L'impresa, quale cellula fondamentale del sistema economico e produttivo, vive
all'interno di un AMBIENTE pi vasto con il quale scambia risorse e, soprattutto, crea ricchezza. Questo ambiente pu convenzionalmente scomporsi in due contesti: -Micro-ambiente, definito dai mercati con cui l'impresa attiva lo scambio delle risorse; -Macro-ambiente, da cui derivano le condizioni e i vincoli entro cui questo scambio pu verificarsi; Il micro-ambiente pu a sua volta essere scomposto in altre due parti: -Ambiente Transazionale, che riguarda gli scambi in entrata; -Ambiente Competitivo, che riguarda gli scambi in uscita; Ogni impresa, a seconda dell'organizzazione che vorr darsi, avr difatti bisogno di attingere delle risorse dall'esterno. Il tipo di risorse per le quali ricorrer al mercato dipender dalle comparazioni di convenienza tra il (1) produrre all'interno i materiali e i servizi da utilizzare per la produzione dei beni e il (2) procedere al loro acquisto all'esterno. Pi queste decisioni si orienteranno verso la prima soluzione, pi si dilateranno i confini della sua organizzazione e crescer il suo grado di autonomia dal mercato delle forniture. Viceversa, pi si far ricorso al mercato, pi si amplier l'ambiente transazionale (e quindi la dipendenza dal mercato delle forniture). chiaro che questa determinazione strategica dei confini dell'organizzazione disegner l'ambiente transazionale, che diverr specifico per ciascuna impresa. Ragionamento parallelo dev'essere fatto anche per l'ambiente competitivo, che dipender dalla scelta dei mercati di collocamento e delle specifiche porzioni di mercato (segmenti e nicchie) a cui cedere i beni e i servizi prodotti. Anche in questo caso, sar quindi l'impresa, con le sue decisioni strategiche, a definire l'ambiente competitivo di riferimento. All'interno del micro-ambiente in cui ogni azienda opera vi saranno dei contraenti a cui dovr rivolgersi per attingere o per cedere dei prodotti. Questi soggetti o istituzioni, a loro volta, si raggrupperanno in categorie, originando dei distinti MERCATI con i quali l'impresa dovr attivare un sistema di scambi commerciali (in termini economici, infatti, si ha un mercato in tutti i casi in cui vi siano due o pi contraenti disposti a scambiare fra di loro beni). Ogni impresa, dunque, si collegher con: 1) il mercato del lavoro, costituito dall'offerta di risorse umane; 2) il mercato della produzione, composto dai produttori delle materie prime, impianti, macchinari e servizi utilizzabili per l'attivit aziendale; 3) il mercato finanziario, rappresentato dalle Borse Valori, dagli intermediari finanziari e da altri prestatori di capitale; 4) il mercato di vendita, costituito dai potenziali acquirenti dei beni e servizi prodotti. MICRO-AMBIENTE 2. L'ambiente quale contesto generale di riferimento per l'impresa. Parlando di ambiente l'idea che per prima viene alla mente quella di ambiente naturale o fisico. In questa sede, tuttavia, vogliamo limitarci a considerare il concetto di ambiente non in senso biologico o naturale, ma sotto il profilo economico-sociale. In tal senso, l'ambiente (e in particolare il macro- ambiente) pu essere inteso come il contesto socio-economico all'interno del quale l'impresa chiamata a svolgere le sue funzioni. Questo contesto regolato da una serie di condizioni politiche, legislative, sociali, culturali ed economiche, che determinano il sistema di vincoli-opportunit entro cui dovr trovare sviluppo l'attivit aziendale. Sul piano teorico l'ambiente pu essere scomposto in quattro sub-sistemi generali, ai quali si collegano successivamente dei sotto-sistemi di grado via via inferiore. I sub-sistemi generali sono: -il sistema o ambiente politico-istituzionale; -il sistema culturale-tecnologico; -il sistema demografico-sociale; -il sistema economico. Il sistema o ambiente politico-istituzionale rappresentato dalla forma di governo e dall'ordinamento legislativo prevalenti nel territorio considerato. Esso esercita delle influenze di primaria importanza sulla vita dell'impresa, il cui ruolo e le cui alternative di gestione possono essere pi o meno fortemente vincolate da leggi, dagli interventi e dai controlli dei poteri pubblici. In aggiunta, poi, sussistono delle influenze indirette relative al rapporto fra sistema politico e sistema economico (infatti nel passare da regimi liberali a regimi socialisti che sono strettamente legati al tipo di organizzazione politica, s'affermano sistemi economici sempre pi controllati dall'autorit pubblica). Inoltre, forme diverse di governo si riflettono sui rapporti internazionali, contribuendo ad ampliare o restringere i mercati, con effetti immediati sulle possibilit di sopravvivenza e di sviluppo delle imprese. Oltre a tutto questo la regolamentazione pubblica determina, attraverso le leggi, l'imposizione fiscale ecc., la cornice entro cui potranno prendere corpo le strategie aziendali. L'ambiente culturale-tecnologico pu essere inteso come il contesto entro cui s'affermano le manifestazioni tradizionali della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo. La cultura si compone di una serie di elementi (tradizioni, costumi, arte, tecnologia, ecc.), ciascuno dei quali concorre ad influenzare il sistema di valori del singolo individuo e della societ nel suo complesso. Essa influenza, dunque, sia coloro che operano all'interno dell'impresa (imprenditore, dirigenti ecc.) sia i gruppi esterni (consumatori, fornitori, ecc.). I suoi effetti si hanno non solo sul sistema di valori della societ, ma anche sull'avanzamento delle conoscenze (scienza) e sul migliore uso delle risorse disponibili (tecnologia). Scienza e tecnologia rappresentano, infatti, un prodotto della cultura, anche se si particolarizzano per il tipo di valori cui s'ispirano e per il campo di applicazione cui si riferiscono. La tecnologia, a causa del suo pi diretto legame con l'organizzazione della produzione e dei mercati, considerata da molti un sotto sistema dell'ambiente culturale, pi vicino all'impresa che non all'ampio contesto dell'ambiente socio-economico. Questa distinzione, per, perde validit se il riferimento in particolare alle tecnologie dell'informazione, il cui impatto ha rivoluzionato l'economia e la vita non solo delle imprese (ma anche dei consumatori ecc.). L'ambiente demografico-sociale definito dalla struttura della popolazione residente (demografico) e dalle relazioni fra gli individui e i gruppi che la compongono (sociale). L'aspetto demografico divenuto ancora pi importante in un'epoca in cui si vanno affermando delle tendenze di profondo mutamento nella struttura della popolazione: -il minor tasso di natalit e l'allungamento della vita media hanno difatti portato al progressivo invecchiamento della popolazione, al cui interno tendono sempre pi a prevalere le classi degli anziani nei confronti di quelle dei giovani;
-l'immigrazione, sempre pi consistente dai Paesi meno sviluppati, ha dato
origine ad un contesto multirazziale. Tutto ci con evidenti ripercussioni sui modelli di consumo, atteso che le classi pi giovani sono quelle che esprimono maggiore dinamismo e differenziazione dei beni richiesti (1 aspetto) e che gusti e preferenze si orientano diversamente anche in base alla razza e credo religioso (2 aspetto). Sotto il profilo pi strettamente sociale va poi osservato che ogni individuo tende a collocarsi in una certa classe sociale e a muoversi all'interno di essa per raggiungere posizioni via via superiori. Ma l'ingresso in certe classi sociali pu essere precluso dall'impossibilit di acquisire particolari requisiti e risorse, per cui la stratificazione sociale risulta condizionata dalle posizione relative di partenza, pi che da quelle potenzialmente ottenibili dall'individuo nel corso della sua vita. La stratificazione sociale assume particolare importanza per le modalit di sviluppo dell'impresa. Essa, infatti, determina i modelli di riferimento per i singoli, sulle cui scelte incide non solo l'aspetto psicologico, ma anche quello pi propriamente sociologico (in quanto spesso l'individuo adotta il sistema di valori del gruppo cui ritiene di appartenere e finisce per mutuare i comportamenti, vale a dire sia le abitudini che le motivazioni di acquisto). Tutto ci esercita un ruolo determinante nelle scelte e pu creare, a seconda delle circostanze, opportunit o minacce per l'impresa. Da ci deriva l'importanza del contesto demografico-sociale. L'ambiente economico deve essere inteso come il sistema generale dell'economia, che regola la vita della collettivit. Deve essere distinto dal concetto di mercato, perch rappresenta il complesso delle macrovariabili (produzione agricola, industriale ecc.; prezzi e moneta; credito e investimenti; ecc.), che compongono l'ordinamento economico prevalente in un certo territorio. L'ambiente economico pu differenziarsi sotto molteplici profili, fra i quali i pi importanti concernono il meccanismo di regolazione della vita economica e la propriet dei mezzi di produzione. In relazione al primo, si ha la distinzione fra le forme di economia di mercato e di piano; mentre col secondo si distingue fra economie liberiste e collettiviste. Per <i>economia di mercato si intende un sistema a decisioni decentrate, regolate cio dalle leggi di mercato; per economie di piano ci si riferisce, invece, ad un sistema in cui le decisioni sono prese solo al centro mediante l'elaborazione di piani governativi nazionali. Nelle economie di mercato prevale il principio della libera iniziativa e quella della propriet privata dei mezzi di produzione, per cui si parla in questo caso di economie liberiste, mentre nell'altro tipo di economia tutto regolato dal piano, anche l'uso dei mezzi di produzione, che sono prevalentemente di propriet della collettivit. Per tale motivo, s'adoperano in maniera intercambiabile le dizioni economie di piano o economie collettiviste. In un'economia di questo tipo, dunque, l'impresa funziona come un organo dello Stato, cio una struttura con limitata autonomia decisionale per quanto attiene alle strategie da perseguire. Nell'ipotesi di un'economia di mercato le imprese dispongono, invece, di un'ampia discrezionalit, potendo perseguire qualsiasi comportamento compatibile con i vincoli posti dalla regolamentazione pubblica. MACRO-AMBIENTE 3. I rapporti tra l'impresa, il micro-ambiente e il macro-ambiente. L'impresa si presenta, in sostanza, al centro di un micro-ambiente (suddiviso in ambiente transazionale e competitivo) che a sua volta inserito in un macro- ambiente (o ambiente generale). Si genera, cos, un sistema di interrelazioni che si compone, innanzi tutto, di rapporti tra macro e micro-variabili e, successivamente, tra micro-variabili e le caratteristiche di struttura e di gestione dell'impresa. Quest'ultima dovr adottare i comportamenti pi idonei per volgere a proprio vantaggio l'evoluzione dei mercati di fornitura, finanziario, del lavoro e di vendita; evoluzione che sar influenzata dal movimento delle macro-variabili (di tipo politico, socio-demografico, culturale, tecnologico ed economico). Nonostante questo prevalente rapporto di dipendenza dell'impresa nei confronti dell'ambiente, fuori di dubbio che non poche, n di secondario effetto, sono le influenze che le stesse imprese esercitano verso l'ambiente in cui vivono. intuibile, infatti, che i maggiori centri di potere economico (gruppi o imprese giganti) detengono di fatto un rilevante potere politico, possono agire sulla sfera culturale, assumono un ruolo preminente nello sviluppo di tecnologie e influenzano le forme e l'intensit del controllo pubblico sull'economia. Questo potere extramercato finisce, cio, per incidere su tutte le variabili ambientali, secondo uno schema d'interrelazione piuttosto che di mera dipendenza. Tuttavia, nell'interpretazione dei rapporti impresa-ambiente due sono comunque i principali fili conduttori: il progresso tecnologico e l'equilibrio economico internazionale. - Il progresso tecnologico influenza in modo considerevole la struttura di un settore industriale e la posizione competitiva delle imprese. Le innovazioni concorrono a modificare il sistema di barriere sia di entrata sia di uscita e possono creare difficolt o nuove opportunit per coloro che sono presenti nel settore o che aspirerebbero ad entrarvi. - Ma sulle condizioni e soprattutto sull'evoluzione recente del mondo della produzione pesa massicciamente l'equilibrio politico internazionale. In un'economia sempre pi globalizzata e interconnessa da sistemi avanzati di telecomunicazione, i fenomeni economici risultano influenzati in larga misura dalla stabilit politica e dalle condizioni di sicurezza dell'economia mondiale. Per effetto dell'apertura dei mercati, dell'affermarsi di nuovi competitori, dell'intrecciarsi di lotte per il controllo delle risorse energetiche mondiali, ecc., l'ambiente divenuto pi turbolento, cio meno prevedibile, pi ostile alle imprese, pi eterogeneo e complesso (soprattutto sotto il profilo tecnologico), e, infine, pi insicuro per l'estendersi dei fatti terroristici. Turbolenza, ostilit, diversit, complessit e insicurezza appaiono quindi i connotati ambientali che l'impresa oggi deve imparare a fronteggiare. 4. Gli effetti dell'internazionalizzazione e della globalizzazione. Come si accennato, le modificazioni avvenute nell'ambiente negli ultimi anni hanno toccato tutti gli aspetti della vita sociale, economica e politica. Questa <i>turbolenza ambientale richiede un nuovo tipo di impresa, contraddistinta dalla felice combinazione di caratteristiche di flessibilit e di efficienza. Per comprendere meglio le risposte sul fronte aziendale, oggetto del nostro studio, occorre, dunque, tenere debito conto dei mutamenti verificatisi nell'ambiente competitivo. La maggiore complessit discesa non solo dai diffusi fenomeni di turbolenza, a cui prima si accennato, ma anche dai processi di internazionalizzazione dell'economia e di globalizzazione dei mercati. Il fatto nuovo di maggior peso, affermatosi nell'ultimo trentennio, senz'altro l'internazionalizzazione. Lo sviluppo mondiale degli scambi, la diffusione sul piano internazionale delle informazioni, l'interdipendenza delle economie o di blocchi di economie di pi Paesi hanno imposto a tutte le imprese un respiro internazionale. Non solo dunque la grande impresa, abituata a muoversi al di fuori del mercato domestico, ma anche le piccole e medie imprese hanno dovuto imparare a proteggersi dalla concorrenza sempre pi agguerrita delle imprese straniere. Il concetto di globalizzazione dev'essere inteso in senso pi ampio come il processo di convergenza, a livello mondiale, degli aspetti culturali, politici ed economici e come il superamento del controllo sociale degli Stati nazionali sull'economia. Nel nostro caso, ovvero sotto il profilo dell'economia d'impresa, il concetto deve essere approfondito sotto due aspetti: quello dell'interrelazione su scala mondiali di certi mercati, che amplia la concorrenza a livello internazionale; e quello della omogeneit della domanda che rende possibile la standardizzazione delle politiche aziendali nei vari paesi serviti. Al riguardo, bisogna rilevare che mentre il primo concetto condiviso in teoria in modo diffuso, sul secondo si riscontrano opinioni differenti. In altri termini, la globalizzazione intesa quale ampliamento dei confini del mercato, da cui scaturiscono effetti rilevanti per tutte le scelte aziendali, ma non necessariamente quale fenomeno di omogeneizzazione dei consumi. Questo secondo aspetto pu certamente essere presente in determinati settori, ma non quello prevalente rispetto all'interrelazione su scala mondiale delle strategie aziendali. In sostanza, <i>la globalizzazione si riferisce ad un mercato senza confini geografici, piuttosto che ad un mercato mondiale omogeneo. In conclusione, si parla oggi di industria globale per intendere un settore produttivo all'interno del quale la posizione competitiva di un'impresa di un certo Paese viene influenzata in modo rilevante dalla posizione ch'essa in grado di conquistare e di mantenere in altri Paesi.
CAPITOLO SECONDO. L'IMPRESA COME SISTEMA.
1. L'impresa quale sistema socio-tecnico. L'impresa stata tradizionalmente definita come un'organizzazione di persone e di beni rivolta ad uno scopo produttivo. Sono le aziende (o, qui intese come sinonimi, le imprese) che, organizzate in varie forme e specializzate per tipi di attivit, producono l'insieme di beni e di servizi indispensabili per il soddisfacimento dei bisogni umani. Un'impresa, anche se caratterizzata da strutture e comportamenti differenti in funzione degli obiettivi da raggiungere e delle attivit produttive da realizzare, contraddistinta sempre da alcuni requisiti comuni, che ne giustificano l'inquadramento come sistema a s stante. Il principale connotato il contenuto economico dell'attivit e degli obiettivi che essa si prefigge di raggiungere. Ogni sistema aziendale si contraddistingue, infatti, per la presenza non solo di una struttura organizzativa complessa, ma anche per la sua finalizzazione in ordine alla messa a profitto di risorse scarse (in altri termini, operando una trasformazione delle risorse impiegate, crea ricchezza ottenendo beni di maggior valore, atti a soddisfare direttamente o indirettamente i bisogni umani). I beni prodotti dall'impresa sono destinati ad essere scambiati con entit esterne (utilizzatori o consumatori), allo scopo di far scaturire dallo scambio un utile o reddito. Lo scambio al fine del reddito rappresenta, senza dubbio, un aspetto qualificante del concetto di impresa. L'impresa ha infatti bisogno di conseguire un reddito, cio un divario positivo fra il ricavo ottenuto dai beni ceduti e il costo delle risorse impiegate nella produzione, per potere soddisfare chi ha investito i suoi capitali in un'attivit a rischio e per potersi sviluppare in conformit dell'evoluzione del mercato in cui inserita. Per realizzare il reddito, i beni prodotti non solo devono essere richiesti da entit esterne, ma devono essere anche cedibili ad un prezzo generatore del reddito atteso (principio della marginalit). Raggruppando le caratteristiche fino ad ora richiamate si ricavano quattro elementi distintivi dell'impresa, e cio: la presenza di un'organizzazione; lo svolgimento di processi di produzione; le relazioni di scambio con entit esterne; la finalit imprenditoriale del reddito. Limpresa la cellula fondamentale del sistema economico-produttivo, ma, come sappiamo, opera in sistemi pi vasti (mercato e ambiente). In questo senso limpresa pu essere considerata come sistema socio-tecnico aperto e dinamico: un sistema sociale poich al suo interno operano risorse umane e tecniche e il suo funzionamento legato alloperare di molti gruppi interni ed esterni allorganizzazione (stakeholder), tra i quali si sviluppano rapporti di collaborazione e di contrasto; un sistema tecnico poich, per il suo funzionamento, necessita di strumenti che incorporano tecnologie; un sistema aperto poich, per funzionare, deve intrattenere continue relazioni di scambio con sistemi pi ampi (mercato e ambiente) e con altri sistemi o entit esterne: sono relazioni di input (cio di approvvigionamento di risorse necessarie per la sua alimentazione) e di output (cio di cessione a terzi del prodotto); per questo motivo anche un sistema dinamico. Che l'impresa sia un sistema conclusione unanimemente accolta in dottrina, cos come condivisa la sua natura particolare, in quanto si tratta di un sistema particolare, non assimilabile ad altri sistemi. Scartato, infatti, il parallelo meccanico, cio la considerazione dell'azienda quale meccanismo caratterizzato da un automatismo di funzionamento, perch non rispondente alla concezione di organismo operante in stretta simbiosi con tutta una serie di altri sistemi esterni, anche il parallelo biologico non appare soddisfacente. In teoria, invero, l'impresa stata pi volte paragonata anche ad un organismo vivente: i sostenitori di questo punto di vista hanno affermato che, come un organismo vivente costituito da un complesso di parti, ciascuna con un compito preciso e insostituibile, e dev'essere alimentato mediante risorse attinte dall'esterno e trasformate in sostanze vitali, cos l'azienda composta da un insieme di organi ciascuno specializzato nello svolgimento di certe attivit, e dev'essere rifornita di risorse da parte di altri sistemi, a cui destinata a cedere il frutto della sua operativit. Al pari di un organismo vivente, che si sviluppa secondo processi di accrescimento corporeo e intellettivo, l'azienda deve inoltre adeguare la sua struttura e le sue strategie all'evoluzione dell'ambiente e del mercato in cui opera: se ci non avviene, essa sospinta in una posizione sempre pi marginale fino al completo dissolvimento. Il parallelo biologico, attraente sotto certi profili, si rileva, per, inaccettabile a causa delle molte limitazioni che incontra. Innanzi tutto si potrebbe osservare che l'azienda a differenza degli esseri viventi destinata a perdurare anche al di l della vita del suo fondatore. Inoltre, noto, che non esistono dei limiti oggettivi all'espansione aziendale, per cui la tesi dell'esistenza di una dimensione ottima di impresa appare poco convincente. Infine, il processo di crescita dell'individuo indipendente dalle sue motivazioni e dalle decisioni prese a livello conscio, mentre quello dell'azienda legato agli sforzi consapevoli e chiaramente motivati del gruppo che la dirige. 2. La visione sociale dell'impresa. I concetti precedenti, pur ponendo in rilievo aspetti importanti dell'attivit aziendale meritano di essere inizialmente arricchiti da un richiamo alle finalit e alle responsabilit di carattere pi prettamente sociale di cui l'impresa deve farsi carico. Il concetto economico di impresa non pu essere separato da quello sociale. Le imprese, difatti, sono rette da uomini, operano per soddisfare bisogni umani, partecipano in senso lato alla vita dell'ambiente circostante. La loro funzione, cio, non pu limitarsi a produrre beni e servizi utili per una certa collettivit di consumatori, ma deve necessariamente estendersi al miglioramento della qualit della vita nel contesto in cui operano (in ci si traduce il concetto di responsabilit sociale dell'azienda, corporate social responsability. In altri termini, un'impresa, non pu essere pi vista come un'iniziativa esclusivamente imprenditoriale rivolta soltanto alle finalit economiche dell'investitore proprietario. Essa dev'essere pi appropriatamente considerata come un sistema economico e sociale, a cui prende parte una pluralit di attori, che dev'essere guidato in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi economici e responsabilit sociali. Accogliendo questa visione aggiornata, occorre quindi estendere la platea di soggetti interessati, all'interno del quale rimane pur sempre un figura dominante (imprenditore o manager), chiamata per ad esercitare una funzione di coordinamento e di coinvolgimento pi che di dominio nei confronti di tutti gli altri partecipanti. Dall'estensione del concetto discende che un'impresa va correttamente considerata come un'istituzione sociale a finalit plurime (a multipurpose social istuitution), il cui compito di creare valore in senso ampio, ovvero non solo valore economico, ma anche valore sociale. Quindi, l'apparente dicotomia tra principi economici e sociali deve trovare un corretto punto di equilibrio, in modo da consentire all'impresa di sopravvivere e svilupparsi nel tempo lungo. 3. Le molteplici funzioni dell'impresa. Il fenomeno impresa, ai fini dello studio dei comportamenti imprenditoriali, presenta tre profili di maggiore rilievo, a ciascuno dei quali si collega un diverso ruolo. Ogni azienda pu essere vista come: a) organizzazione economica; b) sistema sociale c) struttura patrimoniale. In quanto organizzazione economica, il suo scopo il soddisfacimento dei bisogni umani mediante la messa a frutto di risorse rinvenibili in natura in misura limitata o comunque in modo non idoneo a farle utilizzare tal quali. Mediante l'organizzazione e il funzionamento di un apparato di imprese si generano delle maggiori utilit per la collettivit nel suo complesso, in virt del principio della divisione e specializzazione del lavoro, che rende possibile un pi razionale uso delle risorse esistenti. In questo quadro risalta l'insostituibile ruolo economico dell'impresa, la cui vitalit si dispiega a beneficio dell'intera societ. Un secondo aspetto, che stato gi posto in evidenza, quello dell'impresa quale sistema sociale. L'impresa, in quanto centro di coagulazione degli sforzi di un insieme di gruppi sociali, va vista anche come distributrice della ricchezza creata, rappresentando uno strumento per il soddisfacimento delle necessit soprattutto di coloro che operano al suo interno. L'impresa, infine, pu essere vista quale <i>struttura patrimoniale</i>, ossia quale complesso di beni organizzato e retto per lo svolgimento di processi produttivi. Essa richiede un investimento di capitale a certi coefficienti di rischio e deve soddisfare una funzione tipica: la produzione di reddito. Una prima conclusione, che dunque possibile trarre da quanto si detto, concerne la molteplicit di funzioni dell'impresa in rapporto ai differenti ruoli da essa assunti nel sistema economico-sociale. Tale conclusione deve essere tuttavia completata accennando alla complementariet esistente tra le funzioni indicate, ciascuna delle quali essenziale per lo svolgimento delle altre e, quindi, per la continuit della stessa vita aziendale. Un'azienda che non sia in grado di inserirsi positivamente nell'ambiente e di soddisfare bisogni della collettivit un'organizzazione inutile, che non risponde a finalit economiche e che non acquisisce alcuna legittimazione a sopravvivere. Cos, un'organizzazione che non assicuri il dovuto corrispettivo a quanti in essa operano destinata a disgregarsi, non potendo rispettare alcuna condizione di equilibrio tra sforzi e risultati correlati al suo funzionamento. Infine, un'azienda che non in grado di generare un profitto di gestione, non pu riuscire sotto il profilo puramente economico ad alimentare i suoi processi di rinnovamento e sviluppo e, in tempi pi o meno lunghi, vede fuggire il capitale in essa investito, attratto da pi fruttuose opportunit di impiego. Queste tre funzioni, dunque, sono strettamente legate. Ma tra di esse intercorrono anche dei rapporti antagonistici, nel senso che il privilegiare una, comporta necessariamente una subordinazione delle altre. Complicata appare, perci, la ricerca di un equilibrio soddisfacente e durevole. Osserviamo pure che un ordine di priorit tra le funzioni indicate formulabile, ma notiamo subito ch'esso tende a variare a seconda del punto di osservazione del fenomeno (dal punto di vista della collettivit, dei lavoratori o dell'imprenditore). 