposta vede aumentare il costo dell’uso delle risorse e
sollecitato a controllare le esternalità negative che genera con il suo
comportamento. Le imposte pigouviane trovano applicazione nel caso
delle esternalità energetiche o di quelle ambientali.
La letteratura mette in luce che le imposte pigouviane incidono
a condizione che le aliquote siano elevate
Le imposte pigouviane possono essere impiegate anche per il
controllo di rischi eccessivi nel settore finanziario.
Si applicano solo sulla rendita delle banche
Le imposte per il controllo di rischi eccessivi nel settore
finanziario riguardano
 Imposte sulle transazioni finanziarie
 Imposta sul bilancio delle banche per intervenire in caso di crisi
sistemica
 Imposta sull’attività delle banche
 Imposta sui bonus dei manager
Le imposte verdi possono avere prevalentemente effetti
regressivi in quanto i contribuenti meno abbienti hanno un’incidenza
maggiore sul proprio reddito di spese per beni ambientali quali
l’energia
Le stesse possono avere gli effetti distorsivi geografici nella
distribuzione delle imprese inquinanti contribuendo al nascere di
“paradisi dell’inquinamento”. Ai fini correttivi di queste distorsioni

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sono state ipotizzate imposte compensative alle frontiere volte ad


ergere barriere all’ingresso per produzioni con rilevanti carichi di
inquinamento.
L’istituzione di tasse ambientali attiva sistemi e reazioni di
political economy nel senso che la tassazione sollecita il formarsi di
lobbies e gruppi di pressione con doversi livelli di attenzione alla
politica ambientale.

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5. LA CONCORRENZA FISCALE

Con questo termine si fa riferimento alle condizioni che si


realizzano per effetto dell’integrazione economica di paesi con
differenti giurisdizioni tributarie come nel caso dell’Unione Europea.
In relazione alla mobilità dei fattori di produzione ed alle differenti
condizioni di contesto e di reddito soggetti a tassazione le differenti
giurisdizioni tributarie possono entrare in concorrenza tra di loro,
anche per accrescere il benessere dei redditi.
Si registrano differenti posizioni in UE sulla cooperazione
fiscale con riguardo a tassazione delle persone o tassazione fiscale.
Di particolare interesse è il caso dell’armonizzazione sull’IVA
che necessita di strategie evolutive nell’armonizzazione della
tassazione sul capitale, codici di condotta condivisi tra i governi e
scambi di informazioni a livello comunitario
Ovviamente per garantire nel lungo periodo condizioni di parità
per i contribuenti, persone fisiche o imprese, s’impone un processo di
armonizzazione che sarà foriero di opportunità anche per il
finanziamento del bilancio comunitario magari pervenendo
all’imposizione di un’imposta europea da sostituire a sistemi di
tassazione nazionale.

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LE POLITICHE
OCCUPAZIONALI: LA
TEORIA NEOCLASSICA E
QUELLA KEYNESIANA
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Le politiche occupazionali: la teoria neoclassica
e quella Keynesiana”

Indice

1. INTRODUZIONE ---------------------------------------------------------------------------------- 3
2. LA RELAZIONE TRA SALARIO REALE E OCCUPAZIONE NELLA TEORIA
NEOCLASSICA ------------------------------------------------------------------------------------ 5
3. LA RELAZIONE NELLA TEORIA KEYNESIANA -------------------------------------- 18
4. CONCLUSIONI------------------------------------------------------------------------------------ 31

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Salvatore Della Corte “Le politiche occupazionali: la teoria neoclassica
e quella Keynesiana”

1. INTRODUZIONE

Lo studente noterà la centralità che tra molti argomenti ha


vuto in questo corso di lezioni di Politica economica l'obiettivo
occupazionale e, dunque, le politiche occupazionali.
Tutte le possibili politiche economiche, (monetaria, fiscale, del
lavoro, dell'offerta, della competitività, energetica, etc.) finiscono per
essere volte a creare le condizioni perché si possa raggiungere la
disoccupazione naturale (quella connaturale ad una certa economia).
La lotta alla disoccupazione è dunque l'obiettivo principale di
questo corso di lezioni ed esiste una ragione oggettiva per cui si
ritiene che questo sia corretto.
Nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è
espressamente previsto, all'art. 23:
“Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta
dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla
protezione contro la disoccupazione.
Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale
retribuzione per eguale lavoro.
Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione
equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una
esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da
altri mezzi di protezione sociale.
Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi
per la difesa dei propri interessi.”
E' evidente che, se il lavoro è stato dichiarato, al termine del
più grave conflitto dell'umanità, con milioni di morti, un diritto
universale dell'uomo, a prescindere da qualsiasi posizione etica,

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politica o ideologica si abbia, assumere come primario obiettivo di


politica economica l'obiettivo occupazionale può essere un obiettivo
condivisibile.
La politica monetaria non è in grado di consentire il
raggiungimento dell'obiettivo, così come la politica fiscale, quando ha
voluto assumere questo obiettivo, ha creato in realtà notevoli danni.
In queste lezioni esamineremo direttamente quanto è stato
scritto dagli economisti in merito alle politiche dell'occupazione.

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2. LA RELAZIONE TRA SALARIO REALE E


OCCUPAZIONE NELLA TEORIA NEOCLASSICA

La domanda dei fattori della produzione è, nella teoria


neoclassica, una domanda derivata, nel senso che la domanda di
lavoro e di capitale è derivata dalla domanda dei beni, per la cui
produzione sono utilizzati quei fattori.
La teoria neoclassica commette però un errore fondamentale
perché, non distingue bene il caso dell'impresa singola da quello di un
settore industriale e dell'economia nel suo complesso.
La teoria neoclassica dell'occupazione da un punto di vista
macroeconomico può essere rappresentata graficamente nel seguente
modo.

Figura 1

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E' il livello di occupazione d'equilibrio che assicura la


produzione globale e questa viene sempre assorbita sul mercato
perché esiste sempre un tasso di interesse che mette in equilibrio
risparmio e investimento, per cui la parte di reddito non spesa viene
investita e il sistema economico è in equilibrio. A seconda
dell'occupazione raggiunta esiste una corrispondente produzione che
viene assorbita dal sistema. L'equilibrio sul mercato del lavoro viene
raggiunto perché i salari reali sono pienamente flessibili.
L'unica legge di cui tener conto è la legge della produttività
marginale decrescente, per cui gli imprenditori assumeranno finché
lavoratori fino al punto in cui il salario sarà uguale al valore della
produttività marginale decrescente.
Questo schema dimentica però un aspetto essenziale del
funzionamento del sistema economico. I consumi non derivano
esclusivamente dall'equilibrio sul mercato del risparmio, perché i
consumi derivano anche dal reddito globale della comunità.
Una riduzione generale del salario reale ha effetti sulla
domanda effettiva e quindi sui consumi globali.
Occorre distinguere gli effetti della riduzione del salario
d'interesse nel caso di un'impresa singola, un intero settore
industriale e l'economia nel suo complesso1.
Il caso dell'impresa singola.
Nel modello neoclassico sono la scelta del livello della
produzione e quella della tecnica di produzione a determinare la
domanda di lavoro dell'impresa. L'impresa non domanda lavoro solo

1 La distinzione tra il caso dell'impresa singola è effettuata in, FISCHER S.,


DORNBUSH R., Economia Politica, cap. 13 I mercati dei fattori e la domanda
derivata: il lavoro, 1986, Hoepli

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in base all'andamento del mercato dei beni in cui opera, ma anche in


riferimento al prezzo relativo dei fattori della produzione.
Questo è soprattutto vero al momento della nascita
dell'impresa.
Quello che abbiamo posto in evidenza è il primo principio della
domanda dei fattori della produzione: esso stabilisce che l'impresa
utilizza processi produttivi caratterizzati da una sempre maggiore
intensità di capitale all'aumentare del costo relativo del lavoro.
Questo principio ci fornisce lo strumento per comprendere
perché esistano grandi differenze nei rapporti capitale lavoro
utilizzati tra Paesi diversi negli stessi settori industriali. Più è alto il
rapporto salario-rendimento del capitale, più sarà alto il rapporto
capitale-lavoro.
Mentre questo principio è indiscutibile per spiegare la scelta
della tecnica di produzione nel momento in cui nasce un'impresa, non
è altrettanto valido quando gli impianti esistano già e sopravvengano
delle variazioni nel rapporto salario-rendimento del capitale.
Diciamo, allora, che capitale e lavoro sono altamente
sostituibili se una data variazione nel rapporto salario - rendimento
del capitale provoca una grande variazione nel rapporto capitale-
lavoro. D'altra parte, se l'impresa praticamente non muta il rapporto
capitale-lavoro quando si verificano grandi variazioni nel rapporto
salario-rendimento del capitale, diciamo che capitale e lavoro non
sono facilmente sostituibili tra loro: l'impresa, in sostanza deve
mantenere la stessa tecnica di produzione anche quando cambiano i
prezzi relativi dei fattori.
La sostituzione è semplice nel lungo periodo, in una piccola
industria piuttosto che in un grande impianto industriale.

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Nel breve periodo possiamo però dire che lo stock di capitale


dell'impresa è fisso.
L’impresa impiegherà lavoro aggiunto solo se il beneficio che
trarrà da ciò sarà maggiore o almeno uguale al costo del maggiore
lavoro espresso dal salario monetario, che per la singola impresa, è un
dato. Infatti, il contributo di un'ora addizionale è inferiore a quello
dell'ora precedente e pertanto, dato il capitale, il lavoro offre un
prodotto marginale decrescente.
Anche il prodotto marginale in valore, dato dal prodotto
marginale per i prezzi, ha una funzione decrescente, perché le
imprese si trovano ad operare in regime di concorrenza perfetta e
quindi non possono influenzare, prese singolarmente, i prezzi a cui
riusciranno a vendere i loro prodotti.
Il salario monetario è invece uniforme: l'impresa per la prima
ora di lavoro paga quanto paga per l'ultima ora.
In queste condizioni, se l'impresa intende massimizzare i suoi
profitti, è chiaro che essa domanderà lavoro fino al punto in cui il
salario è ugualeal prodotto marginale in valore, ovvero fino al punto
in cui il salario reale sarà uguale al prodotto marginale in termini
fisici.
Ecco il primo postulato fondamentale della teoria neoclassica
dell'occupazione:
Il salario è uguale al valore del prodotto marginale del lavoro.
Alla luce della regola in base alla quale l'impresa determina
quanto lavoro impiegare, occorre chiedersi come varia la quantità di
lavoro domandata dall'impresa quando vi sia un mutamento nel
salario o un cambiamento nella produttività del lavoro.

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Un aumento del salario, dati i prezzi dei prodotti dell'impresa,


riduce l'occupazione, la cui diminuzione dipende dalla pendenza della
curva della produttività marginale decrescente che a sua volta
dipende dalla misura in cui capitale e lavoro sono sostituibili nella
produzione: se essi sono altamente sostituibili.
Nel breve periodo la capacità di variare le tecniche adottate di
produzione è modesta.
A salario costante, quale sia l'effetto di un aumento del prezzo
del prodotto implica che, per ogni livello di produzione, il valore del
prodotto marginale è aumentato. La curva del valore del prodotto
marginale si sposta dunque a destra verso l'alto e, al livello di salario
precedente l'aumento del prezzo del prodotto, l'impresa trova
conveniente espandere l'occupazione.
Come vediamo nella figura 1 la diminuzione del salario reale
comporta un aumento dell'occupazione presso quella singola impresa.

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Figura 2

Quando la riduzione del salario reale è limitata alla singola


impresa, si avrà un effetto positivo sull'occupazione presso l'impresa
perché la riduzione del salario reale non determinerà una
diminuzione del prezzo di equilibrio del prodotto.
In altre parole la curva di domanda del lavoro rimane costante
e la diminuzione del salario reale da (W/P) 0 a (W/P) 1 nel grafico
comporta l'aumento dell'occupazione da circa 1000 persone a 1500.
In sintesi, la domanda di lavoro dell'impresa, secondo i
neoclassici, è funzione del salario reale, il salario che essa paga in
moneta diviso il prezzo del suo prodotto.

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Una riduzione del salario reale avrà un effetto positivo


sull'occupazione presso l'impresa perché non determinerà una
diminuzione del prezzo di equilibrio del prodotto.
Diversi però sono gli effetti della riduzione del salario reale
sull'intero settore industriale.
La domanda di lavoro di un settore industriale
Se il salario reale diminuisce in tutte le imprese di un settore
aumentano l'occupazione e la produzione complessiva del settore.
Quindi, se nel frattempo non varia la domanda dei beni del
settore, il prezzo di equilibrio scenderà, perché una maggiore offerta
di beni sarà accolta dal mercato soltanto con una diminuzione del
prezzo di quei beni.

Figura 3

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Al nuovo prezzo di equilibrio il valore della produzione


marginale sarà minore: la curva della produttività marginale in
valore, per ogni singola impresa, si sposterà a sinistra.
La curva VPML0 rappresenta la somma orizzontale delle curve
del valore del prodotto marginale delle imprese di uno stesso settore
industriale. Tale curva è tracciata per un dato prezzo del prodotto.
Quando il salario diminuisce da (W/P) 0 a (W/P) 1, tutte le
imprese del settore espandono l'occupazione e la produzione portano
l'occupazione provvisoriamente vicino al valore atteso sulla VPML0.
Dal momento però che cresce la produzione dell'intero settore, i
beni prodotti saranno assorbiti dal mercato ad un prezzo minore. Se
avviene questo il valore della produttività marginale tende a
diminuire e a spostarsi a sinistra e ad essere rappresentato dalla
VPML1, che è esattamente la stessa produttività marginale fisica per
il nuovo valore monetario dei beni registrato sul mercato.
Il punto di equilibrio permanente non sarà E1 come atteso da
ogni singolo imprenditore, ma E'1.
L'occupazione crescerà pochissimo rispetto al punto di partenza
(corrispondente sull'asse delle ascisse al punto E) e corrisponderà alla
proiezione sull'asse delle ascisse del vero punto di equilibrio
permanente E'1.
Per ottenere la domanda di lavoro del settore industriale
occorre unire i punti E0 e E'1.
Emerge chiaramente che essa è molto più verticale
dell'originaria VPML0, perché deve necessariamente registrare il
ridotto valore della produttività marginale registratosi in seguito
all'abbassamento dei prezzi prodotto nel sistema dall'aumento di beni
prodotti. L'aumento dell'occupazione non sarà dunque quello atteso

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dal singolo imprenditore lungo l'originaria curva della produttività


marginale decrescente, ma si troverà sulla nuova curva, inferiore alla
precedente.
Unendo i singoli punti di equilibrio sulle diverse curve della
produttività marginale otterremo la curva della domanda di lavoro del
settore più verticale delle sotto stanti.
L'elasticità della domanda di lavoro di un settore industriale è
determinato dalla sostituibilità capitale-lavoro nella produzione che
abbiamo detto essere nel breve periodo scarsa ed in secondo luogo
dall'elasticità della domanda dei beni del settore. Se la domanda per i
beni prodotti dal settore è molto elastica, allora un incremento
dell'offerta dei beni non avrà praticamente alcun effetto sul prezzo di
vendita dei beni stessi, se, invece, come è molto più probabile, la curva
della domanda dei beni è molto inelastica, allora un incremento
dell'offerta dei beni provocherà una diminuzione del prezzo molto
consistente, che diminuirà corrispondentemente il valore della
produttività marginale del lavoro del settore. Questa relazione tra
l'elasticità della domanda del bene e l'elasticità della domanda di
lavoro riflette naturalmente la condizione di partenza tipica
neoclassica: la domanda dei fattori della produzione è una domanda
derivata.

La domanda di lavoro globale.


La diminuzione del salario reale è estesa a tutte le imprese di
un settore e se è accompagnata da una domanda inelastica dei beni di
quel settore, una domanda cioè incapace di evitare una diminuzione
del prezzo d'equilibrio del bene prodotto.

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Quando la diminuzione dei salari reali non si limiti ad un solo


settore industriale, ma avviene in tutte le industrie questo accrescerà
la produzione globale. Ogni settore industriale subirà la concorrenza
degli altri settori, nel senso che tutti i settori aumenteranno
contemporaneamente l 'offerta di prodotti.
In altre parole, non solo ogni impresa subirà la concorrenza
delle imprese operanti nel suo stesso settore, ma in certo senso anche
quella derivante dalla maggiore produzione globale.
Se il salario reale si riduce per tutti i settori e la produzione
dell'assieme di questi cresce, i prezzi scenderanno per i vari beni. Ai
nuovi prezzi d'equilibrio dei beni, i valori delle produzioni marginali
decrescenti dei singoli settori industriali saranno minori: le domande
di lavoro dei settori industriali si sposteranno a sinistra.
In altre parole l'aumento dell'occupazione non sarà quello
atteso in ogni singolo settore industriale, lungo l'originaria curva
della domanda del settore industriale, ma si troverà sulla nuova
curva della domanda del settore, di valore inferiore alla precedente.
Unendo i singoli punti di equilibrio sulle diverse curve dei valori della
produttività marginale decrescente delle industrie, si attenua la curva
della domanda di lavoro globale caratterizzata da un'elevata
pendenza e potrebbe essere proprio verticale.
Non che necessariamente debba esserlo; la domanda di lavoro
di un settore industriale, quella globale di un Paese possono avere, in
via teorica, la stessa elasticità della domanda di lavoro di un'impresa.
Questo è possibile solo se le domande dei beni dei singoli settori
industriali sono molto elastiche, così da evitare una caduta dei prezzi
di equilibrio dei settori. Inoltre occorre porre l'accento sul fatto che

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questa elasticità elevata dei singoli settori implica che il consumo


totale aumenti.
Una diminuzione del salario reale porta ad un consumo
maggiore solo in certe condizioni.
La diminuzione del salario reale accrescerà in un primo
momento l'occupazione.
Si potrebbe verificare un aumento dell'occupazione tale da
compensare la diminuzione dei salari e capace, in buona sostanza di
alimentare tutto il processo: aumentare il consumo globale e
consentire un elevata elasticità alle domande dei beni. Alcuni
ritengono che questo è quanto di più verosimilmente accadrà in
seguito ad una riduzione del salario reale.
Si può far notare, però, che la riduzione dei salari reali
incentiva la produzione delle singole imprese proprio perché accresce i
profitti attesi e perché comporta per definizione una redistribuzione
del reddito globale dai salariati agli imprenditori: quest'ultimi hanno
senza dubbio una più bassa propensione al consumo rispetto ai
salariati.
Ciò comporta non solo che sia poco probabile un aumento del
consumo, ma addirittura che possa verificarsi un aumento del
risparmio, con conseguente depressione della domanda aggregata, a
meno che non intervenga una maggiore spesa per investimenti a
compensare il vuoto di domanda così creatosi2.
Ma è difficile pensare che gli imprenditori aumenteranno la
spesa per investimenti proprio quando, invece, il loro ricavo non

2 Questa tematica è stata trattata da Silos – Labini in Elementi di dinamica


economica, Bari, 1992, pp 259 e ss.

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giungerebbe necessariamente a coprire il loro prezzo di offerta e


saranno chiamati ad effettuare tagli rispetto all'occupazione attesa.
Il processo che abbiamo descritto circa la verticalizzazione della
domanda globale di lavoro è di seguito rappresentato

Figura 4

La curva DL rappresenta la somma orizzontale delle curve del


valore del prodotto marginale dei settori industriali.
Questa curva è tracciata per dati prezzi d'equilibrio.
Quando il salario reale si riduce per tutti i settori e la
produzione dell'insieme di questi cresce, i prezzi scenderanno per i
vari beni. Ai nuovi prezzi d'equilibrio dei beni, i valori delle
produzioni marginali decrescenti dei singoli settori industriali si

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sposteranno a sinistra. La curva DL1 rappresenta la nuova somma


delle domande di lavoro dei settori industriali.
In seguito ad una diminuzione del salario dal punto (W/p) 0 al
punto (W/P) 1, l'aumento dell'occupazione non sarà quello atteso nel
punto di equilibrio E1, pari alla proiezione sull'asse delle ascisse del
punto di incontro tra la curva DL e il nuovo salario reale.
Il nuovo punto di equilibrio si troverà sulla curva DL1 e sarà
E'1.
Unendo i singoli punti di equilibrio sulle diverse curve di
domanda di lavoro della somma dei settori, otterremo la curva della
domanda di lavoro globale.
Nel disegno la curva di domanda di lavoro globale è quasi
verticale. Questo significa che la riduzione del salario reale non ha
prodotto gli effetti occupazionali attesi.
In conclusione possiamo affermare che gli effetti di una
variazione del salario reale sulla domanda globale di lavoro dipendono
soprattutto da due variabili:
a) dalla capacità produttiva del sistema;
b) dalle reazioni dei clienti sul mercato dei beni.
Se il salario reale si riduce per tutte le imprese, la conseguenza
più probabile è che si verifichi una riduzione della domanda
complessiva di beni, e quindi della domanda di ogni singola impresa.
L'errore della teoria neoclassica dell'occupazione è non aver
considerato la ricaduta sulla domanda globale della riduzione del
salario, quando esso è generalizzato all'intero sistema economico.

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3. LA RELAZIONE NELLA TEORIA KEYNESIANA

"Nel mettere in evidenza il nostro punto di distacco dal sistema


classico, non dobbiamo trascurare un punto importante di accordo.
Giacché sosteniamo come per lo innanzi il primo postulato, (il salario
è uguale al prodotto marginale del lavoro) con le sole limitazioni della
teoria classica; e dobbiamo fermarci un momento a considerare ciò che
ne deriva. Esso significa che, in una data organizzazione e con una
data quantità di beni capitali e una data tecnica, salari reali ed il
volume della produzione (e quindi dell'occupazione) sono
biunivocamente connessi, cosicché, in generale non può verificarsi un
aumento dell'occupazione se non insieme con una discesa del saggio
dei salari reali. Quindi non metto in dubbio questo fatto essenziale,
che giustamente gli economisti classici hanno dichiarato
incontrovertibile. In una data situazione dell'organizzazione,
dell'attrezzatura e della tecnica, il salario reale guadagnato dall'unità
lavorativa ha una correlazione univoca, e inversa, col volume
dell'occupazione. Così, in periodi brevi, se l'occupazione aumenta, la
remunerazione unitaria del lavoro in termini di merci-salario deve
generalmente diminuire e i profitti aumentare. Questo è
semplicemente l'inverso della comune proposizione che l'industria
lavora normalmente in regime di produttività decrescente in periodi
brevi nei quali l'attrezzatura, etc., sia supposta costante; cosicché il
prodotto marginale nelle industrie producenti merci salario (il quale
governa i salari reali) necessariamente diminuisce col crescere
dell'occupazione. In realtà, fin quando vale tale proposizione,
qualsiasi modo di aumentare l'occupazione deve condurre nello stesso
tempo ad una diminuzione del prodotto marginale, quindi del saggio

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dei salari misurato o in termini di questo prodotto. Ma siccome


abbiamo respinto il secondo postulato, una diminuzione
dell'occupazione, benché comporti necessariamente che i lavoratori
ricevano un salario equivalente ad una maggiore quantità di merci
salario, non è dovuta necessariamente al fatto che i lavoratori
domandino una maggiore quantità di merci- salario; e l'essere i
lavoratori disposti ad accettare una riduzione dei salari monetari non
è necessariamente un rimedio alla disoccupazione3".
Abbiamo tratto dalla Teoria Generale questo lungo passo a
testimonianza della affermazione che Keynes non abbia mai negato la
validità della legge della produttività marginale decrescente.4
Il punto di distacco rispetto alla precedente teoria economica è
nel rifiuto della legge di Say e del secondo postulato dell'economia
classica "L'utilità del salario, per un dato ammontare di lavoro
occupato, è uguale alla disutilità marginale di quell'ammontare di
occupazione"5. Cioè il rifiuto dell'idea "che i contratti di salario fra
imprenditori e lavoratori determinano il salario reale; cosicché,
supponendo libera concorrenza fra imprenditori e nessuna coalizione
restrittiva fra i lavoratori, questi ultimi, se lo desiderano, possono
portare i propri salari reali a coincidere con la disutilità marginale di

3 John Maynard KEYNES, Teoria generale dell'interesse e della


moneta, p. 15 e 16.
4 La stessa conclusione si ricava dalla lettura di KEYNES,
Relative movements of real wages and output, in Economie
Journal, marzo 1939, p 39-51, scritto in risposta alle critiche
avanzate nell'articolo, DUNLOP J.T., The movements of real and
money wage rates, in Economic Journal, settembre 1938, pp.
413-434
5 KEYNES,Teoria generale dell'interesse e della moneta, p. 6

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quel volume di occupazione che è offerto dagli imprenditori a quel


salario"6.
Il rifiuto del secondo postulato determina, però, il rifiuto della
concezione classica del mercato del lavoro: non è sul mercato del
lavoro, nell'incontro della domanda e dell'offerta che si determinano,
secondo Keynes, il livello di occupazione e di produzione.
E' il livello della domanda effettiva, invece che determina il
livello di occupazione e di produzione.
La domanda effettiva
Keynes sostiene che il livello di occupazione e di produzione è
determinato dall'intersezione di due funzioni del livello di
occupazione: la domanda aggregata D = D(N) e l'offerta aggregata Z =
Z(N).

6 KEYNES, Teoria generale dell'interesse e della moneta, p. 6

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Graficamente:
Figura 5

La Z indica il ricavo ottenibile dalla vendita del prodotto


associato a ciascun livello di occupazione, che indurrebbe le imprese a
spingere l'occupazione proprio fino a quel livello. In altre parole, la
curva d'offerta aggregata indica le combinazioni dei livelli della
produzione e dell'occupazione che è conveniente per le imprese offrire;
ovvero, quali profitti è necessario che le imprese ottengano per
spingere l'occupazione proprio fino ad un certo punto.
Questa curva è inclinata positivamente. La forma della Z è
spiegata dalla seguente ipotesi: il costo unitario cresce al crescere
dell'occupazione.

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Ricordiamo che per ogni valore del salario monetario avremo


una diversa curva Z, poiché al variare del salario monetario variano i
costi monetari di produzione.
La funzione della domanda aggregata D rappresenta il ricavo
atteso dalle imprese per la vendita del prodotto associato a ciascun
livello di occupazione. Ricordiamo che per ipotesi questo ricavo atteso
è anche realizzato. In altre parole in un economia chiusa e senza
tener conto dello Stato, la curva della domanda aggregata indica la
domanda di beni di consumo e quella di beni d'investimento.
Anche questa curva cresce al crescere dell'occupazione, ma
meno di quanto cresca la funzione dell'offerta aggregata.
Secondo Keynes, infatti, le spese per consumi crescono
all'aumentare del reddito dei lavoratori, ma meno di quanto cresca il
reddito stesso.
"Se chiamiamo Z il prezzo dell'offerta complessiva della
quantità di prodotto derivante dall'occupazione di N lavoratori, la
relazione fra Z e N è espressa dalla funzione Z =z (N), che può
chiamarsi funzione di offerta complessiva. Analogamente, se si
chiama D il ricavo che gli imprenditori prevedono di conseguire
mediante l'occupazione di N lavoratori, la relazione fra D e N sarà
espressa dalla funzione D = d (N), che può chiamarsi funzione di
domanda complessiva. Ora, se per un dato valore di N il ricavo
previsto è maggiore del prezzo dell'offerta complessiva, ossia se D è
maggiore di Z, vi sarà un incentivo per gli imprenditori ad aumentare
l'occupazione oltre N, e, se necessario, ad accrescere i costi entrando
in concorrenza fra di loro per assicurarsi i fattori di produzione, fino a
quel valore di N per il quale Z diviene uguale a D. Quindi il volume di
occupazione è dato dal punto di intersezione fra la funzione di

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domanda complessiva e la funzione di offerta complessiva, giacché a


quel punto saranno rese massime le previsioni di profitti da parte
degli imprenditori. Chiameremo domanda effettiva il valore di D nel
punto della funzione di domanda complessiva nel quale questa è
intersecata dalla funzione di offerta complessiva" 7.
In sostanza la quantità di lavoratori N che gli imprenditori
decidono di occupare dipende dalla somma (D) di due quantità, la
spesa prevedibile della collettività in consumi e il prevedibile
ammontare che essa destinerà a nuovi investimenti.
Ma poiché il consumo dipende dalla propensione a consumare
possiamo dire che l'occupazione in condizioni di equilibrio dipende:
 dalla funzione di offerta complessiva;
 dalla propensione a consumare,
 dal volume dell'investimento.
Questa è l'essenza della teoria generale."8.
Keynes afferma che: "Per ogni valore di N esiste una
corrispondente produttività marginale del lavoro nelle industrie
producenti merci-salario; ed è questa che determina il salario reale."9.
E appresso, "(...) la propensione a consumare e la quota dei nuovi
investimenti determinano insieme il volume dell'occupazione, ed i l
volume dell'occupazione corrisponde univocamente ad un dato livello
di salari reali; ma queste relazioni sono irreversibili ."10.
Nello schema Keynesiano l'identità tra il salario e il valore
della produzione serve solo a specificare il livello di salario reale

7 KEYNES, Teoria generale dell'interesse e della moneta, p. 23


8 KEYNES, Teoria generale dell'interesse e della moneta, p. 26
9 KEYNES, op. cit., p. 26
10 KEYNES, op. cit., p. 27

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"associato con ogni livello di occupazione di equilibrio determinato


dalla domanda effettiva.”11
Ma questo ha una grande conseguenza perché vorrebbe dire
che, una volta trovata l'occupazione occorre retrocedere sul mercato
del lavoro per comprendere quale sia il salario reale compatibile con
la piena occupazione.
Occorre sottolineare che quella sopra esposta non è
l'interpretazione più diffusa della "Teoria Generale".
L'opera fu considerata divisa in tre parti:
1. la teoria del moltiplicatore;
2. l'efficienza marginale del capitale;
3. la preferenza per la liquidità.
L'importanza del principio della domanda effettiva e delle sue
relazioni con il primo postulato classico è stato decisamente
trascurato dal dibattito economico.
Perché questo sia accaduto non è facile a dirsi.
Le idee di Keynes sono rappresentati nei grafici seguenti.

11P. DAVIDSON, The Marginal Product Curve is not the Demand Curve
for Labor and Lucas' Labor Supply function is not the Supply Curve for
Labor in the real world, Journal of Post keynesian Economics - 1983 - pag.
106.

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Figura 6

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Come abbiamo raffigurato nella figura 3, una volta individuato


l'occupazione determinata dalla domanda effettiva, occorre
retrocedere il valore trovato sulla curva della domanda globale del
lavoro per verificare il salario reale d'equilibrio.
Un salario reale superiore a quello d'equilibrio determinerebbe
una disoccupazione rispetto al livello d'occupazione determinato dalla
domanda effettiva.
In ogni caso è evidente che la domanda effettiva e la sua
relazione con il salario reale riveste un ruolo principale nel pensiero
di Keynes e apre le porte ad un interpretazione più adeguata di tutte
le altre parti della sua teoria.
In questo quadro la propensione a consumare, l'efficienza
marginale del capitale, la preferenza per la liquidità, le variazioni del

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saggio d'interesse spiegano l'andamento della domanda effettiva, ma


quest'ultima deve poi tener conto della legge della produttività
marginale anche del lavoro e, soprattutto deve tenerne conto nel
breve periodo.
L'esistenza di una stretta relazione tra la domanda effettiva e il
salario reale è portatrice di interessanti conseguenze.
Se ad ogni livello della domanda effettiva corrisponde un valore
ed un solo valore del salario lungo la curva del valore della
produttività marginale decrescente, allora ad ogni aumento della
domanda effettiva e quindi della produzione e dell'occupazione deve
corrispondere una diminuzione del salario reale.
La novità in Keynes è rappresentata dal fatto che questa
diminuzione del salario reale non debba necessariamente avvenire
mediante una riduzione del salario nominale, ma possa anche
avvenire mediante un aumento dei prezzi.
"Siccome non vi è alcun mezzo di ridurre i salari monetari
simultaneamente ed ugualmente tutte le industrie, è nell'interesse
dei lavoratori di opporsi ad una riduzione nel proprio caso particolare.
Di fatto un movimento da parte degli imprenditori allo scopo di
rivedere, riducendoli, i contratti di salario monetario incontrerà una
resistenza molto più forte di un abbassamento progressivo ed
automatico dei salari reali in conseguenza di un aumento dei
prezzi."12.
E ancora "Ma se il presupposto classico non vale, sarà possibile
aumentare l'occupazione accrescendo la spesa in termini di moneta

12 KEYNES, op. cit., pag. 233

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fino a quando i salari reali saranno discesi al punto di eguaglianza


con la disutilità marginale del lavoro."13.
In breve, possiamo dire che per Keynes è il livello d'occupazione
determinato dalla domanda effettiva a determinare il salario reale
d'equilibrio, mentre nella teoria neoclassica è il livello del salario
reale d'equilibrio a determinare il livello d'occupazione d'equilibrio.
La vera differenza consiste in una inversione dell'ordine di
causalità tra le due variabili.
L'elasticità dell'occupazione e della produzione
Keynes era consapevole che il concetto di domanda effettiva
complessiva non fosse sufficiente a spiegare esattamente il livello
dell'occupazione e della produzione, dal momento che esistono diversi
modi nei quali spendere un aumento di salario.
Introdusse così il concetto dell'elasticità dell'occupazione e il
concetto dell'elasticità della produzione:

 l'elasticità dell'occupazione misura la variazione del numero


delle unità lavorative occupate nell'industria alle variazioni
del numero delle unità di salario che si prevede saranno spese
nell'acquistare la produzione dell'industria.
 L'elasticità della produzione misura l'ammontare del quale la
produzione di un'industria qualsiasi aumenta nell'unità di
tempo quando una domanda effettiva maggiore in termini di
unità salario viene diretta verso tale industria.
Dice Keynes: "La misura nella quale i prezzi (in termini di
unità-salario) saliranno, ossia la misura nella quale i salari reali
scenderanno quando la spesa monetaria viene accresciuta, dipende

13 KEYNES, op. cit., pag. 253

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pertanto dall'elasticità della produzione in rispondenza della spesa in


termini di unità-salario14. Questo è quanto accade ai prezzi.
Con riferimento all’occupazione, solo se la maggiore domanda è
diretta in gran parte verso prodotti aventi un'alta elasticità di
occupazione, l'aumento complessivo dell'occupazione sarà
considerevole.
Dunque il moltiplicatore del reddito, preso isolatamente, non dà
una spiegazione esauriente degli effetti di un aumento della domanda
effettiva sull'occupazione e sulla produzione.
Citiamo un'altra pagina la quale conferma, la posizione di
Keynes.
"abbiamo mostrato che quando la domanda effettiva è
deficiente vi è una sotto-occupazione dei lavoratori, nel senso che vi
sono lavoratori disoccupati, i quali sarebbero disposti a lavorare ad un
salario reale inferiore a quello vigente. Di conseguenza, con
l'aumentare della domanda effettiva, l'occupazione aumenta, sebbene
ad un salario reale uguale o inferiore a quello vigente, finché arriva
un punto nel quale non vi è alcuna eccedenza di lavoro disponibile al
salario reale allora vigente; ossia non vi sono più lavoratori (o ore di
lavoro) disponibili a meno che a partire da quel punto, i salari
monetari aumentino più rapidamente dei prezzi. ( ....) Fino a questo
punto il rendimento decrescente dell'applicazione di una quantità
maggiore di lavoro ad una data consistenza di impianti è stato
compensato dalla tacita accettazione, da parte dei lavoratori, di salari
reali discendenti. Ma, dopo questo punto, un'unità lavorativa
richiederebbe per compenso l'equivalente di una maggior quantità di
prodotto, mentre il rendimento dall'applicazione di una unità

14 KEYNES, op. cit., pag. 253

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ulteriore sarebbe una quantità di prodotto minore. Le


condizioni di un rigoroso equilibrio richiedono pertanto che i salari e i
prezzi, e di conseguenza anche i profitti, debbano salire tutti nella
stessa proporzione della spesa, lasciando invariata sotto ogni aspetto
la posizione reale, compreso il volume della produzione e
dell'occupazione."15
Piuttosto che concentrarsi su questi concetti, però, le teorie
cosiddette keynesiane, si soffermarono, come vedremo, a studiare
l'ipotesi, avanzata dallo stesso Keynes di ridurre il salario reale per
mezzo di un aumento dei prezzi.
In altre parole, a prescindere se fosse la domanda effettiva o il
salario reale o entrambi i fattori a determinare l'occupazione,
diventava determinante, da un punto di vista politico economico,
studiare come ridurre il salario senza estenuanti trattative sindacali,
cioè via aumento dei prezzi delle merci prodotte. In sintesi il rapporto
W/P diminuisce perché W rimane da un punto di vista nominale
costante in termini di denaro-moneta, mentre il livello dei prezzi delle
merci prodotte aumenta.

15 KEYNES, op. cit., pag. 257

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4. CONCLUSIONI

Si può concludere quindi quanto segue:


 la teoria neoclassica dell'occupazione è incompleta e quindi
erratica perché omette di considerare il consumo funzione
anche del reddito complessivo della comunità, in gran parte
dipendente dai salari medi pagati in una data comunità
economica. L'idea degli economisti classici e neoclassici di
aumentare l'occupazione mediante una riduzione dei salari
reali si dimostra inefficace quando viene estesa dalla singola
impresa all'insieme dell'economia. Ne consegue che anche tutte
le tediose discussioni eminentemente alto borghesi degli
economisti classici e neoclassici sulla presunta responsabilità
dei sindacati perché terrebbero artificiosamente alto il salario
reale rispetto a quello d'equilibrio dell'economia sono da
considerare in gran parte fuorvianti e sterili, e tanto più lo sono
quando i sindacati cerchino di consentire che il salario assicuri
una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia.
 La teoria Keynesiana parte all'inverso dalla domanda effettiva
e confronta il livello occupazionale raggiunto tra il ricavo
ottenuto dalla vendita del prodotto (offerta aggregata) e il
ricavo atteso dalle imprese per la vendita del prodotto
(domanda aggregata). Il livello dell'occupazione così
determinato si confronta con il salario reale vigente sul
mercato. Qualora questo sia superiore a quello potenziale, la
sua diminuzione avviene attraverso un aumento dei prezzi dei
prodotti venduti, di cui i lavoratori fanno fatica ad accorgersi,
almeno in un primo momento. Come vedremo nelle prossime

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lezioni, l'idea di aumentare l'occupazione grazie all'inflazione


non si è mostrata nel tempo una buona idea.
Eppure entrambe le teorie hanno una caratteristica comune:
considerano il valore della produttività marginale del lavoro dipende
sia dal livello dei prezzi che dalla produttività.
In economia, la produttività può essere definita in via di prima
approssimazione come il rapporto tra la quantità di prodotto finale e
le quantità di uno o più fattori della produzione (materia prima,
lavoro, energia, capitale) utilizzati nel processo.
Da tale punto di vista un aumento di produttività può essere
visto genericamente come un risparmio di fattori della produzione
impiegati nel processo in termini fisici, (meno ore lavorate, meno
materie prime impiegate, meno energia utilizzata) sia esso dovuto a
progresso tecnico, miglioramento dell’efficienza produttiva
ricollegabile ad economie di scala, riduzione della capacità produttiva
inutilizzata o altro ancora.
A livello settoriale, si è soliti usare come misura della
produttività dell’industria il valore aggiunto per lavoratore o ora
lavorata. Il valore aggiunto viene di solito preferito alla produzione
lorda settoriale perché la produttività calcolata sulla base della
produzione lorda risulta influenzata dal livello di integrazione
verticale delle imprese
Tanto secondo gli economisti neoclassici, quanto secondo
Keynes, il lavoro ha una produttività marginale decrescente: l'idea è
che il contributo di un'ora addizionale è inferiore a quello dell'ora
precedente.
Lo stesso vale per il prodotto marginale in valore, il quale è
dato dal prodotto marginale per i prezzi. Anche esso è una funzione

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decrescente, perché le imprese si trovano ad operare in regime di


concorrenza perfetta e quindi non possono influenzare, prese
singolarmente, i prezzi a cui riusciranno a vendere i loro prodotti.
Ma, come abbiamo visto, il valore del prodotto marginale
dipende anche dall'organizzazione tecnica dell'impresa, dai brevetti
posseduti e da tutta una serie di altri fattori che definiscono la sua
produttività. Questo significa che l'innovazione tecnica, la
specializzazione, nuove organizzazioni, nuovi processi produttivi,
possono spostare a destra la curva del prodotto marginale in valore.
Questi incrementi del valore del prodotto marginale possono
essere trasformati in nuovi posti di lavoro o in salari più alti.
In termini grafici questo significa che la curva del Valore del
prodotto marginale può spostarsi a destra senza aumento dei prezzi.
Figura 7

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Nella figura 7 si assiste ad un processo di incremento del valore


del prodotto marginale dovuto ad un incremento della produttività
reale.
Il singolo lavoratore produce più prodotto a parità di tempo e
questo avviene a livello di una singola impresa. Siamo certi che
l'incremento del valore del prodotto marginale non è dipeso
dall'incremento dei prezzi, perché questa volta abbiamo raffigurato il
valore del prodotto marginale reale e non quello monetario: il valore
del prodotto marginale è diviso per il livello dei prezzi. La maggiore
produttività reale si rappresenta con uno spostamento a destra del
valore del prodotto marginale reale.
Quando l'incremento della produttività è limitato alla singola
impresa, l'impresa ha la facoltà di decidere se mantenere gli stessi
lavoratori e pagare loro uno stipendio più alto, oppure portare al
massimo il suo processo di massimizzazione.
In tal caso impiegherà allo stesso stipendio di prima molti più
lavoratori nel nuovo punto di equilibrio G, portando l'occupazione
sull'asse delle ascisse da F a J, più che doppia rispetto alla
precedente.
Ovviamente valgono anche nel caso dell'aumento di
produttività reale le considerazioni già fatte in precedenza quando
l'incremento dipendeva dall'abbassamento del salario reale.
Se ci troviamo in un economia chiusa ai rapporti con l'estero,
qualora l'incremento fosse diffuso a livello di settore industriale, il
prezzo del bene scenderebbe e questo avrebbe un riflesso sul valore
del prodotto marginale che tornerebbe in parte indietro e renderebbe
la curva del settore più verticale.

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In caso di economia aperta c'è però una differenza sostanziale


tra il caso in cui il valore del prodotto marginale cresce per un
incremento della produttività reale e il caso in cui il valore del
prodotto cresce per una diminuzione del salario reale: solo nel primo
caso il Paese è più competitivo e nel contempo i suoi cittadini
diventano più ricchi a livello internazionale.
Le politiche dell'occupazione dovrebbero pertanto approfondire
tutta la dinamica di crescita della produttività reale, le relazioni tra
competitività del Paese e produttività della singola impresa e di un
settore industriale.
La Politica economica così impostata studierebbe le
conseguenze delle altre politiche economiche (monetaria, fiscale,
competitività, energetica etc.) sulla competitività del sistema e sulla
produttività della singola impresa e dunque sull'occupazione.
La politica keynesiana di controllo della domanda si diffuse
progressivamente e trovò con la New Economic negli Stati Uniti una
sistematica applicazione, malgrado la sua vulnerabilità sul fronte dei
prezzi.
Le ricerche empiriche mostrarono l'esistenza di uno scambio tra
inflazione e disoccupazione e questo scambio parve in quegli anni
essere capace di far ottenere ottimi risultati in termini di politica
occupazionale.
Gli avvenimenti degli anni '70 del secolo scorso, la compresenza
di inflazione e recessione mise in discussione le politiche economiche
fino allora seguite ed aprì un ampio dibattito economico tra gli
economisti, che è purtroppo ancora in corso.
Il punto centrale di tale dibattito è comprendere se, in presenza
di inflazione, abbiano ancora o meno un senso le politiche espansive

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della domanda, se esse abbiano qualche effetto sull'occupazione,


oppure, date le aspettative degli operatori economici esse non
finiscano con il sostenere l'aumento generale dei prezzi.
Occorre comprendere se le aspettative inflazionistiche sono
adattive o, cosiddette razionali.
Molto diverse sono le risposte a questi interrogativi forniti dalle
diverse teorie occupazionali.

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LE POLITICHE
DELL’OCCUPAZIONE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Le politiche dell’occupazione”

Indice

1. IL MERCATO DEL LAVORO ------------------------------------------------------------------ 3


2. IL SALARIO ----------------------------------------------------------------------------------------- 8
3. IL MERCATO DEL LAVORO IN EVOLUZIONE ---------------------------------------- 10
4. L’ETEROGENEITÀ DEL MERCATO DEL LAVORO ---------------------------------- 13

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Pag. 2 di 14
Giovanni Cannata “Le politiche dell’occupazione”

1. IL MERCATO DEL LAVORO

Il mercato del lavoro è una costruzione sociale che ha luogo nel


tempo in relazione all’evoluzione delle relative istituzioni.
Le istituzioni del mercato del lavoro sono costituite dall’insieme
di normative, di leggi, di assetti organizzativi che regolano il lavoro
quali il tasso di sindacalizzazione (e cioè il numero dei lavoratori
iscritti), la copertura dei lavoratori con la contrattazione (cioè il
numero dei lavoratori che ricevono il salario contrattuale), il livello di
centralizzazione della contrattazione sindacale, i salari minimi, il
cuneo fiscale, i regimi di protezione dell’occupazione. I meccanismi
istituzionali comprendono quindi le regole di assunzione e
licenziamento, le questioni della contrattazione collettiva, con
riferimento alla presenza di limiti salariali, la determinazione dei
salari, ma anche i sistemi di sostegno alla disoccupazione ivi compreso
le questioni del sussidio ai disoccupati.
Ciascuna di queste istituzioni ha un modo di espressione
differente rispetto alla segmentazione del mercato del lavoro e
tenendo conto delle fluttuazioni del mercato del lavoro stesso.
Il mercato del lavoro viene studiato dagli istituti di statistica
che al fine di analisi comparativa debbono concordare definizioni
condivise delle grandezze in gioco. L’ammontare delle forze di lavoro
di un paese comprende le persone occupate e quelle disoccupate.
Secondo l’ISTAT gli occupati comprendono le persone in età
compresa tra 15 anni e 74 anni che nella settimana di riferimento
hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che
preveda un corrispettivo monetario o in natura, ovvero hanno svolto
almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella

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Pag. 3 di 14
Giovanni Cannata “Le politiche dell’occupazione”

quale collaborano abitualmente. Ovviamente vengono conteggiate


anche le persone temporaneamente assenti dal lavoro (ad esempio,
per ferie o malattia).
Disoccupati o persone in cerca di occupazione: comprendono le
persone non occupate tra i 15 e i 74 anni che hanno effettuato almeno
un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che
precedono la settimana di riferimento e sono disponibili a lavorare (o
ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive.
Tra le stesse vanno incluse le persone che inizieranno un lavoro entro
tre mesi dalla settimana di riferimento e sarebbero disponibili a
lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane
successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro.
Gli inattivi comprendono le persone che non fanno parte delle
forze di lavoro, ovvero quelle non classificate come occupate o
disoccupate e più specificatamente persone che non cercano
attualmente un lavoro, ma sono disponibili a lavorare, quelle che
cercano lavoro ma non sono subito disponibili (queste sono le forze di
lavoro potenziali), alle quali vanno aggiunti coloro i quali lavorano con
orario di lavoro ridotto, ma dichiarano che avrebbero voluto e potuto
lavorare di più e sono i sottoccupati part time.
Le definizioni che sono state in precedenza fornite sono di
rilievo per la comprensione del mercato del lavoro come altrettanto
importante sono alcuni rapporti che ne derivano quali i tassi di
occupazione, di disoccupazione, di inattività e di attività che
descriveremo brevemente.
Il tasso di occupazione è costituito dal rapporto tra gli occupati
e la corrispondente popolazione di riferimento.

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Pag. 4 di 14
Giovanni Cannata “Le politiche dell’occupazione”

Il tasso di disoccupazione è il rapporto tra i disoccupati e le


corrispondenti forze di lavoro.
Il tasso di inattività è il rapporto tra gli inattivi e la
corrispondente popolazione di riferimento.
Il tasso di attività è il rapporto tra le forze di lavoro e la
corrispondente popolazione di riferimento.
Un fenomeno al quale occorre prestare attenzione è la
sottoccupazione consistente nella occupazione lavorativa con orario di
lavoro inferiore al normale ovvero a quello stabilito dai contratti di
lavoro nazionali o di categoria o anche qualificabile come l'impiego di
un numero di lavoratori inferiore a quello che consentirebbe la piena
utilizzazione degli impianti di produzione esistenti.
Un’analoga crescente attenzione deve essere dedicata alle
forme dell’occupazione atipica cioè tutte quelle modalità contrattuali
che non rientrano nelle forme standard previste dalla legislazione,
che non sono disciplinati dal Codice Civile ma rinviano all’accordo tra
le parti. Nel nostro paese in considerazione della cosiddetta Riforma
del lavoro Biagi nell’ottica di aderire alle esigenze di flessibilità del
mercato del lavoro. In questo senso la flessibilità prevista si riferisce
alla disponibilità da parte dei lavoratori di adeguarsi ad orari di
lavoro e mansioni richieste dagli specifici cicli produttivi.
Con il termine lavoro atipico ci si riferisce al lavoro a termine,
all’occupazione flessibile, ai contratti di inserimento lavorativo, ai
contratti a progetto, ai contratti a chiamata, al lavoro intermittente
ed ai contratti di lavoro accessorio, il contratto di apprendistato, il
contratto di lavoro in affitto.
Come si vede si tratta di una gamma di strumenti della quale
sarà fornita qualche breve descrizione per un rinvio alla letteratura

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Giovanni Cannata “Le politiche dell’occupazione”

specifica ma che è così variegata in relazione all’evoluzione del


mercato del lavoro, ma soprattutto del costo del lavoro.
Il contratto a termine fa riferimento ad un tempo determinato
di durata con possibilità di proroga limitata e giustificata da ragioni
soggettive e comunque possibile solo per la medesima attività.
Il contratto a progetto era stato previsto per limitare il ricorso
da parte dei datori di lavoro a collaborazioni coordinate e continuative
sotto le quali si nascondevano contratti di lavoro a tempo
indeterminato. In tale contratto il lavoratore fruisce per identificarsi
nella figura di un lavoratore autonomo finalizzato alla conclusione di
un progetto.
Va richiamato inoltre il lavoro a chiamata per il quale un
lavoratore con un’età inferiore a 24 anni o superiore a 55 o anche in
pensione si mette a disposizione di un lavoratore verso la chiamata di
un datore di lavoro per lo svolgimento di una prestazione a chiamata.
Con il contratto di inserimento viene formalizzato un contratto
a tempo determinato volto a realizzare un percorso di adattamento
delle competenze professionali di uno specifico lavoratore in uno
specifico contesto lavorativo.
Il contratto di somministrazione di lavoro ha sostituito il
cosiddetto contratto di lavoro interinale e consiste nella fornitura di
singoli lavoratori od loro squadra mentre il contratto di
somministrazione viene concluso tra la società somministratrice e
quella utilizzatrice, quello di lavoro è concluso tra il lavoratore e la
società di somministrazione.
Da ultimo si segnala il rapporto di lavoro occasionale accessorio
relativo a prestazioni occasionali per un importo massimo complessivo

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su base annua a pena della conversione automatica in rapporto di


natura subordinata e a tempo indeterminato.
La lunga esposizione precedente mette in luce la complessa
articolazione del mercato del lavoro che ovviamente va letto in
relazione all’evoluzione delle condizioni generali dell’economia.

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2. IL SALARIO

Il salario è la remunerazione del lavoro in genere, il prezzo del


lavoro, subordinato o indipendente, manuale o di concetto
Il termine salario in questo secondo senso ha quindi un
significato più ampio e comprende, oltre a quello dell’operaio, la paga
del bracciante, lo stipendio dell’impiegato, l’onorario del
professionista, il compenso per prestazioni artistiche e servizi
personali di qualsiasi tipo, e anche la parte del prodotto che va
attribuita all’imprenditore (industriale, commerciante, agricoltore
ecc.) per il lavoro da lui svolto nell’impresa
Qui si ritiene utile rammentare la differenza tra salario
nominale e salario reale dal punto di vista del datore di lavoro o del
lavoratore chiarendo preliminarmente che il salario reale è il salario
nominale depurato opportunamente per tener conto dell’inflazione e
cioè dividendo il salario normale per il livello dei prezzi. Il salario
reale ovviamente aumenterà al variare della produttività media del
lavoro.
La determinazione del salario è regolata nelle economie formali
dall’esistenza di vincoli normativi, dalle modalità di contrattazione,
dalle condizioni di simmetria informativa tra i contraenti.
Centrale nella politica del lavoro è la determinazione del
salario minimo.
A quest’ultimo riguardo si deve rammentare che secondo la
nostra Costituzione il salario del lavoratore deve essere non solo
proporzionale alla qualità ed alla quantità del lavoro svolto, ma deve
anche essere in grado di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia
un minimo sufficiente per esistenza libera e dignitosa. In Italia in

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ogni caso non esiste un minimo garantito e si deve sottolineare che si


stima che circa la metà dei lavoratori dipendenti è coperta da
condizioni contrattuali che fissano un minimo retributivo.

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3. IL MERCATO DEL LAVORO IN EVOLUZIONE

Ovviamente l’analisi dell’evoluzione del mercato del lavoro non


può non essere condotta con riferimento alle specifiche economie ed
alle loro condizioni nei differenti periodi storici. In modo chiaro si
deve affermare che non è possibile teorizzare la sussistenza di
relazioni sistematiche tra tasso di crescita della popolazione attiva e
tasso di disoccupazione. Analogamente non sussistono relazioni tra
processi di invecchiamento e riduzione della disoccupazione.
Certamente vanno messe in luce le condizioni di variabilità
geografica delle condizioni dell’occupazione per le differenze culturali
e istituzionali che esistono tra le varie aree considerate con
riferimento alle condizioni di genere, alla durata degli studi dei
lavoratori, alle loro esperienze studio-lavoro, alle differenti età del
pensionamento.
Si vuol fare qui, a titolo esemplificativo delle complessità di
analisi, una ricognizione dell’evoluzione delle caratteristiche del
mercato del lavoro italiano.
Soffermandoci agli anni successivi alla c.d. fase del boom
economico, gli anni ’60 sono anni di crescita ai quali la crisi energetica
della metà degli anni ’70 impone una brusca frenata per l’impatto sul
sistema produttivo che deve fronteggiare una significativa
ristrutturazione che a sua volta determina un calo dell’occupazione.
Gli anni ’80 sono caratterizzati da severi processi di
ristrutturazione aziendale connessi al mutamento dei prezzi delle
materie. Conseguentemente unita la domanda di lavoro con uno
spostamento dell’occupazione dell’industria ai servizi e la

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segmentazione territoriale del mercato stesso tra regioni con eccesso


di offerta e regioni con condizioni di cresi dell’offerta stessa.
Il mercato del lavoro registra problemi connessi alla dinamica
del costo del lavoro particolarmente onerosa ed alla crescita della
disoccupazione con effetti combinati di un incremento della domanda
di flessibilità del mercato auspicata per determinare una ripresa
economica ed un controllo della caduta degli investimenti.
Tuttavia dopo una certa fase reattiva di ripresa la crisi
monetaria del 1992 connessa alle vicende del marco tedesco
determina una nuova caduta dell’occupazione alla quale lo Stato, a
differenza di quanto fatto negli anni ’70 con il ricorso al sistema degli
ammortizzatori sociali, non riesce ad offrire utili elementi di
compensazione pubblici. Ma la crisi ha anche ripercussioni sul
sistema dei servizi per l’apertura dei mercati internazionali e la
globalizzazione.
La crisi successiva al 2008 presenta condizioni ancora diverse
registrando una perdita significativa di posti di lavoro con
conseguente aumento della disoccupazione, accompagnata da onerosi
effetti sul reddito dei lavoratori e delle famiglie. L’Italia vede
restringere la sua base produttiva ed il suo livello occupazionale.
Il ruolo dell’economia informale.
Per concludere questo paragrafo un cenno si deve alla
cosiddetta economia informale. L’economia informale è quella che fa
riferimento, dal punto di vista dell’organizzazione, a rapporti
personali o fiduciari che si richiamano a regole non scritte, a
tradizioni non controllabili come le leggi.

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I soggetti dell’economia informale che impattano sul mercato


del lavoro sono la famiglia, soprattutto nelle aree interne rurali o i
gruppi etnici, magari accomunati da problemi ed abitudini simili.
Questi soggetti impattano sul mercato del lavoro con attività
connesse alla produzione per autosufficienza, per il piccolo commercio,
artigianato attivando forme di suddivisione dei compiti, di aiuto
reciproco a lavoro.
È interessante segnalare che l’economia informale è parte di
quella che viene definita come l’economia non osservata, cioè quelle
attività economiche non soggette a rilevazioni della Pubblica
amministrazione.

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4. L’ETEROGENEITÀ DEL MERCATO DEL LAVORO

Alla luce delle tendenze nell’evoluzione del mercato ricordate in


precedenza e dell’evoluzione delle professioni e dei livelli di istruzione
si possono svolgere alcune considerazioni sull’evoluzione del mercato
del lavoro.
Certamente sono rilevanti le trasformazioni all’interno dei
settori e comparti produttivi in termini di evoluzione tecnologica per
le implicazioni che ne derivano sulla composizione della forza lavoro,
ma ancor più le variazioni per qualifiche.
Tutto ciò al netto delle variazioni determinate dalla evoluzione
classica della economia che vede l’agricoltura registrare un forte
declino, l’industria registrare modifiche dei metodi di impiego e
l’incalzante e talvolta pervasiva crescita dei servizi. Sono ovvie le
implicazioni sui tassi di disoccupazione e in modo analogo sono
significative le dinamiche di accesso e uscita dal mercato del lavoro
variano nel tempo anche se un approfondimento delle stesse è
necessario con riguardo alle segmentazioni del mercato del lavoro per
età, per genere, per livelli di istruzione.
Le dinamiche ora richiamate sollecitano la necessità di
identificare delle misure della creazione o distruzione di occupazione.
A tal fine si può calcolare un tasso di creazione netta di occupazione
quale saldo tra tasso di creazione e tasso di distruzione del lavoro, così
come è possibile creare una misura più complessa con il tasso di
riallocazione costituito dalla somma tra tasso di creazione e tasso di
distruzione. Quanto detto non deve portarci a trascurare il fatto che la
contrazione della disoccupazione non deriva soltanto dalla creazione
di nuovi posti di lavoro ma anche dai processi di adattamento dei

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disoccupati alle nuove opportunità ed anche al passaggio al segmento


del mercato del lavoro denominato di inattività costituito dal
pensionamento o dall’abbandono della ricerca del lavoro.
La valutazione della qualità del mercato del lavoro si fonda
sulla capacità di assicurare un valido incontro tra domanda e offerta
(così come sinteticamente espressa dalla curva di Beveridge) che
rappresenta la relazione tra tasso di posti vacanti e tasso di
disoccupazione.

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LE POLITICHE
OCCUPAZIONALI: IL
DIBATTITO INTORNO
ALLA CURVA DI PHILLIPS
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Le politiche occupazionali: il dibattito intorno
alla curva di Phillips”

Indice

1. LA CURVA DI PHILLIPS------------------------------------------------------------------------ 3
2. IL TRADE-OFF TRA INFLAZIONE E DISOCCUPAZIONE -------------------------- 15
3. LA POSIZIONE DEI MONETARISTI. LE CRITICHE DI MILTON FRIEDMAN AL
TRADE OFF INFLAZIONE – DISOCCUPAZIONE ---------------------------------------- 19

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Salvatore Della Corte “Le politiche occupazionali: il dibattito intorno
alla curva di Phillips”

1. LA CURVA DI PHILLIPS

Nel Novembre del 1958 venne pubblicato dalla Rivista


Economica un articolo del professore A. W. Phillips dal titolo "La
relazione tra la disoccupazione e il saggio di variazione del salario
monetario nel Regno Unito, 1861- 1957." Questo articolo era
destinato ad aprire un acceso dibattito. In esso l'autore partiva dalle
seguenti ipotesi: un aumento del saggio di variazione dei salari
monetari può essere spiegato innanzitutto dal livello della
disoccupazione. Il mercato del lavoro - dice Phillips - non funziona
come ogni altro mercato: i lavoratori riescono ad ottenere forti
incrementi dei salari quando la domanda di lavoro è alta e la
disoccupazione bassa, ma sono riluttanti a lavorare a salari minori di
quelli abituali quando invece la domanda di lavoro è bassa e la
disoccupazione alta, di modo che in queste fasi i salari nominali
diminuiscono lentamente. Questa è un'osservazione empirica che ci
dice che la relazione tra la disoccupazione e il saggio di variazione del
salario nominale è altamente non lineare. Un secondo fattore che
influenza gli aumenti dei salari è la domanda di lavoro che deriva da
fasi espansive dell'economia indipendentemente dal livello di
disoccupazione presente. Occorre cioè mettere nel dovuto conto il
ruolo della specializzazione dell'attività lavorativa in conseguenza
della quale può aversi, durante una fase di espansione, scarsezza di
certa manodopera, mentre vi è ancora un elevato livello complessivo
di disoccupazione. In tali condizioni i salari nominali iniziano ad
aumentare molto prima che sia stato raggiunto il livello di pieno
impiego.

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Un terzo fattore che agisce sui salari è il saggio di variazione


dei prezzi al dettaglio, i quali variano enormemente in seguito a
variazioni dei prezzi delle merci importate. Occorre però, secondo
Phillips, che la variazione dei prezzi all'importazione sia consistente,
perché questa possa, mediante l'azione degli aggiustamenti della
scala mobile, agire sui tassi di variazione dei salari nominali.
Fatte queste premesse Phillips si propose di verificare se
l'evidenza statistica avvalorasse l'ipotesi che il saggio di variazione
dei salari monetari in Gran Bretagna potesse essere spiegato dal
livello di disoccupazione e dal saggio di variazione della
disoccupazione, fatto eccezione che in quegli anni o in quelli
immediatamente consecutivi ad un notevole aumento dei prezzi dei
prodotti importati. Phillips studiò separatamente i periodi 1861-1913,
1913-1948 e 1948-1957.

La curva di Phillips nel periodo 1861-1913


Phillips disegnò un diagramma a dispersione del tasso di
variazione dei saggi di salario e della percentuale di disoccupazione
per gli anni di cui sopra. In questo periodo individuò 6 cicli economici
e mezzo abbastanza regolari con una durata media di circa otto anni.
Successivamente disegnò i diagrammi a dispersione per gli anni di
ciascun ciclo economico. Ogni punto di ogni diagramma rappresenta
un anno, essendo il tasso medio di variazione dei saggi salariali
monetari durante l'anno dato dalla scala dell'asse verticale e la
disoccupazione media durante l'anno dalla scala dell'asse orizzontale.
Il tasso di variazione dei saggi di salario monetario fu calcolato
dall'indice dei saggi di salario orario costruito da Phelps Brown e

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SheilaHopkins. Le cifre percentuali sulla disoccupazione furono quelle


calcolate dal Board of Trade e dal Ministero del Lavoro.
Da tutti i diagrammi si poteva ricavare che vi era una netta
tendenza del tasso di variazione dei saggi monetari salariali ad essere
alti quando la disoccupazione era bassa e ad essere bassi o negativi
quando la disoccupazione era alta. Vi era anche una chiara tendenza
del tasso di variazione dei saggi di salario monetario ad ogni livello di
disoccupazione a trovarsi al di sopra della media, a quel livello di
disoccupazione, quando l'occupazione era crescente, cioè durante le
fasi di espansione economica; e a trovarsi al disotto quando
l'occupazione diminuiva, cioè durante la fase recessiva del ciclo
economico.
In altre parole, la variazione dei salari monetari era
sufficientemente spiegata da quella che Phillips definiva la trazione
della domanda.
Nel primo diagramma a dispersione venivano indicati con delle
croci i valori medi del tasso di variazione dei saggi di salario
monetario e della disoccupazione di quegli anni in cui la
disoccupazione si situava rispettivamente tra 0 e 2, 2 e 3, 3 e 4, 4 e 5,
5 e 7, 7 e 11%, in altre parole ogni croce dava un'approssimazione del
tasso di variazione dei salari che sarebbe stato associato all'indicato
livello di disoccupazione se la disoccupazione si fosse mantenuta
costante a quel livello.
La curva che ebbe poi il destino di passare alla storia come la
curva di Phillips e di ingenerare molta confusione fu ottenuta
interpolando le croci suddette.
La forma dell'equazione scelta fu:
y +a= bxc

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dove y è il tasso di variazione dei saggi di salario e x è la


percentuale della disoccupazione. Le costanti b e c furono stimate con
il metodo dei minimi quadrati usando i valori di y e d x corrispondenti
alle croci ne1 quattro intervalli tra 0 e 5 per cento di disoccupazione.
La costante a fu scelta per tentativi, in modo da far passare la
curva il più vicino possibile alle due rimanenti croci negli intervalli
tra il 5 e l' 11% di disoccupazione.
L'equazione della curva interpolata è:
y + 0,900 = 9,638 x -1,394
Phillips passò poi ad osservare le variazioni dei salari nei
singoli anni in relazione alla curva trovata e tenendo conto dei cicli
economici individuati.
Egli osservò che gli aumenti salariali del 1862 non erano
sufficientemente spiegati dalla relazione con il livello e il saggio di
variazione della disoccupazione.
Gli parve però che l'aumento del 12,5 per cento dei prezzi
all'importazione tra il 1861 e il 1862, connesso con lo scoppio della
guerra civile americana, spiegasse bene perché gli aumenti salariali
furono connessi in quell'anno all'aumento del costo della vita piuttosto
che all'andamento della domanda di lavoro da parte degli
imprenditori.
La relazione tra il tasso di variazione dei saggi di salario e il
livello e il tasso di variazione della disoccupazione era
incontrovertibile e nettissima nel secondo ciclo economico considerato,
quello che andava dal 1868 al 1879.
La relazione non compariva nel terzo ciclo economico
considerato.

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Phillips notò che, se si sostituiva l'indice dei salari di Phelps


Brown e Sheila Hopkins con l'indice del Bowley, la relazione tipica
veniva verificata anche per questo periodo(1879-1886). Era dunque
intervenuto qualche fattore di disturbo nella costruzione dell'indice
per quegli anni.
La relazione era verificata nel ciclo economico che andava dal
1886 al1893. Nel ciclo economico 1893-1904 era osservabile un
rallentamento della crescita dei salari durante le fasi espansive del
ciclo economico, cioè una riduzione della variazione dei salari
nominali dovuta alla trazione da domanda. Phillips spiegò questo
rallentamento con l'eccezionale opposizione agli aumenti salariali che
si registrò dal 1894 al 1896, culminati nel conflitto industriale del
1897. Nel ciclo economico che comincia nel 1909 e termina nel 1913 la
relazione venne disturbata nel 1912. L'elemento di disturbo venne
questa volta individuato nello sciopero generale nelle miniere di
carbone. Operando una correzione sul valore della disoccupazione tale
da tener conto degli effetti distorsivi introdotti dallo sciopero, Phillips
dimostrò che la relazione era verificata anche per quell'anno. Per
concludere Phillips osservò che l'ampiezza delle oscillazioni ottenute
in ogni ciclo economico avevano avuto la tendenza a restringersi
indicando una riduzione della dipendenza del tasso di variazione dei
salari monetari dalla variazione del livello e del tasso di variazione
della disoccupazione.
Due gli parvero essere le spiegazioni possibili: - la prima gli era
stata suggerita dal professore Phelps Brown, il quale aveva
giustamente osservato che, prima della prima guerra mondiale, nel
settore carbonifero e dell'acciaio erano diffusi aggiustamenti
automatici di scala mobile, e questo aveva certamente rafforzato la

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dipendenza delle variazioni salariali dalle variazioni della


disoccupazione in tali settori.
Nei primi anni del periodo questi settori avrebbero avuto pesi
abbastanza grandi nell'indice dei salari ma, data la maggiore
ampiezza del repertorio statistico disponibile negli anni successivi, i
pesi di questi settori nell'indice si sarebbero ridotti.
In secondo luogo, secondo Phillips la diminuzione dell'ampiezza
delle oscillazioni scaturiva non da una riduzione nella dipendenza
delle variazioni dei salari dalle variazioni della disoccupazione,
quanto dall'introduzione di un ritardo temporale nella rispondenza
delle variazioni delle variabili considerate, che era causata
dall'estensione di contratti collettivi e dall'introduzione di procedure
di arbitrato e di conciliazione.
La curva di Phillips nel periodo 1913-1948
Dal 1913 fino al 1920 le serie usate furono una continuazione di
quelle usate per il periodo 1861-1913. Dal 1921 al 1948 furono usati
l'indice dei tassi di salario orario della fine di dicembre di ogni anno e
i dati sulla percentuale di disoccupazione, entrambi forniti dal
Ministero del Lavoro.
Per questi anni la relazione parve meno evidente, ma Phillips
dette una spiegazione molto convincente delle variazioni che
differivano da essa. Gli anni per i quali la relazione era meno evidente
erano ancora una volta quelli in cui si era verificato un aumento
sufficientemente rapido dei prezzi all'importazione, che aveva influito
sui salari nominali e aveva controbilanciato la tendenza della
crescente produttività a ridurre il costo della vita. In effetti, durante
la prima guerra mondiale la disoccupazione fu bassa e i tassi di
salario aumentarono rapidamente.

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Lo stesso accadde per il costo della vita; si diffusero accordi


automatici che agganciavano i salari al costo della vita. Per quegli
anni Phillips non seppe chiarire se gli adeguamenti al costo della vita
fossero un fattore reale di aumento dei tassi di salario o se quegli
aumenti si sarebbero verificati comunque come conseguenza dell'alta
domanda di lavoro e della trazione della domanda.
Nel 1920 vi fu poi un brusco aumento della disoccupazione dal
2,6 per cento al 17%, accompagnato da una caduta del 22,2% dei saggi
di salario nel 1921. La caduta dei salari poteva essere spiegata sia dal
rapido aumento della disoccupazione, sia dalla caduta del 12,8% nel
costo della vita. Phillips individuò proprio nella caduta dei prezzi la
causa principale della caduta del salario.
Dal 1925 al 1929 la disoccupazione rimase abbastanza stabile
tra il 9,7% e il 12,5%. La causa di questo persistere della
disoccupazione dipese dalla decisione di deprimere la domanda nel
tentativo di spingere verso il basso il livello dei prezzi per ristabilire il
gold standard alla parità prebellica.
Il livello medio di disoccupazione durante questi cinque anni fu
del l0,94% e il tasso medio di variazione dei saggi di salario fu di
meno 0,60% all'anno. Questi valori rispondevano appieno a quelli
presenti lungo la curva trovata per il periodo 1861-1913. Il ciclo 1929-
1937 segue il modulo solito dei cicli del periodo 1861-1913, anche se è
accompagnato da un più alto livello di disoccupazione.
In questo periodo l'autore mise in evidenza l'azione di un
secondo fattore sul saggio di variazione dei salari nominali: la
distribuzione geografica, estremamente diversificata, della
disoccupazione che, senza dubbio, aveva contribuito ad accelerare

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l'incremento dei salari durante la fase ascendente dell'attività


economica nel periodo '34-'37.
La curva di Phillips nel periodo 1948-1957
La curva a dispersione per questi anni fu costruita con dati
dedotti dal Ministry of Labour Gazette.
Nel '48 si registrò un rapido aumento dei prezzi al dettaglio,
causato dal rapido aumento dei prezzi all'importazione registrato
durante il 1947.
Gli aumenti salariali del'49 furono eccezionalmente bassi grazie
alla politica di restrizione salariale introdotta da Sir Strafford Cripps
nella primavera del 1948.
Gli aumenti dei prezzi all'importazione degli anni '50-'51 e '51-
'52 furono la causa degli aumenti dei prezzi al dettaglio che provocò
aumenti da scala mobile dei saggi di salario.
I punti relativi al periodo '53-'57 giacciono molto vicino alla
curva trovata del periodo 1861-1913, su uno stretto cappio intorno a
questa curva, la cui direzione è inversa rispetto alla direzione dei
cappi del periodo 1861-1913. Phillips notò che se si introduceva un
ritardo temporale di sette mesi nell'adeguamento dei salari al nuovo
livello e saggio di disoccupazione il nuovo diagramma a dispersione
che ne derivava mostrava ancora una volta l'andamento tipico della
curva trovata riferita al periodo 1861-1913. Per essere ancora più
chiaro l'autore costruì una tabella riportante sulla prima colonna le
variazioni percentuali dei saggi di salario monetario. Nella seconda
colonna pose le percentuali di cui ci si sarebbe aspettato che
salissero i saggi di salario, dato il livello di occupazione di ogni anno,
in conseguenza della gara tra gli imprenditori per accaparrarsi il
lavoro; queste percentuali rappresentano l'elemento della trazione da

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domanda negli aggiustamenti salariali. Nella terza colonna pose


l'elemento spinta da costi: l'aumento percentuale manifestato
dall'indice dei prezzi al minuto, nel mese in cui le trattative hanno
luogo, rispetto all'indice del mese corrispondente dell'anno passato.
Nella quarta ed ultima colonna venne posta la variazione dei prezzi
all'importazione. Phillips poté così facilmente dimostrare che
l'elemento costo nelle trattative salariali aveva avuto il sopravvento
negli anni '48, '49, '51, '52 e che dal '53 in poi era l'elemento trazione
da domanda ad essere stato rilevante: gli incrementi salariali erano
stati infatti uguali o leggermente inferiori a quelli della tabella
trazione della domanda. Phillips concludeva così il suo lavoro:
"Ignorando gli anni in cui i prezzi all'importazione salirono tanto
rapidamente da dare inizio ad una spirale prezzi salari, il che sembra
verificarsi molto raramente, tranne che come conseguenza della
guerra, e supponendo un aumento della produttività del 2 per cento
all'anno, dai dati della relazione trovata sembra dedursi che, se la
domanda fosse mantenuta a un valore tale da mantenere un livello
dei prezzi dei prodotti stabile, il connesso livello di disoccupazione
rimarrebbe un po' al disotto del 2 e l/2 per cento. Se, come si
suggerisce talvolta, la domanda fosse mantenuta a un livello salariale
stabile, il connesso livello di disoccupazione si manterrebbe sul 5 e l
12 per cento" l
Mi pare incontrovertibile da quanto sopraesposto
dettagliatamente che la curva di Phillips, nel suo lavoro originario
considera le variazioni del tasso di variazioni del salario alle
variazioni del tasso di variazione della disoccupazioni e considera le
prime dipendenti dalle seconde. Lungo la curva di Phillips un salario
monetario stabile coincide con una disoccupazione del 5 e 1/2 per

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cento. Una domanda effettiva capace di mantenere un livello di


disoccupazione inferiore, pari al 2 e 1/2 per cento, genererebbe un
incremento salariale medio annuo del 2%. Se si suppone esistere un
aumento della produttività del 2% all'anno, dice Phillips, l'aumento
dei salari non si ripercuoterebbe sui prezzi e non genererebbe alcun
tipo d'inflazione.
Un aumento della produttività rappresenta un incremento dei
guadagni da parte delle imprese. Questo incremento comporta uno
spostamento verso destra della curva del valore della produttività
marginale decrescente della singola impresa: sulla nuova curva di
domanda del lavoro l'impresa può occupare o un maggior numero di
operai o lo stesso numero dell'anno precedente ad un salario
leggermente superiore.
La relazione empirica di Phillips ci avverte che, prima ancora
di raggiungere la piena occupazione, la concorrenza tra imprenditori
per ottenere la manodopera migliore determinerà un aumento dei
salari nominali, piuttosto che un aumento dell'occupazione.
L'indicazione di Politica economica è quella di contenere
l'incremento dei salari, considerato inevitabile a causa della
concorrenza per la manodopera migliore, nei limiti degli incrementi
della produttività. Possiamo così concludere che la tematica del trade-
off tra inflazione e disoccupazione è del tutto estranea alla curva di
Phillips, almeno nelle intenzioni del suo autore. La teoria
occupazionale di Phillips è senza dubbio di matrice keynesiana: anche
secondo Phillips è la domanda globale che determina il livello di
produzione e di occupazione. Anche qui, però, non si può dire che
l'economista ignori il salario reale, tanto è vero che solo in un sistema
economico che assista ad un incremento della produttività pari o

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maggiore all'incremento dei salari nominali viene considerata


attuabile una politica economica che mantenga un livello di
disoccupazione del 2,5%.
Nella versione originaria del lavoro di Phillips la produttività
del lavoro e salario reale sono ben presenti, anche se come limite alla
domanda effettiva.
Non solo, in realtà la curva di Phillips dimostra che è
difficilmente perseguibile una disoccupazione inferiore a quel livello e
questo per una ragione economica sostanziale: la lotta che si verifica
durante le fasi espansive dell'economia tra gli imprenditori per
ottenere la manodopera più qualificata. Al di sotto del 2 e 1/2 per
cento della disoccupazione, l'incremento della produttività non è più
capace di compensare l'incremento che essa determina nei salari
nominali e inevitabilmente i prezzi aumenteranno.
Il contesto generale può inoltre essere complicato dall'aumento
dei prezzi delle merci importate e dalle fluttuazioni cicliche
dell'economia.
Quanto abbiamo detto sopra, è confermato anche dalla lettura
di altri articoli dello stesso autore.
Tralasciando un'analisi dettagliata delle sue opere, citeremo
soltanto alcuni passi di un articolo, pubblicato su Economica dal titolo
"Occupazione, inflazione e sviluppo".
A pag. 13 Phillips dice: "Io ho suggerito che un livello di
disoccupazione leggermente più alto di quello che abbiamo avuto m
questi ultimi pochi anni, un livello di disoccupazione di poco superiore
del 2%, potrebbe essere accettato come una condizione necessaria per
moderare la velocità dell'inflazione". In altre parole l'incremento dei
salari deve essere contenuto al livello medio annuo della produttività.

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Phillips, dopo aver scritto il suo lavoro, si difese dalle critiche


che venivano mosse al suo articolo, critiche proprie di un certo
keynesianesimo di moda dell'epoca. Le critiche principali erano due:
• la prima muoveva dalla constatazione che, se il tasso di
sviluppo fosse stato più rapido, i prezzi non sarebbero cresciuti così
rapidamente. Secondo molti critici di Phillips il tasso di sviluppo
dell'economia con una disoccupazione costante del 2% sarebbe stato
inferiore al tasso di sviluppo di un economia con una disoccupazione
inferiore. Phillips non condivideva questa critica perché riteneva che
solo il livello degli investimenti e non quello dell'occupazione influiva
sul tasso di sviluppo dell'economia.
• Una seconda critica affermava che le politiche economiche
meno espansive di quelle precedentemente attuate avrebbero
sfavorito gli investimenti delle imprese. Anche questa seconda critica
non era condivisa perché, secondo Phillips, era solo il saggio
d'interesse d'equilibrio a determinare il livello degli investimenti. In
conclusione, secondo Phillips, la politica economica non doveva
perseguire l'obiettivo della piena occupazione, praticamente
irraggiungibile, ma quello di prezzi sufficientemente costanti anche se
accompagnati da una disoccupazione del 2 e l/2 per cento .

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2. IL TRADE-OFF TRA INFLAZIONE E


DISOCCUPAZIONE

La curva di Phillips ottenne subito un notevole successo


accademico: ciò era dovuto al fatto che la teoria imperante nelle
università all'epoca era quella keynesiana e la curva di Phillips era in
grado di dare una spiegazione dell'andamento dei salari nominali.
Le pagine di Keynes a riguardo risultavano a1 più oscure e la
relazione statistica di Phillips sembrava proprio colmare una lacuna
della Teoria Generale. Diversi studiosi si cimentarono a verificare la
validità della relazione trovata nei diversi paesi del mondo: non ci
soffermeremo a studiare queste analisi.
Sottolineeremo che molti studiosi sostituirono alla originaria
relazione tra il saggio di variazione dei salari nominali e i livelli di
disoccupazione, una relazione che associava ai livelli di
disoccupazione i livelli e i saggi di variazione dell'inflazione .
Il fenomeno dell'inflazione cominciava a farsi notare.
Il passaggio dall'originaria relazione a quella tra saggio di
veniva giustificato dal punto di vista teorico con l'introduzione del
mark-up.
La teoria del mark-up suppone che le imprese fissino il prezzo
dei prodotti applicando un certo margine di profitto ai costi,
comprendendo nei costi i salari pagati ai lavoratori.
Il salario, anzi, rappresenta la voce principale dal lato dei costi.
La curva di Phillips divenne, allora la relazione empirica che
dimostrava l'esistenza di un trade-off tra inflazione e disoccupazione.
In altre parole questa relazione trovata dimostrava che
l'obiettivo della piena occupazione era perseguibile solo se

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accompagnato da un processo inflazionistico. Data la priorità che si


dava all'epoca al perseguimento della piena occupazione questo
equivaleva ad affermare che l'inflazione era un buono stimolo
all'economia e che non si potevano perseguire entrambi gli obiettivi:
un alto livello dell'occupazione e un livello dei prezzi costanti.
Dal punto di vista della teoria economica il passaggio non è del
tutto convincente: Phillips teneva in grande considerazione gli
incrementi della produttività del lavoro e il contesto competitivo delle
imprese proprio al fine di evitare che gli incrementi del salario
nominale facessero aumentare i prezzi.
Da un punto di vista storico, è facile invece comprendere le
ragioni che portarono a questa trasformazione del significato della
curva. Di fronte al manifestarsi del fenomeno dell'inflazione, il trade-
off forniva una specie di giustificazione economica del suo verificarsi.
L'inflazione, allora, in questo contesto teorico, diveniva il
prezzo da pagare per raggiungere la piena occupazione, oppure, al
contrario occorreva un sacrificio in termini di occupazione per
contrastare attivamente l'inflazione.
Il verificarsi congiunto di un aumento dell'inflazione e della
disoccupazione negli anni '70 sconfessò la validità del trade-off tra le
due variabili. Questo dette vita ad una reazione al sistema
keynesiano.
Nella figura sottostante riportiamo la versione originaria della
curva di Phillips.

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Figura 1

Nella successiva figura riportiamo la versione modificata della


curva di Phillips, con il trade off tra inflazione e occupazione.

Lungo l'originaria curva di Phillips, una domanda effettiva


capace di mantenere un livello di disoccupazione pari al 2 e l/2 per
cento, genera un incremento salariale medio annuo del 2 per cento. Se
si suppone esistere un aumento della produttività annuo del 2 per
cento la politica espansiva della domanda non genererà non
inflazione.
Affinché la politica espansiva della domanda non generi
inflazione è necessario che l'incremento dei salari nominali sia
contenuto al livello medio annuo della produttività.

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Figura 2

Nella versione successiva della cosiddetta curva di Phillips non


si studia più la variazione dei salari nominali al variare della
disoccupazione, ma si mette in relazione l'inflazione con la
disoccupazione. Si giunge alla convinzione che la disoccupazione può
essere scambiata con un certo livello di inflazione e si costruisce un
modello di politica occupazionale costruito su questo assunto, molto
distante dalla relazione statistica studiata da Phillips.

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3. LA POSIZIONE DEI MONETARISTI. LE


CRITICHE DI MILTON FRIEDMAN AL TRADE
OFF INFLAZIONE – DISOCCUPAZIONE

"Il dibattito sulla curva di Phillips è iniziato nel 1926; ripreso


su basi erronee circa trenta anni più tardi è ora ritornato alla corretta
impostazione. Ci sono voluti circa cinquanta anni per completare il
ciclo. Una dimostrazione di come lo sviluppo tecnologico abbia
accelerato sia il processo di creazione che quello di dissipazione
dell'ignoranza" .
La scelta del 1926 non è casuale: in quell'anno, Irving Fisher
pubblicò nella "International Labour Review" un articolo intitolato "A
Statistical Relation between Unemployment and Price Changes" .
Fischer era rimasto colpito dall'osservazione che l'inflazione tendeva
ad essere associata a bassi livelli di disoccupazione e la deflazione ad
alti livelli di disoccupazione. Egli stimò dunque la relazione statistica
esistente tra queste due variabili: l'inflazione e la disoccupazione. Nel
suo ragionamento era il tasso di variazione dei prezzi che dava inizio
al processo. In altre parole la variabile indipendente era costituita
dall'inflazione.
Si supponga che si verifichi, per qualche ragione un tasso di
crescita della spesa maggiore di quello previsto. I produttori lo
interpreteranno come un aumento della domanda reale dei loro
prodotti. Fischer sostiene che, in prima istanza, ciascun produttore
sarebbe tentato di espandere la propria produzione ed anche di
lasciare crescere i prezzi. Quindi, all'inizio, una parte rilevante, o la
maggior parte dell'aumento non previsto della domanda nominale
sarebbe assorbita da incrementi dell'occupazione e della produzione

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piuttosto che da incrementi dei prezzi. Quando, invece, per qualche


ragione la spesa diminuisce, ciò genera da un lato un rallentamento
della produzione e una crescita della disoccupazione, dall'altra un

Figura 3 - Curva di Fisher –

Secondo Friedman, trenta anni più tardi Phillips aveva


studiato la stessa relazione di Fischer, ma era stato condizionato dalla
generale atmosfera intellettuale generata dalla rivoluzione
keynesiana ed aveva quindi erroneamente invertito l'ordine di
causalità tra le due variabili: in Phillips, infatti, è il livello e il tasso di
variazione dell'occupazione la variabile indipendente che mette in
moto il processo.

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L'errore di Phillips era consistito nell'invertire l'ordine di


causalità tra le due variabili.
Ma come era potuto accadere questo errore?
Soprattutto perché Phillips, secondo Friedman, aveva confuso i
salari nominali con i salari reali.
Friedman nota inoltre che non tutti i tentativi di verificare la
relazione trovata erano stati felici. Anzi la maggior parte delle
ricerche empiriche avevano dimostrato l'incapacità della curva di
Phillips di avere una qualche validità per altri gruppi di dati.
I fallimenti nelle stime empiriche hanno portato molti
economisti ad un tentativo di salvare l'approccio basato sulla
cosiddetta curva di Phillips distinguendo una curva di breve da una
curva di lungo periodo. La nuova curva di Phillips è stata così
costruita: sulle ordinate è stato posto il salario reale anticipato; sulle
ascisse i livelli di disoccupazione.
Se si suppone che le previsioni sul livello dei prezzi mutino
lentamente, e se si riesce a conoscere con poco ritardo la rapida
variazione del salario nominale, è possibile ritornare, per brevi
periodi, alla formulazione originale di Phillips.
In questo contesto, i prezzi correnti si potrebbero aggiustare
con la stessa o maggiore rapidità dei salari. In altre parole i salari
reali correnti si potrebbero muovere in direzione opposta a quelli
nominali, mentre i salari reali anticipati si muoveranno nella stessa
direzione. Nel breve periodo la disoccupazione diminuisce perché i
salari reali correnti diminuiscono. E' l'illusione monetaria a
consentire il funzionamento del meccanismo.

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In termini formali la relazione espressa dalla curva di Phillips è:

(1/W ∙ dW/dt) - (1/P ∙ d P/ dt) = f (U)

dove W è il salario nominale, P è il livello generale dei prezzi e


U è la disoccupazione.
Rappresentiamo questa versione della curva di Phillips nella
figura 3

Figura 4

Possiamo definire la precedente curva come la curva di Phillips


di breve periodo
Supponiamo che la domanda aggregata cresca in seguito ad
un'espansione economica. L'aumento della domanda aggregata

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determina un incremento del saggio di variazione dei prezzi e dei


salari al tasso del 3 per cento annuo. I lavoratori non si accorgono del
contemporaneo incremento dei prezzi e interpretano l'incremento dei
salari nominali come una crescita dei salari reali.
Sono dunque disposti ad offrire più lavoro. Sull'asse delle
ordinate poniamo il salario reale anticipato che è dato da (1/W ∙
dW/dt) - (1/P ∙ d P/ dt) = f (U). La disoccupazione nel breve periodo
diminuisce lungo la curva. Gli imprenditori occupano più lavoratori
perché si accorgono che i salari reali correnti diminuiscono. Nel caso
opposto, la diminuzione della domanda aggregata comporta un
aumento della disoccupazione lungo la curva.
Il ruolo delle aspettative: le aspettative adattive.
Milton Friedman propone un ulteriore revisione della curva di
Phillips.
Sull'asse verticale riportata il tasso di variazione dei salari
nominali, e sull'asse orizzontale i valori della disoccupazione.
Le aspettative sui prezzi vengono incorporate tracciando una
serie di curve tra loro differenti, una per ogni tasso anticipato di
crescita dei salari. Algebricamente la relazione espressa dalla curva
di Phillips può essere scritta in una forma più generale:

(1/W ∙ dW/dt) = f [ U (1/P ∙ d P/ dt)]

La curva indica una situazione molto più simile a quella di


Fischer che a quella di Phillips.
Supponiamo che da una situazione d'equilibrio, con prezzi e
salari costanti un'espansione economica faccia crescere la domanda

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aggregata nominale, la quale, a sua volta, determini una crescita dei


prezzi e dei salari al tasso del 3% annuo.
Inizialmente, i lavoratori interpreteranno questo fatto come
una crescita dei salari reali, dal momento che essi prevedono ancora
prezzi costanti, e quindi vorranno offrire più lavoro.
I datori di lavoro possono formarsi, riguardo al livello generale
dei prezzi, le stesse previsioni dei lavoratori, ma essi sono più
direttamente preoccupati e molto meglio informati sul prezzo dei beni
che producono.
Occorre allora distinguere due momenti:
• primo momento: dapprima una crescita della domanda e del
prezzo di un bene da essi prodotto sarà interpretata come una crescita
del suo prezzo relativo, e ciò implica una caduta del salario reale che
essi devono pagare, misurata in termini di prodotto. Essi
assumeranno più lavoro perché parrà loro di aumentare in questo
modo i loro profitti. Il risultato congiunto è un aumento
dell'occupazione e un corrispondente aumento dell'inflazione;
• secondo momento: ma, aggiunge Friedman, "Con il passare
del tempo, tuttavia, i datori di lavoro e i lavoratori riconoscono che, a
crescere sono i prezzi in generale. Come ha detto Abraham Lincoln, si
può qualche volta ingannare tutti; si può sempre ingannare qualcuno,
ma non si può sempre ingannare tutti. l risultato è che essi
modificano verso L'alto le loro stime sul tasso di inflazione" . La curva
di Phillips di breve periodo allora si sposta verso l'alto. Quando il
tasso anticipato di variazione dei prezzi uguaglia il tasso d'inflazione
effettivo, la disoccupazione torna al suo livello originario, o poco al di
sotto di esso.

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Figura 5

Nella figura 5, un'inflazione del 3% comporta un aumento


dell'occupazione quando il tasso anticipato di variazione dei prezzi è
uguale a O (curva delle aspettative 1). La disoccupazione passa allora
dal punto F al punto E. Con il passare del tempo i lavoratori adattano
il tasso anticipato di variazione dei prezzi al tasso d'inflazione
effettivo. La curva di Phillips di breve periodo si sposterà verso l'alto e
il nuovo punto di equilibrio sarà dato dal punto G sulla curva di
Phillips di breve periodo in cui il tasso anticipato di inflazione
uguaglia il tasso corrente. E' necessario stabilire dove si posizionerà
la curva di Phillips di breve periodo. Nel caso disegnato nella figura 4,
la nuova curva di Phillips, nel qual caso la curva di lungo periodo
sarebbe comunque leggermente inclinata negativamente, come la
curva LL della figura 5.
Se, invece, la relazione di Phillips di breve periodo che
incorpora le aspettative inflazionistiche è espressa dalla curva
rappresentata nella figura 6, la curva di lungo periodo è verticale.

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Figura 6

Ecco emergere il ruolo delle aspettative inflazionistiche nel


permettere o non permettere il trade-off tra inflazione e
disoccupazione.
E' facile allora intuire che il trade-off esiste nel breve periodo e
non esiste nel lungo periodo. Il giudizio di Friedman sulla cosiddetta
curva di Phillips è allora che essa è ingannevole perché sovrastima il
trade-off di breve periodo. L'opinione di Friedman è che il trade-off di
lungo periodo sia zero. Questa convinzione è stata espressa per la
prima volta da Friedman nell'indirizzo presidenziale all'American
Economie Association del 1967.
Quasi contemporaneamente, il professar E.S. Phelps avanzò la
stessa ipotesi, sebbene sulla base di motivazioni diverse da quelle di
Friedman.

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L'ipotesi di questi economisti è stata chiamata ipotesi


accelerazionista o del tasso naturale.
Entrambi gli studiosi, concordando sull'ipotesi che la curva di
lungo periodo sia verticale, finiscono con l'affermare che solo
un'inflazione accelerata può permettere una riduzione della
disoccupazione al disotto del suo livello strutturale.
Adattandosi di volta in volta le aspettative al tasso di inflazione
realizzato, occorre accelerare l'inflazione per evitare un ritorno
dell'occupazione al livello originario. Questo livello d'occupazione,
coerente con le condizioni esistenti nel mercato del lavoro, fu
chiamato da Friedman tasso naturale di disoccupazione.
Molti economisti criticarono Friedman perché interpretarono il
tasso naturale di disoccupazione come il livello minimo non
eliminabile della disoccupazione. Niente è più sbagliato di questa
interpretazione: in realtà il tasso naturale di disoccupazione
rappresenta quel livello di disoccupazione che è ineliminabile
attraverso le variabili macroeconomiche, ma che può essere rimosso
riducendo le frizioni o gli elementi che impediscono, ad avviso di
Friedman, un efficiente funzionamento del mercato del lavoro.
Afferma Friedman: "Lo scopo del concetto è quello di separare
l'aspetto monetario dell'occupazione da quello non monetario
precisamente lo stesso scopo che Wicksell aveva quando utilizzava la
parola naturale in connessione con il tasso d'interesse. ".
Contenuto 4 Le implicazioni per la politica economica: le
differenze tra Friedman e Hayek.
La conseguenza delle osservazioni di Friedman è che non si può
raggiungere un obiettivo occupazionale diverso dal tasso naturale
attraverso una qualsiasi regola fissa.

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Il solo modo di raggiungere un'occupazione maggiore del tasso


naturale di occupazione è essere sempre più abili degli agenti
economici, predisponendo continuamente nuove regole e adattandole
per un periodo di tempo, fino a quando gli operatori economici
riusciranno ad individuarle. Allora le autorità dovranno inventare
una nuova serie di regole. Il giudizio riguardo ad una tale politica
economica è, però, negativo. Secondo Friedman il migliore approccio
alla politica economica consiste nel cooperare con gli agenti economici,
informandoli sulle politiche che si intende attuare, piuttosto che nel
cercare di ingannarli. In sostanza "ci si inganna se si pensa di poter
ingannare gli altri" .
Friedman è uno dei massimi esponenti del pensiero
monetarista. In sostanza, secondo questa scuola economica, le
fluttuazioni cicliche e parte rilevante della storia economica sono
riconducibili all'andamento dell'offerta di moneta.
Friedman ha dato una magistrale spiegazione dei fenomeni
storici in termini monetari nella sua monumentale "Storia Monetaria
degli Stati Uniti d'America dal 1867 al 1960".
Interessanti sono le manovre di politica economica che
Friedman ritiene utili per combattere l'inflazione: tra queste
l'indicizzazione dei contratti di lavoro.
Il problema dell'indicizzazione, è un tema ricorrente nel
dibattito di politica economica e ogni tanto torna di attualità, dal
momento che spesso le associazioni degli industriali tornano
ciclicamente a richiedere l'annullamento della scala mobile.
La posizione a riguardo di Friedman è molto chiara e merita di
essere riferita.