4. L'impresa quale sistema cognitivo. Il concetto di impresa pu essere peraltro inquadrato anche in una nuova ottica, intesa a privilegiare i fattori immateriali alla base del suo sviluppo. In altri termini, la vera ricchezza di un'impresa non sarebbe costituita dal suo patrimonio materiale o tangibile (impianti, macchinari, attrezzature, ecc.), ma dalle sue risorse immateriali o intangibili, connesse con l'immagine positiva nei confronti dell'ambiente, l'avviamento di mercato, la capacit di produrre innovazioni. Partendo appunto dall'idea che un'impresa dev'essere un centro di innovazioni e che queste ultime sono il prodotto dell'intelligenza e non quello delle macchine, si tende dunque a definire l'impresa quale sistema di conoscenze atto a produrre nuova conoscenza. In effetti, la vita aziendale si muove in virt di fenomeni di cambiamento, indotti dalla capacit di tradurre segnali di evoluzione lanciati dall'ambiente, e questa capacit legata all'accumulo di sapere. A sua volta la quantit e la qualit di conoscenza dell'impresa , ovviamente, legata al contributo degli uomini che ne hanno fatto o ne fanno parte. La vera ricchezza di un'impresa dunque il sapere condiviso e quello degli individui che per essa lavorano. Per conferire una maggiore incisivit alla distinzione tra vecchio e nuovo concetto di impresa, si fa spesso ricorso al linguaggio dell'informatica, per rilevare che al posto del concetto hard si va affermando il concetto soft dell'organizzazione aziendale. Secondo quest'ultimo, l'immagine dell'impresa verso l'esterno e verso l'interno, i valori diffusi nella struttura organizzativa, il know-how (bagaglio di esperienze posseduto per realizzare determinati scopi) accumulato nel tempo rappresentano il vero patrimonio aziendale. In conclusione, l'impresa definibile come un sistema complesso all'interno del quale s'intrecciano elementi tangibili e intangibili, immobilizzazioni materiali e immateriali, mezzi tecnici e intelligenze, risorse finanziarie ed umane secondo un disegno finalizzato, in ogni caso, alla produzione e 5. Gli aspetti tipici dell'impresa Nell'esposizione svolta fino a questo punto sono dunque emersi alcuni concetti fondamentali per chi deve gestire un'attivit aziendale. Queste impostazioni concettuali possono essere cos riassunte: a) l'impresa un sistema aperto perch vive in simbiosi con un ambiente esterno; b) l'impresa , allo stesso tempo, unorganizzazione economica e sociale; c) l'impresa deve svolgere una triplice funzione in rapporto al suo essere organizzazione economica, sistema sociale e struttura patrimoniale; d) l'impresa, in quanto sistema cognitivo, deve produrre conoscenza per promuovere l'innovazione; e) l'impresa, quale sistema cooperativo-conflittuale, dev'essere gestita migliorando i rapporti di collaborazione e riducendo le occasioni di conflitto con i suoi interlocutori. In definitiva, appare chiara la complessit di una realt che presenta aspetti molteplici, a volte in contrasto tra loro. Da ci derivano la difficolt di gestione e la necessit di spiccate risorse imprenditoriali per il governo aziendale. CAPITOLO TERZO. I PROTAGONISTI NELLA VITA DELL'IMPRESA: LA TEORIA DEGLI STAKEHOLDER 1. Gli organi di governo dell'impresa: imprenditorialit e managerialit. Nell'impresa la figura centrale quella dell'imprenditore ovvero del soggetto economico che decide di rischiare i propri capitali e di dedicare le sue capacit professionali alla produzione di beni o servizi da cedere a terzi. Nel nostro paese, e quasi sempre nelle imprese di piccole e medie dimensioni, prevale la figura dell'imprenditore proprietario, tipico dei paesi europei e differente dalle figure di manager professionisti, diffuse in altre realt. Schumpeter, nel distinguere opportunamente i ruoli del finanziatore e del gestore delle produzioni, individu nella promozione delle innovazioni il focus dell'imprenditorialit. Poich la complessit dell'ambiente richiede la flessibilit e, quindi, la capacit di mutamento dell'impresa, chi deve promuovere questo cambiamento non pu essere che l'imprenditore. Secondo Schumpeter, l'imprenditore deve dunque possedere in modo superiore le seguenti qualit: a) capacit di previsione, razionalit consapevole, intuito; b) spirito d'iniziativa, forte volont, libert intellettuale; c) autorevolezza e capacit di leadership nei confronti dei collaboratori. Se con il termine imprenditorialit si definisce l'attitudine ad assumere decisioni rischiose finalizzate all'innovazione dei comportamenti aziendali, per managerialit o direzionalit si deve intendere la capacit di sviluppare queste decisioni e di attuarle in modo razionale. Da ci deriva che il dirigente colui che in sostanza organizza e disciplina l'uso delle risorse aziendali, dando attuazione alle decisioni imprenditoriali. Da un altro angolo visuale, la dottrina anglosassone distingue la funzione imprenditoriale da quella amministrativa, attribuendo alla prima il fine di creare valore e alla seconda quello di impedire le perdite. La complementariet di questi ruoli, che in molte imprese possono combinarsi nello stesso soggetto, appare dunque molto chiara, perch il successo di un'impresa sempre il risultato della combinazione di efficacia (bont delle decisioni) ed efficienza (rendimento dell'uso di risorse). L'efficacia il valore pi proprio dell'imprenditorialit, cio dell'intuizione decisionale di chi governa a livello pi elevato del sistema aziendale; l'efficienza l'attributo perseguito in fase di attuazione dei processi operativi ed , quindi, pi proprio della managerialit, intesa quale attitudine a realizzare il massimo rendimento nella fase di attuazione delle scelte aziendali. Va tuttavia rimarcato che la distinzione tra i ruoli imprenditoriali e manageriali, pur essendo netta sul piano dottrinale, risulta in molti casi sfumata nella realt, data la differente organizzazione del vertice aziendale. Questo accade, ovviamente, a maggior ragione nelle imprese pi grandi, dotate di strutture molto articolate e con un soggetto proprietario non sempre facilmente identificabile. Ancorch, dunque, non sia possibile operare una distinzione in termini assoluti tra organi deliberanti e non deliberanti, si rende possibile giungere ad una classificazione degli organi aziendali in termini relativi. In tal senso, si possono suddividere gli organi di impresa in organi deliberanti, organi di controllo ed organi esecutivi, definendo per organi deliberanti quelli che esercitano prevalentemente attivit di decisione e, allo stesso modo, per organi di controllo ed esecutivi quegli organi che svolgono rispettivamente funzioni di controllo e di esecuzione. Gli organi deliberanti, in una struttura societaria di grandi dimensioni, si possono dividere in tre gruppi: organi di propriet (azionisti), organi di amministrazione e organi di direzione. Azionisti, amministratori e dirigenti partecipano infatti congiuntamente, ma con competenze ed entro limiti diversi, all'attuazione del processo decisorio aziendale, collocandosi ai primi livelli della gerarchia organizzativa, al di sopra degli organi di controllo ed esecutivi. In pratica, ogni impresa si presenta con un assetto proprio degli organi decisionali, per cui il processo decisorio assume caratteristiche differenti da caso a caso. Per l'esercizio effettivo dei poteri decisori ed organizzativi si richiede la compresenza, in uno stesso organo di pi requisiti. Tra questi l'autorit, ovvero il potere riconosciuto nell'ambito della struttura, rappresenta la condizione necessaria ma non sufficiente. Ad essa, infatti, debbono accompagnarsi almeno altri tre elementi: l'abilit professionale, la disponibilit delle informazioni e la capacit di controllo delle decisioni assunte. 2. La pluralit dei soggetti in relazione con l'impresa: la teoria degli stakeholder. L'individuazione dei protagonisti della vita dell'impresa pu essere estesa dagli organi interni facenti parte della sua struttura a quelli esterni nei confronti dei quali, durante la gestione, si sviluppano relazioni di interesse e di influenza. Come si vede visivamente dalla figura in alto, l'impresa si pone al centro di una serie di rapporti con differenti gruppi sociali, rispetto ai quali attiva relazioni di scambio, di informazione, di rappresentanza. Questi gruppi finiscono per costituire dei veri e propri interlocutori dell'impresa o portatori di interessi (detti anche stakeholder), che influenzano e sono influenzati dall'attivit dell'impresa stessa. Il concetto di stakeholder, originariamente ristretto solo a coloro che avevano degli interessi diretti nella vita dell'impresa, si ampliato per ricomprendere anche coloro che sono in grado di esercitare un'influenza sulle decisioni aziendali o, che pur non partecipando alla sua vita, possono essere influenzati da esse. tuttavia opportuno, come appare nella figura in basso, distinguere tra stakeholder primari e secondari: i primi destinati ad esercitare un ruolo pi diretto e immediato nella gestione aziendale; i secondi in grado di influenzare i comportamenti di lungo termine, potendo incidere soprattutto sul clima sociale delle relazioni aziendali. Il governo dei rapporti con tutti gli stakeholder rappresenta una responsabilit primaria per l'imprenditore, perch influenza direttamente i risultati di gestione aziendale. Individuare gli stakeholder, stabilirne il peso relativo, valutarne gli interessi e orientare la mission dell'impresa anche tenendo conto di questi ultimi, sono passaggi di fondamentale importanza nel disegno del progetto strategico da perseguire. Alla luce di quella che pu essere definita la teoria degli stakeholder e partendo dal concetto di impresa descritto in precedenza, si pu dunque ora fornire un'ulteriore definizione dell'impresa quale organizzazione economica, legata ad un complesso d'interlocutori interni ed esterni, che mediante la combinazione di risorse differenziate svolge processi di acquisizione e di produzione di beni e servizi allo scopo di creare e distribuire valore tra di essi. 3. L'importanza, nel governo dell'impresa, dell'individuazione e classificazione degli stakeholder. Non in tutte le imprese la composizione e il ruolo degli stakeholder assumono identiche caratteristiche. A seconda dell'attivit esercitata, dell'organizzazione e della natura della propriet, della dimensione della struttura, alcuni interlocutori possono acquisire una maggiore o minore rilevanza e richiedere, quindi, una pi o meno diligente cura da parte degli organi di governo aziendale. Questa situazione, peraltro, destinata anche a variare nel tempo a causa sia del mutamento del contesto entro cui opera l'impresa sia delle stesse vicende aziendali. Come viene suggerito in dottrina, l'individuazione degli <i>stakeholder </i>e, soprattutto, la valutazione del grado di importanza e d'influenza esercitabile sulla gestione dell'impresa pu essere guidata da alcuni criteri: a) la forza ovvero il potere da essi detenuto in virt del ruolo ricoperto nella societ; b) la legittimazione ossia il riconoscimento ufficiale della loro funzione di rappresentanza di particolari interessi o soggetti economici, sociali e politici; c) l'attualit dell'interesse difeso ovvero l'urgenza della risposta da parte aziendale e la criticit che tale risposta assume nel particolare momento di vita dell'impresa. Proprio da quest'ultimo criterio, ma anche dai due precedenti, si pu comprendere come la classificazione degli stakeholder di fatto continuamente mutevole perch, da tempo a tempo, possono variare l'attualit degli interessi, la forza dei singoli interlocutori e il loro grado di legittimazione. L'individuazione degli stakeholder aziendali deve consentire di stabilire come gestire i relativi rapporti, valutando se da ciascuno di essi potr derivare un atteggiamento collaborativo oppure un ostacolo, se non addirittura una minaccia, per la stessa sopravvivenza dell'impresa. Sotto questo profilo gli interlocutori aziendali sono classificati in quattro gruppi: 1) stakeholder amichevoli (supportive), dai quali si pu ottenere un sostegno decisivo per l'attivit dell'impresa; 2) stakeholder avversari (non supportive), dai quali potrebbero generarsi difficolt sostanziali per l'attivit aziendale; 3) stakeholder non orientati (mixed blessing), da cui si potr avere, a seconda dei casi, un sostegno o un atteggiamento negativo; 4) stakeholder marginali, il cui peso nei confronti dell'impresa risulter del tutto modesto. Questa suddivisione utile perch serve a definire la strategia che l'impresa dovr adottare per amministrare efficacemente le relazioni con i suoi <i>stakeholder</i>. Tenendo conto del peso rivestito e della propensione dei vari stakeholder nei confronti dell'impresa, si pu cio decidere di perseguire strategie di coinvolgimento, di collaborazione, di difesa o di monitoraggio. Come appare dalla figura in basso, per un interlocutore amichevole la via del coinvolgimento appare senz'altro come la pi opportuna, per un interlocutore non orientato invece da tentare in ogni caso la ricerca di collaborazione, mentre con stakeholder avversari o marginali gli atteggiamenti preferibili risultano essere le misure di difesa o di monitoraggio ( bene precisare che quest'ultima analisi si riferisce soprattutto a stakeholder secondari, perch posizioni di contrasto o marginali non dovrebbero essere certo attribuiti agli interlocutori primari). 3.1. Teoria dell'agenzia. Nella teoria degli stakeholder un punto problematico concerne il ruolo della propriet. Pu accadere, difatti, che quest'ultima come si gi osservato detenga nelle sue mani il governo dell'impresa oppure che si vengano a costituire due soggetti distinti: la propriet investitrice, da un lato, e il management, dall'altro. Nel primo caso l'imprenditore, rappresentando l'impresa, colui che deve curare il rapporto con gli stakeholder e, quindi, non figura tra quest'ultimi. Nel secondo, invece, l'imprenditore rappresentato dal management a cui stata confidata l'amministrazione dell'impresa, ma la propriet risulta giustamente compresa tra gli stakeholder perch costituisce uno degli interlocutori primari del management stesso. Se non si dovesse presentare la dissociazione tra propriet e governo dell'impresa gli stakeholder primari dell'imprenditore (impresa) si ridurrebbero fondamentalmente ai lavoratori, ai fornitori e alla clientela. Ai fini della teoria degli stakeholder l'esistenza di investitori distinti dai gestori aziendali pone, insomma, un problema centrale sul quale occorre soffermarsi. In questa ipotesi, il rapporto tra l'impresa e l'investitore si risolve nel conferimento di capitali e nella corrispondente attribuzione di dividendi. Accade, cio, che rispetto all'impresa vi sono stakeholder, la cui remunerazione fissata da un contratto, e stakeholder (che in questo caso sono rappresentati dagli azionisti) la cui ricompensa di tipo residuale, vale a dire che sar riconosciuta nella misura e se dovesse rimanere un residuo di ricchezza. Ci, tuttavia, valido solo in teoria perch, proprio quando il manager deve fare i conti con una propriet investitrice, la relativa remunerazione non pu assumere carattere residuale o almeno non lo pu assumere nel tempo lungo o senza contropartite in termine di maggiore valore di Borsa delle azioni della societ. Questa particolare condizione rientra in quella che stata definita come teoria dell'agenzia, tipica di tutti i casi in cui si ha dissociazione tra propriet e governo dell'impresa. La teoria dell'agenzia si riferisce, infatti, alla situazione in cui il potere di amministrazione aziendale esercitato da un agente (agent) su mandato ricevuto dalla propriet (principal). Per effetto del mandato fiduciario si viene cos a creare una relazione singolare che tende a ridurre se non ad annullare il carattere residuale della remunerazione della propriet. Quest'ultima, infatti, incentiver l'agente a massimizzare la ricompensa per la propriet sotto forma di dividendi azionari e valorizzazione della quotazione delle azioni, pena l'uscita dalla societ (disinvestimento) o la rimozione dell'agente dal suo incarico (risoluzione del mandato fiduciario). Una situazione del genere indurr, quindi, l'agente ad assicurare comunque una congrua remunerazione alla propriet, dopo avere ugualmente soddisfatto gli altri stakeholder, giungendo perfino a distribuire qualora necessario la ricchezza accumulata (patrimonio) anzich quella creata (reddito). V' per da osservare che la presenza di un manager a capo di imprese appartenenti a gruppi familiari (ovvero con azionisti di riferimento e, quindi, con una propriet non assente sotto il profilo della governance) si sta diffondendo tra le societ quotate in borsa. tuttavia intuibile che in questi casi l'orientamento da conferire alla gestione viene di fatto condiviso dalla propriet di riferimento e dal manager professionista ( opportuno rilevare che l'internazionalizzazione, che porta ad una crescente professionalit richiesta ai livelli elevati dell'organizzazione, certo una delle cause della crescente managerialit delle strutture organizzative). CAPITOLO QUARTO. LE MOTIVAZIONI DEI PARTECIPANTI ALL'IMPRESA E LE TEORIE SULLE FINALIT IMPRENDITORIALI. 1. Premessa sulle motivazioni dei partecipanti all'impresa. Per comprendere le modalit di gestione dell'impresa, bisogna dunque capire quale intreccio di interessi e di motivazioni si sviluppa all'interno ed intorno ad essa. In una visione schematica, si pu osservare che l'imprenditore dovrebbe essere interessato all'ottenimento del profitto, i dirigenti e lavoratori alla retribuzione e alla progressione di carriera, i fornitori a trarre maggiore vantaggio dalle relazioni commerciali, i finanziatori ad intessere rapporti continuativi e lucrativi d'affari. Se chiaro che tutti puntano ad un incremento del valore globale creato dalla gestione, altrettanto immaginabile che elementi di contrasto possono nascere nella successiva distribuzione del valore stesso. Il governo aziendale dev'essere dunque indirizzato a valorizzare elementi cooperativi e a contenere quelli conflittuali. Per fare ci, deve saper promuovere un processo di integrazione o di vera e propria fusione tra gli obiettivi aziendali e quelli individuali. Nel contesto delle figure che partecipano alla conduzione dell'impresa, come si sottolineato in precedenza, centrale quella dell'imprenditore perch le finalit ch'egli persegue non possono non condizionare quelle degli altri soggetti interni ed esterni. Questo il motivo per cui propedeutico a tutta l'analisi che segue lo studio delle finalit imprenditoriali. 2. Le finalit dei comportamenti imprenditoriali. Aspetto di particolare interesse nell'economia aziendale dunque quello dei fini imprenditoriali perch la spiegazione delle strategie e delle politiche adottate non pu non essere fornita in termini di obiettivi da raggiungere. Prima per di affrontare questo problema, necessario ritornare su alcune considerazioni relativamente alla natura dell'imprenditore. In particolare, opportuno soffermarsi sul fenomeno di dissociazione fra gli organi di propriet e di governo dell'impresa (teoria dell'agenzia). Questo fenomeno proietta delle importanti conseguenze sul tema che stiamo trattando. Quando parliamo dei fini imprenditoriali a chi ci riferiamo: all'imprenditore di tipo classico o all'imprenditore delegato (manager), che detiene nelle sue mani il potere di gestione senza la propriet? Sulle finalit del soggetto economico si pu comprendere, in sostanza, una diversit d'interpretazioni, collegata alla natura del soggetto economico stesso (se, ad esempio, privato o pubblico) e dell'eventuale delega del governo dell'impresa da parte della propriet a quadri direzionali dipendenti. Ed giustificabile, di conseguenza, che, per una corretta analisi dei comportamenti imprenditoriali, intesi questi ultimi come modelli di azione degli organi deliberanti, giova tener conto delle diverse situazioni di composizione del gruppo di governo. In particolare, le distinzioni di maggior rilievo sono due: imprenditoria privata e pubblica, imprenditoria diretta e delegata (manageriale). 3. Un breve richiamo alle teorie classiche sulle finalit imprenditoriali. 3.1. La teoria della massimizzazione del profitto. Il profitto, secondo la teoria economica classica, il compenso che spetta all'imprenditore per l'organizzazione dei fattori produttivi. Esso, peraltro, non interpretato allo stesso modo dalle varie correnti o scuole di pensiero: Una prima elaborazione teorica considera, infatti, come si detto in precedenza, il reddito quale corrispettivo che spetta a colui che coordina l'impiego dei vari fattori di produzione. In tal senso, esso costituisce una categoria economica affine al salario, alla rendita e all'interesse che rappresentano come noto i compensi destinati al lavoro, alla terra e al capitale. Un'altra teoria pone in evidenza che il profitto va considerato come la quota destinata a ripagare il rischio corso nell'attivit aziendale. Secondo, invece, la nota impostazione Schumpeteriana, il profitto s un premio, ma un premio che spetta a colui che promuove l'innovazione. Un'ultima impostazione dottrinale, infine, tende a spiegare la sua origine in funzione dell'imperfezione del mercato, cio quale risultato dell'acquisizione di posizioni monopolistiche rispetto ad altri produttori (poich nell'ipotesi di mercati perfetti finirebbe con lo sparire). Queste quattro visioni pi che alternative risultano complementari, in quanto il profitto pu essere in effetti considerato un'entit composita, in cui rientrano il compenso per il lavoro imprenditoriale, il premio per il rischio, la contropartita dell'innovazione e la rendita connessa con la posizione monopolistica. Non facile appare, dunque, il tentativo di pervenire ad una teoria che sia in grado di interpretare soddisfacentemente i comportamenti imprenditoriali, che valga cio a fornire un quadro esauriente sulle finalit perseguite nella gestione. Ci induce ad esaminare pi di una teoria, partendo comunque da quella del massimo profitto, che occupa un posto centrale in economia aziendale, nell'intento per di giungere ad una nostra pi ampia impostazione finale. Secondo la costruzione classica, i comportamenti del gruppo imprenditoriale sarebbero orientati al conseguimento del maggiore divario positivo tra i ricavi e i costi di gestione. La logica delle scelte, assunte dagli organi di governo, sarebbe quella di massimizzare il risultato reddituale ottenibile dall'attivit aziendale, cio di adottare in ogni caso, tra le alternative possibili, quella suscettibile di produrre il maggior reddito. Questa teoria potrebbe apparire convincente in senso astratto, in quanto in linea con i principi che, in generale, guidano le scelte d'investimento e che, comunque, orientano il comportamento umano. Se, per, si passa sul piano pratico, incontra una serie di limiti, che ne condizionano l'utilit interpretativa dei comportamenti imprenditoriali: la sua applicazione richiede, infatti, la precisazione di alcune condizioni di tempo e di rischio. Da ci deriva che, per conferire un valore operativo alla teoria, in modo da potere effettivamente spiegare, alla luce di essa, le motivazioni del comportamento imprenditoriale, necessario introdurre il fattore tempo (time- preference) e il fattore rischiosit (uncertainty conditions). Cos' che l'imprenditore tende, infatti, a massimizzare? Non gi il risultato di una certa operazione o delle operazioni condotte in un limitato periodo di tempo (ad es. l'esercizio annuale), ma quello della gestione nel lungo andare. Allora, questo obiettivo pu anche essere sacrificato nel breve termine ad altri scopi, con l'intento per di pervenirvi pi agevolmente nel tempo lungo. Sotto questo profilo si pu, ad esempio, giustificare una politica di vendita dei beni o servizi prodotti a prezzi di costo o inferiori al costo, intesa a far conquistare un'ampia porzione di mercato e a far recuperare successivamente le quote di reddito sacrificate. Comportamenti che, dunque, possono sembrare contrari al perseguimento del massimo profitto, visti in unottica pi ampia, risultano invece aderire a tale motivazione. Cos, importante includere nell'esame il fattore rischio, in quanto l'imprenditore tende a condizionare le sue aspirazioni reddituali ad un determinato grado di rischiosit globale della gestione (e quindi la considerazione di questo fattore in pratica impedisce il raggiungimento del massimo profitto; questa una delle principali obiezioni che si possono muovere a questa teoria). Nell'ambito di queste condizioni, dunque, la teoria sembra rispondere meglio alle esigenze d'interpretazione dei comportamenti imprenditoriali. Il profitto sicuramente un obiettivo di fondo da perseguire se si vuole assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo dell'impresa, ma come vedremo pu in realt essere considerato solo come uno degli elementi rientranti nelle finalit imprenditoriali. 3.2. La teoria dello sviluppo e della sopravvivenza aziendale. Il punto pi consistente di critica alla teoria della massimizzazione del profitto stato illustrato dagli economisti sociali, i quali hanno rilevato che essa non regge pi a causa dell'ormai avvenuta dissociazione fra il livello di propriet e di governo dell'impresa. Il fatto, essi dicono, che la gestione sia attuata da dirigenti comporta un mutamento dei fini della gestione stessa. Mentre, infatti, i proprietari potevano essere interessati ad ottenere il massimo profitto dall'impresa, i dirigenti sono preoccupati in primo luogo della sopravvivenza dell'organizzazione. Secondo la teoria della <i>sopravvivenza</i>, il fine del gruppo di governo soprattutto quello di assicurare la continuit dell'organismo aziendale. Ci si traduce, da un lato, nel puntare al profitto come mezzo per irrobustire la struttura patrimoniale dell'impresa e, dall'altro, nel rifiutare attivit gestionali con coefficienti di rischio che possano porre in pericolo la vita dell'organizzazione. In altri termini, essa assegna al profitto un ruolo strumentale nei confronti dello scopo ultimo (la sopravvivenza). Questa teoria ha trovato uno dei principali sostenitori nel Drucker, il quale ha proposto di misurare il raggiungimento della finalit suindicata sulla base di obiettivi legati a cinque aspetti fondamentali: posizione occupata nel mercato, cio al rapporto di forza o debolezza nei confronti della concorrenza; innovazioni, cio alla capacit di adeguare costantemente le tecnologie utilizzate e i prodotti realizzati; risorse umane, ossia alla professionalit del personale; risorse finanziarie, cio alla disponibilit di mezzi da impiegare nel finanziamento degli investimenti redditivit dell'impresa, in quanto fonte dello sviluppo e dell'incremento di patrimonialit dell'impresa.