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alla curva di Phillips”

Secondo Milton Friedman è necessario attuare e diffondere


l'indicizzazione delle tasse, del debito pubblico e di tutti contratti
economici e questo al fine di contrastare meglio l'inflazione e
migliorare le istituzioni. Tutti gli economisti conoscono il fenomeno
del Fiscal-drag: si tratta di un fenomeno dovuto alla progressività
delle imposte. La progressività delle imposte viene applicata ai redditi
monetari, per cui i contribuenti, a causa del!' inflazione, pagano
un'imposta maggiore, mentre, in realtà, all'aumento del reddito
monetario non corrisponde un aumento del potere d'acquisto.
E' chiaro che l'inflazione, se la tassazione non viene indicizzata,
permette di aumentare il gettito fiscale, senza approvare il nuovo
livello impositivo con una legge.
L'indicizzazione della tassazione rappresenta una necessità
prioritaria per migliorare la struttura politica, per porre i legislatori
di fronte alle loro responsabilità, in ordine sia all'imposizione fiscale
sia alle spese che deliberano. Tecnicamente ciò si dovrebbe
raggiungere moltiplicando gli scaglioni di reddito per l'indice dei
prezzi. Adeguando la base per il calcolo dei guadagni sui capitali al
mutamento dei prezzi tra periodo di acquisto e di vendita. Calcolando
in modo simile l'ammortamento e il valore delle scorte.
Secondo Friedman è necessaria anche l'indicizzazione dei titoli
di Stato. Molti economisti ritengono che emettere titoli pubblici
indicizzati non sarebbe una buona cosa perché eliminerebbero
dall'economia un elemento antinflazionistico; con l'indicizzazione,
l'inflazione aggiunge altre spese a carico del bilancio, mentre senza
indicizzazione le spese rimangono nominalmente le stesse e le entrate
fiscali aumentano. Secondo questi economisti, i titoli pubblici non
indicizzati svolgono un'importante funzione antinflazionistica.

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Friedman non condivide questa impostazione perché è convinto,


e non a torto, che i legislatori spendano sempre tutto il gettito che il
sistema fiscale riesce a determinare, e aggiunge. "più un bel po"
L'argomentazione dei suoi critici viene dunque a cadere perché, 111
fin dei conti, l'aumento delle entrate fiscali determinerà, secondo
Friedman, un corrispondente aumento della spesa.
Friedman aggiunge "il solo modo effettivo per imporre una
disciplina fiscale è ridurre l'entrata" Per questa ragione Friedman è
favorevole ad una politica di sgravi fiscali. L'indicizzazione dei titoli
pubblici è un atto necessario per responsabilizzare la spesa pubblica.
La spesa addizionale che ne seguirà è molto meno dannosa sotto il
profilo politico delle spese alternative alle quali si sostituisce. Per il
resto Friedman è favorevole alla più ampia estensione possibile degli
accordi di indicizzazione che è compito del governo diffondere in tutti i
contratti tra privati: l'indicizzazione dovrebbe attuarsi
volontariamente per l'interesse spontaneo del pubblico. Per i contratti
di lavoro, l'obiezione maggiore che viene sollevata è che
l'indicizzazione impedirebbe la riduzione dei salari reali, quando lo
stato dell'economia lo rendesse necessario. Friedman ha nettamente
rifiutato questa critica: "Non è esatto, perché l'indicizzazione è un
procedimento inteso ad adeguare prima di una nuova contrattazione
quanto si è in precedenza convenuto. Un nuovo contratto può essere
negoziato ad un livello più alto dei salari reali, o a un livello più basso
( .... ). L'indicizzazione fa semplicemente in modo che, qualunque sia il
contenuto dell'accordo raggiunto, le due parti l'otterranno realmente.
E' solo un modo di mettere in grado la gente di impegnarsi in
contratti reali" . In breve, per Friedman, non esiste un'inflazione da
costi, tutte le inflazione essendo dovute ad un eccesso della domanda.

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Quindi i sindacati non sono la causa dell'inflazione, mentre è causa di


inflazione la cattiva politica economica perseguita dai politici. In
questo contesto assume priorità la lotta contro l'uso indebito della
politica monetaria e di bilancio.
La posizione di Hayek
Ancora più approfondito sarà il suo studio sulla situazione
economica nel libro "Piena occupazione ad ogni costo" .Secondo
Hayek, la responsabilità dell'inflazione mondiale a cui si assisteva
negli anni 70 era interamente della teoria economica di Lord Keynes.
Era stato per espresso consiglio degli economisti keynesiani che
i governi di ogni parte del mondo avevano finanziato una crescente
frazione delle loro spese creando moneta.
Questo cattivo consiglio era stato dato in buona fede, nella
convinzione che ogni disoccupazione consistente è dovuta ad
un'insufficienza della domanda aggregata ed è ovviabile con un
aumento di quest'ultima. Questa opinione fu accettata facilmente
perché, dice Hayek, "è in effetti vero che parte dell'occupazione è
dovuta a questa causa e che un aumento nella domanda aggregata
porta nella maggior parte delle situazioni ad un temporaneo aumento
dell'occupazione" .
Ma non è vero, dice Hayek, che tutta la disoccupazione è dovuta
ad insufficienza della domanda totale, e, quel che è peggio, gran parte
dell'occupazione creata all'inizio dall'aumento della domanda
aggregata non potrebbe essere mantenuta se la domanda resta al
livello raggiunto, ma solo con un continuo aumento di quest'ultima,
come la teoria accelerazionista ha ben dimostrato.
Un'altra convinzione sbagliata, diffusa tra la maggior parte
degli economisti, è, secondo Hayek, che l'unica conseguenza

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dell'inflazione sia una certa redistribuzione dei redditi, mentre la


disoccupazione dli fatto significhi riduzione del reddito reale
complessivo.
In realtà il processo inflazionistico, avverte Hayek, mina
l'intera struttura dell'economia alle fondamenta e le dà un carattere
distorto che presto o tardi provoca un fenomeno di disoccupazione più
ampio di quello che si intendeva evitare.
Dice Hayek: "Questo avviene in quanto un numero sempre più
vasto di lavoratori viene attirato in impieghi che dipendono da
un'inflazione in continua ascesa. Il risultato è una situazione di
instabilità crescente in cui una parte sempre più ampia
dell'occupazione si troverà a dipendere dal processo inflazionistico" .
Questo tipo di disoccupazione, che di fatto dipende
dall'inflazione può essere curata solo con lo spostamento dei lavoratori
dai settori con eccesso d'offerta ai settori che ne sono carenti.
Hayek condivide l'affermazione di Friedman che l'inflazione è
dovuta ad un eccesso della domanda. "Tuttavia - aggiunge - i
sindacati possono far pressione su di un governo impegnato in una
politica keynesiana di pieno impiego perché crei inflazione allo scopo
di impedire la disoccupazione che la loro azione potrebbe altrimenti
causare"18.
Dunque, secondo Hayek esiste un ruolo dei sindacati nella
creazione dell'inflazione, anche se esso assume rilievo solo quando il
governo è impegnato in una politica di difesa dell'occupazione. Hayek
non condivide l'idea di Friedman che l'indicizzazione sia
raccomandabile per contrastare l'inflazione.
L'indicizzazione, a suo avviso, non rimuove la causa vera
dell'inflazione, che risiede nel tentativo della gente di comperare più

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di quanto ci sia sul mercato e la sua insistenza perché le venga dato


abbastanza denaro da permetterle di comperare ai prezzi correnti
quel che desidera procurarsi. Il circolo vizioso, ad avviso di Hayek,
può rompersi solo se ci si accontenta di un potere d'acquisto reale più
basso di quello che è stato vanamente inseguito a lungo.
L'indicizzazione, a suo avviso, lungi dal conseguire questo
effetto potrebbe perfino rendere inevitabile una continua inflazione.

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LE ASPETTATIVE
RAZIONALI E LA NUOVA
MACROECONOMIA
CLASSICA
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Le aspettative razionali e la nuova
macroeconomia classica”

Indice

1. LE ASPETTATIVE RAZIONALI --------------------------------------------------------------- 3


2. LA CRITICA DI LUCAS ALL'IPOTESI DELLE ASPETTATIVE ADATTIVE ---- 13
3. LA NUOVA MACROECONOMIA CLASSICA -------------------------------------------- 17
4. LE ASPETTATIVE RAZIONALI E IL CICLO ECONOMICO------------------------- 24

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1. LE ASPETTATIVE RAZIONALI

Il primo studioso ad aver introdotto l'ipotesi di


aspettative razionali nello studio dei movimenti dei prezzi è stato
John Muth in un articolo pubblicato su "Econometrica" nel luglio
1961, dal titolo "Le aspettative razionali e la teoria dei movimenti dei
prezzi". Le sue osservazioni sono state in seguito applicate alla
relazione inversa osservata tra livelli dell'inflazione e della
disoccupazione dall'economista R.E. Lucas in una serie di studi .
L'articolo di Muth prende le mosse dall'unanime
riconoscimento del ruolo delle aspettative nella spiegazione delle
variazioni dei livelli dell'attività economica. Nella sintesi neoclassica,
lo stato delle aspettative, influendo sulla posizione delle curve IS e
LM, determina il livello della domanda effettiva e di conseguenza i
livelli del reddito reale e dell'occupazione.
Al momento in cui Muth scrisse il suo articolo, dunque, era
diffusa la drastica convinzione che non fosse possibile costruire una
teoria delle aspettative e che l'unica caratteristica che si potesse
mettere in evidenza di esse fosse la loro aleatorietà. Nessuna teoria, si
riteneva, avrebbe mai potuto dare una spiegazione esauriente circa il
modo in cui le aspettative variano e si formano.
L'ipotesi delle aspettative razionali esclude che gli agenti
possano compiere errori sistematici di previsione. Essa non giunge
però ad affermare che i valori futuri delle variabili possano sempre
essere accuratamente previsti, perché in tal caso l'aspettativa
razionale coinciderebbe con la perfetta previsione di qualsiasi valore
futuro.

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Il mondo reale è invece segnato dalla presenza dell'incertezza


per due ragioni:
• la difficoltà di accedere a tutte le informazioni;
• la difficoltà di conoscere con assoluta precisione le
reazioni di tutti gli altri operatori economici.
Da questo punto di vista qualsiasi variabile economica si
presenta agli osservatori come dotata, nel tempo, di un andamento in
parte casuale. Rispetto all'andamento di questa variabile casuale,
l'ipotesi delle aspettative razionali afferma che, se da un lato non è
possibile prevedere con precisione l'effettivo andamento della
variabile casuale oggetto della previsione, è invece possibile prevedere
esattamente il suo trend, la sua tendenza centrale.
Per tale ragione nell'economia reale, caratterizzata
dall'incertezza e dall'incompletezza dell'informazione, l'aspettativa
razionale coincide con l'aspettativa matematica condizionata e
assume da essa alcune proprietà che è bene evidenziare. L'espressione
formale del fatto che l'aspettativa matematica è uguale alla tendenza
centrale di una distribuzione di probabilità è la seguente:
n
Aspettativa matematica = E (X) = Σ Pi Xi
i=l
Dove Pi ... Pn rappresentano le probabilità assegnate al
verificarsi degli eventi Xi ... Xn.
L'aspettativa matematica condizionata non è altro che
l'aspettativa matematica soggetta a un ben specificato insieme di
informazioni.

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In termini formali:
n
Aspettativa matematica condizionata = E (X/I) = Σ Pi Xi / I
i=l
dove I rappresenta l'insieme di informazioni utilizzato da cui
dipende la distribuzione di probabilità.
Una prima proprietà dell'aspettativa matematica condizionata
afferma che, sulla base dell'informazione utilizzata nel periodo
corrente, gli agenti non hanno alcun elemento per prevedere come in
futuro varieranno le loro aspettative circa i valori della variabile
oggetto della previsione. Di conseguenza l'aspettativa razionale
formulata al tempo t costituisce la miglior stima del valore futuro di
una variabile al tempo t + i + J. Se, infatti, gli agenti conoscessero, al
tempo t, come varieranno le loro aspettative al tempo t + i del valore
della variabile al tempo t + i + J, e non usassero tale informazione,
commetterebbero un errore consapevole di previsione, escluso
dall'ipotesi di un uso efficiente dell'informazione. Tale proprietà
significa che l'ipotesi delle aspettative razionali è una teoria che
concerne la formazione delle aspettative correnti, ma non costituisce
una teoria delle future revisioni delle aspettative. In termini formali:
E {[E (X t + i +j/ I] / I t} = E (X t+i+j/ I t)
Una seconda proprietà afferma che nessun sottoinsieme
dell'insieme di informazioni utilizzato può essere usato per migliorare
la previsione. Tale proprietà esclude che i soli trascorsi valori della
variabile oggetto della previsione, e quindi ipotesi di formazione delle
aspettative di tipo estrapolativo, possano fornire migliori previsioni di
quelle ricavate dall'applicazione dell'ipotesi delle aspettative
razionali.

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In termini formali:
E { [X t+i - E (X t+i)/I t]/S t = O
dove S è il sottoinsieme usato per formulare l'aspettativa del
possibile errore di previsione.
Una terza proprietà afferma che l'aspettativa matematica
condizionata degli errori di previsione è uguale a zero. Tale proprietà
rende particolarmente esplicita l'identificazione tra previsione
razionale e certezza e rileva che l'ipotesi delle aspettative razionali è
l'ipotesi che minimizza l'errore di previsione.
In termini formali:
E (u t + i /It) = 0
dove il simbolo u rappresenta l'errore di previsione.
Una quarta proprietà afferma che gli errori di previsione non
sono serialmente correlati.
In termini formali:
E (X t+i / I t) = E (X t+i / I t Ut-i ... U t-n)
Si assume inoltre che gli errori di previsione abbiano media
zero e una varianza costante e finita. Tali proprietà implicano che le
previsioni ottenute applicando l'ipotesi delle aspettative razionali
sono in media sempre corrette e che gli errori di previsione compiuti
non possono essere utilizzati come informazione per migliorare le
previsioni future.
Muth ricava la convinzione che le aspettative degli operatori
economici corrispondono alle previsioni della teoria economica: le
previsioni degli operatori economici sono cioè le stesse della teoria
economica rilevante. L'ipotesi delle aspettative razionali può dunque
esprimersi nel seguente modo: le aspettative degli operatori
economici tendono a essere distribuite, per uno stesso insieme di

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informazioni, vicino alle previsioni della teoria economica. Questa


conclusione ha un una drastica conseguenza sul ruolo e gli effetti
dell'incertezza nella teoria economica. Secondo la scuola Keynesiana,
l'incertezza è predominante nell'azione degli operatori economici. Con
l'introduzione dell'ipotesi delle aspettative razionali, in vece,
l'importanza dell'incertezza viene ad essere ridimensionata.
Non viene negata la sua esistenza, né viene trascurata
l'importanza della soggettività nella formazione delle aspettative, né
si nega che possano verificarsi eventi imprevedibili.
Quello che si afferma è che, dal punto di vista della teoria del
comportamento economico, la formazione delle aspettative possiede
tutte le informazioni relative al funzionamento dell'economia, non
avviene dunque nel vuoto. La formazione delle aspettative non è una
scommessa su eventi futuri sempre imprevedibili, ma ha a che fare
con l'osservazione di un elevatissimo insieme di dati statistici
esprimenti inequivocabili e vaste regolarità.
Applichiamo le conclusioni di Muth alle aspettative
inflazionistiche.
Il valore atteso del tasso d'inflazione è uguale all'aspettativa
matematica del tasso d'inflazione condizionata allo stato
dell'informazione del periodo in cui si forma l'aspettativa.
L'espressione formale di tale affermazione è:
p t e = E (p t / I t+i)
ove E (p t) rappresenta il valore dell'aspettativa matematica
della variabile pt mentre I t-1 rappresenta l'insieme di informazioni
sulla cui base si è ricavato il valore dell'aspettativa matematica. Non
ci soffermeremo ulteriormente sul lavoro di Muth, perché quello che

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maggiormente c1 preme studiare è l'applicazione che delle ipotesi


razionali ha fatto Lucas.
Nel 1972 Lucas pubblicava uno studio dal titolo Econometrie
Testing of the Natural Rate Hypothesis, in The Econometrics of Price
Determination Conference.
Il punto di partenza dell'articolo è il crescente scetticismo degli
economisti circa l'esistenza del trade-off tra inflazione e
disoccupazione. Questo scetticismo nasce principalmente dalla
constatazione che la curva di Phillips osservata dipende dal
comportamento degli operatori economici ed in particolare dalle loro
aspettative, "e, quindi, che ogni tentativo di muoversi lungo la curva
di Phillips al fine di incrementare la produzione, può essere frustrato
dalle variazioni delle aspettative che spostino la curva" .
Il proposito dello studio è quello di costruire un modello
econometrico per verificare l'ipotesi del tasso naturale di
disoccupazione.
E' importante precisare, che nonostante le critiche che Lucas
muove all'ipotesi delle aspettative adattive di Frieclman, tutta l'opera
di Lucas, viceversa, ha il risultato di confermare le osservazioni
teoriche e le prescrizioni di politica economica del monetarismo.
Innanzitutto Lucas mette in evidenza che è un fatto osservato che, per
le serie dei dati degli Stati Uniti, i saggi d'inflazione e della
disoccupazione sono correlati negativamente; Lucas osserva inoltre
che la correlazione negativa permane anche se i valori della
disoccupazione sono sostituiti con i valori della produzione reale e gli
incrementi dei prezzi sono sostituiti da incrementi dei salari
monetari.

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Ne segue che per la maggioranza degli economisti il trade-off di


breve periodo sarà osservato anche nei modelli econometrici di lungo
periodo , stimati sulla base di quei dati.
Tutta la ricerca econometrica, anzi, finisce con il ridursi,
secondo Lucas, alla verifica anche nel lungo periodo di questo trade-
off di breve.
Il primo obiettivo che Lucas si propone è proprio quello di
spiegare l'esistenza di questa correlazione di breve periodo che
sembra smentire in modo definitivo l'ipotesi del tasso naturale di
disoccupazione. L'esistenza del trade-off sembra confermare l'ipotesi
contraria a quella del tasso naturale della disoccupazione: l'ipotesi
della compenetrazione tra variabili reali e monetarie, l'ipotesi della
loro intima correlazione, nata con Keynes e assimilata dalla sintesi
neoclassica. Per comprendere il punto di partenza di Lucas e le
ragioni della sua ricerca non si può fare a meno di osservare che la
convinzione che le variabili monetarie siano incapaci di influenzare le
variabili reali non è il frutto di un apriorismo, ma è a sua volta
suffragato dall'evidenza empirica di lungo periodo. Il punto di
partenza di Lucas è quindi quello di rendere compatibile l'apparenza
della non neutralità della moneta, con il principio classico in base al
quale il comportamento massimizzante degli agenti è sempre guidato
dalla valutazione dei prezzi relativi.
Lucas innanzitutto riesamina il legame teorico tra le
aspettative degli operatori e il trade-off inflazione produzione.
Secondo Lucas, occorre distinguere il comportamento
dell'offerta aggregata di breve periodo dal comportamento di lungo
periodo.

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Gli operatori economici massimizzano la funzione d'utilità.


Oggetto delle scelte del consumatore sono:
l) il consumo corrente di beni;
2) il tempo libero corrente;
3) i beni futuri;
4) il tempo libero futuro.
I prezzi e i salari sono conosciuti dagli operatori; per quanto
concerne i prezzi futuri il consumatore ha conoscenze precise ma non
necessariamente corrette. In questo contesto la deviazione dal tasso
naturale di disoccupazione non è allora il risultato di assunzioni
implicanti inspiegate vischiosità dei salari monetari, né dipende da
comportamenti strutturalmente inefficienti degli agenti, ma è il
risultato dell'interazione dei comportamenti reali massimizzanti con
una informazione rivelatasi errata o insufficiente.
In questo contesto l'esistenza di una curva di Phillips di breve
periodo può quindi essere spiegata come l'esito di una politica
monetaria imprevedibile che, determinando un tasso inatteso di
inflazione, induce in errore gli agenti, incapaci di distinguere in un
primo momento le variazioni puramente nominali dei prezzi dalle
variazioni dei prezzi relativi.
L'errata percezione dei prezzi relativi sui quali gli operatori
economici basano il loro comportamento è all'origine di quel
cambiamento delle scelte reali che si risolve in un tasso di
disoccupazione effettivo diverso da quello naturale. In termini
generali, la curva di Phillips appare come il risultato dell'interazione
tra l'informazione imperfetta entro cui gli agenti operano e gli shock
che colpiscono l'economia.

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In questo modello le variazioni dell'offerta aggregata in risposta


a variazioni permanenti dei salari e dei prezzi differisce dalle
variazioni della stessa dipendenti da variazioni transitorie.
In altre parole, questa funzione d'offerta riconcilia l'apparente
contrasto tra le teorie dell'offerta di lavoro di breve e di lungo periodo.
Le prime, infatti, reputano che l'offerta di lavoro sia infinitamente
elastica alle variazione dei salari reali o monetari, mentre la
letteratura economica di lungo periodo ritiene che l'offerta di lavoro
sia inelastica alle variazioni dei salari.
La funzione d'offerta di Lucas soddisfa entrambe le
caratteristiche: essa infatti è verticale rispetto ai movimenti
permanenti (e in questo senso nega l'esistenza d'illusione
monetaria nel lungo periodo), ma è inclinata positivamente
rispetto ai movimenti dei prezzi transitori (in piena sintonia con la
correlazione osservata tra prezzi e produzione). La funzione d'offerta
aggregata è la seguente:
Yt = a (Pt - Pt * ) (l)
dove: Yt è il logaritmo della produzione reale al tempo t; Pt è il
logaritmo del livello dei prezzi; Pt * è il logaritmo di un indice dei
prezzi futuri attesi.
Questa razionalizzazione del trade-off osservato, o "in un
linguaggio meno corrente, la razionalizzazione della rigidità dei
prezzi" , può essere completata introducendo nella funzione d'utilità le
attività dei lavoratori diverse dalla semplice distinzione tra lavoro e
tempo libero, considerando cioè, ad esempio, il tempo dedicato
all'istruzione o alla ricerca di un lavoro.
Da questo punto di vista la funzione è costruita sulla base
di due tacite ipotesi:

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• la prima è che nel breve periodo le variazioni dei prezzi


attesi in seguito ai movimenti dei prezzi effettivi siano meno che
proporzionali;
• la seconda è che, nel lungo periodo, sotto la condizione di
prezzi perfettamente costanti, i prezzi attesi eguaglino i prezzi
effettivi.
Senza queste due ipotesi, non avrebbe senso affermare, dice
Lucas, che la funzione d'offerta aggregata è basata sull'ipotesi del
comportamento razionale.

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2. LA CRITICA DI LUCAS ALL'IPOTESI DELLE


ASPETTATIVE ADATTIVE

Aggiungiamo l'ipotesi di aspettative adattive alla


funzione precedente. Per cominciare dal livello più semplice Lucas
suppone che prezzi attesi e quelli correnti siano messi in relazione
dalla:
Pt* = λ Pt + (1 – λ) Pt – 1 0 < λ < l (2)
Combinando la l e la 2 usando la trasformazione di Koyck
abbiamo:
Yt = a ( l - λ) (Pt – Pt-1) + (1- λ) Y t-1 (3)
Questa formula, dice Lucas, a prima vista sembra incarnare le
importanti caratteristiche dell'ipotesi del tasso naturale di
disoccupazione. In primo luogo, dal momento che il coefficiente “a ( l -
λ)” sui correnti saggi d'inflazione è positivo, questa formula afferma
l'esistenza di un trade-off di breve periodo nella giusta direzione.
In secondo luogo, però, la formula afferma che variazioni permanenti
del livello dei prezzi non avranno effetti sulla produzione reale di
lungo periodo.
L'equazione l afferma che l'inflazione produrrà una produzione
reale in media più alta solo se prezzi attesi sono in media più bassi
dei prezzi attuali.
Lo schema delle aspettative adattive non esclude la possibilità
di aspettative sistematicamente inferiori ai prezzi correnti; ne segue
necessariamente che le aspettative adattive permettono lo scambio
tra l'inflazione e la produzione reale tanto nel breve che nel lungo
periodo" l l. La 3 "non riesce a formalizzare rigorosamente l'idea della
neutralità delle forze monetarie, né l'idea che la moneta conti solo in

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quanto induce in errore gli agenti massimizzanti" 12. La critica


maggiore che Lucas muove all'equazione dell'offerta aggregata con
l'aggiunta delle aspettative adattive è che "essa, pur volendo essere
espressione del comportamento di agenti razionali e massimizzanti,
mostra in realtà agenti costituzionalmente incapaci di correggere il
loro errore di previsione pur difronte a una sistematica, e quindi
prevedibile, politica di costante incremento del tasso di crescita
dell'offerta di moneta .
Lucas perviene pertanto alle seguenti conclusioni:
• in primo luogo, l'ipotesi che gli agenti economici formino
le loro aspettative adattandosi ai tassi d'inflazione precedenti non
conduce all'ipotesi di un tasso naturale di disoccupazione. Al
contrario, le due ipotesi, quella delle aspettative adattive e quella del
tasso naturale di disoccupazione sono alternative. Segue da ciò che i
modelli econometrici costruiti in base all'ipotesi delle aspettative
adattive non possono ottenere una prova dell'esistenza di un tasso
naturale di disoccupazione;
• in secondo luogo, solo l'ipotesi delle aspettative razionali
conduce invece alla teoria del tasso naturale di disoccupazione.
L'esistenza nel breve periodo dell'apparente rigidità dei prezzi,
e quindi di un apparente ruolo non neutrale della moneta non
smentisce l'ipotesi delle aspettative razionali, perché entrambi
fenomeni non dipendono dall'illusione monetaria dei lavoratori, ma da
un'informazione insufficiente che li induce in errore facendo
apparire come variazione dei prezzi relativi le variazioni
generali dei prezzi. L'illusione monetaria sussisterebbe se i lavoratori
si basassero sui prezzi assoluti anziché sui prezzi relativi.

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Invece, nel caso che stiamo illustrando, essi si basano sui prezzi
relativi, solo che non sono adeguatamente informati sull'andamento
di questi ultimi.
Infine l'ipotesi del tasso naturale, se correttamente formulata,
non comporta implicazioni ne1 confronti di qualsiasi equazione che
sia espressione della relazione empirica tra livelli della
disoccupazione e della produzione. Friedman ha considerato molto
seriamente la critica mossa dalla scuola delle aspettative razionali e
ha concordato con essa che le previsioni sul livello futuro dei prezzi
non si baseranno esclusivamente sull'andamento passato dei prezzi
perché questo equivarrebbe ad affermare non solo che gli operatori
sono sempre in ritardo rispetto ai prezzi attuali, ma anche che
persisterebbero in modo indefinito in questo ritardo . Ma quello che
più preme a Friedman è che la teoria delle aspettative razionali
permette di interpretare in modo diverso le stime empiriche della
curva di Phillips. Negli ultimi anni, infatti, sono stati molti gli studi
statistici che hanno cercato di determinare la pendenza della curva di
Phillips di lungo periodo: verificare cioè se essa sia o meno verticale.
La maggior parte delle verifiche empiriche è stata intrapresa
sulla base della seguente equazione:
1/P dP/dt = a + b (1/P dP/dt)* + f (U)
dove (1/P dP/dt)* rappresenta il tasso anticipato di variazione
dei prezzi; il lato sinistro rappresenta il tasso di variazione dei prezzi;
U è la disoccupazione.
La domanda che a questo punto gli statistici si sono posti
riguarda il valore di b, il quale rappresenta il coefficiente del tasso
corrente, cioè la variazione percentuale del tasso corrente di

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variazione dei prezzi che risulterebbe da una variazione del' 1 per


cento del tasso atteso d'inflazione.
Se dalla stima delle sene storiche si ottiene un valore di b
uguale a zero, viene confermata l'ipotesi dell'intima correlazione tra
variabili reali e monetarie, l'ipotesi della non neutralità della moneta.
Viceversa, se si ottiene un valore uguale a 1 risulta confermata
l'ipotesi della neutralità della moneta. Quasi tutte le verifiche, dice
Friedman, hanno dato un valore di b inferiore ad l, confermando così
l'esistenza di un trade-off di lungo periodo. L'introduzione delle
ipotesi razionali ci permette di comprendere l'apparente contrasto tra
i risultati della ricerca teorica e quelli statistici.

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3. LA NUOVA MACROECONOMIA CLASSICA

La nuova macroeconomia classica è, dunque, la scuola di


pensiero economico che nasce in seguito alla smentita che l'evidenza
empirica ha inflitto all'ipotesi della correlazione di lungo periodo tra
inflazione e disoccupazione. Questa teoria economica si basa
sull'assunto che tutti gli agenti possano sempre perseguire con
successo la massimizzazione dell'utilità basandosi sulla valutazione
delle variabili reali, variabili su cui le variazioni di origine
puramente monetaria non debbono mai avere alcuna influenza.
L'osservazione del fallimento delle politiche economiche aventi a loro
fondamento la compenetrazione tra variabili reali e variabili
monetarie conduce i nuovi macroeconomisti classici a pensare che, se
è vero che nel lungo periodo non esiste alcuna compenetrazione tra
forze reali e forze monetarie, allora occorre assumere che, nonostante
le apparenze, anche nel breve periodo non vi sia alcuna
compenetrazione. La specificità di questa scuola è dunque que11a di
trasferire al breve periodo le osservazioni che il monetarismo aveva
applicato al presunto trade-off di lungo periodo.
Il funzionamento dell'economia, secondo Lucas, è imperniato su
tre assunzioni:
• le aspettative in media sono sempre corrette;
• i prezzi nominali, nonostante l'apparenza contraria, sono
istantaneamente flessibili;
• gli operatori economici si trovano in stato di equilibrio
reale continuo.
Queste assunzioni appaiono palesemente irreali e estreme, ma,
nello schema teorico di Lucas, sono funzionali alla dimostrazione

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dell'inesistenza, anche nel breve periodo, di una qualsivoglia


correlazione tra il settore reale e quello monetario. Per comprendere
meglio la specificità di questa scuola economica è utile confrontare il
suo modello teorico con quello monetarista e con quello keynesiano. In
un modello monetarista, in seguito all'aumento del tasso di crescita
dell'offerta di moneta, avremo un aumento del reddito reale al di
sopra del suo tasso naturale, in quanto i lavoratori, avendo quale
aspettativa dell'inflazione il tasso di inf1azione del periodo
precedente, scambiano gli aumenti dei salari monetari per aumenti
dei salari reali; e, per altro verso , gli imprenditori hanno una
valutazione opposta, nel senso che attribuiscono all'aumento dei
prezzi dei loro prodotti il significato dell'aumento dei prezzi relativi.
L'incremento del reddito reale non è però permanente; infatti, dopo
un certo periodo, i lavoratori si accorgono che il tasso effettivo di
inflazione è superiore a quello atteso e rivedono le loro aspettative
d'inflazione in base all'ipotesi delle aspettative adattive, in termini
formali: pet = p t - 1
Il divario tra reddito reale effettivo e reddito reale naturale
inizierà progressivamente a diminuire, e si azzererà quando il tasso
d'inflazione atteso dai lavoratori uguaglierà il tasso effettivo. L'unico
effetto permanente della politica monetaria perseguita sarà allora
l'incremento dell'inflazione. L'incremento dell'inflazione sarà uguale
al tasso di crescita dell'offerta di moneta. Nel modello dinamico della
nuova macroeconomia classica, invece, se assumiamo che gli agenti
conoscano l'intenzione delle autorità monetarie di accrescere l'offerta
di moneta, tale espansione non produrrà alcun effetto reale ma
condurrà unicamente a un istantaneo incremento dell'inflazione.
Sappiamo infatti, che, per le aspettative razionali, il valore atteso del

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tasso d'inflazione è uguale all'aspettativa matematica del tasso di


inflazione condizionata allo stato dell'informazione del periodo in cui
si forma l'aspettativa.
In termini formali:
pet = E (p t / I t -1)
Se, per i nostri fini assumiamo che l'insieme I t-l possa essere
validamente rappresentato dalla previsione della politica monetaria
futura abbiamo:
pet = E (p t / met )
Ora, se la politica monetaria risulta essere quella prevista,
per cui
mt = met
e, se non si tiene conto di eventuali errori casuali, imprevedibili
al momento della formazione dell'aspettativa, il valore effettivo
dell'inflazione sarà uguale all'aspettativa condizionata e quindi alla
aspettativa razionale:
pt = E (p t / met ) = pet

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Figura 1

Quali sono allora gli effetti di una politica monetaria espansiva


correttamente prevista dagli operatori?
Secondo la nuova macroeconomia neoclassica, un incremento
del tasso di crescita dell'offerta di moneta, purché previsto, non ha
alcun effetto sul livello dell'occupazione, neanche nel breve periodo.
La politica monetaria espansiva è incapace di agire sul livello
d'occupazione anche quando la disoccupazione è al di sotto del suo
livello naturale. L'espansione monetaria non determinerà solamente
un aumento della domanda globale che da DG0 diventa DG 1, ma, nel
caso di aspettative razionali che abbiano previsto la politica
monetaria espansiva, anche un contemporaneo ed immediato
aumento dei prezzi, con un conseguente spostamento dell'offerta
globale che passa da SP0 diventa SP1.

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L'economia passerà dal punto E al punto N e non raggiungerà il


punto G, come sperato.
Nel modello dinamico della nuova macroeconomia classica, nel
caso in cui gli agenti conoscano l'intenzione delle autorità monetarie
di accrescere l'offerta di moneta, un'espansione dell'offerta di moneta
non produrrà alcun effetto reale, ma avrà solo l'effetto di un
istantaneo incremento dell'inflazione. L'immediata adozione da parte
degli agenti di un tasso atteso di inflazione uguale al nuovo tasso di
crescita dell'offerta di moneta comporta lo spostamento dell'economia
in un nuovo punto d'equilibrio, in cui il tasso d'inflazione atteso e il
tasso d'inflazione effettivo sono uguali al nuovo tasso di crescita
dell'offerta di moneta e il livello del reddito reale è uguale al suo
livello precedente.
Qual è allora la differenza tra il modello di Lucas e quello di
Friedman?
La differenza rispetto al modello dinamico monetarista consiste
nel fatto che nel percorso da un punto d'equilibrio all'altro, l'economia
non ha mal conosciuto livelli del reddito reale superiori a quello
naturale. L'adozione dell'ipotesi delle aspettative razionali,
implicando la conoscenza del funzionamento dell'economia da parte di
tutti gli operatori economici, e quindi anche da parte dei lavoratori,
impedisce che le variazioni dei prezzi nominali possano essere
scambiate per variazioni reali quando la politica economica espansiva
è perfettamente conosciuta. Secondo Lucas, Sargent e gli altri nuovi
economisti neoclassici, gli aggiustamenti dell'economia in seguito a
variazioni dell'offerta di moneta conosciute dagli agenti sono più
rapidi di quanto previsto dai monetaristi. Nello schema keynesiano,
nel quale non vengono introdotte le aspettative inflazionistiche, e il

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nesso di causalità tra i livelli dell'occupazione e quelli dell'inflazione


sono invertiti, si ipotizza invece una relazione stabile nel tempo
tra inflazione e reddito reale, tale da consentire, attraverso
incrementi del tasso di crescita dell'offerta di moneta, incrementi
permanenti del livello del reddito reale.
Nel caso in cui venga introdotta in quest'ultimo schema l'ipotesi
di aspettative inflazionistiche, ma non accettata l'ipotesi della loro
correttezza nel lungo periodo, l'economia raggiungerà, in seguito
ad una politica espansiva della domanda, un punto di
equilibrio caratterizzato da un aumento permanente del reddito reale
inferiore rispetto al caso precedente, accompagnato da un livello
permanente di inflazione più elevato.
Ciò che occorre sottolineare è la teorizzazione della progressiva
riduzione degli effetti reali della domanda monetaria qualora
nell'economia sia in atto un processo inflazionistico.
Nel dibattito economico, cioè, è andata acquistando sempre
maggior vigore la convinzione dell'inefficacia delle politiche espansive
della domanda quale strumento principale di stimolo dell'occupazione.
Nel quadro di riferimento di ispirazione keynesiana, un'espansione
della domanda monetaria è in grado di generare un incremento
permanente del reddito in cambio di un incremento costante del tasso
di inflazione. Nel quadro di riferimento monetarista la stessa
espansione della domanda monetaria permette unicamente un
incremento temporaneo del reddito reale in cambio dell'incremento
permanente del tasso dell'inflazione. Nel quadro di riferimento della
nuova macroeconomia le espansioni della domanda monetaria, purché
previste, non hanno più alcun effetto reale, nemmeno temporaneo, e
generano unicamente l'incremento permanente del tasso di inflazione.

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La nuova macroeconomia neoclassica si pone così al termine del lungo


percorso iniziato subito dopo la rivoluzione keynesiana e coinvolgente
1 rapporti tra la politica di gestione della domanda, la stabilità
monetaria e la disoccupazione. In questo percorso, l'affinamento
progressivo del meccanismo di formazione delle aspettative ha
generato un mutamento del loro ruolo. L'introduzione dell'ipotesi
delle aspettative razionali è servita a confermare l'ipotesi della
neutralità della moneta.

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4. LE ASPETTATIVE RAZIONALI E IL CICLO


ECONOMICO

Abbiamo già messo in evidenza che le tesi della nuova


macroeconomia neoclassica appaiono in stridente contrasto con gli
studi empirici sulla curva di Phillips. Occorre studiare
approfonditamente, allora, quale sia la spiegazione del ciclo economico
che viene fornita da questa scuola. Innanzitutto questa scuola
attribuisce una maggior stabilità alle condizioni dell'offerta che non
alle condizioni della domanda. Questa assunzione fa dell'andamento
della domanda il principale elemento generatore del ciclo. In queste
condizioni, l'inizio del ciclo sarebbe sempre contraddistinto da
variazione congiunte dei prezzi e delle quantità prodotte. Una volta
introdotta l'ipotesi della neutralità della moneta anche nel breve
periodo e l'ipotesi della capacità di un uso pieno ed efficace delle
informazioni disponibili da parte degli operatori economici, la nuova
macroeconomia neoclassica fornisce una spiegazione degli
spostamenti autonomi della domanda globale che chiama in causa
l'incompletezza dell'informazione. Nella terminologia della nuova
macroeconomia classica, l'aspettativa sul livello dei prezzi ottenuta
dagli agenti prima di aver osservato gli andamenti imprevisti dei
prezzi monetari sul proprio mercato locale prende il nome di
aspettativa ex-ante.
L'aspettativa formulata dopo aver osservato i prezzi del proprio
mercato prende il nome di aspettativa ex-post. L'aspettativa ex- post è
una media tra il nuovo prezzo monetario locale osservato e
l'aspettativa ex-ante. In termini formali:

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P et, n = h Pt, n ( 1 - h) P et

dove P et, n rappresenta la media delle aspettative ex-post


formulate sugli n mercati, P t, n la media dei prezzi monetari degli n
mercati, P et l'aspettativa ex-ante del livello dei prezzi e h è un
parametro che può variare da 0 a l.
Quando h assume il valore limite di zero, l'aspettativa del tasso
d'inflazione ex-ante si identifica con l'aspettativa ex-post. Man mano
che h assume valori positivi, il valore dell'aspettativa Quando
l'aspettativa del livello dei prezzi ex-ante si identifica con quella ex-
post, tutte le variazioni impreviste dei prezzi verranno interpretate
come variazioni dei prezzi relativi.
Si genera così un incremento del reddito reale che dipende
principalmente dall'incompletezza dell'informazione. Quando invece
l'aspettativa ex-post si mostra capace di interpretare nel giusto modo
le variazioni sopraggiunte dei prezzi e, in sostanza, diverge
dall'aspettativa ex-ante, minori diventano gli aumenti del reddito
reale, minori gli scostamenti dell'occupazione dal suo tasso naturale.
E' facile intuire che quando l'aspettativa ex-post prevede tutti gli
incrementi inattesi dei prezzi, gli effetti reali dell'espansione
dell'offerta di moneta si ridurranno a zero. Nel quadro di riferimento
testé delineato l'andamento ciclico dell'economia dipende
dall'andamento dell'informazione.

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Figura

Quali sono dunque gli effetti di una politica monetaria


espansiva non prevista correttamente per mancanza di informazioni
da parte degli operatori? Quando la politica monetaria espansiva non
viene correttamente prevista dagli operatori economici, tutte le
variazioni impreviste dei prezzi saranno interpretate come variazioni
dei prezzi relativi. La curva SP0 non si sposta. Questo comporta
un'espansione economica: la domanda globale originaria DG0 si
sposta e diventa DG1; il punto di equilibrio dell'economia si sposta da
E e diventa il punto G dove l'occupazione è Q1 ed è quindi maggiore di
quella strutturale.
La fase espansiva dell'economia è allora causata da
un'informazione imperfetta circa l'incremento effettivo subito dal
tasso di crescita dell'offerta di moneta.

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L'acquisizione della nuova informazione relativa al nuovo


sentiero di crescita della moneta permetterà agli agenti di valutare
correttamente gli aumenti dci prezzi. Questo determinerà il ritorno
dell'occupazione al suo livello strutturale. Dal punto di equilibrio G si
passerà al punto di equilibrio L. L'unico effetto permanente della
politica espansiva è un incremento del livello dei prezzi che da P
passa a P2. La fase espansiva dell'economia è dunque causata da una
informazione imperfetta circa l'incremento effettivo subito dal tasso di
crescita dell'offerta di moneta, mentre la fase recessiva è invece
causata dall'acquisizione della nuova informazione relativa al nuovo
sentiero di crescita della moneta. Nel caso di una riduzione
imprevista del tasso di crescita dell'offerta di moneta, la susseguente
riduzione del reddito al disotto del suo livello naturale, secondo gli
economisti di questa scuola, sarebbe ancora una volta l'effetto
dell'imperfetta informazione. Una successiva espansione andrebbe
invece spiegata come la conseguenza dell'acquisizione di una
informazione corretta. Per la nuova macroeconomia classica in tutte
queste fasi l'economia è comunque in continuo equilibrio in quanto
tutti gli agenti compiono le loro scelte reali volontariamente seppure
in un contesto d'informazione imperfetta.
Questo spiega l'interpretazione che Lucas fornisce delle
misurazioni statistiche della disoccupazione. La maggior parte delle
rilevazioni della disoccupazione sono ottenute, dice Lucas, mediante
interviste ai lavoratori. Una delle domande cruciali è la seguente:
"Stai cercando attivamente un lavoro?". La maggior parte degli
studiosi, dice Lucas, ritiene che gli intervistati, quando rispondono
affermativamente a questa domanda, intendano rispondere

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affermativamente alla domanda: "Stai cercando lavoro al corrente


saggio di salario?".
Lucas afferma che questa interpretazione non è corretta e ne
fornisce una alternativa. Dice Lucas: "In primo luogo, un lavoratore
non sa generalmente quale sia il suo saggio di salario corrente. Egli
ha di fronte a sé una varietà di alternative e oscilla sempre tra i
guadagni che gli possono derivare da un ulteriore ricerca e i guadagni
che gli possono derivare dall'accettare il miglior salario trovato in un
certo momento. Nel suo processo di ricerca, il lavoratore usa la
nozione di suo normale salario, basato sui salari ottenuti nelle
occupazioni nelle quali egli ha lavorato. (... ) Una volta che si sarà
convinto che il suo saggio di salario normale è più basso di quello
originalmente pensato, solo allora egli accetterà una diminuzione del
suo salario monetario." Secondo Lucas le stime della disoccupazione
involontaria dipendono dalla mancanza di corrette informazioni da
parte dei lavoratori, i quali scambiano per involontaria la
disoccupazione che invece dipende dalla loro incapacità di adeguarsi
al vero livello corrente del salario monetario. E' utile osservare che
quella sopra accennata è un'ulteriore spiegazione della rigidità di
breve periodo dei salari monetari. L'aver spiegato l'apparente
compenetrazione di breve periodo tra variabili reali e variabili
monetarie come l'effetto degli errori compiuti dagli agenti, errori
provocati dagli andamenti imprevisti dell'offerta di moneta, porta la
nuova macroeconomia classica verso conclusioni radicali circa la
conduzione della politica economica in generale e della politica
monetaria in particolare. Se soltanto le contrazioni e le espansioni
impreviste dell'offerta di moneta contano, solo una politica monetaria
erratica e imprevista può influire sull'andamento del reddito reale,

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Salvatore Della Corte “Le aspettative razionali e la nuova
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mentre una politica monetaria anticiclica, e perciò sistematica, non


potrà mai influire su di esso in quanto verrà scoperta e quindi
prevista dagli agenti. Ma ecco la critica più radicale: la nuova
macroeconomia vieta l'uso della politica monetaria erratica, in quanto
essa condurrebbe gradualmente gli operatori economici ad
interpretare le variazioni dei prezzi monetari locali come dovute quasi
esclusivamente a variazioni di tipo monetario. Tale fatto crea grave
pregiudizio al sistema economico perché comporta il rischio che non
vengano correttamente interpretate quelle variazioni dei prezzi
monetari dipendenti invece da vere e proprie variazioni dei prezzi
relativi. In sostanza una politica monetaria sistematicamente
imprevedibile a lungo andare rende inefficace il sistema dei prezzi
relativi come meccanismo allocatore delle risorse. In questo senso, un
comportamento del genere dell'autorità monetaria può contribuire a
peggiorare il funzionamento dell'economia. Dal momento che né una
politica monetaria istituzionalmente instabile, né una politica
anticiclica sono in grado di migliorare l'andamento reale
dell'economia, anche per la nuova macroeconomia classica, come per
la teoria monetarista, solo la creazione di un contesto monetario
stabile può fornire la migliore cornice per rendere minime le
fluttuazioni.

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“DALLA NUOVA MACROECONOMIA
CLASSICA AL NUOVO KEYNESIANESIMO”

PROF. SALVATORE DELLA CORTE


Università Telematica Pegaso Dalla nuova macroeconomia classica
al nuovo keynesianesimo

Indice

1 L'INEFFICACIA DELLE POLITICHE DI STABILIZZAZIONE SECONDO LUCAS------------------------ 3


2 I LIMITI DELLA NUOVA MACROECONOMIA CLASSICA E IL PENSIERO DI MALINVAUD ------ 10
3 IL NUOVO KEYNESIANESIMO E IL KEYNESIANESIMO ORTODOSSO ----------------------------------- 16
4 KEYNES E I MONETARISTI --------------------------------------------------------------------------------------------- 25
5 NAIRU E FERU --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 28
6 CONCLUSIONI --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 33

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Università Telematica Pegaso Dalla nuova macroeconomia classica
al nuovo keynesianesimo

1 L'inefficacia delle politiche di stabilizzazione


secondo Lucas

L'ipotesi del tasso naturale di disoccupazione ha eliminato la convinzione della possibilità

per i responsabili della politica economica di accrescere permanentemente il livello d'occupazione

mediante incrementi dell'offerta di moneta. Nel quadro di riferimento monetarista, infatti, le

espansioni e le contrazioni assumono l'unico significato di fluttuazioni non desiderate attorno

all'unico punto di equilibrio di lungo periodo.

Mentre, in genere, la regola monetarista di lungo periodo è stata generalmente accettata

dagli economisti, anche da quelli di matrice Keynesiana, non sempre lo stesso successo ha ottenuto

la regola monetarista di breve periodo.

Questo soprattutto perché le motivazioni per l'adozione di tale politica sono parse meno

convincenti. C'è infatti una parte della scuola Keynesiana la quale ha accettato l'esistenza del tasso

naturale di disoccupazione di lungo periodo, ma che ritiene vi sia ancora un ruolo per la politica

monetaria anticiclica nel breve periodo. Secondo tale scuola l'autorità monetaria deve far crescere

l'offerta di moneta a un tasso inferiore a quello programmato di lungo periodo quando l'economia è

in espansione, mentre la deve far crescere a un tasso superiore rispetto a quello programmato di

lungo periodo quando l'economia è depressa. Il quadro di riferimento monetarista è incapace, a

causa dell'adozione dell'ipotesi delle aspettative adattive, di fornire un'argomentazione valida alla

critica verso questo tipo di attivismo. Infatti se gli agenti adottano aspettative adattive, una politica

anticiclica di breve periodo su di un trend programmato e previsto di lungo periodo permette una

perfetta stabilizzazione del sistema. Supponiamo infatti, che l'economia si trovi in un punto di

equilibrio al di sotto del tasso naturale di occupazione e che abbia raggiunto tale punto in seguito ad

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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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una contrazione del tasso di crescita della domanda monetaria non dipendente da alcuna contrazione

programmata del tasso di crescita dell'offerta di moneta.

In un quadro di riferimento monetarista questo avviene quando l'inflazione effettiva risulta

essere inferiore a quella prevista. Poiché in base all'ipotesi delle aspettative adattive il processo di

revisione delle aspettative dipende dai valori passati dell'inflazione, il riequilibrio dell'economia può

risultare anche molto lungo. Se il riequilibrio è molto lento una politica monetaria espansiva di

breve periodo può ricondurre velocemente il sistema economico fuori dalla recessione. L'aumento

del tasso di tasso di crescita dell'offerta di moneta comporta un aumento del consumo che stimola la

produzione, quindi l'occupazione e rimuove le aspettative pessimistiche presenti nel mercato in quel

momento. Ancora una volta è solo l'introduzione delle ipotesi razionali che consente di rigettare

l'utilità di una politica monetaria, ma anche di una politica fiscale, anticiclica.

Nel contesto teorico della nuova macroeconomia neoclassica la politica anticiclica, essendo

una politica sistematica, sarà presto scoperta dagli agenti economici.

Quando verrà correttamente prevista non potrà più generare alcun effetto reale. Per tornare

all'esempio precedente, un'espansione monetaria non determinerà solamente un aumento della

domanda globale, ma, nel caso di aspettative razionali che abbiano previsto la politica monetaria

espansiva, anche un contemporaneo ed immediato adeguamento dell'offerta globale. L'esito della

politica monetaria espansiva sarà quello di far aumentare unicamente il livello dei prezzi per tutto

l'ammontare dell'incremento del tasso d'offerta monetaria. L'ipotesi delle aspettative razionali

permette in sostanza di rigettare anche l'utilità di una politica sistematica anticiclica di breve

periodo.

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Le politiche di controllo della domanda in questo contesto non solo, come avevamo visto,

non riescono ad aumentare il livello del reddito reale nel lungo periodo, ma non riescono neanche a

minimizzare sistematicamente le fluttuazioni dell'economia.

In sostanza la nuova macroeconomia classica intende rigettare in modo definitivo l'utilità

della politica discrezionale della domanda quale principale strumento di governo dell'economia.

Occorre mettere in evidenza che, come per ogni altra teoria economica, anche i risultati della

nuova macroeconomia classica dipendono dal contesto storico in cui gli studiosi si trovano ad

operare. Intendiamo affermare la pari dignità di tutte le scuole economiche.

Quando una teoria economica si mostra incapace di dare un'esauriente spiegazione dei

fenomeni che si manifestano in un dato momento, questa incapacità non dimostra la falsità assoluta

delle affermazioni di quel determinato autore o gruppo di autori. Sempre, quando una teoria è

incapace di aderire o comunque di spiegare il mondo reale, questo accade perché sono intervenuti

nuovi fattori socioeconomici che in precedenza non esistevano. In fondo la differenza consiste nel

quadro di riferimento. Il caso dell'uso della politica della domanda espansiva è 1n questo senso

eloquente. Per quanto controversi possano essere i giudizi su Keynes, è stato senza dubbio opera di

un genio l'osservazione degli effetti reali che essa poteva avere. Con il tempo però l'uso stesso di

quella politica economica ha generato delle reazioni nel sistema economico che solo dopo un lungo

travaglio sono state osservate e descritte analiticamente. Quello che intendiamo affermare è che la

ricerca è questa finestra aperta sulla realtà, questa instancabile osservazione di quello che accade.

Quello che di più valido va rintracciato nella nuova macroeconomia neoclassica, non è il suo

impianto analitico, per quanto affinato esso sia, ma proprio il fatto di saper rendere ragione, di saper

dare una spiegazione del progressivo esaurirsi dell'efficacia di un modo di gestione delle economie,

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che, se pur fruttuoso per un certo periodo, non appare ora in grado di fornire gli stessi risultati del

passato.

Nell'articolo "Econometric Policy Evaluation" Lucas muove la critica più radicale alla

pretesa generale superiorità della politica discrezionale di gestione della domanda e mette

fortemente in dubbio la sua capacità di influire positivamente sull'andamento dell'economia reale.

Le sue considerazioni sono al tempo stesso semplici e distruttive.

Dice Lucas: "Lo studio è stato rivolto all'esposizione e all'elaborazione di un singolo

sillogismo: dato che la struttura di un modello econometrico consiste nella regola della decisione

ottimale degli agenti economici, e dal momento che la regola di decisione ottimale varia

sistematicamente con le variazioni nella struttura delle serie dipendenti dalla politica economica, ne

segue che ogni variazione di politica economica modificherà la struttura dei modelli econometrici.

Per le questioni di previsione di breve periodo abbiamo visto che questa conclusione ha un

significato soltanto occasionale. Al contrario, per gli aspetti coinvolgenti una valutazione della

politica economica, la conclusione precedente è fondamentale; essa implica infatti che paragoni

degli effetti di politiche economiche alternative ottenute usando i correnti modelli

macroeconometrici non sono validi, fatta eccezione che nel periodo campione o nella previsione ex

ante di breve periodo. Questa argomentazione è, in parte, distruttiva: l'abilità di prevedere le

conseguenze di decisioni di politica economica arbitrarie e non annunciate, proclamata dalla teoria

della politica economica di derivazione keynesiana, appare essere al di sopra della capacità non solo

dei modelli econometrici della corrente generazione ma anche dei modelli econometrici concepibili

in futuro"1.

1
LUCAS, Econometrie Policy Evaluation, in Business-Cycle Theory, pag. 126.

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In altre parole, non si possono più giudicare gli effetti delle diverse politiche economiche

assumendo la situazione e il funzionamento dell'economia, comprese le aspettative degli agenti,

come un dato indipendente dalle decisioni discrezionali di politica economica. E' impossibile, cioè,

assumere che gli operatori economici non tengano conto, nella formazione della loro funzione di

utilità, degli interventi discrezionali di politica economica. Al contrario gli agenti economici

decideranno i loro comportamenti anche alla luce delle politiche economiche adottate, e ciò può

indurli a modificare le loro reazioni. Ciò può annullare o comunque rendere incerti i risultati sperati

dalle autorità di politica economica.

Nei modelli econometrici, invece, la presunta capacità di prevedere le reazioni del sistema

economico di fronte a scelte discrezionali alternative delle autorità di politica economica risiede

invece nell'assioma dell'indipendenza del funzionamento dell'economia dalle politiche economiche

alternative stesse.

L'idea di Lucas è completamente diversa: il comportamento dell'intero sistema economico, i

comportamenti dei soggetti variano in relazione a quello delle autorità di politica economica.

Questo equivale ad affermare l'inutilità di simulare gli esiti di alternative politiche economiche sulla

base di un modello econometrico ottenuto mediante le stime della storia trascorsa dell'economia.

Nella realtà le autorità di politica economica, secondo Lucas, non si trovano di fronte ad un solo

modello rappresentativo dell'economia, ad un solo funzionamento dell'economia con tanti possibili

modi di gestirla. Al contrario si trovano di fronte tanti possibili funzionamenti dell'economia

ciascuno dei quali è legato alla particolare politica economica attuata. L'unico ambito in cui è

possibile inserire la valutazione delle politiche economiche è quello in cui si confrontano gli esiti di

politiche alternative tenendo contemporaneamente conto degli effetti che esse provocano sul

funzionamento del sistema economico. Per Lucas però, allo stato attuale delle conoscenze

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macroeconometriche non è ancora possibile costruire modelli di questo tipo. La conclusione

dell'affinamento ulteriore dei modelli econometrici correnti è una parziale ammissione di ignoranza:

il "il sapere di non sapere" di Socrate.

Il confronto tra politiche monetarie alternative, allo stato attuale del sapere, si presenta come

una scelta tra "regimi" diversi a cui corrispondono effetti diversi.

Un primo regime è quello di una politica monetaria sistematica anticiclica. Una politica

sistematica anticiclica, avverte Lucas, qualora sia conosciuta dagli operatori economici non ha,

invece, la capacità di produrre gli effetti sperati. Effetti che sono riscontrabili in un modello

econometrico basato sulla storia economica passata, ma non in un modello in cui le aspettative

razionali modificano le reazioni degli agenti. L'unico esito di questa politica economica finisce con

l'essere, ad avviso di Lucas, l'accentuazione della variabilità del tasso d'inflazione.

Un secondo è quello di una politica monetaria ampiamente discrezionale attuata in modo

non sistematico. Quest'ultimo tipo di condotta delle autorità di politica economica ha l'effetto di

ridurre l'efficienza del sistema dei prezzi relativi come strumento per la migliore allocazione

possibile delle risorse. Una politica economica di questo tipo condurrà presto l'economia in un

baratro profondo, secondo Lucas, e va dunque rigettata.

Un terzo regime è quello di una politica monetaria che preveda un tasso di crescita costante.

Solo una politica monetaria che preveda un tasso di crescita costante dell'offerta di moneta è allora

capace di rendere minima la variabilità del tasso d'inflazione.

Secondo Lucas dunque una gestione della domanda globale di tipo Keynesiana

(discrezionale o anticiclica) non solo non accresce nel lungo periodo la produzione reale e

l'occupazione, ma non è neanche capace di rendere stabile l'andamento del reddito reale.

Ricorderemo però che le affermazioni di Lucas sono valide solamente perché le economie

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hanno subito profondissime trasformazioni dagli ani della "Teoria generale". In particolare

è stata proprio l'attuazione di politiche espansive della domanda che ha provocato tutta una serie di

reazioni da parte degli agenti economici che hanno comportato una trasformazione del

funzionamento del sistema economico.

Da quanto abbiamo sopra dettagliatamente scritto emerge che la nuova macroeconomia

neoclassica non è, come qualche critico afferma, una riedizione aggiornata della teoria classica.

Questa teoria nasce invece come conseguenza dell'introduzione delle aspettative razionali all'interno

della discussione di politica economica che nasce con la curva di Phillips (meglio di Fisher).

Questa scuola si situa, per molti aspetti in una zona diversa da quella classica. Non

rappresenta la rinascita della legge di Say, ma prende le mosse dall'osservazione empirica del

fallimento dei propositi della politica Keynesiana. Ciò è testimoniato dal fatto che la regola di

politica monetaria proposta dalla nuova macroeconomia classica è identica a quella monetarista.

Questo fatto testimonia che, anche nelle sue versioni più estreme, il pensiero macroeconomico ha

definitivamente abbandonato la totale dicotomia classica. In realtà la preoccupazione ultima di

questa scuola è impedire che le politiche espansive della domanda finiscano con il generare sfiducia

negli operatori economici e riducano l'efficienza del sistema dei prezzi relativi.

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2 I limiti della nuova macroeconomia classica e il


pensiero di Malinvaud

La nuova macroeconomia classica si pone al termine del lungo dibattito iniziato con

Phillips. In molte sue parti questa teoria economica è capace di una esauriente della corrente

situazione economica, ma c'è un punto di questa scuola, che non sembra convincente: l'ipotesi che

l'insieme dei comportamenti razionali e massimizzanti conduca alla perfetta flessibilità dei prezzi. A

molti economisti l'ipotesi della perfetta flessibilità dei prezzi sembra un'assunzione ad hoc. Essa è

funzionale al desiderio di formulare un quadro di riferimento perfettamente dicotomico implicante

l'equilibrio continuo. In realtà ci sembra che l'ipotesi della vischiosità dei prezzi, soprattutto nel

mercato del lavoro, e per molti beni, è il risultato logico del desiderio di minimizzare i costi

derivanti dalle transazioni di prodotti eterogenei. La forma contrattuale dello scambio, implicita o

esplicita, cioè l'impegno delle parti di vendere e acquistare forza - lavoro per un periodo di tempo

determinato a un prezzo fissato anticipatamente, allontana il funzionamento del mercato del lavoro

da quello di una borsa valori.

Lucas sembra cadere in una semplificazione opposta a quella che si può ricavare dalla lettura

della Teoria Generale. L'osservazione della realtà smentisce questa semplificazione come quella

opposta, che tutti i mercati siano a prezzo fisso. La verità sta nel mezzo. Come dice Hicks nelle

moderne economie è certo il fatto che vi siano almeno due tipi di mercato. Vi sono i mercati in cui i

prezzi sono fissati dai produttori; e per questi, che comprendono una larga parte dei mercati dei

prodotti industriali, l'ipotesi del prezzo fisso è valida.

"Ma vi sono altri mercati, a prezzo flessibile, o speculativo, nei quali i prezzi sono ancora

determinati dalla domanda e dall'offerta. Si ha la tentazione quando si costruisce un modello

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economico, di semplificare assumendo l'esistenza di uno solo di questi mercati. Così si può

ipotizzare che tutti i mercati stano a prezzo fisso e derivarne una teoria del prezzo fisso, o ipotizzare

che tutti i mercati siano speculativi" 2.

Sono state formulate teorie macroeconomiche, in particolare da Malinvaud3, che

presuppongono, in contrapposizione al pensiero della nuova macroeconomia classica, che il

mercato del lavoro non sia un mercato a prezzo flessibile come ipotizzato da Lucas, e che questa

ipotesi, quella della vischiosità del salario, non contraddica l'ipotesi del comportamento razionale

degli operatori economici. Frequentissime contrattazioni del prezzo della forza lavoro possono

risultare spiacevoli e onerose, sia per la perdita di tempo che per la possibilità che diano luogo a

continui contrasti a causa delle difficoltà di reperire tutte le informazioni necessarie all'esatta

determinazione del salario. Inoltre lo scambio della forza - lavoro ha aspetti del tutto peculiari, in

grado essi soli di spiegare l'osservata vischiosità salariale. Da un lato una esigenza primaria dei

lavoratori è quella di garantirsi il posto di lavoro anche per il futuro, al fine di evitare il rischio di

trovarsi improvvisamente disoccupati. Dall'altro lato i datori di lavoro sono interessati a non perdere

i propri lavoratori, in quanto essi giungono a possedere una particolare esperienza e quella

particolare specializzazione tipica di ogni specifico processo lavorativo. Non sarebbe, dunque,

ragionevole per i datori di lavoro sostituire continuamente lavoratori già esperti con nuovi lavoratori

che necessitino di apprendistato.

E' conveniente, e quindi coerente con la massimizzazione delle utilità, sia per i lavoratori

che per gli imprenditori stipulare contratti di lungo periodo che prevedano lo scambio della forza -

lavoro contro un salario dato.

2
HICKS, La crisi nell'economia Keynesiana, pag. 33
3
MALINVAUD, Teoria della disoccupazione, a cura di Impicciatore, 1987.

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La vischiosità dei salari, allora, non è un dato empirico inspiegato ma è l'esito di un

comportamento razionale.

Per quanto riguarda i prezzi la loro vischiosità dipende sostanzialmente dalla presenza di

costi di transazione. L'atto di scambio genera infatti costi. Ad esempio, nelle borse valori in cui la

flessibilità dei prezzi porta quotidianamente alla uguaglianza tra la domanda e l'offerta di titoli, i

costi sono rappresentati dalle remunerazioni dei mediatori, la cui presenza consente al mercato di

funzionare.

Gli scambi dei beni di consumo hanno per oggetto beni eterogenei, beni che devono essere

disponibili nei luoghi e nei tempi desiderati dai possibili compratori. Nel caso di questi beni una

struttura degli scambi simile a quella operante nella borsa valori, e in grado di assicurare

l'immediata flessibilità dei prezzi, genererebbe costi elevatissimi. Per i venditori sarebbe difficile far

conoscere quotidianamente i livelli dei prezzi in grado di eliminare l'eccesso di offerta. Gli

esorbitanti costi di ricerca e di funzionamento di un mercato di questo tipo sarebbero inoltre

totalmente a carico dei compratori.

La fissazione dei prezzi per periodi più o meno lunghi, oltre che essere la migliore strategia

per conquistare permanentemente la clientela, appare essere la razionale e naturale conseguenza dei

problemi che sorgono negli scambi dei beni eterogenei in luoghi e tempi diversi. Tale pratica

consente di minimizzare i costi derivanti da tali tipi di transazioni. Anche la vischiosità dei prezzi è,

allora, il risultato logico del comportamento razionale che porta a minimizzare i costi delle

transazioni dei prodotti industriali.

Il punto più debole di tutta la costruzione di Lucas è rappresentato dalla sua convinzione

che, anche quando l'economia si trovi al di sotto del livello del tasso naturale di disoccupazione

storicamente determinato non sia adottabile una politica espansiva della domanda globale. Se, come

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giustamente ha osservato Lucas, i modelli econometrici non sono in grado attualmente di fornire

una indicazione certa degli effetti di una politica espansiva della domanda globale, ne segue che

anche la certezza dell'inefficacia di una politica monetaria anticiclica di breve periodo all'intorno di

un trend di incremento costante di lungo periodo non è dimostrata.

Anzi, qualora si introduca l'ipotesi della vischiosità dei prezzi e la si riconosca coerente con

il comportamento razionale degli agenti, è possibile che l'economia conosca fasi temporanee di

disequilibrio. Gli agenti, cioè, possono trovarsi, pur elaborando in modo efficiente l'informazione

disponibile, in situazioni di disequilibrio che non dipendono dalla loro volontà.

Se i salari monetari sono fissati per un certo periodo di tempo, e con essi è fissato il livello

dei prezzi, una riduzione della domanda globale, anziché contribuire a ridurre salari e prezzi, può

determinare una contrazione delle quantità domandate e prodotte e quindi una riduzione della

domanda di lavoro. L'economia si può trovare così costretta a operare lungo un sentiero di scambi a

prezzi incapaci di eliminare gli squilibri tra la domanda e l'offerta.

In altre parole, quando un aumento della disoccupazione non dipende da inefficienze del

mercato del lavoro ma da una diminuzione imprevista della domanda globale e i prezzi e i salari si

mostrano vischiosi verso il basso, una politica espansiva della domanda aggregata riconduce

l'occupazione al suo livello naturale.

La grandezza della nuova macroeconomia classica è quella di aver radicalmente dimostrato

l'inefficienza di un uso totalmente arbitrario della politica economica, ma il suo più grande limite è

la generalizzazione opposta: la semplificazione dell'economia come un mercato a prezzi flessibili e

dunque la completa inutilità di una qualsiasi politica monetaria.

Il merito dei nuovi macroeconomisti classici è quello di aver saputo individuare che esiste

disoccupazione che dipende da motivi strutturali e istituzionali. Lucas e gli studiosi di questa scuola

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hanno saputo mettere in evidenza l'esigenza che la politica economica potrà rimuovere le difficoltà

presenti solo adottando strumenti nuovi, capaci di agire innanzitutto sul sistema dei prezzi relativi,

diversi dal semplice controllo della domanda globale.

Malinvaud affronta i problemi dell'occupazione proprio partendo dall'ipotesi che i prezzi

non siano flessibili sui mercati e che su di essi esistano persistentemente disequilibri.

Nella realtà, ad avviso di Malinvaud, nei mercati non avvengono soltanto scambi ma anche

tentativi di scambi. Si possono cioè interpretare le posizioni degli agenti economici come puri

tentativi che possono essere repressi dalle condizioni del mercato stesso.

I compratori o i venditori di un mercato possono essere cioè, nel linguaggio di Malinvaud,

razionati: le quantità offerte e domandate si trovano allora in disequilibrio.

Malinvaud analizza in particolare le situazioni di disequilibrio che possono manifestarsi

contemporaneamente sul mercato dei beni e del lavoro, ed individua tre diversi tipi di

disoccupazione:

quando contemporaneamente sul mercato dei beni e su quello del lavoro sono razionate le

offerte abbiamo disoccupazione keynesiana;

quando sul mercato dei beni sono razionati 1 compratori, cioè la domanda di beni eccede

l'offerta, e su quello del lavoro sono razionati 1 lavoratori abbiamo disoccupazione classica;

quando la domanda eccede l'offerta tanto sul mercato dei beni che sul mercato del lavoro,

abbiamo una situazione di inflazione repressa.

In sostanza, secondo Malinvaud, la disoccupazione keynesiana è tipica di una situazione in

cui i prezzi sono troppo alti rispetto ai saggi salariali dei consumatori, dato il volume della domanda

autonoma. In altre parole il livello del salario reale presente nell'economia è inferiore a quello che

porterebbe l'economia ad una condizione d'equilibrio

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La disoccupazione classica, d'altra parte, si verifica quando i salari reali sono troppo alti,

sicché le imprese non trovano convenienza ad utilizzare tutta la propria forza lavoro.

Si verifica, infine, inflazione repressa quando tanto i prezzi che i salari sono così bassi che le

scorte monetarie individuali hanno un grande potere di acquisto, e quando gli individui scelgono il

tempo libero fino ad un limite tale che la domanda dei beni può non essere completamente

soddisfatta.

Distinguendo questi tre casi, Malinvaud supera il tradizionale dibattito tra le scuole

economiche.

Nella teoria neoclassica la disoccupazione dipende sempre da un livello troppo alto dei salari

reali; nella teoria keynesiana la disoccupazione dipende sempre da una carenza del reddito

spendibile della collettività. Malinvaud afferma che, secondo le situazioni di disequilibrio presenti

realmente nei mercati, può essere vera l'una o l'altra spiegazione.

Quello che è importante sottolineare è che tutto lo studio di Malinvaud si articola

considerando l'ipotesi inversa a quella proposta dalla nuova macroeconomia neoclassica: la

vischiosità del salario e del prezzo dei beni.

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3 Il nuovo keynesianesimo e il keynesianesimo


ortodosso

Una diversa scuola di pensiero economica raggiunge conclusioni di politica economica

simili a quelle della scuola monetarista.

In un articolo intitolato "La stagflazione: il peggiore dei mali"4, l'economista J a m es E. Me

ade affronta la situazione economica di quegli anni e propone una serie di consigli di politica

economica. Il punto di partenza delle sue considerazioni è che lo stato presente della situazione

economica mina alle basi la struttura della società liberale. A suo avviso, tanto una accentuata e

perdurante disoccupazione, quanto una inflazione in rapida ascesa costituiscono un pericolo non

solo per il sistema economico ma anche per il sistema politico.

La tesi di Meade è che la stagflazione sia causata fondamentalmente dalla compresenza dei

seguenti tre fattori:

La diffusione dell'adozione di una politica Keynesiana di espansione della spesa monetaria

complessiva, attraverso politiche di bilancio e monetaria, spinta a qualsiasi livello necessario per

mantenere la piena occupazione;

l'accresciuta capacità e volontà dei sindacati ad aspirare a determinati incrementi del livello

reale degli standard di vita anche se questi eccedono gli incrementi disponibili della produzione

reale;

4
MEADE J.E., La stagflazione: il peggiore dei mali, in La stagflazione, a cura di Mauro Marconi, Il
Mulino, Bologna 1985.

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l'incapacità dei paesi capitalistici industrializzati di raggiungere un tasso di crescita della

produttività consistente, incapacità particolarmente evidente in Gran Bretagna.

E' immediato notare che, a differenza che nel quadro di riferimento della nuova

macroeconomia classica e del monetarismo, lo stato attuale dell'economia non viene fatto dipendere

esclusivamente dalle politiche espansive della domanda attuate dai governi di tutto il mondo. Esiste

anche un ruolo della distribuzione del reddito, della latente lotta tra gli imprenditori e i lavoratori

per la distribuzione del reddito.

Meade, inoltre, si domanda quale siano le cause dell'incapacità di raggiungere tassi di

crescita della produttività maggiore. Molti fattori sono stati indicati come causa di questa

incapacità:

una cattiva e non intraprendente gestione dell'economia;

la mancanza di una educazione idonea e di addestramento tecnico;

una limitata pratica manuale;

la mancanza di nuovi e adeguati investimenti in beni capitali.

La soluzione di questi problemi, consentendo un aumento della produttività, consentirebbe

un alleviamento della situazione attuale.

Meade non è però convinto che il recupero della competitività da solo possa produrre la

scomparsa totale e permanente delle condizioni inflazionistiche e recessive. Tanto è vero che, anche

quel paesi che hanno sperimentato livelli più alti del tasso di crescita della produttività, attraversano

attualmente condizioni analoghe a quelle della Gran Bretagna. Il vero problema è un altro.

Dice Meade: "Fino a quando gli accordi istituzionali saranno tali da permettere a singoli

gruppi di avanzare separatamente richieste che complessivamente superano le risorse reali, gli

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appetiti potranno crescere con la stessa rapidità dell'offerta, così che la domanda complessiva

continuerà a rimare troppo alta.5

La compresenza d'inflazione e recessione senza dubbio, dice Meacle, dimostra

l'inadeguatezza dello schema teorico tradizionale della politica economica sintetizzato dal trade-off

della curva di Phillips. Infatti se vengono avanzate e soddisfatte richieste di incrementi dei redditi

monetari superiori agli incrementi della produzione reale disponibile per il consumo, è certo che il

costo monetario per unità di prodotto crescerà.

Se le politiche monetarie e finanziarie sono simultaneamente orientate a fornire una

domanda sufficiente per acquistare l'intera produzione disponibile a prezzi che coprono i costi, i

prezzi di vendita devono essere aumentati.

La conseguente crescita del costo della vita renderà inutili i tentativi di ottenere aumenti

troppo ambiziosi dei redditi reali e questa frustrazione porterà a nuovi tentativi di ottenere aumenti

dei redditi monetari. E' evidente che questo meccanismo porterà soltanto ad un incremento

dell'inflazione a tassi sempre più rapidi.

Le autorità di politica economica, prima della predisposizione di ogni bilancio possono, in

presenza di stagflazione, sentirsi dare consigli molto contrastanti. Per coloro che sono abituati a

pensare in termini keynesiani, l'errore fondamentale è che si sta accettando la recessione mondiale

attuale.

Secondo questi economisti occorre infatti attuare una politica monetaria e di bilancio

espansiva per stimolare la spesa monetaria in beni e servizi allo scopo di creare posti di lavoro e di

ridurre la disoccupazione.

5
MEADE, op. cit., in La stagflazione, pag. 295.

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Altre scuole di pensiero economico raccomandano invece politiche restrittive per diminuire

la spesa monetaria, allo scopo di tenere bassi i prezzi e di combattere l'inflazione. Il contrasto di

opinioni non si limita alla sola politica economica interna, ma coinvolge le implicazioni di carattere

internazionale: esistono paesi con diversi ordini di priorità fra gli obiettivi oppure che

obiettivamente sperimentano squilibri di diversa gravità.

Questa politica espansiva della domanda globale attuata in Germania, avrebbe senza dubbio

ridotto la disoccupazione sia in Germania che in Gran Bretagna e, nello stesso tempo avrebbe

provocato il riassorbimento dello squilibrio nei pagamenti internazionali.

Ma i tedeschi sono stati riluttanti in quegli anni ad espandere la loro domanda globale e lo

sono ancor più dopo che l'unificazione con l'ex Repubblica Democratica Tedesca ha inevitabilmente

comportato un aumento dei livelli dell'inflazione e della disoccupazione. E lo sono ancor più oggi,

in cui si ritrovano a finanziare in modo consistente le economie più deboli dei Paesi europei nel

quadro dell'unione monetaria

Secondo Meacle il modo migliore per sfuggire al dilemma posto dalla stagflazione è dato

dalla combinazione di due fondamentali cambiamenti.

Innanzitutto, e per questo aspetto Meade concorda con le conclusioni di politica economica

monetarista, occorre liberarsi, secondo Meade dall'idea che, qualsiasi cosa possa accadere al tasso

di crescita dei salari monetari, chi spende avrà sempre moneta sufficiente per coprire il risultante

costo edi produzione, indipendentemente dalla velocità a cui i prezzi crescono. Occorre imporre

forme di restrizione di tipo finanziario-monetario alle economie dei paesi capitalistici

industrializzati.

Dice Meade: "Si suggerisce che le politiche monetarie e di bilancio dovrebbero essere

consapevolmente indirizzate al conseguimento di un moderato e costante tasso di crescita - diciamo,

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a titolo di esempio, un tasso di crescita del 5% annuo - della spesa monetaria complessiva in beni e

servizi, e quindi della domanda totale di lavoro necessaria per produrre quei beni e servizi. 6

In secondo luogo, sullo sfondo di questa crescita costante del 5% annuo della domanda

monetaria di beni, sarebbe necessario trovare un metodo nuovo per la fissazione del

saggio di salario che assicuri il raggiungimento della piena occupazione.

In altre parole, secondo Meade, accanto al fallimento di lungo periodo di una politica

monetaria espansiva, per spiegare le condizioni che hanno condotto alla stagflazione, occorre porre

l'accento sui fattori istituzionali.

E' evidente, dice Meade, che proprio a causa dell'esistenza di certe istituzioni, quali i grandi

sindacati monopolistici,i lavoratori sono lasciati rincorrere un salario reale che non è quello

d'equilibrio e che non può assicurare un lavoro a tutti.

Una soluzione appropriata potrebbe essere, a suo avviso, una qualche regola

sullafissazione dei salari che limiti gli incrementi salariali in ciascun settore dell'economia ogni

qualvolta questi facessero aumentare la disoccupazione o, impedire, l'espansione dell'occupazione,

in quello stesso settore.

Dice Meade: "in qualsiasi settore commercio, industria o regione - in cui ci sia stata una

scarsità di offerta di lavoro rispetto alla domanda, è necessaria una crescita e non una caduta del

saggio di salario per attrarre lavoratori, e quindi, per incrementare l'occupazione in quel settore.

Poiché il sistema opererebbe su di uno sfondo in cui in media la domanda di lavoro in termini

monetari per tutti settori dell'economia si espande ad un tasso costante, si avrà che prima o poi ci

sarebbe in ogni specifico settore la necessità, causata dalla concorrenza, di aumentare i saggi di

salario per trattenere la propria forza lavoro. In ogni settore in cui il lavoro sia stato particolarmente

6
MEADE, op. cit., pag. 298.

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scarso, i salari dovrebbero crescere più velocemente di questa media. In ogni settore in cui persiste

un eccesso di offerta di lavoro, qualsiasi crescita dei salari dovrebbe essere evitata o moderata allo

scopo di non accentuare il problema della disoccupazione"7.

In altre parole. ad avviso dell'autore, occorre istituzionalizzare un meccanismo capace di

impedire quella che nello schema originario di Phillips veniva definita "trazione della domanda"8 e

che Hicks definiva "la concorrenza tra gli imprenditori per accaparrarsi la manodopera più

qualificata"9 . Occorre contribuire, cioè, al movimento dei lavoratori dai settori con alta offerta ai

settori con bassa offerta. Questo obiettivo è raggiungibile mediante lo strumento degli incrementi

salariali relativi.

Se questo sistema operasse realmente si potrebbe raggiungere e mantenere la piena

occupazione. Se ad esempio la produzione totale crescesse al 2% annuo, mentre la spesa monetaria

complessiva fosse del 5% annuo il livello dei prezzi non crescerebbe più del 3% annuo.

La definizione di un insieme di politiche monetarie e di bilancio necessarie per tenere il

livello della spesa monetaria complessiva su un sentiero di crescita costante del 5% annuo fa

sorgere importanti questioni.

Come è meglio controllare la spesa monetaria complessiva? Mediante la politica monetaria?

Mediante la politica fiscale?

Meade non affronta nessuna edi queste questioni.

7
MEADE, op. cit., pag. 298.
8
PHILLIPS, La relazione tra disoccupazione e tasso di variazione di saggi salariali monetari nel Regno
Unito: 1861-1957, in Problemi di macroeconomia, a cura di M.G. Mtiller, vol. II: Consumi,
investimenti, salari. Etas/Kompass, Milano, 1968 p. 228- 247.
9
HICKS F.A., Piena occupazione ad ogni costo, in Institute of Economie Affairs, Londra, 1975.

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Si limita a dire "la tesi principale di questo saggio è che il modo migliore per giungere al

controllo della spesa interna in beni e servizi è di apportare frequenti e sollecite variazioni ad alcune

aliquote fiscali.

In questo caso i tassi d'interesse, come stabiliti dalla politica monetaria, possono essere usati

in primo luogo per influenzare il flusso dei fondi di capitale in entrata o in uscita dal paese e quindi

per modificare il conto capitale della bilancia dei pagamenti, mentre il tasso di cambio estero

potrebbe essere usato per influenzare la bilancia commerciale"10.

Approfondiremo meglio queste indicazioni, quando avremo spiegato il tasso di cambio delle

valute e la bilancia dei pagamenti.

Quello che importa qui sottolineare è che Meade suggerisce dunque di usare le politiche di

controllo della domanda (attraverso la politica monetaria, la politica fiscale e la politica sui tassi di

cambio) per mantenere un tasso costante di crescita della spesa monetaria complessiva sui prodotti

dell'industria e, su questo sfondo, di usare le regole e le politiche di fissazione dei salari per

mantenere la piena occupazione.

E' facile osservare che questa poli tic a è una politica Keynesiana.

Il punto di divergenza rispetto a Keynes riguarda i salari monetari.

Negli anni '30 Keynes aveva sostenuto che tagliare i salari monetari avrebbe avuto un effetto

limitato sulle espansioni della occupazione, poiché l'effetto principale sarebbe stato soprattutto di

ridurre il livello assoluto dei più importanti prezzi, dei costi monetari, dei redditi monetari e della

spesa monetaria, lasciando quasi invariati i livelli della produzione reale della disoccupazione.

Nell'ottava lezione del nostro corso abbiamo messo in evidenza che una diminuzione del

salario reale diffusa in tutti i settori economici, se non è accompagnata da un contemporaneo

10
MEADE, op. cit., pag. 300.

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incremento del consumo, non ha gli effetti attesi dai singoli imprenditori, ma comporta soltanto una

riduzione della spesa monetaria.

E' una questione completamente differente ma del tutto coerente con l'analisi keynesiana e

con l'interpretazione che di essa abbiamo dato, suggerire che il saggio di salario monetario potrebbe

essere usato per influenzare il livello dell'occupazione nei casi in cui la domanda di moneta sia

controllata deliberatamente, e con successo, attraverso politiche monetarie e fiscali.

In altre parole, una politica espansiva della domanda globale con un tasso di crescita

costante consente che la generale riduzione del salario reale sia accompagnata da una elevata

elasticità dei beni prodotti dalle singole aziende.

In questo caso la diminuzione del salario reale è capace di generare un aumento del reddito

reale e della produzione, e soprattutto un aumento dei livelli dell'occupazione.

Meade sostiene che, all'interno della scuola di pensiero economico keynesiano, si affrontano

due strategie.

La prima utilizza le politiche di controllo della domanda per mantenere la piena occupazione

e le politiche di fissazione dei salari per controllare l'inflazione. Questa strategia può essere

chiamata keynesianesimo ortodosso.

La seconda utilizza le politiche di controllo della domanda per contenere l'inflazione e le

politiche di fissazione dei salari per mantenere la piena occupazione.

Meade definisce questa seconda strategia come nuovo keynesianesimo.

Dice Meade: "I vantaggi della piena occupazione sono gli stessi sia se la si raggiunge

attraverso l'espansione della domanda monetaria spinta fino al punto necessario a coprire i costi

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monetari dati, sia se la si raggiunge attraverso un vincolo sui costi monetari al punto necessario ad

uguagliare una espansione della domanda controllata prefissata".11

Inoltre, secondo Meade, esiste una ragione sostanziale per cui la strategia del nuovo

keynesianesimo si dimostra più consona alla situazione attuale.

L'utilizzo di una politica di fissazione dei salari e di una politica dei redditi come l'unico, o

più importante, strumento capace di evitare l'inflazione richiede inevitabilmente un dettagliato

controllo centralizzato di una ampia gamma di particolari saggi salariali e questo non è sempre

realisticamente attuabile.

11
MEADE, op. cit., pag. 302.

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4 Keynes e i monetaristi

Ci si può tuttavia chiedere, e a ragione, dice Meade, in che cosa questa strategia di politica

economica differisca dalle proposte dei monetaristi.

I monetaristi, come abbiamo visto, danno le seguenti indicazioni di politica economica:

le autorità di politica economica devono mantenere la quantità totale di moneta su di un

sentiero di crescita costante;

problemi legati all'occupazione devono essere risolti dalle libere contrattazioni delle parti,

senza alcun intervento del governo.

Meade distingue la sua proposta, quella del nuovo keynesianesimo, da quella monetarista

per tre aspetti essenziali:

in primo luogo, Meade non sostiene che la politica finanziaria debba essere diretta

esclusivamente al controllo della quantità di moneta, ma sostiene che debba essere orientata al

mantenimento di un flusso della spesa monetaria in beni e servizi su di un sentiero costante di

crescita.

In secondo luogo, secondo il nuovo Keynesianesimo, il controllo della domanda globale

andrebbe affidato esclusivamente o comunque in misura preponderante, alla politica fiscale.

In terzo luogo Meade ritiene necessaria una riforma delle regole per la fissazione dei salari.

Le due proposte - che le politiche finanziarie debbano essere concepite per mantenere una

crescita costante del cinque per cento annuo della domanda monetaria totale di beni, e che i saggi

salariali, sullo sfondo di una crescita costante della domanda di lavoro, debbano essere determinati

in modo da mantenere la piena occupazione - formano un unico pacchetto.

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Il punto vero di distacco di Meade dalle indicazioni della scuola monetarista ci sembra

essere il richiamo all'uso della politica fiscale quale strumento principale di controllo della

domanda globale.

Viene spontaneo domandarsi, allora, se la politica fiscale possa essere realmente uno

strumento efficace di controllo della domanda globale.

I rilievi mossi dalla scuola di politica economica della Pubblic Choice, che approfondiremo

in apposita lezione, mettono fortemente in dubbio questa conclusione.

Nel sistema parlamentare, la politica fiscale risponde a tutta una serie di esigenze di carattere

non economico e di massimizzazione del consenso elettorale.

Sembra così difficile un utilizzo della politica fiscale, come studieremo meglio in seguito,

nel senso auspicato da Meade.

Del resto limiti nel controllo della domanda globale sono evidenti anche nella politica

monetaria, data l'esistenza di uno sfasamento temporale tra le manovre dell'autorità monetaria e i

suoi effetti sull'economia.

Ma mentre i limiti della politica monetaria nel controllo della domanda globale sembrano

essere superabili se si adotta una politica di incremento costante della quantità di moneta, meno

superabili sembrano i limiti di carattere istituzionale e politico propri della politica fiscale.

Tutta una serie di studi, che approfondiremo in seguito, hanno dimostrato il ruolo che

giocano le scadenze elettorali, i gruppi di pressione, i sindacati, le organizzazioni partitiche nelle

scelte di carattere fiscale.12

12
Tra i contributi principali BUCHANAN J.M. e TULLOCK, The calcolus of consent, Università of
Michigan P r e s a , 1962.

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Al momento attuale sembra più difficile rimuovere le cause dell'inefficacia della politica

fiscale nel controllo della domanda che non quelle della poli tic a monetaria.13

13
Più in generale vedi: BUCHANAN,The limita of liberty betaina A n a r c h y a n d Leviatano,
Chicago 1975.

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5 NAIRU e FERU

Meade prosegue il suo discorso con una analisi del mercato del lavoro molto vicina

all'originario contenuto dell'articolo di Phillips.

Molti, dice Meade sono gli elementi che in un dato momento possono influenzare il livello

delle rivendicazioni salariali monetarie.

Tra questi, due importanti fattori sono: il tasso corrente di inflazione e il livello generale

della domanda corrente di lavoro.

Più è elevato il tasso d'inflazione, maggiori saranno le rivendicazioni monetarie avanzate per

controbilanciare o per anticipare la crescita del costo della vita.

Più è elevato il live11o generale della domanda corrente di lavoro, più i salari sono

sottoposti ad inflazione da domanda.

Occorre ricordare che negli anni in cui scrive Meade, l'inflazione era sostenuta.

Supponiamo che il tasso corrente d'inflazione sia, dice Meade, del dieci per cento annuo e

che il tasso di crescita della produttività per unità di lavoro sia del due per cento annuo.

Se, in tali circostanze, i salari monetari aumentassero fino a circa il dodici per cento annuo,

ci si potrebbe aspettare una inflazione stabile al dieci per cento annuo.

Si avrebbe, quindi, un certo livello di domanda di lavoro, la quale, con il costo della vita al

dieci per cento, darebbe luogo ad una crescita delle remunerazioni di circa il dodici per cento.

Una percentuale di occupazione superiore implicherebbe una maggiore domanda di lavoro; e

ciò darebbe luogo ad una crescita delle remunerazioni superiore al dodici per cento.

In questo caso i costi per unità di prodotto, e di conseguenza i prezzi, inizierebbero a

crescere più del dieci per cento.

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In ogni momento avremo così una stessa percentuale di disoccupazione.

Gli economisti chiamano questa percentuale di disoccupazione NAIRU o tasso di

disoccupazione al cui valore il tasso d'inflazione rimarrà costante.

Infatti se la domanda di lavoro, in seguito ad una politica espansiva della domanda

aggregata, cresce al di sopra di questo tasso di disoccupazione, il tasso d'inflazione salirà

rapidamente.

Viceversa solo riducendo il livello dell'occupazione, sarà possibile ottenere un saggio

d'inflazione inferiore.

Anche Meade riconosce l'esistenza di quello che in termini monetaristi viene definito tasso

naturale di disoccupazione.

La tesi di Meade è però che il tasso di disoccupazione del NAIRU non sia determinato

soltanto da cause microeconomiche e strutturali, ma, e questa è la vera novità del pensiero di

Meade, dal tipo di istituzione presenti nel mercato del lavoro, cioè dalle regole per la fissazione dei

salari operanti in un sistema economico.

Meade distingue due regole opposte per la fissazione dei salari.

Esiste una regola per la quale l'obiettivo primario di ogni rivendicazione salariale è

l'ottenimento del salario reale più elevato possibile per i lavoratori che sono al momento occupati:

questa regola non tiene conto di coloro che si trovano disoccupati e l'unico suo interesse è quello di

garantire le condizioni economiche migliori a chi il lavoro lo possieda già.

Esiste però un'altra regola di fissazione dei salari monetari: quella il cui scopo principale

consiste nel mantenere e, se possibile espandere, il volume dell'occupazione nel settore o

nell'impresa in questione.

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E' evidente che in genere il comportamento dei sindacati, e questo è vero sicuramente per

l'Italia, prima della crisi strutturale del 2008, debba essere annoverato nella prima piuttosto che

nella seconda delle due regole.

La grave situazione attuale sta modificando il comportamento del sindacato, sempre più

impegnato ad ottenere contratti di solidarietà e a non ridurre l'occupazione attuale.

E' vero che si tratta di una strategia volta a difendere il lavoro di chi già è occupato, ma in

ogni caso, si accettano riduzioni di salario reale pur di non diminuire gli occupati.

Meade ritiene che "la mancanza d'interesse per l'occupazione di persone che non sono

ancora occupate nell'azienda è illustrata chiaramente dal modo corrente di vedere il problema degli

esuberi. Se ad un dato saggio di salario si deve ridurre il numero di un particolare gruppo di

lavoratori, probabilmente si faranno tentativi per raggiungere tale obiettivo non sostituendo i

lavoratori andati in pensione e forse tramite misure tendenti ad incoraggiare il pensionamento

anticipato volontario"14

E' facile vedere quale siano le conseguenze di un simile atteggiamento.

Si ignora completamente il benessere dei giovani in cerca di prima occupazione e si

scaricano sul sistema previdenziale gli squilibri del mercato del lavoro.

E' l'aumento dei prepensionamenti ha rischiato in Italia di far superare agli enti preposti di

far saltare la sostenibilità del sistema fino alle importanti misure di contenimento dei

prepensionamenti attuati dopo il 2000.

Per tornare alle politiche occupazionali, in sostanza, secondo Meade, in una economia in cui

i sindacati adottino la prima regola nelle contrattazioni salariali, il livello di disoccupazione naturale

o il livello del NAIRU sarà molto elevato.

14
MEADE, op. cit., pag. 307.

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All'opposto, se i sindacati nei settori organizzati del mercato del lavoro adottassero una

regola per la fissazione dei salari interamente orientata a stabilire livelli del saggio di salario tali da

incentivare in ciascun caso il massimo livello di occupazione nel settore medesimo, la percentuale

di disoccupazione compatibile con un tasso costante d'inflazione, sarebbe molto più bassa.

In altre parole il livello del tasso naturale di disoccupazione viene a dipendere in modo

strettissimo dal comportamento delle istituzioni sindacali.

Il saggio di salario necessario a massimizzare l'occupazione in qualsiasi settore deve,

naturalmente, essere sufficientemente alto da attrarre lavoratori in quel settore.

In un dato settore e in un dato momento si stabilirà un saggio di salario che massimizza le

prospettive di occupazione in quel settore: un salario abbastanza elevato da attrarre i lavoratori, ma

non tale da rendere la domanda di lavoro in quel settore inferiore all'offerta.

In altre parole la concorrenza tra gli imprenditori, generata da un incremento moderato ma

costante della domanda globale, garantisce che lavoratori ottengano il salario reale di equilibrio

Dice Meade "perciò facendo riferimento all'esempio recedente, se il tasso d'inflazione

fosse del dieci per cento ed il tasso di crescita della produttività del due per cento, rivendicazioni

salariali del dodici per cento sarebbero appropriate per contenere il tasso d'inflazione al suo valore

attuale del dieci per cento. Se gli accordi per la fissazione dei salari tendessero in ciascun settore

alla massimizzazione del livello di vita degli occupati nello stesso settore, potrebbe essere

necessario un tasso di disoccupazione del quindici per cento per impedire rivendicazioni salariali

superiori al dodici per cento. Ma se in ogni settore i salari fossero stabiliti in modo tale da

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massimizzare l'occupazione, soltanto una percentuale di disoccupazione del cinque per cento

potrebbe essere compatibile con rivendicazioni salariali non superiori al dodici per cento"15

Anche Meade, dunque, distingue, come i monetaristi, i motivi monetari della disoccupazione

da quelli reali.

Tra i motivi reali della disoccupazione individua il tipo di regola di contrattazione adottata

dai sindacati.

Meade definisce piena occupazione quel livello di occupazione che si avrebbe se, dato un

tasso di crescita costante della domanda monetaria complessiva per i servizi del lavoro, in ogni

settore dell'economia la regola di fissazione dei salari si basasse sulla incentivazione

dell'occupazione nel settore stesso.

"Chiameremo tasso di disoccupazione di piena occupazione o FERU (Full Employment Rate

of unemployment) l'inevitabile disoccupazione frizionale, stagionale o simile. 16

Gli alti tassi di disoccupazione osservati, allora, sono la conseguenza del comportamento

corrente del sindacato.17

15
MEADE, op. cit., pag. 309.
16
MEADE, op. cit., pag. 309.
17
Vedi pure FLAUAGAN R., SOSKICE D., ULMAN L., La questione salariale a partire dagli anni '70,
o p . 315-322, in L a stagflazione, a cura dì Mauro Marconi, Il Mulino, 1985.

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6 Conclusioni

Particolarmente importanti sono le considerazioni del nuovo keynesianesimo circa

l'influenza del comportamento del sindacato sul livello del tasso naturale di disoccupazione, ci

conducono a queste conclusioni:

che il sindacato debba, in fase di contrattazione, tenere sempre in considerazione il livello

del salario reale compatibile con la piena occupazione.

Se è vero, come avevamo riconosciuto in una precedente lezione, che la sola diminuzione o

contenimento della crescita del salario reale può essere insufficiente per determinare un incremento

del livello di occupazione, la stessa manovra non su manifesterà ugualmente insufficiente in una

economia nella quale si assista nel tempo ad un sentiero costante di crescita del flusso della spesa

monetaria.

Il comportamento che Meade richiede ai sindacati ci sembra confermare la nostra ipotesi.

Ma riformare il sistema che regola la fissazione dei salari in modo che la sua funzione

principale diventi quella di incentivare l'occupazione, impedisce di usare allo stesso tempo il saggio

di salario come strumento principale per ottenere una distribuzione del reddito socialmente

desiderabile.

Questo risultato può essere ottenuto in altri modi; sul piano dell'efficienza economica è utile

che i profitti di tipo monopolistico in eccesso siano annullati. Esistono, a questo scopo, molte

misure appropriate. Si possono adottare delle misure per impedire pratiche commerciali restrittive e

per controllare il costituirsi di monopoli. La concorrenza può essere efficacemente incentivata

anche attraverso la libera importazione di prodotti esteri competitivi. Nei casi in cm sia inevitabile

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la presenza di aziende monopolistiche su larga scala, alcune forme di controllo sui prezzi possono

essere appropriate allo scopo di mantenere i prezzi di vendita in linea con costi. Interventi di questa

natura sono molto opportuni. Le forze sociali che volessero ottenere una redistribuzione del reddito

dovrebbero concentrarsi su di esse.

Oltre alla fissazione dei salari esiste un numeroso ms1eme di misure che può e dovrebbe

essere utilizzato per influenzare la distribuzione del reddito e della proprietà tra gli individui e le

famiglie. Si dovrebbero eliminare gli ostacoli agli spostamenti di persone da lavori mal retribuiti a

lavori ben retribuiti. Si dovrebbero adottare misure fiscali per attenuare la disuguaglianza dei redditi

al netto della tassazione e per incentivare una più ampia distribuzione della proprietà. I sussidi e i

servizi sociali, come l'istruzione e la sanità, dovrebbero essere migliorati. Ci sono grandi vantaggi

nell'utilizzare misure fiscali e simili piuttosto che la fissazione dei salari come mezzo principale per

influenzare la distribuzione del reddito e della ricchezza e per trattare i problemi inerenti alla

povertà. Ciò permette di far svolgere al processo di determinazione dei salari la sua naturale e

significativa funzione, di incentivare cioè l'occupazione nei singoli settori dell'economia. Questa

posizione è sicuramente compatibile con la fissazione dei salari m1111m1 per impedire lo

sfruttamento dei lavoratori mal retribuiti da parte dei datori di lavoro monopolistici.

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IL SALARIO E
L’EVOLUZIONE DEL
MERCATO DEL LAVORO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Il salario e l’evoluzione del mercato
del lavoro”

Indice

1. IL SALARIO ----------------------------------------------------------------------------------------- 3
2. IL SALARIO E IL LIVELLO DI OCCUPAZIONE ----------------------------------------- 5
3. LE TIPOLOGIE DI DISOCCUPAZIONE ----------------------------------------------------- 7

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Giovanni Cannata “Il salario e l’evoluzione del mercato
del lavoro”

1. IL SALARIO

Le politiche dell’occupazione, in quanto segmento della politica


economica, hanno come oggetto il mercato del lavoro nelle sue
articolazioni, nelle sue determinanti e nel suo funzionamento. Taluni
semplicisticamente indicano come mercato del lavoro il luogo (pare
virtuale) nel quale domanda e offerta di lavoro si incentrano a
determinate condizioni, in primo luogo di prezzo (salario). Ma il
mercato del lavoro è innanzitutto una costruzione sociale determinata
da chi offre e da chi domanda in relazione alla percezione che si ha del
lavoro stesso. Inoltre il mercato del lavoro che rispecchia le
caratteristiche e le eventuali diseguaglianze della società di
riferimento risente delle preferenze dei soggetti che lo compongono e
delle strutture di potere delle società.
Il salario è la remunerazione del lavoro in genere, il prezzo del
lavoro in particolare di quello subordinato o dipendente, manuale o di
concetto quale risultante non esclusiva di domanda e offerta.
Il termine salario in questo secondo senso ha quindi un
significato più ampio e comprende, oltre a quello dell’operaio, la paga
del bracciante, lo stipendio dell’impiegato, l’onorario del
professionista, il compenso per prestazioni artistiche e servizi
personali di qualsiasi tipo, e anche la parte del prodotto che va
attribuita all’imprenditore (industriale, commerciante, agricoltore
ecc.) per il lavoro da lui svolto nell’impresa. Nell’analisi occorre tener
conto della differenza tra salario nominale e salario reale dal punto di
vista del datore di lavoro o del lavoratore.
Con il termine salario nominale ci si riferisce alla quantità di
moneta percepita da un lavoratore con riferimento a un determinato

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lasso di tempo. Con il termine salario reale ci si riferisce alla quantità


di beni e servizi che lo stesso lavoratore può acquistare sul mercato
utilizzando il relativo salario nominale. Intuitivamente possiamo
anticipare che nei periodi di inflazione, quando si è in presenza di un
crescente aumento dei prezzi a salari nominali invariati
corrispondono salari reali minori.
La determinazione del salario è regolata da una molteplicità di
fattori e dall’esistenza di vincoli normativi importi a livello nazionale
o di scala amministrativa inferiore, dalle modalità di contrattazione a
livello nazionale, locale, collettiva o di integrazione aziendale, dalla
simmetria informativa tra i contraenti e cioè di chi domanda e di chi
offre lavoro, dall’esistenza e dalla esigenza di salario minimo.

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2. IL SALARIO E IL LIVELLO DI OCCUPAZIONE

Il mercato del lavoro come punto d’incontro tra domanda e


offerta di lavoro a determinati livelli di salario definisce il livello di
occupazione e per converso il livello di disoccupazione inteso come la
situazione in cui un individuo senza occupazione remunerata è
comunque disposto a lavorare ed alla ricerca attiva di un impiego.
Ovviamente espressa in questi termini la dizione occupazione è
generica in quanto il mercato del lavoro risente delle differenze
relative ai vari settori di attività, alle caratteristiche geografiche, alle
mansioni e qualifiche.
L’offerta di lavoro è il numero dei lavoratori disponibili per un
certo salario e rappresenta una scelta tra lavoro e tempo libero ed è
al netto di altri fattori sociali funzione crescente del tasso di salario.
L’offerta di lavoro riflette il costo opportunità dei lavoratori e,
in relazione alle tendenze della società, la loro propensione relativa al
tempo da dedicare al lavoro o la tempo libero. Ovviamente l’offerta è
dinamica variando nel tempo e nello spazio in relazione ai mutamenti
delle preferenze, alle opportunità alternative, alla dimensione della
popolazione anche per effetto delle migrazioni.
La domanda di lavoro è indicativa del numero di lavoratori che
le imprese sono disposte ad assumere ad un dato salario e quindi
dipende in modo inverso dalla dinamica del salario reale.
Conseguentemente si può affermare che la rigidità del salario reale è
causa della disoccupazione.
Un altro elemento del quale occorre tener conto è costituito
dall’impatto della fiscalità sul mercato del lavoro.

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Ci si riferisce al cuneo fiscale come differenza tra costo del


lavoro (salario lordo maggiorato dai contributi a carico dei lavoratori)
e salario netto (salario lordo a cui vanno detratte imposte e contributi
sociali a carico dei lavoratori).
In termini semplificati il cuneo fiscale è costituito dalla
differenza tra il costo del lavoro per l’impresa e beneficio netto per il
lavoratore.
Si tratta di un dato molto controverso che molti governi si
propongono di contenere e che quindi determina interventi di politica
economica.
Il cuneo fiscale introduce distorsioni nel mercato del lavoro
determinando una contrazione dell’offerta infatti i contributi a carico
dei datori di lavoro abbassano la domanda di lavoro così come i
contributi a carico dei lavoratori alzano l’offerta di lavoro dato che si
determina nei lavoratori una più alta aspettativa per effetto di un
salario lordo più alto.
Ovviamente tutto dipende dall’elasticità della domanda e
offerta di lavoro
e dal modo in cui domanda e offerta reagiscono agli interventi
di politica economica relativi sia alle famiglie che alle imprese che
possono avere effetti sul livello generale dei prezzi.

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3. LE TIPOLOGIE DI DISOCCUPAZIONE

Il mercato del lavoro ovviamente risente in modo significativo


dell’andamento dell’economia se la domanda di beni cresce di più
dell’offerta di beni aumentano i prezzi ma diminuisce domanda
aggregata e, tralasciando il caso delle importazioni, aumenta il
prezzo dei beni prodotti all’interno
L’aumento dei prezzi fa aumentare sollecitandola l’offerta
aggregata e quindi la domanda di lavoro, ma le rigidità impediscono
l’aggiustamento in tempi brevi alle nuove condizioni dell’economia.
In un periodo più lungo possibile aggiustamento verso quella
che viene definita come disoccupazione di equilibrio dovuta a scarsa
mobilità geografica dei lavoratori, a condizione di rigidità strutturali
quali il salario minimo e comunque a tutto ciò che allontana da
condizioni di flessibilità.
Nel caso in cui l’offerta è maggiore della domanda i prezzi non
possono che diminuire facendo aumentare la domanda. Un certo
numero di disoccupati accetterebbe occupazione al salario crescente
ma non la trova e ciò determina disoccupazione involontaria,
l’economia non produce di più e si determina quella che è definibile
come disoccupazione classica.
La politica economica nel tempo ha messo a punto strumenti di
controllo della disoccupazione variegati e connessi a specifiche
situazioni. Tra gli stessi occorre ricordare politiche di stimolo della
domanda di lavoro, politiche di flessibilità dei prezzi per la
disoccupazione classica, politiche strutturali per il controllo della
disoccupazione di equilibrio quali quelle relative alla creazione di

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agenzie del lavoro, contrazione del cuneo fiscale, riduzione dei salari
minimi, erogazione di sussidi di disoccupazione.
Nella teoria come nella prassi si fa distinzione tra piena
occupazione ed equilibrio del mercato di lavoro come condizione di
normalità.
Nella piena occupazione di tutta la forza lavoro in età
lavorativa si può avere disoccupazione frizionale.
Con questo termine si fa riferimento a quelle quantità di
disoccupazione che dipendono solo dall’efficienza del mercato del
lavoro, dal suo adattamento, al mutare delle circostanze, da
condizioni meramente transitorie di adattamento che in una certa
misura esisteranno sempre, anche nel migliore dei mercati.
Il tasso di disoccupazione di equilibrio è quello che si realizza in
assenza di shock dell’economia e fa riferimento a condizioni normali
dell’economia ma a disoccupazione di particolari categorie pur in
presenza di disponibilità di altre o a fattori particolari.

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LA DISOCCUPAZIONE DI
EQUILIBRIO
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Indice

1. CONCETTI INTRODUTTIVI ------------------------------------------------------------------- 3


2. I MODELLI DI MATCHING -------------------------------------------------------------------- 8

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1. CONCETTI INTRODUTTIVI

La piena occupazione è quella che si realizza in una situazione


in cui si registra il pieno impiego del fattore lavoro e cioè di tutta la
forza lavoro in età lavorativa.
L’analisi economica fa una chiara distinzione tra la piena
occupazione ed equilibrio del mercato di lavoro
Nella piena occupazione di tutta la forza lavoro in età
lavorativa si può comunque avere disoccupazione frizionale costituita
da giovani al termine degli studi o da lavoratori licenziati. La
disoccupazione frizionale varia al variare dell’evoluzione demografica
o al variare dei processi di riallocazione dei lavoratori.
La disoccupazione di equilibrio prevede quindi sempre un certo
livello di disoccupazione. Il tasso di disoccupazione di equilibrio è
quello che si realizza in assenza di schock dell’economia, anche se non
si può affermare che faccia riferimento ad una condizione di
ottimalità.
Le determinanti di mancata corrispondenza tra domanda e
offerta di lavoro da cui discende la disoccupazione di equilibrio
possono essere il regime sindacale e la prassi delle relazioni sindacali,
le modalità di determinazione dei salari, il regime di indennità di
disoccupazione in termine di valori erogati e di tempistiche connesse.
Il mercato del lavoro è in equilibrio se la disoccupazione è
stabile e quindi si è in presenza di un salario reale costante.
La curva di Phillips, dal nome dell’autore, descrive il rapporto
tra tasso di variazione del salario reale e tasso di disoccupazione. Tale
relazione si fonda sull’osservazione che le fasi di espansione
economica sono caratterizzate da un aumento dei salari reali.

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In particolare un elevato tasso di disoccupazione, porta a


diminuire il salario reale mentre un basso tasso di disoccupazione fa
crescere il salario reale.
Nel breve periodo la politica economica può scegliere tra
inflazione e disoccupazione. Se la politica economica espande la
domanda aggregata può ridurre la disoccupazione ma solo a costo di
una più alta inflazione.
Nelle trattazioni di politica economica si fa riferimento al livello
di disoccupazione che si determina quando tutti i mercati di una data
economia sono in equilibrio e non c’è difetto di domanda aggregata.
L’inflazione effettiva è uguale a quella prevista.
Il NAIRU (Non accelerating Inflation Rate of unemployment) è
quindi l’acronimo che indica il tasso per il quale il salario rimane
stabile e il tasso di disoccupazione costante, il NAIRU dipende
negativamente dagli incrementi di produttività.
Incrementi di produttività determinano aumento del potere di
acquisto ma non generano inflazione, il NAIRU è influenzato dai
guadagni di potere di acquisto attesi dai lavoratori e nel lungo
termine potrebbe essere pari ai guadagni di produttività del lavoro.
L’aumento tendenziale della pressione fiscale può intervenire
sul NAIRU
ed analogamente può essere per un intervento sui margini
fiscali delle imprese
Il NAIRU dipende dalla sensibilità del salario reale al tasso di
disoccupazione.
Il modello WS-PS un acronimo che sta per Wage settings-Price
Settings analizza le determinanti del tasso di disoccupazione e le
collega alle strutture del Mercato del lavoro

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Il Wage settings riguarda la contrattazione salariale tra


impresa e lavoratori: le imprese fissano i prezzi dei beni prodotti e i
lavoratori e le imprese contrattano i salari. Occorre tener conto che la
determinazione dei salari è spiegata da teorie differenti quali quelle
fondate sul potere contrattuale o quelle sui salari di efficienza.
Utilizzando entrambe le teorie si può costruire una equazione del
salario secondo la quale il salario dipende dai prezzi attesi in
relazione alle variazioni della disoccupazione e di altre variabili
istituzionali del mercato del lavoro. Nei nuovi approcci agli studi del
mercato del lavoro della metà degli anni ’80 gli economisti pongono in
attenzione due elementi di rilievo quali la forza contrattuale e i salari
di efficienza.
Per quanto concerne la forza contrattuale nei casi in cui si
registra una bassa disoccupazione la forza dei lavoratori aumenta; ed
ancora quando la disoccupazione diminuisce l’impresa può aumentare
i salari per ridurre le probabilità che i lavoratori cambino lavoro.
Si fa riferimento inoltre ai salari di efficienza e tenuto conto del
fatto che le imprese possono voler pagare un salario superiore per
aumentare la probabilità che i lavoratori più produttivi rimangono in
azienda.
Nei modelli vigenti erano presenti alcune rigidità tra cui dei
fattori istituzionali a tutela del lavoro, delle imperfezioni del mercato
dei beni, un ruolo di incidenza sulla produzione del progresso tecnico.
Il mercato del lavoro può realizzare delle condizioni di
equilibrio in presenza di disoccupazione involontaria. Con il modello
WS-PS le imprese fissano i prezzi dei prodotti, i salari sono
determinati da un processo di contrattazione tra imprese e lavoratori.
Ovviamente ai lavoratori e all’impresa non interessa tutto il livello

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dei salari nominali ma il salario reale. Tenuto conto del fatto che il
livello dei prezzi non è conosciuto al momento del contratto di lavoro,
il salario nominale viene fissato sulla base dei prezzi attesi.
Può essere utile esaminare separatamente la determinazione
dei salari (WS) e quella dei prezzi (PS).
Per quanto riguarda la determinazione dei salari, il salrio
nominale dipende direttamente dal livello dei prezzi atteso,
indirettamente dal tasso di disoccupazione, direttamente dalla
protezione dei lavoratori, quali il salrio minimo, i sussidi di
disoccupazione, i costi di licenziamento.
Nella determinazione dei salari si tiene conto di una relazione
negativa tra salario reale e tasso di disoccupazione e un relazione
positiva tra salario reale e protezione dei lavoratori.
Relativamente ai prezzi dei beni (PS) essi dipendono dai costi di
produzione in cui il lavoro è l’unico fattore produttivo, la produzione è
funzione dell’occupazione e della produttività e il prezzo di vendita dei
beni è un ricarico sul costo marginale.
L’approfondimento della teoria mette in luce che il salrio reale
riferito alle imprese aumenta all’aumentare della produttività mentre
diminuisce se il ricarico delle imprese cresce. La disoccupazione di
breve periodo non coincide con il livello di equilibrio per la presenza di
rigidità nominali (lento e graduale aggiustamento di salari e prezzi).
Nel caso di shock di offerta inflazione e disoccupazione si
muovono nella stessa direzione.
Il modello WS-PS fornisce una spiegazione della disoccupazione
fondata sul rilievo della contrattazione collettiva e dei sindacati

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La persistenza della disoccupazione si può spiegare facendo


dipendere prezzi e salari non solo dal livello di disoccupazione ma
anche dalle variazioni
Il punto critico è che dopo un certo periodo di tempo di
disoccupazione i disoccupati finiscono per uscire dal mercato del
lavoro.

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2. I MODELLI DI MATCHING

A conclusione di questo capitolo un riferimento va fatto ai c.d.


modelli di matching, cioè alla formazione delle relazioni con
particolare riferimento al mercato del lavoro. Il modello descrive il
processo di incontro tra impresa e lavoratore sulla base delle relative
caratteristiche alla luce delle quali viene contratto il salario.
L’attenzione deve essere centrata sui flussi in entrata e uscita
nel mercato del lavoro tenendo conto delle questioni frizionali che
possono realizzarsi con lavoratori senza occupazione e posti di lavoro
vacanti. Si studiano cioè le interazioni tra soggetti diversi alla ricerca
di una controparte.
Si confrontano da un lato un’impresa che vuole lavoratori con
caratteristiche definite, dall’altro lavoratori che chiedono di fare uno
specifico lavoro.
Secondo i modelli di matching il tasso di disoccupazione
dipende dall’efficienza del processo di matching per cui una maggiore
efficienza nel matching determina un minore costo medio di un posto
di lavoro. L’effetto è quello di un aumento dell’occupazione, di una
diminuzione attesa della disoccupazione con conseguente aumento
dell’utilità per il lavoratore, di un aumento del salario negoziato
tuttavia con un minore impatto favorevole sull’occupazione.
Il tasso di disoccupazione dipende inoltre dallo sforzo di ricerca
di occupazione che laddove incisivo, può determinare una migliore
probabilità di trovare un posto, effetto positivo tuttavia condizionato
dall’aumento del salario negoziato.
Ma ancora il tasso dipende dal tasso di distruzione del lavoro
connesso all’innovazione, oltre che dal potere di contrattazione dei

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lavoratori, dai sostegni al reddito, un aumento del sostegno al reddito


determina un aumento del salario negoziato e da ultimo dalla
produttività del lavoro che finisce per indurre aumento del profitto
atteso e aumento dell’occupazione. Infine una spiegazione del modello
di matching si ritrova nelle dinamiche del tasso di interesse in quanto
un aumento del tasso di interesse, che rappresenta una maggiore
attenzione al presente finisce per determinare una riduzione della
stima dei profitti attesi da posti di lavoro vacanti.

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LE POLITICHE PER
L’OCCUPAZIONE
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Giovanni Cannata “Le politiche per l’occupazione”

Indice

1. IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI ------------------------------------------------------------- 3


2. LA CREAZIONE DI DOMANDA DI LAVORO --------------------------------------------- 6

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1. IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI

Le istituzioni del mercato del lavoro non fanno riferimento solo


ai soggetti che vi operano ma riguardano le leggi i regolamenti e le
convenzioni del mercato con cui gli attori intervengono sul mercato.
L’esperienza insegna che esse scontano condizioni di inerzia o
reattività anche a causa delle specificità nazionali con riferimento ad
approcci di contrattazione, forme di tutela, che sono legate a
problematiche e caratteristiche delle società di riferimento.
Una grande variabilità si registra anche nell’impiego per le
politiche relativamente alle risorse destinate al mercato del lavoro e
alle politiche del lavoro sono spesso connesse ad altre politiche quali
quelle sociali o quelle fiscali. In sintesi le politiche di
regolamentazione sono politiche di spesa e politiche
macroeconomiche.
Le politiche si possono dividere in politiche attive e politiche
passive. Quelle attive sono dedicate alla creazione di nuova
occupazione, o alla cura o prevenzione delle cause di disoccupazione,
mentre quelle passive operano attraverso prestazioni monetarie e
assistenziali.
La tendenza in atto nei paesi OCSE è quella di sostituire
politiche passive (indennizzi e incoraggiamento al pensionamento) con
politiche attive di creazione dell’occupazione ovviamente con una
situazione di differenze tra paesi nelle priorità e negli strumenti.
Questa tendenza all’uso delle politiche attive si ritrova nella
strategia europea per l’occupazione identificando obiettivi comuni e
scambi di esperienze ma non la realizzazione della cosiddetta politica
comune.

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Un dato con il quale fare i conti riguarda l’instabilità delle


politiche nazionali nel tempo per effetto di ragioni politiche connesse
ai mutamenti politici, di ragioni economiche in ragione dell’evoluzione
della crescita, di ragioni culturali riguardanti la valutazione etica
delle politiche.
Certamente n’è necessità di una stabilità degli incentivi per
l’incidenza che gli stessi hanno in termini di ruolo delle aspettative
per i datori di lavoro, in relazione ai problemi del costo del lavoro e
per i disoccupati in relazione alla conoscenza dei livelli di indennità e
alle prospettive di renumerazione.
In questo senso appare centrale il problema dell’informazione
per le parti sociali. L’analisi storico politica mette in luce la diversità
delle politiche a livello dei differenti paesi.
Ciò è determinato da condizioni di partenza differenti nei
mercati del lavoro nella difficoltà di identificazione di politiche
ottimali e le condizioni di base. Un punto cruciale va identificato nei
problemi della complementarietà delle riforme.
La resistenza alle riforme è determinata dalle condizioni di
accettabilità politica delle stesse.
Le politiche passive fanno riferimento a prestazioni monetarie
a favore dei disoccupati. Si tratta dei cosiddetti ammortizzatori sociali
come contributi assicurativi sotto forma di indennità di
disoccupazione( a fronte dei pregressi contributi) o sussidi di
disoccupazione per soggetti che non hanno versato contributi. Le
politiche attive fanno riferimento ai sussidi all’occupazione, alla
creazione diretta di parte del lavoro, alla formazione professionale, al
sostegno alle nuove imprenditorialità, ai servizi per orientamento al
lavoro.

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Contradditori sono gli interessi degli attori del mercato che


sono fuori dallo stesso e le resistenze di quelli che sono nel mercato in
termini di benefici attesi. Questi aspetti debbono essere considerati
includendo il tema dell’equità nel dibattito sull’occupazione.
Quello che si vuole sostenere è che nella costruzione di
orientamenti sulle politiche del lavoro occorre tener conto della
inclusione di variabili aggiuntive all’obiettivo sintetico dell’aumento
del volume di occupazione con altre considerazioni come quelle
relative al livello dei prezzi per le implicazioni sui salari reali, la
qualità dell’occupazione e in generale gli effetti di giustizia sociale che
impattano sul mercato del lavoro.

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2. LA CREAZIONE DI DOMANDA DI LAVORO

La creazione della domanda di lavoro si realizza attraverso


interventi possibili di stimolo della stessa intervenendo cioè
attraverso il superamento dell’insufficienza di domanda o agendo
sulla sua composizione. Gli strumenti utilizzati sono costituiti dalla
creazione di posti di lavoro pubblici o dalla sovvenzione a posti di
lavoro privati.
I programmi di creazione di posti di lavoro assistiti sono quelli
creati per persone difficilmente occupabili nel settore privato e che
rimangono nell’area della disoccupazione. Questi programmi sono
messi a punto per categorie particolari al fine di garantire
l’occupabilità futura garantendo un rientro possibile nel mercato del
lavoro.
Attivare questi strumenti hanno un costo contenuto perché
normalmente si attuano livelli retributivi da salario minimo come
ricordato sono politiche per favorire accesso a categorie specifiche
quali disoccupati di lunga durata o giovani senza formazione, ma
vengono utilizzati anche per favorire alcune tipologie di lavoro quali il
primo impiego, o forme nuove del lavoro quali il lavoro a domicilio o
quello a tempo parziale. L’analisi delle esperienze fatte mette in luce
problemi dell’efficacia dei programmi non nel breve termine a causa
delle incapacità di controllo dell’efficacia rispetto alle cause di crisi del
mercato del lavoro come nel caso di correggere le condizioni di
disabilità.
Questo tipo di programma viene talvolta ritenuto inadeguato
per la qualità non formativa delle mansioni alle quali sono adibite le
persone che fruiscono di questi programmi. Ma analogamente la

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percezione sociale negativa che si dà a questo tipo di impiego non lo


rende particolarmente accettabile. Un altro intervento per stimolare
l’occupazione è quello per la riduzione del costo del lavoro che si
ritiene in genere raggiunga l’effetto auspicato stimolo della domanda
di lavoro con particolare attenzione ai lavoratori poco qualificati, per i
quali il costo del lavoro è ritenuto troppo elevato.
L’analisi mette in luce effetti negativi nelle qualifiche
intermedie in quanto il prezzo del lavoro è ritenuto alto per il salario
minimo nel caso del lavoro poco qualificato.
L’intervento è praticato attraverso la riduzione dei contributi
sociali a carico dei datori di lavoro sui salari più bassi.
Come si è affermato la creazione di domanda di lavoro sulla
base delle politiche economiche illustrate si traduce in generosità
della politica economiche e dei problemi connessi, innanzitutto di
efficacia per l’occupazione. La contrazione dei contributi sociali è
particolarmente efficace se si è in presenza di un’alta elasticità al
prezzo della domanda e dell’offerta di lavoro.
Ma questa politica incide in termini di effetti sulla struttura dei
salari e sulle qualifiche con ripercussioni ulteriori sulla produttività e
sulla crescita. In generale emergono problemi di valutazione degli
effetti delle politiche che possono essere molto diversificate. In effetti
in situazioni di bassa competitività e di deindustrializzazione
l’intervento è concentrato sull’industria ma dello stesso finiscono per
beneficiare più i dipendenti non qualificati della grande distribuzione
rispetto all’industria. In queste situazione si determinano effetti
negativi sulle retribuzioni in quanto l’aumento del salario determina
un aumento del tasso di contribuzione sociale effettivo. Ciò scoraggia
la progressione salariale e colpisce l’accumulazione di capitale umano.

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Ma si determina anche effetti sulla crescita per gli effetti sui


guadagni di produttività in quanto il reinserimento dei lavoratori
poco qualificati ma esclusi in precedenza finisce per determinare un
contrazione della produttività del lavoro. Un ultimo tema da
affrontare riguarda la riduzione della durata del lavoro per
aumentare l’occupazione, un tema che da tempo è stato affrontato in
molti paesi.
La riduzione della durata del lavoro per aumentare
l’occupazione è certamente uno strumento utile a condizione che il
mercato del lavoro sia in sottoccupazione, il livello della domanda di
occupazione è determinato dalla domanda di lavoro, sia possibile
sostituire le persone alle ore lavorate senza costi di lavoro aggiuntivo
e da ultimo la durata del lavoro non aumenti il costo del lavoro.
In sintesi la riduzione della durata del lavoro dipende dalle
condizioni macroeconomiche di equilibrio, dalle condizioni di
equilibrio microeconomico a livello delle imprese in presenza di
eccesso di forza lavoro. Vanno ricordate poi le condizioni in cui è
effettuata la riduzione del lavoro combinando gli strumenti e le forme
di compensazione adottate.

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parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n.
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L’OFFERTA DI LAVORO
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “L’offerta di lavoro”

Indice

1. IL CONTROLLO DELL’OFFERTA ----------------------------------------------------------- 3


2. LE RIFORME DEL MERCATO DEL LAVORO-------------------------------------------- 5
3. OPZIONI STRATEGICHE PER L’OCCUPAZIONE -------------------------------------- 8

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Giovanni Cannata “L’offerta di lavoro”

1. IL CONTROLLO DELL ’OFFERTA

Una regola messa chiaramente in luce dall’evidenza empirica


afferma che di norma ad un tasso di attività alto corrisponde un tasso
di disoccupazione basso e quindi che non è con politiche restrittive di
accesso alla manodopera al mercato del lavoro che si controlla la
disoccupazione.
Questa affermazione tuttavia è disattesa talvolta con la
valutazione dell’incidenza dell’immigrazione sull’occupazione.
Né con la crescita demografica né l’immigrazione si ritiene
possano contribuire ad influenzare il tasso di disoccupazione mentre
piuttosto l’immigrazione di lavoratori qualificati potrebbe fornire
impulso all’economia laddove tale fenomeno fosse accompagnato da
un adeguato livello di investimenti.
In presenza di immigrazione qualificata si realizza quindi un
temporaneo aumento della disoccupazione, ma in presenza di una
produttività dei lavoratori rimessi sul mercato corrispondente al
salario di possibili investimenti l’esito sarà positivo.
Un effetto molto più lento sul mercato del lavoro sarà quello
determinato dall’invecchiamento della popolazione anche se sono
ipotizzabili eventuali effetti di riduzione dello stock di capitale. Va
segnalato inoltre che in situazioni di invecchiamento sono possibili
effetti di distorsioni sul tasso di disoccupazione per effetto del prelievo
fiscale utile per finanziare il sistema pensionistico.
Talvolta le politiche di prepensionamento sono state utilizzate
come strumento di controllo della offerta di lavoro ma si sono rivelate
inefficaci quando addirittura con effetti negativi per la perdita di
capacità professionali associate ai lavoratori più anziani e più esperti.

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Giovanni Cannata “L’offerta di lavoro”

Le politiche di prepensionamento hanno conosciuto problemi di


attuazione per l’invecchiamento della popolazione che ha determinato
effetti sul sistema pensionistico.
Più concretamente si sono determinate tendenze verso un
allungamento del periodo lavorativo e conseguentemente un
allungamento del periodo contributivo, rafforzando con la continuità
di lavoro degli anziani e scoraggiando il prepensionamento con
l’aumento della fiscalità sui prepensionamenti.
Anche politiche redistributive (quali ad esempio il sostegno al
reddito delle casalinghe) hanno conseguenze sull’offerta di lavoro. Si
tratta di strumenti di politica familiare e sociale che possono
incentivare le donne ad uscire dal mercato del lavoro, possono
generare problemi in un eventuale reinserimento successivo, ma
vanno anche a pesare sul rispettivo reddito pensionistico futuro.
Un meccanismo utile, per converso, per avvicinare l’offerta di
lavoro delle famiglie alla domanda delle imprese consiste nella
riduzione dei sostegni al reddito quali i trasferimenti sociali e
l’indennità di disoccupazione, anche se ovviamente questo collide con
gli obiettivi delle politiche sociali.
Le motivazioni della scelta al lavoro sono testimoniate nelle
valutazioni empiriche che sono state effettuate con riferimento alle
politiche adottate nei vari paesi e che mostrano come la scelta di
partecipazione al mercato del lavoro non sia solo determinato da
valutazioni di carattere economico ma ovviamente tiene conto di
effetti di natura psicosociale non trascurabili.
Un modo analogo nelle scelte di partecipazione al lavoro vanno
tenuti in conto i problemi di organizzazione familiare a loro volta
determinati dall’organizzazione dei servizi nelle società.

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Giovanni Cannata “L’offerta di lavoro”

2. LE RIFORME DEL MERCATO DEL LAVORO

Talvolta nello sviluppo dell’economia viene avvertita l’esigenza


di intervenire sul mercato del lavoro riformandolo, evento che ha
interessato anche il nostro Paese di recente. Proprio con riferimento
al caso italiano possiamo tentare di schematizzare in quattro aree
d’intervento le azioni di riforma possibili. Innanzitutto l’intervento
per la razionalizzazione delle tipologie contrattuali esistenti, si
interviene sulla tutela dell’impiego, si razionalizzano gli strumenti di
tutela del reddito, si rafforzano politiche attive del lavoro.
Riflessioni critiche sulle manovre del mercato del lavoro
riguardano la conciliazione di visioni contrapposte e cioè proteggere i
posti di lavoro esistenti, ovvero intervenire per ridurre le tutele
dell’esistente per creare nuova occupazione.
Valutazioni critiche sono fatte all’uso dell’indennità di
disoccupazione.
Chi sostiene la tutela dei posti e quindi la necessità di
mantenimento dello stock di lavoro ritiene che sussista un rischio che
la riduzione temporanea possa divenire definitiva.
La riduzione temporanea della tutela dei posti implica
eventuale nuova occupazione ma sovente ha luogo con sostituzione a
tempo determinato.
Chi sostiene l’utilizzo di minori tutele come strumento di
politiche le ritiene possibili a condizione che siano attivabili processi
di creazione e riduzione simultanei. In questo caso la decisione di
creazione di nuovi posti deriva da analisi costi/benefici tra
l’assunzione del lavoratore ed il costo che avrà luogo in futuro per il
licenziamento del dipendente.

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Migliorare le politiche di controllo della disoccupazione


significa sostanzialmente migliorare i modelli di matching attraverso
il miglioramento dell’efficienza del collocamento, la riduzione del
tempo di reinserimento con incentivo al rientro.
La tutela del lavoro si caratterizza differentemente tra paesi
così come sono studiate le differenze nel grado di tutela del lavoro.
Molti studiosi convengono sulle implicazioni distributive della
legislazione di tutela dell’occupazione che vede diminuire il rischio di
perdite per chi ne beneficia ma lo vede aumentare per chi invece non
ne beneficia.
Taluni si interrogano su eventuali effetti allocativi sulla
produttività e sulla crescita che possono essere ambigui in termini di
conservazione di capitale umano e di incoraggiamento delle
innovazioni.
In alcuni Paesi le riforme nella tutela hanno riguardato la
regolamentazione dei licenziamenti, il controllo giudiziario degli
stessi, l’introduzione di incentivi monetari basati sulla anzianità e la
tassazione del licenziamento come costo da far pagare all’impresa per
il licenziamento.
Nell’evoluzione delle politiche di riforma è emersa una
tendenza alla sostituzione dell’indennità di disoccupazione con la
predisposizione di politiche attive di ricerca del lavoro.
Il livello di occupazione e disoccupazione con riferimento ai
modelli di matching dipende dalle performance delle istituzioni
preposte a tal fine e dalla natura degli incentivi proposti a chi cerca
lavoro.
Da un miglioramento dell’efficienza di incontro tra domanda ed
offerta deriva un miglioramento della produttività.

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Giovanni Cannata “L’offerta di lavoro”

Non è economicamente né socialmente auspicabile


un’occupazione in posti non desiderati né con oneri di mobilità
ritenuti particolarmente onerosi perché ciò renderebbe inefficace il
matching.
Implicazioni critiche dell’assicurazione contro la disoccupazione
sono connesse alla durata dell’indennità che laddove fosse troppo
lunga porterebbe da un canto ad un depauperamento delle
competenze dall’altro alla costruzione di una immagine negativa del
lavoratore.
In alcuni Paesi sono stati adottati modelli di flexsecurity con
vantaggio alle imprese per un migliore adeguamento alle esigenze e
con maggior sostegno ai lavoratori nella ricerca di nuova occupazione.
Con la flexsecurity si attua una strategia di politica del lavoro
soprattutto a vantaggio delle categorie più deboli che intende favorire
la flessibilità del mercato e la sicurezza sociale. I principi della
flexsecurity riguardano la flessibilità contrattuale, la formazione
lungo tutto l’arco della vita LLL, la sicurezza occupazionale con
l’impiego di politiche attive per il collocamento e l’occupabilità dei
giovani, la sicurezza sociale con misure di sostegno al reddito e di
protezione sociale.
La flessibilità contrattuale implica l’impiego di contratti di
lavoro correlati alla flessibilità produttiva, quindi contatti
temporanei.
La flexsecurity è stata considerata strategia europea per la
crescita e l’occupazione.

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Giovanni Cannata “L’offerta di lavoro”

3. OPZIONI STRATEGICHE PER L’OCCUPAZIONE

Ulteriori strumenti per la strategia dell’occupazione peraltro


richiamata nella già ricordata strategia europea sono la formazione, il
sostegno della creazione d’impresa accompagnato dal sostegno per
l’accesso al credito per nuova imprenditorialità, nonché l’eliminazione
di ostacoli alla mobilità dei lavoratori.
La messa a punto di una strategia globale coinvolge le
dinamiche e la velocità delle politiche che ad essa concorrono e le
rendono complementari.
Se la strategia dell’occupazione deve utilizzare una pluralità di
strumenti da coordinare, le priorità della politica per l’occupazione
possono variare nel tempo in relazione all’emergere di nuove esigenze
dettate dall’agenda sociale ed economia nazionale ed internazionale
anche alla luce dell’emergenza di nuovi lavori richiesti dalle società.
Volendo in conclusione tracciare una sintesi dei modelli di
funzionamento del mercato del lavoro possiamo schematizzare come
segue i tre modelli di cui si è detto e cioè flessibilità, sicurezza e
flexsecurity.

Modello flessibilità
Protezione del lavoro debole
Sussidi bassi
Collocamento debole
Modello sicurezza
Protezione del lavoro forte
Sussidi variabili e di lunga durata
Collocamento debole

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Giovanni Cannata “L’offerta di lavoro”

Modello flexsecurity
Protezione del lavoro debole
Sussidi alti di lunga durata
Collocamento forte

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LE POLITICHE DEL
LAVORO. ASPETTI
OPERATIVI
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

Indice

1. IL RUOLO DEL LAVORO NEL SISTEMA ECONOMICO: IL LAVORO È UNA


SEMPLICE MERCE TRA LE ALTRE IMPIEGATA NEL PROCESSO
PRODUTTIVO? ------------------------------------------------------------------------------------- 3
2. IL DIBATTITO SUL RIPOSO SETTIMANALE -------------------------------------------- 7
3. IL DIBATTITO SULLA RIDUZIONE DELL'ORARIO DI LAVORO E LA LOTTA
TRA CAPITALE E LAVORO------------------------------------------------------------------- 12
4. L'INSUFFICIENZA DELLE POLITICHE MACROECONOMICHE
OCCUPAZIONALI CLASSICA E KEYNESIANA ----------------------------------------- 16
5. L'ATTUALE CRISI ECONOMICA E OCCUPAZIONALE ITALIANA E LO
STRUMENTO DELLA CASSA INTEGRAZIONI GUADAGNI ------------------------ 20
6. LA CENTRALITÀ DELL'ISTRUZIONE, DELLA FORMAZIONE
NELL'ECONOMIA DELLA CONOSCENZA E DELL'INNOVAZIONE -------------- 25

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

1. IL RUOLO DEL LAVORO NEL SISTEMA


ECONOMICO: IL LAVORO È UNA SEMPLICE
MERCE TRA LE ALTRE IMPIEGATA NEL
PROCESSO PRODUTTIVO ?

Nel loro tentativo di imitare le scienze naturali, gli economisti


negano la natura antropologica del lavoro e quasi tutto il dibattito
economico finisce con il considerare il lavoro come uno dei fattori della
produzione.
Il lavoro è, secondo questa visione la prestazione oraria
necessaria a generare un determinato prodotto, in collaborazione con
gli altri fattori della produzione: in primis, il capitale, le materie
prime e l'energia.
Si tratta di una visione che non corrisponde alla realtà evidente
dello stato delle cose. In questo modo, infatti, le scienze economiche
contraddicono in modo perentorio tutte le altre discipline scientifiche
(evoluzioniste, antropologiche, storiche, sociali, filosofiche,
aziendaliste) il pensiero giuridico e politico.
Nel 1911, negli Stati Uniti, un ingegnere, Frederick Taylor,
pubblicò un libro sull'organizzazione scientifica del lavoro destinato
ad avere un impatto fondamentale sulla società e l'economia mondiali
degli anni seguenti.
La teoria, che prese il nome di "taylorismo", sosteneva che il
lavoro operaio si può organizzare scientificamente, in base a leggi che,
appunto come nelle scienze, siano valide sempre ed in ogni contesto.

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

Disponeva inoltre:
 che l'organizzazione del lavoro operaio dovesse essere decisa
da specialisti e gli operai dovessero unicamente eseguire il
lavoro sulla base delle indicazioni ricevute;
 che era fondamentale studiare, nel lavoro dell'operaio, tutti i
tempi necessari ed eliminare, quindi, i movimenti falsi, inutili
e combattere, in questo modo, la pigrizia;
Sulla base di queste premesse, secondo Taylor gli operai
specializzati non rivestivano più alcun valore aggiunto, in quanto la
scomposizione del lavoro permetteva a qualsiasi operaio comune di
essere in grado di svolgere adeguatamente la mansione semplificata
predisposta dagli ingegneri, anche se tale mansione poteva risultare
ripetitiva e monotona.
L'operaio non aveva in questo modo più alcun contatto con il
prodotto finito, né con la produzione nel suo complesso, poiché egli
lavorava solo su una piccolissima parte di questo prodotto. La sua
attività era solo una piccola parte del processo necessario a costruire
il prodotto.
Dalle idee di Taylor venne introdotta nel mondo del lavoro la
catena di montaggio, che portò con sé la parcellizzazione,
frantumazione e la rigida divisione del lavoro di fabbrica.
Uno dei primi utilizzatori della catena di montaggio fu Henry
Ford.
Inizialmente l'introduzione del taylorismo parve dunque
incrementare la produttività in modo profondo.
Negli stessi anni, anche nell'Unione Sovietica accadeva
qualcosa che porterà all'adozione di un modello di produzione analogo
al taylorismo. Si tratta di una storia profondamente interessante per

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il comunismo: è la storia di Aleksej Grigorevič Stachanov, un


minatore sovietico.
L'episodio dimostrava chiaramente che ogni lavoratore poteva
concepire una tecnica mai immaginata e pensata prima da nessuno,
più produttiva di quella concepita dai migliori ingegneri al mondo.
L'episodio è una smentita radicale del modello taylorista: un
semplice minatore, difronte al problema dell'estrazione del carbone
dalla “vena mineraria”, era riuscito ad escogitare un metodo di
estrazione più produttivo (ben 14 volte più produttivo) di quello
studiato dai migliori ingegneri sovietici.
L'episodio avrebbe dovuto far riflettere le autorità comuniste
sull'importanza dell'iniziativa personale e della coesione della
squadra di lavoro per incrementare la produttività lavorativa.
Grazie alla propaganda stacanovista, i principi tayloristici
furono introdotti nell'Unione sovietica e, se inizialmente questo
comporterà un incremento della produttività, alla lunga contribuirà al
completo fallimento del socialismo reale, in cui all'assenza di
iniziativa privata e libertà di pensiero e politica, si aggiungerà anche
una produzione di lavoro di tipo meccanico e ripetitivo.
In occidente, invece, negli anni successivi, il confronto tra le
imprese, mostrò tutti i limiti del modello taylorista e la vittoria di un
modello alternativo, che integrava a taluni aspetti del taylorismo.
E’ talmente evidente che il lavoro non è una merce come le altre
che, se vuoi vincere la concorrenza mondiale in una delle produzioni
più difficili e concorrenziali, devi rispettare la natura antropologica e
sociale dell'uomo e rispettare, nel processo produttivo, la dignità e la
dimensione sociale dell'uomo. Questa è una lezione importante di cui
molti economisti e manager, ma ancora oggi in Italia essi non tengono

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

conto di questa evidenza. L'idea di ridurre tutta la questione relativa


al lavoro alla circostanza che esso comporta disutilità per il
lavoratore, la quale cresce al crescere della quantità che egli mette a
disposizione dell'imprenditore (offre sul mercato del lavoro) e che tale
disutilità del lavoro deve essere compensata dalla utilità che procura
il reddito che si ottiene con l'attività lavorativa, non è pertanto che
una visione molto riduttiva del lavoro e della sua reale importanza nel
processo produttivo.
Questo lunga introduzione, volta a dimostrare perché il lavoro
non è una merce come le altre, è propedeutica ad affrontare tutta una
serie di temi e problemi operativi di politica del lavoro che andiamo ad
analizzare nel dettaglio.

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2. IL DIBATTITO SUL RIPOSO SETTIMANALE

In Italia il riposo settimanale è disciplinato dall'Art. 36, c. 3


della Costituzione; dall'art. 2019, c. 1, c.c.; dagli articoli 2, 9, 17, c. 1 e
5, 18 D.Lgs. 8 aprile 2003, n.66.
In sintesi queste norme prevedono che il lavoratore abbia
diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro
ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica e da
cumulare con le ore di riposo giornaliero.
La Corte Costituzionale ha affermato che la «consecutività delle
ventiquattro ore è un elemento essenziale del riposo settimanale» (C
Cost. n. 150/1967, n. 102/1976) per consentire al dipendente di
recuperare le energie psico-fisiche e per assicurargli un congruo
periodo di tempo da destinare ad attività ricreative per sé e per la
famiglia e affinché questo sia reso possibile è necessario che «il riposo
settimanale non coincida nemmeno in parte con il riposo giornaliero,
ma da questo rimanga ben distinto. Frazionare il riposo settimanale
(che deve essere di 24 ore consecutive) in modo da sovrapporre ogni
frazione di esso al riposo giornaliero significa, infatti, frustrare la
finalità del precetto voluto dal costituente» (C. Cost. n. 23/1982).
Il periodo consecutivo di riposo è calcolato come media in un
periodo non superiore a 14 giorni.
Alcune attività lavorative sono sottratte dal campo di
applicazione dell’orario di lavoro, e quindi della disciplina sul riposo
settimanale:
i lavoratori mobili, la gente di mare, il personale di volo nella
aviazione civile, il personale della scuola,il personale delle Forze di
polizia; il personale delle Forze armate, gli addetti al servizio di

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

polizia municipale e provinciale, in relazione alle attività operative


specificamente istituzionali, gli addetti ai servizi di vigilanza privata,
i lavoratori a bordo di navi da pesca marittima, i dipendenti dei
servizi di protezione civile, ivi compresi quelli del Corpo nazionale dei
vigili del fuoco, delle strutture giudiziarie, delle strutture
penitenziarie, delle strutture destinate per finalità istituzionali alle
attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza
pubblica, delle biblioteche, dei musei, delle aree archeologiche dello
Stato.
Il riposo di 24 ore consecutive può essere fissato in un giorno
diverso dalla domenica e può essere attuato mediante turni per il
personale interessato a modelli tecnico-organizzativi di turnazione
particolare ovvero addetto alle attività aventi le seguenti
caratteristiche:
1. operazioni industriali per le quali si abbia l'uso di forni a
combustione o a energia elettrica per l'esercizio di processi
caratterizzati dalla continuità della combustione ed operazioni
collegate, nonché attività industriali ad alto assorbimento di
energia elettrica ed operazioni collegate;
2. attività industriali il cui processo richieda, in tutto o in parte,
lo svolgimento continuativo per ragioni tecniche (compreso il
personale addetto allo svolgimento di lavori preparatori,
complementari o la cui presenza è obbligatoria per legge –
Interpello 27 giugno 2011, n. 26);
3. industrie stagionali per le quali si abbiano ragioni di urgenza
riguardo alla materia prima o al prodotto dal punto di vista del
loro deterioramento e della loro utilizzazione, comprese le
industrie che trattano materie prime di facile deperimento ed il

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

cui periodo di lavorazione si svolge in non più di 3 mesi


all'anno, ovvero quando nella stessa azienda e con lo stesso
personale si compiano alcune delle suddette attività con un
decorso complessivo di lavorazione superiore a 3 mesi;
4. servizi ed attività il cui funzionamento domenicale corrisponda
ed esigenze tecniche ovvero soddisfi interessi rilevanti della
collettività ovvero sia di pubblica utilità;
5. attività che richiedano l'impiego di impianti e macchinari ad
alta intensità di capitali o ad alta tecnologia;
6. aziende esercenti la vendita al minuto ed in genere attività
rivolte a soddisfare direttamente bisogni del pubblico;
7. esercizi commerciali di vendita al dettaglio (art. 11, D.Lgs. n.
114/1998);
8. esercizi ubicati in comuni ad economia prevalentemente
turistica e città d’arte (art. 12, D.Lgs. n. 114/1998);
9. rivendite di generi di monopolio; esercizi di vendita interni ai
campeggi, ai villaggi e ai complessi turistici e alberghieri;
esercizi di vendita al dettaglio situate nelle aree di servizio
lungo le autostrade, nelle stazioni ferroviarie marittime e
aereoportuali; rivendite di giornali: gelaterie e gastronomie;
rosticcerie e le pasticcerie; esercizi specializzati nella vendita di
bevande, fiori piante e articoli da giardinaggio, mobili, libri,
dischi, nastri magnetici, musicassette, videocassette, opere
d’arte, oggetti d’antiquariato, stampe, cartoline, articoli da
ricordo e artigianato locale; stazioni di servizio autostradale;
sale cinematografiche (art. 13, D.Lgs n. 114/1998);
10. stabilimenti termali (art. 3, L. n. 323/2000);

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Pag. 9 di 26
Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

Come si vede, nel corso degli ultimi anni, è via via venuto meno
il vincolo che il riposo settimanale avvenga in un giorno prestabilito
della settimana per la maggior parte dei cittadini lavoratori, anche
occupati in attività di commercio al dettaglio e, in genere nella grande
distribuzione. Il lavoro domenicale viene retribuito più di quello
feriale, ma non è possibile rifiutarsi di lavorare per il lavoratore. Il
maggior stipendio discende dalla constatazione che la norma
legislativa, nello stabilire che il lavoratore ha diritto a un giorno di
riposo «di regola in coincidenza con la domenica», ha implicitamente
attribuito alla domenica una valenza superiore agli altri giorni della
settimana da dedicare al riposo, alle attività ricreative per sé e la
famiglia, conseguentemente è sempre stato riconosciuto al prestatore
di lavoro, che per esigenze aziendali a lavorato di domenica, una
maggiorazione retributiva (Cass. n. 11611/2000, n. 11627/2000, n.
12852/2001, n. 18708/2007).
Mentre è apprezzabile che sia stato introdotto il riposo
sabbatico per i lavoratori ebrei con l' art. 4, L. 8 marzo 1989, n. 101 e
agli appartenenti alle Chiese cristiane avventiste (Art. 17L. 22
novembre 1988, n. 516), perché in questo modo essi possono godere
del riposo settimanale con la propria comunità, è del tutto discutibile
che i lavoratori della grande distribuzione commerciale siano stati
privati del diritto al riposo domenicale.
L'introduzione del riposo nel rispetto del giorno sacro per quei
gruppi di cittadini con una determinata religione serve a consentire a
quelle comunità di potersi riunire nel giorno più importante per le
loro famiglie con gli altri membri delle rispettive comunità religiose,
ed è un dovere per uno Stato veramente laico, differenziare il giorno
del riposo tenendo conto dei diversi credi religiosi.

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

In altri termini si tratta del rispetto per l'uomo e per il suo


lavoro e il riconoscimento che il riposo ha una dimensione sociale: non
è lo stesso per un lavoratore se potrà trascorrere il suo riposo con la o
le persone che ama o no, e non sarà lo stesso la qualità del suo riposo,
la ricreazione ottenuta e in finale il suo rapporto con la stessa
impresa.
L'introduzione dello schema taylorista nella grande
distribuzione con l'introduzione della catena di montaggio alla cassa
per il pagamento di quanto dovuto è un modello destinato ad essere
soppiantato (e presto lo sarà) per la mancanza di corrispondenza con
la natura del lavoro.

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

3. IL DIBATTITO SULLA RIDUZIONE


DELL 'ORARIO DI LAVORO E LA LOTTA TRA
CAPITALE E LAVORO

Prima dell'attuale crisi economica, si è sviluppato un forte


dibattito tra due scuole di pensiero:
 da una parte, alcune scuole economiche socialiste hanno
sostenuto l'opportunità di ridurre l'orario di lavoro,
mantenendo pressoché stabile il salario pagato ai lavoratori e
aumentando di conseguenza la paga oraria;
 dall'altra, molti altri economisti hanno rigettato il modello,
avvisando che in questo modo si riduce la produttività delle
imprese, obbligate a più alti costi del lavoro.
In realtà il dibattito è la punta dell'iceberg del continuo e
latente contrasto tra capitale e lavoro.
Da un lato alcuni ritengono che, difronte all'attuale modo di
produrre, l'unico modo per consentire a tutti di lavorare sia far
lavorare di meno ogni lavoratore, aumentando la remunerazione del
lavoro e riducendo quella del capitale.
Noi sappiamo dalle lezioni precedenti che questo modo
contrasta con una delle leggi fondamentali dell'economia: lo sviluppo
economico è dovuto alla libera iniziativa degli imprenditori che sono
mossi nei loro investimenti dalle aspettative di profitto futuro,
confrontate con il tasso di interesse corrente di mercato.
Dall'altro la maggior parte degli economisti ritiene che vadano
sempre tutelati i profitti, in quanto il processo di accumulazione è il
motore dello sviluppo. In questo modo, però, essi danno priorità al
capitale sul lavoro e pongono l'uomo al di sotto del denaro e degli

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strumenti che adopera per lavorare, il che è un evidente errore logico,


per le ragioni che abbiamo spiegato nella prima parte della presente
lezione.
E' evidente che il dibattito sulla riduzione dell'orario di lavoro è
dunque una riedizione del dibattito relativo al rapporto corretto tra
capitale e lavoro.
Sul dibattito del rapporto corretto tra capitale e lavoro, alcuni
punti debbono essere chiari:
 come avremo modo di dimostrare in una prossima lezione, il
dibattito condotto fino ad oggi sul punto è proposto su
presupposti completamente errati e profondamente ideologici
da parte dei sostenitori dei due fronti contrapposti. Per ora
basterà questa frase: lavoratori e industriali si combattono in
fabbrica, ma è in banca e in borsa che, come dimostreremo,
entrambi vengono fregati.
 l'idea che sia inevitabile una contrapposizione tra capitale e
lavoro è del tutto destituita di fondamento;
 esistono numerosi casi di felice intermediazione tra gli interessi
degli industriali e quelli dei lavoratori.
Ancora una volta le esperienze più positive sono quella
giapponese e quella tedesca.
Il gioco cooperativo tra capitale e lavoro è la premessa del
successo delle imprese tedesche e giapponesi e delle piccole e medie
imprese italiane e che la tipica contrapposizione italiana o inglese o
francese tra capitale e lavoro nelle grandi imprese industriali è del
tutto estranea alle citate esperienze.
E' allora evidente che il rapporto tra lavoro e capitale trova
espressione anche attraverso la partecipazione dei lavoratori,

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attraverso il sindacato, alla proprietà delle grandi imprese, alla sua


gestione e ai suoi frutti.
Il giusto rapporto tra capitale e lavoro consiste nel trovare le
modalità per cui tanto il capitale che il lavoro abbiano la concreta
possibilità di considerarsi comproprietari della medesima azienda e
trovano un modo per bilanciare i relativi interessi all'interno di un
modello di governance condiviso.
Il fatto che questa semplice evidenza, che si desume dalle più
importanti esperienze aziendali mondiali, non è potuta diventare fino
ad oggi dottrina economica, si deve alle grandi divisioni tipiche delle
scuole economiche a cui abbiamo accennato nella seconda lezione:
 Da una parte la scuola classica e neoclassica inglese che sono
portatrici dei valori della vincente borghesia inglese sui mercati
mondiali e considerano i lavoratori strumentali al successo
della borghesia, i cui interessi in fondo cercano di
rappresentare nei propri modelli;
 dall'altro il materialismo storico, con la sua convinzione che “il
fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la
produzione e la riproduzione della vita reale” e l'ideologia
comunista, con la sua ideologia sociale di matrice darwiniana,
che considerava inevitabile la lotta tra il capitale e il lavoro e la
vittoria del proletariato sulla borghesia.
Entrambe le scuole, per ragioni ideologiche e per nulla
scientifiche, non potevano non considerare inevitabile la lotta di
classe e la necessità della vittoria di una classe sull'altra.
Dato il profondo materialismo di entrambe le scuole, la loro
concezione positivista e il rifiuto di una visione antropologica dei
fondamenti microeconomici dell'economia, l'esito inevitabile di

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entrambe le scuole è il rifiuto del gioco cooperativo tra capitale e


lavoro, che riscontriamo invece emergere come fenomeno vincente
nelle esperienze reali del lavoro e delle aziende più produttive del
mondo.

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4. L'INSUFFICIENZA DELLE POLITICHE


MACROECONOMICHE OCCUPAZIONALI
CLASSICA E KEYNESIANA

Per i neoclassici il sistema economico tende sempre alla piena


occupazione e i lavoratori sono disoccupati sempre su base volontaria,
perché, in quello schema teorico, è sempre possibile per loro trovare
un lavoro.
In quel quadro teorico, due teoremi consentono di escludere che
la disoccupazione involontaria possa permanere:
 la legge di Say, secondo la quale l'offerta crea la domanda.
Questo significa che se il sistema economico è in grado di
produrre 10.000, verranno immessi redditi per 10.000. Questi
redditi in parte saranno consumati, e quindi determineranno
una equivalente domanda di beni di consumo, ed in parte
saranno risparmiati. I neoclassici sono convinti che i redditi
risparmiati saranno messi dal sistema bancario a disposizione
degli imprenditori e che si troverà sempre un tasso d'interesse
d'equilibrio in grado di dar luogo ad una equivalente domanda
di beni di investimento, pari al risparmio, in modo da
assicurare l'equilibrio del sistema economico.
 L'equilibrio del mercato del lavoro: i salari, secondo i
neoclassici, si muovono sia verso l'alto che verso il basso. In
questo modo si uguagliano sempre sul mercato del lavoro la
domanda e l'offerta di lavoro.
Date queste premesse, per i neoclassici, in caso di
disoccupazione, la ricetta è la riduzione del salario. Questa riduzione

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induce ad espandere la occupazione perché gli imprenditori hanno


vantaggio a:
 sostituire il lavoro al capitale nel processo produttivo;
 espandere la produzione.
Abbiamo avuto modo di sottolineare che questo schema di
ragionamento è fallace perché non considera le conseguenze della
diminuzione del salario reale sulla domanda effettiva rivolta ai beni
dell'industria, quando si passa dalla singola impresa al settore
industriale o all'intera economia.
Lo schema neoclassico inoltre non considera le conseguenze sui
prezzi dei beni prodotti, destinati a ridursi, data l'ipotesi della
concorrenza perfetta e considerata la maggiore produzione.
Una parte della scuola neoclassica moderna, consapevole degli
evidenti limiti del pensiero neoclassico, ha riproposto la ricetta della
riduzione dei salari reali sulla base di un meccanismo di
funzionamento diverso.
Secondo questa scuola, la riduzione del salario reale favorisce
l'assorbimento dei lavoratori, in quanto modifica la distribuzione dei
redditi a favore dei capitalisti, che accumulano.
Questo processo consente di utilizzare una quantità maggiore
di risorse per produrre beni di investimento.
La premessa teorica è che la disoccupazione discenda da un
insufficiente tasso di accumulazione. Il più elevato tasso di
accumulazione, generato dalla riduzione dei salari reali, consente di
accelerare l'accumulazione e i maggiori investimenti consentono di
ridurre la disoccupazione.
Il limite di questo secondo ragionamento è però abbastanza
evidente.

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Occorre che si verifichino particolari condizioni, che


riguardano i sistemi socio-culturale e politico-istituzionale, e le
potenzialità di crescita della domanda nel sistema economico, perché
l'accelerazione del tasso di accumulazione si traduca in incremento
produttivo.
In particolare occorre che la riduzione dei salari si traduca in
aumenti dei redditi delle classi produttive, altrimenti i maggiori
profitti si traducono in un aumento dei consumi di lusso e, in ultima
analisi in uno sviluppo dell'offerta estera.
Ma, anche qualora i maggiori profitti si traducano in un
incremento dei redditi delle classi produttive, non è detto che i
capitalisti trovino conveniente investire i maggiori profitti in nuovi
investimenti, qualora essi non abbiano adeguate prospettive future di
crescita della domanda e dunque di profitto.
In ogni caso la ricetta dei bassi salari si è in effetti dimostrata
efficace in quei Paesi che si sono dimostrati, in determinati momenti
storici, in grado di produrre per l'esportazione.
Una riduzione dei salari consente allora di ridurre i prezzi
all'esportazione. L'aumento delle esportazioni, che si riflette in una
più sostenuta crescita della domanda complessiva, induce una
crescita degli investimenti. Se, quanto abbiamo detto fino ad ora,
dimostra che l'indicazione di politica economica neoclassica di ridurre
i salari reali è un'arma inefficace per combattere la disoccupazione,
tranne alcune isolate situazioni, è altrettanto vero che le politiche
cosiddette keynesiane si sono dimostrate altrettanto insoddisfacenti
nella generalità dei casi e incapaci di ottenere un incremento
duraturo del tasso di occupazione, mentre hanno appesantito in modo

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duraturo le economie di un fenomeno che è senza dubbio in parte un


male economico: l'inflazione.
Abbiamo avuto modo di osservare come le politiche espansive
delle domande provochino tensioni inflazionistiche e il dibattito tra
gli economisti circa il presunto trade off tra riduzione della
disoccupazione e inflazione lasci tutti convinti che nel lungo periodo il
trade off non esista e che una politica economica espansiva determini
nel lungo periodo unicamente una crescente inflazione.
Sul precedente aspetto ho detto dettagliatamente nelle
precedenti lezioni.
In questa voglio mettere in evidenza ulteriori effetti indiretti
negativi che debbono essere considerati.
Se la politica keynesiana è applicata in una nazione in cui è
rilevante il commercio con l'estero, un possibile, non certo
trascurabile, effetto può essere il peggioramento della sua posizione
nell'economia mondiale: infatti, crescendo i suoi prezzi,
relativamente a quelli di altri paesi, riuscirà a vendere meno beni
all'estero, mentre saranno favorite le importazioni dall'estero.
Questa situazione, come lo studente comprenderà appieno dopo aver
studiato i meccanismi di equilibrio con l'estero, peggiorerà di
conseguenza il saldo della bilancia dei pagamenti. Per evitare questa
conseguenza negativa, l'unica via è la svalutazione della moneta, che
genera però una serie di conseguenze ulteriori che saranno studiate
nelle lezioni successive.

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5. L'ATTUALE CRISI ECONOMICA E


OCCUPAZIONALE ITALIANA E LO STRUMENTO
DELLA CASSA INTEGRAZIONI GUADAGNI

L'Italia sta vivendo una durissima crisi economica e


occupazionale che, senza dubbio, non è congiunturale, ma strutturale.
Le cause della crisi sono varie e i fattori scatenanti sono stati i
seguenti:
 caduta del muro di Berlino nel 1989;
 adesione al WTO della Cina comunista nel 1994;
 divisione della Banca d'Italia dal Tesoro italiano (1994);
 privatizzazione delle Banche pubbliche (1994);
 adesione all'euro (2000).
Questi eventi, ovviamente, non avrebbero prodotto nessuna
conseguenza negativa, se i politici italiani avessero compreso cosa
significavano per la politica economica italiana e avessero adeguato la
politica economica del Paese al nuovo contesto geopolitico e alla nuova
divisione internazionale del lavoro.
La politica economica italiana fu improntata negli anni 60.
Lo schema di Politica economica a quei tempi è così
riassumibile:
 l'Italia finanziava la propria spesa pubblica in gran parte
stampando moneta (signoraggio);
 la dinamica inflattiva dei prezzi determinava uno squilibrio
negativo nella bilancia dei pagamenti (i maggiori prezzi delle
merci italiane le rendevano meno competitive sui mercati
internazionali), che veniva riequilibrato con svalutazioni della
moneta;

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 le grandi aziende statali e le Banche pubbliche del gruppo IRI


stabilivano la politica industriale e il finanziamento dei grandi
gruppi del Paese;
 una miriade di piccole e medie imprese nascevano e crescevano
all'ombra di questo sistema Paese.
Ma il fatto più importante riguardava la divisione mondiale del
lavoro, che era particolarmente favorevole nei confronti del nostro
Paese:
 a est del muro di Berlino esisteva l'economia pianificata e non
erano possibili investimenti produttivi da parte dei capitalisti
occidentali;
 la Cina comunista non aveva aderito all'economia di mercato;
 il salario reale italiano era il più basso dell'occidente;
 era stato costruito un efficiente sistema di incentivi
all'investimento diretto estero in Italia, con contributi a fondo
perduto del 50% per i nuovi investimenti in capitale fisico in
Italia.
Tutto questo significa che l'Italia era il Paese dell'Occidente in
cui era più economico impiantare un nuovo stabilimento industriale e
questo si tradusse in grande occupazione e benessere per gli italiani,
finché:
 la caduta del muro di Berlino nel 1989 aprì tutti i mercati
dell'Est Europa, Russia inclusa, dove vigevano salari reali pari
a meno di un sesto di quelli italiani;
 l'adesione al WTO della Cina comunista nel 1994 aprì un
immenso mercato di 1 miliardo di persone agli investimenti
capitalisti occidentali, a salari reali pari a meno di 1 decimo di
quelli italiani;

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 la divisione della Banca d'Italia dal Tesoro significò la necessità


di finanziare le spese correnti dello Stato sul mercato
finanziario a tassi via via crescenti;
 la privatizzazione delle Banche pubbliche e la fine delle
Partecipazioni statali, non sostituita da nuovi metodi di
controllo della politica finanziaria nazionale, significò la fine di
un efficace politica industriale e finanziaria nazionale;
 l'adesione all'euro significò la fine della sovranità monetaria e
della possibilità di svalutare la moneta, per compensare gli
squilibri inflazionistici.
Quello che qui conta sottolineare è che quel modello di politica
economica, al di là dei suoi limiti, aveva una coerenza interna e
permetteva al decisore politico di guidare (anche se spesso questo
veniva fatto molto male) la politica economica del Paese.
Ovviamente l'Italia avrebbe dovuto immediatamente sostituire
al vecchio schema di sviluppo, (basato, come abbiamo detto su:
 ingente spesa pubblica in spese ordinaria finanziata con il
signoraggio,
 svalutazione,
 esportazioni di beni,
 bassi salari reali,
uno schema nuovo, aderente alla nuova divisione
internazionale del lavoro e alla nuova economia della conoscenza
basato su:
 brevetti e innovazione e competitività della ricerca applicata
italiana;
 taglio radicale della spesa pubblica corrente;
 valuta forte;

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 esportazione di beni innovativi,


 aumento della produttività reale, conseguita con innovazione di
processo e di prodotto;
 salari reali più alti, corrispondenti a una maggiore
produttività.
Questo non è avvenuto e le produzioni italiane si sono trovate
ad essere poco competitive anche perché gravate da:
 costo dell'energia più alto degli altri Paesi europei del 20%
circa;
 inefficienza e abnorme della pubblica amministrazione:
 tassazione più alta dei principali concorrenti mondiali;
 cuneo fiscale sul lavoro.
La disoccupazione italiana è dunque una disoccupazione
strutturale, dalla quale si esce soltanto con una coerente Politica
economica che rilanci la produttività e la competitività del sistema
Paese e non è una disoccupazione congiunturale, ma purtroppo l'unica
reazione che il sistema Italia è riuscita a mettere in campo è di
carattere anticongiunturale.
Lo strumento con cui concretamente l'Italia sta affrontando la
crisi è la Cassa integrazione guadagni. Questo strumento era stato
predisposto nel quadro geopolitico velocemente descritto in
precedenza, valido fino alla caduta del Comunismo internazionale, in
cui la divisione internazionale del lavoro favoriva l'Italia come Paese
di destinazione degli stabilimenti industriali.
In quel quadro lo strumento serviva a tutelare l'interesse della
grande impresa, durante le congiunture sfavorevoli, di mantenere ad
essa legati i propri lavoratori specializzati, in modo che, passata la
congiuntura negativa, essi potessero ritornare a svolgere con

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efficacia la loro attività: si tratta dunque di un sussidio alla


disoccupazione anticongiunturale studiato sulle esigenze industriali
dei grandi gruppi e sulla base della logica di sostegno alla domanda
durante le congiunture negative.
Lo strumento, che aveva un significato nel precedente contesto,
in cui, alla fine della congiuntura, i lavoratori avrebbero ritrovato il
proprio posto di lavoro, non lo ha oggi, perché al termine del periodo
di Cassa integrazione quel posto di lavoro sarà eliminato dalla nuova
divisione internazionale del lavoro determinatasi a seguito dei
profondi mutamenti geopolitici intervenuti a livello mondiale.
Al contrario della Cassa integrazione guadagni, andrebbe
studiato uno strumento che lega il sussidio alla disoccupazione alla
ristrutturazione profonda delle attività industriali attuate
dall'impresa e che tengano conto del nuovo contesto internazionale: i
lavoratori dovrebbero ricevere un compenso solo se inseriti in questo
processo di riorganizzazione e non per non lavorare.

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6. LA CENTRALITÀ DELL'ISTRUZIONE, DELLA


FORMAZIONE NELL 'ECONOMIA DELLA
CONOSCENZA E DELL 'INNOVAZIONE

Resta un'ultima politica occupazionale da affrontare: la


relazione tra la formazione del lavoratore e lo sviluppo economico.
Le rivoluzioni tecniche in atto (rivoluzione informatica, dei
mass media, delle telecomunicazioni, delle biotecnologie, dei servizi) e
la consistente terziarizzazione dell'economia mondiale rendono
abbastanza manifesti alcuni sviluppi chiari:
 nel settore terziario e dei servizi, le capacità professionali sono
strettamente legate alle doti sociali e alle qualità umane
dell'individuo, che possono migliorare grazie all'educazione e
alla sua preparazione e cultura di base, piuttosto che per la
conoscenza di nozioni tecniche acquisite, ma costantemente
aggiornate, dalle continue innovazioni;
 la capacità del lavoratore di apprendere, la flessibilità delle
sue capacità, una certa predisposizione all'innovazione,
diventeranno doti sempre più rilevanti, non solo per il singolo
lavoratore e per il suo inserimento nella vita economica, ma
anche per il sistema produttivo nel suo complesso.
L'innovazione sarà al centro dei gruppi di lavoro che si
imporranno e si impongono a livello internazionale nel nuovo contesto
competitivo.
Il sistema educativo diventa centrale in questo contesto per
preparare i giovani alle sfide del futuro, ma, purtroppo, l'analisi
economica, invece di comprendere che la nuova economia della
conoscenza e dell'innovazione, parte dal successo educativo, si è posta

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Salvatore Della Corte “Le politiche del lavoro. Aspetti operativi”

il problema di determinare a livello microeconomico, fino a che punto


convenga investire nel cosiddetto capitale umano e a livello
macroeconomico, ha cercato di cogliere le relazioni che sussistono tra i
livelli di istruzione (non considerati qualitativamente, ma come spesa
per studente) che appunto chiamano “capitale umano” e la crescita,
con risultati empirici controversi che non potevano che riflettere
l'errore di fondo di tali studi: che non partono dalla qualità del
sistema scolastico e dalla rispondenza del sistema all'antropologia
umana.
In altre parole, gli studi non si soffermano sull'aspetto centrale
per cui il sistema scolastico dovrebbe essere giudicato: la capacità di
vagliare ed individuare per ciascuna persona l'abito, la formazione più
specifica e vincente.
Secondo alcuni studi, la preferenza accordata dalle imprese a
coloro che detengono un titolo di studio (in particolare universitario) è
determinata non tanto dall'attesa di una capacità di innovazione più
alta, quanto dalle doti di disciplina e di costanza nel lavoro, che
possiede chi ha dovuto svolgere un pesante curriculum scolastico.
E' evidente allora che questo stesso risultato smentisce la
compatibilità degli attuali sistemi scolastici con le nuove necessità
dell'economia della cultura e dell'innovazione.
Non abbiamo più bisogno di ordinati e capaci esecutori, ma di
appassionati innovatori e pertanto il sistema scolastico deve essere
abbondantemente ripensato per affrontare le sfide economiche future.

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LA POLITICA ECONOMICA
NEL BREVE PERIODO
SECONDO IL MODELLO
MUNDELL – FLEMING
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “La politica economica nel breve periodo
secondo il modello Mundell - Fleming”

Indice

1. IL MODELLO MUNDELL – FLEMING: LA RAPPRESENTAZIONE


DELL'EQUILIBRIO DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI NELLO SCHEMA DI
SINTESI NEOCLASSICO ------------------------------------------------------------------------ 3
2. GLI EFFETTI DELLA POLITICA MONETARIA NEL MODELLO MUNDELL
FLEMING ------------------------------------------------------------------------------------------- 21
3. GLI EFFETTI DELLA POLITICA FISCALE NEL MODELLO MUNDELL –
FLEMING ------------------------------------------------------------------------------------------- 30
4. CONCLUSIONI ------------------------------------------------------------------------------------ 35

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Salvatore Della Corte “La politica economica nel breve periodo
secondo il modello Mundell - Fleming”

1. IL MODELLO MUNDELL – FLEMING: LA


RAPPRESENTAZIONE DELL'EQUILIBRIO
DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI NELLO
SCHEMA DI SINTESI NEOCLASSICO

Il modello che sta per essere presentato è ancora quello


maggiormente utilizzato dai tecnici che collaborano con il Governo di
uno Stato, ma, come vedremo meglio nelle conclusioni di questa
lezione, ci sono ragioni per essere cauti circa l'utilità del suo utilizzo.
Primo problema fra tutti è che si tratta di un modello di statica
comparata e di breve periodo:
 il modello infatti considera stabili i prezzi, anche in caso di politiche
monetarie espansive. Lo studente sa benissimo che si tratta di
un'ipotesi valida solo nel breve o brevissimo termine;
 il modello non considera le ipotesi delle aspettative razionali. Le
aspettative sono date anch'esse e non variano al variare delle
politiche economiche del Governo. Lo studente sa che questa
conclusione non è ormai condivisa dalla maggior parte degli
economisti, più inclini a credere che le aspettative varino al variare
delle politiche economiche dichiarate ed attuate dal Governo.
 Le soluzioni ottime nel breve periodo non è detto che siano le
soluzioni ottime nel medio e lungo termine. Ricordo qui quanto detto
in una precedente lezione in merito al problema dell'orizzonte
temporale dei processi di ottimizzazione e come i risultati di ottimo
varino al variare dell'orizzonte di ottimizzazione individuato.
 Il modello non considera gli effetti della crescita del debito estero sul
saldo delle partite correnti: cioè non considera il costo per gli

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Salvatore Della Corte “La politica economica nel breve periodo
secondo il modello Mundell - Fleming”

interessi pagati sul bilancio dello Stato che si indebita. Anche questa
è un ipotesi plausibile solo nel breve termine.
Il secondo problema è che il modello può applicarsi unicamente
alle economie di Nazioni non in grado di influenzare le variabili
internazionali quali: il reddito estero; i prezzi internazionali delle
merci; il tasso di interesse medio mondiale.
E' evidente che soprattutto il verificarsi della seconda e della
terza condizione siano sempre meno frequenti, dati i recenti processi
di cartelli tra i produttori di materie prime (primo fra tutti l'OPEC) e i
fenomeni di regionalizzazione e la riduzione del numero delle valute
internazionali.
Inoltre oggi la maggior parte del commercio internazionale
avviene tra tre grandi aree geografiche, caratterizzata ciascuna da
centinaia di milioni di abitanti: area euro, area USA, paesi BRICS
effettuano la maggior parte del commercio internazionale.
Come si vede esistono molti limiti in questo modello. Tuttavia
resta necessario studiarlo essenzialmente per due ragioni:
 occorre assolutamente integrare il modello IS – LM, che si
riferisce ad un'economia chiusa, considerando anche
l'equilibrio con l'esterno;
 nonostante tutte le ipotesi di comodo del modello, esso rimane
uno strumento dell'armamentario del tecnico di politica
economica utilizzabile almeno nel breve termine e ci fornisce
alcune indicazioni utili sulle politiche macroeconomiche più
idonee in determinate situazioni internazionali.
La questione di raggiungere tanto l'equilibrio interno che quello
esterno si presenta in termini diversi a seconda: delle norme vigenti a

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secondo il modello Mundell - Fleming”

livello internazionale: sul commercio internazionale; sulle migrazioni


delle persone; sui movimenti di capitale
 del regime di cambi vigente a livello internazionale.
La politica economica necessaria a conseguire
contemporaneamente un incremento del reddito nazionale con prezzi
stabili da un lato e l'equilibrio della bilancia dei pagamenti dall'altro
dipende dunque dal quadro internazionale delle relazioni esistenti.
Come abbiamo avuto modo di dire, nella storia si è assistito ad un
graduale processo di aumento della mobilità dei capitali, sia a livello
mondiale che all'interno delle aree economiche regionali che si vanno
creando. Questo movimento dei capitali è arrivato quasi in tutto il
mondo alla completa mobilità. Anche di questa circostanza occorre
tenere conto.
Dobbiamo a Robert Mundell e Marcus Fleming se il modello IS
– LM, che lo studente già conosce e che ci aiuta a definire un
equilibrio macroeconomico di breve termine di un'economia chiusa, è
stato esteso anche al caso di un'economia aperta agli scambi con
l'estero.
Per comprendere quali siano le condizioni di equilibrio
macroeconomico e come funzioni la politica economica quando si
considera un sistema aperto agli scambi con l'estero, è necessario
introdurre alcune integrazioni nel modello IS-LM.
Come sappiamo, l'equilibrio tra risparmio e investimento è
determinato nei classici dal tasso di interesse e in Keynes dal reddito.
Anche Keynes considera il risparmio una funzione crescente del
reddito e che il suo modello è indeterminato perché non formalizza
questo aspetto. Su questa base abbiamo costruito un sistema di

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equazioni che considerasse tutti questi aspetti e tenesse conto


un'economia semplificata senza rapporti con l'estero.
In quella rappresentazione il risparmio è allora funzione sia del
reddito che del tasso di interesse: cresce al crescere del reddito e
cresce al crescere del tasso di interesse.

Abbiamo scritto:

S = S (+Y, +i) [1]

nella [1], a differenza che nella teoria classica, il risparmio


dipende anche dal reddito e non solo dal tasso di interesse corrente
sul mercato; a differenza che nella teoria keynesiana, il risparmio
dipende anche dal tasso di interesse di mercato, oltre che dal reddito.

I = I (-i) [2]

l'investimento è funzione esclusivamente del tasso di interesse.


Classici e Keynesiani su questo punto concordano, anche se vedremo
che in realtà gli investimenti, almeno quelli dipendenti da
ammortamenti di capitale fisico esistente, dipendono anche dal
reddito.
In ogni caso accettiamo la semplificazione: data una
determinata curva dell'EMK di un determinato Paese in un certo
momento storico, consideriamo l'investimento dipendente
esclusivamente dal tasso corrente di mercato.
In un'economia aperta, la domanda globale di una nazione non
dipende esclusivamente dai consumi e dagli investimenti interni e

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dalla spesa pubblica, ma anche dalla domanda estera di prodotti


interni, cioè dalle esportazioni. Allo stesso modo il reddito percepito
non viene distribuito soltanto tra consumo e risparmio, ma viene
anche distribuito in consumi di beni e servizi prodotti all'estero. Se
formalizziamo quanto detto sopra e cerchiamo la condizione di
equilibrio tra reddito percepito e domanda globale, possiamo scrivere:

S+T+M =I+G+X [3]

in cui:

S = S (+Y, +i) Il risparmio cresce al crescere del reddito e del


tasso di interesse;
T: le tasse sono una variabile esogena;
M = M (+ Y) Le importazioni crescono al crescere del reddito
I = I (-i) L'investimento, date le aspettative degli imprenditori,
è inverso al tasso i interesse;
G: la spesa pubblica è una variabile esogena al sistema;
X: le esportazioni sono una variabile esogena al sistema (non
dipendono né dal tasso di interesse, né dal reddito);
C = consumi, presenti in ambo i lati dell'equazione di equilibrio
si annullano
Quello che dobbiamo domandarci è se la [3] modifichi
l'andamento dell'equilibrio sul mercato dei beni rispetto alla curva IS
che già conosciamo.
Sappiamo che la curva IS indica le combinazioni di reddito e di
tasso corrente di interesse che assicurano l'equilibrio del mercato dei
beni. La retta resta discendente anche in un'economia aperta perché

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al crescere del reddito crescono il risparmi e le importazioni. Affinché


gli investimenti aumentino corrispondentemente all'incremento del
risparmio, i tassi di interesse devono scendere.
Al crescere del reddito la condizione di equilibrio sul mercato
dei beni continua ad essere assicurata dalla discesa dei tassi di
interesse.
Dal momento che G, T e X sono variabili esogene al sistema
esse non modificano l'andamento della curva IS, ma ne determinano
unicamente gli spostamenti. L'aumento delle esportazioni, al pari
dell'aumento della spesa pubblica, per le ragione già spiegate nel
corso della lezione 6, si rappresentano con uno spostamento a destra
delle curva IS e viceversa la diminuzione delle esportazioni e della
spesa pubblica. Sostanzialmente non varia nulla in merito
all'andamento decrescente della retta IS e alle condizioni di equilibrio
del mercato dei beni.
Come si ricorderà la retta LM individua le condizioni che
assicurano livelli di equilibrio tra la domanda di moneta e l'offerta di
moneta.
A differenza di quanto ritenuto dalla scuola di Cambridge,
accanto alla domanda di moneta per il movente transattivo, secondo
Keynes, esiste la domanda di moneta per il movente speculativo.

Nel caso dell'economia chiusa avevamo scritto:

L = L (+Y, - i) [4]

Mentre la quantità di moneta offerta è da considerarsi per


entrambe le teorie (keynesiana e classica) controllabile dalle autorità

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monetarie, che sono in grado di controllare sia l'emissione di nuova


moneta, sia il processo moltiplicativo dei depositi originari di cui è
capace il sistema bancario. Sappiamo che questa è una
semplificazione eccessiva, perché la banca centrale non riesce a
controllare le aspettative del pubblico e, anche se abbassa il tasso di
interesse, l'efficienza marginale del capitale può scendere al di sotto
di qualsiasi livello di tasso di interesse.
Nella sintesi neoclassica, al crescere del reddito aumenta la
domanda di moneta per il movente transattivo e precauzionale.
Perché si mantenga l'equilibrio con una data offerta di moneta è
necessario che la domanda di moneta per il movente speculativo
diminuisca. Sappiamo che questo accade quando sale il tasso di
interesse e il corso dei titoli è sceso.
Sostanzialmente non si modifica nulla rispetto all'economia
chiusa anche in merito all'andamento della curva LM.
Occorre però tener conto, in un'economia aperta, delle riserve
valutarie (quali esse siano a seconda del sistema di pagamenti del
commercio internazionale esistente).
Sappiamo che un saldo positivo della bilancia dei pagamenti
comporta un aumento delle riserve valutarie, mentre un deficit della
bilancia dei pagamenti comporta una diminuzione delle riserve.
Sappiamo anche che l'aumento delle riserve comporta un
aumento della base monetaria e che la diminuzione delle riserve
comporta una diminuzione della base monetaria e, quindi, dell'offerta
di moneta delle autorità centrali.
Sappiamo anche che le autorità possono sterilizzare sia un
aumento delle riserve che una diminuzione delle stesse.

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Come si dimostra da quanto detto sopra, anche in questo caso,


l'andamento crescente della curva LM resta invariato, mentre
eventuali aumenti delle riserve si rappresentano con uno spostamento
a destra della curva LM mentre, viceversa, uno spostamento a
sinistra della curva LM rappresenta una diminuzione delle riserve
valutarie della Banca centrale di un Paese.
La condizione di equilibrio esterno dell'economia, all'interno
dello schema IS – LM, deve essere rappresentata graficamente da una
retta, denominata retta BP, che identifica tutte le combinazioni di
reddito e tasso d'interesse che assicurano l'equilibrio della bilancia
dei pagamenti.
Come la IS indica le combinazioni di tasso di interesse e reddito
che assicurano l'equilibrio sul mercato dei beni e la LM le
combinazioni che assicurano l'equilibrio sul mercato dei beni, la retta
BP è costituita dalle combinazioni di reddito e tasso di interesse che
assicurano l'equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Sappiamo che la bilancia dei pagamenti è articolata in quattro
sezioni:
 Conto corrente, dove vengono registrate le transazioni relative
a beni e servizi, i redditi da lavoro dipendente e da capitale, i
trasferimenti correnti;
 Conto capitale. Il conto registra le acquisizioni, al netto delle
cessioni, di attività non finanziarie e misura la variazione del
patrimonio netto dovuta al risparmio ed ai trasferimento in
conto capitale;
 Conto finanziario. Il conto finanziario, redatto dalla Banca
d'Italia per il Paese, per singoli settori e per il Resto del
mondo, descrive le variazioni nelle consistenze delle attività e

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passività finanziarie attraverso le quali il Paese o i settori


istituzionali assumono debiti o concedono crediti;
 Errori ed omissioni.
Per semplicità, nel presente modello, si suppone che le partite
correnti siano costituite soltanto dagli scambi di merci e servizi.
Abbiamo già avvisato che è una semplificazione pesante ignorare, tra
l'altro, il conto dei redditi da capitale e che questa semplificazione
comporta la dimenticanza di considerare nel modello gli effetti della
crescita del debito estero sul saldo delle partite correnti.
Nel modello in esame, il saldo dei movimenti finanziari dipende
dal differenziale tra i tassi d'interesse nella Nazione in esame nei
confronti con il resto del mondo.
Occorre anche in questo caso ricordare l'altra ipotesi di comodo
introdotta nel sistema: il modello, per semplicità, ipotizza una
relazione lineare e considera la Nazione sempre troppo piccola per
influenzare con le variazioni del proprio tasso il livello medio del tasso
di interesse mondiale. Ovviamente un'ipotesi del genere è
inverosimile sia per il tasso della Germania nell'area dell'euro, che
degli USA nell'area del dollaro, che dello yen giapponese o dello yuan
cinese.
Considerato essere determinato in modo esogeno il tasso di
interesse medio mondiale, il saldo dei movimenti di capitale può
essere così rappresentato:

F = f (i – iw) [5]

f: sensibilità dei movimenti di capitale ai tassi d'interesse;


i: tasso d'interesse interno;

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iw: tasso d'interesse estero, non influenzato dal tasso


d'interesse della Nazione considerata.

Date le ipotesi introdotte, ne consegue che, se nel Paese preso


in esame il tasso d'interesse supera quello prevalente nel resto del
mondo, si genera un afflusso di capitali finanziari dall'estero, attratti
dalla possibilità di essere impiegati in modo più
remunerativo;viceversa si verifica un deflusso di capitali finanziari
verso il resto del mondo, quando il tasso di interesse è inferiore a
quello medio registrato nel resto del mondo.
Si noti che stiamo parlando di attività e passività finanziarie e
non di capitale fisico aggiuntivo.
E’ evidente che l'equilibrio complessivo della bilancia dei
pagamenti non implica necessariamente che ciascuna delle sue
sezioni sia in equilibrio.
Il disavanzo di una delle sezioni in cui si articola la bilancia dei
pagamenti può essere compensato da un attivo di un'altra delle
sezioni in cui si articola la bilancia.
In questo modello molto semplificato come delineato sopra, la
condizione di equilibrio della bilancia dei pagamenti può essere scritta
nel seguente modo:

(X – M) + F = 0 [6]

Lo studente conosce tutte le variabili dell'equazione. Lo


studente deve anche ricordare che il primo membro rappresenta la
sezione di Conto corrente (seppur in modo semplificato) e F il saldo
del Conto finanziario.

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La [6] può anche essere scritta sostituendo la [5] nella [6] e


ricordando che le esportazioni X sono una variabile esogena, mentre
M = m (+Y), cioè le importazioni crescono al crescere del reddito.

La [6] diventa allora:

(X – mY) + f (i – iw) = 0 [7]

che può essere scritta anche:

f (i – iw) = - X + mY [8]

La funzione [8] ci dice che al crescere del reddito crescono le


importazioni. Nel modello in fase di studio le esportazioni sono
considerate stabili e, comunque determinate in modo esogeno.
L'aumento delle importazioni genera pertanto il peggioramento della
bilancia commerciale. Per mantenere in equilibrio il complesso della
bilancia dei pagamenti, le autorità governative devono
necessariamente prevedere una compensazione del conto finanziario,
il saldo di questo conto migliora se aumenta il tasso d'interesse
praticato dalla nazione rispetto al resto del mondo. In sintesi, la retta
BP, per le ipotesi che abbiamo introdotto, è crescente e mostra che,
rebus sic stantibus, la crescita del reddito determina un
peggioramento della bilancia commerciale che, nel breve termine, può
essere compensato esclusivamente da un indebitamento finanziario.
Quest'ultimo è possibile solo grazie ad un aumento nel tasso
d'interesse rispetto a quello precedente al peggioramento della

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bilancia commerciale, dovuto all'incremento delle importazioni,


determinato dall'incremento del reddito.
L'aumento del tasso di interesse, inoltre, determina una
diminuzione degli investimenti privati, sia per l'effetto spiazzamento,
sia per l'aumento del costo del finanziamento del capitale fisico reale.
Questa diminuzione degli investimenti comporterà nel periodo
successivo una diminuzione del reddito e questa diminuzione del
reddito determinerà una riduzione delle importazioni e un riequilibrio
della bilancia dei pagamenti.
L'aumento del tasso di interesse determina il riequilibrio della
bilancia commerciale, per due ragioni e cioè perché fa affluire
finanziamenti e migliora il conto finanziario e perché fa diminuire il
reddito globale, via diminuzione degli investimenti in capitale fisico
aggiuntivo e, via moltiplicatore keynesiano del reddito: la
diminuzione del reddito riduce le importazioni, da cui deriva il
riequilibrio della bilancia commerciale.
All'interno del sistema di assi cartesiani con il reddito sulle
ascisse e il tasso d'interesse sulle ordinate, la condizione di equilibrio
espressa dalla [8] è rappresentata da una retta crescente da sinistra
verso destra, che chiamiamo la retta BP.
Cosa rappresentano in questo schema i punti che si trovano al
di sopra e quelli che si trovano al di sotto della retta BP:
 i punti che si trovano al di sopra della retta BP individuano,
per definizione, una combinazione di reddito e tasso d'interesse
in presenza della quale il saldo della bilancia dei pagamenti è
in attivo: in tutti questi punti, infatti, il tasso d'interesse è
superiore a quello posto sulla curva BP e che è compatibile con
l'equilibrio della bilancia commerciale. Questi punti indicano

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che l'afflusso netto di finanziamenti raggiunge dimensioni


maggiori di quelle necessarie per rendere in equilibrio il saldo
globale della bilancia dei pagamenti.
 Viceversa per i punti al di sotto della retta BP. In questi punti
l'afflusso dei finanziamenti è insufficiente rispetto al livello
considerato di equilibrio.
Compreso che cosa sia la curva BP e che essa rappresenta le
combinazioni di tasso di interesse e di reddito che indicano l'equilibrio
della bilancia dei pagamenti dell'economia di una determinata
nazione e che i punti al di sopra rappresentano punti di surplus e
quelli al di sotto di deficit momentaneo della bilancia dei pagamenti,
dobbiamo chiederci, da quali variabili dipenda la pendenza della
curva BP.

La pendenza della retta BP dipende da due fattori:


 la propensione all'importazione: quanto maggiore è la propensione
all'importazione tanto maggiore è la pendenza della retta BP.
Infatti maggiore è la propensione all'importazione, maggiore è
l'aumento delle importazioni in seguito all'incremento del reddito e
maggiore di conseguenza dovrebbe essere l'incremento compensativo
nell'afflusso finanziario di capitali; conseguentemente, maggiore
dovrebbe essere il rialzo del tasso d'interesse per compensare
l'incremento del reddito. In termini formali l'elasticità delle
importazioni alle variazioni del reddito nazionale può essere
indicata nel seguente modo: dM/dY. Maggiore è dM/dY maggiore è
la pendenza della retta BP.
 la sensibilità dei movimenti di capitale al divario nei tassi
d'interesse, ovvero l'elasticità dei capitali alle variazioni unitarie del

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tasso di interesse. Quanto maggiore è l'afflusso di finanziamenti


all'incremento di un punto base del tasso di interesse, minore deve
essere l'incremento dei tassi per far affluire capitali nel Paese. In
termini formali la sensibilità dei movimenti di capitale alle
variazioni del tasso di interesse può essere indicata nel seguente
modo: dK/di. Minore è dK/di maggiore è la pendenza della retta BP.
Lo schema Mundell – Flaming non ci dice assolutamente niente
sulla pendenza della curva BP: è il rilevamento dei dati econometrici
che ci fornirà i dati relativi alla propensione all'importazione e quelli
relativi all'elasticità dei movimenti di capitali alle variazioni del tasso
di interesse. Tramite questi due fattori saremo poi in grado di
disegnare la retta BP con l'effettiva pendenza posseduta in una data
economia di un dato Paese in un determinato momento storico.
L'unica certezza, che ci proviene dal modello è che la curva BP
sarà tanto più ripida quanto maggiore sarà la propensione
all'importazione e minore l'elasticità dei movimenti di capitali alle
variazioni del tasso di interesse (Fig, 1) e tanto più orizzontale quanto
minore sarà la propensione all'importazione e maggiore la sensibilità
dei movimenti di capitali alle variazioni del tasso di interesse. (Fig. 2).

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Fig. 1 – Retta BP nel caso di una alta propensione


all’importazione e una bassa sensibilità dei movimenti di capitale alle
variazione dei tassi di interese

Fig. 2 - Retta BP nel caso di una bassa propensione


all'importazione e un'alta sensibilità dei movimenti di capitale alle
variazione dei tassi di interesse

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Come si rappresenta, nello schema considerato, un aumento del


reddito mondiale e il conseguente incremento delle esportazioni della
nazione presa in considerazione?
Nello schema che stiamo studiando, un incremento delle
esportazioni si descrive con una trasposizione in basso della retta BP.
La retta BP si sposta in basso a destra quando aumentano le
esportazioni? perché, a parità di reddito o di incremento di reddito
considerato, l'aumento esogeno delle esportazioni consente un
aumento delle importazioni maggiore, senza compromettere
l'equilibrio complessivo della bilancia - dei pagamenti. Si veda la
figura 3. Ciò significa che a parità di reddito il tasso di interesse può
essere corrispondentemente inferiore.
Allo stesso modo una diminuzione delle esportazioni dovuta ad
una crisi del commercio internazionale o alla riduzione del reddito
mondiale si rappresenta con uno spostamento della retta BP in alto
a sinistra, perché a parità di reddito peggiora l'equilibrio della
bilancia commerciale. Ciò significa che a parità di reddito il tasso di
interesse, per colmare la perdita di esportazioni, deve essere
corrispondentemente superiore. Si veda la figura 4.

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Fig. 3 - Spostamento della retta BP nel caso di un incremento


delle esportazioni del Paese considerato. L'equilibrio della bilancia dei
pagamenti si sposta da BP1 a BP2

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Fig. 4 - Spostamento della retta BP nel caso di una diminuzione


delle esportazioni del Paese considerato. L'equilibrio della bilancia dei
pagamenti si sposta da BP1 a BP2

Una svalutazione del cambio di un Paese nel caso di regime di


cambi flessibili si rappresenta come l'aumento esogeno delle
esportazioni, come nella figura 3.
Viceversa un apprezzamento del cambio si rappresenta con uno
spostamento in alto a sinistra.
La ragione è semplice: la svalutazione del cambio comporta un
aumento delle esportazioni (si da per scontato che sia rispettata la
condizione delle elasticità critiche) e la rivalutazione del cambio una
diminuzione delle esportazioni.

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2. GLI EFFETTI DELLA POLITICA MONETARIA


NEL MODELLO MUNDELL FLEMING

Nella figura 5 è rappresentato il caso di una politica monetaria


espansiva in un regime di cambi fissi, che, come lo studente
rammenta, si rappresenta con uno spostamento a destra della curva
LM ( nella figura da LM a LM1).
L'economia del Paese era in equilibrio con l'estero nel punto E,
ma il reddito (e conseguentemente l'occupazione) erano al di sotto
della piena occupazione.
A seguito della politica monetaria espansiva è stato conseguito
un incremento consistente del reddito monetario (si consideri che il
modello non tiene sotto controllo la variabile prezzi, per cui non
sappiamo quanta parte dell'incremento del reddito nazionale sia
dipeso dall'incremento dei prezzi e quanta parte dall'aumento delle
quantità prodotte e scambiate).
Dal momento che abbiamo ipotizzato la non piena occupazione
dei cittadini, è possibile che gran parte dell'aumento del reddito sia
aumento del reddito reale, con conseguente incremento di produzione
e occupazione.
Quello che però salta subito agli occhi dello studente diligente è
che il nuovo punto di equilibrio interno E1, in cui sono in equilibrio
tanto il mercato dei beni che quello monetario, cade al di sotto della
curva BP1 e dunque rappresenta un punto di deficit della bilancia dei
pagamenti.