3.3. La teoria della creazione e diffusione di valore.
Con la formulazione della teoria del valore si compie un salto sostanziale nella teoria dell'impresa perch la finalit della creazione del valore risponde agli obiettivi di tutti i partecipanti all'impresa e non soltanto a quelli dell'imprenditore proprietario o del manager. La teoria del valore sostiene, difatti, che la finalit da assegnare alla gestione quella di far crescere il valore economico dell'impresa. Con essa la visione dei risultati aziendali orientata al futuro, perch ci che conta non il differenziale positivo tra ricavi e costi (profitti), ma le potenzialit di produrre risultati sempre migliori. Tutto ci porta tuttavia ad escludere l'indirizzo ad essa dato nella pratica nordamericana, che potremmo definire di creazione del valore azionario. La teoria del valore azionario si collega, difatti, al concetto patrimoniale dell'impresa, vista, quest'ultima, come un valore reale (rappresentato dalla capitalizzazione in base al corso dell'azione) piuttosto che come una fonte di un futuro valore reddituale. In altri termini la strategia del valore tenderebbe a guidare l'opera dell'imprenditore e/o del manager, inducendolo a preferire le scelte tese a massimizzare il valore del capitale azionario (cio, ad accrescere il valore reale dell'impresa), perch in tal modo quest'ultima diventerebbe pi appetibile, pi affidabile, conferirebbe maggiore prestigio e assicurerebbe, quasi sempre, migliori retribuzioni a chi la governa. In questa matrice nordamericana la teoria del valore si collega ad una realt molto diffusa in quel contesto, vale a dire alle public company amministrate da manager professionisti e quotate in borsa. C' quindi da chiedersi se, da tale punto di vista, essa sia pi generalmente applicabile, includendo anche i casi, da noi molto pi frequenti, di imprenditori-proprietari dell'impresa e di aziende non quotate in borsa. Al quesito riteniamo di potere rispondere in modo negativo perch all'imprenditore-gestore interesser la redditivit di lungo termine e non la massimizzazione dei vantaggi per gli azionisti. Egli, quindi, sceglier una condotta che consentir di massimizzare le potenzialit reddituali dell'impresa. 3.4. La teoria manageriale dello sviluppo dimensionale. Un'altra impostazione teorica, che si fonda sull'evoluzione in senso manageriale della struttura imprenditoriale, privilegia invece la finalit dello sviluppo dimensionale. Secondo tale teoria, i manager sono pi interessati all'espansione dell'impresa perch quest'ultima si traduce quasi sempre in un irrobustimento dell'organizzazione (garanzia di sopravvivenza), nell'assunzione di una maggiore forza nei confronti della concorrenza (garanzia di redditivit aziendale) e, quindi, nell'incremento delle retribuzioni ai livelli pi elevati di direzione. Di conseguenza, con lo sviluppo dimensionale si riuscirebbero ad ottenere simultaneamente obiettivi di stabilit, di prestigio e di miglioramento economico. Tutto ci contribuirebbe a favorire comportamenti imprenditoriali tendenti ad un ampliamento del volume di affari rispetto a quello dei profitti globali. Pertanto, al posto della crescita del profitto si sarebbe sostituita quella del fatturato quale obiettivo primario della conduzione aziendale. Questa la tesi di Baumol, il quale sostiene che il gruppo di governo tende a massimizzare il fatturato perch questo l'indicatore del suo successo, perch consente di migliorare gli sviluppi di carriera di tutti i dirigenti, perch facilita i rapporti con le banche, i fornitori, il personale dell'impresa, ecc. L'ipotesi di questo economista che, in sostanza, si ha un'inversione di posizioni, per cui <i>le imprese mirano a realizzare il flusso di profitti che consente di finanziare il massimo sviluppo delle vendite nel lungo periodo. bene chiarire, per, che, secondo Baumol, massimizzare le vendite significa massimizzare il fatturato e non necessariamente la quantit fisica del venduto. Ci vuol dire, in altri termini, che l'obiettivo da raggiungere si concreta nella ricerca della combinazione, tra quantit da vendere e prezzi di vendita, che massimizzi il volume degli affari dell'azienda. Come per la teoria della massimizzazione del profitto rimangono comunque in essere le critiche sollevate in precedenza e che, in buona sostanza, concernono l'impossibilit di accettare ipotesi di massimizzazione in un contesto caratterizzato da forti rapporti antagonistici tra i partecipanti e, fatto certo non secondario, trascurando del tutto le motivazioni legate a fattori morali. 4. Una prima revisione delle teorie classiche: la teoria comportamentistica o dei limiti sociali alla massimizzazione del profitto. La vita aziendale si svolge entro un complesso di vincoli, pi o meno rilevanti, a seconda delle influenze esterne ed interne alla gestione. Come si gi avuto modo di accennare, ogni impresa rappresenta un'organizzazione cooperativa, la cui vita contrassegnata, per, da situazioni potenziali di conflitto d'interessi. Le occasioni di contrapposizione possono prodursi nei confronti di forze esterne (compratori di beni e servizi, produttori di beni e servizi similari, fornitori di materiali e servizi da impiegare nella produzione, distributori commerciali, finanziatori esterni, organi della pubblica amministrazione, ecc.) o tra gruppi interni (proprietari, dirigenti, maestranze). Fra i due tipi di conflitti sussistono differenze non solo in ordine alla loro genesi, ma anche alle effettive possibilit di composizione esercitabili dall'impresa. Nel caso di conflitti esterni l'impossibilit di risolvere il conflitto comporta la ricerca di un modo nuovo per soddisfare certe esigenze (per es. nell'ipotesi di un conflitto con un fornitore, all'impresa si prospettano tre possibilit: pervenire ad un nuovo accordo di reciproca soddisfazione, cambiare fornitore, produrre anzich acquistare il bene di cui si tratta). chiaro, cio, che nelle soluzioni di conflitti esterni le opportunit di risoluzione sono quindi molteplici. Nel caso di conflitti interni, invece, le possibilit di manovra dell'imprenditore risultano spesso pi limitate, nonostante ch'egli, almeno in teoria, abbia il potere di risolvere il conflitto escludendo l'opponente dall'organizzazione. L'esempio classico quello dei conflitti di lavoro, in cui la maggiore forza imprenditoriale non pu esercitarsi a causa della tutela sindacale del lavoratore. Queste considerazione andrebbero comunque approfondite sia sul piano generale sia in rapporto a singole categorie o classi sociali con cui l'impresa entra in contatto. Il nostro scopo, per, per il momento pi limitato, in quanto il richiamo alla situazione cooperativo-conflittuale, tipica dell'impresa, strumentale ai fini delle dimostrazione dei limiti, anche operativi, della teoria della massimizzazione del profitto. La contrapposizione d'interessi pu essere infatti interpretata, seppure in una forma estremamente semplificata, in termini di costi e ricavi, cio analizzando l'equazione del profitto e rilevando quali sono i condizionamenti sociali che si oppongono all'ottenimento, da parte dell'imprenditore, del massimo reddito. I gruppi sociali in relazione diretta con l'impresa possono essere cos individuati: G.1) consumatori o utilizzatori dei beni o servizi prodotti; G.2) concorrenti; G.3) forze di lavoro occupate nell'impresa; G.4) fornitori di beni e di servizi (compresi impianti e macchinari); G.5) finanziatori; G.6) distributori commerciali; G.7) organi della pubblica amministrazione; G.8) conferenti il capitale di propriet dell'azienda. Bisogna avvertire che in situazioni particolari alcuni di questi gruppi possono non essere presenti (ad esempio i concorrenti nell'ipotesi di monopolio). Di regola, comunque, tutti i gruppi indicati svolgono un ruolo attivo nei confronti dell'impresa e ciascuno di essi, come appare nel grafico (vedi immagine in basso), genera influenze sull'ampiezza finale del profitto. L'imprenditore, postula la teoria classica, tenta di massimizzare il risultato economico della gestione: per fare ci pu cercare di ampliare i ricavi e/o di ridurre i costi, in modo da far crescere il reddito. A tale scopo, egli pu promuovere delle innovazioni nei prodotti, nella tecnologia e nei mercati, oppure tentare di modificare l'equilibrio esistente senza adottare processi innovativi. Per svolgere il nostro ragionamento, dobbiamo accogliere questa seconda ipotesi, cio sviluppare un'analisi dei comportamenti imprenditoriali in una situazione di stabilit dei rapporti prodotti/mercato. Non solo, ma dobbiamo anche ipotizzare che l'impresa tratti un unico prodotto perch, se cos non fosse, tutto il ragionamento sull'equilibrio tra costi e ricavi dovrebbe comprendere un'altra incognita rappresentata dalla variazione della composizione interna del mix di prodotti immessi nel mercato. Infine, dobbiamo escludere l'ipotesi che l'azienda debba obbligatoriamente distribuire un dividendo agli azionisti per soddisfare gli investitori e concorrere a mantenere alto il valore dell'azione. Partendo da questi assunti, che configurano bene sottolineare una forte semplificazione della realt, possiamo cominciare ad osservare che l'imprenditore, se vuole aumentare i ricavi, deve tentare di influire su due variabili: il prezzo e la quantit dei beni venduti: Ma un rialzo del prezzo incontra l'opposizione dei compratori, i quali possono rinunciare all'acquisto del bene, rivolgendosi ad altro fornitore, oppure ridurre la quantit domandata e fare addirittura contrarre, anzich aumentare, il volume globale dei ricavi. Pertanto, l'effettiva possibilit di fare leva sul fattore prezzo risulta limitata dall'elasticit della domanda e dalla pressione concorrenziale. Se si scarta la strada del prezzo, rimane disponibile quella dell'incremento della quantit da far assorbire al mercato. Questa via, per si presenta pi o meno facilmente percorribile in funzione del ritmo di sviluppo della domanda. Se, infatti, ipotizziamo una stazionariet della domanda globale, appare comprensibile che ogni tentativo di ampliare la quantit venduta susciter le reazioni della concorrenza, alla quale si mirer in sostanza a sottrarre degli affari. quindi intuibile che la manovra di allargamento della quota di mercato potr indurre delle reazione da parte delle aziende concorrenti, le cui contromisure potrebbero anche portare ad una compressione dei ricavi complessivi della nostra impresa. Tutto ci lascia intendere che pure questa strada pericolosa e pu essere di fatto preclusa ai fini della massimizzazione dei ricavi di vendita. Volendo allora operare sui costi, l'imprenditore fronteggiato da altri gruppi sociali che contrastano la sua manovra. Anche per i costi, una variazione pu essere ottenuta per due vie, un abbassamento del costo unitario o l'impiego di una minore quantit di risorse: Sotto il primo aspetto, si tratta di ridurre le remunerazioni del lavoro, i prezzi pagati ai fornitori, gli interessi corrisposti ai finanziatori, i margini concessi ai distributori. Nessuna variazione ovviamente possibile per le aliquote impositive fissate dalla pubblica autorit. Relativamente alla riduzione della quantit impiegata di ciascun fattore, si pu incidere sui costi del lavoro, di approvvigionamento, di finanziamento ma non sugli altri. chiaro, infatti, che una riduzione della quantit impiegata di prodotti trasferiti ai distributori si ripercuote direttamente sui ricavi, mentre per gli oneri fiscali una riduzione della quantit (reddito imponibile) configura un comportamento illecito. Per quanto concerne un'azione sul costo unitario, l'imprenditore trova dunque delle naturali opposizioni nei gruppi sociali dei lavoratori, dei finanziatori, dei fornitori e dei distributori, per cui difficilmente potr ottenere dei vantaggi economici consistenti e durevoli. In una situazione di sostanziale impossibilit di incremento del profitto senza suscitare conflitti pericolosi per la stessa sopravvivenza dell'impresa, vi sono in concreto delle opportunit per ottenere tale finalit o per difendere il profitto in relazione all'aumento dei costi di gestione? La risposta pu essere positiva se cade una delle condizione poste alla base del ragionamento svolto fino a questo punto, cio quella della ripetitivit degli stessi comportamenti nel tempo. E intuibile, infatti, che solo mediante l'innovazione l'imprenditore pu aspirare a migliorare o almeno a difendere la propria posizione reddituale. Bisogna dunque fare riferimento ed esaminare separatamente le due voci di costo inserite nella schematizzazione precedente. Si tratta dei costi organizzativi e di ricerca e sviluppo. I primi ineriscono all'analisi, progettazione, controllo e adattamento delle strutture, procedure e tecniche di ordinamento del lavoro direzionale ed esecutivo; mentre i secondi sono relativi all'individuazione di nuove opportunit tecnologiche o di mercato, alla creazione dell'immagine, all'avviamento commerciale. In corrispondenza di questi costi non vi un particolare e forte gruppo sociale, anche se chiaro che in tutte e due le funzioni sono quasi sempre impegnati dei dipendenti dell'azienda. Perci, accade di fatto che nei periodi di crisi sono gli unici costi (insieme forse con quelli di pubblicit) ad essere tagliati, in quanto ritenuti non strettamente necessari. Ora chiaro che proprio l'alterarsi dell'equilibrio tra i costi e ricavi aziendali richiederebbe un incremento della produttivit (mediante miglioramenti organizzativi) e un'espansione dei mercati (mediante la messa a punto di nuovi prodotti); risultati, questi, raggiungibili con un aumento consistente e non con una riduzione delle spese di organizzazione e di ricerca. L'espansione del volume di attivit dunque quasi sempre la via obbligata per un recupero di maggiori costi dovuti all'accresciuta incidenza di singole voci di spesa (costi di lavoro, di approvvigionamento, ecc.). Un'alterazione dell'equilibrio strutturale tra costi e ricavi pu infatti essere pi facilmente assorbita mediante un riadeguamento dei ricavi dovuto all'aumento della quantit venduta dei vari prodotti. Cio, pi che operare sui prezzi di vendita, all'impresa conviene ricercare occasioni di espansione del volume degli affari nel mercato in cui opera o in mercati nuovi, vale a dire percorrere la via dell'innovazione. In altri termini, il ragionamento precedente conduce a tre conclusioni: a) l'equilibrio tra costi e ricavi aziendali difficilmente modificabile in assenza di innovazioni nella gestione; b) le innovazioni nell'organizzazione e nel mercato richiedono il sostenimento di costi che, invece, sono solitamente ridotti in periodi di crisi aziendale; c) il profitto una quantit residuale che risente delle situazioni di crisi, data la rigidit delle altre grandezze economiche e l'assenza di processi innovativi. Riferendoci ora specificatamente al tema centrale dell'analisi sviluppata in questo capitolo, possibile concludere osservando che il reddito il risultato che deriva da accordi di cooperazione o dalla composizione di conflitti interni ed esterni e che la sua misura non mai liberamente determinabile dall'imprenditore. Il fine del massimo profitto diviene, cos, il fine del massimo profitto condizionato. Ma la conclusione pi importante che la massimizzazione del profitto incontra due serie di vincoli: i primi sono quelli sociali descritti in questo paragrafo (teoria dei limiti sociali); i secondi sono i <i>limiti di conoscenza in ordine all'evoluzione dell'ambiente e dei mercati. In particolare su questa limitazione s'incentra la teoria del Simon, secondo la quale l'imprenditore tenderebbe ad un profitto soddisfacente pi che massimo. Per questo motivo, l'obiettivo delle singole scelte, e quindi in senso lato dell'intera gestione, sarebbe quello di individuare, per ciascun problema, le alternative soddisfacenti piuttosto che quelle ottimali. Tutto il ragionamento precedente partito dal presupposto che la massimizzazione del profitto sia l'unica finalit perseguita dall'imprenditore. Ma questo presupposto sempre verificabile nella realt? In altre parole, l'imprenditore pu tendere a finalit di ordine superiore rispetto alle quali il profitto diviene uno strumento piuttosto che l'obiettivo esclusivo dei suoi comportamenti? 5. La teoria del successo sociale ed i rapporti con l'etica dell'impresa. Dopo avere rapidamente passato in rassegna le varie teorie relative alle finalit imprenditoriali conviene riportare l'attenzione sulla teoria della creazione del massimo valore economico nel tempo lungo. Come si gi osservato, questa teoria occupa, difatti, un posto di sicuro rilievo nell'analisi dottrinale e rappresenta uno dei punti centrali della letteratura economico-aziendale. A questo punto, occorre difatti ritornare, in particolare, sul concetto di valore economico perch forse il caso di dare un contenuto pi ampio al termine valore in modo da evitare di confinarlo al campo solo economico. Per pervenire ad una conclusione del genere, indispensabile approfondire ulteriormente l'analisi sulle motivazioni imprenditoriali. Il quesito di fondo da porsi il seguente: l'imprenditore mosso soltanto da interessi economici oppure, come tutti gli altri individui, tende a raggiungere anche traguardi appartenenti alla sfera del sociale? E, se cos fosse, come potrebbe giungere ad una combinazione ottimale tra questi due ordini di finalit, atteso che tra essi sussistono in realt delle contrapposizioni e dei vincoli? Le motivazioni o meglio le finalit che spingono un individuo a promuovere la costituzione di un'impresa e a svilupparne nel tempo l'attivit possono essere comprese, con qualche necessario adattamento, richiamando la famosa scala dei bisogni teorizzata dal Maslow. Secondo questa impostazione, le finalit dell'imprenditore appaiono, in ordine crescente d'importanza, quelle di assicurare la sopravvivenza dell'impresa (mediante il perseguimento del fondamentale equilibrio economico tra costi e ricavi), di affermarsi nell'mbito della classe sociale di appartenenza e di assumere posizioni di preminenza nella comunit. L'imprenditore, quindi, tenderebbe come tutti gli individui al successo e il successo sarebbe rappresentato dai risultati raggiunti dall'impresa e dal ruolo che, con esso, si riuscirebbe a conquistare rispetto ai concorrenti e, pi in generale, all'interno della comunit. In altre parole, l'opinione che reputiamo opportuno proporre in questa sede che lo stimolo economico non rappresenta o non dovrebbe rappresentare sempre n il solo n il richiamo pi importante della funzione imprenditoriale: il fine economico pu e deve divenire anche un mezzo per il raggiungimento di obiettivi morali e sociali. ipotizzabile, difatti, che l'imprenditore inteso in senso classico quale proprietario e gestore trasponga gran parte di s nell'impresa e che il suo obiettivo fondamentale sia quello di avere un'impresa forte, in grado di svilupparsi e assicuragli rispetto e ammirazione nella cerchia competitiva pi ristretta in cui opera e in quella pi ampia della collettivit nella quale e per la quale l'impresa attua la sua specifica operativit. Partendo da questa ipotesi, si potrebbero allora individuare e ordinare le finalit imprenditoriali in funzione di una combinazione o mix costituita dal conseguimento del profitto, del potere e del prestigio. Questa combinazione, che per facilit di ricordo definiremo delle tre P, sarebbe cos rappresentativa del successo sociale ottenuto dall'imprenditore mediante il successo della sua impresa. In questa ottica, il prestigio (leadership sociale) finirebbe per rappresentare il traguardo di pi elevato valore, che apparirebbe come il vero punto di arrivo dell'attivit imprenditoriale: accanto ad esso, in posizione strumentale, si porrebbero il potere di mercato leadership competitiva) e il profitto, che consentirebbero all'impresa di svilupparsi rispetto alla concorrenza, preservando il fondamentale equilibrio economico (vedi figura in basso). La possibilit di scalata sociale si costruirebbe, dunque, su una corretta applicazione di valori nel governo dell'impresa e, cio, combinando in modo opportuno valori economici e valori etici. In altri termini, alla luce dell'impostazione prospettata, il riconoscimento del consenso nel mercato e nella societ non pu non far crescere il peso di valori etici nella proiezione di lungo termine dell'attivit dell'impresa. In effetti, il <i>mix </i>tra valori economici ed etici tende appunto a modificarsi in rapporto all'orizzonte delle scelte aziendali e, quindi, all'elevarsi di grado delle finalit da raggiungere (vedi figura seguente). Prima di concludere l'esame su questo argomento il caso di sottolineare che la scelta dei fini imprenditoriali da noi indicata in precedenza (le tre P), appare riferirsi soprattutto all'imprenditore proprietario dell'impresa, per il quale il legame tra successo dell'impresa e successo personale molto pi stretto e visibile dall'esterno rispetto ai casi di diffusione della propriet e, quindi, dell'esistenza di un management delegato. In quest'ultima ipotesi, l'analisi delle finalit imprenditoriali richiede qualche ulteriore riflessione. Non essendoci difatti lo stesso grado di immedesimazione tra l'impresa e il manager-imprenditore, il successo aziendale potrebbe essere visto come una finalit intermedia o strumentale. Il raggiungimento di risultati particolarmente brillanti in campo economico e sociale potrebbe essere il mezzo per il passaggio ad aziende di maggiore importanza. Nella teoria delle finalit imprenditoriali s'inserirebbe, cos, l'aspirazione alla mobilit quale via per riuscire a conquistare pi rapidamente livelli superiori delle tre P. Dal contatto con la realt si rileva, invero, che le motivazioni dell'imprenditore tendono a variare a seconda dello stadio e delle prospettive di crescita dell'impresa, del grado d'integrazione rispetto all'impresa gestita, della visibilit del ruolo esercitato, del rapporto di interdipendenza rispetto ad altre imprese e, infine, ma in posizione certo non marginale, del senso morale posseduto. Senza dilungarci qui in casistiche potremmo individuare le tre seguenti situazioni pi rilevanti per la caratterizzazione di una moderna teoria sulle finalit imprenditoriali: a) l'imprenditore visibile e strettamente integrato nell'impresa, al quale sembrerebbe potersi applicare la teoria del successo sociale. b) l'imprenditore meno visibile e meno integrato (perch spesso amministratore di un'impresa di piccola dimensione o che comunque non costituisce il centro della sua attivit), a cui apparirebbe meglio riferibile la teoria della massimizzazione del valore economico dell'impresa nel tempo lungo; c) l'imprenditore delegato (manager), al quale sarebbe applicabile quella che potrebbe essere definita come teoria della mobilit, in quanto spesso il successo dell'impresa dovrebbe, attraverso la mobilit, consentirgli l'affermazione sociale. In linea generale, anche tenendo conto delle differenti posizioni riscontrabili nel mondo imprenditoriale, si deve per osservare che in tutti i casi le gratificazioni morali si accomunano a quelle economiche perch l'uomo non pu essere insensibile al riconoscimento del consenso e dell'apprezzamento da parte dei suoi simili. Ci comporta che in ogni caso chi al vertice dell'impresa dev'essere attento non solo agli equilibri economici, ma anche alla coesione di interessi tra tutti i partecipanti all'organizzazione. Nell'ottica di tempo lungo emerge chiaramente la crescente importanza della costruzione e applicazione di un codice etico nella gestione aziendale. Da ci discende la conclusione che la soluzione di dilemmi morali, che attengono anche al campo dell'etica aziendale, si rileva, oggi, quale fattore caratteristico di una superiore interpretazione della funzione imprenditoriale. CAPITOLO QUINTO. LA GESTIONE STRATEGICA. 1. Premessa. La vita dell'impresa si sviluppa secondo un complesso di decisioni, da quelle che l'imprenditore assume all'atto della costituzione a quelle che debbono essere assunte giorno per giorno per conferire l'impulso necessario all'attivit di gestione. 