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Fig. 5 – Politica monetaria in regime di cambi fissi

In un regime di cambi fissi, la conseguenza è la fuoriuscita di


riserve monetarie per finanziare il deficit commerciale.
La conseguenza della diminuzione delle riserve è un ritorno
della LM1 nella posizione originaria.
Nella fig. 5 non è disegnato, ma è evidente che la diminuzione
delle riserve comporta la diminuzione della base monetaria e di

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conseguenza dell'offerta di moneta e un ritorno al punto originario


della curva LM.
L'alternativa di breve periodo è una sterilizzazione della
restrizione monetaria conseguente alla riduzione delle riserve, ma si
tratta di una politica che può durare il tempo strettamente necessario
a giungere al livello di guardia delle riserve.
Quanto sopra dimostra che la politica monetaria ha un efficacia
molto limitata in caso di cambi fissi.
La situazione non è identica in caso di regime internazionale a
cambi flessibili? In questo secondo caso (regime di cambi flessibili),
sotto determinate condizioni (che si verifichi la condizione delle
elasticità critiche) la politica monetaria può essere efficace. Il lettore
ricordi sempre che stiamo parlando di manovre di breve o brevissimo
periodo.
In questo secondo caso il deficit commerciale registrato dalla
nazione interessata genererà un aumento dell'offerta della valuta del
Paese in questione e ciò farà svalutare il cambio.
La svalutazione del cambio comporterà, sotto alcune condizioni
che specificheremo, lo spostamento in basso a destra della retta BP1 e
ciò consentirà di raggiungere contemporaneamente l'equilibrio
interno ed esterno nel punto E2.
Perché la BP si sposti verso il basso è necessario che la
condizione delle elasticità critiche sia verificata. Se l'elasticità delle
importazioni + l'elasticità delle esportazioni sarà maggiore di 1, la
svalutazione del tasso di cambio farà aumentare le esportazioni e
diminuire le importazioni.

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Sappiamo che questo non accade nel brevissimo termine per il


cosiddetto effetto J, e sappiamo anche che non è detto che la
condizione delle elasticità critiche sarà verificata.
Tuttavia Mundell e Fleming sono molto ottimisti e prevedono
una reazione immediata dei mercati verso il riequilibrio.
Se si verifica la condizione delle elasticità critiche si
determineranno le seguenti conseguenze economiche:
 lo spostamento a destra della curva IS;
 lo spostamento a destra della curva BP;

Nella figura 6 viene rappresentato il processo sopra descritto e


da una situazione di deficit commerciale (punto E1) si passa ad un
nuovo equilibrio con l'estero nel punto E2. Gli spostamenti di
entrambe le rette (BP e IS) dipendono dall'incremento delle
esportazioni, determinato dalla svalutazione del cambio.
A differenza di quello che accadeva nel regime dei cambi fissi,
l'aumento del reddito a parità dei tassi (e il conseguente spostamento
a destra della curva IS) e lo spostamento a destra della retta BP
discendono dalla circostanza che la svalutazione della valuta del
Paese in deficit funziona come un grande sconto dei beni prodotti dal
Paese interessato.
La svalutazione della valuta consentirà di raggiungere il nuovo
equilibrio nel punto E2 in cui osserviamo:
 un maggior reddito;
 un minor tasso di interesse.
Il riequilibrio della bilancia dei pagamenti avviene mediante le
partite correnti e non quelle finanziarie.

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Fig. 6

Possiamo dunque concludere che la politica monetaria in


economia aperta può essere efficace se:

 riguarda il breve termine;


 è verificata la condizione delle elasticità critiche
 se il regime internazionale di scambi è a cambi flessibili.

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E' importante notare che l'inclinazione della retta LM non


influenza questa conclusione.
Il risultato è il medesimo in ogni caso, anche qualora la retta
LM fosse molto rigida o addirittura verticale e dunque la domanda di
moneta dipendesse principalmente o esclusivamente dal movente
transattivo.
Nella figura 7 è disegnato un caso del genere.
Fig. 7

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Invece la pendenza della rette IS e BP sono molto importanti,


perché, a parità di politica monetaria espansiva, tanto più più queste
due curve sono rigide, tanto più il deficit commerciale crescerà
rapidamente in seguito alla politica monetaria espansiva, maggiore
dovrà essere la svalutazione del cambio e inferiore l'incremento del
reddito, che si raggiungere in seguito alla svalutazione. Questo caso è
rappresentato dalla figura 8.
Viceversa ovviamente, nel caso le curve IS e BP saranno molto
piatte. Quest'ultimo caso è rappresentato nella figura 9.

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Fig. 8

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Fig. 9

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3. GLI EFFETTI DELLA POLITICA FISCALE NEL


MODELLO MUNDELL – FLEMING

Prima di esaminare l'efficacia di breve periodo della politica


fiscale espansiva, occorre ricordare che la pendenza della retta LM ne
condiziona già autonomamente l'efficacia.
Per cui, nel caso la retta LM fosse verticale, cioè nel caso in cui
la domanda di moneta dipendesse dal solo movente transattivo, non
esisterebbe nessuna possibilità di incrementi del reddito generati da
una politica monetaria espansiva, al di là della circostanza che si
consideri un'economia chiusa o aperta agli scambi internazionali.
Lo schema Mundell – Fleming, come tutto lo schema
neoclassico, dà per scontata la circostanza che la domanda di moneta
dipenda in parte dal movente speculativo e che, pertanto, la politica
fiscale espansiva determini in parte un incremento del reddito e, in
parte, un incremento del tasso di interesse di equilibrio.
A seconda delle relazioni economiche internazionali che si sono
susseguite nel corso della storia, possiamo considerare più realistica
l'idea di una curva LM più dipendente dal motivo transattivo e meno
da quello speculativo oppure la situazione opposta.
Lo stesso ragionamento vale per la curva BP, in cui la
sensibilità alle variazioni del tasso di interesse è cresciuta a livello
internazionale, man mano che venivano rimossi i divieti ai movimenti
finanziari di capitali tra nazioni diverse.
Durante il gold system, i movimenti di capitali, a causa delle
rigide politiche valutarie adottate dalle nazioni europee in
quell'epoca, erano pressoché rigidi a fronte di variazioni dei tassi di
interesse, fatta eccezione per i titoli in sterlina all'interno dell'area

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dell'Impero britannico e per gli acquisti delle Banche centrali dei


Paesi che commerciavano internazionalmente.
In quegli anni la rappresentazione più realistica del modello
Mundell – Fleming è quello di una curva BP più rigida (verticale)
della corrispondente curva LM: molti erano i Paesi con una alta
propensione all'importazione e una bassa sensibilità dei movimenti di
capitale alle variazione dei tassi di interesse.
In questo caso, una politica fiscale espansiva determina un
deficit commerciale, come raffigurato nella fig. 10, in cui, a seguito di
una politica di bilancio espansiva, si passa dal punto E in cui il
sistema è in equilibrio sia all'interno che all'esterno, al punto E1, in
cui si registra un equilibrio interno con un deficit della bilancia dei
pagamenti. In un regime di cambi fissi, come appunto nel Gold
Standard, l'obbligo al rispetto delle parità auree dichiarate
comportava la riduzione delle riserve monetarie e la diminuzione
dell'offerta di moneta. La diminuzione dell'offerta, che va
rappresentata con uno spostamento a sinistra della retta LM,
determinava una riduzione del reddito al di sotto del reddito
dell'equilibrio E1. (punto E2 fig. 11)
La figura 11 ci fa comprendere, anche, le ragioni per cui il Gold
Standard fu abbandonato dagli Stati che vi avevano aderito e perché,
in caso di deficit commerciale, i meccanismi di riequilibro automatico
della bilancia dei pagamenti fossero così pesanti socialmente per le
nazioni interessate, le quali dovevano sopportare una diminuzione del
reddito e dell'occupazione per tornare in equilibrio. (da E1 a E2).

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Fig. 10

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Fig. 11

Occorre avvisare lo studente che ad una conclusione del tutto


opposta alla precedente si giunge quando la BP sia meno verticale
della LM. In tal caso la politica fiscale è efficace in un sistema di
cambi fissi. Il caso è rappresentato nella figura 12. In questo caso, la
politica fiscale espansiva non determina un deficit, ma un surplus.
Ciò perché ipotizziamo che la sensibilità dei movimenti di
capitale finanziario sia molto elevata e che bastino piccoli movimenti
di punti base per far affluire ingenti capitali finanziari nel Paese
considerato, tali da compensare a livello di bilancia dei pagamenti il
deficit commerciale, generato dall'incremento del reddito.

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Come mostra la figura 12, a seguito del surplus della bilancia


dei pagamenti, (punto E1) in un regime di cambi fissi si registra un
aumento delle riserve monetarie, che determina, se non sterilizzato,
un aumento dell'offerta di moneta, che si rappresenta, come
sappiamo, con lo spostamento a destra della retta LM. Lo
spostamento a destra della curva LM determina l'equilibrio nel punto
E2, con maggiore occupazione.
I limiti di una politica del genere dipendono dalla condizione in
cui si trova l'economia. Infatti, qualora essa sia già vicino alla piena
occupazione, una politica del bilancio pubblico espansiva
determinerebbe unicamente un incremento dell'inflazione.

Fig. 12

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4. CONCLUSIONI

Restano da esaminare gli effetti della politica del cambio nel


modello Mundell – Fleming. In questo modello, la politica del cambio,
(cioè una svalutazione competitiva per rendere meno care le proprie
merci) è sempre efficace per ottenere un maggior reddito d'equilibrio.
Essa si rappresenta con uno spostamento a destra della curva BP.
Fig. 13

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Si richiama quanto già detto a questo proposito. Si tratta di


politiche che determinano un maggior reddito nazionale a spese del
resto del mondo e generano spesso reazioni da parte delle altre
nazioni che vanificano gli effetti di breve termine della svalutazione e
minano pesantemente il gioco cooperativo internazionale.
In conclusione si ribadisce quanto detto all'inizio della presente
lezione in merito ai limiti delle premesse concettuali del modello.
A questo aggiungo tutto il mio particolare disappunto circa le
conseguenze di non considerare l'onere del servizio del debito: credo
che pochi studenti sosterrebbero che per riequilibrare i conti della
propria famiglia sia sufficiente indebitarsi. Nessuno consiglierebbe ad
una famiglia che spende troppo rispetto alle proprie entrate, di
colmare tale deficit indebitandosi e nel contempo non considerando gli
oneri del debito sui bilanci futuri e sulle aspettative future dei
membri della famiglia e degli altri operatori.

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LE POLITICHE
ECONOMICHE
INTERNAZIONALI
(VALUTARIE E
COMMERCIALI) DAL 1914
AL 1939
Salvatore Della Corte
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commerciali) dal 1914 al 1939”

Indice

1. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI DURANTE LE DUE


GUERRE MONDIALI ----------------------------------------------------------------------------- 3
2. IL REGIME DEI CAMBI FLESSIBILI. LE RAGIONI DI EQUILIBRIO NEL
REGIME DEI CAMBI FLESSIBILI ------------------------------------------------------------ 9
3. I MECCANISMI DI RIEQUILIBRIO AUTOMATICO DELLA BILANCIA DEI
PAGAMENTI NEL REGIME DEI CAMBI FLESSIBILI --------------------------------- 13
4. I LIMITI DELLA SVALUTAZIONE DEL CAMBIO NEL SISTEMA DEI CAMBI
FLESSIBILI ----------------------------------------------------------------------------------------- 17
5. AUTARCHIA, PROTEZIONISMO E GLI STRUMENTI DELLA POLITICA
VALUTARIA ----------------------------------------------------------------------------------------- 25

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1. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI DURANTE LE DUE GUERRE
MONDIALI

L'Impero britannico risultò a lungo in attivo con la sua bilancia


dei pagamenti e immetteva in questo modo liquidità nel sistema,
almeno finché rimase la principale potenza economica mondiale. Il
suo declino portò al declino del sistema aureo (o della sterlina).
Tutti i Paesi aderenti non rispettarono le regole internazionali
sottoscritti, i Paesi come gli USA, in cui affluirono ingenti quantitativi
di oro e sterline ad esito dei surplus commerciali, per evitare
l'inflazione, sterilizzarono l'aumento dell'offerta di moneta. Viceversa
i Paesi in deficit, che avrebbero dovuto accettare forti depressioni,
sterilizzarono la diminuzione monetaria con operazioni sul mercato
aperto di acquisto di titoli pubblici.
Gli USA, che erano andati assumendo una posizione egemone
nel mercato internazionale non sostennero l'acquisto dei beni prodotti
dalle industrie europee, la cui crescita avevano determinato con il loro
credito.
Ma una delle grandi cause del disfacimento delle relazioni
internazionali dipese dagli esiti del Trattato di Versailles. Il primo
ministro britannico, il presidente del consiglio francese Clemenceau e
il presidente statunitense Wilson furono divisi su tutto e raggiunsero
un compromesso al ribasso che porterà alla politica mercantilistica ed
autarchica che si registrerà prima della seconda guerra mondiale.
La Francia aveva sofferto le maggiori perdite durante la guerra
mondiale e gran parte di questa era stata combattuta sul suolo
francese. Clemenceau pretendeva dall'Impero prussiano riparazioni

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che permettessero di ricostruire e riparare i danni causati


dall'esercito tedesco. Le fonti storiche sono contrastanti, ma si parla
approssimativamente di oltre 700.000 abitazioni e 23.000 impianti
industriali.
I Francesi inoltre volevano proteggersi contro l'eventualità di
altri possibili attacchi futuri della Germania, ma non compresero che
il modo migliore per ottenere questo risultato non fosse quello di
imporre riparazioni di guerra enormi ai tedeschi, ma quello di far
ripartire l'economia mondiale e ricreare le condizioni per una
cooperazione europea e internazionale.
I Francesi richiesero invece la demilitarizzazione della regione
di confine della Renania e il pattugliamento di quell'area da parte di
forze alleate, la diminuzione del numero di soldati dell'esercito
tedesco, la soppressione dell'aeronautica tedesca e ingentissime
riparazioni di guerra.
Ma quello che più divideva le forze vincitrici, erano gli interessi
geopolitici. Francia e Gran Bretagna volevano difendere ciascuno il
proprio Impero, ma al tempo stesso, i britannici erano interessati a
che la Francia non divenisse estremamente potente nel continente
europeo e per questa sola ragione volevano mitigare la volontà
punitrice francese, in modo che la Prussia tornasse presto a
rappresentare una concorrente forte della Francia nel continente.
Gli USA, all'opposto, ormai sempre più consapevoli del ruolo
che avrebbero potuto giocare a livello geopolitico, nati da una
rivoluzione antimperialista, si imposero perché venisse affermato il
principio di autodeterminazione dei popoli. In questo modo, anche
esplicitamente, gli USA contestavano la politica colonialista dei due
maggiori alleati (Francia e gran Bretagna).

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Sarà proprio la diffusione e l'accettazione da parte di molti


popoli del concetto di autodeterminazione, l'inizio della fine degli
imperi, non solo quello di quello ottomano e di quello austroungarico,
ma anche di quello francese e, infine, di quello più potente e più
esteso di tutti, quello britannico. L'autodeterminazione è anche in
parte la ragione per cui così tante nazioni si formarono nell'Europa
Orientale.
Quando il trattato di Versailles venne concluso, la Germania fu
costretta a pagare agli alleati 6.600.000.000 di sterline (132 miliardi
di marchi oro), cedere tutte le colonie, accettare la colpa per la guerra,
ridurre le dimensioni delle sue forze armate e cedere territorio a
favore di altri Stati.
Keynes partecipò alla conferenza di pace come delegato del
ministero del tesoro britannico. Egli riteneva opportuna una pace con
i tedeschi molto più generosa di quella che effettivamente fu e lo
riteneva, non per le ragioni geopolitiche che sosteneva il suo Primo
Ministro (in funzione antifrancese e nati europea continentale), ma
soprattutto per ragioni economiche.
Keynes propose durante i lavori due strumenti di politica
economica internazionale e cioè la remissione (annullamento) dei
debiti di guerra e un piano di crediti da parte degli USA per aiutare
l'economia europea a riprendersi il più presto
La sua idea era che la conferenza di pace dovesse gettare le
basi per un rilancio dell'economia; al contrario, come abbiamo visto, la
conferenza invece si occupò di confini, di sicurezza nazionale e di
geopolitica, con una fortissima contrapposizione di interessi tra le
stesse nazioni vincitrici.

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Amareggiato per la totale incomprensione della sua ricetta di


politica economica e per i 132 miliardi di marchi oro imposti come
riparazione alla Germania, Keynes abbandonò i lavori della
conferenza di pace e scrisse il libro “Le conseguenze economiche della
pace”, in cui predisse l'instabilità delle relazioni internazionali che
quelle condizioni avrebbero determinato e la crisi economica che
avrebbero determinato.
Intanto Keynes rimase inascoltato (e lo è tuttora) circa il
profondo spiazzamento finanziario che determinano le borse
secondarie rispetto all'incremento degli investimenti in capitale fisico
reale.
Le condizioni imposte alle principali economie mondiali per non
aver annullato i debiti di guerra della Germania e la bolla del mercato
borsistico statunitense sono la genesi del neomercantilismo e
dell'autarchia del periodo tra le due guerre mondiali. In fondo sono la
genesi di carattere economico delle ragioni che porteranno alla
seconda guerra mondiale.
Il 24 ottobre 1929 Wall Street crolla. E' l'inizio di una delle più
gravi crisi economica della storia.
I due atti economici attraverso i quali gli Stati Uniti
'contagiano' l’Europa sono da un canto il ritiro dei capitali americani,
(in particolare dei prestiti concessi a imprese e banche, dall'Europa);
dall’altro la crescente concorrenza esercitata dai prodotti USA
rispetto a quelli europei, in seguito ai forti ribassi verificatisi in
seguito alla crisi.

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In Inghilterra il governo laburista nel 1931 reagisce con una


politica mercantilista:
 sospende la convertibilità della sterlina in oro e quindi di fatto
svaluta la sterlina. Il Gold standard era già stato abbandonato
da molti Paesi, ma la svalutazione della sterlina deprezza le
riserve monetarie delle banche centrali mondiali e porta in se
una ulteriore depressione;
 la svalutazione comporta un aggressiva riduzione delle merci
britanniche sui mercati internazionali, volta a reagire anche
alla diminuzione dei prezzi delle merci statunitensi;
 la Gran Bretagna abbandona la politica del libero scambio e
crea un’area di Paesi strettamente ancorati alla sterlina e
rafforza i suoi rapporti commerciali con l’impero a detrimento
di quelli con l’Europa (1932, conferenza di Ottawa).
Anche la Francia reagisce con la medesima politica
mercantilista, svalutando il Franco, attivando il commercio con le
proprie colonie o aumentando le spese militari.
In Germania la crisi colpisce più fortemente che altrove. Uscita
sconfitta dalla prima guerra mondiale la Germania si stava
riprendendo grazie allo scaglionamento del pagamento delle enormi
cifre dovute ai vincitori, ma, dopo la crisi del 29, subisce il ritiro dei
capitali americani e il fallimento della Banca Danat e della Dresdner
Bank.
Nel 1932 le esportazioni tedesche crollano e nel 1933 sei milioni
di tedeschi sono disoccupati. La banca centrale tedesca svaluta
anch'essa il marco, sempre in funzione mercantilista e inflazionista.
L'inflazione è alle stelle.

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La crisi determina l’avvento al potere di Hitler e della sua


fanatica ideologia. Il nuovo regime sospende completamente ogni
pagamento delle riparazioni di guerra e punta decisamente a una
riduzione della disoccupazione attraverso un massiccio programma di
riarmo e riorganizzazione dell'esercito.
Violando le condizioni della pace di Versailles vengono affidate
grandi commesse militari alle principali industrie tedesche e si
organizza l'esercito per la guerra. Nel comparto industriale vengono
impiegati circa 3 milioni di disoccupati, mentre tre milioni di ex
disoccupati si preparano alla seconda guerra mondiale nell'esercito
tedesco. Tutto ciò comporta un rapido aumento del debito pubblico
tedesco.
Secondo lo schema mercantilista Hitler, ma al tempo stesso
l'Impero britannico e la Francia si preparano a un conflitto
generalizzato in Europa per stabilire a chi spettasse l'egemonia
mondiale: ovviamente a nessuna di quelle nazioni.

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2. IL REGIME DEI CAMBI FLESSIBILI. LE


RAGIONI DI EQUILIBRIO NEL REGIME DEI
CAMBI FLESSIBILI

Tra le due guerre mondiali, mentre si assisteva a politiche


autarchiche e protezioniste dal lato commerciale, con riferimento ai
cambi tra le valute si assistette ad un regime di cambi perfettamente
flessibili in alcuni casi e a un regime di cambi controllati in altri
periodi.
Ma come funziona un sistema di cambi flessibili e qual è la sua
differenza essenziale con un sistema di cambi valutari fissi?
Quando le divise non sono convertibili in oro, le oscillazioni del
cambio valutario tra due monete non dipese più dalle oscillazioni dei
cosiddetti punti dell'oro, cioè dell'incremento o decremento della
parità aurea rispetto ai costi di trasporto e assicurazione per la
conversione della moneta in oro.
Il cambio tra le due monete, in un regime di cambi flessibili,
come avvenne durante le due guerre mondiali, oscilla liberamente
senza limiti e dipende esclusivamente dalla domanda e dall'offerta
delle valute. Ad esempio, se la domanda di euro aumenta rispetto
all'offerta, il prezzo dell'euro in termini di moneta straniera aumenta,
e questo aumento continuerà-finché la domanda e l'offerta di euro non
saranno eguali tra loro.
In altre parole il cambio di una divisa (un altro modo di
chiamare la moneta) dipenderà esclusivamente dalla domanda e
dell'offerta di valuta, così come accade per il prezzo di qualunque
bene.

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In un regime di cambi flessibili da cosa dipende la domanda e


l'offerta di una valuta
Una prima risposta è stata proposta dall'economista svedese
Gustav Cassel, il quale enunciò nel 1922 la “teoria della parità dei
poteri di acquisto”, definita da altri economisti “legge del prezzo
unico”.
Questa teoria sostiene che il cambio di equilibrio tra due
monete è sì determinato dalla domanda e dall'offerta delle valute, ma
tale domanda tende a essere eguale al rapporto tra i poteri di acquisto
interni delle due monete.
Ogni volta che il potere d'acquisto interno di una delle due
monete muta, si modifica anche il tasso di cambio. Ovviamente non si
fa riferimento al singolo prezzo del singolo bene, ma più in generale
alla media ponderata dei prezzi, ovvero appunto al potere di acquisto
interno.
Se la media ponderata dei prezzi dei beni in area euro, ovvero il
potere di acquisto interno dell'euro diminuisce mentre quello del
dollaro rimane stabile o addirittura aumenta, il cambio peggiorerà a
danno dell'euro. In altre parole i meccanismi della concorrenza
mondiale internazionale farebbero sì che i prezzi dei medesimi beni,
espressi in una valuta (immaginaria) comune, siano uguali in tutte le
nazioni.
Il primo limite di questa teoria sono le ipotesi troppo
semplificatici della teoria stessa e cioè la perfetta circolazione delle
informazioni; l’assenza dei costi di trasporto; la piena corrispondenza
qualitativa dei prodotti.

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Si tratta di tre condizioni che non si verificano in modo perfetto


praticamente mai.
In secondo luogo essa contraddice in parte le maggiori teorie dei
prezzi, che spiegano le differenze dei prezzi di un medesimo oggetto
proprio in base al tempo e al luogo in cui esso è scambiato: è ovvio che
un ombrello costi di più mentre piove o dove piove spesso e che una
bottiglia d'acqua abbia un valore maggiore al centro di un deserto
rispetto che vicino a una fonte naturale gratuita.
La teoria della “parità dei poteri d'acquisto” appena descritta è
anche chiamata teoria della “parità dei poteri d'acquisto” assoluta. Ed
è molto criticata per le ragioni sopra descritte: il non tener conto che
molte differenze assolute dei prezzi divergono per ragioni
economicamente spiegabili, come il caso della camera di albergo
superaccessoriata in hotel 5 stelle con vista sul Colosseo, rispetto alla
camera di albergo superaccessoriata in hotel 5 stelle con vista sul
grande raccordo anulare.
Esiste una versione più accettabile della teoria della “parità dei
poteri d'acquisto”, definita dagli economisti come relativa. Essa è
compatibile con la realtà e con le differenze di prezzo che si registrano
nella realtà. Questa versione prevede che, espresso in valuta comune,
il tasso di variazione dei prezzi sia uguale al tasso di variazione dei
prezzi del resto del mondo.
In termini formali:
dP / P = dE / E + dPm / Pm [1]
in cui E indica il tasso nominale di cambio (il prezzo della
valuta estera in termini di valuta nazionale), P indica il livello
generale dei prezzi del Paese o Area commerciale di riferimento e Pm
il livello generale dei prezzi dei Paesi che adottano la valuta estera.

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Essa spiega la svalutazione della valuta estera in termini di


valuta nazionale con l'aumento del livello generale dei prezzi
registrato nei paesi che adottano la valuta estera. Infatti dalla [1]
discende:

dP / P - dPm / Pm = dE / E [2]

In ogni caso la teoria della parità dei poteri di acquisto non


trova un riscontro certo nelle ricerche empiriche effettuate.
Una seconda risposta considera l'importanza sempre maggiore
dei tassi di interesse nella determinazione della domanda e offerta di
una valuta e il ruolo di differenziali tra i tassi delle diverse economie:
gli economisti hanno registrato che esistono sui mercati monetari
acquisti e vendite di valuta che costituiscono i cosiddetti movimenti
speculativi di capitali e che fanno variare la domanda e l'offerta di
valuta, modificando i cambi, senza nessuna relazione con il potere
d'acquisto interno delle monete.
Si tratta di un fenomeno che ha assunto rilevanza a partire
dagli anni ottanta del 1900.

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3. I MECCANISMI DI RIEQUILIBRIO AUTOMATICO


DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI NEL
REGIME DEI CAMBI FLESSIBILI

In un sistema di cambi flessibili, gli squilibri delle bilance dei


pagamenti vengono corretti da variazioni nel cambio, mentre, almeno
nel breve termine i livelli dei prezzi, del reddito e dell'occupazione nei
diversi Paesi non mutano.
Ciò è quasi l'opposto del sistema aureo (o sistema a cambi fissi
della sterlina), in cui il cambio è fisso e varia intorno ai punti dell'oro,
e l'equilibrio nella bilancia dei pagamenti viene ristabilito attraverso
variazioni del livello del reddito e dell'occupazione nazionali.
Cerchiamo di spiegare il riequilibrio in un sistema a cambi
flessibili. Consideriamo due aree commerciali con due valute diverse,
l'Unione Monetaria con l'euro e la Repubblica popolare cinese, con il
suo miliardo e 300 milioni di persone, con il suo socialismo di mercato
e lo Yuan cinese.
Sempre per semplificare lo studio non consideriamo le sezioni
della bilancia dei pagamenti relativa ai movimenti dei capitali e a
quelli finanziari e supponiamo che il cambio tra euro e Yuan dipenda
esclusivamente dalla bilancia commerciale tra l'Unione europea e la
Repubblica popolare cinese.
Nell'Unione monetaria, che è un Unione economica, esistono
vari Stati nazionali, che, pur avendo un mercato comune e politiche
economiche condivise con gli altri, hanno sovranità e bilanci statali
separati.
E' evidente che eventuali sbilanci commerciali di un singolo
Paese non influenzano il tasso di cambio dell'euro, quello che conta è

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la bilancia commerciale dell'Unione europea nei confronti del resto del


mondo e, nel nostro esempio, la bilancia commerciale con la
Repubblica popolare cinese.
Ma torniamo ai rapporti tra l'Unione europea e la Repubblica
popolare cinese: nel 2012 la Repubblica popolare cinese ha registrato
un surplus nei confronti dell'Europa e quindi l'Europa importa più di
quanto esporta, mentre per la repubblica popolare cinese accade il
contrario.
A livello generale, (cioè nei confronti del resto del mondo)
invece, la bilancia commerciale dell'Eurozona ha fatto registrare un
surplus di 81,8 miliardi di euro, contro il deficit di 15,7 miliardi del
2011.
E' evidente che il cambio di una moneta dipende, anche
nell'ipotesi semplificata che esso derivi unicamente dalla bilancia
commerciale, dalla sua bilancia complessiva.
Immaginiamo che nel mondo esistano soltanto l'Unione
Europea e la Repubblica popolare cinese.
Supponiamo che l'Unione europea (Area euro, cioè i soli Paesi
che adottano l'euro) importi merci per un totale di 400 miliardi di
euro e che esporti merci (verrebbe da dire soprattutto merci tedesche)
per un totale di 200 miliardi di euro.
La domanda di euro da parte dei cinesi, che acquistano le
nostre esportazioni, è quindi di 200 miliardi; mentre gli europei che
adottano l'euro, per pagare le importazioni dalla Cina, devono
comprare 1'equivalente in yuan cinesi di 400 miliardi di euro, per cui
l'offerta di euro (uguale alla domanda di yuan cinesi) è di 400
miliardi.

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Quindi l'offerta di euro supera la domanda di euro, per cui il


prezzo dell'euro in termini di yuan, cioè il cambio euro-yuan,
diminuisce.
La diminuzione del cambio, non essendovi più il limite del
punto dell'oro, in un sistema a cambi perfettamente flessibile,
continuerà finché la domanda e l'offerta di euro non diventano eguali.
Ma perché la domanda e l'offerta di euro tendono a diventare
eguali man mano che il prezzo dell'euro scende?
Quando il cambio euro-yuan scende, si dice che l'euro si svaluta
mentre quando il cambio euro-yuan sale, si dice che l'euro si rivaluta.
Immaginiamo di partire da un cambio originario precedente alla
svalutazione dell'euro pari a 1 euro per un yuan cinese (è un cambio
immaginario).
Immaginiamo che l'euro si svaluta e occorrano ora 2 euro per
uno yuan.
Cosa accadrebbe sui mercati del commercio internazionale e
soprattutto sul mercato europeo e su quello cinese. Un cinese che
voglia acquistare un oggetto italiano o francese che costa 10 euro, al
cambio precedente alla svalutazione spendeva 10 yuan, mentre dopo
la svalutazione spende soltanto 5 yuan.
Quindi, benché i prezzi, espressi in euro, delle merci dei Paesi
aderenti alla moneta euro non si modifichino, le merci italiane,
francesi, belghe, tedesche, e di tutti i Paesi aderenti all'euro,
diventano meno costose per i cinesi, per effetto della svalutazione del
cambio dell'euro.
Infatti i prezzi dell'area euro, espressi in yuan, diminuiscono.
Ciò determina un aumento della domanda di merci delle nazioni che

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adottano l'euro da parte dei cinesi, cioè un aumento delle esportazioni


europee.
Sul mercato dei cambi ciò comporta un aumento della domanda
di euro da parte dei cinesi e il cambio, perfettamente flessibile,
oscillerà fino a quando la bilancia dei pagamenti tra i due Paesi non
torneranno in equilibrio.
La svalutazione dell'euro, significa nel nostro esempio,
rivalutazione dello yuan, per cui un italiano, o un qualsiasi residente
nell'area euro, che voglia acquistare un prodotto cinese (ad esempio
un fiore di carta) che costa l yuan, mentre prima doveva sborsare 1
euro, dopo la svalutazione dell'euro deve sborsare 2 euro.
Quindi le merci cinesi diventano più costose per gli europei, per
effetto della rivalutazione dello yuan. I prezzi delle merci cinesi,
espressi in yuan, non mutano; però gli stessi prezzi, espressi in euro,
aumentano. La domanda di merci cinese da parte degli europei, cioè le
importazioni europee, di conseguenza, diminuisce.
Sul mercato valutario una contrazione delle importazioni
europee dalla Repubblica popolare cinese comporta una contrazione
della domanda di yuan.
Ecco dunque spiegato il meccanismo di riequilibrio nel sistema
dei cambi flessibili: nel sistema a cambi flessibili, l'equilibrio
automatico della bilancia dei pagamenti avviene tramite variazioni
dei cambi.
Sembrerebbe un sistema molto valido ed efficiente e che non ha
gli inconvenienti del sistema aureo, cioè non sottopone a politiche
monetarie deflattive le economie in deficit.
Purtroppo le questioni economiche sono più complicate.

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4. I LIMITI DELLA SVALUTAZIONE DEL CAMBIO


NEL SISTEMA DEI CAMBI FLESSIBILI

Innanzitutto non è detto che la svalutazione del cambio


comporti di per sé il pareggio della bilancia dei pagamenti. Questo
avviene perché, anche in caso di svalutazione del cambio, perché si
abbia un miglioramento della bilancia dei pagamenti del Paese in
deficit, deve realizzarsi la condizione di Marshall e Lerner, definita
anche condizione delle elasticità critiche di cui qui richiamo solo la
formula finale:

ἑx + ἑm > 1 [1]

in cui ἑx è un modo abbreviato per scrivere l'elasticità delle


esportazioni e ἑm è un modo abbreviato che uso per scrivere
l'elasticità delle importazioni.
Perché si abbia un miglioramento della bilancia commerciale
quando peggiora la ragione di scambio commerciale di un Paese che
ha diminuito i prezzi delle proprie merci? Il valore delle esportazioni
deve aumentare più del valore delle importazioni. Questo avviene se
la somma delle due elasticità (delle esportazioni e delle importazioni)
è maggiore di 1.
Abbiamo già visto che gli economisti neoclassici tendono ad
affermare che si tratta di una condizione facile da raggiungere. Quello
che si osserva nella pratica, invece, è che ad un deprezzamento delle
ragioni di scambio del commercio internazionale o al deprezzamento
del tasso di cambio reale fa sempre seguito, nell'immediato, un
peggioramento della bilancia commerciale.

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Tale effetto, noto come effetto J, è causato dalla bassa elasticità


di prezzo che la domanda di importazioni e esportazioni ha nel breve
periodo, per via della presenza di rigidità contrattuali e delle
abitudini dei consumatori.
Nel breve periodo si manifesta esclusivamente il peggioramento
della bilancia commerciale in quanto si manifesta solo l'effetto prezzo,
mentre l'effetto quantità tende ad essere nullo: questo è dovuto al
fatto che nella realtà i consumatori e i produttori reagiscono alle
variazioni dei prezzi delle importazione e delle esportazioni in tempi
differenti rispetto alle variazioni dei loro prezzi e dalla circostanza
che le quantità scambiate rimangono per un certo periodo immutate.
Nel lungo termine l'effetto quantità, come abbiamo già detto, si
manifesta con intensità crescente e riesce a produrre un incremento
delle quantità esportate e una diminuzione delle importazioni.
Questo fa sì che nel lungo periodo la bilancia commerciale
migliori, ma non è detto che giunga al pareggio. Alcune importazioni
potrebbero infatti mostrarsi assolutamente rigide, come quelle di
greggio o, in generale di energia (l'Italia per esempio importa energia
elettrica di origine nucleare dalla Francia). Allo stesso modo
potrebbero mostrarsi assolutamente rigide molte altre domande di
beni.
E' ora necessario approfondire tutte quelle circostante in cui
può le importazioni si sono mostrate rigide, oltre al caso dei Paesi con
carenza di materie prime per produrre energia.
La condizione delle elasticità critiche può non realizzarsi in un
Paese, come ad esempio l'Italia carente di quasi tutte le materie
prime, ma trasformatore. Questo Paese ha bisogno delle materie
prime, dalla cui trasformazione tra la propria ricchezza.

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In questa circostanza la svalutazione del cambio rende più


costosa l'importazione di materie prime e genera un aumento dei
prezzi interni. Questa circostanza genera un'inflazione specifica,
definita dagli economisti inflazione da costi.
L'aumento di moneta in circolazione genera inflazione soltanto
nella circostanza che la conseguente diminuzione dei tassi di interessi
non riesca a produrre un incremento dei redditi a causa di aspettative
imprenditoriali negative, che scoraggino comunque un investimento
in capitale fisico aggiuntivo.
Ora è il caso di approfondire i meccanismi dell'inflazione da
costi.
In seguito all'incremento dei prezzi delle materie prime, gli
imprenditori hanno due sole possibilità: comprimere i propri profitti, o
aumentare i prezzi delle merci prodotte.
La seconda soluzione è la più probabile. Se questo avviene per
tutti i prezzi o la maggior parte di essi sappiamo che aumenterà il
livello generale dei prezzi e varrà di meno la moneta.
A questo punto è molto probabile che si inneschi una reazione
della classe operaia, che chieda un reintegro del valore monetario dei
salari, in modo da conservare il valore dei salari reali, precedenti alla
svalutazione del cambio, che ha indotto l'aumento delle materie
prime.
In questo caso l'inflazione, come è evidente, non è indotta da un
incremento della quantità di moneta in circolazione, ma
dall’incremento dei prezzi delle materie prime e dal processo
inflazionistico da conflitto sociale.
In questo caso può avviarsi quella che gli economisti
definiscono spirale inflazionistica.

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La successione degli eventi è la seguente:


1) la prima svalutazione del cambio determina il primo aumento
del livello generale dei prezzi
2) il primo aumento dei prezzi determina la reazione dei ceti
operai per vedere ricostituito il salario reale precedente alla prima
svalutazione;
3) l'incremento dei salari determina un ulteriore deficit della
bilancia dei pagamenti;
4) l'ulteriore deficit dei pagamenti determina una successiva una
ulteriore svalutazione del cambio;
5) il processo ricomincia dal punto 1)
Questo è quello che è realmente accaduto in Paesi come
l'Inghilterra e l'Italia negli anni Settanta del 1900, ma non accadde
fra le due guerre, come vedremo bene tra poco.
Non solo la svalutazione del cambio determina problemi, ma
anche la rivalutazione.
Nelle Nazioni con il bilancio in surplus, la rivalutazione del
cambio, come abbiamo detto rende le merci prodotte troppo care per
gli altri Paese e determina una notevole diminuzione delle
esportazioni. La diminuzione delle esportazioni determina una
diminuzione del fatturato per le imprese coinvolte ed esse
licenzieranno lavoratori, il che determinerà disoccupazione in alcuni
settori produttivi.
Esiste un'ulteriore critica alla svalutazione del cambio, di
matrice aziendalista e di quelle scuole macroeconomiche fondate sulla
microeconomia. Secondo queste scuole il potere di mercato di un
marchio dipende dagli investimenti pubblicitari, dalla qualità dei beni
prodotti, dall'assistenza post vendita, dalla rete di vendita, dallo

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status simbol che il possesso di un determinato bene significa in una


comunità politica.
Per tutte queste ragioni la rigidità delle importazioni e delle
esportazioni può essere alta, ovvero le elasticità basse e non
raggiungere la condizione delle elasticità critiche, anche nel medio
periodo e non solo nel breve termine, come mostra l'effetto J.
Secondo gli studi degli anni 50 del secolo scorso dell'economista
Sidney Alexander, piuttosto che alla condizione delle elasticità
critiche, occorre guardare al fenomeno economico che egli definì
assorbimento.
Alexander parte dall'identità contabile in caso di equilibrio
macroeconomico in un'economia aperta:
Y=C+I+G+X-M [2]
Dove Y è il reddito nazionale, C è la spesa per i consumi, I la
spesa per investimenti, G il saldo del bilancio pubblico, X il valore
delle esportazioni delle merci, M il valore delle importazioni delle
merci.
Secondo Alexander l'assorbimento è?
L'insieme di C + I + G.
C+I+G=A [3]
La [2] può essere così riscritta
Y=A+X-M [4]
Se si definisce B = X -M [5]
la [4] diventa:
Y=A+B [6]
da cui:
B=Y–A [7]

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In questo modo Alexander dimostra che il saldo delle partite


correnti della bilancia dei pagamenti non è altro che la contropartita
contabile della differenza tra reddito nazionale (Y) e domanda globale.
Infatti l'assorbimento è dato da C + I + G, che altro non sono che la
domanda globale interna di un Paese.
L'assorbimento è l'equivalente della domanda globale interna
perché sia i consumi, sia gli investimenti, sia il saldo della spesa
pubblica è soddisfatto in parte attraverso i beni prodotti internamente
e in parte attraverso le importazioni.
Da questo punto di vista, seguendo Alexander, possiamo dire
che un saldo attivo (un surplus) delle partite correnti della bilancia
dei pagamenti significa che la collettività produce più di quello che
domanda nel complesso tra settore privato e pubblico, cioè:
B>Y–A [8]

Viceversa un saldo negativo (un deficit) delle partite correnti


della bilancia dei pagamenti significa che la collettività produce meno
di quello che domanda nel complesso tra settore privato e pubblico,
cioè:
B<Y–A [9]
Ma qual è la conseguenza in termini di politica economica, che
è quello che qui ci interessa. Qual è l'aspetto normativo economico che
discende da questo approccio allo studio delle partite correnti della
bilancia dei pagamenti?
Secondo Alexander, per comprendere se la svalutazione del
cambio di una valuta in un regime a cambi perfettamente flessibili
determina o meno un riequilibrio della bilancia dei pagamenti, non
sono tanto importanti le elasticità delle importazioni e delle

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esportazioni, ma le variabili interne del Paese interessato alla


svalutazione del cambio della divisa e in particolare se il sistema è in
piena occupazione o meno.
Secondo Alexander, se il sistema economico non è in piena
occupazione la svalutazione del cambio farà aumentare certamente le
esportazioni, se, invece il sistema economico è in piena occupazione, la
svalutazione del tasso di cambio farà aumentare le esportazioni solo
se contemporaneamente si ridurranno o i consumi, o gli investimenti
o la spesa pubblica.
Siccome non è detto che questo accada in un'economia in piena
occupazione, ne deriva che, secondo Alexander, la svalutazione del
cambio debba essere accompagnata da una politica fiscale restrittiva o
una politica monetaria restrittiva.
Gli esponenti della Nuova Scuola di Cambridge prescrivono di
ridurre la spesa pubblica finanziata in disavanzo e quindi prescrivono
di diminuire il disavanzo pubblico allo scopo di ridurre il deficit della
bilancia dei pagamenti e accompagnare il riequilibrio tramite la
svalutazione del cambio.
Altri autori sostengono che una politica monetaria restrittiva è
il mezzo migliore per ridurre l'assorbimento interno. Una politica
monetaria restrittiva può però generare una diminuzione del reddito e
dell'occupazione e quindi sia una diminuzione della domanda globale
interna, sia una diminuzione della produzione.
Sembra evidente che sia preferibile quanto proposto dalla
Nuova Scuola di Cambridge, il che rappresenta un ulteriore critica,
scientificamente fondata, alle politiche di deficit spending.
Ma il difetto fondamentale del sistema di cambi flessibili è
senza dubbio l'incertezza che esso crea presso gli operatori economici,

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che operano nel settore import export. Come sappiamo dalla teoria
delle aspettative razionali l'aspettativa è fondamentale nelle scelte
economiche degli operatori secondo la formula più volta utilizzata.
L'aspettativa matematica condizionata non è altro che
l'aspettativa matematica soggetta a un ben specificato insieme di
informazioni.
In termini formali:
n
Aspettativa matematica condizionata = E (X/I) = Σ Pi Xi / I
i=l
dove I rappresenta l'insieme di informazioni utilizzato da cui
dipende la distribuzione di probabilità.
È evidente che la completa flessibilità dei cambi ingenera negli
operatori internazionali una completa incertezza nei confronti dei
futuri cambi e, in ultima analisi della convenienza del commercio
internazionale.
Gli operatori possono coprirsi sui mercati dei cambi con
operazioni a termine, cioè possono fissare oggi un prezzo d'acquisto
della valuta che decideranno di acquistare o meno in una certa data
futura, ma si tratta di operazione costose e talvolta rischiose, la cui
rischiosità aumenta all'aumentare dell'instabilità politica
internazionale.
E' esattamente il quadro che si delineò, come abbiamo visto
durante le due guerre mondiali, in cui i continui interventi degli Stati
nazionali, anche sul livello dei cambi e il complesso delle politiche
economiche mercantiliste e protezioniste portò all'autarchia.

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5. AUTARCHIA, PROTEZIONISMO E GLI


STRUMENTI DELLA POLITICA VALUTARIA

Le funeste previsioni di Keynes si realizzarono tutte, come


sappiamo.
Quello che è importante studiare, dal punto di vista della
politica economica, sono tutte le condotte di politica economica che
furono adottate dalle varie nazioni in quel periodo per avere il tasso di
cambio che garantisse a ciascuna di esse la piena occupazione nel
proprio Paese, anche quando ciò danneggiava le altre nazioni e
riduceva gli scambi internazionali.
Conosciamo bene tutti gli strumenti di politica commerciale,
che può adoperare una Nazione per attuare una politica protezionista,
tra cui la stessa svalutazione del cambio. Mentre questi strumenti
agiscono direttamente sui livelli del commercio internazionale,
esistono altri strumenti importanti di politica economica valutaria,
che mirano a incidere direttamente sui movimenti di valuta.
Questi provvedimenti politici determinano un controllo dei
cambi da parte dei Governi. In tal caso si parla di regime di cambi
controllati.
Gli strumenti di politica valutaria sono:
 Le operazioni di vendita e acquisto di valuta (nazionale) della
Banca Centrale di uno Stato federale o di un'Unione economica
sui mercati valutari volti ad determinare il livello del cambio.
Questi interventi possono essere aggressivi, ovvero volti a
determinare una svalutazione del cambio per fini di politica
commerciale a danno dei Paesi vicini, come appunto accadde
durante le due guerre oppure cooperativi, compiuti con

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coordinamento delle banche centrali di Paesi vicini e con


interscambio commerciale e volti a mantenere stabile un certo
cambio concordato. In questo caso non siamo più in un sistema
di cambi perfettamente flessibili.
 Autorizzazioni amministrative (della banca centrale o di un
apposito ufficio cambi, strettamente collegato alla banca
centrale) a cui sottoporre gli importatori. Questa misura serve
alle autorità di politica economica per selezionare i beni esteri
che è necessario importare e negare l'autorizzazione
amministrativa per quelle importazioni ritenute non
strategiche. Per fare un esempio, l'autorità centrale potrebbe in
questo modo decidere di permettere l'importazione di tecnologie
strategiche e negare l'importazione di beni di lusso stranieri.
 Contingentamenti valutari agli importatori;
 Divieto o limitazione di esportazioni di capitali o di acquisto di
obbligazioni estere;
 Controllo sulle operazioni valutarie delle banche costituiti
dall’obbligo di versare presso la banca centrale la valuta estera
in cambio di valuta nazionale e serve ad aumentare la valuta di
riserva di una banca centrale.
 Baratto internazionale o compensazioni mercantili. Consente
l'importazione di una determinata merce solo in cambio di un
equivalente esportazione;
 Divieto di fuoriuscita di valuta concordato tra due Paesi o
compensazioni monetarie. Esiste una cassa di compensazioni
tra due Paesi che regola il commercio internazionale tra quei
due Paesi e impedisce la fuoriuscita di valuta.

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 Cambi multipli. Ha lo stesso scopo delle autorizzazioni


amministrative e spesso si accompagna a quello strumento, ma
agisce anche sul prezzo. Per tornare all'esempio precedente si
attua un cambio basso per l'acquisto di tecnologia straniera
utile ed un cambio altissimo per i beni di lusso.
Il clima teso delle relazioni internazionali che fu determinato
dagli esiti della pace di Versailles, l'ascesa al potere di Hitler in
Germania con la sua folle politica di rivincita continentale e di
Mussolini, con il suo sogno di un Impero italiano accentuarono la
creazione di blocchi commerciali contrapposti. Gli USA furono sempre
più isolazionisti. L'Impero britannico concentrò l'interscambio
commerciale al suo interno. Medesimo atteggiamento ebbe la Francia.
Le estensioni commerciali di entrambi questi imperi coloniali
consentirono loro comunque di avere un forte interscambio
internazionale. Diverso fu il caso della Germania nazista e dell'Italia
fascista. L'Italia, che aveva intrattenuto ottimi rapporti con l'Impero
britannico in un primo tempo, modificò le sue relazioni internazionali,
in seguito alle sanzioni imposte dalla comunità internazionale per
l'invasione dell'Etiopia.
Il regime fascista, avendo il controllo di tutta la stampa, non
fece conoscere al popolo italiano la gravità e la disumanità degli atti
compiuti e reagì con una politica autarchica in base alla quale una
nazione deve essere in grado di produrre autonomamente tutto ciò di
cui ha bisogno.
In realtà l'Italia poté perseguire l'autarchia esclusivamente
perché le sanzioni non riguardarono il petrolio ed il carbone,
essenziali all'industria italiana, e che la Germania nazista non
rispettò il blocco. Temendo un avvicinamento dell'Italia alla

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Salvatore Della Corte “Le politiche economiche internazionali (valutarie e
commerciali) dal 1914 al 1939”

Germania le sanzioni furono revocate dopo soli sette mesi, ma gli


effetti politici ed economici sull'Italia proseguirono.
Lo Stato italiano aveva salvato dal fallimento le imprese e le
banche italiane grazie all'Iri, Istituto per la ricostruzione italiana, e la
completa statalizzazione dell'economia italiana fu dovuta più a quel
episodio, che all'autarchia.

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LE RELAZIONI E LE
POLITICHE ECONOMICHE
INTERNAZIONALI DALLA
FINE DELLA GUERRA AL
PIANO MARSHALL
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Le relazioni e le politiche economiche internazionali
dalla fine della guerra al piano
Marshall”

Indice

1. LE RELAZIONI INTERNAZIONALI ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA


MONDIALE ------------------------------------------------------------------------------------------ 3
2. LA CONFERENZA DI BRETTON WOODS E IL SISTEMA DI RELAZIONI
ECONOMICHE INTERNAZIONALI CHE NE NACQUE -------------------------------- 5
3. LA CONFERENZA DI YALTA E LE RIPARAZIONI DI GUERRA DELLA
GERMANIA ----------------------------------------------------------------------------------------- 21
4. IL PIANO MARSHALL E LE SUE CONSEGUENZE DI POLITICA ECONOMICA
--------------------------------------------------------------------------------------------------------- 26

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1. LE RELAZIONI INTERNAZIONALI ALLA FINE


DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

In questa lezione affrontiamo il nuovo ordine mondiale uscito


fuori dalla vittoria alleata sulle potenze che avevano firmato il patto
tripartito (Impero del Giappone, Terzo Reich e Impero italiano.
Gli avvenimenti che stabilirono i futuri assetti mondiali,
secondo la maggior parte degli storici e degli economisti, furono
essenzialmente tre, due furono conferenze, uno un piano di aiuti
economici:
a) la conferenza di Bretton Woods che si tenne dal 1º al 22 luglio
1944 nell'omonima località nei pressi di CarrollCarroll (New
Hampshire), per stabilire le regole delle relazioni commerciali e
finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo. Gli
accordi di Bretton Woods furono il primo esempio nella storia
del mondo di un ordine monetario totalmente concordato,
pensato per governare i rapporti monetari fra stati nazionali
indipendenti: vi parteciparono 730 delegati di 44 nazioni
alleate.
b) La conferenza di Yalta. E' il nome del vertice tenutosi tra
Roosevelt. Presidente USA, Churchill, primo ministro
dell'Impero britannico, e Stalin, dittatore dell'URSS, presso
Livadija (3 km a ovest di Yalta), in Crimea, a guerra in corso,
tra il 4 e l'11 febbraio del 1945, nel quale i capi politici dei tre
principali paesi Alleati presero alcune decisioni importanti sul
proseguimento del conflitto, sullo smembramento della
Germania, sulle indennità di guerra da richiedere alla
Germania, sull'assetto futuro della Polonia, e sull'istituzione

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dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Quelle decisioni


ebbero conseguenze geopolitiche per i successivi 70 anni e
portarono gli alleati a spartirsi il controllo dell'Europa in aree
di influenza, con due sistemi economici alternativi e in
competizione. Dal confronto tra i due sistemi, l'economia
pianificata dell'area di influenza dell'URSS uscirà battuta
dall'economia di libero mercato, sotto influenza dell'USA.
c) Il piano Marshall. L'allora Segretario di Stato americano
annunciò al mondo, il 5 giugno 1947, dall'Università di
Harvard, la decisione degli Stati Uniti di avviare l'elaborazione
e l'attuazione di un piano di aiuti economico-finanziari per
l'Europa che poi, per convenzione storiografica, sarebbe stato
noto come "Piano Marshall". Si è trattati di uno dei momenti
più alti della storia della politica economica internazionale
nell'immediato secondo dopoguerra, almeno per la zona di
influenza degli USA.

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2. LA CONFERENZA DI BRETTON WOODS E IL


SISTEMA DI RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI CHE NE NACQUE

La conferenza fu dominata da due grandi personaggi, John


Maynard Keynes, capo della delegazione dell'Impero britannico, e
Harry Dexter White, capo delegazione statunitense.
Ancora una volta, come era accaduto alla conferenza di pace di
Versailles, Keynes fu battuto, ma, come era accaduto la volta
precedente, gli eventi successivi mostreranno la lungimiranza della
sua proposta.
Confrontiamo le due proposte. Keynes e l'impero britannico
proposero la creazione di due istituzioni:
 l'International Clearing Union: tale organismo sarebbe stato
non solo un sistema di compensazione multilaterale delle
bilance dei pagamenti dei Paesi aderenti al sistema di
commercio internazionale di libero mercato e, più in generale,
di scambio internazionale, ma, in effetti, una vera banca
centrale mondiale del commercio internazionale, con la
capacità di erogare crediti e porre a riserve eccessi di surplus
commerciale, come vedremo meglio;
 il bancor, una nuova moneta sovranazionale da utilizzare
come unità di conto negli scambi internazionali.
Il sistema proposto da Keynes e dalla delegazione inglese
avrebbe dovuto funzionare nel seguente modo.
Il bancor non sarebbe stata una vera e propria moneta
internazionale utilizzata per gli scambi commerciali o l'acquisto dei
titoli, detenuta dagli individui e dagli operatori commerciali, ma,

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piuttosto, una unità di conto internazionale, utilizzata per monitorare


i flussi internazionali di ricchezza e i disequilibri delle bilance dei
pagamenti dei vari Paesi.
Nel sistema ideato da Keynes, l'oro poteva essere convertito
dalle Banche centrali dei Paesi aderenti in bancors, ma non sarebbe
mai potuto accadere l'inverso.
Questo è il punto più importante per comprendere il sistema.
Se l'oro rimane dentro alle casse dell'International Clearing Union,
questa diventa in effetti una Banca mondiale.
Nell'idea di Keynes, l'International Clearing Union non
avrebbe chiesto interessi ai Paesi in deficit.
Il piano prevedeva l’istituzione di un organismo sovranazionale
chiamato, come abbiamo accennato, International Clearing Union (da
ora, per brevità useremo la sigla ICU) con potere di compensazione e
controllo sui tassi di cambio, sul commercio internazionale e sui
movimenti di capitale internazionale.
Keynes definì il funzionamento dell'ICU simile a quello di una
banca centrale di una Nazione, anche se si sarebbe trattato di un
organismo multilaterale e internazionale, con una governance
condivisa tra i Paesi membri e non avrebbe richiesto tassi di
interesse.
L'ICU, nell'intenzione di Keynes serviva a controllare e
correggere gli squilibri del commercio internazionali e, più in
generale, gli squilibri della bilancia dei pagamenti, sia nel caso un
Paese si fosse trovato in surplus, sia nel caso un Paese si fosse trovato
in deficit, in maniera tale da mantenere costantemente il livello della
domanda aggregata internazionale vicino al suo potenziale e da
impedire crisi di liquidità internazionale.

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Le relazioni internazionali e gli scambi di merce e di valuta


sarebbero stati regolati da un sistema multilaterale di cambi fissi, ma
modificabili dall'ICU in caso di forti squilibri delle bilance dei
pagamenti.
I cambi sarebbero stati ancorati ad una valuta utilizzabile solo
per gli scambi internazionali, appunto il bancor.
La quotazione del bancor sarebbe stata a sua volta ancorata ad
una quantità fissa ma non inalterabile di oro.
Tutte le nazioni aderenti all'ICU, avrebbero quindi detenuto
presso l’ICU un credito o un debito, a seconda dei casi, denominato in
bancor.
I compiti principali dell’ICU sarebbero stati due:
1. al pari di una vera e propria fondo di cooperazione avrebbe
dovuto trovare un'allocazione internazionale efficiente del
credito tra nazioni debitrici e creditrici;
2. avrebbe dovuto prevenire l’accumulazione di crediti o debiti
eccessivi con misure adeguate a riportare il commercio
internazionale in equilibrio.

L'ICU avrebbe determinato il volume medio del commercio


internazionale di ciascuna nazione aderente dei 5 anni precedenti
all'adesione al sistema.
Ogni nazione avrebbe potuto incorrere in un deficit o in un
surplus (denominati in bancor) presso la banca di compensazione (cioé
l'ICU) in base a delle quote decise dagli amministratori dell'ICU e
stabilite a partire dal volume medio degli ultimi 5 anni di scambi del
commercio internazionale.

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Il management dell'ICU avrebbe reagito a deficit e surplus nel


seguente modo:
 In caso di deficit superiore di un quarto alla quota prestabilita,
la nazione avrebbe proceduto alla svalutazione della propria
valuta, previo ok dell'ICU.
 In caso di deficit superiore alla metà della quota, il Board
avrebbe potuto richiedere l’adozione di una o più delle
seguenti misure:
 svalutazione della divisa nazionale,
 controllo dei capitali in uscita,
 saldo del debito con trasferimento di oro o altre riserve
valutarie.
In caso di superamento di tre quarti della quota, il Board avrebbe
dichiarato il paese in default.
 In caso di surplus le misure considerate erano invece le
seguenti:
 espansione del credito interno e politiche espansive della
domanda nazionale, in modo da far accrescere importazione di
prodotti stranieri;
 rivalutazione nei confronti del bancor della propria divisa;
 riduzione di eventuali tariffe o dazi che potessero scoraggiare
le importazioni;
 prestiti internazionali mirati a favorire il riequilibrio della
bilancia dei pagamenti con specifiche Nazioni;
 prelievo di parte del surplus di una Nazione per metterlo in
un fondo di riserva dello stesso ICU.
Keynes si rese conto che il sistema, se da un lato rendeva
impossibile il ripetersi dei fenomeni penosi, che si erano registrati

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prima nel sistema della sterlina e poi con i cambi flessibili, era
potenzialmente capace di frenare l'espansione delle economie più
forti. Per questo ricorse all'esempio della Banca e passò buona parte
della spiegazione della sua proposta a riferire come, grazie alla
gestione multilaterale di debiti e crediti operata dall’ICU, un paese
sarebbe stato in grado di accumulare un surplus di bancor, nei limiti
stabiliti dall’istituzione, senza vedere la propria domanda di export
diminuire, con meccanismi di riequilibrio automatico o volontari.
Cercò, vanamente, di spiegare alle nazioni più forti del
momento, in particolare alla delegazione USA, che, in assenza
dell'ICU, i paesi debitori avrebbero prima o poi esaurito i mezzi di
pagamento delle loro importazioni.
Questa circostanza avrebbe prima o poi ridotto la domanda di
beni dalle nazioni creditrici e si sarebbe ripercossa sulle economie in
surplus, destando uno squilibrio nel commercio internazionale.
Keynes non lo scrisse, ma è evidente che un sistema del genere
potrebbe anche arrivare ad avere un moltiplicatore dei depositi dei
surplus depositati al suo interno, almeno questa è la mia particolare
interpretazione.
Questa circostanza avrebbe consentito di aggiustare i deficit
delle bilance di pagamenti di alcuni Paesi per mezzo di crediti a tasso
zero, senza la necessità di politiche depressive e con maggiore
sostenibilità politica.
Ancora una volta, come era accaduto a Versailles, Keynes uscì
sconfitto dalla conferenza, che vide invece l'affermazione del piano
presentato da White e dalla delegazione statunitense, che propose il
nuovo ordine finanziario mondiale che è stato vigente fino al 1971.

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White era il rappresentante degli USA e voleva far diventare il


suo Paese quello che ha il privilegio di detenere la moneta di riserva
internazionale, per i vantaggi di signoraggio internazionale che una
tale posizione determina. Vinse lui.
Il suo piano venne accolto dopo 20 giorni di forti discussioni.
Secondo gli accordi che vennero firmati a Bretton Woods, si
stabilì formalmente di tornare a un sistema ancorato all'oro, ma
accanto alla sterlina comparve il dollaro come moneta di riserva. Di
fatto il sistema di Bretton Woods fu il sistema del dollaro.
Gli economisti sono divisi sul giudizio da dare alla proposta di
Keynes e dal momento che la storia non si fa con i se, non sapremo
mai come sarebbero state le relazioni internazionali se le proposte del
grande economista fossero state accolte.
Ciascuna Nazione, in seguito agli accordi di Bretton Woods, che
aderì al sistema, di fatto dichiarò la parità della propria moneta
rispetto al dollaro, il quale era convertibile in oro, e si impegnò a
mantenere il proprio tasso di cambio fisso.
Secondo gli accordi di Bretton Woods, il cambio poteva variare
non oltre l'1% al di sopra e al di sotto della parità dichiarata con il
dollaro.
La parità venne determinata da ciascun Paese con l'intenzione
di determinare il pareggio delle partite correnti della bilancia dei
pagamenti.
Il sistema non venne adottato dai Paesi dell'area sovietica ad
economia statalista pianificata.
Secondo gli accordi di Bretton Woods il dollaro era convertibile
in oro e viceversa, ma la convertibilità del dollaro in oro era
consentita esclusivamente alle banche centrali: la parità aurea del

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dollaro con l'oro era il reciproco del prezzo dell'oro, fissato dal Governo
degli Stati Uniti a 35 dollari per oncia nel 1934.
Il dollaro divenne la valuta utilizzata per gli scambi
internazionali e non l'oro, la cui convertibilità era limitata alle sole
banche centrali, le quali preferirono avere riserve fruttifere in dollari,
che infruttifere in oro.
Nel sistema del dollaro ciascun operatore poteva chiedere
dollari in cambio della divisa nazionale, ma nessun operatore poteva
chiedere oro alle Banche centrali e unicamente le banche centrali
potevano chiedere agli USA di convertire in oro le riserve valutarie di
dollari detenute.
Il governo di una Nazione aderente al sistema, se avesse
dimostrato che nella sua economia si fossero determinate modifiche
strutturali, avrebbe potuto mutare la parità della propria moneta nei
confronti del dollaro, al fine di riportare in equilibrio la propria
valuta.
Il sistema di Bretton Woods era profondamente diverso sia dal
sistema dei cambi flessibili, sia dal sistema della sterlina:
 era profondamente diverso dal sistema dei cambi flessibili,
perché in questo sistema le monete delle diverse nazioni sono
libere di svalutarsi o rivalutarsi ogni giorno sul mercato dei
cambi, senza alcun intervento della Banca centrale emittente e
sulla sola base della domande e dell'offerta di valuta;
 era profondamente diverso dal gold standard perché il divieto
stabilito agli operatori di poter convertire i dollari in oro, non
rendevano possibili i meccanismi tipici del sistema aureo (o
della sterlina);

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 la caratteristica fondamentale del sistema del dollaro furono


cambi fissi delle diverse valute delle nazioni partecipanti al
commercio internazionale ottenute con operazioni di vendita e
acquisto di valuta (nazionale) da parte delle Banca Centrali dei
Paesi aderenti al sistema. Interventi di politica valutaria
cooperativi, compiuti con l'intento di mantenere stabile un certo
cambio concordato.
Le regole di Bretton Woods stabilivano che qualora un Paese
avesse voluto variare la propria parità dichiarato con il dollaro
avrebbe dovuto chiedere l'autorizzazione al Fondo Monetario
Internazionale: l'istituzione che White fece approvare, alternativa
all'ICU proposto da Keynes e dalla delegazione britannica.
Ma come avveniva il processo di aggiustamento delle bilance
dei pagamenti nel nuovo ordine valutario mondiale?
Come abbiamo già detto la caratteristica fondamentale del
sistema di Bretton Woods fu la sostanziale fissità dei tassi di cambio
ottenuta mediante gli interventi delle banche centrali sui mercati
valutari.
Il riequilibrio delle bilance dei pagamenti avveniva nel
seguente modo: immaginiamo un Paese che registrasse un deficit
nella bilancia dei pagamenti. Per ipotesi di scuola ipotizziamo che lo
squilibrio sia commerciale e tutto nei confronti degli USA.
Lo studente sa che questo squilibrio determina sui mercati
valutari un eccesso di domanda di dollari da parte degli operatori
economici del Paese in deficit per pagare le importazioni, il che
equivale ad un eccesso di offerta della valuta del Paese in deficit:
questa situazione della bilancia commerciale del Paese in deficit
determina una pressione per la svalutazione della divisa di quel

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Paese, che effettivamente inizia a verificarsi sui mercati valutari


internazionali.
Secondo gli accordi di Bretton Woods, quando la svalutazione
della divisa del Paese in deficit raggiunge l'un per cento sotto la
parità, la Banca centrale del Paese interessato dal deficit, ha l'obbligo
di intervenire e di acquistare sui mercato la propria divisa. Per
effettuare tale acquisto deve cedere i dollari detenuti come riserve
valutarie.
Dal momento che le sue riserve valutarie, con questi acquisti,
diminuiscono consistentemente, la situazione non può persistere
senza che le riserve valutarie di quella banca centrale non si
esauriscano.
Quello che deve essere chiaro è che il sistema di Bretton Woods
aveva degli automatismi analoghi al sistema aureo, ma, a differenza
che in quel sistema, le autorità monetarie avrebbero potuto
sterilizzare quei meccanismi e adoperare la svalutazione del cambio.
Ma vediamo innanzitutto il funzionamento dei meccanismi
automatici e la loro analogia con il sistema aureo.
Quando le importazioni superano le esportazioni, anche nel
sistema del dollaro, la quantità di moneta in circolazione nel Paese
con il deficit diminuirà, perché ci sarà un eccesso di offerta di quella
divisa, a cui, come abbiamo visto, la Banca centrale reagirà con una
diminuzione delle riserve valutarie per riportare in equilibrio il
mercato valutario internazionale.
Cosa determinerebbe la diminuzione della moneta in
circolazione, non sterilizzata dalla Banca centrale con operazioni di
mercato aperto, all'interno del Paese?

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Esattamente quanto previsto dalla teoria quantitativa o


keynesiana.
 secondo la teoria quantitativa della moneta, il livello generale
dei prezzi dipende dalla quantità di moneta in circolazione e,
dunque, una diminuzione della quantità di moneta in
circolazione determina una diminuzione del livello generale dei
prezzi e viceversa. Pertanto, i prezzi delle merci di quel Paese
diminuiranno e le bilance dei pagamenti dei due Paesi
tenderanno così a tornare in equilibrio. Abbiamo già studiato
sotto quali condizioni ciò si verifica (la condizione delle
elasticità critiche).
 Completamente diverso è il processo di aggiustamento
automatico secondo la teoria keynesiana. L'aumento della
quantità di moneta nei Paesi in surplus e la diminuzione della
quantità di moneta nei Paesi in deficit non si scaricherebbe sui
prezzi delle merci, ma determinerebbe una diminuzione del
tasso d'interesse nel Paese in surplus e un aumento del tasso
d'interesse nei Paesi in deficit. Nei Paesi in surplus, i minori
tassi d'interesse determinano un aumento degli investimenti,
che, attraverso il moltiplicatore degli investimenti, determina
un aumento del reddito nazionale e dell'occupazione. Viceversa
nei Paesi in deficit.
La vera differenza tra il Gold exchange standard e il Gold
standard è dunque la maggiore discrezionalità della Banca centrale
del singolo Paese e la possibilità:
 di sterilizzare la diminuzione o l'aumento della moneta in
circolazione;
 di chiedere la svalutazione o la rivalutazione del cambio;

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Entrambi questi istituti non esistevano nel sistema della


sterlina, ma esistevano nel sistema del dollaro.
Ma il sistema di Bretton Woods ha la sua lacuna essenziale
proprio nella scelta, imposta dagli USA, del dollaro come moneta di
riserva.
Keynes, da grande economista quale era, fu consapevole che il
sistema di cambi fissi stabilito dagli accordi poteva essere mantenuto
nel tempo solo a patto di costringere gli Stati Uniti ad avere una
bilancia commerciale e finanziaria positiva
Per comprendere fino in fondo gli accordi di Bretton Woods,
occorre inoltre approfondire lo studio di due organismi istituiti in
quella conferenza:
 Il Fondo monetario internazionale;
 La Banca Mondiale.
Il Fondo Monetario internazionale fu voluto, in alternativa
all'ICU, dal delegato americano White, il quale impose che esso agisse
più come una banca in senso stretto.
Si stabilì che gli Stati eventualmente finanziati dal fondo
dovessero restituire il loro debito nel tempo, non secondo lo schema
degli aiuti a fondo perduto o dei prestiti a lungo termine e tassi
bassissimi, ma secondo la dinamica finanziaria dei prestiti, anche se
calmierata.
White era su questa posizione perché, al momento degli accordi
di Bretton Woods, gli Stati Uniti potevano vantare grossi crediti con il
resto del Mondo e il possesso di gran parte delle riserve aure mondiali
e volevano far valere questa loro posizione a livello internazionale.
Dall'articolo 1 dell'Accordo Istitutivo del Fondo ecco l'elenco
degli scopi dello stesso:

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 promuovere la cooperazione monetaria internazionale;


 facilitare la crescita complessiva del commercio internazionale;
 promuovere la stabilità dei rapporti di cambio, evitando le
svalutazioni competitive che si erano registrate tra le due
guerre mondiali;
 sostenere finanziariamente gli Stati membri, con adeguate
garanzie e il pagamento di un tasso di interesse, per affrontare
e superare difficoltà momentanee o strutturali della bilancia
dei pagamenti;
Gli accordi di Bretton Woods ammettono dunque che un Paese
possa variare la parità della propria moneta rispetto al dollaro, al fine
di sanare gli squilibri strutturali della propria bilancia dei pagamenti,
ma non in modo semiautomatico come proposto da Keynes con il suo
ICU.
Nel caso di squilibri strutturali, interviene il Fondo Monetario
Internazionale, con la sua dotazione finanziaria costituita dalle quote
dei singoli Paesi.
Ciascun Paese, infatti, per aderire al Fondo Monetario
internazionale, versato una quota, in parte in oro e in parte in moneta
nazionale, commisurata al volume del proprio commercio estero e del
proprio reddito nazionale.
E' sulla base di questa quota presso il fondo monetario
internazionale, che un Paese può ottenere prestiti dal Fondo
Monetario per sanare gli squilibri della propria bilancia dei
pagamenti.
Come approfondiremo bene in seguito e abbiamo già accennato,
questi eventuali prestiti del Fondo Monetario normalmente vengono
concessi a due condizioni:

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 che il Paese beneficiario si impegni ad adottare misure di


politica economica interna che riportino la bilancia dei
pagamenti in equilibrio in un periodo di tempo ragionevole.
 il pagamento di interessi.
Come vedremo bene non c'è più consenso tra gli economisti
circa le politiche macroeconomiche prescritte. Si tratta infatti di
misure restrittive di politica fiscale e monetaria che riducano:
 il disavanzo pubblico,
 la crescita della quantità di moneta,
 la crescita dei salari, ecc.
Inoltre non c'è consenso sulla circostanza che il fondo monetario
richieda agli Stati il pagamento di un interesse per il suo intervento e
sui livelli di questi tassi.
Secondo grande problema è la sua struttura e l'organizzazione
del Fondo, che mostra chiaramente un predominio statunitense ed
europeo.
Il FMI, infatti, dispone di un capitale messo a disposizione dai
suoi membri e il voto all'interno dei suoi organi è ponderato a seconda
della quota detenuta.
Un pacchetto di misure che erano state concordate nel 2008 per
rafforzare la rappresentanza delle economie emergenti del Fondo
monetario internazionale, è entrata in vigore nel 2011.
La riforma prevede aumenti di quote per 54 paesi, con i
maggiori guadagni andando soprattutto verso i paesi dinamici
mercati emergenti, che vanno dalla Corea , la Cina e la Turchia , il
Brasile e il Messico.
La riforma ha l'obiettivo di migliorare almeno leggermente
l'influenza dei paesi a basso reddito nel processo decisionale del FMI.

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L'accordo è stato ratificato in legge in 117 paesi membri,


rappresentanti l'85,04 per cento del potere di voto totale in seno al
FMI. La maggioranza prevista per la ratifica dell'accordo era l'85 per
cento e l'approvazione da parte di almeno 113 paesi membri. La
riforma effettiva dal 2011 ha comportato uno spostamento
complessivo di circa il 9 per cento delle quote a favore delle Nazioni
emergenti e dei Paesi in via di sviluppo.
Dopo la riforma del 2011, oggi le prime dieci economie mondiali
sono effettivamente i primi 10 soci del fondo monetario
internazionale. Essi sono Stati Uniti, Giappone, Germania, Gran
Bretagna, Germania, Francia, Italia, e i quattro BRICS (Cina, Russia,
Brasile, India).
Diversamente dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
dove ogni paese ha un voto, il processo decisionale del FMI è stato
invece progettato per riflettere la posizione di ciascuna Nazione
nell'economia globale.
Il problema principale è rappresentato proprio dai meccanismi
di voto e dal voto per quote possedute. Questi meccanismi infatti
permettono che gli Stati Uniti e il gruppo dei principali Paesi
dell'Unione Europei si trovino ad avere un potere di veto di fatto.
I meccanismi di voto prevedono che per prendere le decisioni
più importanti sono necessarie maggioranze molto alte: il 66%, il 75%
e 85% dei voti.
L'ultima maggioranza (85%) permette agli USA presi
singolarmente un diritto di veto.
La seconda maggioranza (75%) permette agli USA e ai
principali paesi europei di esercitare il diritto di veto congiuntamente.

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Gli organi principali del F.M.I sono:


 il "Consiglio dei Governatori" (Board of Governors) a
composizione plenaria;
 il "Consiglio Esecutivo" (Executive Board), composto dai 24
Direttori Esecutivi (Executive Directors);
 il Direttore Operativo" (Managing Director).
Il Consiglio dei Governatori si riunisce di norma una volta
l'anno e le sue funzioni sono in gran parte delegate al Consiglio
Esecutivo, che siede permanentemente.
Dei membri del Consiglio Esecutivo 5 sono permanenti e
appartengono ai 5 Stati che detengono la quota maggiore (Stati Uniti,
Giappone, Germania, Francia e Regno Unito) mentre gli altri sono
eletti dal Consiglio dei Governatori sulla base di un sistema di
raggruppamenti di nazioni (non necessariamente su base regionale).
Il Direttore Operativo viene eletto dal Consiglio Esecutivo e lo
presiede.
In una successiva lezione spiegheremo bene cosa sono i diritti
speciali di prelievo.
Con gli accordi di Bretton Woods, oltre al Fondo Monetario
Internazionale, è stata creata la Banca Mondiale per la ricostruzione
e lo sviluppo, chiamata comunemente Banca Mondiale, con sede a
Washington, che è dotata di capitale versato dagli Stati membri del
FMI ed ha lo scopo di realizzare investimenti nei Paesi in via di
sviluppo.
Importante strumento della politica valutaria resta la BRI,
acronimo per Banca dei Regolamenti internazionali, con sede a
Basilea.

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Questa banca è una associazione tra le banche centrali di 32


Paesi e compie interventi sui mercati valutari (acquisto e vendita di
valuta) per conto delle banche centrali aderenti nel quadro di una
collaborazione tra di esse. Presso di essa si svolgono riunioni
periodiche tra i Governatori di queste banche centrali, che si
scambiano utili informazioni e condividono strategie.

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3. LA CONFERENZA DI YALTA E LE RIPARAZIONI


DI GUERRA DELLA GERMANIA

Il secondo momento centrale, che ebbe conseguenze


enormi sulla politica economica internazionale del dopoguerra fu la
conferenza di Yalta. Quello che ci interessa qui esaminare sono le
conseguenze di politica economica, che ne discesero.
Nel dettaglio, al di là degli accordi ufficialmente raggiunti, a
Yalta, per la maggioranza degli storici, si posero le basi per l'ordine
mondiale che si sarebbe affermato fino al 1991. data ufficiale della
fine dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Le decisioni più importanti furono le seguenti:
 la decisione di istituire una nuova organizzazione mondiale
delle Nazioni, le Nazioni Unite (ONU); in particolare a Yalta, si
considerò l'istituzione del Consiglio di Sicurezza, organismo con
la presenza permanente delle nazioni che hanno vinto la
seconda guerra mondiale e che hanno diritto di veto per le
decisioni più importanti;
 lo smembramento, il disarmo e la smilitarizzazione della
Germania, visti come "prerequisiti per la pace futura"; lo
smembramento prevedeva che USA, URSS, Regno Unito e
Francia gestissero ciascuno una zona di occupazione, doveva
essere provvisorio secondo gli accorsi di Yalta, ma si risolse
nella divisione della Germania in est ed Ovest che finì solo nel
1989, con il crollo del muro di Berlino;
 furono fissate delle riparazioni dovute dalla Germania agli
Alleati, nella misura di 22 miliardi di dollari, anche se l'URSS
reclamò una cifra assai maggiore. Di fatto ulteriori riparazioni

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di guerra all'URSS saranno pagate dalla Germania dell'Est e


dai Paesi suoi alleati ai tempi della guerra mondiale, una volta
caduti sotto l'area di influenza dell'URSS;
Nella relazione finale venne inserito l'impegno a garantire che
tutti i popoli potessero scegliere i propri governanti, impegno
palesemente disatteso nei decenni successivi in cui si assistette
invece:
 alla creazione di due aree politico economiche:

◦ una di libero mercato e libero scambio filo atlantica, sotto


l'egida economica e militare degli USA;

◦ una di economia pianificata e centralizzata filosovietica,


sotto l'egida economica e militare dell'URSS;
 allo smembramento politico economico della Germania,
considerata troppo pericolosa se riunita.
Pertanto furono disattesi anche le dichiarazione e gli accordi in
merito a Polonia e Jugoslavia, che erano tesi a consentire regolari
elezioni democratiche.
Gran parte delle decisioni prese a Yalta ebbero profonde
ripercussioni sulla storia mondiale, perlomeno fino alla caduta
dell'Unione Sovietica del 1991.
Di fatto la futura organizzazione economica mondiale fino al
1991 dipenderà dall'interpretazione (discordante) tra Stalin e i
rappresentanti delle democrazie occidentali in quell'incontro.
L'aspetto più interessante fu la cifra decisa per le riparazioni di
guerra da parte della Germania nei confronti degli alleati e la
decisione di accordarsi senza la Francia, che, per bocca di De Gaulle si
considerava Nazione vincente della guerra.

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Come lo studente ricorderà, quando il trattato di Versailles (la


conferenza di pace della prima guerra mondiale) venne concluso, la
Germania fu costretta a pagare agli alleati 6.600.000.000 di sterline,
l'equivalente di 132 miliardi di marchi oro, cedere tutte le colonie,
accettare la colpa per la guerra, ridurre le dimensioni delle sue forze
armate e cedere territorio a favore di altri Stati.
Keynes, che aveva partecipato alla conferenza di pace come
delegato del ministero del tesoro britannico, aveva proposta all'epoca
una pace con i tedeschi molto più generosa e, in particolare, all'epoca
aveva proposto, durante i lavori, due strumenti di politica economica
internazionale:
 la remissione (annullamento) dei debiti di guerra;
 un piano di crediti da parte degli USA per aiutare l'economia
europea a riprendersi il più presto
La sua idea era che la conferenza di pace dovesse gettare le
basi per un rilancio dell'economia; al contrario, come abbiamo visto, la
conferenza di Versailles invece si occupò di confini, di sicurezza
nazionale e di geopolitica, con una fortissima contrapposizione di
interessi tra le stesse nazioni vincitrici.
Amareggiato per la totale incomprensione della sua ricetta di
politica economica e per i 132 miliardi di marchi oro imposti come
riparazione alla Germania, Keynes aveva abbandonato i lavori della
conferenza di pace e aveva scritto il libro “Le conseguenze economiche
della pace”, in cui predisse l'instabilità delle relazioni internazionali
che quelle condizioni avrebbero determinato e la crisi economica che
avrebbero determinato.
Ora la storia faceva il suo corso e, proprio mentre Keynes
veniva battuto da White nella conferenza di Bretton Woods, in merito

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alla futura moneta di riserva e all'ICU, intanto a Yalta tutti


convenivano sulle sue proposte, non ascoltate alla conferenza di
Versailles.
I britannici e gli statunitensi furono così convinti che era giusto
adottare i due strumenti di politica economica suggeriti a suo tempo
da Keynes che non invitarono neppure la Francia al tavolo dei
negoziati, cosa che De Gaulle fece grande fatica ad accettare.
La richiesta di soli 22 miliardi di dollari andarono nel senso
della remissione dei debiti di guerra tedeschi.
Quello che occorre qui sottolineare sono le conseguenze
geopolitiche favorevoli all'Italia che derivarono da questa situazione
post guerra e come esse la favorirono economicamente. Il fatto più
importante riguardava la divisione mondiale del lavoro che venne
fuori da Yalta e su cui non tutti hanno riflettuto a sufficienza.
La divisione internazionale del lavoro che si determinò in
seguitò agli accordi di Yalta era particolarmente favorevole nei
confronti dell'Italia per le seguenti ragioni:
 a est del muro di Berlino esisteva l'economia pianificata e non
erano possibili investimenti produttivi da parte dei capitalisti
occidentali;
 anche la Cina comunista non aveva aderito all'economia di
mercato, il cosiddetto socialismo di mercato e adottava una
politica economica pianificata;
 il salario reale italiano era il più basso dell'occidente;
 i politici italiani costruiranno un efficiente sistema di incentivi
all'investimento diretto estero in Italia, con contributi a fondo
perduto del 50% per i nuovi investimenti in capitale fisico in
Italia.

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Tutto questo significa che l'Italia era il Paese dell'Occidente,


insieme al Giappone, in cui era più economico impiantare un nuovo
stabilimento industriale e questo si tradusse in grande occupazione e
benessere per gli italiani.
Ma non si può comprendere la politica economica italiana del
primo dopoguerra senza comprendere il ruolo che giocò il piano
Marshall.
Piano che è interessante perché è la dimostrazione empirica e
storica che una nazione in surplus produttivo riceve notevoli vantaggi
macroeconomici dall'adozione di politiche economiche di aiuti e crediti
a lungo termine e basso tasso di interesse.

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4. IL PIANO MARSHALL E LE SUE CONSEGUENZE


DI POLITICA ECONOMICA

Finita la seconda guerra mondiale, nel 1947, l'Europa è


distrutta dal conflitto mondiale: le principali economie mondiali
hanno usato il loro potenziale produttivo per distruggersi
reciprocamente.
Da un punto di vista economico, quelle che erano state le
principali economie mondiali escono con il potenziale produttivo
azzerato, fatta eccezione per gli USA, che anzi hanno fatto crescere la
propria capacità produttiva, grazie al conflitto, e che non hanno subito
bombardamenti di impianti industriali e civili sul loro territorio.
In Europa, invece, povertà, distruzione dei mezzi di produzione
e la fame caratterizzano quegli anni: soprattutto sono insufficienti gli
approvvigionamenti di grano, elemento indispensabile, dato che il
pane è la base dell’alimentazione.
Gli Stati Uniti, usciti vittoriosi dalla guerra, non avendo avuto
il conflitto in casa, e ripresosi dalla crisi del ‘29, grazie anche alla
guerra mondiale, hanno il problema inverso a quello delle economie
europee: hanno un eccesso di capacità produttiva, sia agricola che
industriale, e non hanno mercati di sbocco per le loro merci, in quanto
la domanda internazionale è crollata per il default dei paesi
importatori (che sono le nazioni europee).
In questo contesto economico e politico, il 5 giugno 1947, il
Segretario di Stato americano George Marshall annunciava ai
neolaureati di Harvard e al mondo intero la realizzazione di uno dei
più importanti progetti di politica economica e di diplomazia
internazionale del secolo scorso.

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Il piano, passato alla storia come piano Marshall, aveva come


principale obiettivo dichiarato la ripresa economica dei paesi europei,
fortemente indeboliti dalle terribili conseguenze della Seconda Guerra
Mondiale, ma, in realtà ha due obiettivi reali economici non
dichiarati:
 trovare uno sbocco alla crisi di sovrapproduzione industriale ed
agricola statunitense;
 diffondere il modello di politica economica basato sulla libera
iniziativa privata nella zona di influenza geopolitica
statunitense.
In pratica, si trattò:
 per circa l'80% della concessione di aiuti a fondo
perduto;
 per circa il 20% di concessione di prestiti con tassi di
interesse molto bassi e a lungo termine (oltre i 20 anni)
Beneficiari dell'iniziativa di aiuto furono ben diciassette paesi
del blocco occidentale.
L'iniziativa fu gestita da un ente di distribuzione e un ente
organizzativo:
 l'Economic Cooperation Administration (ECA),
l'ufficio preposto alla collocazione del programma
di aiuti, denominato European Recovery Program
(ERP)
 Organization for European Economic Cooperation,
nato con l'obiettivo di favorire una prima
integrazione economica nel Continente, (OOEC, in
italiano OECE). Si trattò di un organismo
sostanzialmente tecnico, in cui i consulenti inviati

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da Washington cercarono, inutilmente, di avviare,


attraverso gli aiuti, un processo di trasformazione
strutturale dell'economia dei Paesi europei,
piuttosto che limitarsi ad utilizzare gli aiuti per
fronteggiare le contingenze del momento.
Il programma di aiuti previde alla fine uno stanziamento di
poco più di 17 miliardi di dollari per un periodo di quattro anni.
Contrariamente alle intenzioni enunciate pubblicamente dagli
Stati Uniti, la quasi totalità dei Paesi beneficiari chiese di utilizzare i
finanziamenti forniti dal programma per l'acquisto di generi di prima
necessità, prodotti industriali, combustibile e, solo in minima parte,
macchinari e mezzi di produzione.
Alla fine la natura reale degli aiuti fu per il 90% di risorse
alimentari concessi a fondo perduto.
Ovviamente anche per ricevere gli aiuti gli europei riuscirono a
dividersi. Non posso qui dilungarmi troppo su tutto il processo
decisionale, ma qualche chicca va pur regalata.
Dopo una serie infruttuosa di contatti tra le potenze alleate, la
Francia decise di convocare a Parigi, dove si aprì il 12 luglio 1947, una
Conferenza generale incaricata di predisporre un piano complessivo di
aiuti da presentare a Washington.
Ovviamente tutto il blocco dell'est non partecipò. Il povero
governo cecoslovacco, che aveva dato in un primo momento la propria
adesione, dovette ritirarla immediatamente: era cominciata la guerra
fredda e la conseguente divisione economica tra due aree di influenza
e due sistemi economici e ideologici contrapposti.
Nella Conferenza, che proseguì fino a settembre, emersero
posizioni molto distanti tra gli europei, dato che ogni Paese chiese per

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sé dei piani particolareggiati e cifre enormi e non si interessò, guarda


un po' che novità, delle esigenze delle altre nazioni europee. Ciò portò
a valutare nella cifra astronomica di 29 miliardi di dollari le richieste
in totale. Inoltre la Francia, anche questa non può definirsi
esattamente una novità, espressamente chiese che
la Germania venisse esclusa dagli aiuti. La Gran Bretagna chiese di
ottenere uno "status speciale", essendo stata determinante per la
vittoria alleata.
Clayton, che rappresentava gli Stati Uniti, rifiutò
l'impostazione europea dei piani particolareggiati, insistette invece
sulla presentazione di un piano complessivo, dove fosse tutelata la
libertà di commercio e promossa l'integrazione europea.
Ovviamente gli europei non compresero fino a che non fu chiaro
che le condizioni statunitensi errano immodificabili.
Diplomaticamente Clayton affermò chiaramente che il Congresso
statunitense avrebbe approvato il Piano se questo non fosse stato
caratterizzato dalla sua generalità, se avesse tutelato la libera
iniziativa economica e non fosse passato per le burocrazie e se avesse
iniziato a promuovere l'integrazione europea.
A fronte di una richiesta complessiva di circa 12 miliardi si aprì
un serrato e complesso dibattito in seno al Congresso, tra la fazione
isolazionista, da sempre rappresentata dai Repubblicani e i
democratici al governo.
Alla fine si raggiunse un accordo su uno stanziamento iniziale
di 5 miliardi di dollari cui sarebbe seguita la donazione a fondo
perduto di altri 12,4 miliardi di dollari per un totale di poco più di
17,4 miliardi di dollari per un periodo di 4 anni.

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Concentrandosi sulla situazione economica e politica italiana,


occorre ricordare che l'Italia uscì stremata dal conflitto, tanto che uno
studio del Organizzazione mondiale della sanità evidenza che nel
1946 la razione minima media di pane al giorno non raggiungeva i
300 g ma si avvicinava ai 150 g.
Gli Stati Uniti stanziarono tantissime risorse per la nostra
penisola:
• prestito di 100 ml di $ della Import Export Bank;
• fondi per la continuazioni di soccorsi già garantiti
dall’Unnra ad alcuni paesi nel 1946;
• 50 milioni si $ come compenso per le spese sostenute
dall’Italia per la presenza delle truppe americane;
• assegnazione di 50 navi;
• 220mila tonnellate di grano nel febbraio 1947
• dirottamento di 6 piroscafi con grano germanico;
• fornitura di 700mila tonnellate di carbone mensili.
Questi interventi economici e l'intervento clamoroso e
inaspettato della Chiesa ufficialmente sono alla base della vittoria
alle elezioni del 18 aprile 1948 e della clamorosa sconfitta del fronte
popolare.
I risultati in termine di controllo geopolitico e culturale furono
poi senza dubbio positivi, almeno nell'ottica degli Stati Uniti e dei
sostenitori dell'economia di mercato.
In tutta Europa e in particolare negli USA – favorita da una
capillare azione di propaganda associata alla distribuzione di generi
alimentari – si diffusero i seguenti concetti, assolutamente sconosciuti
nell'epoca fascista:
 libertà di impresa;

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 capitalismo;
 spirito imprenditoriale;
 recupero di efficienza;
 esperienza tecnica;
 tutela della concorrenza,
 cooperazione economica.
Il piano terminò nel 1951.
I principali risultati sono stati:
 per l'Europa il raggiungimento da parte dei Paesi che
ricevettero gli aiuti del livello di produzione prebellico;
 per gli Stati Uniti:

◦ il raddoppio della produzione industriale;

◦ il calo della disoccupazione da 10 a 2 milioni di unità;

◦ il possesso del 7% delle riserve auree mondiali.


Non ci interessa un giudizio storico sul piano Marshall.
Gli storici sono divisi tra la tesi imperialista di Walter Lafeber,
secondo cui il piano servì a rendere le economie occidentali funzionali
agli USA e quella minimalista, secondo cui la ripresa economica
dell'occidente ci sarebbe comunque stata e il piano non ebbe
grandissima influenza.
In questo testo di Politica economica ci interessa comprendere
come funziona la manovra degli aiuti a fondo perduto da parte di un
Paese in eccesso di produzione a favore di un Paese o di più Paesi in
default produttivo.
Quando un Paese è in default produttivo, esso non è più capace
di assicurare la produzione, l'inserimento nel commercio
internazionale e il sostentamento alimentare della propria
popolazione.
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Il default produttivo è diverso dal default finanziario. Nel


secondo caso non si riescono a rimborsare i debiti contratti e il
problema riguarda i finanziatori, non il Paese coinvolto. Semmai il
Paese coinvolto avrà problemi futuri di credito internazionale o
reazioni nelle relazioni internazionali a fronte del mancato
pagamento del proprio debito. Se è un Paese trasformatore, questo
può tradursi in difficoltà nel reperire materie prime ed energetiche da
trasformare. Queste eventuali difficoltà bloccheranno
successivamente la sua produzione. Ma se il Paese è molto grande o
possiede risorse energetiche, questi problemi sono superabili in caso
di default finanziario.
Inoltre, in ogni caso con una ristrutturazione del debito, cioè la
riduzione del debito, ovvero la restituzione di una percentuale dei
debiti originari, anche un grave default finanziario è superabile.
Quando invece un Paese ha un fallimento produttivo, vuol dire
che è incapace di produrre perché non possiede più stabilimenti
produttivi o non è in grado di farli funzionare.
I suoi consumi diminuiscono al livello di sussistenza o al di
sotto di esso e gli investimenti di azzerano, in maggior parte per il
peggioramento delle aspettative di guadagno future e in parte per
l'aumento dei tassi e la diminuzione della moneta in circolazione o la
totale svalutazione della stessa.
Dal momento che le persone sono totalmente improduttive, non
sono in grado di produrre un reddito per soddisfare le necessità
primarie. C'è una carenza totale di reddito, che si traduce in un livello
insufficiente di consumi, importazioni e investimenti: sia il calo degli
investimenti, sia il calo dei consumi si ripercuotono sul reddito.

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In una situazione del genere solo l'eccesso di risparmio di altri


Paesi donato o prestato a tassi molto bassi permette di riavviare il
processo economico e di migliorare le aspettative sui profitti attesi
futuri.
Le derrate donate rappresentano donazione di consumi, le
donazioni finanziarie per investimenti rappresentano donazioni di
risparmio che si trasformano in nuovi investimenti.
L'aspetto interessante e fondamentale per comprendere l'utilità
della donazione per il Paese donante è la seguente: tutti i consumi e
gli investimenti del Paese che riceve gli aiuti rappresentano
esportazioni del Paese donante, che non avrebbe in altro modo potuto
compensare l'eccesso di produzione.
Se da un lato i consumi e gli investimenti determinano la
ripresa dell'economia del Paese destinatario degli aiuti, al tempo
stesso gli aiuti moltiplicano il reddito del Paese donante attraverso il
moltiplicatore delle esportazioni.
Ma formalizziamo il modello nel Paese A abbiamo

Y=C+I+G+X-M [1]

Dove Y è il reddito nazionale, C è la spesa per i consumi, I la


spesa per investimenti, G il saldo del bilancio pubblico, X il valore
delle esportazioni delle merci, M il valore delle importazioni delle
merci.
Immaginiamo che l'aiuto sia finanziato dal Paese donante (che
chiameremo A) con un pareggio di bilancio, contraendo cioè le spese
pubbliche o di investimento per il proprio Paese, o donando propria
ricchezza. La [1] allora nel Paese A diventa

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ΔY = ΔC + ΔI + ΔX - ΔM [2]

ricordando che C = cY e M = mY ed effettuando le opportune


sostituzione

ΔY = cΔY + ΔI + ΔX - mΔY [3]

quindi

ΔY = (c – m) ΔY + ΔI + ΔX [4]
da cui

ΔY = (c – m) ΔY + ΔI + ΔX [5]

ΔY – c ΔY + m ΔY = ΔI + ΔX [6]

ΔY (1 - c + m) = ΔI + ΔX [7]

ΔY = (ΔI + ΔX) 1/(1 - c + m) [8]

in genere questa semplificazione viene utilizzata nei libri di


politica economica per evidenziare il moltiplicatore del commercio
estero.
Esso ci spiega cosa avviene nel Paese A quando aumentano le
sue esportazioni:
1) la produzione nazionale aumenta e questo è evidente e di
immediata osservazione, anche se i monetaristi potrebbero

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affermare che ad aumentare sono i prezzi. In realtà questo era


impossibile perché gli Usa uscivano dalla crisi di Wall Street,
avevano milioni di disoccupati e dovevano convertire i soldati in
operai. All'inizio del processo avevano 10 milioni di disoccupati
e alla fine 2 milioni.
2) l'aumento delle esportazioni determina un aumento indiretto
delle importazioni, che ricordiamo sono date da mY. L'aumento
del reddito comporta l'aumento delle importazioni.
Nel paese B, intanto, grazie all'aiuto internazionale, vengono
riattivati consumi e investimenti. Dal momento infatti che gli aiuti
non sono pagati, essi non possono essere considerate importazioni, per
le quali è necessario un esborso di valuta, ma consumi (come il grano
importato dagli USA) e investimenti (come i prestiti in parte a fondo
perduto e in parte a lungo termine a tasso di interesse molto basso).
Anche nel Paese B, la ripresa del reddito comporta l'incremento
delle importazioni, perché queste sono sempre una percentuale del
reddito.
Quello che non ho mai trovato sui manuali di Politica
economica o in altri testi di economisti, ma forse questo dipende dal
non avere studiato abbastanza, è l'osservazione e la specificazione che
l'aiuto internazionale (sia quello in beni di consumo che quello in
mezzi di produzione) ha il grande vantaggio di attivare un processo
moltiplicativo contemporaneo sia nel Paese donante (per il quale gli
aiuti sono a tutti gli effetti esportazioni, anche se pagate dallo stesso
Paese donante), sia per il Paese ricevente, che diventa capace di
importare ed esportare in cooperazione con il Paese donante.
In altre parole, l'aiuto internazionale, sembrerebbe consentire,
con una sola spesa finanziaria, di ottenere due redditi nazionali

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moltiplicati e questo sembrerebbe possibile per la particolare natura


dell'aiuto internazionale, che rappresenta al tempo stesso:
 un esportazione per il paese donante
 consumi e investimenti per il Paese ricevente
Inoltre, al termine del processo, il Paese ricevente diventa
capace di importare i prodotti dal Paese donante, che apre così un
mercato ai suoi prodotti e viceversa importa i prodotti dal Paese
ricevente, aumentando il reddito mondiale complessivo.
Il processo avviene però se vengono rispettate determinate
condizioni:
 che nel Paese donante esista un iniziale surplus commerciale
internazionale e/o di riserve monetarie;
 che nel Paese donante esistano lavoratori disoccupati e non vi
sia piena occupazione, anche se ciò è compatibile con una
sovrapproduzione internazionale, dato il calo della domanda
internazionale di beni;
 che il Paese ricevente abbia lavoratori disoccupati e attui
processi di aumento della competitività e produttività. Il suo
assorbimento è maggiore della produzione, ma l'assorbimento è
al limite o al di sotto del mantenimento fisico della popolazione
e non dipende da corruzione o inefficienza sistemica.
Il processo di riavvio dell'economia deve inoltre sempre essere
accompagnato da:
 prestiti in larga parte a fondo perduto;
 la parte non a fondo perduto deve essere remunerata a tassi
bassissimi e a lungo termine;
 una sostanziale stabilità dei prezzi.