2. I PROFILI DELLA GESTIONE AZIENDALE. Gestire l'impresa corrisponde a governarla, significa cio amministrare i vari fattori di produzione impiegati per il suo funzionamento e significa, soprattutto, assicurarle la sopravvivenza e lo sviluppo mediante la creazione di equilibri economici, patrimoniali e finanziari. Il termine gestione, per, si presta ad essere inteso anche in un altro senso ovvero quale complesso di decisioni e di attivit svolte dall'impresa per raggiungere le finalit dei soggetti coinvolti nella sua operativit. La gestione, dunque, si sviluppa secondo un continuo sistema di possibili scelte. Bisogna distinguere tra: decisioni strategiche, sono quelle che si riflettono direttamente sugli obiettivi prioritari dellazienda e sono difficilmente modificabili una volta poste in attuazione; decisioni tattiche, si riferiscono ad obiettivi gerarchicamente inferiori, di tempo breve, che appaiono modificabili senza ripercussioni particolarmente sfavorevoli per lazienda; decisioni operative, necessarie per procedere materialmente allattuazione delle risorse. 3. La gestione strategica e operativa. La strategia definisce i rapporti con l'ambiente, cio con il contesto generale entro cui opera l'impresa e che comprende come si visto in precedenza il sistema politico-istituzionale, economico, culturale e socio-demografico. Ma la strategia risponde all'obiettivo pi specifico di scegliere l'ambiente competitivo e transazionale di riferimento dell'azienda. In altri termini, la strategia definisce con quale o con quali contesti specifici l'azienda entrer in contatto, pur rimanendo collegata come tutte le altre imprese all'ambiente in senso generale. La gestione operativa , invece, costituita dal controllo e dall'esecuzione relativi all'attuazione dei processi operativi. 4. La strategia e le politiche di gestione. Come gi detto, la strategia definisce i rapporti con lambiente, i cui mutamenti possono determinare opportunit e minacce per limpresa. Nei confronti dellevoluzione dellambiente, limprenditore pu assumere tre diversi atteggiamenti: di attesa, che consiste nellaspettare il verificarsi di fenomeni evolutivi nel mercato o nel macro-ambiente in cui questo compreso, per promuovere soltanto dopo ch'essi si sono chiaramente affermati gli opportuni adattamenti della gestione; anticipatorio, che si traduce nellattuazione di uno sforzo costante di previsione dei mutamenti ambientali, allo scopo di poter realizzare, in modo anticipato e tempestivo, le necessarie modifiche nei comportamenti di gestione; proattivo, che si concreta nella promozione di azioni che influenzano lambiente nel modo pi favorevole alle prospettive di sviluppo aziendale. La distinzione pi importante quella tra il modello definito di attesa e gli altri due: l'adozione di un atteggiamento del primo tipo denota, infatti, la mancanza di un quadro strategico di sviluppo. questa la situazione che caratterizza molte imprese, soprattutto di piccola dimensione, la cui operativit si sviluppa secondo modelli prevalentemente ripetitivi. Diverso , invece, il caso di aziende orientate ad anticipare o addirittura influenzare gli eventi esterni, che in generale si muovono in funzione di piani chiaramente definiti. La strategia, dunque, un comportamento imprenditoriale di lungo tempo finalizzato al raggiungimento di obiettivi primari della gestione. il mezzo per conseguire traguardi di tempo non breve, definiti in funzione dellevoluzione del rapporto tra limpresa e lambiente in cui questa opera. La strategia si caratterizza per tre elementi fondamentali: 1. formulazione a livello alto-direzionale; 2. proiezione a lunga scadenza; 3. priorit dei traguardi da raggiungere. Le strategie aziendali si ordinano secondo una gerarchia: al vertice le strategie complessive (del tipo corporate), limpresa deve scegliere i campi o le aree di affari in cui operare secondo una strategia complessiva, che pu essere di sviluppo o di mantenimento delle sue posizioni, ma devono anche stabilire i comportamenti da assumere nei confronti della concorrenza in ciascuna delle aree prescelte; al centro le strategie competitive, limpresa deve definire gli obiettivi e le politiche da adottare nei confronti della concorrenza in ciascuna delle aree di affari; alla base le strategie funzionali (strategie di produzione, di vendita, di finanza, ecc.), cio limpresa definisce le modalit di attuazione delle funzioni di gestione. Questo inquadramento gerarchico non deve far perdere di vista la stretta interrelazione tra i vari piani strategici perch, in realt, le scelte pi generali (settori o aree di affari) possono essere legate ad una particolare strategia funzionale (ad es. quella dell'efficienza di produzione o quella della ricerca e sviluppo) che influenza la strategia competitiva e che induce ad entrare in quel certo mercato.
CAPITOLO SESTO. LE STRATEGIE COMPETITIVE.
1. Il rapporto tra strategia complessiva e strategia competitiva. Le scelte strategiche aziendali sono sempre guidate dalla preventiva valutazione delle possibilit di successo a livello di mercato. cio chiaro che la strategia complessiva o corporate deriver, innanzi tutto, dalle decisioni di mercato che l'imprenditore prender in base agli obiettivi di lungo termine da perseguire. Pur sussistendo un rapporto gerarchico tra le strategie complessive e quelle competitive saranno sempre queste ultime che influenzeranno le prime. In altre parole, la decisione di essere presenti in pi mercati o aree d'affari non potr che essere sempre fondata sulle probabilit di competere efficacemente in quei mercati o in quelle aree di affari. La strategia complessiva verr cos a configurarsi quale risultato ultimo delle strategie competitive applicabili con successo. Per questo motivo, nell'esposizione successiva partiremo dall'analisi delle strategie competitive e, successivamente, ci occuperemo delle strategie complessive. 2. I paradigmi teorici per la definizione della strategia competitiva. La decisione d'ingresso in un mercato , dunque, legata allo studio delle caratteristiche di quest'ultimo e alla possibilit non solo di entrare, ma di rimanervi e, con le risorse disponibili, competere efficacemente. In teoria, stato molto dibattuto il peso relativo di elementi esogeni ed endogeni nella formulazione della strategia competitiva. L'interrogativo stato difatti risolto in virt di differenti paradigmi che si sono affermati nel tempo. Secondo gli studiosi cosiddetti strutturalisti, la struttura del mercato che incide sul comportamento delle imprese ed quest'ultimo che, a sua volta, influenza il risultato della gestione aziendale. Da ci il paradigma & struttura-condotta- performance. Il paradigma SCP viene per criticato da coloro che ritengono che sia invece il comportamento delle imprese a influire sula struttura del mercato e sostengono che al vecchio paradigma dovrebbe sostituirsi il nuovo condotta-struttura-performance. L'impresa nella nuova teoria economica vista, in realt, come elemento che influenza l'ambiente, che produce degli output che finiscono per modificare il settore in cui opera, e non come soggetto che risente dell'ambiente e che deve semplicemente adattarsi ad esso. Secondo tale impostazione concettuale, le condotte aziendali influiscono quindi sulle strutture (ambiente) e producono, in base all'adattamento di queste, i loro risultati. Dall'altro verso, viene per sostenuto che anche l'impresa abituata ad operare a livello mondiale ha perso parte del suo potere sull'ambiente, per effetto dell'eccezionale allargamento delle aree di mercato e del ruolo degli organismi sovranazionali (nel nostro caso l'Unione Europea) nella determinazione delle regole competitive. In pratica, il rapporto di cui si parla, sempre un rapporto di interdipendenza perch raro potere rinvenire un'impresa del tutto libera da condizionamenti esterni nella formulazione dei suoi comportamenti di mercato; cos come lontano dalla realt immaginare un'impresa, piccola o grande che sia, del tutto incapace di influenzare almeno in parte le condizioni del mercato specifico in cui ha scelto di operare. Va per altro osservato che l'ampiezza e l'intensit del ruolo giocato dall'impresa si legano non solo alle sue caratteristiche (dimensione, capacit imprenditoriali o manageriali), ma anche all'effettiva possibilit d'incidere sul settore in cui o vorrebbe collocarsi. Come viene precisato in teoria, la struttura latente o potenziale che conferisce maggiore o minore peso alla discrezionalit strategica dell'impresa. Al paradigma SCP (a cui, come vedremo, si riallaccia il noto modello della concorrenza allargata di Porter) tende quindi a sostituirsi un altro paradigma fondato sulle capacit (risorse) dell'impresa a influenzare i risultati gestionali. Il nuovo paradigma RCP (risorse-condotta-performance) sostiene che sono le risorse specifiche possedute dall'impresa che sostengono le condotte suscettibili di generare cambiamenti settoriali che, modificando le regole del gioco, migliorano le probabilit di successo dell'impresa. La resource- based theory fa riferimento proprio a questo paradigma. Ma la teoria sullo sviluppo dell'impresa ha contribuito a delineare anche un altro modello. Quest'ultimo quello Knowledge-Capabilities-Performance (KCP), secondo il quale sono le conoscenze, prodotte dall'interazione sociale, che si accumulano nell'impresa a produrre capacit in grado di ispirare condotte suscettibili di generare successo competitivo. 3. L'analisi di settore secondo lo schema della concorrenza allargata Uno dei pi noti schemi di analisi di settore quello comunemente noto come schema delle cinque forze o della concorrenza allargata, dovuto al Porter. Il modello Porteriano della concorrenza allargata basato sulle cinque forze competitive fa difatti riferimento al paradigma strutture-condotta-risultato perch parte dell'analisi della struttura per delineare la strategia competitiva mirata al pi appropriato posizionamento di mercato. Secondo Porter, la scelta di un mercato guidata non solo dalla relativa attrattivit, cio dalle tendenze espansive della domanda e dai margini lucrabili, ma anche dalla posizione competitiva che l'azienda potr assumere. In particolare l'attrattivit di un settore potr essere valutata analizzando cinque forze che interagiscono e determinano, in generale, condizioni di minore o maggiore attrattivit. Le cinque forze competitive sono: la rivalit tra i concorrenti presenti (concorrenza reale); l'entrata di nuovi concorrenti (concorrenza potenziale diretta); la minaccia di sostituti dei prodotti (concorrenza potenziale indiretta); il potere contrattuale dei clienti; il potere contrattuale dei fornitori. In altri termini, lo schema di Porter amplia il concetto di concorrenza (dalla concorrenza reale a quella potenziale diretta e indiretta) e inserisce, oltre alla forza dei clienti, quella dei fornitori. Le cinque forze determinano la redditivit del settore e, quindi, la minore o maggiore attrattivit per le imprese che gi operano al suo interno e per quelle che vorrebbero entrarvi. Nel modello Porteriano il ruolo centrale attribuito alle barriere di mercato ovvero agli ostacoli che si frappongono all'ingresso in un particolare spazio di mercato (barriere all'entrata), all'allargamento di questo spazio (barriere di mobilit) e anche all'uscita dallo spazio occupato (barriere all'uscita). 4. Le barriere alla concorrenza. Nella definizione della strategia competitiva fondamentale, dunque, l'analisi delle barriere alla concorrenza. Fermandoci per ora sulle barriere all'entrata la definizione pi nota e generale quella proposta da Stigler secondo cui esse sono un costo che dev'essere sopportato da un'impresa che vorrebbe entrare in un certo settore industriale, ma che non sopportato dalle imprese gi operanti all'interno di tale settore. Le barriere si distinguono in esterne e interne: esterne quando impediscono l'ingresso di nuovi competitori; interne quando tutelano la posizione di ciascun produttore nei confronti delle azioni espansive degli altri produttori presenti nel mercato. Per valutare la possibilit di superare tali barriere, occorre conoscere se esse si colleghino: 1. alle economie ottenibili nelle funzioni di gestione; 2. alla disponibilit di brevetti e know-how; 3. alla scarsezza di fattori produttivi essenziali; 4. alla differenziazione dei prodotti; 1) Le economie ottenibili nelle funzioni di gestione possono distinguersi in: economie di scala: il fenomeno della diminuzione dei costi unitari di produzione e di vendita allaumentare delle quantit prodotte. In alcuni mercati, la dimensione minima delle operazioni elevata, perch se non si raggiungono certi volumi produttivi, non si possono avere costi competitivi e assumere una sufficiente quota di mercato, dunque il competitore incontrer delle barriere allingresso poich deve organizzare inizialmente la sua attivit su un elevato livello dimensionale; economie di apprendimento: maturano attraverso lesperienza acquisita dallimpresa che permette una maggiore razionalizzazione dei comportamenti aziendali. Il produttore che intende inserirsi nel nuovo mercato, si trova in condizioni di inferiorit rispetto agli altri produttori gi presenti da tempo nel mercato, rappresentando cosi un ostacolo allingresso; economie di scopo: sono i vantaggi che derivano dai risparmi ottenibili dalle sinergie ovvero dallo svolgimento in comune di pi attivit; economie di relazioni: sono i vantaggi che unimpresa pu avere dall'instaurazione di rapporti di fiducia con clienti e fornitori, che contribuiscono a migliorare le posizioni di mercato. 2) Le barriere, in alcune situazioni, possono esistere perch il patrimonio tecnologico si concentra nelle mani di uno o di pochi imprenditori. Il possesso di brevetti o know-how impedisce lentrata di concorrenti fin quando non sia possibile sfruttare tali diritti intangibili o per il ricorso a brevetti e know-how sostitutivi. 3) Se si considerano i diritti fra i fattori di produzione, si pu includere questo tipo di barriera fra quelle dipendenti dalla scarsezza di risorse essenziali. Il monopolio dei fattori produttivi essenziali da parte dei produttori presenti, finisce per elevare una barriera allingresso nel mercato di nuovi competitori in quanto non resta alcuna disponibilit per coloro che aspirerebbero ad entrarvi. 4) Il fattore differenziazione si pu congiungere con quello della concentrazione (economie di scala) e generare degli ostacoli allingresso del mercato. Questo consentir a ciascun produttore di isolarsi rispetto agli altri concorrenti: pi forte sar la differenziazione del prodotto, pi sar maggiore il grado di isolamento e di indipendenza della concorrenza. La conoscenza delle cause delle barriere all'entrata esige dunque l'inserimento nel modello porteriano del ruolo delle risorse (le attivit, capacit, competenze, processi organizzativi, caratteristiche aziendali, informazioni e conoscenze, che sono controllate dallazienda) perch la decisione se entrare o non entrare in un certo spazio di mercato sar condizionata dall'idoneit delle risorse a superare gli ostacoli per l'ingresso e ad acquisire una vantaggiosa posizione competitiva (resource-based theory). Al riguardo, ancora il caso di rilevare l'influenza sulla decisione finale delle barriere all'uscita che, vincolando le imprese a permanere nel mercato, finiscono per irrigidire e, spesso, turbare i comportamenti concorrenziali. Le barriere all'uscita, create da vincoli sociali (l'impossibilit di fallire per salvaguardare l'occupazione) o economici (la difficolt del disinvestimento), rendono rigide le situazioni di mercato, penalizzando quindi tutte le imprese presenti. Sotto questo profilo, dunque, alte barriere all'uscita finiscono per tramutarsi anche in elevate barriere all'entrata perch possono dissuadere i nuovi entranti ad inserirsi in un mercato dal quale risulter poi difficile l'eventuale uscita. Prima di concludere, il caso di accennare ad un altro modello di analisi del mercato rappresentato dalla definizione del business ossia della porzione di mercato in cui l'azienda intende operare. La definizione del business pu avvenire secondo Abell sulla base di tre elementi principali: i gruppi di consumatori cui rivolgersi, le funzioni d'uso da soddisfare e le modalit (tecnologie) secondo cui tali funzioni sono assolte. In effetti, Abell osserva che uno stesso prodotto pu rispondere a differenti funzioni d'uso e che queste ultime possono essere soddisfatte mediante tecnologie differenti, per cui l'obiettivo di mercato pu essere chiaramente definito in rapporto a questo schema tridimensionale. Se, ad esempio, un'impresa produttrice di imballaggi ponesse in vendita imballaggi in carta per prodotti alimentari solidi e in plastica per prodotti alimentari liquidi, avrebbe scelto due gruppi strategici di clienti (produttori di alimenti solidi e produttori di alimenti liquidi confezionati), soddisfacendo due differenti funzioni d'uso (nell'ipotesi che l'imballaggio in carta, opportunamente stampato, abbia una funzione prevalentemente promozionale, mentre quello in plastica sia utilizzato esclusivamente per il trasporto del prodotto), mediante due diverse tecnologie. Facendo dunque riferimento allo schema di Abell l'impresa pu a seconda dei casi servire pi gruppi di clienti e soddisfare differenti funzioni d'uso del prodotto venduto con l'applicazione di diverse tecnologie produttive. Viene superata, in tal modo, la tradizionale definizione di settore merceologico per giungere ad una definizione del business che, per un verso ha carattere pi ristretto (solo i gruppi di clienti, le funzioni d'uso e le tecnologie che interessano l'azienda) e, per l'altro, ha una connotazione pi ampia (in quanto le tre dimensioni indicate possono far riferimento anche a pi di un settore merceologico). 5. Il superamento delle barriere: la catena del valore. La formulazione della strategia competitiva, partendo ancora dallo schema della concorrenza allargata, pu fondarsi sempre secondo Porter sulla catena del valore. Lo studioso sostiene, difatti, che l'azienda, con la sua attivit, crea un valore per il cliente, valore che misurato dal prezzo che questi paga o sarebbe disposto a pagare per il prodotto. Il valore creato si distingue in due parti: i costi sopportati per la prestazione delle attivit necessarie a progettare, produrre, vendere, distribuire e fornire assistenza e il margine che rimane all'azienda. Il maggior valore, e quindi la pi ampia differenza tra prezzo e costi, deriverebbe cos dalla maggiore efficienza nella prestazione delle attivit. Il concetto di catena del valore aiuta, in pratica, a comprendere quali sono le fonti del vantaggio competitivo, pervenendo ad una distinzione delle funzioni di gestione in due gruppi: le attivit primarie e le attivit di supporto. Le attivit primarie sono suddivise nella logistica interna, nell'attivit di trasformazione, nella logistica dei rapporti con l'esterno, nel marketing e vendite e nei servizi (soprattutto assistenza post-vendita). Le attivit di supporto, cos chiamate perch intese a fornire le basi per la concreta realizzazione delle attivit primarie, sono invece costituite dall'approvvigionamento, dallo sviluppo delle tecnologie, dalla gestione delle risorse umane e dalle attivit infrastrutturali dell'impresa. Tra queste la quarta contiene una pluralit di compiti, come quelli contabili, finanziari e legali, che insieme con il sistema direttivo (programmazione, organizzazione e controllo) danno sostegno alla catena nel suo complesso. L'infrastruttura dell'impresa finisce, in tal modo, per essere costituita dalle funzioni che, secondo Porter, rappresentano la premesse per l'efficace attuazione delle attivit primarie e delle altre attivit di supporto. In altri termini, il concetto teorico di catena del valore consente di identificare specificatamente le cause del vantaggio competitivo, che a seconda dei casi possono essere rinvenute nella progettazione (differenziazione) del prodotto, nell'efficienza del sistema di produzione, nell'economicit delle funzioni di approvvigionamento e nell'efficacia del marketing. Inoltre, come si in precedenza osservato, nella creazione del vantaggio durevole non poco peso va infine attribuito alle altre attivit infrastrutturali e, in particolare, all'efficacia del sistema di direzione aziendale. 6. La formulazione della strategia competitiva. L'impresa, dunque, pu costruire il suo vantaggio competitivo o perch in grado di realizzare con maggiore efficienza le attivit inserite nella catena del valore o perch riesce a differenziare la sua offerta. Nell'analisi della competizione punto obbligato di partenza il concetto di differenziazione produttiva. Questo concetto ha difatti assunto un ruolo centrale, in quanto con la sua affermazione caduto uno dei presupposti essenziali della concorrenza perfetta. Questo, com' noto, legata alla condizione dell'omogeneit dei prodotti offerti sul mercato, cio all'impossibilit di differenziarli. In questo caso l'elemento determinante di scelta il prezzo, che, se si verifica una situazione di perfetta trasparenza del mercato, si colloca nel punto di incontro delle curve di domanda e di offerta. Ma la condizione di omogeneit dei prodotti e dei venditori dev'essere considerata l'eccezione piuttosto che la regola, con la conclusione che, salvo forse nel caso di certe materie prime, difficile trovare dei mercati in cui non vi siano prodotti differenziati. La differenziazione del prodotto sotto il profilo fisico, tecnico, estetico o semplicemente psicologico (creazione di un'immagine della marca) costituisce, dunque, la situazione ricorrente e conduce al concetto di sub-mercato, che occorre brevemente richiamare. L'esistenza di prodotti differenziati comporta, in realt, il frazionamento del mercato in tanti sub-mercati, ciascuno dei quali in certi limiti separato dagli altri. Il grado di isolamento e di indipendenza crescer all'aumentare della differenziazione del prodotto. Il concetto di sub-mercato caratterizzato, in effetti, dall'esistenza di una domanda che, essendo attratta da certi elementi distintivi del prodotto, si rivolger preferibilmente all'offerta di alcune imprese, le quali godranno di un vantaggio rispetto alle altre. L'obiettivo sar, pertanto, quello di scavarsi una nicchia nel mercato, cio di disporre di un proprio spazio di mercato nel quale potersi muovere in posizione quasi monopolistica. chiaro, tuttavia, che tale posizione sar, in ogni caso, relativa per due ragioni: 1) perch i vantaggi connessi con la differenziazione del prodotto potranno essere controbilanciati da altri strumenti concorrenziali (prezzo, condizioni di pagamento, ecc.); 2) perch i migliori requisiti di qualit o di prestazioni del prodotto potranno essere annullati mediante la loro imitazione da parte dei concorrenti. In pratica, il vantaggio competitivo potr essere conseguito puntando su: - leadership di costo: strategia competitiva attraverso cui le imprese cercano di ottenere un vantaggio competitivo attraverso la riduzione dei costi rispetto ai concorrenti (esempio: compagnie aeree low-cost); - differenziazione dell'offerta: strategia competitiva attraverso cui le imprese cercano di ottenere un vantaggio competitivo incrementando il valore percepito dei prodotti o dei servizi rispetto a quelli di altre aziende, conferendo appunto al prodotto caratteristiche di unicit, reali o percepite (esempio: Alitalia); - focalizzazione o specializzazione di mercato: strategia competitiva attraverso cui le imprese si posizionano in nicchie di mercato, meno attrattive per altri concorrenti, in cui riescono ad ottenere vantaggi competitivi (esempio: piccola compagnia aerea delle Seychelles). Conseguenza di tutto ci che, in funzione delle strategie competitive prescelte, si formeranno gruppi di concorrenti, che si isoleranno tra di loro pur operando all'interno dello stesso mercato. Questo concetto di raggruppamento strategico, come insieme di imprese che perseguono strategie simili e che quindi sono in diretta concorrenza, comporta la possibilit di svolgere un'azione attiva sulla struttura del mercato e, di conseguenza, si riflette sulla forte attenuazione della portata del paradigma struttura-condotta performance. C' in conclusione da osservare che le barriere all'entrata, di cui si discusso in precedenza, non sono soltanto un dato oggettivo, che contraddistingue il funzionamento di un certo mercato, ma dipendono anche dalle condizioni soggettive dell'impresa. La resource-based theory ha posto perci al centro dell'analisi competitiva la specificit di ciascuna impresa in termini di risorse, capacit e competenze anzich partire dall'analisi classica agganciata alla struttura del settore. Le risorse aziendali sono definite da Barney come tutte le attivit, le capacit, le competenze, i processi organizzativi, le caratteristiche aziendali, le informazioni, le conoscenze e cos via, che sono controllate dall'azienda e che le permettono di formulare e implementare strategie che ne migliorano l'efficacia e l'efficienza. In base al patrimonio di risorse possedute ogni impresa pu dunque tentare di conquistare un vantaggio competitivo durevole. Naturalmente, la sua forza sar tanto maggiore quanto pi potr mettere in campo delle competenze distintive. intuibile, difatti, che non tutte le risorse sono uguali in termini competitivi e che bisogner puntare su quelle che potranno effettivamente assicurare un vantaggio durevole. A tale fine, certamente di ausilio lo schema messo a punto da Barney per definire la posizione di forza e di debolezza competitiva dell'impresa, noto come la VRIO analysis. Questa analisi si fonda sulla valutazione delle risorse o capacit aziendali formulata in base al loro impatto sul valore finale del prodotto o servizio offerto, alla loro rarit, alla loro imitabilit e, infine, alla capacit di sfruttarle da parte dell'organizzazione. Valore, rarit, non imitabilit e durevolezza combinandosi variamente, generano situazioni di svantaggio, parit, vantaggio temporaneo e vantaggio durevole nei confronti della concorrenza. Pi le risorse possedute dall'impresa sono di maggior impatto sul valore, meno diffuse, difficilmente imitabili e poco sfruttabili da parte di altre organizzazioni, pi consistente e permanente diviene il vantaggio competitivo. Sviluppando questo tipo di analisi, l'impresa sar in grado di pervenire efficacemente alla formulazione della propria strategia competitiva. In pratica, l'analisi per la formulazione della strategia competitiva ricorrentemente basata sul cosiddetto modello SWOT (strenght, weakness, opportunity, threat, cio forza, debolezza, opportunit, minaccia), che suggerisce di prendere in considerazione i punti di forza e di debolezza dell'impresa in rapporto alla possibile evoluzione del mercato e dell'ambiente, da cui potranno derivare opportunit favorevoli o minacce. Sar proprio tale evoluzione che, se correttamente prevista, consentir di valorizzare i punti di forza e di attenuare l'impatto negativo dei punti di debolezza. Cos operando, l'impresa riuscir a formulare quella strategia competitiva che le permetter di trarre vantaggio dalla dinamica del mercato servito o di quello in cui vorr inserirsi e, allo stesso tempo, di ridurre i rischi di fallimento o di uscita dal mercato di riferimento. 7. Le strategie competitive e l'equilibrio fra la domanda e l'offerta: il mercato del venditore e il mercato del compratore. Il controllo del mercato legato alla domanda e allofferta, ma anche allequilibrio tra potenzialit di produzione e capacit di assorbimento che vi tra di essi. Difficilmente vi un equilibro perfetto. Quando questo equilibrio non si realizza il mercato pende a vantaggio del produttore o del consumatore. Mercato del venditore: se la domanda supera lofferta, i produttori assumeranno una posizione di vantaggio perch non sopporteranno rischi di vendita dei loro prodotti e potranno godere di una situazione di concorrenza fra gli acquirenti, che dovranno competere tra di loro per ottenere i beni disponibili. Il venditore avr in pugno il mercato e potr stabilire le condizioni di acquisto dei beni e concentrare i suoi sforzi sulla gestione tecnico-finanziaria. Mercato del compratore: si avr nel caso di una eccedenza dellofferta, cio quando lofferta superiore alla domanda, in quanto i produttori dovranno competere tra di loro per acquisire la domanda disponibile. Saranno i compratori a decidere cosa acquistare e decreteranno il successo o linsuccesso delle singole imprese produttrici. Quindi il venditore deve attuare una gestione in chiave di marketing per fronteggiare in modo adeguato i bisogni ed i gusti dei consumatori. CAPITOLO 7 LA STRATEGIA COMPLESSIVA (CORPORATE) E I PERCORSI DI SVILUPPO AZIENDALE. 1. Le opzioni strategiche. Nel capitolo precedente si sono posti in rilievo gli stretti collegamenti tra la strategia competitiva e quella complessiva, sottolineando che l'ingresso in una particolare area di affari subordinata all'opportunit di potere competere all'interno di essa con adeguate probabilit di successo. Nell'esaminare in particolare il percorso di sviluppo dimensionale dell'impresa si considerato il peso delle risorse, intese come capacit distintive, che costituiscono gli elementi propri di ciascuna impresa e ne determinano l'eccellenza e, quindi, il successo. L'impresa, come sappiamo, pu costruire su di esse il vantaggio competitivo rispetto alle altre imprese operanti nello stesso mercato. In definitiva, le competenze distintive, concorrendo alla creazione del vantaggio competitivo, diventano determinanti per la scelta della strategia complessiva da adottare. Normalmente, si tende a perseguire un obiettivo di crescita dimensionale dell'impresa perch, come vedremo, l'espansione conduce al rafforzamento della compagine aziendale. Questo obiettivo di sviluppo dimensionale potr per essere subordinato ad alcune condizioni o vincoli qualitativi, il cui peso finir nel trasformare proprio nella rimozione di questi ultimi gli obiettivi primari da conseguire. L'imprenditore, infatti, potrebbe puntare a migliorare gli equilibri di gestione, nel triplice aspetto economico, patrimoniale e finanziario, oppure mirare soprattutto ad una riduzione del rischio complessivo di gestione. La scelta strategica, orientata dalle previsioni e dagli obiettivi fissati, dovr essere poi supportata dalla struttura organizzativa aziendale. Quando ci non avviene, l'attuazione della strategia pu incontrare ostacoli tali da compromettere i risultati a cui tende.
2. Una tipologia semplificata delle strategie complessive.
La strategia complessiva dipende, dunque, dagli obiettivi che l'impresa si pone in funzione della situazione in cui si trova e dalle opzioni strategiche effettivamente disponibili. In linea teorica, si pu ipotizzare una serie di combinazioni tra l'andamento del mercato e lo stato di equilibrio o squilibrio aziendale, rispetto al quale si verranno a configurare distinti obiettivi di carattere strategico complessivo. Tra le strategie complessive possibile distinguere tre percorsi alternativi: il percorso di sviluppo dimensionale, che in teoria dovrebbe essere comune a tutte le imprese perch caratteristico di una gestione fisiologica protesa allespansione delle attivit aziendali, ma che in realt pi percorribile per un'impresa in buona salute. il percorso del risanamento, tipico di organismi caratterizzati da squilibri strutturali su cui bisogna intervenire con rapidit ed efficacia (impresa in crisi); il percorso del rafforzamento o dellassestamento, basato sulla maggior prudenza nella gestione delle risorse e alla difesa delle posizioni occupate in periodi non favorevoli (posizione intermedia). 3. Il processo di sviluppo dimensionale. In uno dei capitoli della parte precedente si a lungo discusso sulle finalit che gli imprenditori tendono a privilegiare nello svolgimento della gestione, ponendo in rilievo che chi governa l'impresa pu, tra l'altro, puntare al massimo profitto oppure impostare le sue scelte sulla massimizzazione delle vendite, mirando in questo caso direttamente allo sviluppo dimensionale. In quella sede si osserv, tuttavia, che nel tempo lungo queste due finalit dovrebbero divenire coincidenti perch il massimo profitto non pu che essere raggiunto mediante lo sviluppo delle dimensioni aziendali e viceversa. Il parlare, dunque, di strategie di sviluppo non contraddice l'impostazione prospettata in precedenza, ma richiede una necessaria precisazione concettuale. Una conclusione, infatti, che si d generalmente per scontata, ma che in effetti si presta ad alcune riflessioni, la coincidenza tra i concetti di sviluppo e di crescita del sistema aziendale. Molto spesso, infatti, per sviluppo si intende lo sviluppo dimensionale, cio un fatto prevalentemente quantitativo. Esso invece pu essere definito nella sua accezione filosofica di movimento verso il meglio- come un processo soprattutto qualitativo ovvero di evoluzione dei rapporti tra l'impresa e l'ambiente. Se il concetto accolto in questi termini, trova anche anche una migliore giustificazione l'affermazione circa la generale propensione dell'impresa verso lo sviluppo. Non detto, infatti, che tutte le aziende perseguono la finalit della crescita, in quanto un aumento significativo della dimensione operativa genera una serie di problemi di ordine gestionale e organizzativo. Si pensi, in particolare, al caso della piccola impresa che, divenuta media, assumerebbe una nuova posizione sia agli occhi della clientela sia a quelli dei competitori; posizione che non sempre potrebbe rivelarsi pi conveniente e meno rischiosa. La conclusione del ragionamento che la crescita dovrebbe comportare lo sviluppo, mentre non sempre vero il contrario. Tuttavia, nella prevalenza dei casi, il processo assume contemporaneamente aspetti qualitativi e quantitativi, per cui si pu giustificare l'interpretazione pi ricorrente richiamata in apertura di discorso. Anche se taluni autori hanno sollevato dei dubbi sul rapporto diretto fra dimensione e redditivit aziendale, la dottrina abbastanza concorde sul fatto che la crescita pu contribuire ad ampliare il divario ricavi-costi, operando su entrambi i termini del rapporto. Da un lato, essa permette di acquisire un maggiore peso nel mercato e, dall'altro, rende possibili certe economie di scala, che si collegano non solo al momento tecnico o produttivo, ma che investono le operazioni distributive, finanziarie, di ricerca, ecc. Importante , inoltre, il concetto di curva di apprendimento per individuare un altro fondamentale vantaggio della crescita. Si gi osservato, infatti, che pi aumenta il volume di vendita pi migliora per effetto dell'esperienza il livello di efficienza della produzione e, quindi, pi decrescono i costi unitari di prodotto. Quando si estende il concetto della curva di apprendimento al di l della sola funzione produttiva, per coinvolgere gli effetti positivi riscontrati anche nelle altre funzioni di gestione (marketing, amministrazione, ecc.), si preferisce parlare di curva di esperienza. Obiettivi di fondo dello sviluppo dimensionale sono, pertanto, l'ottimizzazione dell'uso delle risorse aziendali e l'acquisizione di un peso contrattuale crescente nei confronti dei consumatori, dei concorrenti, dei fornitori, dei distributori e via elencando. Lo sviluppo dimensionale rappresenta anche un mezzo per il successo sociale dell'imprenditore perch, come si illustrato in precedenza, alla crescita spesso si accompagna l'aumento di potere e di prestigio per chi governa l'impresa. Un'azienda che cresce assume una maggiore visibilit e rappresenta una testimonianza concreta del positivo andamento della gestione e delle buone capacit imprenditoriali. Tutto il ragionamento precedente sottende, per, una condizione che non possibile dare agevolmente per scontata. La condizione che il processo di crescita sia correttamente concepito ed efficacemente attuato, che cio con esso l'impresa sia in grado di avvantaggiarsi delle sue potenzialit strutturali e della favorevole evoluzione dell'ambiente. Se, infatti, qualsiasi tipo di crescita dovesse condurre automaticamente ai risultati positivi cui prima si faceva cenno, non si spiegherebbero poi i tanti casi di crisi aziendali a seguito della realizzazione di processi di sviluppo. La crescita assume, comunque, un rilievo tale nell'interpretazione dei comportamenti imprenditoriali, da indurre a dedicare una particolare attenzione alle strategie di sviluppo dimensionale. Nel processo di sviluppo dimensionale si verificano vantaggi e svantaggi, per cui le decisioni di crescita dovrebbero correttamente scaturire dalla valutazione prospettica di entrambi. I vantaggi si collegano soprattutto al miglioramento del rapporto tra costi e ricavi di gestione, mentre gli svantaggi derivano solitamente dalle eventuali diseconomie di scala (aumento dei costi unitari al crescere del volume di produzione e di vendita), dalla maggiore rigidit che si accompagna abitualmente ad un ampliamento della struttura aziendale, dall'incapacit di mantenere il necessario grado di controllo sulla gestione e, infine, dalla maggiore visibilit di mercato tipica delle imprese pi grandi. Quest'ultima pu rappresentare uno svantaggio perch le azione competitive diventano pi incisive e possono generare controreazioni pericolose da parte della concorrenza. Com' messo in evidenza nella tabella, l'attivazione del processo di espansione pu incontrare dei limiti interni (o strutturali) ed esterni. Questo un punto di particolare rilievo sotto il profilo concettuale perch tende a correggere l'impostazione tradizionale secondo cui le opportunit di crescita sarebbero collegate alla favorevole evoluzione dell'ambiente e del mercato. In sostanza, seguendo questo concetto, si giungerebbe ad affermare che gli stimoli principali verso lo sviluppo sarebbero rappresentati dal presentarsi di nuove occasioni di mercato (ad esempio, la liberalizzazione degli scambi internazionali nel particolare settore in cui opera l'impresa, il fallimento di un concorrente, ecc.). Ora, anche se in certi casi questa conclusione pu essere condivisa, non si pu nemmeno accettarla cos com', ma bisogna integrarla osservando che le opportunit di sviluppo dovrebbero essere ricercate partendo da situazioni di natura prevalentemente interna. Ad esempio, un'impresa con un eccesso di capacit di produzione e di distribuzione pu porsi il problema di sfruttare meglio le risorse disponibili cercando nuovi sbocchi di mercato, ampliando la gamma produttiva, ecc. Secondo quest'ottica, che peraltro si riallaccia all'evoluzione dei paradigmi teorici descritti nel capitolo precedente, gli stimoli della crescita proverrebbero principalmente dall'interno della struttura (le risorse). La ricerca all'esterno di concrete opportunit di sviluppo sarebbe pertanto successiva e si tradurrebbe nell'individuazione dei campi di attivit in cui poter impiegare le capacit sottoutilizzate. 4. I percorsi di sviluppo: la formulazione della strategia complessiva. Le strategie di espansione si differenziano soprattutto rispetto al rapporto prodotto/mercato, cio alla permanenza, al superamento o all'allargamento delle relazioni fra i prodotti fabbricati e i mercati serviti. Le alternative di fondo sono rappresentate dalla concentrazione o diversificazione delle attivit gestite, cio dalla preferenza per percorsi di sviluppo che aumentino il peso delle attivit gi esercitate o che, invece, estendano il portafoglio prodotti/mercati. Nel primo caso l'espansione nei business esistenti punta a sfruttare al meglio il bagaglio di competenze e di esperienze gi posseduto dall'impresa; nel secondo, la diversificazione ai nuovi business mira a valorizzare positivamente le interrelazioni tra vecchie e nuove aree di affari (diversificazione correlata) oppure si propone soprattutto di ridurre il rischio globale di gestione (diversificazione conglomerale). La crescita, tuttavia, pu essere ancora perseguita allargando l'area di mercato, cio introducendosi in nuove zone di vendita. Questo tipo di sviluppo assume maggiore importanza allorch realizzato a livello internazionale. In tal caso si pu parlare, infatti, di un processo di diversificazione internazionale, che si pone con caratteristiche peculiari, meritevoli di essere partitamente esaminate. Volendo schematizzare si possono dunque individuare tre strategie fondamentali di sviluppo dimensionale. In particolare, lo sviluppo monosettoriale si realizza mediante processi di integrazione orizzontale e verticale, quello di tipo polisettoriale assume le forme della diversificazione laterale e conglomerale e, infine, lo sviluppo di tipo internazionale si pu concretare in un processo di <i>espansione internazionale del mercato o di espansione multinazionale della gestione. 5. La strategia di sviluppo monosettoriale. Lo sviluppo di tipo monosettoriale ha lo scopo di rafforzare la posizione dellimpresa, soprattutto nellambito del mercato in cui opera. Conduce, quindi, ad un processo di concentrazione, che pu aver luogo nello stesso stadio in cui agisce l'impresa o in stadi immediatamente adiacenti. Nella prima ipotesi si configura un processo di sviluppo orizzontale, mentre nel secondo si ha un processo d'integrazione verticale. La differenza sostanziale, fra i due, che lo sviluppo orizzontale porta ad un ampliamento del volume d'affari relativamente al processo terminale gi attuato dall'organizzazione e quello verticale si traduce in un'espansione delle operazioni nell'mbito di stadi posti a monte o a valle di tale processo. 5.1. Lo sviluppo orizzontale. La strategia di sviluppo orizzontale dell'attivit aziendale pu essere attuata mediante un'espansione interna dell'organizzazione oppure con un processo esterno di acquisizione di imprese similari. In questo secondo caso si parla pi appropriatamente di integrazione orizzontale, in quanto si ha di fatto un raggruppamento di pi organizzazioni operanti nello stesso mercato. In proposito, bisogna svolgere due considerazioni. La prima che solo nel secondo caso lo sviluppo porter sicuramente ad una corrispondente variazione della quota di mercato dell'impresa che promuove il processo (ci si ottiene completando la gamma di prodotti trattati, ampliando il numero di segmenti di mercato serviti o allargando l'area geografica di vendita, e di conseguenza intuibile come le operazione di acquisizione si rivolgano preferibilmente ad aziende concorrenti che permettono di avere ci) , e l'altra che per stesso mercato deve intendersi un complesso di produzioni legate appunto da stretti vincoli di domanda e di offerta. La crescita in senso orizzontale si distingue, rispetto ad altre forme di sviluppo, perch richiede generalmente tempi meno lunghi di attuazione e implica rischi meglio valutabili da parte degli organi imprenditoriali. Il suo principale vantaggio si dovrebbe avere sotto il profilo delle economie di costo, che si possono distinguere in economie di dimensione (o di scala) e di espansione: le prime collegate, come sappiamo, ai risparmi di costo o, per meglio dire, alla pi economica utilizzazione di certi fattori produttivi per effetto di una maggiore scala di operazioni; le seconde relative all'onerosit dello stesso processo di espansione (per esempio la possibilit di attuare a costi sopportabili, ossia con costi che incidono proporzionalmente di meno sul conto economico aziendale, il programma di promozione, per consentire il desiderato ampliamento dimensionale). Le economie di espansione facilitano, dunque, l'espansione stessa e possono o no generare economie di dimensione. Queste ultime sono infatti la conseguenza dello sviluppo, giacch si ottengono solo dopo che l'espansione si verificata. I fattori chiave per l'attuazione delle strategie di sviluppo orizzontale sono le capacit di marketing, che consentono di realizzare una politica di spinta nel mercato, e quelle finanziarie, che forniscono le risorse di capitale necessarie per l'espansione. Per quanto riguarda il rischio di gestione, la sua natura rimane sostanzialmente immodificata perch l'impresa continua ad operare nello stesso mercato. Ovviamente ci non riguarda il rischio implicito in qualsiasi processo di sviluppo, in quanto una cosa il rischio che l'impresa corre ad espansione avvenuta (rischio di gestione), un'altra cosa quello ch'essa sopporta per puntare e riuscire ad espandersi. 5.2. L'integrazione verticale e la teoria dei costi di transazione. Lo sviluppo verticale si ha quando un'impresa assume il controllo di uno stadio di produzione o di distribuzione immediatamente collegato a quello in cui gi opera. Essa pu indirizzarsi a monte dello stadio occupato (caso dell'integrazione verticale ascendente) o a valle (caso dell'integrazione discendente). Nello stesso settore produttivo si ritrovano, pertanto, imprese pi integrate, ovvero che hanno maggiormente internalizzato la produzione di beni e servizi da impiegare nel ciclo produttivo fondamentale, e imprese che invece hanno preferito concentrarsi sul processo base per ricorrere poi al mercato per procurarsi le altre risorse di cui hanno bisogno. La dottrina economica ha tentato di fornire una spiegazione per questo differente comportamento imprenditoriale, formulando la teoria dei costi di transazione (Williamson). Il concetto di fondo che l'impresa, per decidere se produrre o acquistare i beni e servizi di cui necessita, prover a comparare il costo di transazione, collegato al processo esterno di approvvigionamento, a quello di produzione da sostenere per produrre al suo interno gli stessi beni e servizi. per necessario, per potere intendere l'utilit e i limiti della teoria, specificare meglio gli elementi di base e fermarsi su alcuni approfondimenti. Innanzi tutto, occorre chiarire il concetto di costo di transazione nel quale si ricomprendono oltre al costo di acquisto del bene o servizio tutti gli oneri da sopportare per ricercare le informazioni, reperire il fornitore, procedere alla contrattazione e controllarne l'attuazione. Il costo di transazione rappresenta cos il costo d'uso del mercato da porre a raffronto con quello di produzione da sostenere all'interno dell'organizzazione dell'impresa. Secondo la teoria, dunque, l'imprenditore o manager percorrendo questa strada giungerebbe alla definizione del confine efficiente dell'organizzazione (Ouchi). Con questa espressione si vuole intendere la definizione dell'insieme di compiti (attivit) da svolgere all'interno dell'impresa per assicurarsi il massimo livello di efficienza operativa. Quest'ultimo verr ottenuto decidendo appunto quali transazioni fare svolgere all'interno della struttura e quali operazioni stipulare rivolgendosi al mercato. In altri termini, il criterio discriminante sar quello dell'economicit, ovvero fare realizzare dall'organizzazione tutte le attivit che costerebbe di pi delegare al mercato. Il ragionamento precedente prescinde, per, dalla considerazione del rischio insito nella finalizzazione dello scambio (per il quale si deve trovare il fornitore sempre disponibile, fare affidamento sulla precisione della consegna, rischio di un comportamento opportunistico attuabile per sfruttare la vulnerabilit del compratore, ecc.). In teoria proprio per tenere conto di questo doppio aspetto (economicit e rischiosit della transazione), si quindi ipotizzato che il ricorso al mercato divenga meno conveniente al crescere della complessit della transazione e che su quest'ultima influiscano la ricorrenza, l'incertezza e la specificit degli atti di acquisizione da compiere all'esterno. In conclusione, la teoria dei costi di transazione, pur aiutando a comprendere la logica dei comportamenti imprenditoriali, non riesce, da sola, a fornire tutti gli elementi interpretativi per le decisioni di internalizzazione o esternalizzazione delle attivit aziendali. Questo perch, trattandosi di scelte particolarmente complesse e per di pi legate alla previsione dei futuri andamenti di mercato, necessitano di essere valutate in un pi ampio contesto strategico. L'integrazione verticale si traduce, in sostanza, in uno spostamento a monte o a valle del mercato di acquisto o di vendita di certi prodotti aziendali. Con la verticalizzazione ascendente l'azienda inserisce nel suo ciclo produzioni di base o intermedie rispetto al processo terminale; con quella discendente cambia il suo mercato di sbocco, rivolgendosi ad uno stadio pi vicino alla fabbricazione di prodotti finali. Con l'integrazione verticale si ha in ogni caso un aumento del valore aggiunto (differenza tra il valore del prodotto finito e tutti i costi di acquisizione di beni e servizi) realizzato perch cresce la differenza tra il valore dei prodotti finiti ed il costo delle materi e dei servizi acquisiti: infatti, nell'ipotesi del processo ascendente il ciclo produttivo partir da beni di minore prezzo, mentre in quella del processo discendente il ciclo dar come risultato prodotti di maggior pregio. L'impresa, quindi, riuscir a ridurre il rischio di gestione perch un pi elevato valore aggiunto la cauteler meglio rispetto alle variazioni esterne del mercato degli approvvigionamenti e delle vendite. Va cio sottolineato che, pi crescer il valore aggiunto, pi aumenter il controllo sui costi di produzione, perch nel conto economico aziendale peseranno maggiormente le voci di costo controllate direttamente dall'impresa. Obiettivo teorico dell'integrazione verticale sarebbe, tuttavia, l'aumento del profitto mediante una riduzione dei costi di approvvigionamento (integrazione ascendente) o un aumento dei margini di contribuzione (integrazione discendente). Mentre, per, gli effetti precedenti sul valore aggiunti si verificheranno in ogni caso, quello sui costi e sui ricavi dipenderanno dall'efficienza dell'impresa che integra. Nell'ipotesi di integrazione a monte si dovrebbe avere, infatti, un risparmio pari almeno al profitto lucrato dai produttori esterni, sempre che si supponga un'uguaglianza dei costi di produzione. Ed proprio su questo assunto che nascono molte perplessit perch difficile che chi integra possa produrre allo stesso costo di chi opera gi da tempo nello stadio oggetto di integrazione. Ci per motivi di minore specializzazione, per minore effetto della curva di apprendimento e, in generale, per il verificarsi di pi contenute economie di scala a livello d'impianto o di impresa. Di conseguenza, l'integrazione ascendente consentir di realizzare dei risparmi solo nell'ipotesi in cui il costo di produzione interno risulti inferiore al prezzo di acquisto dall'esterno (compresi gli oneri di transazione). <i>In altre parole, l'integrazione verticale, come del resto qualsiasi strategia di sviluppo, non una strategia universale buona o cattiva, perch il successo o l'insuccesso collegato alla sua attuazione dipende soprattutto dalla situazione esistente e dalle capacit di chi le attua. 