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Le autorità monetarie italiane dell'epoca furono molto abili e


riuscirono nel loro intento di tenere bassa l'inflazione con una serie di
provvedimenti:
 nell’estate del 1947 venne istituito il il Comitato
Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR),
presieduto dal ministro del Tesoro a cui venne affidato il potere
di variare il coefficiente di riserva;
 nel maggio 1948 fu ristabilito un limite al signoraggio
(finanziamento monetario dello Stato) decidendo che
l’indebitamento del Tesoro in conto corrente verso la Banca
centrale fosse limitato al 15 per cento delle spese previste nel
bilancio dello Stato;
 Venne creato l’Ufficio Italiano dei Cambi per la gestione delle
transazioni valutarie,
 all'art. 47 della Costituzione venne stabilito il principio della
tutela del risparmio.
La circostanza che l'aiuto economico, con un unica spesa,
determina due processi moltiplicativi, uno nel Paese donante e un
altro nel Paese ricevente, genera grandi imbarazzi nelle prevalenti
scuole economiche:
 in quella di ispirazione liberal borghese perché contraddice
sostanzialmente l'assunto che l'economia si fondi sullo
scambio dietro corrispettivo e dove non si concepisce il ruolo
della gratuità e della solidarietà, per quanto ne abbiamo
fatto tutti esperienza nei primi anni della nostra vita in
famiglia;
 in quella di ispirazione marxista, perché contraddice
l'assunto della ineluttabile lotta tra Paesi sfruttati e Paesi

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dominanti (estensione dell'idea dell'inevitabilità della lotta


di classe).

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LE RELAZIONI E LE
POLITICHE ECONOMICHE
INTERNAZIONALI DAL
PIANO MARSHALL AL 1975
Salvatore Della Corte
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Indice

1. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI DALLA FINE DELLA


SECONDA GUERRA MONDIALE ALLA FINE DEL 1960. LA GUERRA FREDDA
E IL SIGNORAGGIO MONETARIO INTERNAZIONALE ------------------------------ 3
2. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI DAL 1960 AL 1975: DAL
GOLD EXCHANGE STANDARD AL DOLLAR STANDARD, PASSANDO PER I
DIRITTI SPECIALI DI PRELIEVO DEL FMI --------------------------------------------- 16
3. L'IMPORTANZA DELLE VARIAZIONE DEL TASSO DI INTERESSE
NELL'ATTUALE SISTEMA MONETARIO INTERNAZIONALE --------------------- 29

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1. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI DALLA FINE DELLA
SECONDA GUERRA MONDIALE ALLA FINE DEL
1960. LA GUERRA FREDDA E IL SIGNORAGGIO
MONETARIO INTERNAZIONALE

La seconda guerra mondiale aveva distrutto quasi


completamente gli impianti produttivi delle principali Nazioni
europee, tra cui Inghilterra, Francia e Germania, che si erano
contese, insieme all'Impero giapponese, il dominio mondiale, mentre
l'apparato produttivo americano non era stato mai raggiunto dai
bombardamenti dei nemici e non aveva subito nessun danno.
Con i piani di aiuto economico che gli Stati Uniti attuarono a
favore delle economie europee d e di quella giapponese (in particolare
abbiamo parlato del piano Marshall), e di come l'erogazione di forti
donazioni ha da un lato consentito di trovare uno sbocco all'eccesso di
produzione agricola e di prodotti degli USA, dall'altro ha consentito
rapidamente alle Nazioni europei di riprendersi dal conflitto e
alleviato l'austerità alla fine della guerra.
Le condizioni economiche dell'immediato dopoguerra e il
meccanismo degli aiuti erano tale che, con essi, gli europei
comprassero soprattutto beni di prima necessità, e in misura ridotta,
macchinari e beni di investimento prodotti negli Stati Uniti.
Dato il meccanismo del moltiplicatore delle esportazioni,
l'aumento di reddito registrato negli USA favoriva importazioni
dall'Europa, ma la gran parte della produzione industriale mondiale
era statunitense e, dunque, i dollari regalati ai Paesi europei
tornavano negli Stati Uniti.

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In questo contesto, in considerazione anche degli accordi di


Bretton Woods, si affermò il dollaro come moneta di scambio
internazionale e moneta di riserva, mentre gli operatori
abbandonarono la sterlina. Viste le ingenti necessità dell'Europa, si
registrò la scarsità di dollari.
Negli anni cinquanta la bilancia dei pagamenti statunitensi
registrò dei deficit, ma assai limitati e dovuti esclusivamente agli
aiuti e ai finanziamenti agevolati (che abbiamo visto rappresentare di
fatto un incentivo all'esportazione della merce del Paese che li eroga)
mentre la bilancia commerciale statunitense era in surplus.
Questo quadro mutò verso la fine degli anni Cinquanta. Man
mano che le economie delle principali nazioni europee e quella
giapponese recuperavano i livelli produttivi prebellici, esse
aumentavano la loro quota di commercio internazionale a scapito
degli stessi Usa, che tanto collaboravano alla loro ripresa e il cui
aumento del reddito inevitabilmente comportava maggiori
importazioni.
Intanto si delineava il clima di guerra fredda che imperverserà
nel mondo fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino. Nel
1949 gli Stati Uniti avevano stabilito con alcuni paesi europei, tra cui
l’Italia, la Francia e l’Inghilterra, un’alleanza difensiva che prese il
nome di NATO (North Atlantic Treaty Organization). Tra il ’47 ed il
’48, ad est, dalla Polonia alla Bulgaria, si instaurarono governi di tipo
comunista strettamente legati all’URSS di Stalin e i partiti
d’opposizione furono sciolti. I Paesi dell'Est aderirono al Patto di
Varsavia.
Le due potenze uscite veramente vincitrici dalla seconda guerra
mondiale, URSS e USA, avevano due sistemi economici contrapposti e

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non riuscirono, nella diffidenza reciproca, a trovare una cooperazione


pacifica, entrambe in lizza per il primato e per l’egemonia mondiale, e
radicalmente contrapposte sul piano ideologico.
Il mondo capitalista e fondato sulla libera iniziativa economica
e l'economia pianificata erano due modelli troppo lontani e
antagonisti.
I due blocchi industriali e produttivi si affrontarono in tutti i
campi: culturale, propagandistico, ideologico, militare, economico. Tra
il 1947 e il 1962 ci furono una serie di drammatici episodi, che
portarono realmente i due contendenti sull'orlo del conflitto mondiale.
La prima crisi riguardò Berlino. Controllata in parte dalle
potenze occidentali, Berlino si trovava all'interno della Germania
dell'Est, che invece era sotto controllo sovietico. Nel giugno 1948
Stalin decise di bloccare ogni via di accesso terrestre alla città, al fine
di assediare le parti occupate dagli alleati e indurre i cittadini
tedeschi ad abbandonare la città e ricondurla tutta sotto il controllo
sovietico.
Era una vera e propria sfida agli alleati. I comandi generali
statunitensi proposero un piano per rifornire le parti occupate dagli
occidentali con colonne di carri armati, che avrebbero aperto il fuoco
se attaccate. La proposta fu rifiutata dal Presidente, perché
considerata troppo pericolosa e alla fine gli USA decisero di rifornire
Berlino con un ponte aereo che Stalin non osò impedire.
Il blocco terrestre era stato infatti imposto da Stalin adducendo
come scusa che a Yalta non si erano definite le modalità di
rifornimento delle zone occupate e che la Repubblica democratica
tedesca non gradiva il passaggio dei convogli di quelli che erano stati
in precedenza alleati.

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Il rifornimento aereo come reazione al blocco terrestre non


poteva essere anch'esso bloccato senza innescare direttamente la
guerra.
Una seconda crisi esplose in Asia. Mao Zedong e il comunismo
si erano faticosamente affermati in Cina e, in un primo momento,
anche quest'area sembrava destinata a cadere prevalentemente sotto
l’influenza sovietica.
Il primo vero e proprio scontro militare tra occidente e truppe
comuniste avvenne con la guerra di Corea (1950-1953).
Come altre parti del mondo, con la fine dell'occupazione
dell'Impero giapponese, al termine della seconda guerra mondiale, la
Corea era stata divisa in due parti lungo la linea del 38° parallelo
Nord: la Corea del Nord, guidata da un governo comunista, e la Corea
del Sud alleata degli Americani.
Dopo ripetute violazioni del confine invase con successo la
Corea del sud, che in breve venne conquistata quasi totalmente.
Il Consiglio di sicurezza ONU, in cui all'epoca sedeva il
rappresentante della Cina nazionalista, uscita sconfitta dalla guerra
civile cinese, dette l'appoggio all'intervento USA, perché il
rappresentate sovietico si assentò per protesta contro la presenza del
rappresentante della Cina Nazionalista.
Di fatto, Stalin dette il via libera alla guerra, con l'obiettivo di
verificare la forza nordcoreana e quella del suo alleato Cinese nei
confronti degli USA e in ogni caso di sfiancare sia la Cina, di cui
temeva la concorrenza nel mondo comunista, sia gli USA, odiati
capitalisti.
Il conflitto terminò dopo tre anni, con il ritorno pressapoco alla
situazione ante guerra e la divisione in due della Corea.

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La guerra di Corea spinse gli Stati Uniti a intensificare la


propria azione ostile verso i paesi socialisti e a modificare,
mitigandola, la propria politica nei confronti delle potenze contro cui
aveva combattuto la guerra mondiale.
Nel 1951 fu firmato il trattato di pace con il Giappone, che fu
rafforzato nell'area in funzione di baluardo contro Cina e Russia.
Proprio per queste ragioni fu consentito la creazione dei Keiretsu
giapponesi, di cui abbiamo parlato nella lezione tredicesima.
Gli USA, inoltre, stipularono il Patto di sicurezza nel Pacifico
con Australia e Nuova Zelanda, mentre in Europa procedette al
riarmo della Germania.
In un primo tempo i piani statunitensi nei confronti della
Germania erano stati molto severi e si era fatta l'ipotesi della
completa deindustrializzazioni di quella Nazione, per evitare nuove
future guerre. Ora, a fronte della minaccia comunista, i piani vennero
modificati e si favorì la ripresa industriale tedesca.
La Germania, di cui gli alleati occidentali avevano pensato la
completa deindustrializzazione, per evitare nuovi pericoli di guerra,
venne invece velocemente industrializzata per vincere il confronto con
l'Est e altrettanto facevano i sovietici nella Repubblica democratica
tedesca.
Inoltre aiuti economici furono concessi dagli USA alla Spagna
franchista e alla Jugoslavia, in rotta con l'URSS.
Qualche anno dopo i rapporti USA-URSS furono di nuovo al
limite della rottura: durante la notte del 12 agosto 1961 i tedeschi
dell'Est costruirono quasi completamente un muro nella città di
Berlino, così da dividere in modo definitivo il settore orientale da
quello occidentale ed evitare le numerose fughe di Tedeschi dal

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settore russo all’altro. Queste fughe infatti rappresentavano uno


smacco propagandistico per il comunismo mondiale.
Ma l'episodio più drammatico avvenne nell’ottobre del 1962, a
Cuba, dove aveva preso il potere Fidel Castro, dittatore comunista. I
sovietici tentarono di installare sull'isola segretamente una serie di
basi missilistiche, al fine di riequilibrare i rapporti di forza missilistici
tra le due superpotenze, che vedeva in vantaggio l'occidente,
soprattutto per i missili a lunga distanza. Impiantando a Cuba missili
a media gittata, l'URSS avrebbe recuperato lo svantaggio. L'impresa
venne scoperta dagli aerei statunitensi e il presidente Kennedy
dispose una quarantena navale intorno a Cuba e impose all’URSS di
ritirare le armi atomiche dall’isola. Il blocco navale era illegale e
rappresentava un vero e proprio atto di guerra. Per questo si preferì
l'espressione quarantena. La situazione fu sbloccata dall'intervento da
Papa San Giovanni XXIII, che dette modo alle due superpotenze di
uscire dalla situazione di stallo che suscitò l'apprezzamento di
entrambe le parti in causa e smarcò entrambi i leader dal problema
della prima mossa. I sovietici ebbero l'occasione di inviare al Governo
americano due proposte. Nella prima, del 26 ottobre, offrirono di
ritirare i missili da Cuba in cambio della garanzia che gli USA non
avrebbero più tentato di invadere Cuba, (come avevano tentato in
precedenza) né avrebbero appoggiato un'invasione di altri.

Nella seconda, del 27 ottobre, chiesero il ritiro dei missili


statunitensi dalla Turchia, come ulteriore richiesta oltre a quella del
giorno prima. Questa seconda proposta è certamente espressione della
posizione dei militari sovietici, inferociti con Kruscev, colpevole prima
di aver tentato l'installazione dei missili a Cuba e poi di aver fermato

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il piano e cedere di fatto alla supremazia missilistica USA. La


richiesta serviva a riequilibrare almeno parzialmente il confronto
missilistico, ma non incrementando il dispositivo russo, ma
diminuendo quello statunitense in Europa.
Kennedy accettò la prima in pubblico e la seconda in segreto,
mediante suo fratello, nonostante la contrarietà degli alti comandi
militari.
La guerra atomica fu evitata per un soffio.
Quello che ci interessa dimostrare dal punto di vista della
politica economica è che, in questo quadro di “guerra fredda” e di
acceso scontro militare, tecnologico ed economico, gli USA ebbero
sempre un'arma in più, che è evidente allo studioso di politica
economica, ma meno allo storico.
Gli Usa detenevano la moneta di riserva internazionale e
questo gli consentiva il signoraggio monetario. Se il mondo capitalista
ha vinto lo si deve anche a questo aspetto, del tutto incomprensibile
nell'ambito dell'economia pianificata e che sfugge in gran parte agli
storici.
Il signoraggio può essere definito come l'insieme dei redditi del
governo derivanti dall'emissione di moneta. Il premio Nobel Paul R.
Krugman, definisce come il flusso di «risorse reali che un governo
guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi»
In macroeconomia, cioè, per signoraggio si intendono i redditi
che un governo ottiene grazie alla possibilità di creare base monetaria
in condizioni di monopolio: detto in altri termini, il signoraggio è una
delle fonti con cui un governo finanzia la propria spesa pubblica
eccedente rispetto alle entrate fiscali.

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Sostanzialmente, in occasione della necessità di finanziare i


costi di guerre, si è sempre registrato la tendenza degli Stati di
emettere più biglietti rispetto a quelli convertibili secondo le parità
auree dichiarate ai propri cittadini e, per questa via, arrivare ad un
tale numero di biglietti in circolazione da dichiarare l'inconvertibilità
della moneta. Si è trattato sempre di un fenomeno che è stato imposto
ai cittadini di uno Stato, tanto che tutte le monete del mondo sono
oggi inconvertibili.
Nei rapporti tra Stati si è sempre invece usato l'oro, tanto che
sia il Gold Standard che il Gold Standard exchange erano fondati
sulle parità auree dichiarate con l'oro: la differenza essenziale tra i
due sistemi, ricordiamo, è che nel primo la convertibilità con l'oro era
permessa ai singoli cittadini, mentre nel secondo la convertibilità con
l'oro era permessa alle sole banche centrali.
Nello scontro armato tra il mondo libero e il socialismo reale si
assistette alla necessità del Paese leader del fronte del mondo
occidentale di utilizzare il signoraggio per vincere la guerra fredda.
Gli USA ebbero la fortuna di trovarsi a poter utilizzare la moneta di
riserva internazionale come moneta con cui attuare il signoraggio e
questa situazione, consentì alla moneta statunitense di non dover
subire la svalutazione, ovvero tutta la svalutazione, corrispondente
all'eccesso di emissione della propria moneta.
Il signoraggio ottenuto dal governo può essere misurato dal
potere d'acquisto della nuova base monetaria messa in circolazione
dal governo. Seguendo la letteratura dei principali economisti
sull'argomento possiamo dire.

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Con M indichiamo la base monetaria (non l'offerta complessiva


di moneta che dipende dal moltiplicatore della base monetaria) e con
P l'indice generale dei prezzi.
Dall'insieme dei nostri studi precedenti, sarà facile per lo
studente riconoscere che M/P indica il valore reale della base
monetaria, cioè l'insieme dei beni e servizi che si possono acquistare
con la base monetaria.
Mt – Mt-1 / Mt rappresenta in vece il tasso di crescita della
base monetaria dal tempo t-1 al tempo t.
Ecco allora che possiamo formalizzare il signoraggio
σ = (Mt – Mt-1 / Mt) M/P [1]
che, appunto, è la formalizzazione della definizione del premio
nobel Krugman, quando afferma che il signoraggio consiste nelle
«risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che
spende in beni e servizi».
La formula incorpora la realtà che il governo incorpora beni e
servizi stampando moneta. Ma qual è il tasso di crescita ottimale
conveniente per il governo?
Ovviamente su questo punto non vi è accordo nella teoria
economica e richiamo tutto quanto scritto in tema di politica
monetaria e del differente parere circa gli esiti della stessa:
l'opposizione tra gli studiosi che credono nella neutralità della moneta
sia nel breve, che nel lungo periodo e coloro che, partendo anche dalle
constatazioni empiriche, riconoscono la non neutralità nel breve
termine.
E' evidente che siamo di fronte ad un tema simile a quello della
curva di Phillips, come viene insegnato tradizionalmente, cioè al tema

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del trade off. Qui lo scambio per le autorità monetarie non è tra
inflazione e occupazione, ma tra signoraggio e inflazione.
Trattandosi di un monopolio di un bene il cui costo di
produzione è irrisorio, il problema si presenta come una curva di
Laffer, ovvero si rappresenta dal punto di vista teorico graficamente
con una funzione concava. Una funzione concava è una funzione a
valori reali, il cui grafico giace al di sopra del segmento congiungendo
due punti qualsiasi del grafico.
Se poniamo sull'asse delle ascisse l'inflazione e sull'asse delle
ordinate il signoraggio, il problema si presenta come quello di
ottenere il massimo signoraggio possibile senza scatenare un processo
iperinflazionistico.
Nella figura 1 spieghiamo graficamente il problema.
Ovviamente questa rappresentazione riguarda un Paese che non
possieda la moneta di riserva internazionale. Questo passaggio ci farà
comprendere la differenza con il caso del Paese con la moneta di
riserva e delle ragioni che hanno portato ad adottare il Dollar
Standard.
Fig. 1

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Nel grafico sopra disegnato si immagina un inflazione di 1%


compatibile con un un signoraggio del 8%. Ovviamente sappiamo che
la stessa inflazione genera un processo di attesa inflazionistica e che,
con l'introduzione delle aspettative razionali inflazionistiche, è più
realistico pensare a ben più elevati tassi inflazionistici compatibili con
il signoraggio. Per far comprendere realisticamente i veri valori di
inflazione compatibili con il signoraggio, lo studente trova di seguito
una tabella in cui ci sono i dati relativi al signoraggio in una serie di
Paesi.
La successiva tabella al ricorso al signoraggio nel periodo 1975-
1985 ha come fonte il Fondo Monetario Internazionale, International
Financial Statistics, 1975-19851

1La tabella è riportata in Jeffrey D. Sachs, Felipe B. Larrain, Macroeconomics in the Global
Economy, Prentice-Hall, 1993, (Part III, Monetary Economics, chapter 11, Inflation: Fiscal
and Monetary Aspects, section 2, The Inflation Tax and Seigniorage, pag. 341)

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Percentuale di signoraggio Percentuale di signoraggio


Paese rispetto rispetto
a fonti alternative di finanziamento al Prodotto interno lordo

Stati Uniti 6,02% 1,17%

Canada 6,61% 1,26%

Regno Unito 5,31% 1,91%

Italia 28,00% 6,60%

Francia 7,19% 2,73%

Germania 3,85% 1,08%

Bolivia 139,50% 5,00%

Brasile 18,36% 4,13%

Cile 7,48% 2,39%

India 14,30% 1,81%

Corea del Sud 10,70% 1,84%

Messico 18,70% 2,71%

Filippine 7,79% 0,99%

Thailandia 7,06% 0,94%

Turchia 24,40% 5,09%

Venezuela 10,76% 3,05%

Perù 29,71% 4,92%

Israele 24,55% 2,99%

In Italia, nello stesso periodo, l'inflazione media (fonte ISTAT)


fu del 16,78. Per calcolare le compatibilità negli altri Paesi, lo
studente ricavi dai vari centri statistici dei vari Paesi i dati relativi
all'inflazione per i vari Paesi. Quindi in Italia un signoraggio pari al
6,60% del PIL provocò un inflazione del 16,78%.
Se l'argomento del signoraggio risulta sufficientemente chiaro,
possiamo passare al punto che ci sta a cuore.
Quello che ci interessa è dar conto delle ragioni per cui il
sistema internazionale passò dal Gold exchange standard al Dollar

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standar: le ragioni per cui si abbandonò il sistema di Bretton Woods,


ancorato all'oro e in cui il dollaro svolgeva il ruolo di moneta di
riserva in considerazione della sua parità aurea e si adottarono (e si
adottano) i dollari come moneta di riserva internazionale senza
convertibilità con l'oro.

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2. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI DAL 1960 AL 1975: DAL
GOLD EXCHANGE STANDARD AL DOLLAR
STANDARD, PASSANDO PER I DIRITTI
SPECIALI DI PRELIEVO DEL FMI

Rispetto al decennio precedente, in cui la bilancia dei


pagamenti degli USA era stata in equilibrio e la sua bilancia
commerciale sostanzialmente in attivo, il quadro macroeconomico
mondiale cambiò proprio a causa della guerra fredda.
Non solo gli USA dovevano costantemente aumentare le
proprie spese militari per mantenere un armamentario missilistico
superiore all'avversario sovietico, non solo erano impegnati con i
propri servizi segreti a combattere lo spionaggio sovietico, ben
ramificato, data la presenza di numerosi partiti comunisti legalmente
riconosciuti in occidente, non solo erano impegnati a vincere il
confronto spaziale (il cui successo con la creazione dello scudo spaziale
determinerà la vittoria definitiva dell'occidente sul comunismo
internazionale), ma doveva anche impegnarsi a consentire una forte
ripresa delle due potenze contro cui aveva combattuto la prima guerra
mondiale (Germania e Giappone), consentendo loro di esportare
all'interno del proprio Paese. Inoltre gli Usa furono coinvolti
direttamente o indirettamente, in tutti i conflitti armati di quel
periodo che furono i seguenti:

Guerra civile greca giugno 1946 – 16 ottobre 1949


Guerra d'Indocina 19 dicembre 1946 – 1º agosto 1954
Prima guerra arabo-israeliana novembre 1947 – marzo 1949

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Guerra di Corea 25 giugno 1950 – 29 luglio 1953


Guerra d'Algeria 1º novembre 1954 – 19 marzo 1962
Guerra del Canale di Suez ottobre 1956 – marzo 1957
Guerra coloniale portoghese 1961 - 1975
Guerra sino-indiana 10 ottobre – 21 novembre 1962
Guerra della sabbia ottobre 1963
Guerra del Vietnam 1964 – 1975
Guerra di indipendenza della Namibia 1966 -1989
Guerra dei sei giorni 5 giugno – 10 giugno 1967
Guerra d'attrito giugno 1968 – 7 agosto 1970
Guerra del calcio 14 luglio – 18 luglio 1969
Guerra di liberazione bengalese 26 marzo – 16 dicembre 1971
Guerra del Kippur 6 ottobre – 24 ottobre 1973
Guerra civile cambogiana 1970 – 17 aprile 1975

L'area comunista pagò con crisi economiche e sociali tremende


la contesa per l'egemonia mondiale.
La necessità di dimostrare la superiorità del modello
capitalistico e il meccanismo delle libere elezioni, l'esistenza di forti
partiti comunisti liberi di propagandare un immaginario mondo
sovietico in cui gli operai erano felici e benestanti e non sfruttati dai
“terribili capitalisti”, implicò la necessità di far riprendere bene e
subito le economie dei Paesi contro cui era stata combattuta la
seconda guerra mondiale.
Conseguentemente, i Paesi occidentale europei, in particolare
la Germania e il Giappone, importarono meno dagli Stati Uniti ed
esportarono di più verso il resto del mondo: la quota delle esportazioni
americane sul commercio internazionale si ridusse inevitabilmente.

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Questo accadde anche perché la produttività dell'industria


europea salì enormemente: mentre la produttività della industria
manifatturiera nel 1965 in Francia e in Germania era
rispettivamente il 56% ed il 68% della produttività del medesimo
settore industriale negli Usa, nel 1974 la produttività era salita al
73% e al'82%. Anche per l'Italia, almeno fino al 1969, si nota un
impressionante aumento della produttività del lavoro.
Questo non poteva non avere conseguenze sulla bilancia dei
pagamenti USA, che nel decennio precedente era stata in equilibrio
sostanzialmente per il surplus commerciale.
Il surplus della bilancia commerciale statunitense diminuì e il
deficit della bilancia dei pagamenti aumentò dunque principalmente a
causa:
a) delle spese militari degli Stati Uniti all'estero: partecipazioni a
guerre, mantenimento di truppe in diverse regioni del mondo,
importazione di materie prime per scopi militari, costruzione di
basi missilistiche, ricerca e sviluppo di tecnologie nucleari e
spaziali;
b) investimenti delle imprese americane in Europa;
c) la ripresa di produttività delle principali economie europee e
del Giappone

Aumentò inevitabilmente la base monetaria di dollari fuori


degli Stati Uniti: gran parte di essa veniva utilizza direttamente dagli
operatori economici internazionali per le transazioni commerciali e
finanziarie, sempre più intense tra i Paesi occidentali a causa della
crescente integrazione economica tra di essi.

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Il prezzo dell'oro sui mercati liberi, in conseguenza del


signoraggio monetario di cui abbiamo parlato nel paragrafo
precedente applicato dagli USA, era salito.
L'aumento della quantità di dollari in circolazione e la generale
politica monetaria espansiva consentita in tutti i Paesi occidentali
aveva determinato processi inflattivi che si erano manifestati in tutte
le Nazioni occidentali. Negli USA l'inflazione era salita al 6% tra il
maggio 1969 e il maggio 1970.
Diventava dunque conveniente, per le Banche centrali
cambiare dollari in oro.
Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, le
banche centrali europee avevano convertito centinaia di milioni di
dollari al prezzo ufficiale di 35 dollari l'oncia, inferiore a quello
effettivo. Nel 1968 le riserve auree degli Stati Uniti erano scese ad un
livello pari al 42% di quello raggiunto nel 1958.
Consapevoli della gravità della situazione politico economica
occidentale e dell'impossibilità per gli USA di ripagare in oro i dollari
emessi, i Paesi europei vennero incontro agli Stati Uniti e nel 1968 vi
fu un accordo tra i Paesi aderenti al FMI mediante il quale fu creato il
doppio mercato dell'oro:
 un mercato ufficiale per i soli fini monetari riservato
esclusivamente alle banche centrali, dove queste si
impegnavano a scambiare il metallo alla parità aurea
dichiarata dagli USA;
 un mercato libero per gli operatori economici privati, in cui il
prezzo sarebbe stato determinato dalla domanda e dall'offerta.
Le banche centrali si impegnavano inoltre a non effettuare
acquisti o vendite sul mercato libero.

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Ma fu la guerra in Vietnam a costringere le autorità americane


ad aumentare notevolmente l'emissione di dollari USA.
Come aveva previsto Keynes alla Conferenza di Bretton Woods,
legare la moneta di riserva internazionale ad una valuta nazionale,
come era stato nel sistema della sterlina, aumentava l'instabilità del
sistema economico internazionale, a causa del conflitto tra gli
obiettivi di politica economica interna e le necessità del commercio e
degli scambi internazionali.
Le tesi di Keynes erano state riprese dall'economista Triffin, il
quale elaborò la teoria che è denominata “paradosso di Triffin”.
Questa teoria economica indica che se una moneta nazionale è
utilizzata internazionalmente come valuta di riserva, esistono
inevitabilmente dei conflitti di interesse tra gli obiettivi interni a
breve termine e gli obiettivi internazionali a lungo termine.
Essa evidenzia che se una nazione desidera mantenere la propria
moneta come valuta di riserva mondiale, questa dovrà essere disposta
a fornire alle altre nazioni un apporto supplementare di moneta per
soddisfare la loro domanda di valuta di riserva.
Questa necessità crea un conflitto tra gli obiettivi interni e
quelli esterni. Come aveva preannunciato Keynes a Bretton Woods, ci
si attende che il Paese con la moneta di riserva abbia costanti surplus
della bilancia dei pagamenti per finanziare l'emissione di moneta di
riserva.
Le politiche economiche per ottenere questo risultato possono
contrastare con gli obiettivi di politica economica interna e
determinare recessione.
Qualora si dia prevalenza agli obiettivi interni, nella teoria di
Triffin ci si attende un deficit della bilancia dei pagamenti, che però,

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riconosce l'economista, indeboliscono la fiducia nella solidità della


moneta nazionale usata come riserva standard internazionale e
pongono le basi per il default del sistema.
In altre parole Triffin avvisò tutti per primo, già nel 1960, che il
sistema rischiava il fallimento o per mancanza di liquidità o perché
sarebbe finito l'oro di riserva degli USA.
La posizione egemone dell'economia americana era dunque
seriamente minacciata dal nuovo quadro macroeconomico, in seguito
allo sviluppo dell'Europa e del Giappone, e per l'uso indiscriminato
della politica monetaria espansiva per finanziare le guerre a cui le
sottoponeva lo scontro con il comunismo internazionale.
Nella nuova situazione che si andava creando si prospettavano
cinque alternative, la prima interna agli USA, le altre concordate a
livello internazionale:
1. ridurre il numero dei dollari in circolazione attraverso il taglio
del deficit della bilancia delle partite correnti della bilancia dei
pagamenti e aumentare i tassi di interesse per attirare
investimenti in dollari verso il paese, in modo da compensare
l'emorragia derivante dal ruolo del dollaro di una moneta di
riserva internazionale. Questa strategia avrebbe ovviamente
trascinano l'economia americana in recessione. Ecco il conflitto
tra le necessità della moneta di riserva internazionale e
l'obiettivo interno USA della piena occupazione. La prospettiva
della recessione, che comportava secondo la scuola della Public
Choice la futura sconfitta elettorale, non era ovviamente
gradita dal presidente John F. Kennedy ed egli decise di
firmare un ordine esecutivo (11110 del 4 giugno 1963) che
permette al Tesoro degli Stati Uniti emissioni monetarie

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garantite in argento. Voleva creare una doppia circolazione


monetaria:
 un dollaro legato all'oro secondo la stabilità aurea
garantita dal sistema di Bretton Woods;
 un dollaro legato all'argento. I nuovi dollari detti dollari
d'argento, sarebbero stati fuori dal controllo della
Federal Reserve e dal suo diritto di signoraggio, stabilito
nel 1913.
La mossa di John F. Kennedy si basava sulla legge di Gresham.
Nell'intenzione di Kennedy e dei suoi consiglieri economici, l'idea era
che il dollaro d'argento cacciasse il dollaro d'oro. L'idea era quella di
ridurre il dollaro d'oro in circolazione per ristabilire l'avanzo della
bilancia dei pagamenti USA e, al tempo stesso, impedire la recessione,
aumentando l'emissione di dollari legati all'argento, che nei suoi piani
avrebbero appunto dovuto sostituire all'interno del Paese la
circolazione del dollaro legato all'oro. In questo modo la prima moneta
sarebbe stata la moneta di riserva internazionale e la seconda
utilizzata all'interno del Paese. La circostanza che l'ordine esecutivo
desse l'incarico di battere la nuova moneta al Tesoro e non al sistema
della Federal Reserve viene interpretato da alcuni come una mossa
del Presidente contro quel sistema, ma ci sono ragioni tecniche per
sostenere che tale ordine volesse tutelare quel sistema e, con esso, il
dollaro legato all'oro e scambiato internazionalmente. Non sappiamo
se un sistema del genere avrebbe mai potuto funzionare, perché
Kennedy verrà assassinato il novembre di quello stesso anno.
2. rivalutare l'oro e svalutare il dollaro, riportando in equilibrio la
bilancia commerciale degli USA. Ovviamente il riequilibrio
avrebbe comportato una riduzione delle esportazioni

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Giapponesi e Tedesche. Questa non a caso era la posizione


francese. Inoltre, la maggior parte degli economisti condivide
l'obiezione che la produzione di oro non è sufficiente a sostenere
la crescita del commercio internazionale;
3. accettare l'inconvertibilità del dollaro: accettare cioè che il
sistema monetario funzionasse come dollar standard;
4. tornare all'ipotesi di Keynes ed istituire una moneta
internazionale, non reale, ma che costituisse l'unità di conto e
affidare al FMI la gestione del sistema internazionale dei
pagamenti;
5. passare dal sistema di cambi fissi al sistema di cambi flessibili:
questa era la proposta dell'illustre economista monetarista
Friedman.

Nell'incontro annuale del Fondo Monetario Internazionale di


Rio de Janeiro del 1967 si è ritenuto opportuno creare una moneta
internazionale (artificiale) ancorata all'oro e distribuita, secondo
criteri opportunamente stabiliti, tra i vari paesi membri del Fondo.
Siccome i francesi erano sia sostenitori del ritorno all'oro
(volevano la svalutazione del dollaro per tornare al Gold Standard) e
profondamente avversi a monete internazionali artificiali, si coniò il
termine di Diritti speciali di prelievo una moneta artificiale.
I Diritti Speciali di Prelievo, a differenza di quello che può far
credere il nome, sono un particolare tipo di valuta. Questa valuta
rappresenta l'unità di conto del Fondo Monetario Internazionale.
Il valore di questa valuta si ricava sommando un paniere
ponderato di valute nazionali, rispetto alle quali si calcola una sorta

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di "comune denominatore": il risultato dell'operazione è il valore della


valuta che chiamiamo Diritti Speciali di Prelievo.
L'uso di questa valuta non è mai decollato e di essa ci si serve
esclusivamente in una serie di Convenzioni internazionali di
disciplina internazionale privatistica sulla responsabilità, nel diritto
del trasporto aereo, marittimo e postale. Inoltre questa valuta è
utilizzata anche dalla Unione Postale Universale, responsabile del
coordinamento del sistema postale internazionale, e negli accordi tra
compagnie telefoniche nel roaming internazionale.
Intanto, al di là di quanto concordato dalle autorità monetarie
internazionali e degli accordi sottoscritti e nonostante quanto
auspicato dai tecnici, la storia prendeva tutto un altro corso.
Il 15 agosto 1971 il presidente statunitense Richard Nixon fu
costretto ad annunciare l'inconvertibilità in oro dei dollari. Al tempo
stesso il dollaro rimaneva la moneta di riserva internazionale
occidentale e le banche centrali di tutto il mondo ne erano piene.
Gli operatori stranieri e le Banche centrali straniere non
potevano chiedere il cambio dei dollari con la moneta nazionale
(perché non utilizzata per gli scambi internazionali) né con l'oro
(perché il dollaro non era più convertibile); potevano invece investirli
nelle banche statunitensi oppure in titoli del tesoro USA. Quello che
avviene da allora può essere ricapitolato nel seguente modo:
Dal momento che la moneta più utilizzata per gli scambi
commerciali mondiali, in particolare utilizzata per il commercio
internazionale del petrolio era ed è attualmente il dollaro, gli
operatori commerciali internazionali vendono le merci in dollari,
quale che sia la loro divisa nazionale.

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Per i Paesi esportatori con un saldo attivo della bilancia


commerciale, come sappiamo questo crea un afflusso di dollari. La
teoria si attende che i dollari siano offerti a livello internazionale per
acquisire altri beni e servizi internazionali. Questo dovrebbe
determinare un aumento generalizzato dell'offerta di dollari e,
dunque, una svalutazione del corso del dollaro.
In realtà si assiste ad un fenomeno diverso. Tutti i Paesi
importatori di petrolio utilizzano i dollari in riserva per acquistare
prodotti energetici sui mercati energetici e detengono enormi riserve
della valuta statunitense. Le nazioni produttrici di petrolio non
chiedono alla FED di cambiare i petrodollari nella moneta locale dei
Paesi Arabi, ma tengono i proventi del petrolio in conti correnti
denominati in dollari e in buona parte investiti in titoli del Tesoro e
azioni USA.
Fondamentalmente, diversamente da quanto atteso dalla teoria
economica, i dollari emessi non si presentano al cambio condizionando
il valore del dollaro sulle altre monete. D'altra parte sono investiti in
titoli di lungo termine o in azioni che non vengono scambiate a forte
frequenza: per cui quei dollari non sono nemmeno moneta circolante
che produrrebbe inflazione rientrando in America.
Esiste quindi un consistente mercato di dollari completamente
fuori del controllo degli USA che non si riversa né sul mercato dei
beni interno agli USA, dove determinerebbe inflazione, né sul mercato
internazionale dei beni, dove determinerebbe la svalutazione del
dollaro.
Nel 1976 si decise l'abolizione del prezzo ufficiale dell'oro e
quindi del doppio mercato dell'oro.

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L'accordo internazionale raggiunto in quella data inoltre


autorizzava il Fondo Monetario Internazionale a restituire una parte
dell'oro in suo possesso ai Paesi che lo avevano versato come quota di
adesione e a vendere un'altra parte dell'oro, utilizzando il ricavato a
beneficio dei Paesi in via di sviluppo.
Non essendovi più la convertibilità del dollaro in oro a partire
dal 1971 e non avendo sostituito la nuova unità di conto (denominata
Diritti speciali di prelievo) il dollaro come moneta di riserva e di
scambio internazionale, il sistema attuale di relazioni monetarie
internazionali è divenuto un sistema basato esclusivamente sul
dollaro.
Alcuni economisti lo definiscono dollar standard, perché i
pagamenti per le operazioni commerciali e finanziarie internazionali
vengono fatti in dollari, che sono però inconvertibili.
Altri economisti hanno definito il sistema “Treasury-bill
standard”, perché i dollari in eccesso si trasformano in prestiti al
tesoro statunitense.
In questa chiave è importante dare la giusta lettura di politica
economica alla crisi petrolifera del1974. I Paesi OPEC ridussero
drasticamente la produzione di petrolio, causando una crisi energetica
mondiale. Il prezzo al barile e delle importazioni quadruplicò.
Ovviamente quadruplicò la domanda di dollari, ovvero di petrodollari,
come da allora vengono definiti. Con la crisi petrolifera, quadruplicò
la domanda mondiale di dollari (a parità di fabbisogni) e il cambio del
dollaro si risollevò notevolmente.
Mentre, dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro
esso era stato svalutato e si erano rivalutati marco e yen, adesso era il
corso del dollaro statunitense a crescere. In seguito alla crisi

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energetica, il dollaro si rivalutò e i Paesi OPEC continuarono a farsi


pagare il petrolio in dollari e a investire i petrodollari nelle banche
statunitensi in titoli di stato statunitensi. Bisogna assolutamente
correggere l'idea che la crisi energetica rappresenti uno scontro fra
mondo arabo e USA: si trattò, al contrario, di una convergenza di
interessi.
Ma come si finanzia la crescita economica mondiale da allora.

Ragioniamo nei termini proposti dalla teoria quantitativa.


PQ = MV

Come abbiamo detto più volte, questa teoria considera stabile


nel breve termine il reddito e l'occupazione, ma le considera in
crescita nel medio e lungo periodo a causa della crescita della
popolazione e del progresso tecnico.
Al crescere del commercio internazionale e del reddito mondiale
(Q), perché si mantenga stabile il livello dei prezzi possono accadere
due condizioni alternative e cioè varia la circolazione monetaria V
oppure aumenta M.

Nel sistema del petrodollaro, perché aumenti la quantità di


moneta in circolazione a livello mondiale è necessario che aumentino
le riserve di dollari.
Ma la quantità di dollari utilizzato come riserva nelle banche
centrali può aumentare.
E' sufficiente che la Federal Reserve stampi più dollari oppure
in alternativa che i Paesi produttori di petrolio estraggano più
petrolio o aumentino il prezzo del petrolio e che i proventi della

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vendita del petrolio vengano tesaurizzati in dollari invece di


utilizzarli per acquistare oggetti: perché cresca l'offerta di moneta
mondiale è necessario che i paesi produttori di petrolio abbiano un
surplus della bilancia dei pagamenti in dollari.
In ogni caso con la fine del Gold exchange standard e l'inizio del
Dollar standard, si passò da un regime di cambi fissi ad uno a cambi
flessibili, anche se concordati tra le banche centrali delle principali
economie mondiali.

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3. L'IMPORTANZA DELLE VARIAZIONE DEL


TASSO DI INTERESSE NELL'ATTUALE SISTEMA
MONETARIO INTERNAZIONALE

Rammentando che la bilancia dei pagamenti è articolata in


quattro sezioni. ci dobbiamo soffermare ora su due di queste sezioni

d) Conto capitale. Il conto registra le acquisizioni, al netto delle


cessioni, di attività non finanziarie e misura la variazione del
patrimonio netto dovuta al risparmio ed ai trasferimento in
conto capitale; I movimenti di capitale comprendono vari tipi di
transazioni internazionali. Vi rientrano ad esempio gli
investimenti diretti esteri, cioè la costituzione di impianti
all'estero o le operazioni di acquisizione di quote di capitale di
un'impresa estera già esistente, volte a conseguire il controllo
della sua gestione

e) Conto finanziario. Il conto finanziario, redatto dalla Banca


d'Italia per il Paese, per singoli settori e per il Resto del mondo,
descrive le variazioni nelle consistenze delle attività e passività
finanziarie attraverso le quali il Paese o i settori istituzionali
assumono debiti o concedono crediti; vi rientrano inoltre gli
investimenti di portafoglio, che sono operazioni di acquisto o di
sottoscrizione di titoli o di altre attività finanziarie estere,
motivate esclusivamente da considerazioni di rendimento e di
rischio. Sono compresi tra i movimenti internazionali di
capitale anche i crediti commerciali cioè le dilazioni di
pagamento concesse dagli esportatori ai propri clienti e i

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prestiti erogati ad una controparte estera senza che la


transazione comporti lo scambio di una attività finanziaria
negoziabile sul mercato.
E' evidente che esiste una grande differenza tra le due sezioni:
la prima riguarda investimenti fisici aggiuntivi o investimenti di
portafoglio, volte a conseguire il controllo della gestione dell'impresa.
Nella sezione del conto finanziario si tratta quasi
esclusivamente di operazioni di acquisto o di sottoscrizione di titoli o
altre attività finanziarie nazionali o estere, motivate esclusivamente
da considerazioni di rendimento e di rischio.
La massa di petrodollari esistente nel mondo, come abbiamo
detto nel paragrafo precedente, non si trasformano nell'acquisto di
beni e servizi, ma soprattutto in acquisto di titoli del debito pubblico
americano. Il volume delle transazioni finanziarie è via via cresciuto
negli anni, che autorevoli studi fanno variare tra le 70 e le 100 volte il
PIL mondiale. I possessori di questo denaro effettuano speculazioni o
investimenti finanziari a breve termine, al fine di ottenere la
remunerazione migliore.
In questa situazione il modello più semplice che può essere
usato per spiegare l'andamento dei movimenti di capitale è quello
basato sul differenziale dei tassi d'interesse tra nazioni diverse.
A fronte di una massa di denaro così imponente e tante volte
maggiore rispetto al commercio internazionale, è normale che i
differenziali tra i tassi di interesse abbiano assunto un ruolo primario
nel riequilibrio delle bilance dei pagamenti:
 a parità di altre condizioni, si può ritenere che se il tasso
d'interesse di una Nazione è superiore rispetto al tasso medio
prevalente nel resto del mondo, questo divario susciterà un

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afflusso di capitali esteri, attratti dalla prospettiva di un


impiego più remunerativo e il saldo dei movimenti di capitale
risulterà in surplus. Ovviamente il processo è sottoposto alle
normali leggi della domanda e dell'offerta e l'afflusso si
arresterà quando l'eccesso della domanda sull'offerta di titoli
nazionali avrà fatto scomparire il divario tra il tasso
d'interesse interno e quello estero.
 Viceversa, se il tasso d'interesse di una nazione scende al di
sotto del livello prevalente nel resto del mondo, ciò stimolerà
un deflusso di capitali verso l'estero e quindi porterà in
disavanzo la corrispondente sezione della bilancia dei
pagamenti. Il deflusso continuerà finché l'arbitraggio
internazionale non avrà pareggiato i tassi d'interesse
all'interno e all'estero
In una prima approssimativa interpretazione della realtà si
può formalizzare in questo modo il saldo dei movimenti di portafoglio:
Bf = f (i – im) [2]
in cui Bf indica il saldo della bilancia finanziaria, f indica la
sensibilità dei movimenti di capitale ai tassi d'interesse; i il tasso di
interesse medio dei titoli di un paese; im il tasso di interesse medio
praticato nel resto del mondo.
Questa semplice formula va integrata con le attese sul cambio
futuro della divisa della Nazione considerata, oltre che con le
prospettive di sostenibilità finanziaria e oggettiva dei titoli emessi dal
Paese considerato.
Il livello dei tassi d'interesse nazionali rispetto a quelli esteri è
sì importante nell'analisi dell'equilibrio esterno di un'economia, ma

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deve essere considerato insieme alle aspettative sul cambio e alle


prospettive di sostenibilità del debito del Paese emittente.
Il primo aspetto viene spiegato dagli economisti con la teoria
della parità dei tassi di interesse. L'equilibrio del saldo del bilancio
finanziario necessita che il tasso di interesse medio praticato in una
nazione sia uguale a quello medio praticato fuori del Paese. In termini
formali:
i = im [3]
in cui i è il tasso di interesse vigente nel Paese preso in
considerazione e im è il tasso medio mondiale.
Per tenere conto del cambio occorre distinguere il tasso di
interesse a pronti, che è quello che si forma momento per momento
sui mercati valutari per le transazioni regolate momento per
momento.
Le operazioni a termine, invece, riguardano operazioni che
saranno regolate in un momento futuro predeterminato.
Le aspettative razionali sulle future variazioni del cambio sono
incorporate all'interno del tasso di cambio a termine.
Per tenere conto di tali aspettative la [3] diventa:

1 + i = Et / Ep (1 + im) [4]

in cui sappiamo già cosa significano i e im, Et è il cambio a


termine e Ep è il cambio a pronti.
La [4] corregge la [3] perché tiene conto dello scarto tra tassi di
interesse a termine e a pronti.
La seconda condizione di cui occorre tenere conto è quella della
condizione oggettiva di stabilità del debito per cui il tasso di crescita

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del prodotto interno lordo sia uguale al tasso di interesse medio


pagato sul debito:

Δy = i [5]
L'idea di compensare un eventuale disavanzo delle partite
correnti con un afflusso netto di capitali, attratti da un aumento del
tasso d'interesse medio applicato in un Paese rispetto a quello medio
applicato nel resto del mondo, deve essere considerata molto
criticamente per le seguenti ragioni:
L'indebitamento verso l'estero che ne deriva comporta una
perdita di indipendenza valutaria o politica dei cittadini del Paese: in
qualsiasi momento i capitali attratti possono con la stessa velocità
allontanarsi o, in alternativa portare i tassi di interesse a livelli
elevati o addirittura insostenibili.
Inoltre si genera un onere che non rientra nell'economia del
Paese. E' molto diverso il caso in cui gli interessi sul debito sono
pagati a residenti o a non residenti E' evidente che nel primo caso essi
comportano delle rendite finanziarie per i cittadini che possono o
spenderli o risparmiarli. Nel primo caso aumentano i consumi interni,
nel secondo il risparmio. In ogni caso ne beneficia l'economica del
Paese. Quando invece gli interessi sono pagati a non residenti esiste
un afflusso di capitali in fuoriuscita dal Paese. In altri termini gli
esborsi per interessi vengono registrati al passivo nel conto dei redditi
da capitale delle partite correnti e devono quindi essere compensati
da un attivo delle altre voci della bilancia dei pagamenti.
I rialzi del tasso d'interesse diminuiscono gli investimenti sul
territorio del Paese che li adotta. Ne risulta danneggiato

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l'investimento in capitale fisico aggiuntivo, l'unico in grado di attuare


il processo moltiplicativo e aumentare l'occupazione.
Si richiama pertanto tutto quanto spiegato in merito alla
sostenibilità del debito pubblico e nelle lezioni relative alla politica del
bilancio pubblico riguardo all'importanza di stabilire l'uso che si fa
delle risorse ottenute in prestito dal resto del mondo: alla differenza
tra le spese per consumi e quelle in conto capitale.
Perché l'afflusso dei capitali stranieri sia compatibile con le
condizioni oggettive di sostenibilità del debito sovrano di un Paese è
necessario che il maggior tasso di interesse corrisponda ad una
maggior crescita del prodotto interno lordo del Paese in questione
rispetto alla media mondiale e non rappresenti l'indicazione di un
maggior rischio.
Se si tiene conto della [5], che è la condizione di sostenibilità
oggettiva del debito, possiamo scrivere che, perché un eventuale
differenziale tra il tasso medio di interesse applicato all'interno di un
Paese e quello medio applicati nel resto del mondo sia sostenibile nel
medio termine occorre che sia rispettata la seguente condizione:
i – im = Δy – Δym [6]
in cui:
Δy indica il tasso di crescita del prodotto interno lordo del Paese
considerato
Δym indica il tasso di crescita del prodotto medio mondiale
Occorre avvisare lo studente che, nella prassi finanziaria,
invece, si considera il differenziale di tasso di interesse, all'opposto di
quanto appena enunciato dalla precedente regola, quale
remunerazione del maggior rischio.

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E' evidente che questa concezione finanziaria attualmente


accettata è fortemente messa in discussione dalle regole di
sostenibilità del debito e pone un problema di azzardo morale a carico
del finanziatore: se infatti il finanziatore sa di finanziare un soggetto
che non può sostenere l'onere del finanziamento.

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LE RELAZIONI E LE
POLITICHE ECONOMICHE
INTERNAZIONALI DAL
1975 AD OGGI
Salvatore Della Corte
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Indice

1. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI NEL BLOCCO


SOVIETICO: IL CROLLO DELL'ECONOMIA PIANIFICATA DI FRONTE
ALL'ECONOMIA DI MERCATO -------------------------------------------------------------- 3
2. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI NEL BLOCCO
OCCIDENTALE FINO AL CROLLO DEL MURO DI BERLINO. LA
FINANZIARIZZAZIONE DELL'ECONOMIA E LO SME ------------------------------ 10
3. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI IN SEGUITO
ALL'UNIFICAZIONE TEDESCA: IL RITORNO DELLA TENTAZIONE
TEDESCA ALL'EGEMONIA IN EUROPA E ALLA POLITICA MERCANTILISTA
--------------------------------------------------------------------------------------------------------- 18
4. LE RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI IN SEGUITO
ALL'ADESIONE DELLA CINA AL SOCIALISMO DI MERCATO E
ALL'ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL COMMERCIO --------------------------- 25

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1. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI NEL BLOCCO SOVIETICO : IL
CROLLO DELL'ECONOMIA PIANIFICATA DI
FRONTE ALL'ECONOMIA DI MERCATO

Keynes ne “La fine del laissez-faire (1926), Keynes osserva che


il liberismo economico aveva potuto trionfare per l'assenza di un
pensiero economico coerente di valore, e scrive:
“Ma i principi del laissez-faire hanno avuto altri alleati oltre i
manuali di economia. Va riconosciuto che tali principi hanno potuto
far breccia nelle menti dei filosofi e delle masse anche grazie alla
qualità scadente delle correnti alternative – da un lato il
protezionismo, dall'altro il socialismo di Marx. Queste dottrine
risultano in fin dei conti caratterizzate, non solo e non tanto dal fatto
di contraddire la presunzione generale in favore del laissez-faire,
quanto dalla loro semplice debolezza logica. Sono entrambe esempio
di un pensiero povero, e dell'incapacità di analizzare un processo
portandolo alle sue logiche conseguenze.[...]
Alla fine della seconda guerra mondiale fu subito chiaro che ciò
(il comunismo) sarebbe durato per un tempo molto più lungo di quello
nazista.
Al di là della inconsistenza dal punto di vista economico delle
dottrine marxiste contestate da Keynes, occorre sempre riconoscere in
un testo di politica economica obiettivo il grande impatto storico e
politico che quelle dottrine ebbero e, in parte, continuano ad avere,
soprattutto tra chi non ha studiato approfonditamente il pensiero e lo
sviluppo economico nei secoli.

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Occorre far riferimento all'inconsistenza economica dello


strumento alternativo al mercato, che fu utilizzato nei regimi
comunisti: l'economia pianificata.
L'economia di ispirazione marxista doveva necessariamente
rinunciare al mercato e alla libera iniziativa, aspetti tipici della classe
borghese, individuata come nemica di quella proletaria, che, con la
rivoluzione marxista, andò al potere.
Necessariamente essa doveva rifiutare il mercato, che ha
sempre regolato le transazioni economiche tra gli uomini sin
dall'antichità, doveva rinunciare alla moneta, alla Banca e ai prezzi.
Sappiamo che effettivamente questo è il punto più controverso
del mercato: il suo sistema finanziario.
Lo strumento della politica economica marxista fu l'economia
pianificata, che è un sistema economico che non utilizza il mercato, né
i prezzi, né la moneta.
Per economica pianificata si intende un modello di gestione
dell'intero sistema economico in cui è lo Stato a pianificare
l'allocazione delle risorse tra consumo attuale e investimento per la
produzione futura, senza alcun ruolo della libera iniziativa dei
cittadini.
Nella pratica, le autorità economiche dei paesi comunisti
sovietici elaboravano un piano quinquennale, che consisteva in un
enorme tavola input – output.
Questa tavola macroeconomica era la sommatoria ponderata
delle tavole input – output che pianificavano ciascun settore
industriale e dunque, a livello microeconomico, ciascuna industria di
un determinato settore industriale, stabilendo a priori e senza grandi
possibilità di modifica durante il quinquennio, le tecniche produttive

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da utilizzare, i cittadini lavoratori da impiegare, l'energia necessaria e


le materie prime indispensabili alla produzione.
Il piano quinquennale determinava anche la distribuzione
dell'output tra i consumatori in base ai suoi obiettivi.
Un sistema del genere, grazie alla tavola input – output, ha
una serie di indubbi vantaggi rispetto al governo macroeconomico di
un'economia di mercato, almeno teoricamente e nel breve termine:
a) Lo Stato ha una visione ed un controllo globale dell'economia;
b) può dirigere le risorse nazionali in base agli specifici obiettivi
del Paese e destinare ingenti risorse verso gli investimenti
produttivi;
c) impedisce la disoccupazione: la piena occupazione è
automatica. Si pone invece un problema di allocazione ottima
delle risorse, di produttività del lavoro, di rispetto della dignità
delle persone e delle aspettative dei cittadini, sia in termini di
lavoro da svolgere e di consumi da effettuare.
d) genera elevati tassi di crescita;
e) non esiste il ciclo economico, caratteristica tipica dell'economia
di mercato;
f) non crea squilibri sociali.
Ma, in realtà, il piano quinquennale e la tavola input – output
hanno anche grandissimi limiti, ed è facile dimostrare che tali limiti
sono maggiori di quelli della politica economica del sistema di libero
mercato:
 elaborare un piano economico quinquennale senza errori è un
compito pressoché impossibile, perché occorre raccogliere e
utilizzare le informazioni necessarie alla pianificazione: basta
immaginare il costo da amministrare per elaborare la raccolta,

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l'elaborazione, per elaborare il processo decisionale migliore, la


politica economica da attuare. Basta considerare la burocrazia
mastodontica che occorre per gestire un processo così
complicato e tutte le problematiche principale – agente, che un
sistema del genere determina (il vantaggio cioè del burocrate
di non dire tutta la verità a chi fa il piano, per trarne vantaggi
personali).
 Manca un sistema di prezzi, e questa sola circostanza è in
grado di determinare un uso inefficiente delle risorse; non
esistendo un mercato e, dunque, la concorrenza, è
praticamente impossibile giudicare la produttività di due
tecniche produttive che utilizzano input diversi e/o processi
produttivi diversi, se non c'è alcun modo di determinare il
valore di tali input.
 Non possono esistere piani di incentivazione validi: una
sovrapproduzione è un errore in un piano quinquennale,
perché non si possono eccedere gli output previsti senza input
maggiori, che sarebbero sottratti alle necessità, previste dal
piano, di altri settori produttivi.
 La mancanza della proprietà privata e della libera iniziativa
economica limita fortemente l'incentivo alla partenza di nuove
iniziative economiche.
Questi aspetti, ci spiegano bene i limiti dell'economia
pianificata e ci fanno intravvedere subito difetti più grandi del
sistema fondato sul libero commercio, libera iniziativa, mercati
regolati, banche e moneta.
Questi ultimi sistemi vanno sicuramente emendati e anche
fortemente, ma si mostrano meccanismi sicuramente più efficienti.

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In particolare occorre riflettere sull'assenza nell'economia


pianificata di una banca centrale e sull'assenza del moltiplicatore dei
depositi bancari.
In ogni caso, mentre il mondo occidentale viveva i problemi di
cui presto diremo relativamente al commercio internazionale
mondiale e al dollaro come moneta di riserva internazionale, il
commercio estero del mondo comunista fu sempre asfittico.
Le Nazioni socialiste erano fuori dal sistema di relazioni
internazionali che faceva capo al Fondo Monetario.
In politica economica commerciale internazionale queste
nazioni si ispiravano ai principi del bilateralismo.
Mentre può avere senso, nell'ambito del clima da guerra fredda,
che il bilateralismo fosse applicato negli scambi con le nazioni ad
economia di mercato, per evitare che una potenza capitalistica avesse
un surplus commerciale consistente con un Paese di area comunista,
va chiarito meglio perché tale prudenza era usata dai Paesi comunisti
anche tra di loro.
Il bilateralismo consiste per una Nazione nell'avere la bilancia
degli scambi in pareggio con ciascun altro Paese preso singolarmente.
Ovviamente un sistema del genere è possibile solo quando il
commercio internazionale è sotto stretto controllo statale e comporta
la mancanza di iniziativa privata o l'assoluto controllo su di essa.
Questo era il caso dei Paesi comunisti dell'epoca: il commercio
estero di questi Paesi era completamente nelle mani dello Stato e le
monete nazionali non erano convertibili.
Non si assistette all'affermazione della moneta sovietica
nell'area sotto la sua egemonia, come invece accadeva in occidente con
l'affermazione del dollaro

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Dopo la seconda guerra mondiale l'Unione Sovietica e i Paesi


dell'Europa dell'Est, eccetto la Jugoslavia del maresciallo Tito,
avevano costituito il Comecon. Di fatto esso fu un grande fallimento.
I Paesi dell'Europa dell'Est hanno evitato di realizzare anche il
solo semplice coordinamento tra i rispettivi piani nazionali.
Mentre il commercio e l'economia occidentale progredivano a
passi da gigante, pur con tutti i problemi che andremo ad elencare,
nel frattempo le condizioni economiche dell'Est peggiorarono sempre
più.
Fu per questo, che il blocco comunista entrò progressivamente
in una grave crisi.
In questo quadro va letta l’ascesa al governo di Gorbaciov che
rendendosi conto degli immensi problemi della sua Nazione, attuò la
seguente politica economica:
1. cercò di riformare il sistema comunista dal centro,
ristrutturando il sistema sovietico con un vasto programma di
riforme per combattere la corruzione e le inefficienze e
preparare il paese all'economia di mercato;
2. rendere meno rigido il controllo sull’economia e sulla vita dei
cittadini, concedendo libertà civili e religiose.
3. Lasciare più libertà ai Paesi satellite.
Il suo piano di politica economica era molto impegnativo e
intendeva transitare il Paese dalla fallimentare economia pianificata
a quella di mercato, senza diventare satelliti dell'avversario
statunitense.

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Il piano fallì completamente:


 i Paesi satellite si rivoltarono contro l'URSS:
 Nel settembre del 1989 in Polonia nacque un governo formato
non soltanto da comunisti;
 i comunisti delle Germania Est lasciarono il potere ai
riformisti.
 Il tentativo venne bloccato sia dai conservatori (che avrebbero
preferito perfino un conflitto nucleare prima che gli USA
installassero lo scudo spaziale, sancendo definitivamente la
superiorità statunitense), sia dei progressisti, che volevano un
passaggio scomposto e immediato all'economia di mercato.
Due eventi storici segnarono la fine di Gorbaciov e del suo
tentativo riformista:
 tra il 9 e il 10 novembre 1989 migliaia di Tedeschi poterono
abbattere il Muro di Berlino e riunificate la Germania: con il
crollo del suo simbolo finiva anche la guerra fredda.
 nell’agosto del 1991 i conservatori tentarono un colpo di stato e
destituirono Gorbaciov. Il colpo di stato fallì perché non ebbe
l’appoggio dell’esercito e per la reazione popolare guidata dal
radicale Boris Eltsin. Gorbaciov perse ogni autorità.
Nel dicembre 1991 i presidenti delle repubbliche sovietiche,
sciolsero l’Unione Sovietica: nacque così la Comunità di Stati
Indipendenti (CSI) che respingeva i principi del comunismo.

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2. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI NEL BLOCCO OCCIDENTALE
FINO AL CROLLO DEL MURO DI BERLINO. LA
FINANZIARIZZAZIONE DELL'ECONOMIA E LO
SME

Negli stessi anni in cui avvenivano tutte queste vicende politico


economiche nel blocco sovietico, grossi problemi nelle relazioni
economiche internazionali continuavano in occidente.
La fine della convertibilità del dollaro, la massa autonoma di
miliardi di dollari, che si trovavano nelle riserve bancarie o erano
frutto della commercializzazione del petrolio, erano in cerca di
speculazione e rendimenti sempre più alti, attraverso l'acquisto di
titoli del debito delle Nazioni occidentali. Oltre all'instabilità
determinata dai flussi speculativi, ulteriore ragione di instabilità era
stata costituita dal passaggio dai cambi fissi del nuovo ordine
monetario mondiale concordato a Bretton Woods a quelli flessibili,
vigente dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro USA.
Ricordiamo le tappe del processo di finanziarizzazione
dell'economia:

◦ miliardi di dollari vengono stampati per far fronte alle


guerre che vedono impegnati gli USA durante la guerra
fredda;

◦ questi dollari vengono accolti con favore in tutte le nazioni


occidentali, perché rappresentano la valuta di scambio
internazionale e la valuta di riserva, data la parità aurea
stabilita a Bretton Woods;

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◦ l'aumento delle riserve permette l'aumento della base


monetaria mondiale da destinare al commercio
internazionale;

◦ i dollari vengono dichiarati non convertibili (1971);

◦ i dollari rimangono la moneta di fatto degli scambi


internazionali nonostante l'accordo sui diritti speciali di
prelievo (valuta rappresentata da un paniere di valute);

◦ in un primo momento si assiste alla svalutazione del dollaro


e al riequilibrio della bilancia commerciale all'interno
dell'occidente;

◦ in un secondo momento acquistano sempre più importanza


il reinvestimento delle riserve in dollari e dei proventi della
vendita di petrolio in titoli del debito pubblico americano:
questo mercato diventa in gran parte autonomo rispetto alle
decisioni delle autorità monetarie americane.

◦ Pertanto, per le ragioni viste si assiste a due fenomeni:

▪ ampi movimenti speculativi dei capitali;

▪ differenze nei tassi di inflazione determinata dagli


spostamenti di capitali;

▪ politica dei tassi di interesse per riequilibrare la bilancia


dei pagamenti in caso di deficit della bilancia
commerciale;

▪ politica dei cambi flessibili per evitare l'inflazione.


Cerchiamo adesso di come è possibile che i movimenti
speculativi possano generare inflazione in un sistema di cambi fissi.
Supponiamo che i possessori di petrodollari decidano di
comprare in grande quantità obbligazioni di un determinato Paese,

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che, in quella congiuntura, rappresentano l'investimento ritenuto dai


mercati più sicuro e redditizio.
Con l'acquisto dei titoli di quel determinato Paese, acquistano
anche la valuta di quel Paese e cedono dollari (la valuta degli scambi
internazionali).
Questo comporta, se si tratta di quantitativi significativi, le
seguenti conseguenze sui mercati valutari:
 l'aumento della domanda della divisa di cui si domandano i
titoli;
 l'aumento dell'offerta di dollari;
Cosa comporta tutto ciò sui mercati valutari?
La valuta del paese interessato dagli acquisti si rivaluta.
In caso di cambi fissi o di impegno internazionale del Paese a
non variare il cambio oltre una certa soglia, le autorità monetarie del
Paese interessato alla rivalutazione sono obbligate ad intervenire
vendendo la propria divisa e comprando dollari.
Vendendo la propria divisa si accresce la quantità di moneta in
circolazione e, se il Paese è in piena occupazione, si crea inflazione.
L'alternativa è la rivalutazione della propria moneta, che
riequilibra domanda e offerta delle due valute in questione.
Dopo la fine del sistema dei cambi fissi nato da Bretton Woods,
soprattutto per evitare inflazione, si assistette ad un sistema di cambi
flessibili.
Questo sistema di relazioni internazionali fondate sui cambi
flessibili fu molto diverso da quello esistente durante le due guerre
mondiali, perché le variazioni dei cambi non furono utilizzate
nell'ambito della politica mercantilistica che caratterizzò il periodo tra

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le due guerre, ma nell'ambito di una cooperazione commerciale tra le


economie occidentali, del resto unite in funzione anticomunista.
Si iniziò ad assistere a collaborazioni tra le autorità centrali per
intervenire sui cambi: si parla pertanto di un sistema di cambi
flessibili sporchi, perché le Banche centrali.
È evidente che la completa flessibilità dei cambi ingenera negli
operatori internazionali, come abbiamo già avuto modo di dire in una
precedente lezione, una completa incertezza nei confronti dei futuri
cambi e, in ultima analisi, una completa incertezza sulla convenienza
del commercio internazionale.
Sappiamo che gli operatori economici internazionali possono
coprirsi sui mercati dei cambi con operazioni a termine, cioè possono
fissare oggi un prezzo d'acquisto della valuta che decideranno di
acquistare o meno in una certa data futura, ma si tratta di operazione
costose e talvolta rischiose, la cui rischiosità aumenta all'aumentare
dell'instabilità monetaria internazionale.
Intanto la storia dell'occidente cambiava con l'amministrazione
Reagan.
La sua politica economica interna fu caratterizzata da tre
obiettivi:
 politica della domanda del bilancio espansiva tramite:

◦ riduzione della spesa pubblica attraverso:

▪ riduzione della spesa sociale;

▪ aumento della spesa militare per sconfiggere il


comunismo:
 finanziamento delle spese militari (scudo spaziale in
particolare)

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 finanziamento delle organizzazioni anticomuniste


clandestine all'interno delle nazioni comuniste;

◦ riduzione delle imposte;

◦ deregulation;
 politica monetaria restrittiva.
La politica monetaria restrittiva, introdotta dalle autorità
statunitensi aveva due obiettivi:
 obiettivo interno era quello di ridurre il tasso di inflazione.
 obiettivo esterno: rivalutare il dollaro.
La conseguenza è una forte ascesa dei tassi di interesse, che,
agli inizi degli anni Ottanta, hanno raggiunto livelli senza precedenti.
L'innalzamento dei tassi di interesse americani ha determinato
un enorme richiesta di obbligazioni del tesoro americano; l'aumento
della domanda di titoli denominati in dollari, ha aumentato la
domanda di dollari e, di conseguenza, un forte apprezzamento del
dollaro sui mercati valutari.
Con la rivalutazione del dollaro e l'aumento dei tassi di
interesse, le Nazioni del terzo mondo, indebitate in dollari si
trovarono in forte difficoltà, sia per la rivalutazione del dollaro, che
per l'aumento dei tassi di interesse.
Il debito, contratto in dollari, aumentò enormemente a causa
della rivalutazione del dollaro in termini delle valute nazionali dei
Paesi indebitati.
Ancora una volta, la preoccupazione manifestata da Keynes, di
non ripetere l'errore del Gold Standard, di far coincidere la moneta
internazionale con la moneta nazionale dell'economia capitalista
egemone, si mostrò una preoccupazione fondata.

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Nel Settembre 1985 si decise di effettuare politiche monetarie


tese a far abbassare il valore del dollaro.
Mentre gli Usa passavano alla politica monetaria del dollaro
forte di Reagan, nel frattempo, le nazioni europee, il 13 marzo 1979, si
accordavano per la creazione del Sistema monetario europeo (Sme),
istituito per ridurre i margini di fluttuazione delle monete europee tra
loro e favorire il commercio internazionale.
Dal dopoguerra in poi le sei Nazioni che avevano costituito la
CEE, grazie al piano Marshall, alla politica commerciale favorevole
accordata dagli USA, al recupero di produttività degli impianti
industriali e alla reciproca convenienza nello scambio dei fattori
produttivi (l'Italia forniva persone per le imprese degli altri cinque
Paesi) avevano aumentato enormemente il proprio PIL e questo aveva
aumentato gli scambi internazionali e i processi moltiplicativi.
Dal momento che il regime dei cambi flessibili rappresentava
un ostacolo al processo di scambio internazionale tra questi Paesi e, in
genere, tra quelli dell'area europea, essi stabilirono appunto con lo
Sme di ridurre la fluttuazione reciproca tra le loro monete.
L'elemento centrale dello SME è rappresentato dall'ECU
acronimo dell'espressione inglese European Currency Unit, che,
tradotto in italiano, significa unità monetaria europea.
L'Ecu era una moneta fittizia, che rappresentava una semplice
unità di misura interna ai Paesi aderenti allo SME: l'Ecu infatti
aveva un tasso di cambio con ciascuna moneta nazionale aderente al
sistema.
Questo tasso era detto tasso centrale o corso centrale, perché
era quello intorno al quale il tasso di cambio poteva fluttuare
nell'ambito delle percentuali stabilite.

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Questo tasso centrale era stato fissato per ciascuna moneta


mediante un accordo tra i Governi dei Paesi della Comunità Europea
al momento dell'entrata in vigore dello SME.
Gli accordi prevedevano la possibilità di modificare il corso
centrale concordato al momento dell'entrata in vigore degli accordo
solo in base al raggiungimento di un nuovo accordo tra i Governi.
Secondo gli accordi ciascuna Nazione poteva far fluttuare il
tasso di cambio della propria moneta del 2,25% al di sopra e al di
sotto del tasso centrale. Le banche centrali rispetto a ciascuna altra
divisa europea, che aveva aderito all'accordo.
Per alcuni Paesi, tra cui la Spagna, il Portogallo, l'Italia e
l'Inghilterra, era stata prevista una banda di variazione del corso
centrale più ampia, pari al 6% al di sopra e al di sotto di esso, per un
periodo transitorio.
Fuori di queste bande di oscillazione, le banche centrali dei
Paesi aderenti all'accordo la cui valuta era sottoposta a processi di
rivalutazione o svalutazione, erano obbligate ad intervenire sui
mercati valutari, comprando e vendendo altre monete dei Paesi della
CEE anziché dollari.
In realtà, almeno questo aspetto non era possibile da rispettare,
dato il peso del dollaro all'interno delle riserve valutarie di ciascuna
Banca centrale europea.
Diverse variazioni dei corsi centrali sono intervenute diverse
volte dall'istituzione dello Sme fino alla creazione della moneta unica.
Il motivo per cui ad alcuni Paesi fu concessa una banda di
oscillazione dal corso centrale più ampia rispetto ad altri, aderenti
all'accordo dipese dalla circostanza che queste nazioni erano state

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interessate dal fenomeno, che abbiamo già descritto inflazione da


costi, aumento dei prezzi, aumento dei salari, aumento dei costi.
La spirale costi - inflazione – costi - inflazione aveva generato
una spirale inflazionistica, che rendeva difficile poter mantenere una
banda di oscillazione ristretta.
Il sistema funzionò fino all'unificazione tedesca.
Autorevoli economisti italiani espressero la loro contrarietà
all’entrata dell’Italia nello Sme per ragioni “tecniche”. Secondo questi
eminenti economisti lo Sme era prematuro per l'Italia, perché il
Sistema monetario europeo impediva il piano controllo della politica
monetaria, privando l’Italia di uno strumento fondamentale per la
gestione di eventuali crisi economiche.
Inoltre le produttività del lavoro tra l'Italia e la Germania
erano troppo forti.

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3. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI IN SEGUITO
ALL'UNIFICAZIONE TEDESCA : IL RITORNO
DELLA TENTAZIONE TEDESCA ALL'EGEMONIA
IN EUROPA E ALLA POLITICA MERCANTILISTA

In ogni caso, al di là dei dubbi di Andreotti, molto più


preoccupati furono l'Inghilterra e la Francia.
La sera del 18 novembre del 1989 a Parigi, nove giorni dopo lo
smantellamento del Muro, si riunirono i leader dei dodici Paesi della
Comunità europea.
Il vertice si conclude con un esplicito appoggio al governo
tedesco Kohl, che dieci giorni dopo presenta al Parlamento di Bonn un
progetto in dieci punti per la riunificazione.
La Comunità europea avrebbe accettato la riunificazione della
Germania in tempi rapidi, ma nel contesto di un’accelerazione del
processo di integrazione del gigante tedesco: la Germania avrebbe
dovuto rinunciare al marco e acconsentire la nascita della moneta
unica.
La Germania realizzò l'unificazione politica nel 1990 con un
tasso di cambio sbagliato l marco occidentale = l marco orientale.
Si trattava di una scelta sbagliata, dettata dal
pangermanesimo della Banca centrale tedesca.
La conseguenza della decisione fu quella di comportare
l'innalzamento delle retribuzioni della ex Germania Orientale quasi al
livello di quelle della ex Germania Occidentale, mentre la produttività
del lavoro nel settore industriale della prima restava pari a circa un
quarto della produttività della seconda.

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Tecnicamente il cambio tra i due marchi (Germania dell'Est /


Germania dell'Ovest) doveva essere fissato a 4 marchi orientali = 1
marco occidentale.
L'ondata di marchi occidentali di cui fu invasa la Germania
dell'Est comportò un aumento del reddito monetario globale e quindi
una politica espansiva della domanda (visto che la produzione tedesca
orientale non poteva sostenere i costi dei salari dei dipendenti
dell'Est).
La politica dei redditi espansiva determinò pressioni
inflazionistiche, a cui le autorità monetarie tedesche (le stesse che
avevano sbagliato a stabilire il cambio) hanno reagito con una politica
monetaria restrittiva.
Allo stesso modo di quanto aveva fatto Reagan negli USA, la
politica monetaria restrittiva ha determinato un forte aumento dei
tassi di interesse.
Gli elevati tassi di interesse tedeschi, se hanno da un lato
diminuito l'inflazione, hanno anche, come insegnano gli schemi
Keynesiani, determinato un forte rallentamento dell'attività
produttiva, la chiusura di importanti stabilimenti dell'Est, una forte
diminuzione del reddito nazionale e un conseguente aumento della
disoccupazione.
La bassa domanda tedesca ha determinato una diminuzione
delle importazioni dagli altri Paesi europei e ha propagato la
recessione negli altri Paesi della CEE.
Dal lato della bilancia dei pagamenti, gli elevati tassi di
interesse tedeschi causarono un forte afflusso di capitali dall'estero
verso la Germania riunita e speculazioni valutarie nei confronti delle

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altre Nazioni Europee e in particolare a quelli a moneta debole, come


l'Italia.
Analoga operazione di attacco speculativo fu rivolta contro la
sterlina inglese.
L'Inghilterra e l'Italia nel settembre 1992 erano costrette ad
uscire dallo SME.
Nel luglio 1993, tutti le Nazioni aderenti allo SME,
concordemente, decidevano di allargare la fascia di fluttuazione del
15% intorno al corso centrale concordato.
Per rientrare nello Sme, il governo italiano fu obbligato a una
finanziaria di circa 93 mila miliardi di lire.
Nel frattempo si accelerava come concordato il piano di
unificazione monetario.
Il problema tecnico è che gli accordi di Maastricht trascurarono
importanti aspetti relativi al riequilibrio delle bilance dei pagamenti
dei Paesi aderenti all'euro.
Come noto i parametri di Maastricht sono i seguenti:
 il 3% per il rapporto fra disavanzo pubblico, previsto o effettivo,
e prodotto interno lordo (PIL);
 il 60% del rapporto fra debito pubblico e PIL (può non essere
soddisfatto, a condizione però che il valore si riduca in misura
significativa e si avvicini alla soglia indicata con ritmo
adeguato);
 il tasso medio di inflazione che non può superare di oltre 1,5
punti percentuali quello dei tre Stati membri che, durante
l'anno precedente a quello in esame, hanno conseguito i
migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi;

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 il tasso d'interesse nominale a lungo termine che non deve


eccedere di oltre 2 punti percentuali quello dei tre Stati membri
che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità
dei prezzi.
Lo studente può adesso riconoscere facilmente che i parametri
di Maastricht pongono importanti punti di riferimento in merito alla
politica del bilancio pubblico e alla politica monetaria, ma omettono di
contemplare qualcosa di importantissimo: la gestione della
conseguenze di politica economica sui Paesi dell'Unione di permanenti
squilibri (sia surplus, sia deficit) della bilancia commerciale e
finanziaria dei Paesi aderenti alla moneta unica.
L'accordo di Maastricht nacque dunque monco, senza
considerare la gestione di politica economica interna all'unione
monetaria dei riequilibri delle bilance dei pagamenti dei Paesi
aderenti.
In questo modo è stato violata apertamente la regola
importantissima che gli squilibri della bilancia dei pagamenti
debbano sempre essere temporanei e non sono state previste regole
condivise di comportamento sia per la gestione di eventuali surplus
eccessivi, che nel caso di deficit eccessivi della bilancia dei pagamenti
dei Paesi aderenti all'Euro.
Come hanno recentemente dimostrato fonti americane, l’Italia,
come molti altri Paesi europei, è vittima del surplus della bilancia dei
pagamenti tedesca.
L’export commerciale tedesco non solo non è ridistribuito
all'interno dell'Unione europea, ma finisce con il provocare recessione
nell’economia dei partner.

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Le restanti regole, relative al rapporto tra deficit pubblico e


PIL, debito pubblico e PIL, tasso medio d'inflazione e tasso di
interesse di lungo termine, invece, costringono gli altri Paesi europei
a una ferrea austerità, che autoalimenta la spirale recessiva.
Cerchiamo di spiegare allo studente che non avesse ancora
acquisito immediata consapevolezza dei meccanismi automatici di
riequilibrio delle bilance di pagamento, la successione degli eventi
macroeconomici che l'eccessivo surplus commerciale di un Paese che
adotta l'euro determina nelle economie degli altri Paesi che adottano
la medesima valuta.
Sappiamo che il surplus della bilancia commerciale di una
Nazione equivale ad una maggiore domanda internazionale della
valuta adottata da quella stessa nazione.
Questa circostanza genera due squilibri molto gravi:
 l'euro si rivaluta, nonostante i deficit commerciali della
maggior parte dei Paesi dell'area euro. Ciò comporta una
conseguenza grave:

◦ il meccanismo di svalutazione della valuta e di riequilibro


della bilancia dei pagamenti mediante la svalutazione non
avviene per i Paesi in deficit, perché la moneta invece di
svalutarsi si rivaluta, come se quei Paesi fossero in surplus;
 il surplus della bilancia tedesca non comporta investimenti in
tutta l'area euro, ma esclusivamente in Germania.
Occorre allora comprendere le ragioni di performance così
diverse tra Paesi che hanno la stessa valuta.
Un'analisi del costo del lavoro chiarirà il problema in atto.
In Germania il costo del lavoro industriale sul prodotto è sceso
dal 78% del 1995 al 65% del 2010. Nello stesso periodo, in Italia, il

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costo del lavoro industriale sul prodotto è sceso unicamente dal 68%
al 66% e in Francia, grazie anche alla legge sulla riduzione dell'orario
del lavoro, non è variato affatto ed è rimasto costante al 68%.
Occorre pertanto riconoscere che i tedeschi hanno compreso per
primi che, caduto il muro di Berlino (e con esso il comunismo), non
c’era più bisogno di lasciare alti i salari degli operai.
Così oggi in Germania, il costo del lavoro corre velocemente
verso i livelli giapponesi, dove il costo del lavoro industriale è pari al
50% del prodotto.
I bassi salari tedeschi sono al tempo stesso parte della ragione
del successo commerciale tedesco e della mancata trasmissione
dell'avanzo commerciale al resto dell'area euro.
E' chiaro dunque da quanto detto sopra che si può leggere la
crisi dei debiti sovrani sia come una crisi che dipende dalla mancanza
di competitività e dall'irresponsabilità fiscale dei Paesi del Sud
Europa, come abbiamo dimostrato nella lezione 16, sia come una crisi
collegata alla diversa produttività del lavoro e ai differenziali
salariali, che, data l'adesione alla moneta unica, non possono essere
compensati da aggiustamenti nei tassi valutari reali, non esistendo
più divise nazionali diverse.
Le due letture non sono incompatibili, anzi, la maggior parte
degli analisti ritiene che la crisi dei debiti sovrani europei dipenda da
entrambe le questioni.
Quello che deve essere chiaro è che le attuali regole europee
sono molto severe in merito all'irresponsabilità fiscale, ma non
prevedono regole di comportamento e penali per i consistenti e
ripetuti surplus della bilancia dei pagamenti della Germania.

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Il problema può ridursi a questo: per avere equilibrio e pace nel


mondo occorre che i più bravi e ricchi lo siano per tutti. Sappiano
redistribuire la ricchezza che producono. Altrimenti gli altri si
difendono dalla superiorità del migliore.
L'atteggiamento tedesco non provoca soltanto problemi nei
confronti dei Paesi che adottano l'euro, ma anche con gli Usa.
La stagnazione di una parte consistente dell’Europa non
consente il riequilibrio della bilancia dei pagamenti tra USA e area
euro nonostante la svalutazione del dollaro.
La svalutazione del dollaro è però una necessità irrinunciabile
e indispensabile agli USA, nell'attuale situazione internazionale, per
riequilibrare la bilancia dei pagamenti statunitense mediante un
riequilibrio della bilancia commerciale statunitense.
C’è dunque uno scontro in atto tra gli USA e l’egemonismo
tedesco in Europa.
Da quanto detto sopra, appare chiaro che l’Unione europea oggi
registra un pesante fallimento economico e l’euro, che nelle intenzioni
dei suoi architetti avrebbe dovuto portare stabilità e coesione
economica tra i Paesi europei e superare la questione del
pangermanesimo, è in profonda crisi.

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4. LE RELAZIONI ECONOMICHE
INTERNAZIONALI IN SEGUITO ALL'ADESIONE
DELLA CINA AL SOCIALISMO DI MERCATO E
ALL'ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL
COMMERCIO

Quello che ci interessa in questo testo di politica economica è


comprendere come Deng Xiaoping abbia condotto la Cina ad essere il
Paese della produzione manifatturiera mondiale e cosa sia
esattamente il socialismo con caratteristiche cinesi, che fuori della
Cina comunista può essere definito liberamente socialismo di
mercato.
Deng ebbe il grande merito di attuare una riforma profonda
dell'economia pianificata, usando un linguaggio e metodi che non
produssero l'immediata reazione dei maoisti tradizionalisti.
I passaggi furono i seguenti:
 Deng Xiaoping non parlò mai di fallimento dell'economia
pianificata, ma di perfezionamento del socialismo e della
necessità di farlo diventare un “socialismo con caratteristiche
cinesi”.
 Deng pose in risalto l'idea che socialismo non significa povertà
condivisa, ma ricchezza condivisa. La giustificazione teorica che
fornì per consentire l'apertura al mercato capitalistico fu
questa: “Pianificazione e forze di mercato non rappresentano
l'essenziale differenza che sussiste tra socialismo e capitalismo.
Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché
c'è una pianificazione anche nel capitalismo; l'economia di
mercato si attua anche nel socialismo. Pianificazione e forze di

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mercato sono entrambe strumenti di controllo dell'attività


economica.”: in questo modo, declassando l'economia pianificata
a strumento di controllo dell'attività di mercato e non più
essenza del marxismo e differenza dal capitalismo, apre le
strade all'interno della Cina alla libera iniziativa economica e
al capitalismo;
 Deng non presentava obiezioni a determinate politiche
economiche per la sola ragione che esse erano simili a quelle
attuate nelle nazioni capitaliste, l'importante che fossero
condotte dal Partito comunista.
 Deng fornì la base teorica e il supporto politico per consentire
che avesse luogo una riforma economica, ma attese che le
riforme venissero introdotte dai capi locali, spesso in violazione
delle direttive del governo centrale. In questo modo ebbe un
grande vantaggio tattico:

◦ se le riforme introdotte a livello locale riuscivano egli


proteggeva, forte dei risultati, i capi comunisti che le
avevano introdotte ed esse erano estese ad aree sempre più
ampie, fino a diventare nazionali;

◦ se andavano male, egli le disapprovava insieme al resto del


partito.
Questo meccanismo portava Deng Xiaoping ad avere sempre
più alleati e a dirigere l'intero partito comunista verso l'economia di
mercato, senza che nessuno potesse accusarlo di condurre le riforme e
intestargliene la paternità, che restava collegiale.
Deng applicò i principi della sussidiarietà, lasciando l'iniziativa
e la responsabilità a livello locale e guidò il processo dal centro con

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una gestione macroeconomica tipica dell'economia del mercato e


l'intervento del sistema bancario statale.
Allo stesso modo fu dal basso che vennero promosse le altre due
decisioni che porteranno la Cina ai vertici della produzione mondiale:
 le zone economiche speciali;
 l'adesione all'Organizzazione mondiale del commercio
I risultati dell'adesione della Cina al socialismo di mercato e al
commercio internazionale sono quelli descritti nella tabella della
pagina successiva, in cui si descrivono i grandi avanzi commerciali
registrati dalla Cina e dalla Germania, i consistenti deficit
statunitensi che alimentano tutto il sistema del commercio
internazionale.
Fino a metà 2005 lo stock di riserve dei paesi emergenti era più
basso di quello dei paesi sviluppati. Poi avviene il sorpasso. Da quel
momento la curva schizza in alto e continua a crescere, salvo una
breve flessione fra il 2008 e il 2009.
Quindi sono i paesi emergenti a detenere il volume più alto di
riserve. La domanda di riserve detenute dai quattro Bric, in
particolare dalla Cina, secondo lo studio citato, si impenna
verticalmente fra il 2009 e inizio 2011: risultato è che nel 2000 le
riserve cinesi erano poche centinaia di miliardi di dollari, ora sfiorano
i 4.000 miliardi (3660 miliardi al 15 ottobre 2013). La paura della
Grande Crisi, quindi, ha fatto quasi raddoppiare le riserve di dollari
detenute dai Bric.
Lo studio dimostra quindi che i Bric si riempiono di dollari
proprio mentre gli USA aumentano la base monetaria di 1000
miliardi all'anno.

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Salvatore Della Corte “Le relazioni e le politiche economiche
internazionali dal 1975 ad oggi”

Lo squilibrio della bilancia dei pagamenti americana potrebbe


determinare sfiducia nei confronti del dollaro e questo
determinerebbe una crisi monetaria internazionale.
E' evidente che comunque la Cina ha un dilemma simile a
quello di Triffin: se vuole partecipare al commercio internazionale
deve accettare dollari e avere riserve in dollari; se contribuisse a
svalutare il dollaro svaluterebbe le proprie riserve.
Secondo lo studio del National Bureau of Economic Research,
per evitare il una crisi del sistema, occorre una riforma del sistema
nella quale le riserve della Cina entrano nel sistema mondiale
internazionale.
Nel frattempo deve essere chiaro allo studente che:
 Il dollaro resta la vera moneta di riserva e secondo l'economista
Paul Samuelson, la richiesta di dollari per il commercio
internazionale permette agli Stati Uniti di mantenere un
deficit commerciale persistente senza avere un deprezzamento
della valuta o un riequilibrio dei flussi commerciali.
 La finanziarizzazione dell'economia sottrae risorse agli
investimenti in capitale fisico in tutto il mondo.

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LA POLITICA ECONOMICA
E LA QUESTIONE
DEMOGRAFICA ED
ECOLOGICA
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “La politica economica e la questione
demografica ed ecologica”

Indice

1. L'ECONOMISTA CHE HA INFLUENZATO MAGGIORMENTE LE POLITICHE


ECONOMICHE E DEMOGRAFICHE ATTUALI: THOMAS ROBERT MALTHUS
---------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2. ESTER BOSERUP --------------------------------------------------------------------------------- 11
3. IL CLUB DI ROMA E LE ATTUALI POLITICHE ECONOMICHE NEO
MALTHUSIANE ----------------------------------------------------------------------------------- 16
4. L'IMPRONTA ECOLOGICA ------------------------------------------------------------------- 20
5. CONCLUSIONI ------------------------------------------------------------------------------------ 25

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Salvatore Della Corte “La politica economica e la questione
demografica ed ecologica”

1. L'ECONOMISTA CHE HA INFLUENZATO


MAGGIORMENTE LE POLITICHE ECONOMICHE
E DEMOGRAFICHE ATTUALI: THOMAS ROBERT
MALTHUS

Thomas Robert Malthus è stato un pastore anglicano, padre di


tre figli, cresciuto in una famiglia benestante. A Malthus l'economia
classica e neoclassica deve moltissimi dei propri principi economici.
Visse dal 1766 al 1834.
La sua influenza sul pensiero economico è universalmente
riconosciuta; meno universalmente riconosciuta è l'influenza assoluta
del suo pensiero sulle politiche economiche e demografiche mondiali
attualmente attuate da tutti i governi del mondo.
Quanto all'economia fu il primo economista classico ad intuire
il concetto di utilità individuale, che sarà a fondamento della
riflessione neoclassica inglese e il primo ad accorgersi dell'importanza
della domanda globale. Questo secondo concetto sarà ripreso ed
approfondito da Keynes nella “Teoria generale”.
Malthus è universalmente conosciuto per la sua teoria
economica della popolazione.
Questa teoria fu enunciata per la prima volta nel 1798 nel
breve “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo
sviluppo futuro della società”. Il testo è stato scritto da Malthus in
polemica con i rivoluzionari francesi e il loro slogan “Libertà,
uguaglianza, fraternità”.
I rivoluzionari francesi illuministi individuavano nella cattiva
distribuzione delle ricchezze e nell'esistenza della nobiltà e dell'alto

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Pag. 3 di 26
Salvatore Della Corte “La politica economica e la questione
demografica ed ecologica”

clero la ragione dell'esistenza della povertà e delle ingiustizie sociali e


intendevano sovvertire l'antico ordine per consentire l'accesso al
potere delle classi produttive.
Di contro, l'idea di Malthus è che esiste una ragione, una legge
naturale, che ostacola la possibile diffusione del benessere a tutti gli
uomini. Secondo Malthus la rimozione della nobiltà e del clero (al
quale egli apparteneva) non avrebbe portato l'atteso risultato del
benessere generalizzato.
Secondo Malthus esiste una ineluttabile legge biologica che
spinge la popolazione a crescere più rapidamente dei mezzi di
sussistenza.
Partendo dall'osservazione del comportamento dei coloni
europei del nord America, Malthus si convinse che l'incremento
naturale della popolazione umana fosse esprimibile in una
progressione geometrica di ragione 2.
Cioè con la seguente progressione geometrica: 2, 4, 8, 16, 32, 64,
128, etc.
Viceversa, attraverso lo studio approfondito della tecnica
agricola dei suoi tempi, si convinse che la produzione agricola potesse
crescere nel caso più favorevole in progressione aritmetica di ragione
di due.
Cioè con la seguente progressione aritmetica. 2, 4, 6, 8, 10, 12,
14, etc.
In buona sostanza, secondo Malthus, fra la popolazione umana
e la produzione agricola necessaria a mantenerla si crea con il tempo
un divario.
Nella successiva figura si mettono a confronto le due
progressioni.

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Fig. 1

Ad avviso di Malthus esistono alcuni fenomeni che impediscono


si giunga al punto in cui la popolazione cresce più della produzione
agricola.
Esistono dei fenomeni repressivi che riducono la popolazione e
cioè guerre, epidemie e alta mortalità infantile
Esistono dei fenomeni preventivi, che incidono anch'essi sulla
crescita della popolazione, quali vizio e astinenza dai rapporti
sessuali.
In realtà l'andamento della crescita della popolazione, secondo
Malthus, si stabilizza al di sotto della produzione alimentare a causa
dei fenomeni repressivi e preventivi, come nella figura 2.

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Fig. 2

La teoria che la popolazione cresce più rapidamente dei mezzi


di sussistenza ha dirette ed importanti conseguenze in economica
politica e in politica economica.
In economia politica la teoria determina la legge di equilibrio
del salario reale a livello di sussistenza. Secondo Malthus il salario
d'equilibrio tende al livello di sussistenza: qualsiasi aumento sarebbe
nel tempo annullato dall'espansione della popolazione. Una volta nata
la prole, essa avrebbe ricondotto un salario al di sopra del livello di
sussistenza al livello di sussistenza. La legge del salario d'equilibrio a
livello di sussistenza determina l'insufficienza endemica della
domanda globale dell'economia industrializzata, la sovra produzione,
il sottoconsumo, la diminuzione del saggio di profitto e l'arresto del
processo di sviluppo prima della condizione d'equilibrio.