5.3. Altri tipi di integrazione. In teoria vengono individuati, insieme con l'integrazione orizzontale e verticale, altri due tipi di integrazione, denominati laterale e diagonale. La prima si ha nell'ipotesi di un inserimento, nella gamma di prodotti aziendali, di beni correlati sotto il profilo delle tecnologie adoperate o del mercato di sbocco ( infatti a seconda del grado di correlazione tra produzioni nuove e vecchie questo tipo di integrazione potrebbe essere considerata una forma di integrazione orizzontale oppure di diversificazione produttiva); la seconda si verifica, invece, nel caso dell'introduzione nell'organizzazione di produzione ausiliarie (es. un azienda conserviera che assorbe uno scatolificio). 6. La strategia di diversificazione produttiva. L'impresa, anzich espandersi nello stesso settore (sviluppo orizzontale) o in stadi collegati (integrazione verticale), pu allontanarsi simultaneamente dai prodotti o dai mercati che le sono familiari. In tal caso, essa si rivolge a settori diversi, cio attua un processo di diversificazione produttiva. Quest'ultima si contrappone alle strategie di integrazione perch porta l'azienda ad occupare posizioni in mercati nuovi. In altri termini, il principio della multisettorialit dell'espansione che si contrappone a quello della monosettorialit, tipico delle imprese cosiddette integrate. Per definire ancora meglio la diversificazione produttiva, bisogna chiarire ch'essa si realizza in modo pieno allorch le nuove produzioni non presentano affinit con quelle precedenti sia in termini tecnologici sia in termini di marketing. Fra i prodotti compresi nelle cosiddetta gamma di vendita, infatti, possono sussistere delle convergenze di ordine tecnico, quando ad esempio si prestano ad essere lavorati partendo dalle stesse materie prime, utilizzando gran parte degli stessi impianti ecc., oppure delle convergenze di marketing allorquando possono essere distribuiti attraverso gli stessi canali, propagandati mediante la medesima campagna promozionale, ecc. Tenendo appunto presente la possibilit di verificarsi di una o di entrambe queste situazioni, si distinguono due strategie di sviluppo diversificato. La prima, denominata diversificazione laterale, basata sull'esistenza di un collegamento, in termini tecnologici oppure di marketing, tra produzioni vecchie e nuove; la seconda, definita diversificazione conglomerale, caratterizzata dall'inesistenza di qualsiasi legame tra attivit preesistenti e nuove. Le relazioni tra i prodotti aziendali possono infatti ricondursi a quattro situazioni differenti: 1) prodotti affini sotto il profilo tecnologico e di marketing (es. macchine lavabiancheria e macchine lavastoviglie); 2) prodotti affini in termini tecnologici ma non in termini di marketing (es. carta da imballaggio e carta da parati); 3) prodotti affini in termini di marketing ma non in termini tecnologici (es. prodotti alimentari e per la pulizia della casa); 4) prodotti senza alcuna affinit tecnologica e di marketing (es. materie plastiche e prodotti dolciari). Alla luce delle definizioni precedenti, si avrebbe dunque nel primo caso uno sviluppo integrato di tipo orizzontale, nei due successivi una forma di diversificazione laterale e nell'ultimo una diversificazione conglomerale. I motivi della scelta di una strategia di diversificazione possono essere molteplici e non sempre si collegano al desiderio di assicurarsi una rapida crescita dei profitti. La giustificazione, pi di frequente adottata per questa decisione, l'impossibilit di espandersi soddisfacentemente in un settore ormai ritenuto saturo e la ricerca, dunque, in altri mercati di occasioni pi favorevoli di aumento del volume d'affari. Anche se queste motivazioni possono giocare un ruolo importante, non bisogna sottovalutare i vantaggi ritraibili dall'adozione di una strategia del genere in termini di stabilizzazione dei redditi e di riduzione del rischio globale di gestione. Alla diversificazione delle attivit s'accompagna una diversificazione dei rischi di mercato. Con questa strategia, cio, si possono attenuare le conseguenze di eventi dannosi mediante la compensazione degli andamenti pi o meno favorevoli, che potrebbero presentarsi nei vari mercati serviti. La sua realizzazione legata a processi generalmente dissimili a seconda del tipo di sviluppo. Se l'impresa persegue, infatti, una diversificazione laterale della produzione, pi probabile che la strategia si realizzi mediante l'espansione interna dell'organizzazione aziendale. Nel caso, invece, di una diversificazione conglomerale l'ipotesi pi frequente quella di un piano di acquisizioni aziendali e della formazione di una struttura cosiddetta holding. Data, infatti, la sostanziale differenziazione tra settori vecchi e nuovi, difficile ipotizzare un'espansione dall'interno. 7. La strategia di espansione internazionale. Da tempo la strategia di espansione internazionale, pi che essere considerata un'alternativa rispetto ai tipi di strategie esaminate in precedenza, divenuta un'esigenza sia per l'ampliamento dei mercati di sbocco sia per le opportunit di delocalizzazione produttiva. Spesso per perseguire una crescita equilibrata necessario puntare ad una politica di compensazione dei risultati attraverso un processo di diversificazione delle attivit aziendali. Sotto tale aspetto la diversificazione delle produzioni e l'espansione internazionale rappresentano delle strategie fondamentali per tentare di stabilizzare in senso dinamico i risultati di gestione, cio per ottenere profitti in grado di assicurare la prosecuzione dello sviluppo dimensionale. La differenza si ha nel fatto che la stabilizzazione avverrebbe, nel primo caso, fra <i>produzioni </i>diverse e, nel secondo, fra Paesi diversi. La politica di penetrazione commerciale nei mercati esteri segue solitamente delle tappe, che presentano gradi d'impegno e rischiosit crescenti. In teoria, le fasi principali del processo di espansione internazionale sono cos identificabili: 1) esportazione di prodotti fabbricati esclusivamente in patria; 2) stipula di accordi di licenza con produttori stranieri per la cessione di brevetti, know-how, ecc.; 3) attuazione d'investimenti diretti per la creazione all'estero di proprie strutture distributive; 4) avviamento in altri paesi d'impianti di montaggio e di stabilimenti di produzione a ciclo completo; 5) organizzazione, al di fuori dei confini nazionali, di strutture aziendali autosufficienti (consociate o affiliate), dotate di centri direzionali e di ricerca. Volendo definire pi concisamente le tappe indicate, si potrebbe osservare che spesso lo sviluppo dell'attivit internazionale segue un ciclo che comprende <i>l'esportazione, la produzione indiretta, la vendita diretta, la produzione e la vendita diretta, l'organizzazione di unit aziendali integrate. Il processo di penetrazione nel mercato internazionale assume la sua massima intensit allorquando l'impresa considera l'ingresso i un dato paese non come un fatto isolato ma come una decisione rientrante in una pi ampia e coordinata politica di espansione della gestione. in questo momento che prende corpo lo sviluppo multinazionale, che pu essere considerato come l'epilogo di una strategia sistematica di espansione internazionale. L'impresa multinazionale , infatti, non solo un'organizzazione che dispone di impianti di produzione e di reti di distribuzione in pi paesi del mondo, ma anche e soprattutto una societ che persegue una gestione integrata delle attivit domestiche ed estere. Il processo di espansione multinazionale della gestione si fonda soprattutto sulla qualit del management aziendale. La capacit manageriale va considerata non solo come un fattore interno da sfruttare pi efficacemente col procedere dello sviluppo dimensionale, ma anche come la risorsa basilare per avviare un processo del genere. L'elemento poi che, di fatto, rende possibile questa espansione rappresentato dalla disponibilit di capitali. L'attuazione di investimenti internazionali diretti richiede, in ogni caso, l'impegno a lungo termine di cospicue risorse finanziarie. Ci fa si che solo le societ che dispongono di consistenti capitali propri o che sono in grado di attingerli convenientemente nel mercato finanziario internazionale hanno effettive possibilit di realizzare dei processi di multinazionalizzazione. Le modalit di realizzazione delle strategie di sviluppo: il ruolo degli accordi strategici tra imprese. Le strategia di sviluppo fin qui illustrate rappresentano modalit differenti di espansione del sistema aziendale. Ciascuna strategia, com' riepilogato nello schema seguente, si distingue dalle altre per i sub-obiettivi perseguiti, le modalit e gli effetti tipici sul rischio. Ma i comportamenti imprenditoriali descritti possono essere visti anche come tappe successive al processo di crescita. frequente, infatti, che un'impresa tenti dapprima di rafforzare la propria posizione nel mercato tradizionale (sviluppo orizzontale) e, solo in un secondo momento, si rivolga a perseguire politiche di integrazione verticale e, specie, di diversificazione. Alla luce dell'evoluzione avutasi recentemente nell'organizzazione della produzione e dei mercati, vanno comunque riconsiderate le modalit prevalenti di sviluppo dell'impresa. La logica interna ed esterna di crescita sembrano ora affiancate se non addirittura sostituite da un terzo comportamento strategico, che quello della crescita interrelata, spesso di tipo interaziendale. Quest'ultima sfrutta la possibilit di collaborazione tra imprese, puntando ad un ampliamento del volume d'affari, o del valore aggiunto creato, senza una corrispondente espansione delle strutture organizzative interne. Si tratta, in altri termini, di una condotta imprenditoriale rivolta a massimizzare i vantaggi delle economie di relazione, che dovrebbe condurre ad un ampliamento e ad un rafforzamento di tutte le unit aziendali coinvolte. L'aspetto senza dubbio pi nuovo nell'organizzazione degli accordi tra imprese quello della rete (network). Rispetto, infatti, alle forme pi tradizionali di sistemi, organizzati intorno ad un nucleo centrale di coordinamento secondo modelli di struttura creati ad hoc e destinati a durare nel tempo (joint-venture, consorzi, ecc.), la rete di imprese rappresenta un modello pi elastico, che si regge sui rapporti d'integrazione e d'interdipendenza che si creano fra i partner. Nei due casi, cio, le relazioni non competitive assumeranno un diverso grado di rigidit e conferiranno una differente autonomia nella gestione di attivit al di fuori dell'accordo. Nella rete esiste maggiore libert per i partecipanti, legati da relazioni di carattere prevalentemente contrattuale, che si mantengono in vita fin quando essi ritengono di potere ricavare benefici adeguati rispetto ai vincoli derivanti all'appartenenza alla rete stessa. CAPITOLO OTTAVO. IL CICLO DI DIREZIONE DELL'IMPRESA E IL PROCESSO ORGANIZZATIVO. 1. Il ruolo del management. La gestione dellimpresa si svolger, dunque, in conformit delle strategie complessive e funzionali definite dal vertice imprenditoriale. Per far s per che le scelte assunte possano tradursi in risultati, necessaria un'attivit di direzione non solo per completare le sequenze decisionali sul piano operativo, ma anche e soprattutto per disciplinare l'uso delle risorse disponibili. A chi dirige compete, infatti, la responsabilit dell'efficienza nell'impiego del fattore umano, dei mezzi finanziari, delle competenze tecnologiche e commerciali. In effetti, tra il momento strategico e quello dell'esecuzione s'interpone il processo direzionale, inteso fondamentalmente a coordinare le azioni previste a livello imprenditoriale nell'ottica del miglior raggiungimento degli obiettivi di gestione. 2. Il processo di direzione aziendale. indubbio che il crescere delle dimensioni aziendali, il complicarsi dei rapporti con il mercato, il progressivo tecnicizzarsi delle procedure di gestione hanno fatto assumere all'attivit di direzione contenuti molti pi ampi rispetto alla tradizionale funzione di conduzione del fattore umano impegnato nell'impresa. Nella maggior parte dei casi il dirigere non consiste pi, come nella visione ristretta, nel dare degli ordini e controllare che siano eseguiti, ma si concreta nel partecipare attivamente all'attuazione delle scelte di gestione a fianco dell'imprenditore. La funzione di direzione, in senso moderno, richiede cio l'assunzione simultanea di atti di decisione, di impiego delle risorse, di conduzione degli uomini e di valutazione delle prestazioni. Ogni attivit va infatti: 1) programmata, stabilendo in anticipo gli obiettivi da raggiungere, le decisioni e le modalit di svolgimento da rispettare e le risorse da impiegare; 2) organizzata, individuando chi e con quali responsabilit dovr curarne la realizzazione; 3) guidata, fornendo le direttive e motivando gli organi operativi; 4) controllata, valutando i risultati raggiunti rispetto a quelli programmati. Da ci scaturisce il concetto di un vero e proprio processo o ciclo di direzione, le cui fasi sono la programmazione, l'organizzazione, la conduzione e il controllo. per opportuno osservare che, nel nostro caso, il concetto di funzioni di direzione dev'essere accolto in un modo particolare perch le funzioni direttive costituiscono momenti integrati di un processo unitario non scindibile. In altri termini, l'articolazione del ciclo di direzione per funzioni si giustifica solo sul piano teorico perch deve consentire di esaminare separatamente momenti del ciclo, diversi l'uno dall'altro ma strettamente integrati. In realt il controllo conclude il processo e, allo stesso tempo, avvia un nuovo ciclo di direzione perch i dati rilevati servono a far assumere nuove decisioni nellambito della funzione di programmazione. Ogni ciclo si svolge mediante le informazioni che fluiscono allinterno dellimpresa e che devono essere integrate con quelle provenienti dallambiente esterno. Sotto questo profilo, si ha un ciclo informativo, perch il controllo produce informazioni, la programmazione richiede lintegrazione dei dati cos ottenuti con quelli relativi al contesto esterno, la conduzione comporta il trasferimento di informazioni da chi dirige a chi esegue e, infine, chi esegue deve trasmettere i risultati della propria attivit agli organi di controllo. 3. La funzione organizzativa. Limpresa funziona come sistema mediante una pluralit di organi. Organizzare significa ordinare un sistema in parti interdipendenti e correlate, ciascuna avente una specifica funzione rispetto al complesso. Le parti sono gli organi dellimpresa e lorganizzazione si rivolge in primo luogo a disciplinare i compiti, i poteri e le responsabilit che ciascuno di questi dovr assumere nel corso della gestione. Essa riguarda soprattutto gli oggetti o le forze personali presenti nell'impresa, e si rivolge a creare le condizioni per lo svolgimento pi razionale ed efficiente del processo di gestione. Intesa in tal senso, la funzione organizzativa si pone lo scopo di definire: 1) i centri decisionali, di controllo ed esecutivi da istituire nellimpresa e l'organico di personale necessario; 2) l'autorit e responsabilit da attribuire a ciascuna unit organizzativa; 3) le relazioni formali da attivare fra i vari centri; 4) le procedure di decisione, di informazione e di esecuzione, necessarie per l'efficiente attuazione delle funzioni di gestione. Lo scopo della funzione organizzativa lottenimento di condizioni di massima efficienza operativa mediante la suddivisione e specializzazione delle attivit e l'opportuna loro coordinazione in un sistema integrato di obiettivi, poteri e responsabilit. Il suo contributo si espleta nel conseguimento di una maggiore produttivit del lavoro; il che significa raggiungere un miglior risultato, in quanto la specializzazione e la coordinazione del lavoro consentono di conseguire dei risultati globali maggiori di quelli ottenibili sommando le prestazioni individuali, realizzate in assenza di qualsiasi supporto organizzativo. In pratica i problemi dellorganizzazione possono essere inquadrati secondo un duplice profilo: aspetto strutturale (profilo statico del problema), cio di ordinamento di compiti e responsabilit, analizzabile sulla base delle relazioni fra la strategia e le risorse umane disponibili; aspetto comportamentale (profilo dinamico del problema), cio dei rapporti interpersonali di collaborazione e di conflitto che si creano per effetto del suo stesso funzionamento. Ora l'esame sar centrato prevalentemente sui problemi di progettazione della struttura e delle procedure organizzative (profilo statico). 4. Le scelte organizzative. La progettazione dellorganizzazione richiede, prima delle varie scelte, la definizione degli obiettivi da raggiungere mediante il processo organizzativo. Il problema organizzativo dell'impresa si pone con modalit molto diverse a seconda se si tratta di organizzare una nuova azienda o se riorganizzare un'azienda gi funzionante. Nel primo caso si opera infatti entro pi ampi gradi di libert perch non sussistono vincoli pregressi di struttura e di organico; vincoli che invece s'incontrano nell'ipotesi di riorganizzazione. Per organizzare una nuova impresa, gli elementi fondamentali di riferimento devono essere tre: la natura e le modalit di realizzazione dellattivit aziendale (ovvero gli obiettivi e la strategia che si prefigge il vertice imprenditoriale); linvestimento organizzativo ovvero laltezza dei costi di struttura ritenuti sopportabili dal bilancio aziendale; le risorse umane disponibili nel mercato e acquisibili in base allinvestimento programmato. opportuno per sottolineare che, in pratica, la progettazione organizzativa non pu non tenere conto di un complesso di vincoli, che possono fare rinunciare a scelte teoricamente ottimali. I vincoli sono fondamentalmente rappresentati: dalle capacit professionali disponibili nel mercato del lavoro e concretamente acquisibili da parte dell'impresa sia in funzione del costo da sostenere sia in rapporto all'attrattivit dell'impresa stessa; dall'investimento che si in grado di sostenere per la progettazione e messa a punto dell'organizzazione; dai costi fissi di lavoro sopportabili nell'economia della gestione, che influiranno ovviamente anche sul grado di rigidit della struttura. Questi vincoli sono dunque di natura umana ed economica. D'altra parte, nell'assunzione delle scelte organizzative ci s'imbatte sempre nel conflitto tra <i>potenzialit, elasticit ed economicit della struttura. L'organizzazione, in sostanza, rappresenta l'investimento in capacit potenziali, che l'impresa decide di finanziare per poter disporre di determinati livelli di servizio. La scelta di una certa struttura rappresenta il vincolo maggiore per qualsiasi strategia di espansione. Da ci la necessit di un opportuno bilanciamento tra potenzialit, elasticit ed economicit dell'organizzazione, che permetta di sfruttare al meglio le opportunit connesse con la strategia aziendale (potenzialit) e che consenta di far evolvere la struttura aziendale in funzione dei mutamenti del contesto esterno e, quindi, dei comportamenti imprenditoriali (elasticit). Si tratta, com' intuibile, di scelte non facili perch potenzialit ed elasticit sono attributi che costano e che, pertanto, debbono conciliarsi con le esigenze di economicit aziendale. 5. I modelli di struttura organizzativa. Nella definizione della struttura organizzativa le scelte fondamentali, da assumere tenendo presenti i parametri precedenti, attengono al grado di decentramento dei poteri e ai criteri di specializzazione dei compiti. Tra i modelli organizzativi adottati nelle piccole imprese si possono riscontare delle strutture molto elementari, caratterizzate dall'accentramento del governo aziendale in una sola persona o in un ristretto gruppo di persone (i proprietari dell'impresa), dalla divisione di responsabilit prevalentemente operative per aree funzionali fondamentali (ad es. produzione e vendita) e dalla ridotta formalizzazione sia dell'assetto organizzativo sia delle procedure operative ed informative. Questa struttura semplice pu aiutare a far raggiungere obiettivi di economicit e di efficienza, sfruttando il principio della flessibilit delle mansioni e la migliore creazione di uno spirito di gruppo. peraltro intuibile che, al crescere delle dimensioni dell'organico e al complicarsi dei problemi di coordinamento del lavoro, s'imporr l'adozione di una struttura formale che stabilisca in modo chiaro l'assetto delle funzioni, dei poteri e delle responsabilit all'interno dell'impresa. Il problema si traduce, in effetti, nella suddivisione dei compiti al di sotto della direzione generale (se esiste) o dell'amministratore delegato. La complessit e la difficolt delle funzioni operative da attuare indurr, difatti, a suddividere le aree gestionali e ad affidarle ad uomini dotati delle competenze pi adeguate. Al riguardo, le modalit tradizionali adottate in pratica prevedono la ripartizione per funzioni o per divisioni. Il modello funzionale si costituisce dividendo la gestione in funzioni, ovvero gruppi di compiti o mansioni complementari e interdipendenti rispetto a un fine. Lorganizzazione si articoler in tante funzioni per quante sono le aree di responsabilit da affidare a manager dotati di competenze specifiche. Le funzioni cosiddette organiche sono quelle che assicurano loperativit del sistema e si caratterizzano in base a quattro criteri: l'universalit, cio la loro presenza in tutti i sistemi dello stesso tipo; l'essenzialit rispetto al conseguimento delle finalit primarie del sistema; la possibilit di suddivisione o articolazione per linee gerarchiche; impossibilit di aggregazione con altre funzioni. Le funzioni organiche tendono ad accrescersi con lo sviluppo dell'azienda, in quanto dall'espansione della gestione deriva la necessit di suddividere e specializzare in nuove funzioni primarie i compiti attuati nell'organizzazione. Questo processo, che tipico delle aziende pi dinamiche, prende il nome di differenziazione funzionale. Il modello funzionale, per la sua semplicit, il pi diffuso nelle aziende poco diversificate per tecnologie, prodotti e mercati; inoltre, si adatta bene a situazioni di gestione abbastanza stabili sotto il profilo strategico ed operativo. Nell'ipotesi invece di aziende diversificate e pi dinamiche nei comportamenti imprenditoriali appare pi congeniale il modello di struttura divisionale. Questa pi spesso si concreta nella ripartizione delle responsabilit di direzione per gruppi o famiglie diverse di prodotti. Meno frequentemente il criterio divisionale applicato in senso territoriale, cio scindendo l'area su cui l'azienda opera per sub-aree geografiche (questo criterio , infatti, diffuso soprattutto tra le societ multinazionali operanti in pi regioni del mondo). Il modello divisionale comporta, dunque, il frazionamento dell'azienda in pi parti, ciascuna delle quali potrebbe rappresentare un'impresa a s stante e costituire, quindi, un centro di profitto affidato alle cure di un diverso capo. Proprio per questo una struttura divisionale si presta meglio a precise valutazioni di rendimento (in quanto ciascuna divisione rappresenta un centro di profitto). La scelta del modello divisionale non deve peraltro comportare la rinuncia a sfruttare le interrelazioni tra le varie divisioni, in modo da non perdere i vantaggi connessi con la condivisione delle risorse. Il criterio generale quello di decentrare le funzioni che possono ritrarre i maggiori benefici dalla specializzazione e di accentrare quelle che richiedono un pi elevato coordinamento sul piano aziendale (come la finanza) o che consentono maggiori economie di scala o d'interrelazione (come gli approvvigionamenti e la ricerca e sviluppo). Lo scopo principale dell'adozione di strutture multidivisionali dunque quello di focalizzare l'attenzione sui risultati anzich sui compiti (come accade nell'organizzazione funzionale). Con essa si punta a stimolare il senso imprenditoriale dell'alta dirigenza, creando situazioni di conflitto e di competizione tra le varie divisioni. N.B.: il disegno multidivisionale pu anche evolvere verso un modello di organizzazione di gruppo. Un gruppo composto da una societ madre (capo- gruppo) e da societ figlie (aziende controllate). Queste ultime possono a loro volta controllare altre societ, che nei confronti della capo-gruppo assumono il ruolo di societ-nipoti e cos via la parentela societaria pu allungarsi. I gruppi si possono distinguere in finanziari o industriali, a seconda se la societ capo- gruppo svolge esclusivamente un'attivit di gestione di partecipazioni societarie (ad es. E.N.I.) oppure realizza anche un'attivit produttiva (ad es. Fiat). La societ capo-gruppo del primo tipo si definisce una holding pura; quella del secondo una <i>holding mista. La scelta di una struttura-holding vuole rispondere a due esigenze: ridurre la dimensione aziendale e conferire una pi ampia autonomia alle diverse gestioni produttive. Questo rende possibile non solo il miglior governo di attivit spesso molto differenziate tra di loro, ma pu anche consentire alla propriet di trarre vantaggi fiscali in termini di suddivisione degli utili e delle perdite all'interno del gruppo, di diversificazione del rischio e di acquisizione di maggiori possibilit di finanziamento mediante l'ampliamento della base societaria e il ricorso a capitali di prestito. 6. Le strutture organizzative innovative: l'organizzazione per processi e a rete. I mutamenti assunti dalla gestione industriale, per incontrare la complessit ambientale e per rendere possibili forme di concorrenza fondate sulla velocit di risposta alle variazioni di mercato, hanno imposto nuove esigenze organizzative. Per questi motivi, accanto ai modelli classici di organizzazione, sui quali ci siamo gi soffermati, si pu fare ricorso a configurazioni strutturali intese a facilitare il processo di innovazione e a rendere pi rapida la formazione delle decisioni. In altri termini, i caratteri di maggiore creativit che ha assunto il lavoro delle imprese stanno spingendo ad adottare soprattutto l'organizzazione per processi. La logica della gestione per processi consente di superare le tradizionali barriere funzionali e di operare in rapporto ad obiettivi globali, il cui raggiungimento facilitato dall'anticipata finalizzazione e coordinamento di tutte le attivit sequenzialmente interrelate. Organizzare per processi significa superare dunque i modelli funzionali e divisionali, per adottare strutture molto pi elastiche, in grado di adattarsi a comportamenti gestionali in un ambiente in rapido mutamento. Esempio: processo di sviluppo di un nuovo prodotto. Un assetto organizzativo, che si andato affermando soprattutto in questi ultimi tempi, l'organizzazione a rete, fondata sull'instaurazione di relazioni molto strette tra pi parti dell'impresa e tra quest'ultima, i fornitori e i clienti. La rete, che si articola su rapporti pi che su strutture, ovvero su modalit di funzionamento regolate da procedure anzich sulla creazione di particolari unit organizzative, risponde all'esigenza di conferire velocit, flessibilit ed efficienza all'operativit aziendale. Nel complesso, si tratta comunque di organizzazioni abbastanza flessibili, in grado di agevolare la composizione e ricomposizione dei processi di gestione in funzione delle esigenze innovative. Tra le strutture tipicamente flessibili, le forme pi diffuse sono rappresentate dall'organizzazione per progetto e per matrice. La prima rappresenta un'ulteriore articolazione della struttura funzionale, in quanto all'interno di questa che vengono costituiti dei gruppi di lavoro incaricati di elaborare e porre in attuazione determinati progetti. In sostanza, per compiti di segnata importanza (per es. programmazione di un nuovo prodotto), si procede alla nomina di un capo progetto, coadiuvato da un team di specialisti estratti dalle varie linee funzionali (produzione, vendita, ecc.). Questi lavorano alle dipendenze del responsabile del progetto fino al compimento del progetto stesso, dopo di che il gruppo si scioglier. L'organizzazione per matrice rappresenta, in un certo senso, l'istituzionalizzazione di quella per progetto, in quanto la struttura aziendale assume un carattere reticolare con un intreccio di competenze funzionali e per progetto. Dalla figura in basso si rileva quest'interconnessione tra campi di responsabilit (prodotto alfa, beta e gamma) e campi di specializzazione (funzione di produzione, commerciale, amministrativa e del personale), con la creazione di un duplice rapporto di autorit. Ogni responsabile, infatti, si trover alle dipendenze del direttore di linea (produzione, vendita, ecc.) e dal direttore del prodotto, con una situazione organizzativa del tutto anomala (dipendenza da due direttori). La costruzione della struttura organizzativa, specie sotto l'aspetto della sua dimensione verticale, dev'essere poi completata mediante la definizione dell'ampiezza e dei limiti di delega dei poteri direzionali. L'ampiezza del controllo direttivo, alla cui soluzione implicitamente legata la determinazione delle dimensioni verticali e orizzontali dell'organizzazione, consiste, difatti, nel definire le dimensioni del gruppo che pu essere guidato da un unico dirigente, mediante la considerazione di un insieme di fattori specifici e generali, elencati nella tabella seguente: 7. La definizione delle procedure decisionali ed operative. La progettazione della struttura non esaurisce i compiti attribuiti alla funzione organizzativa, in quanto il funzionamento del sistema d'impresa richiede necessariamente la definizione di procedure o routine organizzative. L'aspetto procedurale assume un'importanza notevole ai fini dell'efficienza della gestione e serve a completare il processo di programmazione dell'organizzazione. Il realt si possono distinguere quattro tipi di procedure: 1) le procedure operative, intese a disciplinare lo svolgimento di attivit ripetitive ai livelli dell'esecuzione; 2) le procedure di controllo, dirette a seguire gli andamenti di gestione; 3) le procedure di informazione, aventi lo scopo di alimentare i flussi di conoscenza ricorrenti all'interno dell'organizzazione; 4) le procedure decisionali, rivolte a definire gli interventi e i ruoli rivestiti nell'assunzione delle decisioni. Le procedure stabiliscono, in sostanza, delle norme di comportamento adottabili in modo ricorrente nel tempo per la soluzione di problemi similari o analoghi. Queste norme possono essere rappresentate mediante un diagramma di flusso (flow-chart) oppure definita in forma descrittiva in un apposito documento. Nel primo caso, con il ricorso ad un'opportuna simbologia, si riproduce l'iter dell'operazione attraverso l'indicazione degli interventi da promuovere ai vari livelli e da parte dei differenti organi coinvolti. Nel caso di decisioni e attivit di maggiore complessit si preferisce invece redigere in forma descrittiva le procedure da inserire nel manuale aziendale. Va infine osservato che nell'area delle procedure organizzative si sono realizzate i maggiori progressi a seguito della diffusione delle nuove tecnologie informatiche. La possibilit di gestire mediante il computer operazioni complesse ha spinto, infatti, ad estendere il campo di applicazione delle procedure a parti sempre pi ampie dell'organizzazione, in modo da facilitare le modalit di funzionamento dell'impresa.
8. Lo sviluppo organizzativo e l'efficienza aziendale.
La funzionalit organizzativa uno dei presupposti fondamentali dell'efficienza gestionale dell'impresa. Specie nelle aziende pi grandi, la gestione richiede soluzioni organizzative di particolare efficacia. Ma la componente organizzativa assume un valore rilevante a prescindere dalla dimensione d'impresa, perch lo strumento essenziale per un aumento della produttivit del lavoro e un migliore impiego di tutte le risorse disponibili. Anche se si riflette soprattutto sull'efficienza interna della gestione, in quanto produce le sue conseguenze positive sul rendimento della struttura aziendale, non irrilevante il contributo apportato al miglioramento dell'efficacia competitiva. Un'impresa meglio organizzata riesce, difatti, a conseguire vantaggi in termini di produttivit e di economicit della gestione non sempre contrastabili, per altre vie, da parte dei diretti concorrenti. Da ci l'esigenza di un'accurata e continua programmazione organizzativa. CAPITOLO NONO. LA PROGRAMMAZIONE DELLA GESTIONE. 1. La funzione di programmazione aziendale. La funzione di programmazione assume un ruolo centrale nel processo di direzione aziendale perch si propone di regolare, sulla base dell'organizzazione creata, il corso futuro della gestione. Il termine programma deriva dalla lingua greca e significa, in senso letterale, scrivere prima. La traduzione rende bene il contenuto della programmazione, che dev'essere concepita quale processo di predeterminazione degli obiettivi, delle politiche e delle attivit da compiere entro un determinato periodo di tempo. Nell'azienda programmare significa, dunque, assumere in anticipo un complesso di decisioni attinenti alla gestione futura. Partendo da questa definizione, il caso di chiarire il rapporto intercorrente fra previsione e programmazione. Va infatti puntualizzato che la previsione un tentativo di anticipazione dei futuri andamenti di certe variabili (economiche, sociali, ecc.) mediante il quale si ottengono delle informazioni essenziali per orientare i comportamenti e le scelte aziendali. La programmazione si affermata, quale nuova e pi razionale metodologia d'attuazione della gestione, quando ha assunto le caratteristiche di predisposizione formale e in termini sufficientemente analitici dell'insieme di operazioni da realizzare per il conseguimento degli obiettivi aziendali. La programmazione pu attuarsi per singoli settori o funzioni oppure in modo integrale per tutta la gestione aziendale. Nel primo caso si hanno solo dei piani settoriali, che regolano la realizzazioni di particolari attivit (piano di vendita, piano di produzione, piano finanziario, ecc.); nel secondo, invece, la costruzione di questi piani di settore integrata e coordinata mediante la definizione di un programma generale, che disciplina simultaneamente gli aspetti commerciali, tecnici, finanziari e organizzativi di tutta l'attivit aziendale. La programmazione necessaria sia per coordinare le operazioni ricorrenti di gestione (programmazione di esercizio) sia per promuovere l'innovazione (programmazione di lungo termine). La prima diretta a preordinare le attivit correnti di gestione nell'mbito delle risorse disponibili; la seconda rivolta a modificare il sistema di risorse in funzione degli obiettivi di tempo lungo. Il processo di programmazione si deve dunque tradurre in un sistema di piani distinto secondo: 1) i contenuti (piani strategici o innovativi e piani operativi); 2) l'mbito gestionale (piani globali, piani di aree d'affari e piani di funzioni); 3) l'orizzonte temporale (piano di lungo, medio, breve e brevissimo termine); 4) il grado di analisi (piani-progetto e piani programma o piani esecutivi). Questi elementi possono variamente combinare tra loro, anche se esistono delle interrelazioni prevalenti, che definiscono i due tipi fondamentali di piani: il piano strategico e quello operativo. Il primo rappresenta l'elemento di riferimento di tutto il sistema, in quanto sia il piano operativo sia i singoli piani di funzione dovranno essere elaborati in funzione del perseguimento degli obiettivi dilungo termine. Il conseguimento di questi ultimi richieder la formulazione di un piano di sviluppo strategico (le cui alternative principali di crescita potranno essere, di solito, la concentrazione oppure la diversificazione delle attivit), la predisposizione di un piano di investimenti da compiere per realizzare la strategia prescelta e, infine, la messa a punto di un piano organizzativo per definire le strutture pi idonee a dare attuazione alla strategia di sviluppo. Per cui il piano strategico pu essere idealmente scomposto nel piano di sviluppo, nel piano degli investimenti e nel piano organizzativo. Il piano strategico potr poi essere articolato in piani di medio termine, che costituiranno la base perla programmazione di esercizio. Il piano operativo, infatti, verr scomposto in segmenti annuali, il primo dei quali presenter il grado massimo di analiticit, in quanto dovr guidare lo svolgimento delle operazioni correnti di esercizio (tecnica dello scorrimento). Possiamo dunque affermare che formalizzazione, quantificazione, integrazione e pluriennalit rappresentano le caratteristiche essenziali della programmazione, intesa quale vera e propria metodologia di gestione aziendale. Essa, difatti, deve concretarsi nella redazione di programmi scritti, con la quantificazione delle risorse da impiegare e degli obiettivi da raggiungere relativamente all'intera gestione e ad un arco ampio di tempo. 2. Il processo di costruzione dei piani aziendali. Il meccanismo procedurale della programmazione prescinde sia dalla lunghezza del periodo considerato, sia dal campo di riferimento. Programmare significa sempre prestabilire dei traguardi da raggiungere e delle vie da percorrere per ottenerli. Un piano si sostanzia, in ogni caso, nelle indicazioni delle sequenze di decisioni e di operazioni da porre in essere per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Esso risulta costituito da quattro elementi interconnessi: obiettivi, politiche, attivit e risorse. Gli obiettivi rappresentano i traguardi a cui dovr tendere l'organizzazione, le politiche costituiscono le linee generali di azione, le attivit configurano i flussi di operazioni da attuare durante la gestione e le risorse disponibili si pongono quali opportunit-vincoli da rispettare nello svolgimento di tali operazioni. In pratica l'ottenimento degli obiettivi subordinato dalla possibilit di adottare opportune politiche gestionali (politiche di marketing, finanziarie, ecc.), possibilit a sua volta limitata dall'esistenza di un determinato stock di risorse disponibili. Per quanto concerne poi la valutazione degli effetti economici delle azioni pianificate, acquista una segnata importanza un altro documento che scaturisce dal processo di programmazione: il budget economico o bilancio preventivo. Questo un documento contabile che traduce, in termini di costi e ricavi, le scelte e le operazioni stabilite nel piano. La sua utilit rilevante sotto il duplice profilo decisionale e di controllo; con esso, infatti, si riescono a valorizzare economicamente le decisioni programmate e a valutare, quindi, l'opportunit di attuarle o di modificarle prima di tradurle in operazioni di gestione; inoltre, l'articolazione del budget economico per singole unit della struttura organizzativa (direzioni, reparti, uffici, filiali, ecc.) permette di esercitare un valido controllo sugli obiettivi via via raggiunti all'interno dell'organizzazione. Al budget economico si collega un budget finanziari, che considera gli usi e le fonti di capitale, in modo da predeterminare il saldo finanziario dell'esercizio. Per concludere va rilevato che, rispetto allo schema generale richiamato in precedenza, si pu avere una diversa impostazione della programmazione, di tipo pi aggressivo nei confronti del mercato. Questa, che pi diffusa nella pratica statunitense, si basa sull'analisi del divario (gap analysis) e parte dalla fissazione degli obiettivi che l'azienda intende raggiungere. Il procedimento si sviluppa nel valutare i modi di eliminazione delleventuale divario rispetto agli obiettivi conseguibili seguendo le tendenze del mercato. I punti fondamentali sono: 1) la fissazione degli obiettivi collegati con i traguardi di sviluppo stabiliti nel piano di lungo termine; 2) la previsione degli obiettivi raggiungibili nellipotesi di una prosecuzione delle tendenze di mercato e della ripetizione delle azioni di gestione attuate in passato; 3) la determinazione del divario tra obiettivi desiderati e obiettivi realizzabili in assenza di innovazioni nella gestione; 4) lindividuazione delle modalit di eliminazione del divario, cio delle politiche innovative necessarie per rendere compatibili le aspirazioni imprenditoriali con i previsti andamenti del mercato. Con questa impostazione lazienda tende ad imporre i suoi obiettivi al mercato, sfruttando le opportunit di mutamento delle sue politiche di gestione. Infatti, a seconda dellentit del divario, essa decider se insistere nei comportamenti adottati in passato (politiche di prodotto, di prezzo, di promozione, ecc.) o se procedere a delle innovazioni nei segmenti fondamentali della gestione (immissione di nuovi prodotti, ricerca di nuove zone di vendita, ecc.). 3. Le premesse previsionali e la flessibilit dei piani. I programmi sono definiti in rapporto ad un insieme di <i>premesse (assumptions), legate alla previsione dell'andamento dei fenomeni interessanti la vita dell'impresa; premesse, quindi, che possono o no trovare verificazione nel corso della gestione. Esse sono distinguibili in tre tipi: 1) premesse non controllabili, che l'azienda non pu influenzare in nessun modo (ad es. lo sviluppo della popolazione, l'inflazione, la politica creditizia, l'imposizione fiscale); 2) premesse semicontrollabili, che non pu tenere sotto controllo, ma su cui pu influire in misura pi o meno rilevante (ad es. il turnover degli operai, la produttivit del lavoro, la politica di prezzo, ecc.); 3) premesse controllabili, di cui conserva invece il controllo perch esse dipendono pressoch esclusivamente dal suo comportamento (ad es. ingresso in nuovi mercati, adozione di un programma impegnativo di ricerca e sviluppo, ampliamento della gamma di vendita). L'azienda, dunque, per le premesse non controllabili o semicontrollabili deve formulare delle previsioni e, successivamente, controllare se esse si stiano in realt verificando. In conclusione, i piani, date le premesse che sottostanno alla loro costruzione, non possono assumere un carattere totalmente vincolante per lo sviluppo della gestione; ma, se opportuno, devono poter essere tempestivamente modificati in funzione del variare degli assunti in base ai quali furono costruiti (carattere flessibile dei piani). 4. La programmazione strategica ed operativa. Ogni impresa opera entro un sistema fondamentale di vincoli, che ineriscono alla struttura interna dell'organizzazione e all'ambiente socio-economico. Fra i primi si possono richiamare i limiti posti dalla potenzialit produttiva, organizzativa, finanziaria ed economico-strutturale e fra i secondi quelli connessi con il mercato (domande e offerta), con il progresso tecnologico e con la regolamentazione pubblica. perci intuibile che qualsiasi azienda non pu programmare di espandere il suo volume di affari, nella stessa o in altre aree di attivit, senza avere a disposizione le necessarie risorse di uomini (organizzazione), di impianti (capacit produttiva) e di fondi (potenzialit finanziaria) o senza che vi siano ulteriori spazi di mercato. Le azioni di sviluppo andranno quindi delineate soprattutto in funzione delle opportunit di rimozione dei vincoli interni ed esterni alla gestione, considerati appunto come variabili da modificare per perseguire determinati obiettivi di espansione del sistema aziendale. Per quanto concerne la proiezione di questo tipo di programmazione, le situazioni possono variare, anche notevolmente, da settore a settore industriale, oltre che ovviamente da azienda ad azienda. Dalla programmazione di lungo termine, di tipo chiaramente innovativo, si differenzia in modo netto la programmazione di breve termine. Mentre la prima ha l'obiettivo fondamentale di modificare il sistema di vincoli entro cui opera l'impresa, la seconda ha lo scopo di adattare l'attivit corrente ai vincoli interni ed esterni alla gestione aziendale. La programmazione a breve consiste nel preordinare le operazioni di gestione secondo gli obiettivi fissati per l'esercizio annuale. Si traduce, in effetti, soprattutto nell'amministrazione della capacit potenziali dell'impresa (capacit di produzione, finanziaria, organizzativa, ecc.) in rapporto a determinati obiettivi da raggiungere. Questo tipo di programmazione viene perci definito di adattamento perch la modificazione di certi vincoli (impianti, organizzazione, ecc.) comporta tempi non brevi e fa s che il patrimonio di risorse dell'impresa appaia quale vincolo di partenza per la realizzazione delle operazioni di gestione. In altri termini la programmazione di breve periodo parte dall'analisi e valutazione delle risorse disponibili, mentre quella a pi lunga scadenza impostata sulla base degli obiettivi da raggiungere. Nella realt aziendale, potremo quindi imbatterci in due situazioni differenti: nella prima la programmazione di breve termine in realt il risultato della scomposizione e dello sviluppo di piani di medio e lungo termine; nella seconda , invece, l'unica programmazione attuata perch nell'azienda non stato messo a punto nessun disegno strategico ad ampio respiro. CAPITOLO DECIMO. IL CONTROLLO DIREZIONALE. 1. La funzione di controllo direzionale. La funzione di controllo, come si anticipato, conclude il ciclo di direzione e, contemporaneamente con la programmazione, crea le premesse di un nuovo ciclo di attivit. In effetti, il processo di controllo direzionale si interpone tra quello decisionale e quello operativo allo scopo di assicurare che le scelte, assunte a livello dellamministrazione e della direzione aziendale, siano correttamente attuate dagli organi operativi. Ma il controllo serve anche a valutare la bont delle decisioni prese e di quelle da formulare, cio si riferisce sia al momento dellattuazione delle operazioni di gestione che a quello della programmazione. In via generale, si pu affermare che il controllo necessario per assicurare lordinato svolgimento dellattivit aziendale, rappresentando una funzione che si diffonde a qualsiasi livello e a qualsiasi posizione organizzativa. Soprattutto per effetto delle innovazioni avutesi nel processo di conduzione del personale, il controllo ha subto una marcata evoluzione, passando da strumento di costrizione a strumento di indirizzo dell'attivit gestionale. In altri termini, ad una concezione tradizionale, secondo cui la sua attuazione doveva servire a valutare l'efficienza, l'onest e la diligenza dei dipendenti, si sostituita una visione avanzata in base alla quale la funzione di controllo intesa in senso attivo, cio come il mezzo per individuare le eventuali insufficienze dell'azione, allo scopo di stimolare automaticamente gli interventi di correzione e favorire lo spirito di iniziativa. Tale processo pu svolgersi in quattro momenti successivi e complementari: 1) in via antecedente rispetto all'azione (mediante i vari tipi di analisi di mercato, le tecniche di ricerca operativa, ecc.), che serve a valutare preventivamente la bont di certe scelte e trova sostanza nello stesso processo di programmazione. 2) In via concomitante allo svolgimento dell'azione (mediante l'analisi degli scostamenti tra le prestazioni realizzate e gli obiettivi fissati in sede di programmazione), anch'esso si lega alla programmazione poich ha lo scopo di guidare, a tutti i livelli dell'organizzazione l'attuazione dei piani formulati. 3) In via susseguente per mezzo della determinazione di valori e indici di efficienza ed efficacia aziendale, uno strumento d'indirizzo per la formulazione delle decisioni future. 4) In via prospettica mediante il controllo strategico ed un mezzo per verificare la bont delle scelte strategiche e organizzative in essere. 