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In politica economica la teoria determina alcune prescrizioni


quali politiche di controllo dei matrimoni, politiche di controllo delle
nascite, inutilità delle politiche assistenziali, inutilità dell'incremento
salariale.
Le prime due politiche hanno un impatto diretto negativo sulla
crescita della popolazione e fermano, secondo Malthus, la ragione
della povertà. Le politiche assistenziali e quelle salariali sono invece
criticate da Malthus perché non sono in grado di incidere sulla
ragione della povertà, che risiede appunto nell'eccessiva crescita della
popolazione. Gli interventi assistenziali e l'incremento salariale, lungi
dal rimuovere la causa della povertà, la alimentano perché
determinano, anche se indirettamente, l'aumento della popolazione.
In ogni caso, aspetto fondamentale della teoria malthusiana è
la convinzione profonda che la tecnologia agricola determina il livello
della popolazione e non l'inverso.
Può sembrare sconcertante che un pastore anglicano non si
preoccupi assolutamente di aiutare fraternamente gli ultimi della
società e disdegni assolutamente i principi di solidarietà, uguaglianza
e fraternità tra gli uomini.
Principi che intanto si diffondevano con forza e addirittura
violenza nel continente europeo e per la cui diffusione Napoleone
muoverà guerra all'intero continente.
Principi che verranno poi affermati con forza anche alla fine del
secondo conflitto mondiale con la dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo.
In realtà, come abbiamo già avuto modo di osservare, come
tutte le teorie economiche, anche la teoria malthusiana è

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profondamente intrisa di una nuova concezione etica: il


protestantesimo di derivazione calvinista.
In tutte le società precedenti a quella capitalistica, l'economia è
stata intesa come il modo per produrre risorse da impiegare per fini
non economici: il potere economico è stato utilizzato per consolidare il
potere politico, attuare il mecenatismo, ostentare il lusso o il proprio
status sociale o svolgere attività caritatevole.
Nello spirito capitalistico invece il conseguimento di questi fini,
legati a valori extra economici, sono del tutto secondari e trascurabili:
ciò che importa è che il profitto sia investito e sempre crescente.
Il capitalista vero è colui che ottiene la massima soddisfazione
dal conseguimento del profitto in sé, e dal continuo aumento del
profitto.
Come è stata possibile la diffusione di una tale mentalità?
Weber dimostra che una tale mentalità si è diffusa a causa di una
grande rivoluzione socio-culturale: la Riforma protestante.
Lutero aveva dichiarato l'inefficacia delle buone opere per
andare in Paradiso ed essere salvati e aveva elaborato la dottrina
della giustificazione per la sola fede.
Nessun uomo poteva con le proprie azioni salvarsi, ma è Dio,
secondo questa concezione, che, per suo insindacabile giudizio,
giustifica l'uomo, ingiusto per sua natura a causa del peccato
originale. L'unica condizione richiesta all'uomo è che egli abbia fede.
Lutero aveva inoltre negato alla Chiesa e ai sacerdoti la
funzione, assegnata da Gesù alla Chiesa secondo l'interpretazione
cattolica, di salvare l'uomo per mezzo dei sacramenti.
Il battesimo, la confessione, la comunione non permettevano,
secondo Lutero, di ricevere la grazia di Dio. Per Lutero il rapporto tra

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Dio e gli uomini è diretto. La mediazione del sacerdote tra Dio e il


fedele, presente nel cattolicesimo, è cancellata da Lutero.
La condizione umana in cui si trovarono a vivere i protestanti
era però potenzialmente disperante.
Con Lutero, predomina di fatto, una nuova concezione
pessimistica dell’uomo, che, contaminato dal peccato originale, può
fare solo il male. Pertanto anche la sua ragione è corrotta. Tutte le
opere ed i pensieri dell’uomo sono solo peccato. Le buone opere non
esistono per definizione.
Unica salvezza: credere in Cristo che salva.
Dal momento che anche alcuni sacramenti, come ad esempio la
confessione, sono stati aboliti dai protestanti, nasce il problema della
predestinazione.
Come essere “sicuri” di salvarsi a questo mondo? Quale segno ci
indica che siamo predestinati?
L’altro riformatore protestante, Calvino, risolve il problema in
questo modo.
Dio ha lavorato per la creazione. Quindi anche l’uomo lavori, se
ha successo nel lavoro, e ciò lo si vede dal denaro che riesce a fruttare,
allora, questo è il segno che è predestinato alla salvezza.
Non è che il successo e il denaro lo salvino - resta la fede in
Cristo che salva- ma gli danno la sicurezza psicologica di essere nel
numero dei salvati.
Nasce così il capitalismo moderno, dove il denaro non viene mai
utilizzato a fini egoistici, per il rigore della religione protestante, ma
continuamente reinvestito per produrre ancora più denaro. Da ciò
deriva anche una componente ideologica che giustifica la

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discriminazione: il povero e il debole non sono dunque tra i


predestinati.
Di conseguenza il povero è colui che è fuori dalla grazia di Dio.
Chi sa quali colpe egli ha commesso per essere stato punito con la
povertà. La figura del povero, che nel cattolicesimo è la presenza di
Cristo e aiutando il quale si acquisiscono i meriti per il Paradiso, ora è
invece il segno della disgrazia divina e della predestinazione
all'inferno.
Aiutarlo non serve a nulla ed anzi va contro la volontà di Dio.
Al di là della presunta legge della crescita della popolazione
maggiore della crescita dei mezzi di sussistenza, il presupposto etico
alla teoria malthusiana risiede nella nuova concezione della ricchezza,
tipica della mentalità protestante e conseguenza diretta del grande
scandalo morale e della deriva clericale cattolica e dello scandalo delle
indulgenze.

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2. ESTER BOSERUP

Le teoria economica malthusiana è stata abbandonata nel corso


del 1900, in considerazione del clima culturale derivante dal
positivismo, nato in Francia nella prima metà dell'800.
Questa corrente di pensiero, trainata dagli indubbi successi
economici derivanti dalle rivoluzioni industriali, si diffuse nella
seconda metà del secolo a livello europeo e mondiale influenzando
anche le teorie economiche, con l'assoluta fiducia nel progresso
tecnologico in tutti i campi, compreso quello della produzione
agricola.
Del resto l'introduzione di nuove tecniche produttive in
agricoltura rese possibile una produzione alimentare impensabile ai
tempi di Malthus.
Il Positivismo con la sua assoluta fiducia nella scienza e nel
progresso scientifico-tecnologico non poteva certamente accettare la
teoria malthusiana.
Ma la formulazione teorica più convincente alternativa alla
teoria malthusiana si deve a Ester Boserup.
Il particolare campo di studio della Boserup è stato lo studio
delle condizioni che consentono lo sviluppo agricolo e quello
economico.
L'opera della Boserup sfida apertamente l'assunzione risalente
alla legge della popolazione di Malthus e ancora ritenuta valida
secondo la scuola neomalthusiana, che sia la tecnologia agricola a
determina il livello della popolazione e non l'inverso.
Boserup, nei suoi studi sostiene e dimostra che, all'inverso di
quanto ritenuto da Malthus, è la crescita della popolazione a

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determinare la nascita di nuovi metodi di produzione agricola e,


tramite l'innovazione, l'aumento della produzione agricola stessa.
Un importante punto dei suoi studi è la legge della necessità,
ovvero "la necessità è la madre dell'invenzione".
Dunque la teoria della Boserep è opposta alla teoria
malthusiana, mentre nella teoria di Malthus il livello della
popolazione e il suo tasso di crescita dipendono dall'offerta
complessiva di cibo, che è funzione dei metodi di produzione agricola
utilizzati e che non può adeguarsi ad incrementi della domanda, nella
teoria di Boserup, all'opposto, i metodi utilizzati in agricoltura si
adeguano alla domanda di cibo della popolazione e la produzione
agricola è in grado di aumentare al variare della domanda di cibo.
La formalizzazione successiva mostra chiaramente come il
quadro teorico dei due autori sia il medesimo e come, conclusioni così
diverse, dipendano esclusivamente dall'introduzione di ipotesi
aggiuntive da parte dei due autori.
 teoria malthusiana:

Da = f P
Oa = t * (C, L, T)
Da ≤ Oa
in cui P è il livello della popolazione;
Da è la domanda complessiva di generi alimentari;
Oa è l'offerta complessiva di generi alimentari;
t è la tecnologia utilizzata per produrre i generi alimentari;
C è il capitale utilizzato (semi, attrezzature agricole, animali,
macchine, etc.)
L è il lavoro utilizzato;

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T sono gli ettari utilizzati per la produzione agricola;


In Malthus vengono introdotte le seguenti condizioni che:
t * è dato: la tecnologia è data
T: i nuovi terreni hanno una produzione marginale decrescente,
sono meno fertili
Da ≤ Oa : la domanda alimentare non può crescere al di sopra
del livello compatibile con la produzione agricola data.
Oa ha una produttività marginale decrescente e può crescere
molto limitatamente.
Le suddette condizioni assicurano nello schema malthusiano
che, quando la popolazione cresce al di sopra del livello compatibile
con la produzione agricola, la popolazione in eccesso morirà.
La politica economica che ne deriva è la seguente: occorre
evitare che la popolazione cresca al di sopra del livello compatibile con
la produzione agricola possibile.

 Teoria della Boserup:


Da = f P
Oa = t (C, L, T)
O a = f Da
in cui P è il livello della popolazione;
Da è la domanda complessiva di generi alimentari;
Oa è l'offerta complessiva di generi alimentari;
t è la tecnologia utilizzata per produrli;
C è il capitale utilizzato (semi, attrezzature agricole, animali,
macchine, etc.)
L è il lavoro utilizzato;
T sono gli ettari utilizzati per la produzione agricola;

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Boserup introduce le seguenti condizioni:


la tecnologia non è data;
T i nuovi terreni hanno una produzione marginale costante o la
tecnologia può aumentare la loro produttività
Oa l'offerta alimentare dipende dalla domanda alimentare e
varia al variare della domanda.
Le suddette condizioni assicurano che, quando la popolazione
cresce al di sopra del livello compatibile con una data produzione
agricola, la produzione agricola crescerà e la popolazione in eccesso
non morirà.
La politica che ne deriva è la seguente: la popolazione può
crescere.
Possiamo anche dare una rappresentazione grafica della teoria
della Boserup, che può essere rappresentata come in figura 3.

Fig. 3

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Il grafico 3 mostra appunto quanto formalizzato nella teoria di


Boserup per cui la produzione alimentare non raggiunge mai
l'incapacità di sfamare la popolazione, perché ogni volta che si sta
avvicinando al cosiddetto punto di catastrofe malthusiano, c'è
un'invenzione ed un conseguente incremento della produzione di cibo.
Nel grafico 4 abbiamo sovrapposto le due teorie per rendere più
chiara la lo differenza allo studente.

Fig. 4

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3. IL CLUB DI ROMA E LE ATTUALI POLITICHE


ECONOMICHE NEO MALTHUSIANE

Le teorie malthusiane hanno ripreso vigore a partire dalla


seconda metà del secolo scorso con il Club di Roma, che venne fondato
nell'aprile del 1968 dall'imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo
scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel e leader
politici e intellettuali fra cui Elisabeth Mann Borgese. Il nome del
gruppo nasce dal fatto che la prima riunione si svolse a Roma, presso
la sede dell'Accademia dei Lincei, a Villa Farnesina.
L'opera più importante del club è senza dubbio il “Rapporto sui
limiti dello sviluppo”, pubblicato nel 1972, il quale prediceva che la
crescita economica non potesse continuare indefinitamente a causa
della limitata disponibilità di risorse naturali, specialmente petrolio, e
della limitata capacità di assorbimento degli inquinanti da parte del
pianeta: le previsioni del rapporto riguardo al progressivo
esaurimento delle risorse del pianeta erano tutte relative a momenti
successivi al primo ventennio del XXI secolo, il prossimo futuro che
stiamo per vivere.
L'assunto fondamentale del club di Roma è il seguente: la Terra
non è infinita né come serbatoio di risorse (terra coltivabile, acqua
dolce, petrolio, gas naturale, carbone, minerali, metalli, ecc.), né come
discarica di rifiuti. La crescita della popolazione e della produzione
industriale comporta sia il consumo delle risorse, sia l'inquinamento.
Il risultato più probabile atteso, secondo il Club di Roma, è un declino
improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità
industriale.

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Per quanto le tesi del Club di Roma non hanno avuto


sufficiente spazio nei testi di politica economica, esse hanno di fatto
ispirato e ispirano completamente le politiche demografiche ed
economiche degli Stati nazionali e delle grandi organizzazioni
multilaterali internazionali.
Nascono dalle tesi del Club di Roma le politiche di controllo
delle nascite e le politiche cosiddette neo malthusiane attualmente
applicate in tutto il mondo.
La politica economica neo-malthusiana è una politica
economica che, riallacciandosi al pensiero di Thomas Malthus,
afferma la necessità del controllo e della limitazione del numero delle
nascite mediante pratiche anticoncezionali e abortiste, in modo da
contenere il livello della popolazione al di sotto del livello
ecologicamente compatibile.
Non si ha attenzione esclusivamente alla possibile insufficienza
della produzione di generi alimentari, ma al complesso delle risorse
non rinnovabili disponibili, in particolare idrocarburi e alla gestione
ambientale dei rifiuti.
Il neo-malthusianesimo riprende dunque in chiave moderna il
pensiero di Malthus, non concentrandosi unicamente sulla produzione
alimentare.
Le politiche di controllo della nascita attualmente utilizzate per
impedire la crescita della popolazione nei Paesi occidentali sono:
1. la diffusione di modelli culturali che comportano il ritardo e la
diminuzione dei matrimoni;
2. la diffusione della contraccezione;
3. la legalizzazione dell'aborto.

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Politiche di controllo demografico sono state perseguite in tutto


il mondo occidentale, tanto che l'obiettivo del controllo della crescita
demografica e l'attuazione delle politiche malthusiane debbano
considerarsi completamente raggiunti a livello mondiale.

Fig. 5

Come si vede dal grafico della figura 3 il tasso di crescita della


popolazione mondiale è decisamente crollato ed è sceso agli attuali 1%
mondiale ed è previsto che scenderà a circa lo 0,5% nel 2050.
La politica economica di controllo demografico nei regimi
democratici è passata attraverso nuovi modelli e stili di vita,
attraverso l'educazione sessuale, una politica di incentivi alla
diffusione dei contraccettivi e la legalizzazione dell'aborto.

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Per far comprendere la cultura prevalente attualmente in


materia di controllo delle nascite all'interno dell'Unione Europea, può
essere utile la consultazione della “Relazione del Parlamento Europeo
sulla salute e i diritti sessuali e riproduttivi del 26 settembre 2013”
(2013/2040(INI).

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4. L'IMPRONTA ECOLOGICA

Abbiamo visto che, a differenza di Malthus, i neo malthusiani


non concentrano la propria preoccupazione sulla incapacità della
produzione alimentare di adeguarsi agli incrementi della popolazione,
ma in generale sull'esaurimento delle risorse non rinnovabili. Nella
loro analisi, la questione centrale è l'esaurimento degli idrocarburi.
Accanto a questa preoccupazione, esiste quella della limitata capacità
di assorbimento degli inquinanti da parte del pianeta.
Recentemente si è cercato di misurare quali siano le risorse
naturali necessarie per assorbire gli inquinanti.
Per misurare il consumo di queste risorse, Mathis Wackernagel
e William Rees, hanno introdotto il concetto di impronta ecologica.
Ma cos'è l'impronta ecologica e cosa misura esattamente?
L'impronta ecologica misura l'area biologicamente produttiva di
mare e di terra necessaria per:
 rigenerare le risorse consumate da una popolazione
umana;
 assorbire i rifiuti prodotti.

Come si calcola?
Si considera l'utilizzo di sei categorie principali di territorio:
terreno per l'energia: si calcola cioè la superficie di terra
necessaria per assorbire l'anidride carbonica prodotta dall'utilizzo di
combustibili fossili;
terreno agricolo: si calcola la superficie arabile utilizzata per la
produzione di alimenti per consumo umano e animale ed altri beni
necessari all'esistenza umana;

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pascoli: si calcola la superficie destinata all'allevamento;


foreste: si calcola la superficie destinata alla produzione di
legname;
superficie edificata: si calcola la superficie dedicata agli
insediamenti abitativi, agli impianti industriali, alle aree per servizi,
alle vie di comunicazione;
mare: si calcola la superficie marina dedicata alla crescita di
risorse per la pesca.

Confrontando l'impronta (cioé i consumi) di un individuo (o


nazione, regione, provincia, comune, etc) con la quantità di terra
disponibile pro-capite si può capire se il livello di consumi
dell'individuo o del campione (o nazione, regione, provincia, comune,
etc) è sostenibile o meno: cioè se esiste sufficiente territorio per
assorbire i rifiuti e rigenerare le risorse consumate: l'impronta
ecologica mette in relazione la quantità di ogni bene consumato (es.
grano, riso, mais, cereali, carni, frutta, verdura, radici e tuberi,
legumi, ecc.) con una costante di rendimento espressa in kg/ha
(chilogrammi per ettaro). Il risultato è una superficie espressa
quantitativamente in ettari.
Si può esprimere l’impronta ecologica anche da un punto di
vista energetico, considerando l’emissione di diossido di carbonio
espressa quantitativamente in tonnellate, e di conseguenza la
quantità di terra foresta necessaria per assorbire le suddette
tonnellate di CO2
A partire dal 1999 il WWF aggiorna periodicamente il calcolo
dell'impronta ecologica nel suo Living Planet Report.

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Fig. 6

Quella sopra raffigurata è la situazione al 2007 (fonte:


published on 13 October 2010 by the Global Footprint Network).

Gli studi del WWF sono fondamentali per comprendere la


validità o meno delle attuali politiche neo malthusiane. Si studi
accuratamente la tabella 1.

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I,E, I,E, rispetto alla terra

Austria 44,9 -3,12

Stati Uniti 99,6 -7,82

Australia 66,6 -4,82

Svezia 66,1 -4,32

Canada 77,6 -5,82

Francia 55,6 -3,82

Italia 44,2 -2,42

Spagna 55,4 -3,62

Argentina 22,3 -0,52

Cina 11,6 0,18

Egitto 44,2 -2,42

Etiopia 00,8 0,98

India 00,8 0,98

Mondo 11,78 0

La tabella precedente indica nella prima colonna gli ettari di


terra pro capite necessari per rigenerare le risorse consumate e
assorbire i rifiuti prodotti. Nella seconda colonna gli ettari mancanti
rispetto a quelli posseduti.
La tabella è molto importante perché dimostra che la
rigenerazione delle risorse consumate non è in alcun modo correlato
con la popolazione o con il tasso di crescita della stessa.
La rigenerazione delle risorse consumate dipende dal modello
di sviluppo e dal modello economico esistente.

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Gli attuali problemi ecologici a cui è sottoposto il mondo, non


dipendono solo dalla pressione demografica ma da:

 un modello economico fondato sull'uso di idrocarburi e non


sulle energie rinnovabili;
 il mancato sviluppo di innovazioni consistenti in agricoltura;
 un eccesso di utilizzo nei paesi sviluppati dell'uso della carne
ed un limitato uso della soia;
 la mancanza di una cultura che sviluppi le costruzioni in
altezza e le concentri nei centri abitati;
 il mancato sviluppo dell'allevamento del pesce in mare aperto

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5. CONCLUSIONI

Il premio nobel Amartya Sen ha sostenuto che non esiste


attualmente un problema di insufficiente produzione alimentare e che
il problema della fame mondiale risiede in una cattiva distribuzione
della produzione alimentare. Problemi di insufficiente produzione
alimentare, secondo il premio nobel, potrebbero registrarsi qualora i
BRICS seguissero l'attuale dieta alimentare diffusa in occidente, ma
sono in corso due fenomeni che lasciano presagire che tale problema
non si registrerà:
 è in corso una nuova rivoluzione agraria in conseguenza dello
sviluppo di importanti scoperte scientifiche nel settore
agroalimentare;
 è in corso una controrivoluzione alimentare con la
valorizzazione dei cibi vegetali ed una riduzione nelle diete
dell'uso di carne.

Senza dubbio tutti i dati scientifici sopra riportati rendono


ancora meno comprensibili da un punto di vista razionale le attuali
politiche economiche demografiche e l'assunzione acritica del modello
neomalthusiano diffusa in tutte le nazioni del mondo.
Ma esiste una considerazione di carattere economico ancora più
importante per essere sostanzialmente critici nei confronti delle
politiche neomalthusiane:
 l'incidenza positiva del tasso di crescita della popolazione sulla
propensione al consumo (agendo positivamente sul
moltiplicatore degli investimenti) e sulla crescita della
domanda permanente (agendo positivamente sull'acceleratore).

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Salvatore Della Corte “La politica economica e la questione
demografica ed ecologica”

Infatti, una crescita della popolazione che possa essere


sufficientemente nutrita ha sempre un impatto positivo in termini
economici se avviene nell'ambito di un modello di sviluppo sostenibile.

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ECONOMIA E QUESTIONE
AMBIENTALE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Economia e questione ambientale”

Indice

1. GLI OBIETTIVI DELLE SCELTE ------------------------------------------------------------- 3


2. I FATTORI DI INTERAZIONE ----------------------------------------------------------------- 5
3. LE TAPPE DELLA COSCIENZA AMBIENTALE ----------------------------------------- 6
4. LA POSIZIONE DEGLI ECONOMISTI ------------------------------------------------------ 9
5. SVILUPPO, CRESCITA, SVILUPPO SOSTENIBILE ------------------------------------ 11
6. LA SOSTENIBILITÀ E IL CAPITALE ------------------------------------------------------ 12
7. DEFINIZIONI DI SOSTENIBILITÀ ---------------------------------------------------------- 13
8. IL RUOLO DELL’OPERATORE PUBBLICO ---------------------------------------------- 15

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Giovanni Cannata “Economia e questione ambientale”

1. GLI OBIETTIVI DELLE SCELTE

In un corso di politica economica ci occupiamo dell’ambiente per


la considerazione come bene collettivo e come bene complessivo.
In quanto bene collettivo l’ambiente è patrimonio dell’intera
umanità ed il suo uso è sottoposto alla responsabilità di tutti. Ciò
implica in chiave politica la necessità di tener conto di risvolti
comportamentali individuali e sociali, una utilizzazione fondata
sull’etica della responsabilità, ma anche un’etica della solidarietà
fondata sulla partecipazione solidale alla gestione e alla
conservazione delle risorse. L’ambiente come bene complessivo nel
senso che pur se composto di parti esso deve essere utilizzato in modo
unitario a struttura e funzionamento globali non separabile in parti,
dove la parte confluisce nel tutto ed il tutto deriva dallo scenario
evolutivo delle parti.
Inoltre occorre tener conto del fatto che esso è in continuo
divenire il che ha come corollario la necessità di avere cura della sua
utilizzazione nel tempo garantendo i diritti delle generazioni future
alla sua fruizione
L’ambiente come scenario di vita e come tale prodotto di
coevoluzione tra forze naturali e forze sociali, tra sistemi economici,
sistemi antropici, sistemi ecologici, sistemi giuridico sociali.
Questa concezione che mette insieme uomo e società è centrale
per le implicazioni di politica economica e sta alla base del concetto di
sviluppo sostenibile sul quale si tornerà in questa stessa lezione.
Preliminarmente è utile riprendere la definizione che ne ha dato nel
1987 la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo del
Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente che fa riferimento a

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uno sviluppo in grado di assicurare “ il soddisfacimento dei bisogni


delle generazioni presenti senza compromettere la possibilità delle
generazioni future di realizzare i propri. Una definizione che
sottolinea la compatibilità tra sviluppo delle attività economiche e
salvaguardia dell’ambiente.

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2. I FATTORI DI INTERAZIONE

I fattori che possono incidere significativamente con l’ambiente sono


 La popolazione per l’impatto derivante da eccesso di
causalità rispetto a serbatoi limitati di risorse che ne
fanno un dato di scarsità
 La tecnologia per l’impatto negativo associabile ai
processi di utilizzazione delle risorse che talvolta
possono sfociare in sfruttamento, ma anche per le
potenzialità di restauro e riabilitazione di cui la
tecnologia può essere portatrice.
 Un ruolo centrale giocano le istituzioni ai vari livelli
locali, nazionali e internazionali per l’impatto che
possono avere sulle decisioni di politica economica
 Le strutture politiche e sociali insieme alle istituzioni di
governo sono tutti i soggetti che rappresentano la
collettività sia dal punto di vista della rappresentatività
amministrativa e politica sia in quanto comunità di
persone che vivono nei territori di riferimento.
 Queste istituzioni, che sono poi fattori di interazione
ambientale fanno riferimento ai valori ideali, alle
percezioni psicologiche alle caratterizzazioni
sociologiche e demo antropiche dei sistemi ambientali
ai quali si riferiscono.

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3. LE TAPPE DELLA COSCIENZA AMBIENTALE

Di norma si fa risalire all’inizio degli anni’ 70 del secolo scorso


la stagione in cui si forma la coscienza ambientale che trova nella
pubblicazione del MIT per il club di Roma la prima pietra miliare.
Le Conferenze dell'ONU che si succederanno nel tempo
costituiscono le pietre miliari nella politica ambientale e nello
sviluppo sostenibile a livello internazionale.
La Conferenza mondiale sull’ambiente tenutasi a Stoccolma nel
1972 ha segnato l'inizio della politica ambientale internazionale. Il 5
giugno, data d'inizio della Conferenza, è ormai sancita come Giornata
mondiale dell'ambiente. A Stoccolma la comunità internazionale
riconosce per la prima volta la necessità di cooperare a livello
internazionale a favore della protezione dell'ambiente.
In quella sede al diritto degli Stati di sfruttare le proprie
risorse naturali viene contrapposto l'obbligo di fare in modo che le
attività antropiche svolte sul proprio territorio non creino danni
ambientali ad altri Stati.
A seguito della Conferenza di Stoccolma, è stato istituito il
Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP) e viene
costituita l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente. Qualche
tempo dopo, ad opera della Commissione mondiale per l’ambiente e
sviluppo viene pubblicato il cosiddetto Rapporto Brundtland nel quale
dopo aver evidenziato le preoccupazioni comuni e le sfide collettive da
attuare vengono identificati gli sforzi comuni e declinati i principi
legali proposti per la gestione ambientale e lo sviluppo sostenibile.
All’inizio degli anni’ 90 la comunità internazionale ravvisa la
necessità di una nuova presa di posizione sull’ambiente e a venti anni

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da Stoccolma nel 1992 viene convocata a Rio Conferenza su ambiente


e sviluppo nella quale sono stati formulati o sviluppati alcuni principi
fondamentali, come il principio di prevenzione («chi inquina paga») o
il concetto di sviluppo sostenibile. Nel corso di tale Conferenza la
comunità internazionale ha approvato un programma globale
denominato Agenda 21, alcune convenzioni quali quella sul
cambiamento climatico e la convenzione per la protezione delle specie
e sulla diversità biologica oltre alla formulazione di Principi sulle
foreste.
Trascorreranno ancora dieci anni e nel 2002 a Johannesburg si
tiene il vertice mondiale dello sviluppo sostenibile con l’obiettivo di
verificare i progressi realizzati in campo ambientale ed elaborare
indirizzi e norme utili per lo sviluppo sostenibile, ma anche per
presentare iniziative volontarie di collaborazione tra governi,
istituzioni, imprese e società civile.
La Conferenza produrrà una c.d. Dichiarazione di Rio. Il
risultato principale del vertice mondiale è stata l’applicazione di un
modello di sviluppo sostenibile mediante nuove priorità e nuovi
programmi di attuazione.
Sono state rafforzate le istituzioni e sono stati formulati degli
obiettivi per temi specifici come i prodotti chimici.
Venti anni dopo Rio si tiene di nuovo a Rio la Conferenza
dell’ONU sullo sviluppo sostenibile 2012 nel corso del quale la
comunità internazionale ha reiterato il proprio impegno per uno
sviluppo sostenibile. Con la Decisione di Rio di natura programmatica
ed emblematicamente dedicata a “Il futuro che vogliamo” sono stati
avviati o rafforzati processi utili per la gestione dell’ambiente a livello
nazionale o internazionale. A rio 2012 l’economia verde è stata per la

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prima volta messa nell’agenda mondiale concependola come strategia


verso l’ attuazione nell’economia di un nuovo paradigma che cerchi di
alleviare minacce globali come il cambiamento climatico, la perdita di
biodiversità, la desertificazione, l’esaurimento delle risorse naturali
promuovendo al contempo un benessere sociale ed economico.
Sono inoltre state adottate misure per rafforzare le condizioni
quadro istituzionali ed in questo senso si è deciso di elaborare degli
obiettivi per uno sviluppo sostenibile (Sustainable Development
Goals, SDG) da inquadrare nell’ambito dell’Agenda post 2015 e cioè il
quadro strategico internazionale sullo sviluppo sostenibile che
prenderà il posto del Millennium Development Goals.
Inoltre è stato rafforzato il Programma delle Nazioni Unite per
l'ambiente (UNEP) introducendo l'adesione universale che includerà
in futuro tutti i Paesi.

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4. LA POSIZIONE DEGLI ECONOMISTI

La posizione degli economisti classici (Ricardo, Malthus, J. S.


Mill) è quella che si ritrova alla base dell’individuazione dei limiti
alla crescita economica che sono identificati nella limitatezza delle
materie prime offerte dalla natura (Club di Roma, 1972, I limiti allo
sviluppo). Gli economisti con vario approccio hanno messo in luce il
contrasto tra andamento lineare della produzione di beni e l’
andamento esponenziale della popolazione, estendendolo al più
generale problema delle risorse.
Alla base di tutta l’evoluzione che nel tempo avrà lo studio
dell’economia dell’ambiente sono da considerare le cinque variabili
fondamentali: popolazione, formazione del capitale, risorse naturali,
produzione di alimenti, inquinamento.
Il declino della quantità di alimenti disponibile pro capite, il
declino della produzione industriale, l’oscillazione della crescita
economica e l’incremento della popolazione sono le grandezze con le
quali fare i conti e che talvolta hanno portato alla ricerca di strategie
di sviluppo basate sullo stato stazionario o quando non hanno fatto
parlare di crescita zero o di decrescita.
In tutte le analisi del rapporto tra economia ed ambiente
occorre comunque tener conto del ruolo giocato dalla tecnologia e
dall’innovazione. Nel tempo il ruolo che le considerazioni ambientali
hanno assunto nell’evoluzione della società ha condotto ad un
crescente interesse degli economisti a superare visioni più tradizionali
del sistema economico. Pur mantenendo l’impianto fondato sulla
sovranità del consumatore sul ruolo del mercato e dei prezzi come
meccanismo sentinella dell’economia, gli economisti hanno introdotto

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nuove attenzioni volgendo l’interesse alla ricerca di quello che è il


valore dei beni extra- mercati come le risorse ambientali o il livello di
inquinamento accettabile e gli strumenti di politica economica che
possono essere impiegati per conseguire una migliore qualità
ambientale.

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5. SVILUPPO, CRESCITA , SVILUPPO


SOSTENIBILE

In questo sintetico approccio alle dimensione ambientale nella


politica economica occorre evidenziare che lo sviluppo economico è
concetto più ampio di quello di crescita economica. Il primo contiene il
secondo, ma tiene anche conto di tutti i cambiamenti che i processi di
crescita storicamente comportano: tecnologia, preferenze, istituzioni,
capitale umano, dinamiche settoriali, ecc.
Lo sviluppo economico è per definizione un processo di ricerca
continuo di nuovi equilibri anche rispetto all’uso delle risorse
ambientali che, nel corso dello sviluppo, vengono sostituite e/o
riciclate, perdono importanza o ne assumono maggiore, etc
Se per sviluppo si intende crescita del benessere e dell’equità,
questo non dipende solo dalla quantità di risorse ambientali
disponibile, ma dalla qualità della loro gestione come distribuzione,
conservazione-recupero e sostituzione
Pertanto si vuole affermare che sostenibilità non può essere
semplicemente mantenere costante la “quantità” di risorse
ambientali/naturali
In sintesi combinare il concetto di sviluppo economico con
quello di sostenibilità ambientale significa adottare una definizione
più ampia (e anche più generale) di sviluppo rammentando la già
citata definizione: “E’ sostenibile quello sviluppo nel quale l’uso delle
risorse ambientali da parte della generazione presente per accrescere
il proprio benessere, non compromette la possibilità di crescita del
benessere delle generazioni future”

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6. LA SOSTENIBILITÀ E IL CAPITALE

Per una più incisiva elaborazione del concetto di sostenibilità


pare utile soffermarsi su una migliore conoscenza del concetto di
capitale passando in rassegna le diverse forme di capitale nella
definizione di economia.
Ci si riferisce innanzitutto al capitale economico, definito come
la generica capacità produttiva di un’economia, si compone di capitale
manifatturiero, dotazioni immateriali e risorse naturali che sono
sfruttate o sviluppate per l’uso nei processi di trasformazione
economica.
Occorre citare poi il capitale ambientale inteso come stock
totale di risorse rinnovabili (utilizzate e non all’interno del processo
produttivo), terreni allo stato semi-naturale e naturale, fattori
ecologici quali il ciclo dei nutrienti e le condizioni climatiche, che
rappresenta la parte di capitale naturale che determina la generale
qualità dell’ecosistema.
Il capitale naturale può essere definito come la risorsa naturale
di base di un’area geografica, che si compone del capitale ecologico e
degli stock di risorse non-rinnovabili.
A queste forme del capitale va aggiunto il capitale socio
organizzativo che rappresenta la dimensione aggregativa di abitudini,
norme, ruoli, traduzioni, regole, politiche, leggi, dinamiche sociali e
istituzionali.
Da ciò deriva il capitale totale, aggregato di capitale umano,
risorse non-rinnovabili, capitale ecologico, dotazioni immateriali di
capitale sociale

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7. DEFINIZIONI DI SOSTENIBILITÀ

Molteplici sono le definizioni di sviluppo sostenibile fornite


dalla rete ed alle quali si rinvia. Qui appare utile soffermarsi su
alcune specificazioni dando per definitivamente acquisita la
definizione già richiamata fornita dalla Commissione Bruntland.
Il concetto di sostenibilità debole si fonda sull’idea che è
possibile rendere intercambiabile il capitale naturale con il capitale
artificiale la cui somma rimanga costante nel tempo. La sostenibilità
debole richiede mantenere intatta la capacità produttiva
generalizzata di un sistema e quindi con il progressivo utilizzo delle
risorse naturali si determina nel tempo una perdita di peso del
capitale naturale a favore di quello artificiale. La sostenibilità debole
richiede che il welfare potenziale derivante dalla base di capitale
complessivo rimanga intatto
La sostenibilità forte è una visione meno ottimistica in
relazione all’utilizzo dell’ambiente da parte dell’economia.
Secondo l’‘Ecological Economics’ l’economia è un sottosistema
aperto appartenente ad un ecosistema globale finito e non crescente,
dove devono essere rispettati dei vincoli in merito alla capacità
dell’ecosistema di svolgere le funzioni ambientali di base .
La sostenibilità molto forte è la versione più restrittiva della
sostenibilità forte e in questo caso si richiedono una serie di vincoli di
stazionarietà che devono essere imposti su scala macroeconomica, a
garanzia di alcune funzioni ambientali, e in relazione alla dotazione
di risorse.
Gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono 17 articolati in 169
target specifici creati come obiettivi globali di sviluppo sostenibile

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delle nazioni unite. Il criterio di sostenibilità forte è in ogni caso


economicamente illogico e porta a concentrarsi sulle condizioni che
soddisfano il criterio di sostenibilità debole.

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8. IL RUOLO DELL ’OPERATORE PUBBLICO

Alla luce di quanto fin qui esaminato lo studente ha colto che


l’obiettivo per l’operativo pubblico è quello di migliorare la gestione
delle risorse e assicurare uno stock costante di risorse naturali alle
generazioni future.
In questo senso la promozione dello sviluppo implica una
politica attiva in varie dimensioni dell’attività economica.
Innanzitutto migliorare l’efficienza dei mercati (dare un prezzo
alle risorse che ne sono prive o correggere i prezzi inefficienti in modo
che ne riflettano la reale scarsità). Il prezzo può essere basato sia sul
costo marginale di sfruttamento della risorsa sia sul costo marginale
della perdita della risorsa per le future generazioni. L’aumento dei
prezzi per una migliore considerazione del valore ambientale è un
segnale per i consumatori e per il sistema produttivo.
Un’altra linea di politica economica è quella di incentivare
l’innovazione tecnologica per svincolare il benessere dal consumo di
risorse ambientali, creando ricchezza senza che l’aumento del PIL
corrisponda ad un pari consumo ambientale.
Un utile supporto alla definizione di nuove politiche o
comunque ad una migliore valutazione dell’implementazione delle
politiche ambientali può derivare dall’introduzione di nuovi sistemi di
contabilità che in molti Paesi è stato posto in essere per tenere in
conto le interazioni tra economia e ambiente sulla base di un sistema
di indicatori capaci di misurare l’eco efficienza dei sistemi economici,
sull’intensità dell’uso delle risorse naturali nei processi produttivi.

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La politica economica può concorrere ad attuare politiche


ambientali più efficienti ed articolato anticipando l’emergere dei
problemi attraverso strumenti di carattere fiscale quali tasse,
imposte, diritti.
Ormai da molti economisti si ritiene necessario migliorare il
coordinamento tra le politiche ambientali ed economiche sia a livello
di obiettivi sia di strumenti.
L’affermarsi dei processi di internazionalizzazione delle
economie sollecita inoltre gli attori della politica economica ed in
generale le istituzioni ad attuare una più diffusa cooperazione a
livello internazionale, soprattutto tra paesi industrializzati e paesi in
via di sviluppo.

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LA POLITICA ECONOMICA
PER L’AMBIENTE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica economica per l’ambiente”

Indice

1. GLI STRUMENTI DI POLITICA DELL’AMBIENTE ------------------------------------- 3


2. LA TASSAZIONE AMBIENTALE ------------------------------------------------------------- 5
3. GLI STANDARD AMBIENTALI --------------------------------------------------------------- 7
4. I PERMESSI DI INQUINAMENTO ----------------------------------------------------------- 10

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1. GLI STRUMENTI DI POLITICA DELL’AMBIENTE

La politica di intervento pubblico per l’ambiente si è evoluta nel


tempo ed è rappresentabile in tre fasi.
Una prima fase si è imperniata sulle cosiddette politiche di “
comando e controllo” che, alla luce di vincoli e procedure stabilite
dall’operatore pubblico hanno istituito una rete di agenti chiamati a
gestire il controllo delle norme fissate dall’autorità pubblica. Questi
strumenti sono associati ad attività di sanzionamento e fanno
riferimento a valori diversi da quelli ottimali in senso economico. Si
definiscono pertanto dei comportamenti sottoposti ad azione di
controllo pubblico.
Una seconda fase si è basata su piani e incentivi di settore,
cioè sull’individuazione di piani di azione e specifici incentivi
settoriali che hanno previsto strumenti economici e normativi
prevalentemente rivolti alle imprese.
Nella terza fase più attuale ci si è mossi verso l’integrazione
delle dimensioni ambientale e delle relative politiche nella
programmazione dello sviluppo con l’obiettivo di orientarle dando
concretezza alla realizzazione del cosiddetto sviluppo sostenibile.
La produzione normativa a livello europeo ha condotto poi alla
messa a punto di metodologie di valutazione e di controllo integrale
dell’inquinamento anche in relazione al maggior riconoscimento ai
cittadini del diritto alle informazioni ambientale.
In sintesi oltre a tutti gli interventi di diffusione delle
conoscenze e delle informazione ambientale la politica ambientale si
fonda su strumenti per il controllo dell’inquinamento che si possono

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classificare in strumenti basati su incentivi economici e strumenti di


comando e controllo.
Accanto a questi strumenti principali occorre almeno
menzionare gli strumenti economici cosiddetti volontari, i codici di
autoregolamentazione, l’analisi del ciclo di vita dei prodotti, l’audit
ambientale, la certificazione ambientale, l’etichettaggio ambientale,
l’eco-budgeting, il green procurement e cioè l’approvvigionamento
pubblico di beni qualificati dal punto di vista ambientale.

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2. LA TASSAZIONE AMBIENTALE

La tassazione ambientale è il costo al quale sono assoggettati


coloro i quali generano inquinamento per ogni unità di inquinamento
eguale al danno causato dalla determinazione dell’inquinamento
ottimale.
La tassazione ambientale ha come obiettivo il raggiungimento
di un livello ottimale di inquinamento mediante l’internalizzazione
dei costi sociali dell’attività di produzione (attraverso cioè la
correzione del sistema dei prezzi).
Si tratta cioè di far ricadere sull’inquinatore in modo corretto il
costo esterno dell’inquinamento in modo che il mercato evolva verso
un equilibrio socialmente sostenibile.
In questo modo senza comportamenti coercitivi da parte
dell’amministrazione si perviene al controllo dell’inquinamento in
quanto le libere scelte di cittadini e imprese saranno influenzate dalla
diversa struttura dei prezzi)
La tassa ambientale è determinata attraverso la stima del
danno monetario causato dall’attività inquinante ipotizzando una
coincidenza tra danno e costo esterno.
È perciò necessario conoscere le funzioni di danno monetario,
ossia il valore del danno da inquinamento associato ad ogni livello di
attività economica (e al relativo livello di inquinamento)
La tassazione registra problemi di applicazione per diverse
motivazioni.
Innanzitutto occorre valutare l’incertezza sulla equità della
tassazione. Un settore si opporrà sempre all’introduzione di nuove
imposte. Un timore diffuso è che la tassa andrà oltre la tassazione

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dell’inquinamento va ricordata inoltre l’inadeguata conoscenza della


funzione di danno. Molti economisti ritengono che sia assai difficile
stimare concretamente le funzioni di danno e che, anche se si fosse
certi di alcune stime, sarebbe possibile trovare altri esperti che
proporrebbero stime diverse dei danni, lasciando aperta la strada a
disputare circa il fondamento legale di un’ imposta.
Occorre specificamente ricordare che si può sottovalutare il
danno ambientale, ma anche occorre tener conto dei costi marginale
di abbattimento. Le imposte ambientali in Italia fanno riferimento ad
almeno tre categorie e cioè imposte sull’energia, imposte sui trasporti,
e più in generale imposte sull’inquinamento, come nel caso di depositi
in discariche, tassazione su sostanze gassose o liquide, controllo delle
emissioni sonore.
Le imposte ambientali possono essere definite imposte di scopo
in quanto il gettito viene definito a specifici interventi di protezione
ambientale.

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3. GLI STANDARD AMBIENTALI

La forma più diffusa di controllo dell’inquinamento consiste


nella definizione di Standard ambientali.
Gli standard ambientali rappresentano una tipologia di
intervento per controllare le emissioni e i rifiuti dannosi tanto per
l’uomo quanto per l’ambiente sulla base di norme giuridiche.
Gli standard sono diverso tipo e cioè standard di emissione,
standard relativi alle qualità di un corpo ricettore, standard di
processo e di prodotto.
Con gli standard di emissione si fissa la quantità massima di
sversamento per ogni unità di materia in un corpo ricettore quale
l’acqua o l’aria e richiedono un efficiente controllo e una
penalizzazione certa in caso di trasgressione.
Gli standard di qualità di un corpo ricettore fissano la
concentrazione massima di inquinamento totale in un corpo ricettore
prevalentemente di tipo liquido, lo standard richiede l’abbinamento a
una tassa sulle emissioni.
Lo standard di prodotto riguarda la qualità ambientale dei
prodotti e fa riferimento alle nocività ambientali che possono aver
luogo al momento del consumo ( come nel caso della benzina senza
piombo, delle sostanze incluse negli spray dei pesticidi).
A questo riguardo non è del tutto agevole l’individuazione dello
standard che deve tener conto delle necessità di non determinare
eccessi di pressione sul mondo produttivo.
Con la definizione di uno Standard si cerca di fissare dei livelli
massimi di concentrazione delle sostanze inquinanti nell’ambiente
(es. X microgrammi per metro cubo, oppure una percentuale di

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ossigeno disciolto nell’acqua, o un livello di decibel che non devono


essere superati). Generalmente gli Standard vengono fissati con
riferimento a criteri connessi alla salute dell’uomo (si impone che non
venga superato un certo livello di sostanze inquinanti per mantenere
l’acqua potabile, oppure si richiede che le concentrazioni di anidride
solforosa e di particelle in sospensione siano mantenute a livelli tali
da non poter danneggiare l’apparato respiratorio). Solo in modo
casuale uno Standard determinerà una soluzione economicamente
efficiente. In caso di applicazione di uno standard, l’impresa non ha
nessun incentivo a ridurre l’inquinamento oltre quanto stabilito dallo
standard poiché non va incontro ad alcuna sanzione qualora rispetti
lo standard stesso.
Può essere desiderabile sotto il profilo sociale incoraggiare gli
inquinatori ad investire in tecnologie che consentano di ridurre
l’inquinamento ad un costo più basso nell’approccio in termini di
Standard questo incentivo non esiste, mentre con un’imposta
l’inquinatore paga sempre l’imposta e quindi, ha un incentivo ad
investire in tecnologie che evitino di pagare l’imposta.
I costi amministrativi necessari per definire e gestire un
sistema basato sugli Standard ambientali sono in genere alti
E’ necessario inoltre un sistema di monitoraggio e deve essere
predisposto e realizzato un sistema di sanzioni per chi trasgredisce lo
Standard.
L’onere della ricerca scientifica in campo ambientale è affidata
alla pubblica amministrazione (definizione dello standard, effettuare
il monitoraggio, determinare le tecnologie relative al monitoraggio,
ricerca di soluzioni tecnologiche che consentano di ridurre le emissioni
inquinanti).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è


coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n.
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Gli standard costituiscono uno strumento efficace nel caso di


danni all’ambiente irreversibili o comunque molto gravi. Essi pertanto
sono accettati dagli ambientalisti per motivi etici, dalle forze politiche
per una maggiore familiarità con gli strumenti economici.
Il limite degli standard è che essi non sollecitano
adeguatamente alla messa a punto di una strategia utile ad abbattere
l’inquinamento.

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4. I PERMESSI DI INQUINAMENTO

I permessi di inquinamento si fondano sul diritto di proprietà


all’uso di un bene connesso al teorema di Coase. Secondo questo
approccio la regolamentazione dell’inquinamento potrebbe avvenire
direttamente tra inquinatori ( titolari di un diritto ad inquinare) e
inquinati (titolari di un diritto a non essere inquinati).
Una volta fissato un livello aggregato “accettabile” di
inquinamento o di qualità ambientale, l’autorità preposta alla
regolamentazione emette e distribuisce i corrispondenti permessi di
inquinamento negoziabili agli inquinatori che possono quindi
utilizzarli o per inquinare o per venderli sul mercato.
La caratteristica fondamentale dei permessi di inquinamento
consiste nella loro trasferibilità. Nella regolamentazione diretta, il
regolatore decide quale sia il livello di inquinamento per ogni
partecipante, mentre con i permessi, affida al mercato l’allocazione
degli stessi tra gli inquinatori.
L’autorità di governo ambientale può distribuire gratuitamente
i permessi ad esempio sulla base delle emissioni storiche ovvero può
attivare un’asta per distribuirle.
Gli inquinatori con alti costi di abbattimento hanno la
possibilità di acquistare permessi e, quindi, di inquinare di più di
quanto farebbero nel caso della regolazione diretta, mentre quelli con
bassi costi di abbattimento trovano conveniente vendere i propri
permessi abbattendo le proprie emissioni inquinanti più di quanto
farebbero altrimenti.
Rispetto all’imposizione di standard individuali inderogabili, un
sistema di permessi trasferibili si rivela potenzialmente vantaggioso

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sia per gli inquinatori con alti costi di abbattimento sia per quelli con
costi bassi.
Gli inquinatori con alti costi di abbattimento trovano
conveniente acquistare permessi dal momento che il loro prezzo è
inferiore ai costi che dovrebbero sopportare per abbattere
autarchicamente le emissioni inquinanti.
Gli inquinatori con bassi costi di abbattimento trovano
conveniente cedere permessi ricevendo un corrispettivo superiore al
costo che devono sostenere per abbattere le proprie emissioni.
La letteratura ha classificato tre diversi sistemi di permessi:
 il sistema dei permessi basato sui punti ricettori
(ambient permit system) APS;
 il sistema di permessi di emissione (emission permit
system) EPS;
 il sistema di controbilanciamento dell’inquinamento
(pollution offset system) POS.
Il sistema dei permessi basato sui punti ricettori APS utilizza
permessi definiti sulla base dell’esposizione in corrispondenza del
punto ricettore (punto in cui viene ricevuto l’inquinamento).
Gli Standard di qualità potrebbero variare secondo il punto
ricettore, nel senso che non c’è alcun bisogno che ogni punto ricettore
abbia lo stesso Standard di qualità ambientale. I permessi devono
essere ottenuti sul mercato come permessi in corrispondenza del
punto ricettore, con la conseguenza che lo scambio non avverrà sulla
base di uno a uno, ma bisognerà scambiare i permessi sulla base del
numero di permessi richiesto per permettere un dato livello di
concentrazione dell’inquinamento in corrispondenza del punto
ricettore.

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Ciascun inquinatore quindi, può trovarsi di fronte mercati


troppo complessi secondo i diversi punti ricettori, e di conseguenza
prezzi differenti.
Con il sistema EPS i permessi vengono emessi sulla base della
fonte di emissione, ignorando gli effetti che possano produrre le
emissioni sui punti ricettori.
In una determinata regione o zona, l’inquinatore avrebbe un
solo mercato in cui trattare ed un unico prezzo, che il prezzo di un
permesso per emettere sostanze inquinanti in quella regione: lo
scambio dei permessi è su base di uno a uno, anche l’EPS non evita
alcuni problemi, in quanto, non discriminando in base ai punti
ricettori, è improbabile che riesca a distinguere le fonti sulla base dei
danni e risulterà inefficiente.
E’ probabile che ogni area subisca una concentrazione
dell’inquinamento in alcune piccole aree specifiche – i cosiddetti punti
caldi – dove i livelli di concentrazione superano lo Standard: dal
momento che l’EPS è basato sulle emissioni che avvengono su un’area
più vasta, non riuscirà a tenere conto della violazione dello Standard
in tutti i punti
La semplice ridefinizione dell’area in modo da far rientrare il
punto caldo all’interno di una zona più piccola, alla quale viene poi
riapplicato lo Standard equivale, in realtà, a trasformare l’EPS,
nell’APS
Con il sistema di contro bilanciamento dell’inquinamento POS
occorre tener conto che l’EPS funziona sulla base di uno scambio uno
ad uno all’interno di una zona definita, mentre non avviene alcuno
scambio al di fuori di quella zona che con l’APS si tiene conto di tutti i
punti ricettori, mentre con l’EPS si potrebbero produrre dei danni al

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di fuori dell’area in questione e tali danni sarebbero destinati ad


essere ignorati
Per superare tali difficoltà è stato suggerito un terzo sistema di
contro bilanciamento dell’inquinamento.
I permessi vengono definiti in termini di emissioni, lo scambio
avviene all’interno di un’area definita ma non sulla base di uno a uno;
inoltre lo Standard deve essere rispettato in corrispondenza di tutti i
punti ricettori. Il valore di scambio dei permessi, viene determinato
dagli effetti che le sostanze inquinanti esercitano in corrispondenza
dei punti ricettori
Il sistema POS combina le caratteristiche sia dell’EPS (i
permessi sono definiti in termini di emissioni e non avviene alcuno
scambio al di fuori dell’area stabilita), sia dell’APS (il tasso di scambio
dei permessi è definito dagli effetti delle emissioni inquinanti sui
punti ricettori circostanti).
In sintesi di questo tema si sottolinea che i vantaggi dei
permessi negoziabili sono la minimizzazione dei costi, la possibilità di
tener conto di nuovi
entranti, le opportunità offerte a coloro che non inquinano, la
possibilità di tener conto dei costi di aggiustamento anche attraverso
l’innovazione tecnologica.

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POLITICA ECONOMICA
PER AGRICOLTURA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Politica economica per agricoltura”

Indice

1. LE MOTIVAZIONI DELL’INTERVENTO PUBBLICO ---------------------------------- 3


2. GLI INTERVENTI --------------------------------------------------------------------------------- 5
3. GLI INTERVENTI DI CONTROLLO QUANTITATIVO --------------------------------- 9

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1. LE MOTIVAZIONI DELL ’INTERVENTO


PUBBLICO

Molteplici sono le ragioni dell’intervento pubblico in agricoltura


e si sono fondate e consolidate nel tempo per la debolezza e la
vulnerabilità economica e sociale del settore caratterizzata da alta
sensibilità agli eventi naturali e macroeconomici, dall’instabilità dei
prezzi dei prodotti con ripercussioni sui redditi degli agricoltori.
La struttura frammentata dell’offerta agricola: è connotata da
numerosità degli offerenti, indipendenza degli offerenti, limitato
volume individuale dell’offerta (differentemente da altri settori in cui
prevale una struttura più concentrata dell’offerta sia sul mercato dei
prodotti che sul mercato dei fattori) con conseguente impossibilità da
parte dei produttori agricoli di controllare l’offerta. A ciò si deve
aggiungere la rigidità della domanda dei prodotti agricoli in termini
di reddito e in termini di prezzo.
Un’altra motivazione forte è associata alla bassa elasticità
dell’offerta agricola nel breve periodo ovviamente differente a seconda
della lunghezza dei cicli ed alla importanza del tipo di settore. A ciò si
deve aggiungere il carattere naturale della produzione agricola, della
rigidità di molti fattori della produzione quali la dotazione di capitali,
in particolare la deperibilità dei prodotti o gli elevati costi di
conservazione. Molte produzioni agricole sono congiunte.
L’agricoltura è poi connotata da stagionalità dei flussi di
produzione. Se si escludono alcune produzioni animali come quelle del
latte, la produzione agricola non può essere ottenuta in tutti i periodi
dell’anno, ma è un’offerta puntuale e non continua nel tempo, che
segue precisi ed immodificabili ritmi biologici.

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La produzione puntuale deve fronteggiare invece un consumo


che è continuo nel tempo; ovviamente la possibilità di saldare
produzione e consumo è legata alla conservabilità del prodotto (es.
cereali, es. ortofrutta fresca).

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2. GLI INTERVENTI

Molteplici sono gli interventi possibili per lo sviluppo


dell’agricoltura, tanto intervenendo dal lato della domanda quanto dal
lato dell’offerta. Soffermiamoci dapprima su quelli dell’offerta.
Gli interventi diretti sono il controllo delle importazioni, la
stabilizzazione e garanzia dei prezzi agricoli alla produzione, il
controllo e la gestione degli stocks, l’aggiustamento della produzione.
Interventi indiretti possono essere praticati attraverso la
concentrazione dell’offerta e miglioramento del rapporto tra
produttori e primi acquirenti: con le forme più differenti dell’
aggregazione quali cooperazione, associazionismo, interprofessione.
Interventi sono possibili sul commercio estero: attraverso
l’impiego di dazi fissi o dazi mobili, di contingenti, di sussidi
all’esportazione, di tasse all’esportazione.
Ai fini del controllo dei prezzi possono essere attuate misure di
stabilizzazione dei prezzi e di garanzia dei redditi agricoli, così come il
sostegno e la stabilizzazione dei prezzi, l’ integrazione dei prezzi,
garanzia del reddito, controllo e gestione degli stocks mediante
interventi di ammasso pubblico e ammasso privato.
La politica economica può intervenire anche con aggiustamento
della produzione attraverso l’impiego di quote di produzione, o
programmi di non coltivazione della terra (set aside), così come gli
incentivi alla riconversione produttiva. Non vanno dimenticati tra le
altre garanzie di collocamento dell’offerta gli aiuti alimentari.
Particolare attenzione deve essere dedicato agli interventi sulle
importazioni costituiti da dazi, tasse imposte alla frontiera tanto nella
forma di dazi fissi per unità di prodotto importato quanto dazi ad

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valorem: calcolati in maniera percentuale sul valore delle


importazioni contingenti di importazione.
Ad essi vanno aggiunte limitazioni quantitative alle
importazioni determinata dall’Autorità Pubblica, su base annuale o
pluriennale, in termini di quantità da importare, su cui si possono
applicare anche dei dazi. L’uso dei contingenti è affiancato talvolta
dalla concessione di licenze di importazione a soggetti autorizzati
(commercianti, industriali, trasformatori), da contingenti calcolati
secondo “calendari di importazione” e da altre restrizioni alle
importazioni come barriere non tariffarie (regolamenti sanitarie).
L’attenzione dedicata agli interventi merita approfondimenti
specifici per ciascuno di essi:
 dazio: nel lungo periodo i produttori aumentano i loro
ricavi, aumenta la produzione interna, si riducono le
importazioni, i consumatori diminuiscono il consumo, lo
Stato incassa l’imposizione del dazio.
 contingenti (senza dazio): nel lungo periodo i produttori
aumentano i loro ricavi, aumenta la produzione interna,
si riducono le importazioni, i consumatori diminuiscono
il consumo generalmente i contingenti sono abbinati ai
dazi per impedire rendite ai commercianti.

Gli interventi sulle esportazioni si realizzano con sussidi alle


esportazioni denominati restituzioni mediante riduzione dell’offerta
interna, necessaria per sostenere il prezzo di un prodotto così come
tramite incentivi alle esportazioni. Gli
effetti dei sussidi alle esportazioni sono costituiti da un
aumento del prezzo sul mercato interno, con conseguente riduzione

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del consumo interno e trasferimento di reddito dai consumatori ai


produttori, trasferimento di reddito dall’erario ai produttori. Possono
essere imposte tasse all’esportazione mediante imposizioni doganali
alle esportazioni con l’obiettivo di garantire l’autoapprovvigionamento
interno a prezzi ragionevoli per i consumatori.
In generale derivano problemi dal controllo sul commercio
estero: quali la riduzione della domanda interna, un maggior costo per
lo Stato (nel caso di produzione eccedente). Ma più in generale si
realizza una distorsione del commercio mondiale, ed isolamento dal
mercato internazionale. A fronte di ciò vanno segnalati vantaggi con
efficaci misure per aumentare la produzione interna. Il contenimento
di lavoro burocratico limitato a un controllo per la gestione delle
politiche alla frontiera.
Le questioni più critiche degli interventi sui mercati mondiali
sono legati ai problemi in sede GATT-WTO (organismi che
promuovono la liberalizzazione del commercio internazionale): che si
muovono nell’ottica della riduzione e se possibile eliminazione di tutte
le restituzioni all’esportazione.
Tra gli interventi vanno citate le misure di stabilizzazione dei
prezzi e dei redditi agricoli attraverso il sostegno degli stessi con
l’impiego di prezzi garantiti. Questo tipo di interventi pone tuttavia
problemi legati alla fissazione del livello di prezzo e quindi di
protezione oltre alla necessità di fronteggiare casi di penuria e di
eccedenza.
In ogni caso si realizzano costi amministrativi elevati per lo
stoccaggio e lo smaltimento delle eccedenze. Ampio esempio di questo
approccio si ritrova nella politica dei mercati della CEE il cui impatto

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Giovanni Cannata “Politica economica per agricoltura”

è che il costo delle misure di interventi gravano sui consumatori e più


in generale sui contribuenti.
Un’altra famiglia di interventi riguarda da parte dell’operatore
pubblico l’integrazione dei prezzi ottenuto dei prodotti (deficiency
payment).
In questo caso resta libera l’importazione dal mercato
mondiale; l’Autorità Pubblica si limita ad integrare il prezzo dei
prodotti interni allo scopo di raggiungere un “prezzo obiettivo” ed
aiuti forfettari ad ettaro o a capo.
Tutto questi tipi di misure non sono indenni di effetto: nel caso
in cui il produttore aumenta i ricavi, questo si traduce in un prezzo
per i consumatori più elevato.
Nel caso dell’integrazione dei prezzi, il produttore aumenta i
ricavi, il consumatore non viene toccato dalla misura e lo Stato
sopporta il costo diretto. Nel caso di aiuti forfettari ad ettaro o a capo
il produttore deve garantire la coltivazione o l’allevamento, ma non è
legato alla quantità offerta.

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Giovanni Cannata “Politica economica per agricoltura”

3. GLI INTERVENTI DI CONTROLLO


QUANTITATIVO

Da ultimo occorre soffermarsi sugli interventi di controllo


quantitativi dell’offerta.
Lo Stato può organizzare direttamente o indirettamente
l’ammasso della produzione nel caso di produzioni non deperibili. Il
controllo dell’offerta avviene tramite opportune operazioni di
stoccaggio al tempo della raccolta o nelle annate più favorevoli,
adeguando l’offerta al momento della domanda, allo scopo di
stabilizzare i prezzi.
La gestione degli stocks avviene direttamente da parte
dell’Autorità Pubblica (ammasso pubblico) attraverso un’agenzia a ciò
deputata o avviene in modo indiretto mediante incentivi allo
stoccaggio da parte di privati (ammasso privato).
Gli interventi di controllo quantitativo sono costituiti dalle
quote di produzione, da stabilizzatori, da Quantità Massime
Garantite (QMG) di sostegno, di decisioni di non coltivazione della
terra (set aside) e da incentivo alla riconversione produttiva.
Le quote di produzione sono costituite da quantitativi massimi
per il quale è possibile ricevere il finanziamento dell’autorità
pubblica. E’ questo il caso del sostegno comunitario es. nel settore del
latte, tramite prelievo supplementare, o nel settore dello zucchero con
riferimento a limiti di garanzia. Divieti di nuovi impianti es. nel
settore vitivinicolo sono un altro esempio.
La non coltivazione della terra (set aside) viene praticata con
riferimento al settore dei seminativi: il set aside può essere
classificato in base all’obbligatorietà, come set aside volontario, set

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Giovanni Cannata “Politica economica per agricoltura”

aside obbligatorio, ovvero in base all’avvicendamento come set aside


rotazionale e set aside fisso; in base all’obiettivo come strumento di
controllo dell’offerta ovvero accoppiando al controllo dell’offerta
finalità ambientali.
Altri strumenti di controllo quantitativi sono i premi di
estirpazione nel settore vitivinicolo o nel settore della frutta, premi
alla estensivizzazione, gli aiuti alla riconversione con fini ambientali,
a questi vanno aggiunti gli aiuti alla trasformazione merceologica es.
come accade nel settore vitivinicolo con gli aiuti alla trasformazione in
succo d’uva e mosti concentrati, gli aiuti alla trasformazione in alcol,
gli aiuti alla produzione di energia da biomasse e aiuti alle colture
energetiche.
In conclusione occorre ricordare gli interventi indiretti volti a
facilitare la concentrazione dell’offerta, nonché a migliorare il
rapporto tra produttori e primi acquirenti attraverso gli strumenti
della cooperazione, associazionismo, interprofessione cooperazione,
associazioni dei produttori e accordi interprofessionali.

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LA POLITICA AGRICOLA
COMUNE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica agricola comune”

Indice

1. OBIETTIVI DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNE --------------------------------- 3


2. CRONOLOGIA DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNE---------------------------- 4
3. LA POLITICA DELLE STRUTTURE --------------------------------------------------------- 5
4. LA POLITICA DEI MERCATI ------------------------------------------------------------------ 7
5. LA CRISI E LA RIFORMA DELL PAC ------------------------------------------------------- 9
6. AGENDA 2000 -------------------------------------------------------------------------------------- 11

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Giovanni Cannata “La politica agricola comune”

1. OBIETTIVI DELLA POLITICA AGRICOLA


COMUNE

La politica agricola comune è stata una delle prime politiche


comunitarie ed ha svolto un ruolo significativa nel tempo anche per il
volume di risorse impiegate.
Gli obiettivi generali di politica agraria furono definiti nel
Trattato di Roma del 1957 che all’art. 39 affermava la necessità di:
- Incrementare la produttività dell’agricoltura;
- Migliorare il tenore di vita della popolazione agricola
tramite un miglioramento del reddito
- Stabilizzare i mercati;
- Garantire la sicurezza degli approvvigionamenti.
Nella seconda parte dell’articolo 39 si indicavano altri due
aspetti importanti da affrontare quali tener conto della struttura
sociale e della disparità tra le diverse regioni agricole; della stretta
relazione esistente tra agricoltura e resto del sistema.
Al momento dell’avvio della politica agricola comune l’Europa a
6 stati era deficitaria in tutti i settori in tutti i comparti produttivi, le
condizioni di vitta degli agricoltori erano precarie, i prezzi alla
produzione ed al consumo erano variabili e presentavano notevoli
differenze tra Paese e Paese, gli scambi tra Paesi erano ridotti.

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Giovanni Cannata “La politica agricola comune”

2. CRONOLOGIA DELLA POLITICA AGRICOLA


COMUNE

Di seguito si riporta una sintetica cronologia della PAC:


1957 Trattato di Roma
1962 Nascita della PAC
’70-’80 Gli anni della crescita
1992 Il passaggio da sostegno al mercato al sostegno ai
produttori
’90 un accresciuto interesse sulla qualità
2000 La nuova attenzione sullo sviluppo rurale
2003 Riforma della PAC e scorporo delle sovvenzioni dalle
produzioni
2005 Apertura della PAC al mondo
2007 Ampliamento
2011 Riforma della PAC compatibilità economia e ambiente
Nella prima fase di attuazione della PAC la stessa si articola in
tre grandi branche quali la politica delle strutture, la politica dei
mercati, la politica delle relazioni esterne.
Al finanziamento della politica agricola comune la CEE
provvede fin dall’avvio con l’istituzione di un fondo il FEOGA (Fondo
europeo di orientamento e garanzia in agricoltura) articolato in due
sezioni e cioè la sezione orientamento dedicata al finanziamento della
politica delle strutture e la sezione garanzia destinata a finanziare la
politica dei mercati o dei prezzi.

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Giovanni Cannata “La politica agricola comune”

3. LA POLITICA DELLE STRUTTURE

Le politiche di ammodernamento strutturale dell’agricoltura


avrebbero dovuto essere, nelle intenzioni dei padri fondatori della
Comunità Economica Europea, il braccio forte della politica agricola
comunitaria, l’intervento di lungo periodo con cui promuovere e
accompagnare i grandi processi di cambiamento del settore agricolo
nel quadro dello sviluppo economico complessivo.
La politica dei prezzi e dei mercati, al contrario, era stata
inizialmente concepita come un intervento di natura meramente
congiunturale e a breve termine.
La politica dei prezzi ha ben presto preso il sopravvento,
installandosi al centro della PAC e catturando per lungo tempo oltre il
95% della relativa spesa.
A partire dal Libro verde del 1985 e dalla riflessione della
Commissione su “Il futuro del mondo rurale” del 1988, si è avviato un
processo di riequilibrio della politica delle strutture e di inserimento
delle politiche strutturali in agricoltura nella più ampia politica di
sviluppo rurale.
La politica di sviluppo rurale viene intesa come politica di
sviluppo integrato delle aree rurali, nel cui ambito gli agricoltori e
l’agricoltura sono riferimenti importanti ma non esclusivi della
strategia d’intervento.
Nel 1972 sono state introdotte misure strutturali rivolte in
particolare alla modernizzazione dell’agricoltura.
In Italia a partire dal 1975 vengono introdotti i cosiddetti Piani
verdi, cioè insieme di finanziamenti che venivano messi a disposizione
degli agricoltori.

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Giovanni Cannata “La politica agricola comune”

Si trattava di contributi a fondo perduto per introdurre


innovazioni tecnologiche e incentivare l’ammodernamento,
accompagnare la cessazione dell’attività agricola e favorire la mobilità
fondiaria, aumentare la formazione professionale e garantire
l’informazione socio economica degli agricoltori.
Una particolare attenzione era dedicata a sostenere
l’agricoltura di montagna e delle altre zone svantaggiate per le quali
venivano indicati regimi speciali di intervento.
L’agricoltore per poter avere gli incentivi economici, doveva
presentare un piano di sviluppo con il quale doveva dimostrare che il
reddito della sua azienda aumentava.
L’obiettivo prioritario della Comunità europea era infatti l’auto
approvvigionamento alimentare e il miglioramento delle condizioni
economiche degli agricoltori, per cui era necessario incentivare la
produttività.
Sono anni in cui l’agricoltura italiana come le altre europee
grazie agli incentivi finanziari della comunità europea introducono il
progresso tecnologico, con la meccanizzazione delle operazioni
colturali e l’impiego massiccio di prodotti chimici per aumentare al
massimo le rese produttive.

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4. LA POLITICA DEI MERCATI

Per regolamentare i mercati viene determinato un sistema di


prezzi di riferimento rispetto ai prezzi di mercato. Tale sistema di
prezzi è così:
- Un prezzo obiettivo o di riferimento, idoneo per regolare i
mercati europei e mantenerli in equilibrio
- Un prezzo di intervento o prezzo minimo garantito al
produttore al quale il prodotto veniva ritirato dal mercato
a spese della Comunità;
- Un prezzo soglia o prezzo di ingresso nella comunità per le
importazioni agricole dal resto del mondo con l’obiettivo di
regolamentare le importazioni;
- Prelievi e cioè sostanzialmente tasse sulle importazioni
agricole dal resto del mondo
- Restituzioni alle esportazioni e con incentivi pari alla
differenza fra prezzo mondiale (generalmente più basso) e
quello soglia (più alto)
L’analisi delle esperienze fatte mette in luce che il sostegno
effettivo dei prezzi e dei mercati non è stato uniforme. Infatti esso ha
privilegiato in modo particolare i prodotti delle agricolture
continentali, quali cereali e seminativi, latte, carne bovina e suina
mentre minore attenzione è stata rivolta alle colture mediterranee.
Da ciò è derivato l’emergere di cosiddette forti disparità a vantaggio
delle regioni interessate alle cosiddette produzioni continentali.
Dopo gli anni ’70 inizia un periodo di instabilità caratterizzato
da spinte inflazionistiche e smantellamento del sistema dei cambi
fissi con indubbie ripercussioni sugli equilibri del settore.

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La fissazione dei prezzi agricoli a livello europeo diventa più


difficile perché effettuata in unità di conto (equivalenti al valore in
oro del dollaro).
Le fluttuazioni delle monete rendono più complessa la
fissazione dei prezzi che sta alla base del mercato unico. Il marco si
rivaluta costantemente e la lira italiana subisce continue
svalutazioni.
Vengono allora introdotte le “monete verdi” non facendo più
riferimento al tasso di cambio di mercato ma a delle unità
convenzionali.
Si istituiscono i “montanti compensativi”, positivi e negativi,
che di fatto ristabiliscono il valore degli aiuti e delle tassazioni negli
scambi intracomunitari di prodotti agricoli, frammentando di nuovo il
mercato comune raggiunto per questi prodotti.

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5. LA CRISI E LA RIFORMA DELL PAC

Le difficoltà della Pac si manifestano con evidenza nel corso


degli anni ’80.
Il problema delle eccedenze agricole diventa sempre più grave
costringendo a immagazzinare (cereali, latte, carni) e distruggere
(frutta e ortaggi).
La spesa per la Pac aumenta significativamente. Ciò impone
una riconsiderazione degli obiettivi della politica e dei suoi strumenti.
Nel 1992 viene attuata la prima riforma della PAC che determina i
seguenti effetti così sintetizzabili:
- La quota dell’agricoltura nel Bilancio comunitario scende
dal 62% nel 1998 al 47% nel 2001;
- Il numero dei prezzi garantiti con interventi comunitari
per i principali prodotti è diminuito;
- Contemporaneamente si è ridotto il divario esistente tra i
prezzi interni e quelli mondiali così come si sono ridotte le
vistose eccedenze di derrate alimentari;
- Globalmente il bilancio della riforma del 1992 è stato
positivo in quanto i mercati hanno ritrovato un certo
equilibrio e le scorte pubbliche si sono considerevolmente
ridotte ed in quest’ottica i prezzi dei prodotti agricoli
comunitari si sono riavvicinati ai prezzi mondiali;
Va segnalato inoltre che si è determinata una netta riconquista
del mercato interno grazie ai prezzi competitivi dei cereali comunitari.
Inoltre le spese del FEAOG (sezione garanzia) sono state più
controllabili e più prevedibili mentre le azioni strutturali condotte nel
quadro del FEAOG, sezione orientamento, sono aumentate. Il

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risultato generale ottenuto è che il reddito agricolo medio è


aumentato.

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6. AGENDA 2000

I positivi effetti della Riforma del 1992 non potevano essere


duraturi, in quanto la politica agricola comune ha dovuto soddisfare,
nel tempo, nuove e sempre più impellenti esigenze. Innanzitutto
occorre rammentare che l’Europa si avvia ad un processo di
allargamento.
L’allargamento ha reso necessaria una maggiore
semplificazione in quanto le economie dei paesi candidati si basavano
principalmente sul settore agricolo ed a ciò si accompagnava il fatto
che il mercato agricolo mondiale presentava prospettive di forte
crescita a prezzi remunerativi, a causa dell’aumento della domanda
alimentare.
I prezzi della PAC, essendo più elevati di quelli stabiliti
nell’ambito del commercio mondiale difficilmente potevano beneficiare
dell’espansione del mercato mondiale, con il rischio di vedere
riapparire eccedenze con costi di bilancio insostenibili e di perdere
quote del mercato mondiale e comunitario.
Si afferma con vigore l’esigenza della politica di sviluppo rurale,
senza rischio di nazionalizzazione della PAC, ma con criteri comuni
chiari e meccanismi di controllo rigorosi, con un maggior rispetto
dell’ambiente e del miglioramento della qualità dei prodotti.
Le proposte della Commissione europea, successivamente
adottate dal Consiglio europeo di Berlino 1999 hanno comportato
l’emanazione di un pachetto di riforme chiamato “Agendda 2000”. La
riforma è riuscita a ridurre le eccedenze e a contenere le spese, senza
compromettere un aumento medio del reddito del 4,5%. Tale

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orientamento generale è stato confermato dal Consiglio europeo


secondo alcune linee direttrici.
Innanzitutto la competitività doveva essere assicurata da una
diminuzione dei prezzi sufficiente a garantire l’aumento degli sbocchi
interni e una partecipazione al mercato mondiale.
La diminuzione dei prezzi è compensata da un aumento degli
aiuti diretti in modo da conservare il livello del reddito.
Inoltre la ripartizione dei compiti tra la Commissione e gli Stati
membri viene ridefinita, sia che si tratti della compensazione sotto
forma di aiuti diretti sia che siano misure di sviluppo rurale nel
quadro di una programmazione globale.
Il Pacchetto prevede che il nuovo quadro finanziario debba
coprire in modo coerente, entro limiti di bilancio ragionevoli,
l’evoluzione della PAC e gli effetti dell’allargamento, in un periodo
sufficientemente lungo. Nel contempo deve finanziari i bisogni
essenziali e assicurare una corretta gestione delle finanze pubbliche.

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LA POLITICA AGRICOLA
COMUNE DOPO IL 2000
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica agricola comune dopo il 2000”

Indice

1. AGENDA 2000 --------------------------------------------------------------------------------------- 3


2. LA RIFORMA DEL 2003 ------------------------------------------------------------------------- 4
3. HEALTH CHECK E LA NUOVA RIFORMA ----------------------------------------------- 6
4. UNA NUOVA PAC --------------------------------------------------------------------------------- 8

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1. AGENDA 2000

Alla luce delle esperienze degli anni ’80 e delle problematiche di


attuazione della PAC viene predisposto un pacchetto di riforme la c.d.
Agenda 2000 adottata dal Consiglio europeo di Berlino
La riforma è articolata sui principi secondo le seguenti linee
direttrici di una competitività determinata da una diminuzione dei
prezzi sufficiente a garantire l'aumento degli sbocchi interni e una
partecipazione al mercato allargato a livello mondiale. La
diminuzione dei prezzi è compensata da un aumento degli aiuti diretti
al reddito degli agricoltori. Viene individuata una nuova ripartizione
dei compiti tra la Commissione e gli Stati membri nel quadro di una
programmazione globale; e da ciò deriva un nuovo quadro finanziario
in grado di sostenere con oneri ragionevoli l'evoluzione della PAC e gli
effetti dell'allargamento in un periodo sufficientemente lungo.
L’agenda di lavoro prevede una più corretta gestione delle finanze
pubbliche anche per far fronte alle difficoltà di bilancio nel tempo
crescenti.

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2. LA RIFORMA DEL 2003

Il 26 giugno 2003 a Bruxelles viene compiuto un ulteriore e


determinante passo in avanti, in direzione dell'adeguamento della
Politica Agricola alle nuove sfide giunte da più parti del panorama
socio economico interno ed esterno all’Unione.
I Ministri europei dell’Agricoltura approvano una radicale
riforma della politica agricola comune (Riforma Fischler) che ha
rivoluzionato il modo in cui l’Ue sostiene il settore agricolo.
La nuova PAC è orientata verso gli interessi dei consumatori e
della qualità dei prodotti
La nuova politica lascia gli agricoltori liberi di produrre ciò che
esige il mercato.
Gli Stati membri possono scegliere di mantenere ancora una
certa correlazione tra sovvenzioni e produzione (disaccoppiamento
parziale), a precise condizioni ed entro limiti chiaramente definiti.
Viene previsto un “pagamento unico per azienda” subordinato
al rispetto delle norme in materia di salvaguardia ambientale,
sicurezza alimentare e protezione degli animali
I fondi che si sono resi disponibili grazie alla riduzione dei
pagamenti diretti a favore delle grandi aziende sono messi a
disposizione degli agricoltori per realizzare programmi in materia di
ambiente, qualità o benessere degli animali.
Nel 2005, la Commissione determina le condizioni e le norme
specifiche applicabili al finanziamento delle spese connesse alla
politica agricola comune (PAC) ed istituisce due nuovi fondi: un Fondo
Europeo Agricolo di Garanzia destinato a finanziare la politica di

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mercato e il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale destinato


allo sviluppo rurale
La riforma della politica agricola comune (PAC) del giugno
2003 e dell’aprile 2004 pone l’accento sullo sviluppo rurale
introducendo uno strumento di finanziamento e di programmazione
unico: il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR).
Questo strumento, istituito dal regolamento (CE) n. 1290/2005, mira a
rafforzare la politica di sviluppo rurale dell’Unione e a semplificarne
l’attuazione. Migliora in particolare la gestione e il controllo della
nuova politica di sviluppo rurale per il periodo 2007-2013.

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3. HEALTH CHECK E LA NUOVA RIFORMA

Nel 2008 viene svolta dalla Commissione un’approfondita


analisi sull’effettivo stato di salute della Politica Agricola Comune
denominata Health Check volta a completare la riforma Fischler del
2003.
Le principali novità riguardano innanzitutto l’aggiornamento
del regime di pagamento unico e cioè del sostegno diretto al reddito
introdotto nella gran parte dei settori per effetto della Riforma della
PAC, un premio aziendale che non dipende dalla produzione e cioè dal
tipo di coltura o allevamento e dalla quantità, ma dai titoli e dalla
superficie aziendale posseduta dall’agricoltore.
Sono beneficiari di questi premi le imprese che sono in possesso
di un titolo adeguato, detengono un fascicolo aziendale, dichiarano
una superficie ammissibile e rispettano i criteri di condizionalità. Con
il termine condizionalità si fa riferimento alle norme e alle regole che
presiedono il rapporto tra agricoltura e ambiente, la sanità pubblica,
la salute delle piante e il benessere degli animali e più in generale le
buone condizioni agronomiche ed ambientali.
In pratica si tratta di garantire la corretta gestione agronomica
da tenere, il mantenimento dei livelli di sostanze organiche del suolo,
la salvaguardia della salute evitando danni all’habitat.
Inoltre la riforma prevedeva il disaccoppiamento totale degli
aiuti e cioè lo sganciamento dell’aiuto dalla produzione che faceva
riferimento per cui gli agricoltori possono ricevere l’aiuto
indipendentemente dal produrre o non produrre ma a condizione di
rispettare il requisito della condizionalità.

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La riforma ha previsto la revisione del sistema delle quote latte


collegate alla tassa collegata ad un limite di produzione di tale
prodotto per ciascun allevatore, superato il quale veniva pagato un
prelievo aggiuntivo.
L’Health Check prevedeva la soppressione del set aside ma
imponeva il rafforzamento della condizionalità.
La nuova riforma prevede inoltre l’inserimento di quattro
nuove priorità sulla base delle quali realizzare la nuova politica dello
sviluppo rurale e cioè:
- Una attenzione ai cambiamenti climatici rispetto del
protocollo di Kyoto
- Un’attenzione alle energie rinnovabili
- Una migliore gestione delle risorse idriche
- Un’attenzione alla biodiversità

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4. UNA NUOVA PAC

Il 12 ottobre 2011 la Commissione europea ha adottato una


serie di proposte legislative per la riforma della PAC valida per il
periodo 2014-2020
Il negoziato si è svolto per la prima volta secondo la procedura
legislativa ordinaria introdotta con il Trattato di Lisbona (art. 294 del
TFUE), che ha coinvolto Parlamento europeo, Consiglio e
Commissione (il cosiddetto Trilogo).
I ritardi nel negoziato hanno comportato il rinvio al 2015
(anziché a partire dal 2014) dell’entrata in vigore del regolamento sui
pagamenti diretti agli agricoltori e di talune misure previste dal
regolamento OCM Unica pertanto si è reso necessario un regolamento
transitorio per garantire la prosecuzione degli aiuti anche per il 2014.
Il protrarsi dei negoziati sulla riforma della PAC è stato dovuto
anche alle difficoltà riscontrate nel giungere ad un accordo sulle
prospettive finanziarie della Comunità per il periodo 2014-2020.
L’approvazione del Parlamento europeo sul Programma
2014/2020 ai sensi dell’art. 312 del TFUE, avvenuta il 19 novembre
2013 a seguito di un’intesa politica con il Consiglio, ha quindi
consentito di sbloccare il successivo voto sui regolamenti di riforma
della PAC.
I capisaldi delle riforme sono costituiti da:
- Flessibilità degli strumenti e conseguentemente
semplificazione a favore dei beneficiari;
- Rilancio del ruolo degli Stati membri attraverso la
definizione di obiettivi nazionali;

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- Individuazione di maggiori sinergie tra politiche per


l’agricoltura e sostenibilità mediante valorizzazione dei
beni pubblici prodotti in agricoltura;
- Sostegno mirato a specifici contesti (zone svantaggiate,
aree con vincoli naturali), specifiche categorie (agricoltori
professionali, giovani) e specifici problemi produttivi.
Secondo il linguaggio comunitario il Primo Pilastro della PAC è
costituito da tutti gli strumenti di politica agricola inerenti al
sostegno dei prezzi dei prodotti agricoli ed all’integrazione del reddito
degli agricoltori.
Questo ambito d’intervento ha costituito sempre il caposaldo
della Politica Agricola Comune assorbendo gran parte del bilancio
dedicato.
Il Secondo Pilastro è invece relativo alle problematiche ed agli
interventi per lo sviluppo rurale dei quali si tratterà più oltre.
Gli elementi innovativi per il I pilastro della PAC sono
l’introduzione della OCM unica e cioè di un quadro normativo unico
che disciplina il mercato interno, gli scambi con i paesi terzi e le
regole della concorrenza. È stato introdotto il concetto di agricoltore
«attivo» (beneficiari del sostegno) come condizione necessaria per
ottenere gli interventi comunitari. Una regola di selettività che deve
essere rispettata. Secondo la Comunità possono accedere al
finanziamento solo figure professionali con specifiche comprovate
caratteristiche e che svolgono prevalentemente attività professionale
in agricoltura.
I nuovi pagamenti diretti hanno quindi, una nuova struttura;
ed una regionalizzazione a livello degli Stati.

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Come si è detto con la riforma il sostegno verrà assicurato agli


“agricoltori attivi” individuati da ciascuno Stato Membro all’interno di
paletti definiti a livello comunitario (la cosiddetta “lista negativa” che
esclude superfici non considerabili come aziende: aeroporti, ferrovie,
campi sportivi, ecc.).
Sono considerati attivi «per definizione» tutti coloro che
ricevono 5.000 euro o meno di pagamenti diretti, con possibilità per gli
Stati membri di abbassare questa soglia, escludere coloro la cui
attività agricola non è rilevante o non è l’attività principale, escludere
coloro con livelli di aiuti molto bassi
Il pagamento verde è una componente obbligatoria e viene
corrisposto solo a chi si impegna a rispettare alcune specifiche
pratiche eco-compatibili (mantenimento dei prati-pascoli,
diversificazione colturale, preservazione di un’area di interesse
ecologico). Ad esso è dedicato il 30% del massimale assegnato ad ogni
Stato membro.
La diversificazione si applica solo ad aziende con superficie a
seminativo > di 10 ettari; area di interesse ecologico riguarda solo le
superfici a seminativo > 15 ettari.
La regionalizzazione dei pagamenti implica un passaggio
dall’aiuto storico (applicato in Italia) a un aiuto forfetario a ettaro
(modello “regionalizzato”) alla condizione per cui lo Stato Membro può
scegliere il criterio di regionalizzazione fondato su una regione unica
(intero Stato membro), regioni amministrative, regioni omogenee
(sotto il profilo fisico, ambientale, socioeconomico).
Elementi cruciali delle scelte poste in campo dalla nuova
formulazione della PAC sono l’individuazione dei beneficiari, la scelta

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della regione; l’articolazione e criteri distributivi dei pagamenti


diretti.
Come detto la selezione dei beneficiari ha luogo attraverso la
definizione di agricoltori attivi e fissazione delle soglie minime di
accesso ai pagamenti.
La scelta della regione porta con sé effetti redistributivi non
indifferenti tra aree e all’interno di ciascuna area individuata
La diversa articolazione e distribuzione dei pagamenti diretti
può favorire alcune specificità o servire come equilibratore della
regionalizzazione
La programmazione 2014-20 pone nuove sfide per lo sviluppo
delle aree rurali legate ad una nuova architettura del sistema di
governance delle politiche e strumenti di programmazione (Accordi
programma, Community-led local development).
La programmazione prevede inoltre una maggiore integrazione
con gli Fondi strutturali e la programmazione di alcune misure a
livello nazionale.
Emergono nuove o più incisive priorità di intervento così come
la possibilità di pacchetti di misure e progetti integrati, cooperazione.
Inoltre è concessa agli stati membri la possibilità di attivare
possibili sottoprogrammi su tematiche specifiche: giovani, donne,
piccole aziende, zone montane, filiera corta, mitigazione cambiamenti
climatici.
L’Accordo di partenariato è il documento di indirizzo strategico
della programmazione nazionale, per integrare e concertare l’azione
delle amministrazioni nazionali e regionali coinvolte nella gestione
delle politiche comunitarie (fondi strutturali, II pilastro della PAC e
fondi per la pesca) in una logica di governance multilivello.

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L’Accordo di partenariato propone innovazioni tese a favorire


un’azione strategica su obiettivi determinati, la trasparenza, il
coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali.
Azioni strategiche sono previste per Mezzogiorno, Città, Aree
interne
I PSR 2014-2020 saranno prioritariamente incentrati
sull’innovazione attraverso il sistema di consulenza e il Partenariato
Europeo per l’Innovazione. Si tratta di azioni nel campo del capitale
umano - ricambio generazionale dell’imprenditoria agricola, della
formazione, informazione e consulenza, di nuove forme di
imprenditoria e occupazione nelle aree rurali, diprogettazione
integrata di filiera - filiere corte e locali e filiere di sistema.
Misure agroambientali e interventi sono previsti per la gestione
delle risorse naturali così come per la valorizzazione delle energie
rinnovabili e riutilizzo scarti produttivi a fini energetici.
L’attenzione allo sviluppo locale si concretizza in azioni per le
comunità locali e sviluppo innovativo).
Sono previsti da ultimo programmi/misure nazionali per gli
interventi relativi alla gestione del rischio, biodiversità, gestione delle
risorse idriche per la Rete Rurale Nazionale.

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LA POLITICA EUROPEA DI
SVILUPPO RURALE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica europea di sviluppo rurale”

Indice

1. I FONDAMENTALI -------------------------------------------------------------------------------- 3
2. IL FINANZIAMENTO ----------------------------------------------------------------------------- 6
3. I PSR IN ITALIA ------------------------------------------------------------------------------------ 8
4. LA RETE RURALE EUROPEA ----------------------------------------------------------------- 9

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Giovanni Cannata “La politica europea di sviluppo rurale”

1. I FONDAMENTALI

La Politica europea di sviluppo rurale per il periodo 2014-2020


costituice quello che in un linguaggio comunitario è definito II
Pilastro e integra con interventi di carattere generale le misure di
gestione dei mercati agricoli e cioè il primo Pilastro. Essa si fonda
sugli obiettivi di
 Competitività delle agricolture
 Gestione sostenibile delle risorse naturali
 Sviluppo equilibrato dei territori rurali
La politica viene attuata mediante Programmi di sviluppo
rurale (PSR) nazionali e/o regionali settennali.
Nel complesso, la riforma del 2013 mediane alcuni
cambiamenti si propone di migliorare l’approccio strategico
nell'elaborazione dei programmi di sviluppo rurale, di rafforzare il
contenuto delle misure di sviluppo rurale, di semplificare le norme e/o
ridurre i relativi oneri amministrativi, di determinare maggiori
sinergie tra politica di sviluppo rurale e altri fondi strutturali e di
investimento.
L’UE definisce un Quadro Strategico Comune (QSC) nel quale
sono fissati gli orientamenti relativi a ciascun settore produttivo e di
carattere trasversale specifici per la SR.
Si traducono gli obiettivi in priorità e focus area per l’azione
comune di tutti i fondi strutturali.
Lo Stato Membro elabora un Contratto di Partenariato con il
quale fa propri gli obiettivi di fondo dell’UE in considerazione dei
bisogni del territorio.

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Giovanni Cannata “La politica europea di sviluppo rurale”

Inoltre assicura il coordinamento territoriale, l’efficienza e


l’efficacia delle azioni.
Gli Stati membri elaborano Programmi di sviluppo rurale
(PSR) fondati su almeno quattro delle sei priorità comuni dell'UE che
sono:
 la promozione del trasferimento di conoscenze e
dell'innovazione nel settore agricolo e forestale e nelle
zone rurali;
 il potenziamento della redditività e della competitività
di tutti i tipi di agricoltura e promuovere tecnologie
innovative per le aziende agricole e una gestione
sostenibile delle foreste;
 la promozione di una più efficiente gestione e
l'organizzazione della filiera alimentare, del benessere
degli animali e della gestione dei rischi nel settore
agricolo;
 la preservazione, il ripristino e la valorizzare degli
ecosistemi connessi all'agricoltura e alle foreste;
 l’incoraggiamento dell'uso efficiente delle risorse e il
passaggio a un'economia a basse emissioni di CO2 e
resiliente al clima nel settore agroalimentare e
forestale;
 la promozione dell'integrazione sociale, la riduzione
della povertà e lo sviluppo economico nelle zone rurali.
Nell’ambito di ciascuna priorità di sviluppo rurale lo stato
membro, secondo le proprie necessità individua una serie di"settori
prioritari” di intervento.

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Giovanni Cannata “La politica europea di sviluppo rurale”

Nell’ambito dei rispettivi programmi di sviluppo rurale, gli


Stati membri o le Regioni fissano obiettivi quantificati in relazione ai
settori prioritari sulla base di un’analisi delle esigenze specifiche del
territorio.
In relazione a ciò sono stabilite le misure da usare per
raggiungere gli obiettivi e i relativi finanziamenti.

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2. IL FINANZIAMENTO

Il finanziamento delle azioni previste ha luogo con fondi


comunitari, fondi dello Stato, delle Regioni e dei privati
L’UE interviene per il tramite del Fondo Europeo Agricolo per
lo Sviluppo Rurale FEASR (REg. CE n. 1698/2005) destinato a
finanziare il miglioramento della competitività del settore agricolo e
forestale, dell'ambiente e del paesaggio,della qualità della vita nelle
zone rurali e la diversificazione dell'economia rurale.
Unitamente al sostegno del FEASR, le zone rurali possono
beneficiare del sostegno supplementare erogato nell’ambito di altri
fondi comunitari
il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR)
il Fondo sociale europeo (FSE)
il Fondo di coesione
il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP).
Il Quadro strategico comune (QSC) è lo strumento che consenti
di massimizzare le sinergie tra tutti i fondi strutturali e
d’investimento da impiegare per rispondere agli obiettivi della
Strategia europea 2020.
Al fine di tener conto delle differenze di sviluppo esistenti in
Europa, il cofinanziamento dell’UE attraverso FEASR aumenta fino
al 85% in Regioni del cosiddetto Obiettivo 1. Conseguenza che
sostituisce l’Obiettivo 1 e che concerne quelle regioni europee nelle
quali il PIL pro capite, calcolato in base ai dati del triennio precedente
al 2006, è inferiore al 75% della media dell’UE
Nelle altre regioni si riduce al 50%

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Le innovazioni introdotte in questa strategia di politica di


sviluppo rurale prevedono che una parte del contributo sia riservato a
LEADER e cioè a programmi di animazione rurale, e una quota venga
riservata alle misure agro ambientali.
In pratica viene lasciata una certa autonomia agli Stati membri
nel determinare le scelte di finanziamento in relazione alle proprie
esigenze rispettando tuttavia alcuni tetti.
La programmazione dello sviluppo prevede una premialità per
gli stati più efficienti.
Si definiscono dei traguardi critici ed il 5% delle risorse è
distribuito a beneficio dei Piani di Sviluppo Rurale che abbiano
conseguito i migliori risultati
Si introduce la condizionalità ex ante, per cui nella
progettazione degli interventi bisogna dimostrare di avere sufficienti
risorse umane, assistenza tecnica, iniziative per animare le azioni
innovative, approcci appropriati per la definizione di progetti di
sviluppo locale, sufficienti capacità per monitoraggio e valutazione.

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3. I PSR IN ITALIA

Il programma nazionale di sviluppo rurale dell’Italia è stato


adottato sul finire del 2015 e si focalizza specificamente sulle
problematiche relative alla prevenzione e gestione dei rischi aziendali,
sulla salvaguardia della biodiversità animale e sull’efficiente uso delle
risorse idriche.
I PSR sono elaborati per Regione con la possibilità di definire
un National Framework che contenga alcune misure comuni, es.
gestione del rischio, e lista di interventi per specifiche priorità.
I PSR contengono elementi di analisi ex ante del territorio, le
analisi swot relative alle minacce e alle opportunità che si offrono ai
singoli territori, le misure per priorità, indicando gli obiettivi.
Tutti questi elementi sono corredati da un Piano finanziario e
da un Programma di implementazione.
I grandi obiettivi che il PSR si à proposto con riferimento
all’esperienza italiana hanno riguardato in primo luogo
l’organizzazione delle filiera alimentare, individuando la
trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli, il
benessere degli animali e la gestione dei rischi nel settore agricolo.
Un secondo grande obiettivo è quello della preservazione,
ripristino e valorizzazione degli ecosistemi connessi all’agricoltura e
alla selvicoltura a cui si aggiunge un altro obiettivo strategico che è
quello dell’efficiente uso della risorsa nel quadro di un controllo del
cambiamento climatico.

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4. LA RETE RURALE EUROPEA

La Rete Europea per lo Sviluppo Rurale (RESR) è stata


costituita dalla Direzione generale dell’Agricoltura e dello sviluppo
rurale della Commissione europea nel 2008, al fine di aiutare gli Stati
membri ad attuare efficacemente i propri Programmi di sviluppo
rurale (PSR).
La RESR è una piattaforma per la condivisione di idee ed
esperienze sui metodi di attuazione delle politiche di sviluppo rurale e
il loro miglioramento.
Partecipano alla Rete le Reti rurali nazionali (RRN), le
Amministrazioni e le Istituzioni competenti negli Stati membri, i
Gruppi di azione locale (GAL) e le organizzazioni
La Rete mira ad accrescere il coinvolgimento e l’impegno per lo
sviluppo rurale degli stakeholder, accrescere la qualità dei programmi
di sviluppo rurale ed informare il grande pubblico sui benefici dello
sviluppo rurale
Il Partenariato Europeo per l’innovazione lanciato dall’UE
nell’ambito dell’iniziativa “l’Unione dell’innovazione” è promosso per
favorire la costituzione di gruppi di lavoro a livello locale per la
promozione e la diffusione dell’innovazione per integrare iniziative sul
fronte della domanda e dell’offerta di innovazione. L’obiettivo è quello
di organizzare al meglio le risorse umane a disposizione dell’UE per
ricerca e innovazione e sono costituiti in modo flessibile e
multisettoriale a livello locale. In questi gruppi si mettono insieme
componenti pratiche di esperienze e componenti scientifiche con un
approccio bottom-up (dal basso) su una tematica specifica di interesse,

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per predisporre progetti concreti volti a collaudare, applicare o


disseminare pratiche, prodotti, servizi e tecnologie innovative.
Un premio per l’innovazione è destinato ai migliori progetti e
finanziato con un quota dedicata del FEASR.

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POLITICHE DELLA
SICUREZZA ALIMENTARE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Politiche della sicurezza alimentare”

Indice

1. LA SICUREZZA ALIMENTARE --------------------------------------------------------------- 3


2. LE CAUSE DELL’INSICUREZZA ALIMENTARE ---------------------------------------- 6
3. IL PROBLEMA DEI PREZZI ------------------------------------------------------------------- 8
4. POSSIBILI SOLUZIONI DEL PROBLEMA ALIMENTARE ---------------------------- 9
5. EFFETTI DELLE POLITICHE ---------------------------------------------------------------- 11

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1. LA SICUREZZA ALIMENTARE

L’espressione sicurezza alimentare può essere usata in modo


differente facendo riferimento agli aspetti di salute degli alimenti
(food safety) o alle questioni politiche-economiche degli
approvvigionamenti (food security).
La «sicurezza alimentare”, per quanto riguarda l’approccio di
politica economica, vuol dire innanzitutto sottolineare che il problema
assume caratteristiche differenti a seconda del livello di sviluppo
dell’economia di cui si occupa (paesi sviluppati o paesi in via di
sviluppo): accesso per tutti e sempre ad una disponibilità adeguata di
cibo per una vita attiva e sana.
Questo richiede un approfondimento su alcuni aspetti del
problema.
Innanzitutto occorre soffermarsi sul livello adeguato
dell’offerta. La stessa può essere ridotta da un canto da eventi
negativi che influiscono sul ciclo dei produzione e dipendenti dalle
condizioni ambientali, ma anche da eventi connessi all’azione
dell’uomo come può accadere in caso di conflitti che incidono sulla
produzione.
Occorre poi tener conto della domanda di beni alimentari
effettiva, legata al reddito dei consumatori e a numerose altre
variabili.
Sicurezza alimentare significa disponibilità di alimenti in
quantità sufficienti rispetto ai volumi di popolazione da servire e
connessa al raggiungimento di previsti stili alimentari e nutrizionali;
di qualità idonea ad una corretta alimentazione, (la domanda di

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alimenti viene soddisfatta attraverso la produzione interna, le


importazioni e l’aiuto alimentare nei casi di crisi)
Sicurezza alimentare significa accesso sufficiente e sicuro al
cibo, con risorse, mezzi e capacità di produrre, acquistare, barattare,
dare e ricevere in dono e cioè anche con una capacità organizzativa
che molte delle aree in via di sviluppo non conoscono.
Un problema che molti paesi si trovano a dover affrontare
riguarda l’utilizzo di cibo, in condizioni di igiene adeguata. Ciò deve
avvenire promuovendo la stabilità nel tempo di disponibilità, di
accesso e di utilizzo.
Nei casi in cui si ha un inadeguato accesso al cibo di natura
strutturale è necessario intervenire con misure di sostegno allo
sviluppo agricolo ed economico. Ciò significa che occorre rimuovere le
condizioni di povertà che impediscono l’accesso al cibo con programmi
di sviluppo e con programmi di emergenza.
Quando la carenza di cibo è legata a fluttuazioni dei prezzi e
della produzione, a riduzioni transitorie dei livelli di reddito, ad
eventi climatici avversi o a catastrofi naturali si farà ricorso a misure
a sostegno di gruppi sociali più deboli, (i disoccupati ad esempio),
ovvero a misure di stabilizzazione dell’offerta e dei prezzi
Le politiche di sicurezza alimentare debbono agire sulle
capacità di produrre, importare, stoccare cibo in misura adeguata alle
richieste dei consumatori il che si traduce in interventi di carattere
tecnologico ma anche nella formazione degli operatori.
Obiettivo di una politica adeguata è quello di garantire un
grado di autonomia elevato, il che non implica autosufficienza
alimentare, che riduca la vulnerabilità ai fattori di instabilità
presenti sul mercato internazionale.

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Con riferimento a ciò sono richiamati i concetti di sostenibilità


ed equità.
Si deve affermare che se certamente un obiettivo è quello di
garantire lo sviluppo di una produzione sufficiente a coprire i
fabbisogni di alimentazione di intere aree in difficoltà questo non può
aver luogo a scapito delle condizioni di equilibrio ambientale.
Il concetto di equità viene richiamato con riferimento al diritto
di accesso agli alimenti senza distinzione di censo, di reddito o di
genere.
Secondo le stime più recenti della FAO, pur registrandosi
alcuni miglioramenti a livello mondiale, il numero delle persone
denutrite oscilla intorno agli 800 milioni di persone.
L’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e la crisi economica e
finanziaria globale hanno colpito soprattutto i più vulnerabili: più
poveri, famiglie che non hanno terra con un capofamiglia donna.

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2. LE CAUSE DELL ’INSICUREZZA ALIMENTARE

Come ricordato in precedenza, all’origine della fame c’è la


povertà.
E’ tuttavia vero anche il contrario e cioè la fame porta povertà,
ma anche impedisce lo sviluppo sociale e culturale di un paese:
I bambini che soffrono di denutrizione, sono minati nella salute
e nelle capacità intellettive, difficilmente riescono ad acquisire una
formazione scolastica elementare.
Tra le cause che determinano l’insicurezza alimentare
certamente hanno un gran rilievo quelle ambientali che minano i
livelli di produzione.
I fenomeni connessi alla siccità, all’erosione del suolo, per
ragioni climatiche e per cause antropiche, alla desertificazione, anche
nei paesi dal clima temperato ed alla salinizzazione che ne
compromette la produttività vedono acqua e suolo nelle loro
interazioni come cause determinanti dell’insicurezza.
Ma i livelli di produzione sono anche colpiti dal consumo di
superfici agricole a fronte della necessità di aree coltivabili più estese.
Un fenomeno del quale occorre tener conto è il nuovo crescente
interesse per un uso della terra differente, ci si riferisce alla
competizione crescente nell’uso della risorsa terra per non produrre
alimenti ma piuttosto biocombustibili.
A questi fenomeni va aggiunto il land grabbing e cioè
l’accaparramento di terre per la produzione di beni agricoli non
sempre destinati all’alimentazione e talvolta sottratti all’uso delle
popolazioni insediate in quei territori.

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Ma una causa alla quale si fa sovente riferimento è il


cambiamento climatico che gli scienziati riconoscono come causa del
ripetersi sempre più frequente di eventi estremi che colpiscono la
disponibilità di risorse alimentari.
Le donne e i più poveri sono i più vulnerabili.
La malattia incide sulle possibilità di crescita e sviluppo di un
paese, avendo effetti negativi a livello di famiglia, comunità locale,
riducendo i tassi di attività e le opportunità di lavoro, ma anche di
paese intero, distraendo risorse che potrebbero essere destinate a
investimenti e sviluppo.
Ormai molti studi hanno messo in luce le connessioni che
esistono tra produzione agricola, fame e povertà. La gran parte della
popolazione povera mondiale vive nelle aree rurali di paesi in ritardo
di sviluppo dipendendo dall’agricoltura per il proprio sostentamento.
Si tratta molte volte di produzioni agricole destinate
all’autoconsumo e falcidiabili da fenomeni climatici avversi con effetti
disastrosi. Ovviamente accanto a queste determinanti
dell’insicurezza, vanno considerati altri elementi quali carenze di
infrastrutture, difficoltà di accesso ai mercati e alle tecnologie, bassi
livelli di istruzione, inesistenti poteri contrattuali, difficoltà di accesso
alle risorse naturali, l’acqua in particolare.
La soluzione va quindi ricercata prevalentemente nell’uso delle
produzioni, con particolare attenzione ai piccoli produttori.
Accanto al problema della quantità di produzione
incrementabile deve essere segnalato quello dell’accesso al cibo e
quindi la necessità di inserire la questione della dipendenza
alimentare nel tema più ampio del commercio mondiale in relazione
alla solvibilità dei differenti paesi.

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3. IL PROBLEMA DEI PREZZI

I mercati agricoli sono sempre stati caratterizzati da una


grande instabilità.
L’instabilità dei prezzi delle derrate alimentari è spesso
amplificata da misure di politica economica che isolano il mercato
interno.
Tassi di cambio mantenuti alti in modo artificiale
disincentivano le esportazioni e favoriscono le importazioni di beni
alimentari, causando cambiamenti strutturali delle preferenze dei
consumatori locali e danneggiando l’agricoltura locale.
Un grande fattore di influenza sui prezzi si ritrova nel debito
estero, ingente in particolare per i paesi dell’Africa sub sahariana, ha
effetti gravi sulla bilancia agricola e commerciale, riducendo la
capacità di importare beni alimentari e non ma anche sul potenziale
di sviluppo del settore agricolo e dell’intera economia.
Il debito estero rilevante finisce per agire sui tassi d’interesse e
sugli investimenti, nel caso in cui i governi interessati debbano
ricorrere all’indebitamento sul mercato interno per far fronte agli
impegni internazionali, ma anche sulla spesa pubblica destinata a
finanziare servizi ed infrastrutture di importanza essenziale
soprattutto in aree rurali o economicamente e politicamente “deboli”.
Da ultimo non può essere taciuto l’impatto sull’efficacia degli
aiuti internazionali, in misura notevole destinati a ripianare i debiti
contratti

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4. POSSIBILI SOLUZIONI DEL PROBLEMA


ALIMENTARE

I mezzi per eliminare la fame e la denutrizione sono disponibili,


ciò che in molti casi è assente è una reale volontà politica di risolvere
il problema.
Implicherebbe spesso una riforma complessiva del sistema
economico e sociale che non sempre le lobbies che sostengono i governi
condividono.
Un problema complesso, come quello della sottonutrizione,
tuttavia, non può essere risolto con una somma di interventi tecnici:
per fare un esempio, incrementare la produttività di alcune colture
non significa semplicemente impiegare più fertilizzanti.
Occorre migliorare l’efficacia dell’aiuto alimentare anche
prestando una maggiore attenzione alla qualità delle strutture sociali
e politiche del paese beneficiario, ma anche migliorare le condizioni
dei paesi più poveri che necessitano di infrastrutture e di governi equi
e democratici.
Ma soprattutto, come ammonito senza efficace ascolto dalle
stesse Nazioni Unite, ricercare una maggior giustizia sociale ed
equità nella ripartizione delle ricchezze del pianeta.
L’aiuto alimentare costituisce sostanzialmente parte dell’aiuto
allo sviluppo e si articola in una pluralità di strumenti quali
donazioni in forma di derrate alimentari da parte dei paesi che hanno
delle sovrapproduzioni (aiuto d’emergenza), ma anche donazioni in
denaro per l’acquisto di beni alimentari o vendita di prodotti
alimentari a credito.

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L’intervento di aiuto alimentare deve essere comunque valutato


in termini di impatto sulle economie in quanto incide sui prezzi delle
derrate alimentari e, dunque, sull’equilibrio dei mercati locali, genera
dipendenza del paese beneficiario dal donatore, per certi aspetti può
avere l’effetto di modificare le abitudini alimentari delle comunità che
ne sono destinatari.
D’altro canto l’intervento in condizioni di emergenza è
indubbiamente indispensabile anche al fine di evitare la riduzione
della capacità produttiva nei paesi colpiti, si pensi ad esempio la
vendita di bestiame.
Alle questioni della sicurezza alimentare occorre guardare
tenendo conto della crescita della domanda per fenomeni
macroeconomici globali, più o meno prevedibili quali l’aumento
demografico e dei redditi, i grandi fenomeni di abbandono delle
campagne e urbanizzazione, soprattutto nelle economie emergenti e di
grandi dimensioni. In modo analogo non può essere trascurato
l’aumento della domanda di energia, acqua e suoli anche in relazione
allo sviluppo del settore dei biocarburanti che sottrae quindi
l’attenzione alla produzione di beni alimentari a vantaggio di altre
produzioni.
Tutto ciò finisce per influire sulla riduzione delle scorte,
generando fenomeni speculativi sui mercati internazionali.

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5. EFFETTI DELLE POLITICHE

Una veloce analisi degli effetti delle politiche di controllo


dell’insicurezza deve mettere a confronto costi/benefici,
winners/losers, identificando vincitori e sconfitti, chi guadagna e chi
perde dalle politiche.
I beneficiari sono sul versante della domanda, sono gli strati
sociali della povertà, con effetti nel breve ma anche nel lungo
termine.
In generale beneficiano delle politiche di aiuto alimentare i
paesi a basso reddito dipendenti dall’import agricolo per la scarsità di
riserve e risorse per pagare prezzi elevati.
Ma anche sul versante dell’offerta, vi sono effetti positivi e
negativi.
I prezzi alti favoriscono i paesi produttori e venditorianche se i
prezzi alti aumentano i redditi dei produttori ma, per imprese di
piccole dimensioni, volatilità implica variabilità nei redditi. Inoltre la
volatilità dei prezzi sollecita decisioni non ottimali.
Le politiche di intervento pubblico, soprattutto se connotate in
modo protezionistico possono determinare inefficienza dei processi di
distribuzione alimentare
In passato si è avuta una riduzione sensibile degli investimenti
in agricoltura e , come conseguenza, molti agricoltori nei PVS hanno
difficoltà di accesso fisico ed economico al mercato;
Va inoltre registrato il rischio che politiche commerciali volte a
proteggere il mercato interno accentuano la volatilità dei prezzi
Per prevenire, ridurre, fronteggiare la volatilità nel breve e nel
lungo periodo sarebbe opportuno operare in un quadro di

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Giovanni Cannata “Politiche della sicurezza alimentare”

programmazione e trasparenza delle politiche ed un maggiore


coordinamento a livello internazionale.
Ovviamente occorre un approfondimento caso per caso per un
giudizio sugli effetti delle politiche.
Le politiche sono giuste/sbagliate in relazione agli obiettivi, alle
situazioni specifiche (paesi, prodotti), tenendo conto delle condizioni di
scambio tra assistenza e sviluppo.
Nel lungo periodo per prevenire la volatilità occorre intervenire
con investimenti in agricoltura (produttività, sostenibilità, resilienza
dei sistemi produttivi vegetali e zootecnici) con interventi sia a livello
di imprese (varietà, pratiche colturali, sistemi d’irrigazione, precision
farming, tecnologie di trasformazione, conservazione e stoccaggio), sia
di sistema (infrastrutture, servizi tecnici, formazione).
Ciò ovviamente richiede incremento degli investimenti pubblici
(infrastrutture, reti, istituzioni, …), ma anche sostegno a green
technologies che tengano conto dei cambiamenti climatici, uso delle
risorse, suolo e acqua.
L’intervento per il controllo sullo sviluppo agricolo richiede una
maggiore attenzione alla ricerca in agricoltura, soprattutto pubblica,
orientata verso innovazioni specifiche per paesi e prodotti, nonche la
messa a punto di azioni di trasferimento tecnologico ed interventi
sulla qualità del capitale umano
In relazione alla previsione del fatto che i prezzi dei prodotti
agricoli resteranno alti e volatili anche in futuro, nel breve termine si
può intervenire con politiche commerciali, con reti di protezione
sociale, con la costituzione di scorte di produzione e riserve di
emergenza.

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Giovanni Cannata “Politiche della sicurezza alimentare”

Nel medio e lungo termine l’intervento per controllare gli effetti


sulle economie più povere di alti prezzi dei prodotti alimentari non
potranno che derivaredall’incremento della produttività agricola,
dall’aumento della trasparenza del mercato, da un più incisivo
coordinamento delle politiche a livello internazionale.

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LA POLITICA ECONOMICA
E L’INNOVAZIONE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica economica e l’innovazione”

Indice

1. CHE COSA INTENDIAMO PER INNOVAZIONI ------------------------------------------ 3


2. I SOGGETTI DELL’INNOVAZIONE --------------------------------------------------------- 7
3. LE DETERMINANTI DELLE POLITICHE ------------------------------------------------- 8
4. I PRINCIPALI STRUMENTI ------------------------------------------------------------------- 10
5. POLITICHE PER LA DOMANDA ------------------------------------------------------------ 12
6. LA MISURABILITÀ DELLE INNOVAZIONI ---------------------------------------------- 14

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Pag. 2 di 15
Giovanni Cannata “La politica economica e l’innovazione”

1. CHE COSA INTENDIAMO PER INNOVAZIONI

Secondo l’OCSE un’innovazione è l'implementazione di un


prodotto (sia esso un bene o servizio) o di un processo, nuovo o
considerevolmente migliorato, di un nuovo metodo di marketing, o di
un nuovo metodo organizzativo con riferimento alle pratiche
commerciali, al luogo di lavoro o alle relazioni esterne.
L’innovazione svolge un ruolo centrale nello sviluppo
dell’economia a vantaggio sia dei produttori che dei consumatori ai
quali consente un migliore accesso a beni e servizi. L’innovazione,
peraltro, nel lungo periodo può concorrere ad accrescere l’occupazione
ma soprattutto la diversifica.
La politica dell’innovazione è strettamente connessa alla
politica della ricerca e dell’innovazione ma anche ad altre politiche
settoriali quali quelle industriali o quelle agricole.
L’innovazione, come hanno messo in luce molti economisti, fa
parte di quei cosiddetti fattori di produzione invisibili che, oltre il
capitale e il lavoro, piegano la crescita associandosi all’organizzazione
del lavoro, alle economie di scala, alla formazione dei lavoratori, alle
caratteristiche istituzionali.
In un corso di politica economica si studia l’innovazione
interrogandosi sulle sue origini, sulla concentrazione in alcune aree
geografiche, sugli impulsi che determinano nell’economia, sugli effetti
sul mercato del lavoro.
Differente è il livello di innovazione che caratterizza i differenti
paesi e la performance di un Paese in termini di innovazione
tecnologica è il ritmo a cui nuovi prodotti o processi di produzione
sono introdotti e diffusi nell’economia.

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Pag. 3 di 15
Giovanni Cannata “La politica economica e l’innovazione”

Il processo dell’innovazione va studiato in due suoi aspetti:


creazione dell’innovazione, che vuol dire essere il primo a
commercializzare un nuovo prodotto o processo e diffusione
dell’innovazione, cioè essere il primo a utilizzare un nuovo prodotto o
processo.
L’innovazione di prodotto o processo è “ogni step scientifico,
tecnologico, organizzativo, finanziario, commerciale (inclusi gli
investimenti in nuova conoscenza) che permette la realizzazione di
prodotti o processi tecnologicamente nuovi”.
Il contenuto in innovazione di un’impresa la qualifica rispetto
al mercato. Secondo il cosiddetto manuale di Oslo, “un’impresa è
innovativa se produce uno o più prodotti o processi tecnologicamente
nuovi in un arco di 3 anni”.
L’innovazione come bene comune
Le forme dell’innovazione sono differenti. Si tratta
normalmente di innovazione tecnologica di prodotto con riferimenti al
miglioramento di un prodotto esistente o alla creazione di un nuovo
prodotto che soddisfi nuove esigenze in termini di qualità o di
prestazioni, e comunque solleciti una domanda dapprima inesistente.
Si fa riferimento ad innovazione tecnologica di processo con riguardo
al miglioramento del processo produttivo da cui possano derivare
minori costi, migliore qualità o nuovi prodotti.
Ci si riferisce all’innovazione organizzativa in relazione al
cambiamento della struttura dell’impresa per migliorare l’efficienza di
gestione anche in relazione a cambiamenti del sistema di riferimento
dell’impresa.
Ma l’innovazione può anche essere costituita dall’apertura di
nuovi mercati.

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Pag. 4 di 15
Giovanni Cannata “La politica economica e l’innovazione”

Prima di procedere occorre aver presente il ciclo


dell’innovazione che all’invenzione fa seguire l’innovazione che
conclude il ciclo nella diffusione.
L’invenzione è costituita, da una nuova idea, un nuovo sviluppo
scientifico, una nuova tecnologia non ancora introdotta sul mercato,
mentre l’innovazione è la sua applicazione nell’economia e nella
società.
La fase della diffusione riguarda il processo con cui le imprese
che la utilizzano o i consumatori finali accedono all’innovazione e la
usano.
Il ciclo dell’innovazione al quale si è fatto riferimento è
condizionato, come accade per tutti i fattori produttivi da condizioni di
domanda e di offerta e dalle relative interazioni, anche se fattori non
prevedibili possano intervenire nel ciclo ricordato.
Tra i fattori che influenzano la possibilità di offerta debbono
essere ricordate lo stato delle conoscenze scientifiche e tecnologiche ed
in questo senso occorre rammentare il ruolo della ricerca di base e di
quella applicata. Altrettanto rilievo hanno le condizioni di
appropriabilità, di carattere normativo ed istituzionale, inerenti alla
capacità di trarre profitto dall’innovazione.
Ciò anche se non tutte le innovazioni derivano dal processo
scientifico e la ricerca serve solo talvolta per una spinta incrementale
e conclusiva.
Tra i fattori della domanda vanno considerati il presso come
conseguenza dei migliori prezzi o dei minori costi conseguenti
all’innovazione ed il valore o la misura del beneficio o
dell’apprezzamento che i consumatori o utenti fanno dell’innovazione.

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parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n.
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In questo senso la scienza e il processo dell’innovazione sono parti di


un processo sociale al quale concorrono una pluralità di attori.

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2. I SOGGETTI DELL’INNOVAZIONE

Come appena ricordato, l’innovazione come risultante di un


processo di confronti tra domanda e offerta è anche la risultante della
interazione tra una pluralità di soggetti quali i ministeri, le
Università, gli Enti di ricerca, le agenzie di progettazione, le imprese,
i Sindacati, i Distretti e parchi scientifici, fornitori vari, utenti vari,
Business angels, che finiscono per condizionare l’intero processo e far
si che permeando di sé le attività, i settori sui quali ricade
l’innovazione possano essere classificati come settori con innovazioni
dominate dai fornitori, settori ad alta intensità di scala, settori con
fornitori specializzati e settori basati sulla scienza, ciascuno dei quali
in possibile interazione con gli altri.

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3. LE DETERMINANTI DELLE POLITICHE

Le determinanti dell’innovazione sono sintetizzate in quattro


aspetti e cioè quello dell’imprenditorialità, quello della governance,
quello delle strutture di mercato e quello della domanda. Da
Schumpeter in poi l’imprenditore fonda il suo statuto
sull’innovazione, ovvero sulla capacità di realizzare nuove
combinazioni dei fattori produttivi con celerità prima dei concorrenti,
determinando un cambiamento dell’economia in un processo continuo
di accumulo di conoscenze.
Ma l’innovazione è anche capacità di gestire l’incertezza. Un
ruolo importante viene svolto dalle forme di corportate governance
delle imprese e più in generale dalla struttura proprietaria che incide,
anche attraverso i meccanismi di lobbies a determinare le politiche.
Le tipologie di proprietà dell’innovazione possono essere differenti e
con la loro differenza influiscono sulle performance innovative delle
imprese. Le tipologie rilevanti ai nostri fino sono la tipologia
familiare, quella degli interventi istituzionali, la grande impresa, la
proprietà bancaria. Ciascuno di questi soggetti ha un atteggiamento
differente riguardo all’innovazione. Altro fattore di differenziazione è
costituito dalla struttura di mercato sul quale il sistema
dell’innovazione va ad impattare. Ovviamente prevalenza di
situazioni concorrenziali spingono verso la diffusione delle
innovazioni con gli innovatori che, sviluppando l’innovazione,
massimizzano gli extraprofitti; i primi adattatori ne godono solo di
una parte, la maggioranza ne gode ancor meno e progressivamente
questi vantaggi si annullano.

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In situazioni caratterizzate da regimi di monopolio, l’incentivo


all’innovazione è più basso. In ogni caso occorrono analisi empiriche
ben definite che specifichino le differenti situazioni e consentano al
decisore pubblico modi utili per determinare incentivi utili ad
incrementare l’innovazione.
Dal punto di vista della domanda di innovazione occorre
dividere il punto di vista degli utilizzatori da quello degli innovatori
manager. Gli utilizzatori debbono decidere se affrontare
l’investimento dell’utilizzo ed anche il tempo in cui ciò deve avvenire,
mentre agli innovatori manager sta la scelta sulla scelta dell’adozione
di una tecnologia di processo o se aumentare la vendita o l’uso di un
prodotto.
L’analisi delle determinanti della domanda e dell’offerta fanno
cogliere anche l’importanza dell’utilizzo dell’innovazione da parte del
decisore pubblico che può impiegarla per il conseguimento di un
benessere collettivo o per specifici obiettivi di sviluppo settoriale o più
in generale come stimolo per la crescita. L’impatto sulla crescita
ovviamente dipenda dalla rapidità del processo di diffusione
dell’innovazione e dalla difficoltà di appropriazione della conoscenza e
dell’innovazione

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4. I PRINCIPALI STRUMENTI

La conoscenza e l’innovazione possono essere considerate


preliminarmente come un bene pubblico ma anche come un bene
privato con forti esternalità. Tutto ciò pone problemi di non
appropriabilità, di incertezze e di indivisibilità da cui deriva la
possibilità di utilizzo di incentivi ed ancora questioni inerenti alla
appropriabilità ed alle forme di tutela legale della conoscenza.
Il problema del finanziamento dell’innovazione deriva dal fatto
che il capitale proprio non è sufficiente a realizzare l’investimento
innovativo e l’impresa che intende avvalersene deve fare ricorso al
debito o al capitale azionario, tenendo conto comunque delle
condizioni di incertezza che possono essere associate.
Le principali forme di finanziamento dell’innovazione sono
costituite da sussidi e incentivi fiscali alle imprese, dal credito
d’imposta, dai sussidi per R&S, da procedure di ammortamento
facilitato, da incentivi alle forme di collaborazione tra imprese, da
tassazione agevolata per tipologie d’impresa, da esenzioni fiscali su
brevetti.
Un tema critico riguarda la tutela della proprietà intellettuale.
In questo campo occorre far riferimento innanzitutto al copyright o al
diritto d’autore che proteggono per un dato periodo l’idea creativa. I
brevetti specificamente proteggono l’applicazione industriale di una
innovazione. Si tratta di normative in crescente evoluzione anche in
relazione allo sviluppo della globalizzazione e delle potenzialità
conoscitive della rete. L’Europa a sostegno e tutela dell’innovazione
ha sviluppato lo strumento del brevetto europeo. Ad esso sono state
affidate funzioni di carattere incentivante all’investimento, di

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carattere transattivo per facilitare il trasferimento tecnologico, di


diffusione della conoscenza, di segnalazione delle capacità del
soggetto che ne è titolare delle sue capacità di generare innovazioni e
quindi reddito.
L’operatore pubblico può intervenire con il finanziamento
pubblico diretto, ma anche con i premi alle fasi di sviluppo e
commercializzazione, con il sostegno al venture capital o anche
attraverso la partecipazione dell’operatore pubblico al capitale in
particolare nelle fasi di start up.
Un altro tipo di intervento è quello che si registra aumentando
le condizioni fiscali di convenienza all’investimento.
Da ultimo è opportuno segnalare che l’operatore pubblico può
intervenire sulla struttura del mercato con politiche di supporto a
settori o comparti, con meccanismi fiscali per settori.

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5. POLITICHE PER LA DOMANDA

Un ambito di intervento significativo riguarda la possibilità di


intervenire su chi acquista innovazione.
In questo senso è rilevante il ruolo del settore pubblico come
grande acquirente in particolare il meccanismo degli acquisti (public
procurement), ma anche attraverso l’impiego standard tenendo conto
del ciclo di vita del prodotto.
Un’altra forma di intervento è costituito dalla creazione di
mercati nuovi relativi a prodotti o processi innovativi.
Ovviamente occorre disporre di conoscenze del valore
dell’innovazione.
In ogni caso per aver successo in queste politiche occorre
adeguata conoscenza dei bisogni del mercato.
Uno spazio interessante per la creazione della domanda si ha
quando sono gli stessi utilizzatori a contribuire o a sviluppare input
per il processo produttivo. Si tratta del caso dei cosiddetti mercati di
business aperti quando le imprese rinunciano ad esercitare il
controllo totale sulle priorità intellettuale dell’innovazione o nella
integrazione nelle attività d’impresa di innovazioni sviluppate
esternamente. Studi abbastanza recenti hanno teorizzato la
cosiddetta open innovativa fondata sui flussi di informazione da e
verso l’impresa che accelerano l’innovazione ed espandono il mercato.
Tra gli strumenti vanno ricordate le politiche open source innovative.
Con questo termine ci si riferisce all’innovazione in base alla
quale le imprese si basano su idee, risorse e competenze tecnologiche
che sono derivate dall’esterno. Nasce dalla consapevolezza che
l’azienda non è più l’unico proprietario dell’invenzione e

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dell’innovazione ma essa va ricercata e scambiata all’esterno con


l’acquisizione di start up innovative, con la creazione di acceleratori
per start up, o di incubatori d’impresa.
Nella cassetta degli attrezzi vanno ritrovati anche interventi
sulla proprietà intellettuale ovvero anche normative quali leggi
antipirateria che limitino interventi sul prodotto ed incentivi fiscali
inerenti la rivelazione delle conoscenze da parte di chi ne dispone
come produttore o utilizzatore.

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6. LA MISURABILITÀ DELLE INNOVAZIONI

Misurare l’innovazione è un’esigenza dell’operatore pubblico


per comparare le prestazioni innovative tra paesi, anche nel tempo,
ma anche per fissare obiettivi di politica economica ed influenzare il
comportamento della comunità degli innovatori. Per far ciò occorre
individuare delle variabili che siano in grado di misurare lo sforzo
innovativo, le realizzazioni di un’innovazione, il valore della stessa.
Disponiamo di misure per la conoscenza della diffusione delle
innovazioni quali, il numero brevetti, la traduzione degli stessi in
prodotti o attività.
Come detto, la conoscenza e la misura delle innovazioni aiuta
nella messa a punto di politiche e nella definizione delle priorità
anche se si rende necessario una più ampia misurazione per tener
conto dell’emergenza di fenomeni nuovi e delle interconnessioni tra
settori di intervento.
E’ ormai una convinzione diffusa quella della necessità di un
approccio di policy dell’innovazione con capisaldi sulla ricerca di base,
l’istruzione e la proprietà intellettuale, ma anche la necessità di un
approccio sistemico nella politica dell’innovazione, cioè mettere a rete
sistemi innovativi e agire con sistemi di governance a rete, così come
appare opportuno determinare politiche a misura su problematiche
specifiche ed eventualmente determinare processi di adattamento
delle politiche alle specificità dell’economia o dei paesi.
In sintesi una politica dell’innovazione deve interagire con una
pluralità di strumenti che vanno fatti emergere all’interno di
differenti politiche quali politiche sul sistema dell’educazione,
politiche dell’accesso all’informazione, politiche ambientali, politiche

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di liberalizzazione, politiche di regolazione bioetica, politiche di tutela


dei consumatori, politiche tradizionali fiscali, del credito del lavoro,
insomma una cassetta dei ferri ricca e complessa.
Questo impone che la governance della politica dell’innovazione
deve essere sistemica e coordinata dovendo coinvolgere tutti i soggetti
interessati
Conseguentemente si rende necessario un coordinamento tra
soggetti pubblici direttamente impegnati, nonché tra soggetti pubblici
erogatori e tra soggetti pubblici e soggetti privati.
Quali facilitatori nel circuito dell’innovazione è centrale il ruolo
dei Parchi scientifici e dei distretti tecnologici anche come motore di
sviluppo
I Parchi scientifici sono istituzioni che aggregano centri di
ricerca ed imprese ad alto contenuto innovativo con la missione di
favorire e sostenere lo sviluppo attraverso l’innovazione anche
realizzando forme di trasferimento tecnologico.

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LA POLITICA ECONOMICA
EUROPEA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica economica europea”

Indice

1. I FONDAMENTALI -------------------------------------------------------------------------------- 3
2. I LIMITI DEL MODELLO DI SVILUPPO --------------------------------------------------- 4
3. GLI IMPEGNI DEGLI STATI MEMBRI ----------------------------------------------------- 6
4. GLI ORIENTAMENTI DI MASSIMA PER LE POLITICHE ECONOMICHE ------ 8
5. IL PATTO DI STABILITÀ E DI CRESCITA ------------------------------------------------ 9

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Giovanni Cannata “La politica economica europea”

1. I FONDAMENTALI

La politica economica europea appare come l’applicazione più


concreta del paradigma economico dominante
Essa è la risultante del confronto di interessi tra i partner
nell’interlocuzione con gli interessi del resto del mondo nelle sue
differenti aggregazioni partendo dall’iniziale G7 costituito da Francia,
Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Canada,
allargata alla Russia nel G8, per crescere nel tempo
conseguentemente alle necessità di maggiore internazionalizzazione
come risposta alle crisi internazionali.
Il G20 è costituito dagli originali G7 ai quali si sono aggiunti
l’Unione Europea, il gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica) e altri paesi che rappresentano oltre due terzi del PIL, del
commercio e della popolazione mondiale.
L’assetto istituzionale della politica economica europea si fonda
sulla separazione tra la politica fiscale e la politica monetaria, nella
gestione delle politiche fiscali secondo il criterio generale di
contenimento della spesa, una politica monetaria che tenga costante
la crescita dei prezzi, una politica monetaria unica ed una politica
fiscale degli Stati fondata sulla disciplina di bilancio.

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2. I LIMITI DEL MODELLO DI SVILUPPO

Il modello ha presentato limiti in relazione alla difficoltà di


tenere conto dell’ipotesi non sempre raggiungibile di una tendenza
verso situazioni di pieno impiego delle capacità produttive e del lavoro
pur tenendo conto di quella che è stata definita disoccupazione
frizionale, nonché della capacità previsiva dei mercati finanziari di
anticipare l’andamento dell’economia
La crisi o meglio le crisi in atto hanno messo in evidenza i limiti
delle ipotesi richiamate. La crisi si è amplificata attraverso le banche
attraverso una minore concessione del credito con una conseguente
carenza di domanda aggregata.
La crisi si è espressa in modo differenziato tra i paesi in
relazione al grado di fragilità degli stessi e del peso che la politica
monetaria registrava negli stessi.
I paesi PIIGS o GIPSI secondo l’acronimo della stampa
economica che indica con questo nome i cinque paesi dell’Unione
Europea più deboli economicamente Portogallo, Italia, Grecia, Irlanda
e Spagna possono intervenire per il controllo dell’indebitamento e
della competitività prevalentemente con tagli salariali e riduzione
dell’intervento pubblico con il risultato di determinare effetti ancora
peggiori delle cause che li hanno originato con un meccanismo
perverso per cui più diminuisce il PIL più cresce il debito per i paesi
in crisi sono spinti a riforme drastiche.
Lo sbilancio fiscale e lo spread sono sintomi della fragilità e non
causa
La severità delle crisi ha portato a interrogarsi sulla necessità
di sciogliere il dilemma politica europea restrittiva o autonomia delle

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politiche economiche nazionali andando alla ricerca di meccanismi


decisori più democratici e partecipativi. Ben diversa è la posizione di
coloro i quali si schierano per l’unione politica.
Il trilemma europeo ovvero come conciliare democrazia,
globalizzazione e autonomia di gestione della politica economica a
livello nazionale è sul tavolo e costituisce lo scenario al quale fare
riferimento alla luce dell’impatto della globalizzazione e della
necessità di nuove regole del mercato globalizzato

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3. GLI IMPEGNI DEGLI STATI MEMBRI

Il Trattato di Lisbona definisce la governance della politica


economica europea e gli impegni degli stati membri
Il Trattato rafforza il ruolo della politica monetaria ed impegna
gli Stati membri ad attenersi agli Orientamenti di massima per le
politiche economiche espressi sotto forma di raccomandazioni adottate
dal Consiglio. Gli Stati sono tenuti a rispettare il Patto di stabilità e
di crescita che prevede il controllo dei deficit pubblici e l’obbligo di
rispetto del limite massimo del debito pubblico e del controllo del
deficit delle amministrazioni pubbliche.
La sorveglianza sugli impegni è effettuata dalla Commissione e
dal Consiglio e in caso di inadempimento la Commissione rivolge un
avvertimento.
Il Consiglio può rafforzare l’avvertimento del consiglio con una
raccomandazione nei confronti dello Stato membro con condizioni
particolari a seconda che si tratti di paese membro o meno di
eurozona
Il Trattato di Lisbona conferma la politica monetaria e
istituisce la Banca Centrale Europea affidando al Parlamento potere
di modifica dello statuto della BCE che diventa Istituzione dell’UE.
Il Trattato conferma altresì la competenza esclusiva dell’UE in
materia di politica monetaria per i Paesi che hanno adottato l’Euro
Il Trattato prevede l’istituzione dell’Eurogruppo costituito dal
coordinamento di diciannove Paesi comunitari che adottano l’Euro e
costituiscono la cosiddetta Eurozona e che partecipano alle decisioni
relative al destino dell’Euro, al coordinamento e alla vigilanza della
disciplina di bilancio,

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Giovanni Cannata “La politica economica europea”

all’elaborazione di orientamenti delle politiche economiche


specifiche per l’euro. Il ruolo di queste aggregazione nell’euro è
confermato dalle previsioni della rappresentanza unificata della zona
euro nelle sedi finanziarie internazionali.

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4. GLI ORIENTAMENTI DI MASSIMA PER LE


POLITICHE ECONOMICHE

Gli orientamenti di massima dell’EU vanno ricercati nella


raccomandazione 2010/410/UE del Consiglio del 13 luglio 2010
propone la Strategia Europea 2020 con l’obiettivo di raggiungere una
crescita intelligente, sostenibile e inclusiva tenendo conto della
sostenibilità delle finanze pubbliche e della stabilità macroeconomica
degli Stati membri
Gli Stati membri debbono rispettare il Patto di stabilità e di
crescita per conseguire gli obiettivi strategici prestando attenzione ai
mercati mobiliari e ai bilanci delle famiglie. L’Europa con questi
orientamenti ha adottato una strategia cosiddetta di crescita
intelligente (smart) che fa riferimento ad un’economia basata sulla
conoscenza e sulla creatività.
L’impegno particolare è posto su ricerca e tecnologia anche
attraverso la promozione dell’innovazione la crescita deve implicare
un uso sostenibile dell’energia e delle risorse naturali attraverso
l’impiego di politiche rispettose dell’ambiente
La crescita deve essere inclusiva garantendo l’accesso equo
all’economia per tutti i cittadini che possano trovare beneficio dal
buon andamento dell’economia e dei mercati. In questo senso gli stati
membri debbono garantire il rispetto delle norme del mercato unico e
della concorrenza ma anche una migliore regolamentazione dei
mercati finanziari che ne consentono il buon funzionamento.

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5. IL PATTO DI STABILITÀ E DI CRESCITA

Il Consiglio europeo di Amsterdam del 1997 ha adottato il Patto


di stabilità e di crescita (PSC).
Gli Stati membri s'impegnano a rispettare l'obiettivo a medio
termine di un saldo di bilancio vicino al pareggio o attivo. Inoltre gli
Stati membri sono invitati a rendere pubbliche, di propria iniziativa,
le raccomandazioni rivolte loro dal Consiglio.
Gli Stati s'impegnano inoltre ad adottare i provvedimenti
correttivi di bilancio necessari per conseguire gli obiettivi dei loro
programmi di stabilità o di convergenze a procedere senza indugio
agli aggiustamenti correttivi del bilancio che ritengano necessari non
appena ricevano informazioni indicanti il rischio di un disavanzo
eccessivo correggeranno al più presto gli eventuali disavanzi eccessivi.
Con il Patto gli Stati s'impegnano a non appellarsi al carattere
eccezionale di un disavanzo conseguente ad un calo annuo del PIL
inferiore al 2 %, a meno che non registrino una grave recessione (calo
annuo del PIL reale di almeno lo 0,75 %).
La Commissione, da parte sua ha diritto di esercitare il diritto
d'iniziativa conferitole dal trattato così da agevolare il funzionamento
rigoroso, rapido ed efficace del patto di stabilità e di crescita; ed è
tenuto a presentare tempestivamente le relazioni, i pareri e le
raccomandazioni necessari per consentire al Consiglio di adottare in
tempi brevi le sue decisioni. La Commissione s'impegna inoltre a
redigere una relazione quando vi sia il rischio di un disavanzo
eccessivo o quando il debito pubblico previsto o effettivo superi il
valore di riferimento del 3 % del PIL e a presentare per iscritto al

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Giovanni Cannata “La politica economica europea”

Consiglio i motivi giustificativi della sua posizione quando ritenga


non eccessivo un disavanzo superiore al 3% .
In questo quadro di ripartizione di competenze il Consiglio
s'impegna ad attuare secondo modalità sollecite e rigorose tutti gli
elementi del patto di sua competenza. Esso è vivamente invitato a
considerare come termini massimi le scadenze previste per
l'applicazione della procedura riguardante i disavanzi eccessivi; ed è
invitato altresì ad applicare rigorosamente tutta la gamma delle
sanzioni previste. Se uno Stato membro partecipante non prende i
provvedimenti necessari è invitato a esporre sistematicamente per
iscritto i motivi giustificativi della sua decisione di non agire .

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COMMERCIO
INTERNAZIONALE
ISTITUZIONI E ACCORDI
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Commercio internazionale istituzioni e accordi”

Indice

1. L’EVOLUZIONE DELLE ISTITUZIONI ----------------------------------------------------- 3


2. L’ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL COMMERCIO ------------------------------- 6
3. IL TRATTATO TRANSATLANTIC TRADE AND INVESTMENT PARTNERSHIP
---------------------------------------------------------------------------------------------------------- 7
4. IL TTIP POSIZIONI FAVOREVOLI E CONTRARIE ------------------------------------ 11

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Giovanni Cannata “Commercio internazionale istituzioni e accordi”

1. L’EVOLUZIONE DELLE ISTITUZIONI

La storia delle istituzioni del commercio internazionale ha una


pietra miliare negli Accordi di Bretton Woods (1944) con i quali sul
finire della seconda guerra mondiale si volle creare un nuovo “ordine
mondiale” . La Conferenza alle quali presero parte tutti i paesi nella
guerra contro la Germania, Italia e Giappone diede luogo ad accordi
di cooperazione multilaterale ed organismi internazionali riconosciuti
progettati per garantire uno sviluppo ordinato dell’economia
mondiale. In quell’occasione venne creato il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca Mondiale ma venne prevista anche la
creazione dell’ITO (International Trade Organization) istituzione
prevista per la regolamentazione del Commercio internazionale che
tuttavia non vide mai la luce a causa del rifiuto USA di ratificare gli
sviluppi che erano stati raggiunti con la predisposizione della c.d.
Carta de L’Avana nella quale venivano fissate le regole principali per
un rilancio del commercio mondiale e le relative istituzioni.
Dagli accordi di Bretton Woods del 1944 il gruppo di paesi
usciti vincitori dalla guerra avviò successive trattative multilaterali
per ridurre gli ostacoli al commercio internazionale. Tali trattative
hanno originato nel GATT (General Agreement on Tariffs and Trade)
come organizzazione informale che nelle sue prime fasi tuttavia non
fu riconosciuto come organismo didi dritto internazionale.
Venne approvata la Clausola della “Nazione più favorita” (Most
Favoured Nation –MFN) in base alla quale veniva adottata una
regola di non discriminazione nel commercio internazionale per la
quale se un paese aderente all’accordo riconosce alle importazioni

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provenienti da un altro Stato un trattamento favorevole è tenuto ad


applicarlo a tutti gli altri Paesi aderenti all’accordo.
Il GATT ha operato attraverso una serie di “round” di
negoziazioni ai quali nel tempo hanno aderito un numero crescente di
Paesi. Di seguito si riportano i diversi incontri contraddistinti dal
luogo in cui si sono tenuti che ne da il nome, dal tema trattato e dal
numero dei partecipanti
1947-8 Ginevra, Dazi, 23 paesi
1949 Annecy, Dazi, 13 paesi
1950-1 Torquay, Dazi, 38 paesi
1956 Ginevra, Dazi, 26 paesi
1960-2 Dillon Round, Dazi, 26 paesi
1963-7 Kennedy Round, riduzione Dazi e antidumping 62 paesi
1973-9 Tokyo, Round, Dazi e generalizzazione e riduzione delle
barriere non tariffarie (BNT) 102 paesi
1986-93 Uruguay Round, Dazi, BNT, riduzione dei sussidi e
delle sovvenzioni inclusione dei servizi, tessile, agricoltura e creazione
del WTO 123.
A conclusione del Round a Marrakech sono stati firmati tre
accordi e cioè il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade)
accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, il GATS
(General Agreement on Trade in Services) relativo al commercio dei
servizi ed il TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property
Rights) inerente agli aspetti commerciali dei diritti relativi alle
proprietà intellettuale (brevetti, marchi, copyright ed invenzioni
industriali).
I Principi del GATT sono quelli della trasparenza, della non
discriminazione della reciprocità.

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Come principali effetti del GATT occorre ricordare che i livelli


medi dei dazi sui prodotti industriali diminuirono considerevolmente
e i temi in discussione si sono via via ampliati anche se hanno fatto
riferimento riflettono per lo più all’interesse dei paesi sviluppati.
Con riferimento ai paesi in via di sviluppo (LDC) in base
all'Art. XVIII del GATT gli stessi godono di un trattamento
differenziato consistente in un accesso preferenziale ai mercati dei
paesi più sviluppati nella possibilità di misure più restrittive sulle
importazioni.
Per contro, i paesi in via di sviluppo hanno avuto scarso peso
nelle decisioni del GATT per una modesta possibilità di proposte
contrattuali
Le trattative del GATT hanno coinvolto principalmente gli USA
e la CEE
I paesi sviluppati si sono confrontati duramente sulle
possibilità di maggiore accesso ai mercati degli altri paesi sviluppati
Gli argomenti centrali hanno riguardato i dazi sulla
manifattura mentre argomenti trascurati sono stati il tessile e
agricoltura temi di maggior interesse per i paesi in via di sviluppo che
tuttavia negli anni ’80 hanno fatto registrare una partecipazione più
attiva e incisiva all’Accordo.

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2. L’ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL


COMMERCIO

L’Organizzazione mondiale del commercio OMC è stata


istituita con gli Accordi di Marrakech del 1994 a conclusione
dell’Uruguay Round
Ha trasformato il precedente Accordo generale sulle tariffe
doganali e il commercio GATT del 1947, in un’organizzazione
internazionale dotata di personalità giuridica entrata in vigore nel
gennaio del 1997.
L’OMC ha organi decisionali, rappresentativi degli Stati
membri (Conferenza ministeriale, Consiglio generale e Comitati) ed
organi amministrativi (Direttore generale e Segretariato)
L’Organizzazione mondiale del commercio ha una vocazione
universale e ne fanno parte altre 160 Stati a cui si aggiungono altri 20
paesi osservatori e prevede la progressiva liberalizzazione del
commercio mondiale.
La partecipazione degli Stati comporta l’accettazione degli
accordi GATT e degli Accordi in materia di commercio di servizi
(GATS), di investimenti (TRIMS), di proprietà intellettuale (TRIPs) e
di risoluzione delle controversie (DSU).
L’OMC costituisce inoltre la sede nella quale i paesi aderenti
negoziano gli accordi multilaterali per i prodotti previsti nel Trattato
ma anche la sede per realizzare ulteriori accordi e risolvere con
apposite procedure le eventuali controversie emergenti. In sintesi
l’OMC è una forma di discussione della normativa ed un organismo
per la risoluzione delle controversie.

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3. IL TRATTATO TRANSATLANTIC TRADE AND


INVESTMENT PARTNERSHIP

Una peculiarità, e per certi aspetti un limite dell’OMC, sta nel


meccanismo di assunzione delle decisioni che, a differenza di quanto
accade in altre organizzazioni internazionali nelle quali si adottano le
regole cosiddette “ un paese un voto” o del “voto ponderato”, vige la
regola c.d. del consenso per molte decisioni. In base a tale regola non è
prevista unanimità delle decisioni ma si prevede che nessun membro
possa ritenere una decisione talmente inaccettabile da poter obiettare.
E’ certamente un metodo che spinge verso una più ampia condivisione
delle decisioni ma che rende tutte le procedure molto più lunghe e
talvolta contraddistinte da ambiguità da definire successivamente.
Successivamente alla Conferenza di Marrakech si è aperta un
nuovo round negoziale a Doha in Qatar nel 2001, non raggiungendo
un risultato definitivo per se nell’OMC si risolve la questione cinese
con l’ingresso tanto della Republic Popolare di China, quanto con
l’ingresso della Republic di Taiwan.
L’area di maggiore contenzioso nel negoziato di Doha è quella
del commercio agricolo con riferimento al protezionismo dei paesi
sviluppati a cui si oppone la posizione dei paesi in via di sviluppo che
spesso poggiano il loro commercio su tale produzione.
Allo stato l’evoluzione del round di Doha appare problematica
con particolari osservazioni degli Stati Uniti che dell’Unione Europea
che sollecitano verso nuovi obiettivi dell’OMC. Mentre si chiariscono i
termini di dibattito l’Unione Europea sollecita attenzioni per
l’inclusione di problematiche nuove quali ad esempio quelle inerenti il
commercio digitale.

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Nell’economia globalizzata sono in grandi sofferenze gli accordi


multilaterali quali il Doha Round sostituito da grandi accordi
regionali bilaterali che mettono insieme gruppi di paesi affini.
Emerge quindi la crisi della liberalizzazione dei commerci su
scala mondiale e il risorgere di protezionismi nazionalistici.
Nel quadro evolutivo degli strumenti del commercio
internazionale il Trattato TTIP è un accordo commerciale di libero
scambio in corso di negoziazione da alcuni mesi tra USA e Unione
Europea che sancisce l’apertura degli USA alle imprese dell’Unione
Europea, la riduzione degli oneri amministrativi per le imprese
esportatrici. La definizione di nuove norme che rendono agevole ed
equo esportare, importare e investire oltre oceano ma anche stabilire
più facilmente se un prodotto è made USA o made in UE.
Il Trattato impegna i 50 Stati degli USA e i 28 Paesi membri
dell’UE con un riferimento a oltre il 40% del PIL mondiale e dovrà
essere approvato dal Parlamento Europeo.
Il TTIP è definito un accordo commerciale e per gli investimenti
Obiettivo dichiarato del TTIP è «aumentare gli scambi e gli
investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale
inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove
opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita
mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore
compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali».
Le aree principali di intervento riguardano l’accesso al mercato,
gli ostacoli non tariffari e le questioni normative.
L’accesso al mercato il TTIP prevede l’eliminazione di tutti i
dazi sugli scambi bilaterali di merci, misure antidumping e misure di
salvaguardia, la liberalizzazione dei servizi, la liberalizzazione degli

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appalti pubblici, la tutela degli investimenti con arbitrato


internazionale stato-imprese.
Contrariamente alle questioni normative e agli ostacoli non
tariffari il trattato si propone di rimuovere gli ostacoli agli scambi e
agli investimenti, compresi gli ostacoli non tariffari esistenti,
raggiungendo un adeguato livello di compatibilità normativa in
materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco,
l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di
regolamentazione.
Le barriere non tariffarie come è noto sono misure adottate da
un mercato per limitare la circolazione di merci e non consistono
nell’applicazione di tariffe ma altri limiti quali limiti quantitativi o
contingentamenti di determinati beni che possono essere importati)
barriere tecniche e di standard (cioè di regolamento).
Nel trattato vengono affrontate questioni normative, ma anche
le norme relative al miglioramento della qualità normativa e regole
globali, un’attenzione a diritti di proprietà intellettuale, agli scambi
«di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio
Vengono poi proposte disposizioni su «controlli efficaci, misure
antifrode su antitrust, fusioni e aiuti di Stato», ma anche la questione
dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle
imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi.
In tema di questioni normative il trattato disciplina inoltre le
questioni dell’energia e delle materie prime connesse al commercio le
disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le
piccole e medie imprese.
Le disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti
correnti e dei movimenti di capitali gli studi promossi dalla

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Commissione europea con riferimento al Trattato fanno emergere


posizioni favorevoli al TTIP relative al possibile incremento degli
scambi tra le aree contraenti in particolare verso USA per la presenza
di dazi più bassi, una stimata crescita del PIL con effetti su
concorrenza, innovazione e tecnologia ed inoltre benefici derivanti
dalla semplificazione amministrativa in termini procedurali e di costi.
Secondo tali analisi dal TTIP deriverebbero ai paesi europei
una creazione di posti di lavoro e un rilancio della crescita, una
riduzione dei prezzi per i consumatori con una scelta più ampia dei
beni.

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4. IL TTIP POSIZIONI FAVOREVOLI E


CONTRARIE

Come in tutte le negoziazioni occorre identificare posizioni


divergenti nella valutazione del Trattato da considerare nella fase
negoziale in atto. Una consapevolezza diffusa della criticità da
affrontare e risolvere riguarda la necessità che i prodotti importati
nell’UE tengono conto del livello elevato di standard che proteggono la
salute dei cittadini e la qualità dell’ambiente e apportono comunque
benefici alla società. Si ritiene inoltre necessario che i governi possano
adottare norme che proteggano le persone e l’ambiente e che
consentono una libera gestione dei servizi pubblici.
Le principali critiche rivolte al negoziato in corso riguardano la
mancanza di trasparenza nel negoziato, la valutazione di
inattendibilità delle stime dell’impatto dell’accordo, l’individuazione
di normative al ribasso nell’interesse delle imprese e non dei
consumatori/cittadini.
Vengono inoltre evidenziate criticità nel mercato del lavoro e
con riferimento ad alcuni settori come accade per l’agricoltura
europea, e comunque una posizione di svantaggio per le PMI rispetto
alle multinazionali.
I critici segnalano rischi per i consumatori perché i principi su
cui sono basate le leggi europee sono diversi da quelli degli Stati Uniti
(principio di precauzione, possibilità di ricorso collettivo o class action,
indennizzazione monetaria, questione degli OGM, obbligo di
etichettatura del cibo, uso del fracking per estrarre il gas, protezione
dei brevetti farmaceutici

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I negoziati sarebbero orientati alla privatizzazione dei servizi


pubblici con rischi su welfare, salute, educazione mentre sono
ravvisate minacce a libertà di espressione su internet o privazioni agli
autori della libertà di scelta in merito alla diffusione delle loro opere
Posizioni contrarie al trattato emergono sulla clausola ISDS,
Investor-State Dispute Settlement che prevede la possibilità per gli
investitori di ricorrere a tribunali terzi in caso di violazione, da parte
dello Stato destinatario dell’investimento estero, delle norme di diritto
internazionale in materia di investimenti. Le aziende potrebbero
opporsi alle politiche sanitarie, ambientali, di regolamentazione della
finanza o altro attivate nei singoli paesi reclamando interessi davanti
a tribunali terzi, qualora la legislazione di quei singoli paesi riducesse
la loro azione e i loro futuri profitti.
Il trattato pone molte questioni problematiche ma il negoziato è
ben lungi dall’essere concluso da un canto per il mancato
consolidamento di una chiara posizione europea che tenga conto degli
interessi dei 28 paesi dell’UE, dall’altro dai cambiamenti inerenti agli
esiti elettorali per la Presidenza degli Uniti.

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ANALISI COMPARATA DEI
PRINCIPALI SISTEMI
CAPITALISTICI
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Analisi comparata dei principali
sistemi capitalistici”

Indice

1. L'AZIONARIATO DIFFUSO E IL MODELLO ANGLOSASSONE ------------------- 3


2. IL CAPITALISMO FAMILIARE ITALIANO ----------------------------------------------- 9
3. IL CAPITALISMO TEDESCO ----------------------------------------------------------------- 16
4. IL MODELLO CAPITALISTA GIAPPONESE -------------------------------------------- 23
5. CONCLUSIONI------------------------------------------------------------------------------------ 33

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Salvatore Della Corte “Analisi comparata dei principali
sistemi capitalistici”

1. L'AZIONARIATO DIFFUSO E IL MODELLO


ANGLOSASSONE

Quando si è trattato di affrontare il tema delle privatizzazioni


in Italia, i decisori di Politica economica hanno dovuto affrontare
quale modello capitalista era più consono alla realtà italiana.
Come infatti lo studente apprenderà da questa lezione esistono
diversi modelli di capitalismo ed essi sono profondamente diversi tra
di loro, in particolare per le modalità di finanziamento dell'impresa e
per la possibilità degli imprenditori migliori di far crescere le
dimensioni delle proprie aziende.
Le privatizzazioni sono state l'occasione per riflettere e
confrontarsi su quale modello fosse il migliore e quale il più consono
alla realtà italiana.
Nella prassi di politica economica, si sono confrontate
essenzialmente due scuole che avevano due modi diversi di intendere
le privatizzazioni e si sono trascurati altri modelli, fondati su un
rapporto cooperativo tra banca e imprese, come in Germania e
Giappone.
Per una scuola era doveroso tentare di utilizzare l'occasione
storica delle privatizzazioni per favorire in Italia la nascita di public
companies.
Questa tesi è stata sostenuta da quanti ritengono che, per
tenere il passo con i mercati internazionali, il capitalismo italiano
debba abbandonare la sua tradizionale dimensione familiare e aprirsi

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Salvatore Della Corte “Analisi comparata dei principali
sistemi capitalistici”

a nuovi azionisti e ad una gestione maggiormente manageriale delle


imprese1.
Non si trattava, secondo questi economisti, di vendere i vecchi
feudi dei dirigenti di Stato alle grandi famiglie del capitalismo
italiano, ma, piuttosto, di trasformare queste imprese in public
companies.
Il sistema economico italiano necessitava e necessita ancora,
secondo questa tesi, che si sviluppi maggiormente il mercato azionario
italiano. E' augurabile, secondo questa scuola economica
un'evoluzione del sistema finanziario e di controllo delle imprese. A
tal fine si rende necessaria la presenza di alcune condizioni:
a) la diffusione di azioni fra i dipendenti delle aziende, perché
questo permette una gestione più facile dell'impresa: un
dipendente di una grande impresa può diventarne azionista se
trasforma il TFR in azioni;
b) una più intensa partecipazione degli investitori istituzionali al
capitale delle imprese quotate ed un maggiore sviluppo della
loro partecipazione al mercato dei capitali;
c) una maggiore trasparenza del mercato azionario secondario,
per il raggiungimento della quale occorrono nuovi strumenti di
diffusione delle informazioni sulle società quotate e nuovi
meccanismi di verifica interni ed esterni all'impresa ancora
oggi non del tutto disponibili;
d) la creazione di intermediari che svolgano attività di raccolta di
informazione, di coordinamento degli azionisti, di valutazione
delle imprese, di raccolta dei capitali: la necessità della nascita

1 Questa tesi è stata sostenuta da PRODI R., 1992 Un modello per le


privatizzazioni “Il Mulino”, ristampato in Frodi, R. Il capitalismo ben
temperato, Bologna, Il Mulino, 1995

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Salvatore Della Corte “Analisi comparata dei principali
sistemi capitalistici”

di questa categoria di operatori, deriva dal fatto che le attività


citate godono di economie di scala e i costi di queste attività
sarebbero troppo elevati per i singoli agenti.
Secondo questi economisti i modelli di riferimento economico
sono le istituzioni della riallocazione proprietaria tipici del Regno
Unito e degli USA.
In questi Paesi, infatti, la crescita industriale è determinata
dalla esistenza di un mercato dei capitali molto attivo, in cui milioni
di azioni vengono trattate quotidianamente sul mercato secondario e
nuove iniziative economiche vengono finanziate sul mercato primario.
La proprietà delle grandi aziende, cosi distribuita tra un
numero elevatissimo di persone, non implica il controllo sugli
amministratori dell'azienda, ma la sola conservazione dei diritti
patrimoniali: la riscossione dei dividendi e i guadagni in conto
capitale: il potere di controllo si riduce all'attività di vendita o di
acquisto delle azioni, mentre il controllo effettivo sulle imprese è
esercitato dai manager.
I fautori del capitalismo a proprietà diffusa in genere amano
descrivere questo sistema di finanziamento delle imprese industriali
come "il migliore dei mondi possibili", in ogni caso una fase più
avanzata ed efficiente dello sviluppo del capitalismo.
Occorre però innanzitutto avvertire i sostenitori di queste tesi
che gli attuali istituti della riallocazione sono il risultato dei processi
storici delle economie di quei Paesi.
Negli Stati Uniti la nascita e lo sviluppo dell'attuale sistema è
legato alle enormi dimensioni del Paese. In particolare fu durante le
due successive ondate di costruzioni delle ferrovie, la prima nel 1840-
1870, la seconda negli anni 1870-1900, che le enormi dimensioni del

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sistemi capitalistici”

sistema ferroviario imposero la necessità di raccogliere ingenti


capitali aggiuntivi rispetto a quelli posseduti dalle famiglie fondatrici
delle imprese. Se si considera che, una volta completato, intorno al
1910, il sistema ferroviario statunitense era pari a circa 10 volte
quello inglese, si comprende perché la raccolta presso agricoltori,
commercianti e piccoli industriali non fu sufficiente a finanziare tali
costruzione. Sul finire del 1850 alcune delle imprese di importazione e
di esportazione di New York si specializzarono nella vendita di
obbligazioni ferroviarie, per divenire le prime banche d'affari
statunitensi. In seguito, si assistette alla concentrazione e
all'istituzionalizzazione del mercato americano dei capitali a New
York. D'altra parte lo sviluppo del sistema ferroviario statunitense
generò una classe manageriale con alte capacità tecniche, adatte a
dirigere le nascenti imprese di grandi dimensioni, e a gestire la
complessità dei sistemi ferroviari.
Per le ragioni che spiegheremo avanti, esistono ragioni per
essere cauti circa tanto ottimismo, come la crisi di Wall Street del
1929 e quella recente dei mutui sub prime del 2008 ci ricordano
incessantemente.
Occorre, in merito all'organizzazione dei mercati borsistici
secondari, tenere sempre presente un insegnamento di Keynes che
non ebbe particolare seguito, neanche tra gli aderenti alla suo scuola,
quando scrisse:
(che il mercato secondario borsistico è) “Una guerra di astuzia,
a chi meglio indovina la base della valutazione convenzionale (delle
azioni o obbligazioni) fra qualche mese, invece del rendimento
prospettico dell'investimento nel corso di un lungo periodo di anni”

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In altre parole, secondo Keynes, lo scopo privato dei più esperti


investitori di oggi (in Borsa) è to beat the gun come dicono gli
americani (scattare prima del segnale di partenza) mettere nel sacco
la gente, riuscire a passare al prossimo la moneta cattiva o svalutata
(Teoria Generale, Keynes).
Si tratta del 1930, quando scrive Keynes. Oggi la situazione,
con le vendite che scattano simultaneamente e immediatamente allo
sfondamento di determinati prezzi di riferimento, la situazione è, se
possibile, peggiorata.
Tradotto per gli studenti: secondo Keynes l'andamento dei
mercati borsistici non ha alcuna relazione con l'andamento
dell'economia reale.
La Borsa (mercato secondario) è il regno della speculazione: è il
posto in cui si danno le fregature agli altri, si scommette sul valore
che le azioni avranno qualche ora dopo.
Qualcuno perde, qualcuno vince, ma il saldo è zero.
Lo sviluppo economico dipende invece dall'innovazione
tecnologica, dalla capacità di trasformare le invenzioni e le
innovazioni in nuovi prodotti e processi: dipende dai nuovi
investimenti in capitale fisico aggiuntivo.
La situazione economica si aggrava, secondo Keynes, quando i
soldi sono tutti impiegati nelle Borse, sui mercati borsistici secondari
per le scommesse quotidiane e nessuno può più investire
nell'economia reale.
La soluzione al problema? Secondo Keynes: “l'introduzione di
una forte imposta di trasferimento per tutte le negoziazioni potrebbe
dimostrarsi la riforma più utile, allo scopo di mitigare il predominio
della speculazione sull'intraprendenza negli Stati Uniti. Lo spettacolo

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dei moderni mercati di investimento mi ha talvolta portato alla


conclusione che un rimedio utile per i nostri mali contemporanei
potrebbe essere quello di rendere un investimento permanente e
indissolubile come il matrimonio, salvo che per causa di morte o altro
grave motivo, In tal modo, infatti, si obbligherebbe l'investitore ad
orientare la sua mente verso le prospettive a lungo termine e verso
queste soltanto.”
A queste critiche circa la sterilità per la crescita economica dei
mercati secondari borsistici, si aggiunge tutta una serie di ulteriori
critiche, circa la superiorità del modello del capitale diffuso rispetto
agli alternativi modelli capitalistici:
 il capitalismo familiare;
 il capitalismo tedesco;
 il capitalismo giapponese.

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2. IL CAPITALISMO FAMILIARE ITALIANO

Il capitalismo italiano, similmente a quello giapponese, è


caratterizzato da una forte componente familiare. Le famiglie
possiedono infatti un valore elevato di capitale sociale delle imprese: a
differenza degli anglosassoni, gli italiani detengono le azioni delle
società che controllano.
Nel sistema economico italiano, il possesso azionario è
essenzialmente la forma di controllo della società e non un
investimento finanziario, o metodo di finanziamento dell'impresa.2
Noti economisti sono inoltre convinti che l'esercizio dei diritti
proprietari garantisca migliore uso dei beni 3. Secondo questi
economisti in un'impresa con molti azionisti, ciascuno di essi è troppo
piccolo per avere un incentivo ad esercitare una azione di
supervisione sul management.
Questa circostanza favorisce fenomeni di asimmetria
informativa e non garantisce un adeguato controllo del management
da parte degli azionisti: per ciascuno di essi il costo della supervisione
è maggiore del beneficio che ne possono trarre. Vedremo che
l'asimmetria informativa in merito alla conoscenza dei provvedimenti
adottati dal Governo è un problema analogo.
Ma i limiti del sistema del capitale diffuso non sono solo quelli
appena descritti. Il trasferimento del controllo da un gruppo di

2FARINA F. (1976) Modelli interpretativi e caratteri del capitalismo familiare in


"Quaderni Storici", col.11, maggio - agosto.
3GROSSMAN, S. J. E O.D. HART(1980) Takeover Bids, the Free-Rider Problem
and the Theory of the Corporation, in "The Journal of Economics", n. 11, pp. 42-
64. GROSSMAN, S. J. e O.D. HART (1982) Corporate Financial Structure and
Managerial Incentives, in J. Mc Call (a cura di), The economics of information and
Uncertainity

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azionisti ad un altro non è quel processo così semplice ed automatico,


descritto dagli estimatori di questo modello di capitalismo.
Quando sul mercato secondario si diffonde la convinzione,
durante l'offerta di acquisizione, che essa avrà un esito positivo, il
singolo azionista ha un beneficio nel ritardare la vendita delle azioni
ed attendere l'incremento di valore successivo all'acquisizione.
In questo modo, però, lo scalatore dovrebbe rinunciare a gran
parte del profitto e pagare agli azionisti il valore atteso delle azioni
con la nuova gestione.
Questi appena citati sono alcuni esempi dei problemi che
nascono in un mercato borsistico, dove le aspettative di rendimento o
di perdita dall'acquisto e la vendita di azioni, giustificate o meno da
un efficiente flusso informativo sullo stato economico delle imprese,
possono determinare esiti, al contrario di quanto ritenuto dalla
maggior parte della letteratura economica italiana, altamente
inefficienti.4
Occorre inoltre sottolineare che tra i due sistemi, quello
anglosassone e quello italiano, è diversa la concezione dell'impresa:
l'impresa statunitense è un modo per esercitare il potere di monopolio
e sfruttare le economie di scala, risolvere i problemi associati alle
relazioni di lungo periodo in senso verticale fra fornitore e
acquirente5.
L'economia italiana ha sperimentato, invece, un modello di
organizzazione industriale diversa, i distretti industriali e la

4Si assiste sul mercato borsistico statunitense, di recente, al fenomeno del


downsizing. Le imprese che licenziano vengono premiate dal mercato. Spesso questi
licenziamenti sono motivati non da reali esigenze di ristrutturazione aziendale ma
unicamente dalla necessità di elevare il corso dei titoli dell'azienda. Newsweek ha
parlato, con riferimento a questo fenomeno di Killing Capitalism, “capitalismo omicida”.
5JEAN TIROLE, “Teoria dell'organizzazione industriale”, HOEPLI trad. it. 1991, la teoria
dell'impresa, pagine 25-88

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produzione flessibile, ne sono esempio la STEFANEL, la BENEITON


e la CARRERA.
Questo tipo di imprese ha coniugato le convenienze della
concentrazione nella finanza, nella ricerca, nella progettazione, nella
pubblicità e nel controllo delle reti distributive, con la produzione
flessibile per le attività di manifattura in senso stretto6.
Il controllo delle aziende rimane strettamente in mano alle
famiglie.
Anche le altre grandi imprese italiane, che possiedono il
modello organizzativo di produzione più accentrato, sono controllate
stabilmente da alcune famiglie.
Il tipo di controllo sull'azienda garantito dal capitalismo
familiare ha il vantaggio di consentire ai gruppi privati italiani di
effettuare piani di ristrutturazione e di sviluppo su di un orizzonte
temporale di più ampio respiro, rispetto alle possibilità consentite ai
management statunitensi ed anglosassoni, che debbono
obbligatoriamente presentare risultati positivi alla presentazione dei
bilanci e dei resoconti trimestrali in base ai quali gli operatori di
borsa ed il pubblico dei piccoli risparmiatori decide le proprie
operazioni di acquisto e di vendita dei titoli azionari.
Come in tutti i problemi di ottimizzazione intertemporale in
contesto dinamico la scelta più economica nel breve periodo si può
presentare come la più costosa nel lungo periodo e scelte

6 Si leggano PIORE, MJ., SABEL, C.F. (1983) Italian small business development:
lessons forU.S.industrial policy in ZYSMAN J., TYSON L., (a cura di) American Industry
in International Competition, Cornell U.P., Ithaca, pp. 391-421.
FIORENZA BELUSSI, Apprendimento e path-dependency: la STEFANEL. I in
Nuovi modelli d'impresa, gerarchie organizzative ed imprese rete, a cura di
FIORENZA BELUSSI, Franco Angeli, op. cit. La flessibilità si fa gerarchia; in
Nuovi modelli d'impresa gerarchie organizzative ed imprese rete, a cura di
FIORENZA BELUSSI, Franco Angeli, op. cit.

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continuamente miopi possono portare a sconfitte sui mercati


internazionali.
Da questo punto di vista, rivelano i critici delle public
companies, il sistema anglosassone può rivelarsi più debole del
capitalismo familiare perché tende a generare una spasmodica
pressione verso la massimizzazione del profitto di breve periodo, col
rischio di trascurare le strategie di lungo periodo.
Il problema del manager di una public company si presenta con
un orizzonte temporale definito, e sottoposto a una serie di vincoli di
reddito, tecnologici e politico legislativi.
Nel caso del capitalismo familiare l'orizzonte temporale della
proprietà si espande e diviene infinito. Il problema è identico al
precedente ma l'orizzonte temporale è più ampio e diviene infinito
perché gli eredi entrano nel problema di massimizzazione.
Le imprese familiari, dunque, a differenza delle società a
capitale diffuso, sono caratterizzate da una forte dedizione da parte
della proprietà, disposta a grandi sacrifici, pur di salvaguardare le
esigenze di sviluppo delle stesse imprese.
Questo accade perché la proprietà si può trasmettere
ereditariamente.
L'orizzonte temporale delle decisioni diventa infinito perché le
generazioni future (gli eredi) hanno un peso nel problema di
ottimizzazione del valore dell'impresa.
Il capitalismo familiare, inoltre, è esente dai problemi che
nascono dalla separazione tra la proprietà dell'impresa, in mano agli
azionisti, e il controllo della stessa, in mano al dirigente, propri del
modello dell'azionariato diffuso.

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Il manager, in quel sistema, infatti, può ottenere benefici


dell'azionista.
Inoltre nel mercato borsistico possono verificarsi fenomeni di
selezione avversa: "L'azione cattiva caccia dal mercato l'azione
buona".7
Dato l'efficiente meccanismo di controllo, le imprese del
capitalismo familiare registrano in genere, un RO.I. molto elevato.
Per questa ragione, le imprese familiari beneficiano
dall'indebitamento e per questo amano finanziarsi presso le banche.
In questo contesto un problema non trascurabile può essere
costituito dall'efficienza della cultura bancaria degli affidamenti.
Si tratta di problemi anch'essi complessi, ma non complessi
come quelli che concernono il funzionamento di un mercato borsistico.
I critici del capitalismo a proprietà diffusa evidenziano un'altra
ragione che invita alla riflessione circa l'opportunità di scegliere la
borsa quale principale o, addirittura, unico strumento di raccolta del
capitale di rischio.
Dal momento che la piccola e media impresa è particolarmente
diffusa nel nostro Paese ed è l'unica forma organizzativa industriale
capace di creare occupazione, la messa in vendita delle azioni delle
grandi imprese pubbliche italiane è dipesa in larga misura dalla
capacità di attrarre finanziamenti esteri sotto forma di capitale di
rischio.
A tal proposito occorre un importante precisazione.
Attualmente non esistono limiti alla libertà dei movimenti di capitale
e i fenomeni di instabilità si propagano velocemente tra i sistemi

7AKERLOF, O. 1970. "The :Market for Lemons. Quality, Uncertainty and the market
Mechanism” Quaterly of Economics n. 89 pag. 488 - 500

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economi dei diversi Paesi, talvolta anche in aperto contrasto con


l'andamento dei fondamentali delle economie interessate ai fenomeni
di squilibrio finanziario”.
A tal proposito il Governatore della Banca d'Italia dell'epoca,
avvisava già nelle conclusioni finali dell'assemblea del 31 maggio
1996,: "I depositi transnazionali attualmente ammontano a circa
8.000 miliardi di dollari, più del prodotto lordo degli Stati Uniti
dell'epoca, una volta e mezzo il valore delle esportazioni mondiali di
merci. La loro dinamica è fuori dal controllo diretto delle banche
centrali; la loro velocità di circolazione viene esaltata dal ricorso ai
prodotti derivati. I problemi inerenti alla stabilità degli intermediari e
dei mercati vengono analizzati e affrontati nell'ambito del Comitato di
Basilea.”
Data la libertà totale di circolazione e la consistenza dei
depositi transnazionali, le Banche centrali oggi non hanno la
possibilità di usare i metodi tradizionali e le tecniche di controllo note
per stabilizzare il sistema, se non agendo tutte in concerto.
Se si tiene conto che, a fronte di questa libertà di circolazione,
sono ancora rilevanti le differenze tra le politiche economiche dei
singoli paesi, che esistono squilibri rilevanti tra il settore pubblico e
settore privato all'interno delle economie nazionali, e tra le bilance dei
pagamenti dei vari Paesi, si comprende la ragione degli ingenti
spostamenti di fondi cui si assiste quotidianamente.
I fondi si muovono alla continua ricerca di condizioni d'impiego
più remunerative.
Occorre aggiungere un'ultima osservazione critica nei confronti
dell'azionariato diffuso collegata con questa immensa mole di denaro
che fluttua sui mercati internazionali.

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L'esistenza di una tale massa di denaro non impiegata in


investimenti reali, ma esclusivamente in impieghi di portafoglio, pone
importanti domande sulla validità di u sistema economico che
disincentiva gli operatori ad impiegare le proprie ricchezze
nell'economica reale.
Non si deve credere che il capitalismo familiare non presenti
difetti:

1. il primo difetto è che se ne può assumere la guida


indipendentemente dal possesso di una cultura aziendale
sufficiente: date le differenze esistenti tra gli uomini è un
errore grave, ma diffuso, ritenere che il figlio di un grande
imprenditore possa fare altrettanto bene del padre, perché le
virtù imprenditoriali sono doti umane che non si trasmettono
geneticamente;
2. in secondo luogo le imprese familiari sono caratterizzate da una
scarsa distinzione dei ruoli di azionista, amministratore, carica
quest'ultima che necessita di buona esperienza e di doti umane
non trasmissibili ereditariamente;
3. in terzo luogo la prassi delle grandi famiglie del capitalismo
italiano di finanziarsi presso il sistema bancario rappresenta
un limite alla crescita dimensionale, visti i meccanismi di
affidamento legati alle garanzie immobiliari e al patrimonio.

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3. IL CAPITALISMO TEDESCO

In Germania, il sistema di gestione e di controllo delle società


di capitali è diverso dal sistema di gestione e controllo generalmente
attuato nei sistemi economici occidentali. In questo Paese in base ad
una legge del 1937, ogni società di capitali deve costituire un consiglio
di sorveglianza (auftichtsrat)8 che assume una posizione intermedia
tra l'assemblea degli azionisti e il consiglio di amministrazione
(vorstarui).
Lo auftichtsrat ha il compito di controllare l'attività svolta dal
consiglio di amministrazione (vorstand).
Nelle Società di Capitali con più di 2000 dipendenti, il potere di
nomina degli amministratori passa dall'assemblea degli
azionisti all'organo di sorveglianza.
Lo auftichtsrat provvede infatti:
 alla nomina degli amministratori , che generalmente durano in
carica per 5 anni;
 alla determinazione degli emolumenti loro spettanti;
 alla revoca dei consiglieri solo per gravi ragioni espressamente
indicate dalla legge, quali l'incapacità e la mozione di sfiducia
votata dall'assemblea generale della società, motivata
oggettivamente. La sfiducia di un nuovo azionista controllore
costituisce motivazione valida.
Con una legge del 1952 lo auftichtsrat non ha più natura di
organo di rappresentanza degli azionisti, ma ha natura di organo di

8 LUITER, M (1988), I l sistema del Consiglio di sorveglianza nel diritto


societario tedesco, in "Rivista delle Società n. 1
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tutela di tutti coloro che appartengono all'impresa (azionisti,


lavoratori, dirigenti).
In particolare la legge del 1952 e 1a sez. 130 della legge sulle
SPA del 1965 hanno stabilito che tutte le società per azioni e le
società a responsabilità limitata o le cooperative con più di 500
dipendenti abbiano un terzo dei componenti dello auftichtsrat,
nominato dai lavoratori.
Per le società con oltre 2000 dipendenti, tale percentuale sale al
50%.
Non esiste sovrapposizione tra i due organi ma un flusso
permanente di informazioni obbligatorie da parte del consiglio di
amministrazione verso l'organo controllore.
Il controllo è un controllo reale sull'operato degli
amministratori a differenza di ciò che accade in Italia, dove il
controllo da parte del collegio sindacale è un controllo solo formale
sulla contabilità e non di merito sull'attività.
Le banche, nel sistema capitalista tedesco, benché non abbiano
partecipazioni rilevanti nelle imprese, esercitano un efficace controllo
su tutte le imprese industriali9.
Questo risultato è reso possibile dall'esistenza dell'istituto della
delega (depotstmmrecht) che consente alle Banche di esercitare i
diritti di voto dei piccoli azionisti10
Nelle sezioni 128 e 135 della legge della Repubblica Federale
Tedesca, le Banche tedesche sono autorizzate ad esercitare i diritti di
voto delle partecipazioni depositate.

9 Locatelli R. (a cura di) (1991) Il sistema finanziario tedesco, Bologna, il Mulino.


10 BARZAGA. (1988), La Repubblica Federale Tedesca, in Camera dei deputati. Sistemi
creditizi a confronto, "Quaderni di studi e legislazione",n. 40

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I piccoli azionisti devono concedere tale potere mediante delega


da rinnovare ogni 15 mesi. La delega può essere revocata in ogni
momento. Le Banche tedesche hanno l'obbligo di inviare ai clienti
detentori di una quota di minoranza, in occasione delle assemblee
degli azionisti, le analisi sull'andamento della gestione delle imprese
ed una serie di consigli di voto. Qualora il cliente non manifesti una
volontà diversa da quella espressa dalla banca vige un principio di
silenzio assenso per cui la banca esprimerà il voto indicato nelle
raccomandazioni. In caso contrario la Banca si adeguerà alla volontà
del cliente.
La legge garantisce, con una serie di disposizioni, l'autonomia
dei due organi:
 i membri del auftichtsrat non possono appartenere al Consiglio
di amministrazione o avere incarichi dirigenziali nell'impresa;
 uguale divieto è esteso ai due consigli in questione anche di
società distinte, qualora una controlli l'altra.

Grazie a queste previsioni di legge le banche tedesche riescono


ad imporre quasi sempre propri uomini all'interno del auftichtsrat, il
che, dato il totale accesso alle informazioni riservate della gestione
dell'azienda a cui questo organismo accede, consente alle banche una
compiuta conoscenza della situazione finanziaria dell'impresa Quindi,
data la quasi totale assenza delle asimmetrie informative, le banche
tedesche sono in grado di effettuare una migliore valutazione del
merito del credito. Le banche tedesche sono in possesso di tutte le
informazioni necessarie per distinguere un problema di scarsa
liquidità da un problema di gestione economica inefficiente.

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Grazie ai propri uomini inseriti nei Consigli di Controllo e al


flusso informativo di prim'ordine che ne deriva., le Banche tedesche
riescono ad evitare i problemi che nascono dalla diffusione della
proprietà e riescono ad esercitare un controllo molto più assiduo ed
incisivo di quello esercitato sia dagli azionisti sul mercato azionario
sia dalle Banche in Italia.
Il meccanismo della delega consente, inoltre, di associare i
vantaggi del minor costo del finanziamento tramite la proprietà
diffusa, con i vantaggi derivanti da una concentrazione del controllo.
La banca tedesca si sostituisce ai piccoli azionisti, che non hanno una
sufficiente capacità conoscitiva tecnica e sufficienti incentivi,
nell'esercizio del controllo dell'impresa. Tutto il sistema legislativo,
compresa la presenza di rappresentanti di operai e dirigenti nel
consiglio di controllo, è finalizzato a tutelare la produzione e gli
investimenti diretti piuttosto che quelli di portafoglio.
In queste condizioni, difficilmente, speculatori ed avventurieri
hanno uno spazio di manovra. Non si assiste, a differenza di ciò che
accade nel mondo anglosassone, al fenomeno della diffusione di
notizie false per indurre nel panico gli azionisti e avvantaggiarsi di un
ribasso od un rialzo ingiustificato dei corsi delle azioni, né a scalate
attuate al solo fine di dismettere le imprese per il solo tornaconto di
cassa dell'operazione.
E' opportuno domandarsi se le ottime prestazioni fatte
registrare sui mercati internazionali dalle imprese tedesche, non trovi
una delle sue possibili spiegazioni nella forma istituzionale di

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finanziamento e controllo da parte di tutti gli attori delle imprese,


come sostengono vari autori11.
Il sistema capitalista tedesco inoltre, ma, come vedremo, anche
quello giapponese, si dimostra più equo dal punto di vista
redistributivo.

Nei momenti di congiuntura economica sfavorevoli, le imprese


di questi Paesi non licenziano i propri lavoratori, come accade negli
USA, né in ogni caso i lavoratori vengono estromessi dai processi
produttivi mediante ammortizzatori sociali, come accade in Italia,
facendo ricadere sull'intera collettività le perdite delle imprese.
In Germania, ma anche in Giappone, si preferisce sopportare
una diminuzione dei profitti.
Dato il vincolo, più etico che normativo, a non licenziare, i
dirigenti delle imprese tedesche sono incentivati ad affrontare
immediatamente il problema di migliorare la qualità e la
differenziazione dei prodotti e sono spinti a migliorare i processi
produttivi.
Delle due possibili alternative, (licenziare impiegati e operai o
farli lavorare in modo più produttivo), questi sistemi capitalistici
hanno deciso, mediante una serie di regole istituzionali,. di consentire
ai dirigenti di perseguire soltanto la seconda strada.
Anche il sistema tedesco può presentare solo un genere di
limiti:

11BARATTA, P. (1992), Banche e mercati finanziari in Germania, Roma, Centro


Alberto Beneduce; SCHLESJNGER, H (1992). Banche e mercati finanziari in
Germania, Roma, Centro Alberto Beneduce; EDWARDSJ. e K. FISHER (1991),
Banks, Finance and Investiment in West Gemumy since 1970, London, CEPR
Discussion Paper, n. 497

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 possibili omissioni di controllo dei dirigenti rappresentanti


delle banche nei confronti degli amministratori delle
aziende, in cambio di favori personali.
La corruzione è, in genere, evitata a causa della natura
commerciale e privata delle banche tedesche, sebbene ampiamente
partecipate dal Tesoro federale.
Nel caso di crisi economica dell'impresa, il flusso di
informazioni riservate al quale le banche commerciali possono
accedere, consente loro di intervenire prima che la situazione diventi
patologica.
Questo genera un doppio vantaggio per la banca:
 da un lato impedisce:

◦ di vedere diminuito il valore delle partecipazioni dirette


della banca nel capitale sociale dell'impresa;

◦ di vedere diminuito il valore delle azioni in possesso dei


tanti piccoli clienti della banca che si sono affidati alla
supervisione dell'Istituto di Credito per la tutela del loro
investimento
 in secondo luogo, il rapido intervento permette alla banca di
lucrare le commissioni sulle operazioni di riallocazione
dell'impresa.
Il sistema economico tedesco è dunque ispirato da tre idee
guida:

 rispettare l'uomo nell'organizzazione aziendale, come abbiamo


visto nella scorsa lezione;
 far cooperare capitale e lavoro, pur nel rispetto della proprietà
privata e della libera iniziativa economica in un mercato

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libero, dando un ruolo ai rappresentanti dei lavoratori


all'interno del Consiglio di Sorveglianza
 far cooperare banche e imprese, facilitando il controllo dei
finanziatori e il loro pronto intervento di fronte alle inevitabili
crisi.
In definitiva, a mio avviso, il sistema capitalistico tedesco,
nonostante i limiti propri di tutti i sistemi sociali, è un sistema da
tenere in alta considerazione e da studiare profondamente, perché è di
successo mondiale e al tempo stesso tra i più cooperativi e
anticonflittuali che esistano sia in merito ai rapporti tra Banche e
imprese, sia in merito ai rapporti tra industriali e lavoratori.

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4. IL MODELLO CAPITALISTA GIAPPONESE

Nel modello di impresa giapponese, la comunità dei lavoratori è


esplicitamente riconosciuta come parte integrante dell'impresa.
Questa conclusione è chiara dalla lettura delle seguenti opere
di Aoki:
(1984a) The economic Analysis of the Japanese Firm, North-
Holland.
(1984b) Aspect of the Japanese Firm, in Aoki (1984a)
(1984c) Shareholders' Non-unanimity on Investment Financing:
Banks Individual investitors, in Aoki (1984a)
(1984d) Risk Sharing in the Coxporate group, in Aoki (1984a)
(1984e) The Co-operative Game Theory of the Firm, Oxford
University Press.
Ancora più importante è l'affermazione contenuta negli studi
dell'importante economista giapponese che la teoria neoclassica è
incapace di spiegare completamente il comportamento delle imprese
giapponesi12.
La teoria dell'impresa neoclassica prevede che, data la
tecnologia disponibile, il costo del lavoro (cioè il salario reale
disponibile sul mercato del lavoro), considerate le produttività
marginali del lavoro e del capitale, l'imprenditore sceglie il livello di

12 AOKI, M, (1987) The Japanese Firm in Transition, in K. YAMAMURA e Y.


YASUBA ( a cura di ), The Political Economy of Japan, vol. I, The Domestic
Transformation, Stanford, Stanford University Press; traduzione italiana: La
microstruttura dell'economia giapponese, Milano Franco Angeli, 1991.
AOKI, M., e N. ROSEMBERG (1990) The Japanese Firm as an Innovating
Instution, in T. SHIRAISHI e S. TSURU (a cura di), Economie Institutions in a
Dynamic Society, london, Macmillan.
Aoki (1990) Toward an Economic Model of Japanese Firm, in "Journal of Economic
Literature", vol. 28,

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occupazione e la politica degli investimenti da attuare per ottenere la


produzione massima.
In altri termini l'imprenditore sceglie le quantità ottime dei
fattori da impiegare, tenuto conto del loro costo e in situazioni di
congiuntura sfavorevoli, come abbiamo visto, con strumenti quali la
cassa integrazioni guadagni, può liberarsi momentaneamente del loro
impiego.
Tutto ciò non avviene così nel capitalismo giapponese.
Lo schema neoclassico, è insufficiente a spiegare anche il
capitalismo delle grandi imprese tedesche o scandinave e i distretti
industriali italiani: in tutti questi casi le comunità dei lavoratori
hanno un rapporto cooperativo con gli imprenditori o addirittura i
capitalisti stessi e il mondo finanziario ed essi sono al centro delle
scelte dell'imprenditore, anche in caso di profonde ristrutturazioni
aziendali.
Esiste un'ulteriore elemento peculiare del capitalismo
giapponese: l'organizzazione industriale. A differenza del capitalismo
anglosassone i prodotti e le quantità da produrre non sono stabilite a
priori in base agli andamenti futuri previsti sui mercati.
In Giappone il processo produttivo si attiva soltanto dopo che la
domanda si è manifestata. La catena dei fornitori e sub fornitori, allo
stesso modo, produce i prodotti intermedi solo quando questi vengono
richiesti dalle aziende produttrici dei prodotti finali.
Date queste peculiari caratteristiche, i processi produttivi sono
caratterizzati, naturalmente, da un'estrema flessibilità, e le stesse
macchine industriali e le fasi di lavorazione sono progettate per poter
essere impiegate nell'assemblaggio o nella lavorazione di prodotti
anche molto diversi

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In questo contesto, il problema dell'impresa non è, come


previsto dalla teoria neoclassica, quali quantità ottime impiegare nel
processo produttivo, ma come impiegare ottimamente le risorse date,
cioè in quali produzioni, man mano che si manifesta la domanda o il
processo tecnologico apre nuovi mercati o determina profonde
innovazioni tecnologiche in quelli esistenti.
In termini formali, significa che il problema del manager
giapponese è fondamentalmente diverso dal problema del manager
statunitense: il manager giapponese deve rendere ottima la funzione
di produzione date le quantità di persone impiegate e impiegarle per
produzioni differenti, al variare della domanda.
La funzione di produzione è positivamente influenzata da una
valida organizzazione della produzione, dall'esperienza e l'abilità con
cui la quantità di lavoro è impiegata. In altri termini l'impiego ottimo
dei fattori della produzione risiede in un organizzazione flessibile del
lavoro ed in un'elevata accumulazione di esperienza produttiva
flessibile dei lavoratori.
Si tratta, in entrambi i casi, di variabili non quantitative ma
qualitative, immateriali.
Occorre poi occuparsi, in merito al capitalismo giapponese, dei
rapporti esistenti tra Banche e imprese: infatti anche il finanziamento
delle imprese giapponesi non avviene tramite il mercato primario
azionario, ma tramite le banche, anche se con una modalità diversa
da quella tedesca.
Il cuore del capitalismo giapponese è il Keiretsu.
Keiretsu (系列) è un termine giapponese, che indica
raggruppamenti di imprese, operanti in settori diversi, collegati da

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partecipazioni incrociate, reti relazionali e in generale vincoli, non


tanto giuridici, quanto etici, di appartenenza al gruppo.
Il Keiretsu in sostanza è un fronte unito di potenti società, che
operano insieme, ma indipendentemente, con lo scopo di perseguire
obiettivi comuni e definiti.
Solitamente al centro del Keiretsu vi sono una o più banche,
che forniscono gran parte del capitale di finanziamento necessario,
rendendo di fatto limitato il potere degli azionisti e permettendo così
ai manager di avere una maggiore libertà d'azione.
Il nome Keiretsu venne introdotto nel dopoguerra per i vecchi
zaibatsu, i grandi trust che erano stati lo strumento tecnico-
produttivo della politica imperialista del Giappone e che gli Americani
volevano scindere per realizzare un’economia di mercato basata sulla
concorrenza.
Con la guerra di Corea e lo scoppio della guerra fredda gli USA
ebbero bisogno di rafforzare il Giappone e diedero libertà di
riorganizzare l’economia del Paese contribuendo anche con forti aiuti
finanziari alla sua ripresa.
I giapponesi ricostituirono i trust rinominandoli keiretsu,
alcuni continuazione dei vecchi zaibatsu, altri di nuova costituzione.
Il keiretsu è un conglomerato a integrazione orizzontale o
verticale di imprese industriali, commerciali e spesso di una banca
che funge da finanziatore del gruppo.
A lungo non è stato, infatti, volutamente introdotto in Giappone
il principio di separazione tra banca e industria, comune nei Paesi
anglosassoni e aggirato in Germania con il meccanismo della delega
di voto e solo nel 1997, su pressione della lobby finanziaria

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anglosassone, è stato posto nella legislazione nipponica un tetto al 5%


della partecipazione delle banche alle imprese industriali.
La presenza di una banca costituisce la principale differenza
tra il keiretsu e il chaebol coreano, che pure è stato costruito a
imitazione del modello giapponese.
L’evoluzione ha portato a differenti forme di keiretsu.
La principale è il keiretsu finanziario, il più evoluto e di cui
fanno parte le Big six, sei gruppi a integrazione orizzontale con al
centro una grande banca. Tre di esse sono ex zaibatsu (Mitsui,
Mitsubishi and Sumitomo) e tre (Sanwa, Fuyo and Dai-IchiKangyo)
sono di nuova costituzione, avvenuta dopo la guerra.
Di regola questi trust hanno una sola impresa per ogni settore
di attività per avvantaggiarsi di economie di scale ed evitare la
concorrenza infragruppo.
Caratteristica delle Big six è il President’s club, sorta di
consiglio dell’alta direzione che decide e coordina le strategie del
gruppo.
Una seconda forma è costituita dal keiretsu di distribuzione
(distribution keiretsu) a integrazione verticale per controllare l’intero
flusso di beni e servizi dalla produzione al consumatore (B2C).
Solitamente sentono meno l’influenza delle banche e sono più
piccoli di dimensione rispetto ai keiretsu orizzontali e sovente sono
inseriti in essi, ma con autonomia gestionale. Il segreto dell’efficienza
di questa struttura sta nel ricorrere a una rete di sub-fornitori che
opera come un paracolpi nei periodi sfavorevoli del ciclo economico.
Come dicevamo infatti nelle grandi compagnie i dipendenti
hanno un diritto alla stabilità del posto a vita, mentre le piccole
imprese licenziano e assumono secondo l’andamento della domanda.

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Una terza forma è il keiretsu manifatturiero (manufacturers


keiretsu) che organizza integrandola verticalmente una piramide di
fornitori e di sub-appaltatori captive (che costituiscono il paracolpi del
gruppo per i periodi sfavorevoli) di prodotti intermedi e di produttori
di beni in un’unica struttura (Toyota, Nissan, Honda--Matsushita,
Hitachi, Toshiba, Sony).
Esistono anche altre forme di keiretsu.
E' un fatto innegabile che il keiretsu assicuri la piena
occupazione e distribuisca i rischi e che le crisi congiunturali e
strutturali sono affrontate senza considerare l'ipotesi del
licenziamento della stragrande maggioranza dei lavoratori.
Anche in questo caso il rapporto Banca – industrie
appartenenti al Keiretsu è di tipo cooperativo ed armonico e non
basato sul breve termine e la revoca.
E' senz'altro molto più vicino all'esperienza tedesca che a quella
italiana, in cui la Banca finanzia l'imprenditore soprattutto a breve ed
esclusivamente in percentuale del suo patrimonio.
In ogni caso occorre ammettere che il sistema giapponese porta
quel Paese ad avere un consistente numero di imprese tra le più
grandi e potenti del mondo, come si desume dalla classifica Forbes
2013 (fatturati 2012).

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In considerazione di quanto detto sopra è evidente che il management


FIAT affronta processi di ottimizzazione molto diversi da quelli del
management , ad esempio di Mitsubishi o Samsung (coreana, ma con
una cultura simile a quella giapponese) per la semplice circostanza
che il primo opera esclusivamente nel mercato automobilistico,
mentre gli altri due gruppi operano in molti settori economici e il
gruppo giapponese ha una potenza finanziaria e bancaria notevole:
Attualmente infatti il gruppo Mitsubishi è presente in
numerosi settori industriali, tra cui la metallurgia (Mitsubishi Heavy
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Industries), la petrolchimica (Nippon Oil), la chimica fine (Mitsubishi


Chemical), la lavorazione del vetro (Asahi Glass), la produzione di
automobili (Mitsubishi Motors Corporation), la cantieristica navale,
l'aeronautica, l'elettronica (Mitsubishi Electric) e l'agroalimentare
(Kirin Brewery). È inoltre presente nel settore immobiliare con la
Mitsubishi Real Estate, ed è maggiore azionista di alcune delle
principali banche del Paese.
Il gruppo Samsung invece opera nei seguenti settori:
 Videocamere e Fotocamere
 Lettori mp3
 Lettori DVD e Blu-ray
 Televisori con schermo CRT, LCD e plasma con tecnologia 3D
 Computer portatili (sia con disco rigido che a stato solido)
 Monitor per PC
 Hard Disk per PC
 Memorie RAM
 Unità a stato solido (SSD)
 Cellulari (anche HSDPA DVB-H)
 UMPC
 Smartphone e tablet
 Elettrodomestici
 Auricolari
 Computer desktop
 Stampanti e fax
 Condizionatori d'aria
 Automobili (partnership Renault Samsung Motors)
Nel primo caso il management seguirà l'andamento mondiale di
un solo mercato, quello automobilistico e produrrà in base alle

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domande di automobili dei vari Paesi, cercando di allocare le


produzioni nei Paesi in cui è più conveniente.
Negli altri due casi i mercati mondiali da seguire sono
molteplici e per quanto si operi per il tramite di società indipendenti e
in filiera produttiva, come descritto sopra, è sempre possibile
compensare, all'interno del gruppo, un calo in un settore con
l'aumento di produzione in un altro. Per questa ragione le filiere
produttive e i processi produttivi, specialmente in fase di
assemblaggio, sono studiati, relativamente alle produzioni in cui
questo è possibile, per essere talmente flessibili da poter essere
utilizzati per assemblaggi di prodotti molto diversi.
Quanto detto sopra dimostra due cose:
 un'organizzazione del lavoro così flessibile come quella
esistente in Giappone dipende senza alcun dubbio da fattori
istituzionali e culturali.

 La vera fonte del vantaggio comparato tra nazioni, in questo


quadro, a differenza di quello che ritiene la teoria neoclassica,
che affronteremo a tempo debito, non è la dotazione dei fattori,
ma:

◦ la diversa, maggiore o minore, accumulazione di capitale


umano specifico (per usare un termine a me non caro, ma
caro agli economisti);

◦ il maggiore orizzonte di pianificazione intertemporale


consentito dai meccanismi istituzionali;

◦ la flessibilità produttiva;

◦ l'incentivo all'innovazione tecnologica;

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◦ meccanismi di controllo effettivo dei finanziatori dei grandi


gruppi industriali, quali il Keiretsu giapponese o l'
auftichtsrat tedesco, che rendono meno netta la separazione
tra Banca e Gruppi industriale, ma consentono un flusso
informativo che permette ai creditori di prevenire enormi
perdite, imponendo di fatto cambi manageriali, di strategia
o di proprietà.

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sistemi capitalistici”

5. CONCLUSIONI

La teoria neoclassica ha studiato magistralmente il problema


della scarsità dei fattori produttivi in relazione alla molteplicità dei
bisogni espressi dal mercato. E' una teoria del valore che dà risposta
ai quesiti economici in relazione alle ipotesi che considera. Per questo
aspetto essa ha dato e continua a dare un contributo importante per
la conoscenza dell'economia. Ciò non toglie che restino sempre al di
fuori di una teoria dei territori da esplorare: quelli non presenti nelle
ipotesi di partenza o nella realtà storica e culturale esaminata.
Come abbiamo visto nella lezione 2, verso la metà del XIX
secolo si sviluppò la scuola storica in Germania.
I suoi autori principali sono List, Roscher e Knies.
Questi autori negano la possibilità di studiare la scienza
economica come una scienza naturale e ritengono che l'influenza della
storia sia predominante.
E' possibile studiare l'economia, a loro avviso, solo in un certo
Paese e in una certa epoca.
In buona sostanza essi arrivano ad affermare che non può
esistere una scienza economica, ma esiste solo la storia economica.
Questa radicalizzazione è forse eccessiva, ma è pur vero che
questa lezione ha dimostrato come, all'interno di economie tutte
democratiche e capitaliste, siano profondamente diversi i meccanismi
di finanziamento delle imprese e si siano sviluppati istituti molto
diversi.
In ogni caso la questione del finanziamento delle imprese è il
punto centrale dell'analisi economica.

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Noi dobbiamo a Keynes la capacità di aver concentrato


l'attenzione di tutti sull'importanza dell'investimento fisico aggiuntivo
e la sua dipendenza tra il confronto tra il tasso di interesse corrente di
mercato e le prospettive di profitto dell'imprenditore, che Keynes
definisce efficienza marginale del capitale.
Del resto la soluzione proposta da Keynes è una modalità per
rendere possibile il presupposto classico che tutta la parte del reddito
non consumata, tutto il risparmio, fosse realmente investito.
L'osservazione che questo può non accadere aveva concentrato i
suoi sforzi di ricerca sulle condizioni perché questo potesse accadere e
sull'importante ruolo delle aspettative.
Questa lezione ci apre gli occhi su di un fatto che però Keynes
trascurò.
Volendo perseguire un modello analitico coerente con gli schemi
neoclassici e avversario dall'impostazione della scuola tedesca, cercò
di perseguire l'aumento degli investimenti del capitale fisico, in due
modi:
 con l'aumento dell'offerta di moneta (questo è stato
studiato ampiamente nelle lezioni precedenti);
 con la sostituzione di investimenti pubblici a quelli
privati in determinate condizioni (questa soluzione sarà
affrontata nelle successive lezioni);

Come abbiamo ampiamente visto la prima strada aprì il


dibattito intorno alla cosiddetta curva di Phillips.
Oggi siamo tutti convinti che quella strada lasci una permanete
inflazione e non sia in grado di consentire un incremento permanente
dell'occupazione.

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Dei limiti della seconda strada, tutti dovuti alle leggi del
consenso democratico, e dei danni derivati dall'averla seguita in modo
molto sbagliato, diremo nelle prossime.
Il punto è il seguente: sia che un economista abbia una
formazione più vicina ai classici e neoclassici inglesi, sia che egli
abbia una formazione più vicina alle concezioni keynesiane, il
problema di consentire che tutto il risparmio si trasformi in
investimento (per esprimersi in termini neoclassici) ovvero che gli
investimenti in capitale fisico raggiungano il massimo livello possibile
(per esprimersi in termini keynesiani) è il vero punto centrale per
creare occupazione e reddito.
Ma, se le cose stanno così, le esperienze tedesca e giapponese ci
insegnano molto, perché esse ci dimostrano che esistono soluzioni
istituzionali al problema.
A ben rifletterci tanto il il Keiretsu giapponese che l'
auftichtsrat tedesco non servono solo agli investitori per effettuare un
efficiente controllo sui capitali investiti e prevenire e affrontare le
crisi industriali molto più efficiente dei mercati secondari
anglosassoni e delle procedure fallimentari occidentali.
Il punto fondamentale è che istituzionalmente essi risolvono in
un gioco cooperativo il problema di consentire che tutto il risparmio si
trasformi in investimento abbattendo, con il metodo delle deleghe di
voto nel caso dell'auftichtsrat tedesco e con il President's club nel caso
del keiretsu giapponese, due problemi tipici dei meccanismi
anglosassoni:
 le asimmetrie informative tra managment aziendale e mercati
finanziari;

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 facendo partecipare istituzionalmente i finanziatori ad


eventuali perdite di profitto;
 rispettando la dignità di tutti gli uomini che partecipano alla
grande azienda quale che sia il loro ruolo (lavoratore, manager,
finanziatore).
Detto in altri termini e per essere oltremodo chiaro, si potrebbe
dire che la soluzione tedesca e giapponese al problema del rendimento
dell'investimento sia la seguente:
in questi sistemi istituzionali non esiste più un costo del denaro
da una parte (e dei creditori che lo reclameranno sempre e comunque)
e un profitto realizzato dall'altro, di modo che, quando il profitto
realizzato risulta inferiore dell'efficienza marginale prevista, cioè
dell'aspettativa di profitto che aveva mosso l'imprenditore, c'è il
fallimento e questo è tutto a carico di lavoratori e imprenditori.
In questi sistemi istituzionali, in cambio della facoltà
riconosciuta alle banche di un controllo effettivo dell'operato del
managment delle imprese affidate, i finanziatori accettano di
finanziare le imprese ad una percentuale del profitto realizzato ex
post.
In altri termini, il costo del denaro viene stabilito ex post, in
base al profitto realizzato, ma, in cambio, i finanziatori, e non solo gli
azionisti, hanno diritto:
 alla facoltà di intervenire e modificare il managment,
rimuovendo chi ha sbagliato;
 ad un controllo effettivo, da parte di operatori specializzati,
sull'operato del managment

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Questo meccanismo consente di trasformare tutto il risparmio


in investimento in capitale fisico aggiuntivo e consente di spostare
effettivamente il livello del tasso naturale di disoccupazione e
raggiungere la massima produzione possibile.
C'è ovviamente un rischio su cui occorre però riflettere.
Lo schema che ho sopra descritto non è nato storicamente e
culturalmente per risolvere il problema occupazionale ma è, in realtà,
uno schema militare e deriva originariamente da un'impostazione
mercantilista e imperialista e in questo consiste il suo limite e non
considera assolutamente un problema l'esistenza di Trust, ma anzi
una soluzione ai problemi economici.
Partendo da una concezione forte di nazione e di interesse
nazionale, i mercati mondiali sono considerati il terreno di scontro di
gruppi finanziari e industriali. In questo schema, i manager sono
l'equivalente dei generali dell'esercito che decidono le strategie per il
bene di tutti. Non esiste alcun interesse particolare e tutto è
sacrificato nell'interesse nazionale. Chi finanzia la guerra controlla
l'azione dei generali e promuove i migliori e sancisce i perdenti, ma
partecipa all'esito della guerra stessa.
Come abbiamo visto in una scorsa lezione, la mancata
separazione tra banca e impresa, la politica imperialista e
mercantilista delle maggiori potenze mondiali è all'origine sia della
prima guerra mondiale che della seconda. E' importante ricordarlo
per evitare gli errori del passato.
Come ho più volte detto, la mia concezione epistemologica della
scienza economica, mi porta a considerare l'economia come una
scienza sociale, in cui la componente antropologica e storica ha il suo
peso e non una scienza positiva, nel senso delle scienze naturali.

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Salvatore Della Corte “Analisi comparata dei principali
sistemi capitalistici”

E' evidente che anch'io ho la mia formazione e le mie categorie


culturali.
Tengo dunque a esplicitarle, di modo che il lettore possa
difendersi.
Le pietre miliari che condizionano inevitabilmente il mio
pensiero sono la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e il
pensiero kantiano dell'infinita dignità di ogni singolo essere umano.
Pertanto lo schema nazionalistico militare da cui quei modelli
nascono mi è lontanissimo perché io sono universalista e perseguo il
bene economico di tutti gli uomini di qualsiasi razza, religione o
nazione facciano parte.
Detto questo però non riesco a non vedere che gli istituti sopra
descritti (per quanto nati su base militare e nazionalista) hanno
risolto in modo istituzionale il problema fondamentale economico:
eguagliare investimenti e risparmi (considerati come fenomeni
al tempo stesso reali e finanziari).
Nelle prossime lezioni affronteremo la politica fiscale e
l'equilibrio della bilancia dei pagamenti, ma poi torneremo su questo
tema e cercheremo di trovare una soluzione istituzionale ma non
nazionalistica e imperialista al problema fondamentale dell'economia:
l'eguaglianza tra investimenti e risparmio.

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IL CICLO ECONOMICO E
LA POLITICA ECONOMICA
DI LUNGO PERIODO
Salvatore Della Corte
Salvatore Della Corte “Il ciclo economico e la politica economica
di lungo periodo”

Indice

1. ESISTENZA E DESCRIZIONE DEL CICLO ECONOMICO: TIPI DI


CONGIUNTURA E DURATA DEI CICLI ---------------------------------------------------- 3
2. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA ECONOMICA CLASSICA E
NEOCLASSICA ------------------------------------------------------------------------------------- 7
3. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA ECONOMICA MONETARISTA ------- 15
4. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA KEYNESIANA ------------------------------ 18
5. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA MARXISTA --------------------------------- 24
6. I CICLI ECONOMICI DI MEDIO TERMINE: COLPA DELLE BANCHE O DELLE
ASPETTATIVE DEGLI IMPRENDITORI? -------------------------------------------------- 27

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Salvatore Della Corte “Il ciclo economico e la politica economica
di lungo periodo”

1. ESISTENZA E DESCRIZIONE DEL CICLO


ECONOMICO: TIPI DI CONGIUNTURA E
DURATA DEI CICLI

Come primo caso concreto si può citare un passo della Genesi in


cui i cicli economici esistono da sempre. Nel testo sottostante (ci
troviamo intorno al 1400 – 1300 A. C. in Egitto), un giovane e
brillante ebreo, il patriarca Giuseppe, appositamente liberato dalle
carceri egiziane in cui era stato ingiustamente recluso, a dare la
prima descrizione del ciclo economico e la prima lezione di politica
economica anticiclica di lungo periodo.
Nell'episodio narrato in Genesi, la variabile considerata nel
ciclo è la produzione di grano: nell'episodio narrato si descrive una
crescente produzione di grano per sette anni, alla quale seguono sette
anni di produzione scarsa o nulla.
Se mettiamo i dati su di un grafico il risultato potrebbe essere
rappresentato come nella figura 1.

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Fig. 1

Le variabili che sono prese in considerazione dagli economisti


per studiare un ciclo sono il reddito nazionale, il prodotto interno
lordo, i consumi, gli investimenti o l'occupazione.
Quale delle variabili economiche sopra considerate venga presa
in considerazione, si registra che essa tende ad un trend crescente nel
tempo con oscillazioni cicliche intorno al percorso di crescita.
La situazione in cui il sistema economico si trova in un dato
momento del ciclo viene definita dagli economisti congiuntura.
Nei cicli economici vengono individuate le seguenti fasi o
congiunture:
a) boom economico, durante il quale il PIL cresce rapidamente;
b) recessione: per convenzione essa è individuata da una
diminuzione del PIL in almeno due trimestri consecutivi;
c) depressione, in cui la produzione continua a diminuire e la
disoccupazione si mantiene a livelli elevati;

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Salvatore Della Corte “Il ciclo economico e la politica economica
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d) ripresa, in cui il PIL inizia nuovamente a crescere: in questa


fase torna a crescere la domanda di beni da parte dei
consumatori; i dettaglianti tornano ad effettuare quindi
ordinativi ai grossisti, e questi li alle imprese produttrici di
beni, che cominciano ad espandere la produzione e a reinvestire
in capitale fisico aggiuntivo.
Grandi depressioni si sono storicamente registrate lungo la
storia anche nelle economie pianificate.
Gli studiosi che hanno approfondito maggiormente lo studio dei
cicli e ne hanno dimostrato la durata sono stati essenzialmente tre:

 Kondratiev ha dimostrato l'esistenza di regolari cicli


sinusoidali molto lunghi, della durata di 50 – 60 anni, a partire
dalla rivoluzione industriale fino al 1910 circa. Kondratiev
sosteneva che i cicli lunghi si verificano indipendentemente da
eventi straordinari, come guerre, carestie, invenzioni. La
dimostrazione statistica da parte di Kondratiev dell'esistenza
di cicli economici regolari di 50 – 60 anni non ha portato
fortuna al suo grande autore, perché l'economista smentiva
tanto l'equilibrio economico neoclassico e la convinzione insita
in quel modello della naturale tendenza del sistema economico
capitalistico all'equilibrio, quanto le tesi economiche di Marx. Il
suo lavoro è di basilare importanza per la politica economica e
la storia dell'economia.

 Juglar invece aveva individuato l'esistenza di cicli regolari di


durata molto più breve, dai 7 agli 11 anni. Il ciclo da lui
individuato è caratterizzato dalla riduzione del credito e

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dall'aumento delle riserve bancarie nelle fasi di recessione e


depressione, dall'andamento opposto durante le congiunture di
ripresa e di boom economico. All'interno del ciclo di Juglar si
possono osservare oscillazioni degli investimenti in capitale
fisso e non solo cambiamenti nel livello delle scorte
commerciali,

 Kitchin, individuò il ciclo più breve, basato sulle variazioni


delle scorte e avente durata breve, da 2 a 4 anni.

Visto che l'esistenza dei cicli è accertata statisticamente e che


essi hanno tre tipi di durata (breve, media e di lungo periodo),
l'andamento nel tempo del PIL di un Paese può essere rappresentato
con tre tipi di cicli: uno di lungo termine (50 – 60 anni), uno di medio
termine (7 – 11 anni) ed uno di breve (3 – 4 anni).

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2. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA


ECONOMICA CLASSICA E NEOCLASSICA

Gli studi di Kondratiev, di Juglar e di Kitchin sono così


importanti perchè dimostrano che il sistema economico non tende mai
all'equilibrio economico, come supposto erroneamente dalla teoria
classica inglese prima e da quella neoclassica successivamente.
Al contrario, come dimostrano sia gli studi di Juglar che di
Kitchin sono evidenti oscillazioni degli investimenti in capitale fisso e
delle scorte commerciali. In termini formali questo significa che
esistono periodi in cui l'assorbimento è superiore al reddito percepito
e viceversa. Periodi cioè in cui si registra un eccesso di investimento
in capitale fisico rispetto al risparmio disponibile e viceversa.
Considerando un'economia chiusa agli scambi con l'estero, in termini
macroeconomici, seguendo l'approccio assorbimento, questo vuol dire
che nelle fasi discendenti del ciclo si registra un eccesso di risparmio
sugli investimenti (come nella formula [1]) e viceversa nelle fasi
ascendenti (come nella formula [2])

S > I = Y > (C + I) [1]

S < I = Y < (C+ I) [2]

Alla luce delle considerazioni precedenti l'economia che


discende dall'osservazione dei cicli è un'economia in constante
disequilibrio e l'equilibrio è condizione rara anche se, secondo
l’evoluzione degli studi dell’economia, l'economia gli viene presentata
come tendente naturalmente all'equilibrio. Tanto i classici, quanto i

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neoclassici, ritenevano che il mercato fosse in grado di garantire


l'equilibrio tra domanda e offerta. Tra i grandi classici, solo Malthus
si era reso conto che esistevano condizioni in cui, a causa del
risparmio, la domanda poteva essere inferiore alla produzione.
Il marginalismo era riuscito brillantemente a superare i limiti
della teoria classica messi in luce dalla critica marxista e da quella
della scuola teorica tedesca, ricorrendo all'etica utilitaristica e
formalizzando in modo magistrale le ottimizzazioni utilitaristiche
degli operatori economici all'interno dei propri schemi teorici.
L'evidenza statistica dell'esistenza dei cicli economici demoliva
però dalle fondamenta le tesi neoclassiche. Il marginalismo cercò di
reagire all'evidenza dei cicli. In un primo momento concepì il ciclo
esclusivamente come determinato da ragioni esogene.
William Stanley Jevons, elaborò la teoria delle macchie solari.
Effettivamente le macchie solari possiedono un ciclo di durata
ultradecennale: l'attività delle macchie infatti segue un ciclo di circa
11 anni. Ogni ciclo di undici anni comprende un massimo ed un
minimo, che sono identificati contando il numero di macchie solari che
appaiono in ciascun anno del ciclo.
All'inizio del ciclo seguente, le nuove macchie compaiono a
latitudini elevate, per poi abbassarsi gradualmente col procedere del
ciclo. Questo fatto è stato osservato scientificamente e si ripete con
regolarità, Controversa è invece la teoria che i cicli solari influenzino
il clima e che, in questo modo, creino regolarmente carestie che
determino l'andamento del ciclo osservato da Juglar. In ogni caso
nessuno studio scientifico al momento attuale è riuscito a dimostrare
un nesso tra le crisi economiche mondiali e le carestie.

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Completamente diversa è la spiegazione del ciclo economico


proposta da Joseph Shumpeter.
Shumpeter era assolutamente convinto, che esistesse
un'economia politica naturale, completamente sganciata dalla politica
e che questa materia andasse ascritta alle scienze naturali e non a
quelle sociali.
Al tempo stesso si rese conto che la descrizione dell'equilibrio
generale proposta dal marginalismo era smentita categoricamente
dalla realtà del ciclo e passò tutta la sua vita ad affrontare il tema del
ciclo, fino a superare di fatto il marginalismo e a proporre
un'interessante interpretazione dei cicli ed una concezione dinamica
dell'economica neoclassica, seppure viziata dalle errate posizioni
positiviste tipiche della sua cultura. Fondamentale è la teoria dello
sviluppo economico e sui cicli da lui elaborata per la comprensione del
funzionamento dell'economia, che, nonostante alcuni limiti
metodologici resta tra le teorie più aderenti alla realtà sviluppate a
tal proposito.
In molti testi di politica economica e di economia politica
Joseph Schumpeter è presentato come colui che ha attribuito le
fluttuazioni cicliche e lo sviluppo economico essenzialmente al
progresso tecnico. E’ comunque più corretto affermare che
Schumpeter è il primo ad affermare che le invenzioni non sono nulla
senza il ruolo di due grandi agenti, che sono il vero motore dello
sviluppo e dei cicli economici: gli imprenditori e le banche.
.Il punto di partenza è la condizione di equilibrio walrasiano: in
questa condizione di equilibrio, i prezzi di tutti i prodotti sono uguali
ai prezzi dei servizi del lavoro e della terra in essi contenuti e tutti i
redditi si risolvono in salari e rendite. In una economia così

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immaginata non esisterebbero neanche risparmi né interesse e la


moneta rappresenterebbe solo un velo: non vi sarebbero cicli
economici, cioè non vi sarebbero le fasi congiunturali. Ovviamente si
tratta di un ipotesi di scuola, perché non esistono economie senza
risparmi, né interesse.
Perché avvenga lo sviluppo economico è necessario che si
sviluppino nuove invenzioni e progresso tecnico, ma questa condizione
necessaria non è sufficiente senza l'intervento di due figure:
 l'imprenditore, che riesce a scoprire un modo nuovo e più
efficiente di produrre i beni o inventa nuovi beni;
 la banca che finanzia l'imprenditore e sostiene tale processo.
L'imprenditore combina le nuove scoperte e le innovazioni in
modo da utilizzare le forze produttive in modo diverso da quanto fatto
in precedenza, in particolare egli utilizza le forze produttive:
1. con un nuovo processo produttivo, per produrre i beni
tradizionali (innovazione di processo)
2. oppure per produrre un nuovo bene, per riuscire ad aprire un
nuovo mercato. (innovazione di prodotto)

Nel far ciò, essendo il sistema in equilibrio, ha bisogno di


trovare i mezzi di produzione di cui ha bisogno per fondare accanto ed
in concorrenza con le imprese esistenti la sua nuova impresa. Ciò
accade grazie all'intervento del banchiere, che finanzia l'imprenditore
con i fondi depositati presso la sua banca dai clienti.
Il banchiere attua la strategia di sostegno all’imprenditore per
lucrare cioè la differenza tra quanto gli costa un deposito e quanto
riceve da un prestito, tra l'altro attuato grazie al moltiplicatore dei
depositi bancari.

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L'imprenditore può dunque ottenere i fattori della produzione


di cui necessita perché si avvale dei mezzi di pagamento resi
disponibili via moltiplicatore dei depositi dal banchiere: il capitalismo
si basa sulla capacità del banchiere di moltiplicare il capitale, via
moltiplicatore dei depositi bancari.
Il banchiere eroga il prestito perché percepisce un interesse,
che l'imprenditore può pagare in quanto la nuova combinazione
produttiva gli consente di lucrare un profitto e battere le vecchie
imprese.
L'imprenditore innovatore viene imitato da altri e ciò
determina un incremento degli investimenti, tipico delle fasi
ascendenti del ciclo.
Successivamente iniziano le nuove produzioni, il mercato verrà
allora raggiunto dai nuovi prodotti e l'imprenditore inizierà a
competere sul mercato con le vecchie imprese operanti nel medesimo
settore.
Gli incassi delle vendite dei prodotti vengono utilizzati per
remunerare i fattori della produzione, soprattutto per restituire il
capitale e pagare gli interessi. I nuovi prodotti immessi sul mercato
riducono i prezzi e mettono in difficoltà le aziende obsolete.
Tutto ciò viene considerato positivamente da Schumpeter: nella
sua concezione, che è anch'essa, come il marxismo, un'applicazione
sociale della concezione darwinistica, l'economia di mercato funziona
grazie alle differenze tra gli uomini e all'affermazione dei più furbi e
forti.
Questo costante darwinismo sociale, finanziato dal sistema
bancario, consente la crescita economica nell'economia capitalistico
liberale.

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La forza del capitalismo è dunque la distruzione creatrice. E'


attraverso questo processo di distruzione delle vecchie produzioni e di
creazione di nuovi processi e prodotti, finanziato dalle banche
attraverso il moltiplicatore dei depositi bancari, l'origine del
progresso economico e del ciclo.
Schumpeter considera pertanto del tutto normali le
depressioni, perché necessarie ad eliminare le imprese obsolete. In
genere, a suo dire, sono brevi, si traducono in un ritorno in tempo
brevi all'equilibrio e determinano variazioni dei redditi e dei prezzi
molto contenute.
Il sistema economico incorre invece in gravi crisi economiche
quando gli operatori economici entrano nel panico e quando si
succedono una serie di fallimenti di importanti industrie.
Schumpeter fece tre previsioni, convinto che si sarebbero
realizzate:
 il capitalismo sarebbe stato caratterizzato sempre più da
grandi "cartelli di imprese", perché il capitalismo sarebbe
stato caratterizzato da imprese di notevoli dimensioni;
 i cicli economici sarebbero stati sempre di minore ampiezza;
 si sarebbe registrato un continuo calo dei prezzi.

La prima previsione è fondamentalmente corrispondente a


quanto accaduto ma le altre due previsioni risulteranno
completamente sbagliate.
Schumpeter cerca di dare una spiegazione esauriente dei tre
cicli economici osservati (lungo, medio e breve termine) coerente con
la sua dottrina della distruzione creatrice:

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 le innovazioni davvero epocali (macchina a vapore, petrolio,


ecc.) si susseguono a cicli particolarmente lunghi, intorno ai
cinquanta anni e spiegano i cicli di Kondratiev;
 le innovazioni di valore intermedio, applicazioni e derivazioni
di quelle epocali, spiegano i cicli di Juglar;
 infine le innovazioni minori spiegano i cicli di Kitchin.

Fig. 2

Nella fig. 2 sono rappresentate le innovazioni epocali e i cicli di


Kondratiev.

La fase ascendente del ciclo descritto dalla teoria di


Schumpeter può essere formalizzata in modo semplicistico nella
seguente successione:

EMT > EMT t-1 → EMK > i → ΔI > ΔS a condizione che C = 1/q D
[3]

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in cui EMT è l'efficienza tecnologica degli impianti produttivi


C sono i crediti erogabili dal sistema bancario in base al
moltiplicatore dei depositi bancari
q è la riserva obbligatoria
D sono i depositi originari

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3. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA


ECONOMICA MONETARISTA

La teoria del ciclo di medio e breve termine di tipo quantitativo


si deve a Hawtrey.
Secondo Hawtrey le quattro fasi del ciclo economico sono
spiegate unicamente dalle variazioni della quantità di moneta e
dipendono dal comportamento congiunto delle banche e degli
operatori economici: alla fine della fase recessiva le banche
dispongono di notevoli risorse non utilizzate dagli operatori economici,
pertanto le banche sono disponibili ad erogare prestiti ad un tasso
basso e a moltiplicare i propri depositi. I grossisti sono molto sensibili
al minor costo del credito ed espandono di conseguenza le proprie
scorte commerciali. L'espansione delle scorte comporta maggiori
ordinativi alle aziende produttrici, che aumentano la produzione.
L'aumento della produzione determina un maggior impiego dei fattori
della produzione, il che genera un aumento della domanda globale. Il
sistema raggiunge la piena occupazione, ma questa circostanza non
frena la fase ascendente, perché genera l'aumento dei prezzi.
L'aumento dei prezzi genera ulteriori incentivi per i grossisti ad
aumentare le scorte per due ragioni: la svalutazione favorisce i
debitori (per cui rimborseranno alle banche meno di quello che
prelevano) e accresce il prezzo delle scorte.
Il raggiungimento della piena occupazione non frena dunque,
secondo Hawtrey la fase ascendente del ciclo.
Piuttosto è il limite monetario a bloccare la fase ascendente del
ciclo.

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Ricordando che Hawtrey è un teorico della teoria quantitativa


della moneta, la fase ascendente del ciclo può essere formalmente
descritta nel seguente modo:

i ↓ → ΔM↑ → ΔQ (P costanti) ↑ = v M ↑ → Δ Scorte


commerciali ↑ → Δ (P costanti ) Q ↑ → Δ M ↑ etc. [4]

Il processo prosegue anche se aumentano i prezzi e le quantità


sono stabili, perché è del tutto indifferente per i commercianti se
vendono la stessa merce ad un prezzo più alto o più merce allo stesso
prezzo: è sempre PQ.
Come sappiamo le banche possono espandere il credito fino ad
un certo punto, ma devono garantirsi comunque una certa
percentuale di moneta disponibile rispetto ai crediti erogati. Quando
esse registrano una carenza di liquidità iniziano a restringere il
credito e si attua un processo inverso a quello della fase ascendente.
Le banche aumentano il tasso di interesse. I grossisti, molto sensibili
al maggior costo del credito, diminuiscono di conseguenza le proprie
scorte commerciali. La diminuzione delle scorte comporta minori
ordinativi alle aziende produttrici, che diminuiscono la produzione. La
diminuzione della produzione determina un minor impiego dei fattori
della produzione, il che genera una diminuzione della domanda
globale. Il sistema entra in depressione, ma questa circostanza non
frena la fase discendente, perché genera la deflazione, cioè la
diminuzione dei prezzi. La diminuzione dei prezzi genera ulteriori
incentivi per i grossisti a diminuire le scorte per due ragioni: la
rivalutazione della moneta favorisce i creditori (per cui i grossisti

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rimborserebbero alle banche più di quello che prelevano) e diminuisce


nel tempo il prezzo delle scorte.
Il processo terminerà solo quando le banche invertiranno la loro
politica creditizia tornando a concedere prestiti.
Hawtrey rimuove il presupposto tipico della teoria quantitativa
tradizionale, perché nel suo schema, durante le fasi del ciclo, varia la
produzione delle imprese (Q), considerata invece nella dottrina
ortodossa stabilmente in condizione di piena occupazione.
Hawtrey era stato influenzato nel suo pensiero economico
profondamente da Wicksel. L'autore era partito dall'osservazione che,
a differenza di quanto previsto dalla teoria quantitativa ortodossa si
registrava nell'economia, in alcune fasi, la contemporanea presenza di
tassi di interesse elevati e prezzi elevati: come era possibile che la
riluttanza delle banche a concedere prestiti (quindi la scarsità di
moneta) fosse associata a prezzi più alti (eccesso di moneta).
Il grande economista introdusse per primo il concetto di tasso
d'interesse naturale distinto da quello di mercato applicato dalle
banche, ovvero il tasso dipendente da ragioni monetarie: il tasso
naturale di interesse indica il rendimento atteso dagli investimenti.
Quando il rendimento atteso degli investimenti è comunque
maggiore del costo del denaro sul mercato monetario, la domanda di
prestiti permane, anche se il costo del denaro aumenta.

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4. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA


KEYNESIANA

Come sappiamo, l'assoluta convinzione di Keynes che non sia


assolutamente automatico l'incontro tra gli investimenti fisici reali e
il livello del risparmio, porterà l'economista ad una totale rivoluzione
del pensiero economico rispetto allo schema classico e neoclassico.
Il livello degli investimenti in capitale fisico effettivamente
realizzatosi dipende, in Keynes, dall'incontro tra le aspettative di
profitto attese e il costo del denaro (fig. 3): il ruolo centrale è assunto
dall'efficienza marginale del capitale, cioè da quello che Wicksell
aveva definito il tasso d'interesse naturale, ossia il rendimento atteso
dagli investimenti.

Fig. 3

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Inoltre Keynes è stato il primo a dimostrare l'influenza della


speculazione sull'andamento del ciclo economico. In borsa la quasi
totalità del pubblico, ormai, spesso avvalendosi di professionisti,
acquista e vende titoli per trarre profitto dalle variazioni di breve
termine delle quotazioni grazie al rialzo o al ribasso dei titoli sui
mercati, come abbiamo visto, e non più per "impiegare" in modo
duraturo i risparmi posseduti.
Questa circostanza contribuisce ad accrescere le fasi espansive
e recessive del ciclo: infatti, quando durante le fasi espansive crescono
i profitti e cresce la domanda globale, gli speculatori di borsa giocano
prevalentemente al rialzo.
E’ noto che esiste una relazione inversa tra la quotazione dei
titoli e il tasso di interesse, per cui l'aumento delle quotazioni
comporta automaticamente la riduzione del saggio di interesse
effettivo: a parità di efficienza marginale del capitale, in questo caso,
gli investimenti aumentano.
Keynes dunque è il primo che ha messo in luce che il saggio
corrente di interesse può allontanarsi da quello che Wicksell definiva
saggio naturale di interesse a causa delle speculazioni borsistiche e
non solo per la politica bancaria di espansione o diminuzione dei
crediti.
Viceversa quando la fase di espansione si arresta in borsa
prevale il gioco al ribasso. Questa volta il corso dei titoli diminuisce,
per cui la diminuzione delle quotazioni comporta automaticamente
l'aumento del saggio di interesse effettivo: a parità di efficienza
marginale del capitale, in questo caso, gli investimenti diminuiscono.
Come si rappresenta il gioco degli speculatori nella figura 1?

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Le aspettative degli speculatori determinano l'altezza della


curva dell'efficienza marginale del capitale:
 durante l' espansione, le aspettative degli speculatori
spostano la curva dell'efficienza marginale del capitale verso
l'alto;
 durante la depressione le aspettative degli speculatori
spostano la curva dell'efficienza marginale del capitale verso
il basso.
Allo studente è affidato il compito di esercitarsi in tal senso.
Difronte alla drammatica impossibilità di gestire le aspettative
pessimistiche, sappiamo che Keynes suggerirà durante le depressioni,
la sostituzione dei mancanti investimenti privati con investimenti
pubblici.
Questa strada non è sempre stata utile nel lungo periodo e che,
a causa dei meccanismi della massimizzazione del consenso, i deficit
pubblici e i debiti sovrani sono cresciuti sempre di più, tanto che la
gestione di deficit e debiti sovrani è diventata una delle priorità della
politica economica contemporanea.
In ogni caso, nelle sue opere Keynes non si sofferma molto sulla
natura del ciclo. Economisti keynesiani, dopo di lui, invece lo hanno
fatto e la necessità di approfondire il tema del ciclo ha portato la
riflessione keynesiana ad elaborare il concetto di “acceleratore” degli
investimenti.
Come sappiamo Keynes considera gli investimenti la variabile
principale del suo sistema teorico: in un economia di mercato sono le
aspettative di futuri profitti e il costo del denaro a determinare il
livello degli investimenti, il livello degli investimenti, via
moltiplicatore determina il reddito nazionale.

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I = f (EMK > i) [5]

Y = 1/(1-c) I [6]

Ma l'acceleratore è il fenomeno economico, per alcuni aspetti,


opposto al moltiplicatore: mentre in quest'ultimo l'investimento
iniziale determina un reddito per gli impieghi dei fattori, che per la
parte spesa determina ulteriore reddito, via, via fino a raggiungere n
volte la spesa iniziale, l'acceleratore è il fenomeno per cui un
aumento della domanda globale, percepito come definitivo, genera un
investimento.
Nel moltiplicatore l'investimento genera reddito;
nell'acceleratore il reddito genera investimento.
Mentre eravamo abituati in tutti gli schemi finora utilizzati a
considerare il reddito funzione dell'investimento e le variazioni del
reddito funzioni delle variazioni degli investimenti, ora consideriamo
gli investimenti funzione crescente del reddito: gli investimenti
crescono al variare del reddito secondo il rapporto capitale-prodotto
medio esistente a livello macroeconomico in un economia. Possiamo
dunque scrivere.

ΔI = α ΔY [7]

in cui α è appunto il rapporto capitale-prodotto medio esistente


a livello macroeconomico in un economia, altrimenti detto
acceleratore, mentre le altre variabili sono ormai note allo studente.

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L'acceleratore è importante per comprendere il ciclo. Perché la


sua introduzione spiega meglio l'esistenza dei cicli medi e brevi.
Il ciclo parte da una situazione in cui vi sono ottime aspettative
di profitto futuro, bassi tassi di interesse e disoccupazione della
manodopera: in queste condizioni è molto favorevole investire.
L'investimento iniziale genera, per azione del moltiplicatore
keynesiano un aumento della domanda di beni e quindi del reddito
nazionale.
Le imprese, di fronte a questo incremento di domanda,
interpretano almeno parte dell'incremento del reddito come
permanente ed espandono la loro capacità produttiva per il principio
dell'acceleratore. L'incremento del reddito, interpretato come
incremento permanente, determina a sua volta nuovi investimenti in
nuovi impianti e macchinari.
Si può rappresentare formalmente la successione degli eventi
nel seguente modo:

EMK > i → ΔI ↑ → ΔY ↑ = 1/(1-c) I ↑ → ΔI ↑ = α ΔY ↑→ ΔY ↑ → ΔI


↑ etc. [8]

Il processo va avanti fino a quando le prospettive di profitto,


per le ragioni più varie non si modificano e allora il processo si inverte
e tanto il moltiplicatore che l'acceleratore agiscono questa volta in
senso negativo:

EMK < i → ΔI ↓ → ΔY ↓ = 1/(1-c) I ↓ → ΔI ↓ = α ΔY ↓ → ΔY ↓ →


ΔI ↓ etc. [9]

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inizia allora (successione 9) la fase discendente, che poi diventa


vera e propria recessione: le negative prospettive di profitto
diminuiscono o azzerano gli investimenti, i mancati investimenti
determinano, a causa del moltiplicatore, una perdita di domanda
globale, che determina a sua volta, a causa dell'acceleratore una
ulteriore diminuzione del reddito nazionale, e così via, finché non si
modificano di nuovo le prospettive di profitto futuro e il ciclo si inverte
nuovamente.

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5. L'ESISTENZA DEI CICLI E LA TEORIA


MARXISTA

La teoria del ciclo di Marx è strettamente legata alla teoria del


plusvalore e alla teoria dei rendimenti decrescenti del capitale,
descritte brevemente nel capitolo 2 e che si considerano note allo
studente. La questione centrale in Marx è la lotta di classe tra
capitalisti e proletari: il ciclo, nella sua visione, ne è un aspetto
fondamentale.
Come la teoria di Schumpeter, anche la teoria di Marx è un
applicazione ai fenomeni sociali del Darwinismo. Quando vi è
disoccupazione, dice Marx, i proletari sono costretti dalle circostanze
ad accontentarsi del salario di sussistenza.
Se ricordiamo che nello schema marxista i profitti dipendono
dal plusvalore, in questa circostanza il capitalista, quando può pagare
bassi salari, ha la possibilità di accrescere il plusvalore (quelli che gli
altri economisti definiscono profitti). Gli imprenditori investono
allora i loro profitti nell'acquisto di impianti e macchinari, ovvero in
investimenti in capitale fisico aggiuntivo, convinti di accrescere in
questo modo ulteriormente il proprio plusvalore o profitto.
Gli imprenditori inoltre, oltre a costruire nuovi impianti,
assumono altri operai, prima disoccupati, i quali, dopo essere stati
assunti, hanno un reddito da poter spendere: questa circostanza
determina sia un aumento delle quantità prodotte che un aumento
dell'occupazione e dei consumi.
I maggiori consumi determinano un aumento della domanda e
ulteriori investimenti. Questo processo espansivo dura, anche
nell'analisi marxista, finché non si raggiunge la piena occupazione.

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Nello schema keynesiano sono le aspettative pessimistiche, ben


prima di raggiungere effettivamente la piena occupazione a
modificare il ciclo; in Hawtrey è la politica restrittiva di credito
bancario a modificare il ciclo; nello schema marxista invece il
raggiungimento della piena occupazione comporta un aumento dei
salari e l'aumento dei salari determina una diminuzione oggettiva del
plusvalore, ovvero dei profitti.
La diminuzione del plusvalore determina la diminuzione degli
investimenti, della produzione e l'avvio della fase recessiva, che
determinerà licenziamenti, caduta della produzione secondo un
processo inverso a quello ascendente precedentemente descritto.
Questa analisi del ciclo marxista si inserisce però all'interno
della teoria dei rendimenti decrescenti del capitale.
Ciclo dopo ciclo da un lato aumenta il costo del capitale e
dall'altro diminuisce la partecipazione del lavoro alla produzione.
Ricordi lo studente che nella teoria marxista il profitto è la
parte di valore-lavoro sottratta ingiustamente dai capitalisti ai
lavoratori e non la remunerazione per la nuova combinazione dei
fattori organizzata dall'imprenditore, che si assume il rischio del
fallimento, come ritiene, più correttamente Shumpeter.
Data la premessa marxista, man mano che diminuisce la
partecipazione del lavoro alla produzione, diminuisce la possibilità di
produrre plusvalore e quindi profitto: tutto questo processo comporta
la diminuzione inevitabile nel tempo del saggio di profitto. Infatti, nel
tempo è destinato a diminuire il tasso di plusvalore pv/v e muta la
composizione del capitale investito;

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Con l'aumento nel processo produttivo del "capitale costante" e


la diminuzione del lavoro, che produce plusvalore ("pv"), il saggio di
profitto p = pv / (c + v) diminuisce.
Il capitalismo è destinato quindi, secondo Marx,
inevitabilmente a rendimenti decrescenti.
L'idea di Marx che esista una componente ciclica di breve
periodo legata al conflitto capitale-lavoro ha invece un certo
fondamento.
Noti lo studente che l'evidenza storica ed econometrica
mostrano dunque che la cooperazione capitale-lavoro è più produttiva
nel lungo termine tanto della lotta di classe, quanto dello
sfruttamento dei proletari da parte delle classi più ricche.

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6. I CICLI ECONOMICI DI MEDIO TERMINE:


COLPA DELLE BANCHE O DELLE ASPETTATIVE
DEGLI IMPRENDITORI ?

Nei paragrafi precedenti abbiamo riportato la teoria del


ciclo di Shumpeter, le teorie del ciclo monetariste che quelle
keynesiane.
Abbiamo visto che secondo le teorie monetariste il ciclo dipende
dalla politica creditizia delle banche, mentre nelle teorie keynesiane il
ciclo economico dipende essenzialmente dal mutamento delle
aspettative degli imprenditori.
Innanzitutto intendo qui spiegare che il moltiplicatore dei
depositi non è la ragione dei problemi dell'economia, come
erroneamente ritenuto anche da bravi economisti.
In questo corso di politica economica non ci siamo addentrati
nella complessa questione della tecnica bancaria, abbiamo appena
accennato ai criteri che devono seguire per erogare i crediti e il
patrimonio di vigilanza che devono mantenere.
Ci siamo soffermati invece sul funzionamento del sistema
bancario nel suo complesso.
Lo studente ha appreso che il sistema bancario nel suo
complesso presta i depositi originari depositati presso di esso,
trattenendo circa il 10% degli stessi. Ha imparato che i crediti erogati
torneranno al sistema bancario nel suo complesso e che il processo
proseguirà e che i depositi finali saranno un multiplo di quelli
originari e che il coefficiente moltiplicativo dipenderà dalla riserva
obbligatoria e dal patrimonio di vigilanza utilizzato per ogni prestito
erogato.

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Sulla rete internet si trovano commenti molto negativi circa


questo modo di funzionare dell'economia.
In realtà il sistema bancario in merito al credito è migliore dei
suoi clienti.
Il moltiplicatore dei depositi non è pertanto il problema
dell'economia di libero mercato, almeno secondo me.
Il banchiere infatti è come il custode di un garage di automobili
tutte identiche, anche nella targa, che rende disponibili le automobili
che altrimenti resterebbero inutilizzate nell'autorimessa da parte dei
legittimi proprietari.
Pertanto il sistema bancario contribuisce a rendere
assolutamente efficiente la gestione del capitale, perché lo utilizza al
massimo, laddove i singoli proprietari lo lascerebbero per gran tempo
inutilizzato. Sono però d'accordo con tutti quanti affermano che il
sistema bancario non funziona bene.
Il problema del sistema bancario è il modo in cui si tutela dal
rischio insito nel prestare i soldi di altri ed essere sicuro che i soldi
prestati rientrino in banca, in un modo o in un altro. Lo studente
ricordi che le singole banche non stampano moneta semplicemente li
moltiplicano, perché prestano a più persone gli stessi soldi. Lo
studente ricordi che è necessario che ogni volta i soldi prestati tornino
in banca per poterli prestare di nuovo.
Il banchiere agisce esattamente come il titolare
dell'autorimessa dell'esempio precedente: può prestare le auto dei
proprietari che hanno deciso di ricoverarla in quel garage, ma, quando
i proprietari ne hanno bisogno, debbono in qualsiasi momento
trovarne una a disposizione.

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Ebbene il titolare di un'autorimessa come quella ipotizzata (con


tutte auto identiche) ha due modi di prestare le automobili custodite e
due modi per tutelarsi dal rischio di incidenti.
Vediamo ora quali sono questi modi, quali modi stati scelti nei
vari tipi di capitalismo esistenti ed i diversi risultati ottenuti.
Iniziamo dalle due tipologie di prestiti che le banche possono
erogare:

 i soldi possono essere prestati a imprenditori, che attendono un


profitto dall'impiego del capitale, capace di remunerare il
capitale impiegato;

 i soldi possono essere prestati a consumatori, che restituiranno


il prestito e l'interesse sulla base dei propri redditi futuri,
proiezione di quelli attuali.

Lo studente attento capirà subito la profonda differenza


economica delle due azioni: nel primo caso si avrà un investimento
fisico reale che avrà un effetto moltiplicativo sul reddito; nel secondo
caso si agirà sull'acceleratore e l'effetto sugli investimenti dipenderà
dalla parte di domanda globale considerata permanente.
Nel secondo caso, dunque l'azione del banchiere è molto meno
diretta sul ciclo ed ha sugli investimenti soltanto un eventuale e
temporaneo effetto di accelerazione, nel caso specifico il consumo sia
rivolto a beni nazionali e non ad importazioni di beni da Paesi terzi.

Consideriamo ora i due modi possibili di tutelarsi dalla


mancata restituzione:

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 il primo modo è molto semplice ed intuitivo: chiedere in


deposito l'esatta cifra prestata, ma ha una serie di
inconvenienti:

◦ innanzitutto limita moltissimo la platea dei clienti e la


limita a quelli meno disposti a innovare, perché già ricchi.
Si tratta di un criterio opposto a quello esposto da
Schumpeter.

◦ In secondo luogo rende assolutamente indifferente la banca


dall'efficienza marginale del capitale dell'impresa a cui si
presta: visto che tanto i soldi verranno comunque recuperati
e che il rischio dell'affare è tutto a carico del finanziato, non
è importante per la banca andare a vedere che cosa
esattamente l'imprenditore voglia fare con i soldi.

◦ Infine, con questa modalità, sono finanziabili soltanto i


progetti proporzionali alla ricchezza posseduta dagli
imprenditori. Anche questo aspetto limita fortissimamente
l'attività creditizia e l'innovazione;

 il secondo criterio è del tutto opposto:

◦ la banca si fa carico di capire esattamente cosa


l'imprenditore vuole fare, assume in parte il ruolo di
azionista ed in parte il ruolo di prestatore e si garantisce in
tre modi:

▪ controlla efficacemente il management;

▪ ha il diritto di rimuoverlo se non è soddisfatto;

▪ ha la prelazione per modificare l'assetto proprietario


dell'azienda quando i conti non tornano.

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Tornando all'esempio della nostra particolare autorimessa con


le auto tutte identiche e immaginiamo due rimesse concorrenti con
due politiche di prestito delle auto completamente diverse:

 nella prima, il titolare ha un buon numero di collaboratori, essi


sono verificatori di titoli e dei valori posti in garanzia e
depositari delle cifre necessarie per poter avere l'automobile.
Essi non valutano per niente la capacità di guidare di chi
noleggia le auto, se gli autisti sono professionisti o meno, ma
valuta soltanto l'effettiva disponibilità delle cifre per poter
noleggiare l'auto.

 nella seconda il titolare presta le auto soltanto ad autisti


professionisti con licenza ed impone che ogni auto abbia la
seconda guida e che possa mettere persona di assoluta fiducia
per verificare la guida dell'autista e intervenire per prevenire
incidenti; il titolare si tutela dagli incidenti, in parte inevitabili,
con un assicurazione, ma paga un premio molto basso, perché
la sua attenta prevenzione riduce al minimo gli incidenti. Gli
autisti infatti sono valutati attentamente dai suoi uomini di
fiducia e quelli che guidano male sono sostituiti prima che si
verifichino incidenti. Inoltre, data la seconda guida, essi
intervengono ed evitano incidenti, frenando al posto del titolare
della licenza di autista

Immaginiamo che il primo operi in un Paese e l'altro in un


altro, lascio allo studente il compito di immaginare in quale dei due
sarà più diffuso l'uso del taxi, in quale dei due con ciascuna auto

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verranno trasportate più persone al giorno, dove ci sarà meno traffico,


meno inquinamento e maggiore stima sociale per le autorimesse.
Viceversa lo studente giudichi anche quale dei due titolari sarà
invece più ricco in termini di mezzi di scambio (moneta).
Possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che il sistema
bancario italiano e quello anglosassone operano soprattutto nel breve
termine e con un totale distacco dalla gestione delle imprese affidate,
mentre il sistema bancario tedesco, grazie al suo peso nei Consigli di
Sorveglianza (auftichtsrat) e quello giapponese, con il ruolo che
rivestono le banche all'interno dei cartelli produttivi giapponesi,
consentiti in funzione anticinese dagli USA dopo la guerra di Corea
(Keyretsu), operano soprattutto intervenendo anche in modo deciso
sulla gestione delle imprese affidate, concedendo in cambio di ricevere
come remunerazione del capitale una parte del ROI (ROI - Return of
investment - è il rapporto tra il risultato operativo globale ed il valore
medio del capitale investito nel periodo), effettivo registrato
dall'impresa e non un tasso di interesse che prescinde da esso.
Lo studente sa anche che questi sistemi hanno tassi di
disoccupazione naturale molto più bassi di quelli delle altre economie.
Ma qual è il legame tra le considerazioni precedenti sul sistema
bancario e il ciclo economico?
Abbiamo visto che anche scuole diverse che hanno affrontato il
tema del ciclo economico convergono che esistono fasi in cui gli
investimenti in capitale fisico superano il risparmio e fasi in cui
succede il contrario, fasi queste ultime accompagnate da grandi
fallimenti e aspettative negative.
Condizione per una fase espansiva è comunque che il tasso
naturale (per usare l'espressione di Wicksell) sia superiore al tasso di

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interesse corrente di mercato. Per essere pragmatici, si può dire allora


che la questione centrale di politica economica è rendere sempre
l'efficienza marginale del capitale superiore al tasso di interesse.
Abbiamo visto, nel corso delle lezioni, tutti i limiti e gli
insuccessi della politica economica keynesiana: sia i limiti delle
politiche monetarie espansive, sia i limiti delle politiche fiscali
espansive.
Occorre allora concentrarsi su meccanismi nuovi che
raggiungano lo stesso risultato sperato (tenere l'EMK al di sopra del
tasso di interesse).
L'esempio giapponese e tedesco, come abbiamo già detto, ci
dimostra che esiste una via istituzionale a questo risultato.
Occorre ora approfondire il meccanismo in termini
macroeconomici.
Il sistema tedesco e giapponese sono sistemi che, anche se
inconsapevolmente, hanno stabilito a fondamento del proprio
funzionamento una semplice regola:

ROI > i [10]

Solo quando il ROI (ossia il rapporto tra il risultato operativo


globale ed il valore medio del capitale investito nel periodo) è
maggiore del tasso medio di remunerazione del capitale di terzi (il
tasso pagato alle banche), l’effetto di leva finanziaria è positivo per
l’impresa.
In questo caso l’aumento dell’indebitamento dell’impresa fa
aumentare il ROE (cioè il rendimento economico del capitale di rischio
nell’esercizio in esame) poiché il capitale preso a prestito ed investito

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Salvatore Della Corte “Il ciclo economico e la politica economica
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nell’impresa rende più di quanto costa e tale differenza è lucrata dai


detentori del capitale di rischio.
Ebbene sia in Giappone che in Germania si può dire in qualche
modo che è come se avessero stabilito che, quando il capitale preso a
prestito dal debitore rende meno di quanto costa, è sempre un cattivo
affare per tutti. In effetti l'impresa, in queste condizioni, non è in
grado di ripagare il prestito se non facendo ricorso a ricchezze e
risparmi accumulati in precedenza, in quanto il capitale preso in
prestito costa più di quanto rende.
Il prestito, in queste condizioni, danneggia per definizione il
debitore e, a lungo andare, se la situazione permane, porta al
fallimento dell’impresa, trasformando l’impiego bancario in una
sofferenza bancaria. Ecco il punto: in Giappone e Germania il loro
complesso sistema finanziario si occupa sempre che il tasso di
interesse sia inferiore al ROI e se quest'ultimo scende troppo, la banca
non aspetta il fallimento, ma interviene, con i diritti e secondo
modalità che abbiamo studiato nel capitolo 13,adeguate perché il ROI
torni a crescere.
Esistono dunque sistemi economici in cui le banche concorrono
per finanziare imprese con ROI molto elevati e sistemi economici in
cui le banche sono di fatto indifferenti e distinte dalle imprese e si
preoccupano principalmente di recuperare parte del capitale investito.
L'evidenza storica ci insegna che i primi sono più efficienti dei
secondi.

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LA POLITICA REGIONALE
UE
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica regionale UE”

Indice

1. LE MOTIVAZIONI -------------------------------------------------------------------------------- 3
2. BREVE CRONISTORIA DELLA POLITICA REGIONALE UE ------------------------ 5
3. LO STATO ATTUALE ---------------------------------------------------------------------------- 9
4. FONDO PER LO SVILUPPO E LA COESIONE (FSC GIÀ FAS) ---------------------- 12
5. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE EUROPEA ------------------------------------- 15
6. L’ACCORDO DI PARTENARIATO ---------------------------------------------------------- 17

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE”

1. LE MOTIVAZIONI

La presenza di squilibri e divari tra le diverse «regioni» di


Europa è un dato costitutivo che era risultato ben presente ai padri
fondatori dell’UE quali erano ben note le differenziazioni presenti
prefigurarle già con riferimento alla Comunità definita nel Trattato
affermando che “la Comunità mira a ridurre il divario tra i livelli di
sviluppo delle varie regioni”. Tuttavia la situazione del tempo non
faceva emergere l’imperativo della predisposizione di una politica ad
hoc tenendo conto del fatto che i paesi membri originari costituivano
una comunità abbastanza omogenea. In ogni caso fu su istanza
italiana che vennero previsti due strumenti per il sostegno alle aree
meno favorite dell’Europa a sei e cioè la Banca Europea degli
Investimenti ed il Fondo Sociale Europeo.
Per cogliere appieno il senso della politica regionale occorre fare
un richiamo al concetto di «regione». Qui si vuole fare riferimento a
partizioni dei territori di singoli stati caratterizzati sotto il profilo
ambientale ma anche risultato delle attività antropiche, dell’economia
e dell’evoluzione conseguente della società.
Può essere opportuno un mero richiamo al concetto di squilibri
o divari e loro misurazione, gli stessi sono normalmente costituiti da
differenze nei livelli di reddito pro-capite, nelle condizioni di vita,
nelle condizione di opportunità di occupazione, nelle retribuzioni del
lavoro o nella renumerazione dei fattori produttivi ed altri ancora.
Alla luce degli stessi in letteratura si definisce settori avanzati e
settori arretrati, aree o settori moderni e settori tradizionali, settori
ad alta intensità di capitale e settori ad alta intensità di lavoro.

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE”

Rispetto a questi dati emergono quelli che sono definiti


squilibri che possono rappresentare un fenomeno transitorio destinato
a scomparire nel tempo, un fenomeno strutturale che può addirittura
avere effetti cumulativi nel tempo, ovvero funzionali ai processi di
sviluppo.
La politica regionale è lo strumento di attenuazione e
comunque di governo degli squilibri attraverso politiche di
convergenza, di coesione tra le aree o di integrazione economica. Tali
politiche quasi sempre debbono essere accompagnate da strategie di
solidarietà finanziaria.

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE”

2. BREVE CRONISTORIA DELLA POLITICA


REGIONALE UE

La necessità di una politica regionale si afferma alla fine degli


anni’ 60 con i processi di allargamento della Comunità e l’accesso di
paesi con differente livello di sviluppo.
E’ del 1968 la creazione della Direzione generale per la politica
regionale
Jean Rey affermava nel (1968) “La politica regionale deve
essere per la Comunità ciò che il cuore è per l’organismo umano… e
deve tendere ad infondere nuova vita nelle regioni in cui questa è
stata negata.”
E’ solo del 1971 le Risoluzioni del Consiglio con le quali
venivano previsti incentivi allo sviluppo regionale nell’ambito della
PAC e il coordinamento degli aiuti finanziari.
Nel 1975 con qualche ritardo a causa della crisi del 1973 ha
luogo l’Istituzione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) per
un periodo di prova triennale al fine di correggere gli squilibri
regionali dovuti alla predominanza dell’agricoltura; nelle politiche
comunitarie, ma anche per fronteggiare i cambiamenti industriali e le
conseguenti situazioni di disoccupazione strutturale.
Gli eventi salienti che hanno costituito una spinta verso una
politica di coesione più “europea” vanno ritrovate nell’approvazione
dell’Atto unico europeo che per la prima volta affrontava la questione
della coesione economica e sociale,
nell’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo e nella successiva
adozione del programma del Mercato unico.

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE”

L’adesione di nuovi paesi accentua le disparità regionali e gli


aiuti diventano strumenti chiave per allineare il livello di prosperità
alla media europea.
Si gettano così le basi per una politica di coesione volta a
compensare l’onere del Mercato unico nelle regioni più svantaggiate
della Comunità
Il Consiglio europeo stanzia una prima dote di Fondi strutturali
per un periodo di 5 anni e adotta il primo regolamento che integra i
Fondi strutturali.
Vengono introdotti i principi fondamentali della politica
regionale europea e cioè la concentrazione dell’intervento sulle regioni
più povere, la costituzione di partenariati mediante la partecipazione
di partner regionali e locali ai processi di sviluppo, la
programmazione pluriennale, l’addizionalità della spesa UE che non
deve sostituire quella nazionale, l’ integrazione dei Fondi strutturali
(FEOGA, FSE, FESR). Vengono individuati 5 obiettivi prioritari con
riferimento ai differenti contesti comunitari.
L’obiettivo 1 è focalizzato nello sviluppo e l’adeguamento
strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo secondo alcuni
parametri comunitari, dotandole delle infrastrutture di base delle
quali sono privi e sollecitando gli investimenti utili per il decollo delle
attività economiche.
L’obiettivo 2 relativo ad altre posizioni del territorio europeo si
propone di favorire la riconversione economica e sociale di zone in fase
di trasformazione economica, le zone rurali in declino, di zone in crisi
che dipendono dalla pesca, di zone urbane in difficoltà.
Con l’obiettivo 3 la Comunità si prefigge di ammodernare i
sistemi di formazione mantenendo l’occupazione.

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La programmazione comunitaria introduce norme


standardizzate e si attua attraverso una gestione decentrata affidata
alle realtà nazionali. Vengono messi a punto tutta una serie di
strumenti operativi per attuare le politiche
Ci si riferisce ai quadri comunitari di sostegno (QCS) e cioè i
documenti nei quali sono riportati i progetti integrati e cioè insieme di
azioni relativi a differenti settori focalizzati a un obiettivo di sviluppo
caratterizzati quindi da integrazioni progettuale e riferimento
territoriale, Programmi operativi (PO), documenti che delineano la
strategia seguita e le priorità di intervento, il piano finanziario per
ciascun asse prioritario, le disposizioni di attuazione Documenti unici
di programmazione (DOCUP).
Un certo numero di iniziative comunitarie vengono attuate con
l’obiettivo di completare l’intervento dei fondi: KONVER, RETEX,
PMI, URBAN, EQUAL, LEADER sono alcune delle sigle delle stesse
alle quali si rinvia.
L’evoluzione della politica regionale si è comunque ispirata alla
semplificazione delle procedure ed alla creazione di fondi specifici
come nel caso del Fondo di coesione e dello Strumento di
finanziamento per la pesca.
Accanto alle opportunità dell’aumento del bilancio dei Fondi
strutturali due grandi temi emergono con forza e sono quelli
dell’efficienza e razionalità in sintesi della semplificazione della
progettazione e delle procedure come preparativi in vista
dell’allargamento della Comunità.
“Agenda 2000” un nuovo documento di politica regionale della
Comunità che spiana il cammino al più vasto processo di

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allargamento mai intrapreso dall’UE con l’adesione di 10 nuovi Stati


membri nel maggio 2004.
Con questo storico evento, la popolazione dell’UE aumenta del
20%, ma il PIL cresce del 5% appena e si rende necessario il sostegno
transitorio per alcune regioni Obiettivo 1,2 e 5b.
A seguito di questi eventi l’azione del fondo di coesione viene
concentrato su tre obiettivi comuni definiti come a) convergenze degli
stati membri e delle regioni, b) competitività regionale e occupazione,
c) cooperazione territoriale europea relativa alla cooperazione
transfrontaliera e sovranazionale e allo sviluppo rurale.
Viene inoltre introdotto lo strumento per le politiche strutturali
di pre-adesione (ISPA).

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3. LO STATO ATTUALE

L’esperienza ormai consolidata a livello europeo conduce quindi


ad una discussione sulle politiche di bilancio e sulla coesione.
Centrale in questa riflessione sono le risultanze del c.d. Rapporto
Barca che propone una politica cosiddetta place-based cioè rivolta ai
territori ed al loro ruolo nello sviluppo.
Questo tipo di approccio pone innanzitutto in rilievo il ruolo
dell’innovazione (quale nuova conoscenza) come fattore primario di
sviluppo e sollecita un confronto aperto tra conoscenze e valori
diverso. L’approccio esalta il ruolo delle elites locali nello sviluppo e la
necessità di promuovere nei singoli territori progetti integrati di
cambiamento istituzionale e di investimento con il coinvolgimento di
attori endogeni ed esogeni.
L’ipotesi è quella di promuovere politiche che consentono alle
persone nei territori di disporre di strumenti in grado di valorizzare le
risorse locali fondate ancora una volta sulla concentrazione su
priorità tematiche non settoriali, sull’integrazione tra attori, su
impegni di condizionalità ambientale che possano essere
preventivamente verificate. La filosofia di approccio è concentrata
altresì sulla costruzione di reti.
A quanto sostenuto in precedenza si fa fronte con l’integrazione
delle Iniziative comunitarie ma consentendo anche l’ammissibilità di
tutte le regioni, ed a ciò corrisponde l’incremento del bilancio a 50
Mrd di EUR l’anno (ca. 36% del budget UE) e la separazione dei fondi
per lo sviluppo rurale e la pesca che vengono distinti dalla politica di
coesione

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Sette sono le innovazioni imposte dalla nuova stagione di


programma:
 risultati attesi esplicitati in termini misurabili grazie a
indicatori quantitativi dell'impatto prodotto sulla vita
dei cittadini dagli interventi pubblici
 azioni da indicare in termini puntuali e operativi;
tempi vincolanti e esplicitamente associati ai soggetti
responsabili da cui dipendono le scadenze
 partenariato mobilitato da coinvolgere
tempestivamente nei processi che portano alle decisioni
sulle politiche sia in fase di programmazione sia in fase
di attuazione;
 trasparenza da esercitare attraverso il dialogo sui
territori e secondo il metodo Open Coesione;
 valutazione degli effetti prodotti dagli interventi di
sviluppo cofinanziati e del modo in cui tale effetto ha
luogo
 rafforzamento del presidio nazionale sull’attuazione,
attraverso il monitoraggio sistematico dei programmi
cofinanziati e le verifiche sul campo per accertare lo
stato degli interventi, l’assistenza e l’affiancamento
strutturato dei centri di competenza nazionale alle
autorità responsabili dell’attuazione, nelle situazioni
maggiormente critiche.
In questa logica di riequilibrio le regioni europee (e italiane)
vengono identificate secondo il grado di sviluppo in «meno sviluppate»
(per l’Italia, Puglia, Campania, Calabria, Basilicata, Sicilia) «in
transizione» (Abruzzo, Molise, Sardegna) «più sviluppate» (PA

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Bolzano, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria,


Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, PA Trento, Valle d’Aosta,
Veneto, Umbria).

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4. FONDO PER LO SVILUPPO E LA COESIONE


(FSC GIÀ FAS)

Accanto ai fondi comunitari, lo Stato dispone per la politica di


coesione di un Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC) ex Fondo per
le aree sottoutilizzate (FAS), che attua l'obiettivo costituzionale di
"rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo
esercizio dei diritti della persona" (art.119).
È lo strumento generale di governo e di sviluppo della nuova
politica regionale nazionale per la realizzazione di interventi nelle
aree sottoutilizzate. In queste aree tali risorse si aggiungono a quelle
ordinarie e a quelle comunitarie e nazionali di cofinanziamento
In origine il Fondo era alimentato ogni anno, ma la dotazione
per il ciclo di programmazione 2007/2013 è pluriennale.
Le principali caratteristiche del Fondo riguardano la strategia
unitaria della programmazione degli interventi, la cui piena
attuazione è concretizzata nell'attuale ciclo di programmazione
2007/2013 attraverso il Quadro di sostegno nazionale (QSN), e la
flessibilità nell'allocazione delle risorse, che consente uno
spostamento di risorse liberate, all'interno del Fondo, tra i vari
strumenti di programmazione.
Tali caratteristiche consentono di avvicinare per coerenza la
politica così detta aggiuntiva, di cui al V comma dell'articolo 119 della
Costituzione, ai principi ed alle regole dalla politica comunitaria.
Da rilevare che proprio alla stessa norma legislativa
summenzionata si deve l'introduzione del termine "Aree
sottoutilizzate", che ha ormai sostituito completamente la precedente
definizione di "Aree depresse". Il Decreto Legge 18 maggio 2006 n. 181

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE”

all'art. 1, comma 2 ha attribuito al Ministero dello Sviluppo


Economico una serie di funzioni previste all'articolo 24, comma 1,
lettera c) del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ivi inclusa la gestione del
Fondo per le Aree Sottoutilizzate.
Lo scopo del Fondo è conseguire una maggiore capacità di spesa
in conto capitale, oltre che per consentire un riequilibrio economico e
sociale, anche per soddisfare il principio di addizionalità, ma anche di
convogliare in un unico contenitore tutte le risorse disponibili
autorizzate da disposizioni legislative con finalità di riequilibrio
economico e sociale. Affluiscono, quindi, al Fondo una serie di risorse
finanziarie dapprima previste da distinti provvedimenti legislativi,
permettendo una visione più chiara e trasparente degli stanziamenti
destinati ad interventi speciali ed aggiuntivi per le aree
sottoutilizzate.
Le risorse FSC vengono impiegate per il finanziamento di
strumenti rientranti in due gruppi principali:
 gli investimenti pubblici per infra strutturazioni
materiali ed immateriali:
 i completamenti delle infra strutturazioni
dell'intervento straordinario;
Gli investimenti pubblici in infrastrutture materiali ed
immateriali realizzati dalle Regioni e dalle Amministrazioni centrali
attraverso Accordi di programma quadro (APQ) e non.
Gli incentivi a soggetti privati si traducono in misure a favore
dell'auto impiego e dell'auto imprenditorialità; crediti di imposta per
gli investimenti; crediti di imposta per l'occupazione nel Mezzogiorno;
crediti di imposta per campagne pubblicitarie localizzate; contratti di
filiera agroalimentare;

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finanziamento alle imprese per il completamento dei


programmi dell'Intervento straordinario; contratti di programma;
patti territoriali; contratti d'area; attrazione degli investimenti esteri
nelle aree sottoutilizzate; copertura degli interessi derivanti
dall'attivazione del Fondo rotativo per il sostegno alle imprese nelle
aree sotto utilizzate;
costituzione di fondi per l'investimento in capitale di rischio
della Piccole e medie imprese (PMI); Fondo per la competitività e lo
sviluppo.
Tutto un quadro di strumenti per il quale lo studente può far
rinvio al sito dell’Agenzia per la Coesione territoriale ed alla
nomenclatura ivi contenuto.
Grazie alla continuità finanziaria del Fondo ed alla sua
flessibilità è possibile dare certezza agli operatori pubblici e privati,
accelerare la spesa per investimenti pubblici in infrastrutture
materiali ed immateriali e riequilibrare l'impiego di risorse tra
incentivi ed investimenti.
Un aspetto rilevante del Fondo è quello di finanziare interventi
in infrastrutture materiali ed immateriali attuati attraverso lo
strumento negoziale dell'Accordo di programma quadro.

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5. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE EUROPEA

Il pacchetto legislativo Coesione 2014-2020 sviluppa e rafforza


il ruolo legislativo assegnato alla Cooperazione Territoriale Europea
(CTE) nel periodo di programmazione 2007-2013, confermandone la
natura di obiettivo generale della programmazione dei Fondi e
mantenendo la dimensione finanziaria delle risorse ad esso destinate,
anche in un quadro di riduzione delle risorse assegnate alla politica di
coesione. Alla CTE è stato rivolto un regolamento specifico,
sottolineandone quindi le peculiarità di intervento.
Il Regolamento UE n. 1299/2013 del 17 dicembre 2013
stabilisce disposizioni specifiche relativamente all'obiettivo
"Cooperazione territoriale europea" per quanto concerne l'ambito di
applicazione, la copertura geografica, le risorse finanziarie, la
concentrazione tematica e le priorità di investimento, la
programmazione, la sorveglianza e la valutazione, l'assistenza
tecnica, l'ammissibilità, la gestione, il controllo e la designazione, la
partecipazione di paesi terzi nonché la gestione finanziaria.
La Cooperazione territoriale Europea incoraggia i territori di
diversi Stati membri a cooperare mediante la realizzazione di progetti
congiunti, lo scambio di esperienze e la costruzione di reti.
Le componenti della CTE sono tre va citata innanzitutto la
cooperazione transfrontaliera fra regioni limitrofe promuove lo
sviluppo regionale integrato fra regioni confinanti con frontiere
marittime e terrestri in due o più Stati membri o fra regioni
confinanti in almeno uno Stato membro e un paese terzo sui confini
esterni dell'Unione diversi da quelli interessati dai programmi di
finanziamento esterno dell'Unione.

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La cooperazione transnazionale su territori transnazionali più


estesi, che coinvolge partner nazionali, regionali e locali mentre la
cooperazione interregionale che coinvolge tutti i 28 Stati membri
dell’Unione Europea e mira a rafforzare l'efficacia della politica di
coesione, promuovendo lo scambio di esperienze, l’individuazione e la
diffusione di buone prassi. Le risorse sono a disposizione per la
partecipazione a quindici programmi di cooperazione transfrontaliera
e transnazionale, di cui:
Otto programmi di cooperazione transfrontaliera riguardano
Italia Francia marittimo, Italia - Francia Alcotra, Italia - Svizzera,
Italia - Austria, Italia - Slovenia, Italia - Croazia, Grecia - Italia,
Italia – Malta
tre programmi di cooperazione transfrontaliera esterna co-
finanziati da FESR e IPA (Italia-Albania-Montenegro) e da FESR e
ENI (Italia - Tunisia e Mediterranean Sea Basin
quattro di cooperazione transnazionale: Central Europe, Med,
Alpine Space, Adriatic-Ionian
L’Italia parteciperà anche a quattro programmi di cooperazione
interregionale che coinvolgono tutti i 28 Stati membri dell’UE: Urbact
III, Interreg Europe, Interact, Espon, ai quali sono complessivamente
destinati 500 milioni di euro.

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6. L’ACCORDO DI PARTENARIATO

L’Accordo di partenariato è il documento predisposto da uno


Stato membro in collaborazione con le istituzioni di livello centrale e
locali e i partner economici e sociali, che definisce strategie, metodi e
priorità di spesa.
E’ approvato dalla Commissione Europea in seguito del
negoziato con lo Stato membro e si traduce in programmi regionali e
nazionali.
In particolare a livello europeo si contano 60 programmi
regionali, 39 programmi regionali (FESR, FSE), di cui 3 plurifondo
(Calabria, Molise, Puglia), e 21 programmi regionali FEASR
Ad essi vanno aggiunti 14 programmi nazionali di cui 11
programmi nazionali plurifondo (FESR, FSE), 2
programmi FEASR, 1 programma FEAM
I programmi nazionali FESR, FSE si riferiscono a:
 Scuola
 Sistemi di politiche attive per l’Occupazione
 Inclusione
 Città metropolitane
 Governance e Capacità istituzionale
 Iniziativa Occupazione Giovani nelle regioni «meno
sviluppate» e «in transizione»
 Ricerca e Innovazione
 Imprese e Competitività nelle regioni «meno
sviluppate»
 Infrastrutture e reti
 Cultura

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 Legalità

Nell’ Accordo di partenariato particolare attenzione è dedicata a:


ricerca, sviluppo tecnologico e innovazione (rafforzare la
ricerca, lo sviluppo tecnologico e l'innovazione)
agenda digitale (migliorare l'accesso alle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione, nonché l'impiego e la
qualità delle medesime)
competitività dei sistemi produttivi
energia sostenibile e qualità della vita (sostenere la transizione
verso un’economia a basse emissioni di carbonio in tutti i
settori)
clima e rischi ambientali (promuovere l’adattamento al
cambiamento climatico,la prevenzione e la gestione dei rischi
tutela dell’ ambiente e valorizzazione delle risorse culturali e
ambientali (tutelare l'ambiente e promuovere l'uso efficiente
delle risorse
mobilità sostenibile di persone e merci (promuovere sistemi di
trasporto sostenibili ed eliminare le strozzature nelle principali
infrastrutture di rete)
occupazione (promuovere l’occupazione sostenibile e di qualità e
sostenere la mobilità dei lavoratori);
inclusione sociale e lotta alla povertà (promuovere l’inclusione
sociale, combattere la povertà e ogni forma di discriminazione)
istruzione e formazione ( investire nell’istruzione, formazione e
formazione professionale, per le competenze e l’apprendimento
permanente)

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capacità istituzionale e amministrativa (rafforzare la capacità


istituzionale e promuovere un’amministrazione pubblica
efficiente nell’ erogazione di servizi).
Le priorità dell’accordo con riferimento al sostegno alla ricerca
e innovazione e alla competitività del sistema produttivo, in stretto
collegamento con le «strategie di specializzazione intelligente»,
rafforzando la capacità innovativa delle imprese, anche con schemi di
finanziamento in grado di avvicinare imprese di piccola dimensione
con ridotta propensione all’innovazione.
Viene previsto un supporto alla infrastrutturazione per la
banda ultra larga e potenziamento dei servizi ICT a cittadini e
imprese nell’ambito della più ampia strategia nazionale.
L’efficientamento energetico degli edifici pubblici e risparmio
energetico nei cicli produttivi, aumento della mobilità sostenibile nelle
aree urbane. Adattamento ai cambiamenti climatici e riduzione dei
rischi (idrogeologico, erosione costiera, desertificazione, sismico e
incendi) costituisce un’ulteriore priorità così come la tutela degli asset
naturali, valorizzazione delle risorse culturali e uso efficiente delle
risorse ambientali. Va ricordato inoltre il potenziamento direttrici
ferroviarie e rafforzamento della logistica del sistema produttivo nelle
regioni meno sviluppate.
Le priorità dell’Accordo con riferimento all’occupazione
riguarda il
sostegno all’occupazione di diversi target di popolazione e
intervento specifico sui giovani tramite il programma dedicato
(Iniziativa Occupazione Giovani) ma anche il rafforzamento dei
percorsi di istruzione e degli ambienti educativi, azioni di formazione

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mirate alle esigenze del sistema imprenditoriale e miglioramento del


raccordo tra sistema educativo e mercato del lavoro.
Sono previsti inoltre interventi per il contrasto alla povertà e
all’esclusione sociale attraverso la presa in carico dei soggetti
maggiormente vulnerabili e il miglioramento dell’accesso ai servizi di
base.
Inoltre viene evidenziata la necessità di un rafforzamento della
capacità amministrativa delle autorità di gestione dei fondi e azioni
più generali di modernizzazione della PA negli ambiti rilevanti per la
politica di coesione (regolamentazione dell’attività di impresa, open
government, giustizia civile, prevenzione e lotta alla corruzione).

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LA POLITICA REGIONALE
UE 2014-2020
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “La politica regionale UE 2014-2020”

Indice

1. OBIETTIVI DELLA POLITICA REGIONALE UE ---------------------------------------- 3


2. LA STRATEGIA EUROPA 2020 ---------------------------------------------------------------- 5
3. GLI STRUMENTI FINANZIARI --------------------------------------------------------------- 6
4. IL FESR ----------------------------------------------------------------------------------------------- 7
5. IL FSE ------------------------------------------------------------------------------------------------- 8
6. IL FONDO DI COESIONE ----------------------------------------------------------------------- 9
7. CONDIZIONI POLITICHE PER ACCESSO AI FONDI --------------------------------- 11
8. NUOVE STRATEGIE MACROREGIONALI ----------------------------------------------- 12

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1. OBIETTIVI DELLA POLITICA REGIONALE UE

La politica regionale è il principale strumento d’intervento


dell’UE ed assorbe una massa significativa di risorse del bilancio
europeo. Gli obiettivi generali sono il finanziamento delle
infrastrutture strategiche di comunicazione e trasporto, il sostegno
alla transizione ad un’economia più compatibile con la gestione
dell’ambiente, la promozione dell’innovazione e la competitività nelle
piccole e medie industrie.
A ciò si deve aggiungere il rafforzamento dei sistemi di
istruzione, la generazione di nuova occupazione duratura e più in
generale la creazione di una società più inclusiva.
La politica regionale svolge una funzione di catalizzatore di
finanziamenti pubblici e privati e nel contempo dovrebbe essere
strumento di solidarietà tra regioni a differente livello di sviluppo
consentendo la migliore espressione del potenziale di sviluppo di
ciascuna area.
Normalmente la politica regionale viene denominata politica di
coesione sia con riferimento alla coesione economica e sociale
rilanciando la competitività e la crescita economica sostenibile e
generando un migliore tenore di vita, sia con riferimento alla coesione
territoriale attivando forme di collaborazione nuove per affrontare
problemi complessi dei territori come nel caso di cambiamenti
climatici.
La politica regionale assume funzione complementare rispetto
alle altre politiche europee quali la politica dell’istruzione,
dell’occupazione, dell’energia, dell’ambiente, del mercato unico, della

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ricerca e innovazione, ma soprattutto è chiamata a svolgere un’azione


di rafforzamento della fiducia degli investitori.
Ovviamente quelli appena riferiti sono principi generali che
vanno poi tradotti in pratica adottandoli alle esigenze delle differenti
regioni.
Gli esiti della politica così come si è sviluppata nel tempo può
essere misurata in termini di creazione di nuovi posti di lavoro di
investimenti, di nascita di nuove imprese, di finanziamento di
progetti di ricerca, di infrastrutture civile, di interventi per il
miglioramento della qualità della vita.

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2. LA STRATEGIA EUROPA 2020

A conclusione del periodo di programmazione 2007-2013


l’Unione Europea con la Strategia 2020 ha assunto cinque obiettivi
strategici da conseguire entro il 2020 relativi a quella che è stata
individuata come una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.
Essi sono:
- Occupazione per il 75% dei cittadini in età 20/64 anni
- Ricerca e sviluppo con destinazione di almeno il 3% del
PIL nell’UE
- Cambiamento climatico e sostenibilità energetica 20% in
meno gas serra, 20% energia da rinnovabili, 20% di
maggiore efficienza energetica
- Istruzione con riduzione dei tassi abbandono a meno del
10%
- Lotta alla povertà ed esclusione sociale prevedendo
almeno 20 milioni di cittadini in meno in condizioni di
esclusione sociale o a rischio povertà
Con riferimento agli obiettivi precedenti ciascuno degli Stati
membro è chiamato a declinare specificamente queste indicazioni.

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3. GLI STRUMENTI FINANZIARI

Gli strumenti più noti dell’intervento regionale europeo a


prescindere dai fondi per l’agricoltura, sono il Fondo Europeo di
Sviluppo Regionale (FESR) destinati a sostenere le dotazioni
infrastrutturali ed il Fondo Sociale Europeo (FSE) destinato al
sostegno dell’occupazione.
Il finanziamento delle politiche comunitarie ha luogo anche
attraverso dei Fondi strutturali e di investimento costituiti dal:
- Fondo di coesione (FSC) che investe principalmente
nella rete di trasporti e progetti ambientali
- Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale (FEASR)
chiamati a sostenere l’innovatività e sostenibilità del
settore agricolo
- Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca
(FEAMP) per la sostenibilità e competitività della
pesca e acquacoltura
A tali fondi va aggiunto il Fondo di solidarietà dell’UE (FSUE)
nato inizialmente come risposta ai problemi delle inondazioni dell’
Europa centrale e che oggi opera per fornire rimedi agli interventi di
gravi calamità naturali in relazione alle ripercussioni sulle condizioni
economiche, sociali e territoriali delle zone interessate.

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4. IL FESR

Il FESR interviene nei settori che stimolano la crescita per


promuovere la competitività e creare occupazione in tutte le regioni e
città dell’UE. Gli interventi del FESR sono destinati ad affrontare le
sfide economiche, ambientali e sociali, oltre che a promuovere lo
sviluppo urbano sostenibile in particolare nelle aree urbane.
Il FESR presta particolare attenzione alle specificità del
territorio e cioè:
- le aree geograficamente svantaggiate (periferiche,
montuose o scarsamente popolate)
- le regioni ultraperiferiche dell’Unione (ad esempio, le
isole Canarie, la Riunione e la Guadalupa)
Il FESR promuove e finanzia anche la cooperazione
transfrontaliera, transnazionale e interregionale (cooperazione
territoriale europea) in molti settori diversi quali quelli relativi ad
infrastrutture comuni di trasporto, reti di innovazione e
comunicazione, progetti di commercio transfrontaliero, gestione
congiunta delle risorse naturali e collegamenti fra aree urbane e
rurali.

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5. IL FSE

Il Fondo sociale europeo (FSE), istituito nel 1958, è il primo dei


fondi strutturali. Assiste le persone in cerca di lavoro facendo in modo
che abbiano accesso a una formazione adeguata per migliorare le loro
prospettive di occupazione e aiuta i lavoratori a riqualificarsi, ad
acquisire nuove competenze e ad adattarsi al mutare delle situazioni
professionali.
Il FSE finanzia anche progetti per combattere la
discriminazione in tutte le sue forme e aiutare le comunità
emarginate a integrarsi nella società.
Il FSE investe nell’efficienza delle amministrazioni pubbliche e
dei servizi pubblici affinché le istituzioni competenti conseguano gli
obiettivi fissati in materia di istruzione, occupazione, politiche sociali
e altre politiche

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6. IL FONDO DI COESIONE

Il Fondo di coesione, istituito nel 1994, investe nelle reti di


trasporto e nell’ambiente nei paesi membri con un PIL inferiore al 90
% della media UE-28 (in particolare i paesi dell’Europa centrale e
orientale, Cipro, Malta, Grecia e Portogallo). Il Fondo promuove
attivamente la crescita economica sostenibile e riduce al contempo le
disparità economiche e sociali migliorando l’accessibilità e la
connettività regionale.
Il Fondo di coesione sostiene la rete trans europea di trasporto
(«TEN-T»), fondamentale per il buon funzionamento del mercato
interno e per la libera circolazione di persone e merci in Europa e nel
resto del mondo grazie al trasporto terrestre, marittimo e aereo.
Il Fondo di coesione investe nell’adattamento ai cambiamenti
climatici e nella prevenzione dei rischi, nei servizi idrici e di gestione
dei rifiuti e nell’ambiente urbano. Finanzia progetti nel settore
dell’efficienza energetica e dell’utilizzo delle fonti energetiche
rinnovabili nelle imprese e infrastrutture pubbliche.
Il Fondo finanzia inoltre reti di base per i trasporti e altri
servizi nell’ambito del nuovo meccanismo per collegare l’Europa, uno
strumento strategico per investire non solo nell’infrastruttura a
banda larga e nei servizi pubblici online, ma anche in infrastrutture
per le strade, le ferrovie, le reti dell’elettricità e i gasdotti.
Interconnessioni più efficienti concorrono a creare maggiori
opportunità commerciali, più sicurezza energetica e possono agevolare
il lavoro e i viaggi, con risvolti positivi per imprese e cittadini in tutta
l’UE.

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE 2014-2020”

L’utilizzo delle risorse del FSC deve rispettare innanzitutto


l’obiettivo della prevalente destinazione delle risorse stesse ad
obiettivi di riequilibrio economico e socio. Le risorse debbono essere
addizionali a quelle messe a disposizione dalle politiche ordinarie.
Tali obiettivi sono espressi in un Programma attuativo relativo
all’area di intervento da cui deve emergere un collegamento e una
coerenza con la strategia di politica regionale.

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE 2014-2020”

7. CONDIZIONI POLITICHE PER ACCESSO AI


FONDI

Per coordinare meglio i fondi ed evitare sovrapposizioni, l’UE


ha definito una serie di regole comuni per i cinque fondi strutturali e
di investimento europei (ESIF), in modo da determinare legami più
forti con altri strumenti dell’Unione, fra cui il nuovo programma di
ricerca e innovazione Orizzonte 2020 progetti da finanziare debbono
rispondere a strategie di sviluppo reali.
Ci si riferisce all’elaborazione di strategie di specializzazione
intelligente in settori capaci di offrire il massimo potenziale di
crescita e competitività e promuovere collaborazioni fra università,
istituti di ricerca, imprese e pubbliche amministrazioni per sviluppare
prodotti e servizi innovativi, così come alle strategie per ridurre la
disoccupazione giovanile e combattere la discriminazione garantendo
il rispetto delle norme ambientali, riforme favorevoli alle imprese,
misure per migliorare il sistema degli appalti pubblici.
Le strategie devono inoltre essere coerenti con i «programmi
nazionali di riforma» concordati nell’ambito del semestre europeo, il
sistema messo a punto dall’UE per la gestione collettiva
dell’economia.
In occasione del semestre europeo si realizza una verifica dello
stato di salute delle economie dell’Unione europea che riunisce tutti i
paesi membri e le istituzioni dell’UE e che fornisce ai paesi
raccomandazioni specifiche per le riforme economiche da adottare

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Giovanni Cannata “La politica regionale UE 2014-2020”

8. NUOVE STRATEGIE MACROREGIONALI

Il FESR è anche una delle fonti di finanziamento delle strategie


macroregionali, che affrontano sfide comuni a più paesi in un’area
geografica specifica.
Due di queste strategie dell’UE sono già in atto, nella regione
del Mar Baltico e in quella danubiana, mentre sono in corso di
elaborazione ulteriori strategie per la regione adriatico - ionica e le
zone alpine.

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IL BENESSERE EQUO E
SOSTENIBILE: NUOVO
OBIETTIVO DELLA
POLITICA ECONOMICA
Giovanni Cannata
Giovanni Cannata “Il Benessere equo e sostenibile: nuovo
obiettivo della politica economica”

Indice

1. IL PIL UN OBIETTIVO TRADIZIONALE --------------------------------------------------- 3


2. INDICATORI ALTERNATIVI AL PIL -------------------------------------------------------- 5
3. VERSO UN INDICATORE BES ----------------------------------------------------------------- 7
4. IL BES NELL’ESPERIENZA ITALIANA ---------------------------------------------------- 9

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Giovanni Cannata “Il Benessere equo e sostenibile: nuovo
obiettivo della politica economica”

1. IL PIL UN OBIETTIVO TRADIZIONALE

Il PIL è da sempre utilizzato come misura tradizionale del


valore del prodotto realizzato in un Paese sulla base dei redditi
percepiti dai lavoratori, dei consumi delle famiglie, delle entrate e
uscite del debito pubblico, delle relazioni economiche con il resto del
mondo.
Le analisi più recenti di economisti e sociologi hanno messo in
evidenza che il PIL non è una misura integrale di benessere anche se
per molti anni è stato assunto come misura dello sviluppo sociale.
Il PIL misura la produzione di beni e servizi di una economia
con riferimento a un dato periodo di tempo Esso è costituito dal valore
di mercato di tutti i beni e i servizi finali prodotti nell’economia
ovvero dalla somma del valore aggiunto (valore della produzione -
valore dei beni intermedi), o ancora dalla somma dei redditi
dell’economia (imposte indirette + redditi da lavoro + redditi da
capitale)
Per alcuni aspetti il PIL è un buon indicatore del livello
dell’economia in quanto è facilmente confrontabile a livello
internazionale in quanto effettivamente esiste una relazione tra
ricchezza e benessere.
Occorre rammentare che il PIL viene utilizzato come indicatore
della solidità finanziaria ed economica di un paese con particolare
riferimento al debito pubblico.
Presenta tuttavia limiti in quanto non tiene in considerazione
variabili di rilievo quali il lavoro domestico, il lavoro del volontariato,
e non considera altresì il modo in cui si attua la distribuzione della
ricchezza e del reddito tra la popolazione. Più di recente è stato

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Giovanni Cannata “Il Benessere equo e sostenibile: nuovo
obiettivo della politica economica”

evidenziato che occorre tener conto che rientrano nel PIL anche i costi
per la difesa da danni alle persone, quali le spese per la depurazione,
per gli incidenti, ecc.) oltre che le spese sostenute per riparare danni
provocati dallo sviluppo quali inquinamento, malattie, ecc.

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2. INDICATORI ALTERNATIVI AL PIL

La differenza con il PIL sta nel fatto che lo stesso non considera
tutte quelle attività che pur non registrando flussi finanziari
contribuiscono ad accrescere il benessere di una società (casalinghe,
volontariato, ecc)
Alla luce della insufficienza del PIL come indicatore dello
sviluppo delle economie. L’United Nation Development Programme
UNDP delle Nazioni Unite ha proposto l’ISU la costituzione
dell’Indice di Sviluppo Umano (HDI)
L’ISU è composto di tre indicatori che misurano per ogni paese
la speranza di vita alla nascita, l’alfabetizzazione della popolazione
espressa come anni medi di istruzione, il reddito nazionale lordo.
Un altro indicatore il GPI (Genuine Progres Indicator o
Indicatore di Progresso Autentico) è stato messo a punto da alcune
organizzazioni calcolandolo come differenziale tra spese positive e cioè
quelle che aumentano il benessere con la disponibilità di beni e servizi
e spese negative quali i costi dell’inquinamento, della criminalità,
degli incidenti stradali.
Con un’iniziativa originale proposto dal re del Buthan viene
costruito il GNH (Gross National Happiness ovvero l’Indice della
Felicità Interna Lorda) che vuol tener conto dei bisogni di natura
materiale, spirituale ed emozionale dell’uomo e prende in
considerazione nove domini quali il tenore di vita, la salute,
l’istruzione, l’uso del tempo, il buon governo, la diversità ecologica, il
benessere psicologico, la vitalità della collettività, la diversità
culturale.

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L’OCSE ha proposto una misura composta denominata Better


Life Index sulla base di 11 indicatori inerenti vari aspetti del
benessere e cioè reddito, lavoro,
condizioni abitative, istruzione, ambiente, relazioni sociali,
impegno civico, salute, sicurezza, conciliazione dei tempi di vita,
soddisfazione di vita.

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3. VERSO UN INDICATORE BES

Una significativa sollecitazione istituzionale è venuto dalla


Commissione Europea nel 2009 con l’approvazione di una
comunicazione nel PIL e le misure del progresso mettendo in luce la
necessità di misurare meglio il progresso completando il PIL con
indicatori ambientali e sociali, utilizzando a sostegno del processo
decisionale informazioni adeguate su distribuzione e diseguaglianze,
dati da far confluire in un ampliamento della tradizionale contabilità
nazionale.
Nel tempo si è venuta consolidando l’esigenza di disporre di
una misura relativa non solo al benessere economico ma più
complessivamente al benessere sociale inteso come un ottimo livello
di vita caratterizzato da una equa distribuzione tra tutti i componenti
della società e con riferimento a tutti gli aspetti del vivere civile.
Alcuni anni addietro la ricerca di un nuovo indicatore del
progresso è stata affidata dal Presidente Sarkozy ad una
Commissione presieduta dal Premio Nobel Stiglitz ed alla quale
hanno partecipato anche altri autorevoli Premi Nobel tra cui Amartya
Sen
La Commissione ha presentato conclusivamente un rapporto
del quale sono centrali le 12 raccomandazioni per misurare il
progresso di un Paese
Le 12 raccomandazioni della Commissione Stiglitz possono
essere sintetizzate come segue:
 Nel valutare il benessere materiale si guardi al reddito
e ai consumi piuttosto che alla produzione
 Si enfatizzi il punto di vista delle famiglie.

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 Si considerino reddito e consumi assieme alla ricchezza.


 Si dedichi maggiore attenzione alla distribuzione del
reddito, del consumo e della ricchezza.
 Si estendano le misure del reddito alle attività non di
mercato.
 Si migliori la valutazione di sanità, istruzione e
condizioni ambientali, sicurezza, democrazia.
 Si valutino in maniera esaustiva le disuguaglianze
 Si realizzino indagini per capire i legami tra i differenti
aspetti delle qualità della vita
 Si crei una misura sintetica della qualità della vita.
 Si integrino nelle indagini sulla qualità della vita dati
sulla percezione individuale della propria esistenza.
 Si valuti la sostenibilità del benessere con un insieme di
indicatori appropriati
 Gli aspetti ambientali della sostenibilità devono essere
valutati separatamente.

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4. IL BES NELL’ESPERIENZA ITALIANA

Nel 2010 l’ISTAT e il CNEL alla luce del dibattito creato


intorno alla parzialità del PIL quale indicatore del benessere di un
Paese hanno promosso un’iniziativa congiunta per la misurazione del
Benessere Equo e Sostenibile in Italia.
Il mandato era quello di procedere ad un’integrazione di
indicatori economici, sociali ed ambientali con alcune misure di
diseguaglianza e sostenibilità.
In sintesi il benessere doveva costituire il risultato
multidimensionale della qualità della vita dei cittadini, l’equità
doveva porre attenzione alla distribuzione delle determinanti del
benessere tra le persone. Inoltre si sarebbe dovuto prendere in conto
la sostenibilità che avrebbe dovuto rappresentare una misura di
garanzia di benessere a vantaggio delle generazioni future.
Attraverso una procedura che ha previsto un’ampia
consultazione ISTAT e CNEL sono pervenuti alla definizione di 12
domini ovvero degli ambiti specifici utili a definire la dimensione del
benessere.
Sono stati adottati 9 domini relativi alle esperienze estere già
consolidate e scelti altri 3 domini per descrivere aspetti specifici della
realtà italiana.
La scelta degli indicatori ha riguardato prevalentemente
fenomeni e dati oggettivi ma anche soggettivi
I Domini scelti sono stati ambiente, salute, benessere
economico, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di
vita, relazioni sociali, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e

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patrimonio culturale, ricerca e innovazione, qualità dei servizi,


politica e istituzioni.
Il primo Rapporto BES per l’Italia è stato pubblicato nel 2013.
Il rapporto BES 2014 si basa sull’analisi dei 12 domini del
benessere in Italia attraverso 134 indicatori, tutti confrontabili con
quelli contenuti nel Rapporto BES 2013. Ogni capitolo propone una
lettura dei fenomeni nel tempo e nei diversi territori del Paese e, ove
possibile, anche nel confronto con gli altri paesi europei. Inoltre, in
maniera sistematica, si guarda alle differenze esistenti per quanto
riguarda il genere, l’età e il territorio.
L’esperienza BES viene assunta come rilevante anche a livello
territoriale come sistema di rendicontazione alle popolazioni
interessate alla conoscenza del livello di sviluppo raggiunto.

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