2. Il controllo concomitante e susseguente. L'attuazione di una gestione programmata (controllo antecedente) consente, e allo stesso tempo esige, l'applicazione di una funzione concomitante di controllo operativo. Quest'ultimo pu essere definito come la procedura attuata, durante lo svolgimento delle operazioni aziendali, allo scopo di seguire lo sviluppo della gestione e di garantire, nei limiti del possibile, il rispetto degli obiettivi fissati in sede di costruzione dei piani. Ogni schema di controllo si compone di quattro elementi: 1) la fissazione di obiettivi o standard da raggiungere; 2) la misurazione dei risultati via via ottenuti; 3) l'analisi delle cause di eventuali scostamenti; 4) l'assunzione di interventi di correzione per riportare i risultati in linea con il piano (o per modificare quest'ultimo). In effetti per ogni attivit da compiere si stabiliscono degli obiettivi da sottoporre a controllo. La fissazione degli obiettivi momento particolarmente delicato nell'impostazione del processo di controllo operativo, perch, se essi non sono realistici e chiaramente definiti, sar difficile attribuire la dovuta efficacia alle successive fasi di misurazione e di analisi dei risultati conseguiti. Sar, infatti, necessario ottenere tempestivamente i dati sulle prestazioni, raccogliendoli dove si generano e sottoponendoli all'indispensabile processo di elaborazione. Il raffronto tra gli obiettivi fissati e i risultati conseguiti potr fare emergere degli scostamenti non tollerabili e indurre ad analizzare le cause di tali scostamenti. L'analisi causale momento di grande importanza perch deve fornire elementi preziosi sulla genesi delle deviazioni. Gli interventi di correzione possono avere per oggetto il livello delle prestazioni ottenibili nell'organizzazione o direttamente i piani. I primi, fermi lasciando gli obiettivi prefissati, tendono a riportare l'attivit in linea con la programmazione; i secondi hanno invece per scopo il riadeguamento di quest'ultima alle mutate condizioni interne ed esterne di svolgimento della gestione. L'attuazione della programmazione e del controllo operativo consente di realizzare il tipo pi moderno di conduzione dell'attivit aziendale: la direzione per obiettivi e il controllo per risultati M.B.O. ovvero management by objectives). La possibilit di attribuire a ciascun responsabile un obiettivo da raggiungere e di sorvegliarne l'ottenimento mediante un controllo di tipo concomitante render pi agevole il processo di conduzione, richiedendo l'intervento degli organi superiori solo nell'ipotesi di eccezioni rispetto alle norme stabilite. Ci contribuir a conferire un elevato grado di autoregolazione delle singole parti del sistema aziendale. La funzione di controllo della gestione non si esaurisce nello svolgimento del controllo operativo concomitante, ma si completa con l'attuazione delle valutazioni di efficienza sulla gestione aziendale. L'efficienza definita comunemente come capacit di rendimento o attitudine a svolgere una certa funzione. Essa viene tecnicamente distinta dall'efficacia, cio dal grado secondo cui l'azienda raggiunge i suoi obiettivi. In altri termini, l'efficienza misurata dal rapporto tra i risultati conseguiti e le risorse impiegate, l'efficacia misurata dal rapporto tra gli obiettivi ottenuti e quelli che si sarebbero dovuti conseguire. 3. Il controllo strategico o prospettico. Il controllo direzionale, cos com' stato illustrato in precedenza, non sufficiente per fornire al management aziendale gli elementi di guida dell'organizzazione perch soffre di due limiti rilevanti. Il primo connesso con il rapporto di interdipendenza nei confronti del sistema di programmazione adottato dall'impresa; il secondo dalla difficolt di ampliare le analisi sul piano dell'intera struttura organizzativa aziendale. Questi limiti insiti nel controllo interno di gestione fanno dunque convincere della necessit di un altro tipo di controllo, in grado appunto di raggiungere quelle finalit che il primo non appare in grado di perseguire. Questo nuovo tipo di controllo strategico deve perci porsi come obiettivo il controllo globale della gestione aziendale e rivolgersi alla verifica della: 1) congruenza esterna del comportamento strategico dell'azienda; 2) congruenza organizzativa tra strategia e struttura dell'azienda; 3) efficienza del sistema e qualit dei responsabili di direzione. Il controllo strategico, essendo proiettato nel futuro, deve cio permettere di valutare se le scelte di tempo lungo conservano la loro validit, tenendo appunto presente che nell'ambiente e nei mercati si possono presentare fenomeni imprevisti. In altre parole, anzich insistere su strategie superate da nuovi eventi, il controllo consente di affrontare in modo tempestivo la loro revisione. Questo vale sia per le scelte strategiche (verifica di congruenza esterna) sia per l'idoneit della struttura organizzativa (verifica di congruenza interna). In pi, il controllo strategico tende a valutare l'efficienza del sistema di direzione, ossia il meccanismo procedurale mediante il quale strategia e struttura si legano durante la vita dell'impresa. La verifica, dunque, del grado di avanzamento della tecnologia direzionale e della sua compatibilit con gli uomini inseriti nell'impresa completa l'iter del controllo strategico dell'azienda. chiaro, tuttavia, che l'inserimento di questo obiettivo richiede non solo un ampliamento delle analisi da condurre, ma anche una modificazione del controllo strategico da procedura interna attuata dalla stessa dirigenza aziendale a procedura esterna realizzata da organizzazioni di consulenza (in quanto inopportuno che questa verifica sia compiuta mediante un processo di auto-analisi). Se, dunque, dai controlli di congruenza (esterna ed interna) della strategia, si passa ad indagini relative alla qualit dei sistemi e delle risorse manageriali, il controllo strategico si amplia e diviene un tipo di controllo eccezionale ed esterno. In questo senso esso si traduce in un vero e proprio check-up aziendale, intendendo un controllo approfondito e sistematico delle condizioni di struttura e di funzionamento dell'organismo aziendale. Nell'impresa il check-up assume un'importanza rilevante, proprio a causa delle possibilit del sistema aziendale di regolare e programmare il suo sviluppo. Esso, infatti, non deve servire solo a fare emergere stati patologici da eliminare per riportare il sistema nelle primitive condizioni di efficienza, ma deve consentire anche di valutare le potenzialit non sfruttate o sfruttate soltanto parzialmente, in modo da orientare il sistema stesso verso condizioni di equilibrio superiori. 4. L'organizzazione della funzione direzionale di controllo. L'importanza del controllo emersa dall'esposizione precedente: la necessit di predisporre un organico sistema di controlli stata difatti motivata alla luce di una pi moderna impostazione dell'intero processo di direzione aziendale. Il controllo strettamente complementare alla funzione di programmazione sotto un duplice profilo: quello del rispetto dei piani di gestione formulati e quelle dell'orientamento delle successive scelte di programmazione. Solo con un'efficiente organizzazione del controllo direzionale dunque possibile adottare forme pi avanzate di governo del sistema aziendale. Naturalmente proprio ai fini di tale organizzazione, assumono particolare rilievo alcuni problemi che devono essere attentamente valutati dall'alta direzione: 1) un primo delicato problema manageriale sorge dal dilemma fra un controllo inteso a standardizzare certe decisioni ed operazioni e una guida del fattore umano in cui sia lasciato spazio sufficiente alla creativit e allo spirito d'iniziativa individuale. Uno degli obiettivi fondamentali della funzione direzionale dev'essere, infatti, quello di assicurare un giusto equilibrio fra creativit e conformit. 2) Un altro problema quello di evitare uneccessiva proliferazione dei controlli, che finisca per tradursi in un pericoloso rallentamento dellattivit operativa e in un notevole aggravio dei costi. I controlli devono essere soprattutto <i>funzionali</i>, cio rivolti agli aspetti di maggiore importanza della gestione e finalizzati ad una tempestiva individuazione delle inefficienze interne e di mercato. 3) Un terzo problema quello dellimpiego di tecniche e strumenti adeguati alle esigenze aziendali. Per evitare un inutile spreco di risorse opportuno che le procedure e i mezzi adoperati per lattuazione del piano di controlli rispondano alle caratteristiche di gestione dellimpresa. Non sempre le tecniche pi raffinate di valutazione dei risultati si rilevano come le pi adatte agli scopi da raggiungere. Da azienda ad azienda, infatti, possono mutare le esigenze in termini di quantit, precisione e tempestivit dei dati da utilizzare nel corso della gestione. Ci tenendo soprattutto conto che l'ottenimento di dati di miglior qualit si traduce sicuramente in un aggravio notevole dei costi. , dunque, intuibile che in questa materia, come del resto per qualsiasi problema gestionale, le soluzioni devono essere ricercate considerando i <i>rendimenti previsti in funzione dei costi da sostenere: solo da un equilibrato bilancio tra risultati e sforzi potranno scaturire le soluzioni di maggiore vantaggio per l'impresa. CAPITOLO UNDICESIMO. LA CONDUZIONE DEL PERSONALE E LA LEADERSHIP. 1. La conduzione del fattore umano ed i problemi della motivazione. L'intero sistema direttivo, fondato sull'efficienza dei processi di organizzazione, programmazione e controllo, destinato a produrre risultati limitati in assenza di un'efficace funzione di conduzione del fattore umano. I problemi di amministrazione del fattore umano rappresentano oggi uno dei nodi centrali del processo di direzione e alla loro migliore soluzione sono legati i maggiori successi imprenditoriali. Ci per pi motivi, che vanno dall'incidenza dei costi di lavoro sul conto economico aziendale, alla rigidit d'impiego del personale; dal prevalere delle risorse immateriali su quelle materiali ecc.. La gestione delle risorse umane rappresenta, perci, il pilastro fondamentale dell'intera gestione aziendale e si configura come una delle responsabilit pi delicate per chi dirige un'impresa. comprensibile che nel rapporto di scambio tra il lavoratore e l'impresa, si creino interessi diversi e logicamente in conflitto: sotto il profilo esclusivamente economico, l'impresa (o meglio l'imprenditore) richiede il massimo rendimento rispetto ai costi (salari e stipendi) che sostiene, e il lavoratore desidera il massimo risultato (reddito da lavoro) rispetto alla quantit ed alle condizioni delle prestazioni che deve rendere. Questi conflitti si possono presentare in due momenti: 1) quello contrattuale, nel quale le parti devono disciplinare il loro rapporto sul piano normativo; 2) quello successivo di carattere operativo, che riguarda specificatamente il processo di direzione e rientra, quindi, pi direttamente nell'argomento che ci interessa. La funzione di conduzione ha per obiettivo l'ottenimento del miglior rendimento dell'organizzazione e riguarda, in effetti, i problemi d'impiego e di guida delle risorse umane presenti in azienda. Dirigere, nel suo significato pi tradizionale, significa far s che altri realizzino certe attivit e l'abilit direttiva si misura, sotto tale profilo, non solo in funzione dei risultati operativi conseguiti, ma anche in rapporto al clima delle relazioni di lavoro creato nell'azienda. Questo secondo aspetto richiama i problemi di comportamento organizzativo, legati, oltre che alla scelta di determinate strutture, all'adozione di differenti stili di direzione. Fondamentale ai fini del processo di conduzione del personale il concetto di uomo assunto a base della costruzione dell'organizzazione. Sappiamo, infatti, dalla storia delle teorie organizzative, che le tre fasi classiche di sviluppo della disciplina hanno rappresentato, in effetti, successive evoluzioni di tale concetto: organizzazione scientifica del lavoro: vi una visione meccanicistica del ruolo delluomo nellorganizzazione, visto come meccanismo da far funzionare allinterno della macchina aziendale e non come individuo da motivare o far partecipare alle scelte aziendali; scuola delle relazioni umane: luomo non pi visto come una macchina da lavoro ma come un individuo da motivare; visione sistemica: l'uomo visto come un individuo da far partecipare alle scelte dell'azienda. intuibile che una differente visione del fattore umano implica una dissimile attuazione della funzione di conduzione, cio un diverso stile di direzione. Sotto questo aspetto si passa, infatti, da una direzione tradizionale di tipo autocratico, fondata sul principi dell'autorit, ad una direzione partecipativa, basata sul consenso: la prima attuata prevalentemente mediante la gerarchia del comando, la seconda mediante la creazione della motivazione. Nella realt, per, bisogna osservare che non appare applicato integralmente n l'uno n l'altro tipo di direzione perch il funzionamento di qualsiasi organizzazione richiede, comunque, l'esistenza di una gerarchia intorno a cui costruire, mediante la motivazione, dei rapporti di consenso e di collaborazione. Per ottenere il pi elevato rendimento dal fattore umano, appare dunque necessario risolvere il problema dellintegrazione tra gli obiettivi individuali e quelli dellorganizzazione, in quanto il principio dell'identificazione con l'organizzazione alla base della motivazione delle risorse umane che lavorano in azienda. Il problema motivazionale pu essere utilmente scomposto in due parti: motivazione a partecipare, che induce lindividuo ad accettare linserimento nellorganizzazione; motivazione a produrre, che spinge ad assicurare la produttivit richiesta dallorganizzazione stessa. I due tipi di motivazione rispondono, ovviamente, a stimoli diversi e richiedono, di conseguenza, l'adozione di differenti politiche, tecniche ed incentivi. I problemi della motivazione presentano aspetti soprattutto psico-sociologici, perch riguardano l'indirizzo del comportamento organizzativo sia sotto il profilo individuale sia sotto quello dei gruppi che si formano all'interno della struttura. pertanto necessario almeno un rapido riferimento ad alcuni princpi propri di queste discipline. In particolare, ci sembra utile accennare ad una teoria psicologica che assume un ruolo centrale nella comprensione delle tecniche motivazionali: intendiamo riferirci alla teoria sulla gerarchia dei bisogni umani, elaborata da Abraham Maslow. Secondo questa teoria, l'individuo punterebbe alla soddisfazione di una serie di bisogni, ordinati lungo una scala crescente di importanza. I tipi di bisogni individuali e posizionati sui vari gradini della scala maslowiana sono: 1. bisogni primari o di sussistenza, rappresentati dalle necessit fondamentali da soddisfare per sopravvivere (nutrizione, abbigliamento, abitazione, ecc.); 2. bisogni di sicurezza, costituiti dalle esigenze di protezione della persona, del patrimonio, della posizione lavorativa; 3. bisogni di socialit (affetto, appartenenza), rappresentati dalla necessit di sentirsi parte di un gruppo, legati cio ad altri individui da interessi, sentimenti, credenze comuni; 4. bisogni di stima (reputazione o prestigio), costituiti dallaspirazione a riscuotere il consenso di altri e a collocarsi in posizioni di superiorit nella classe sociale di appartenenza; 5. bisogni di auto-realizzazione, rappresentati dalla convinzione di avere realizzato appieno le proprie capacit professionali e morali, cio di aver raggiunto il migliore risultato possibile sulla base dei requisiti personali posseduti. Secondo questa impostazione, ogni individuo aspirerebbe dunque a salire la scalinata dei bisogni. intuibile che, appena raggiunto un grado soddisfacente di appagamento di una classe di bisogni, l'individuo si porrebbe l'imperativo di soddisfare quella successiva e che, quindi, il tipo di incentivi motivazionali dovrebbe variare in rapporto alla posizione raggiunta nella scala definita in precedenza. Ai primi gradini, infatti, contano di pi gli incentivi economici mentre a quelli successivi assumono una maggiore importanza gli stimoli psicologici ovvero le gratificazioni morali. Sulla teoria di Maslow bisogna per osservare che si possono individuare dei punti critici: 1) la scalata verso bisogni superiori non presuppone obbligatoriamente il soddisfacimento al 100% del bisogno inferiore; 2) la separazione tra le varie categorie di bisogni un fatto teorico perch nella realt tra di essi vi sono rapporti di interdipendenza e ci significa che le scelte diverse dell'individuo possono riflettersi contemporaneamente su pi tipi di bisogni; 3) l'ordinamento dei bisogni lungo la scala non pu essere sempre lo stesso per tutti gli individui e le eccezioni possono essere frequenti; in effetti, tutti i bisogni sono presenti per qualsiasi individuo: quella che varia la loro importanza relativa in funzione del carattere, del livello di vita raggiunto e della posizione conquistata nella societ; 4) la scala dei bisogni risente anche delle condizioni ambientali. Rispetto a questa teoria pi generale stato elaborato un altro approccio teorico relativo non all'individuo in senso ampio, ma all'individuo che lavora nell'impresa. Herzberg, ha difatti distinto in due grandi categorie i bisogni del lavoratore: bisogni soddisfattivi, cio quelli che, una volta appagati, producono gratificazione e, quindi, stimolano allazione. Includono tutti i fattori motivazionali quali il successo e il suo riconoscimento, linteresse verso il lavoro svolto e le responsabilit assunte, le occasioni di crescita professionale presenti nei compiti assegnati, la possibilit di promozione e di avanzamento; bisogni insoddisfattivi, quelli che, se non soddisfatti, generano frustrazione e determinano linazione. Includono i fattori igienici legati alla politica dellazienda e alla sua organizzazione, alla supervisione, alle relazioni interpersonali, alle condizioni di lavoro, alla retribuzione, allo status e alla sicurezza. Per quanto concerne in particolare l'incentivazione economica, va rilevato che oggi piuttosto che il ricorso a forme di gratificazione individuale tendono ad essere preferite quelle che concorrono a creare spirito di gruppo all'interno dell'organizzazione, come ad esempio la <i>compartecipazione ai risultati aziendali. Il principio di una ricompensa mista, formata in parte da una retribuzione fissa e in un'altra parte da un corrispettivo legato all'esito della gestione, si pone quale via certamente difficile da imboccare ma, senza dubbio, di segnata validit per ottenere la migliore integrazione tra obiettivi aziendali e individuali. Legare la parte variabile del compenso ai risultati globali contribuisce a far sviluppare lo spirito di gruppo e ad innalzare la produttivit media migliorando, nel complesso, le prestazioni dei singoli. Gli aspetti positivi prima richiamati possono essere tuttavia ridotti sia dalla difficolt di ritrovare i parametri espressivi del risultato aziendale (quali dovrebbero essere: il profitto, il fatturato, il reddito operativo, il valore aggiunto o altri?) sia dall'esigenza di premiare i risultati di lungo periodo e non quelli di esercizio. Per tale motivo l'incentivazione pu assumere differenti forme e produrre diversi effetti in funzione dell'orientamento all'individuo o al gruppo e della proiezione nel breve o lungo periodo. In base a questi due fattori si pu difatti costruire una matrice, i cui quadranti sono rappresentati da aumenti salariali, gratifiche, piano di incentivi e stock option. Rispetto ai tipi pi tradizionali d'incentivazione, quest'ultima tecnica di concedere quale parte del compenso l'opzione ad acquistare in futuro e a un prezzo predeterminato azioni della societ per cui si lavora in fase di crescente adozione e risponde al principio di imprenditorializzazione diffusa del rischio. Con le pi moderne tecniche motivazionali si tende, cio, a sviluppare, l'imprenditorialit collettiva, che consente all'impresa di rinnovarsi continuamente attraverso le innovazioni, le decisioni e le capacit di adattamento di tutti i membri dell'organizzazione che operano in collaborazione. 2. Gli stili di direzione. Lo stile di direzione pu essere definito come il modello di governo dei rapporti di lavoro nell'organizzazione. Esso tende ad assumere caratteristiche molto dissimili da impresa a impresa. Nella realt, infatti gli stili di direzione si ordinano in modo tale che ad un estremo c' l'uso predominante dell'autorit da parte del capo e, dall'altro, l'esercizio di un'ampia discrezionalit da parte dei subordinati. L'adozione di un modello, anzich di un altro, legato: 1) al sistema di valori posseduto da chi dirige; 2) alle capacit dei subordinati; 3) alle caratteristiche della situazione entro cui deve esercitarsi il processo di direzione. Lo stile di direzione sempre il risultato dell'interazione di questi tre fattori e rappresenta un modello che tende a variare secondo le circostanze e nel tempo. In questa sede, per poter approfondire meglio l'esame, distinguiamo i due casi limite della direzione autocratica e di quella partecipativa: 1) lo stile autoritario di direzione si lega ad una struttura fortemente accentrata del processo decisorio e si esercita mediante il comando ed il controllo. Il principio di fondo l'esistenza di un rapporto gerarchico, in base al quale il superiore pu imporre al subordinato le sue decisioni; decisioni il cui rispetto sar assicurato mediante il controllo e la minaccia di sanzioni nei confronti del dipendente inadempiente; 2) all'altro estremo si pone lo stile partecipativo o democratico, che richiede una struttura decentrata del processo decisorio, al cui interno sia possibile applicare i principi della delega e dell'autocontrollo. Secondo questo modello, lo schema di direzione prevede cio il coinvolgimento dei subordinati nel processo di decisione, l'assunzione da parte di questi di precise responsabilit ed il controllo diretto (autocontrollo) dei risultati prodotti. Il capo esercita, in tal modo, un ruolo d'impulso e di coordinamento piuttosto che di controllo, assumendo la figura del leader nei confronti del gruppo diretto. Come pose in luce molti anni fa un noto studioso di organizzazione aziendale (Mc Gregor), al fondo di questi due stili di direzione vi sono delle differenti visioni circa la natura ed il comportamento individuale, che configurano appunto due opposte teorie direzionali. La teoria della direzione mediante il comando ed il controllo (battezzata come teoria X) parte, infatti, da tre premesse: 1) luomo in generale detesta il lavoro; 2) gli unici mezzi affinch egli lavori sono i controlli e la minaccia di punizioni; 3) lobiettivo che si pone il lavoratore quello della sicurezza, per cui evita il rischio di accollarsi responsabilit, preferendo essere diretto piuttosto che assumere posizioni di leadership. Di fronte ad una teoria del genere, imperniata su un concetto fortemente riduttivo della personalit del lavoratore, si pone quella della direzione mediante l'integrazione fra obiettivi individuali ed organizzativi (teoria Y). Secondo quest'ultima: 1) il lavoro accettato dalluomo come fatto naturale, quanto lo svago o il riposo; 2) luomo pu esercitare lautodisciplina e, quindi, per lavorare non deve essere n controllato n minacciato di sanzioni; 3) luomo disposto ad accettare responsabilit per salire nella scala dei bisogni fino agli ultimi gradini; 4) la capacit innovativa, limmaginazione e la fantasia creativa, sono diffuse tra i lavoratori e possono essere utilmente sfruttate per risolvere i problemi organizzativi; 5) le potenzialit medie dei lavoratori sono solo parzialmente messe a frutto nelle attuali condizioni della vita aziendale. La teoria Y parte, in sostanza, da un concetto diametralmente opposto di uomo, visto non solo come un essere da motivare, ma anche come individualit da valorizzare e coinvolgere nel processo decisionale aziendale. In realt, dunque, lo sforzo dei dirigenti dovrebbe essere teso all'applicazione della teoria partecipativa, in modo da sfruttare le motivazioni individuali a vantaggio anche dell'organizzazione (che potr portare ad avere condizioni di maggiore efficienza in modo da poter meglio competere in una situazione, come sappiamo, di crescente complessit e difficolt). Naturalmente ci non sempre semplice, perch la partecipazione richiede un'elevata professionalit a tutti i livelli e la creazione di un clima consolidato di collaborazione all'interno dell'organizzazione. Inoltre si deve sottolineare il ruolo rivestito dal sistema premiante praticato nell'impresa, vale a dire la possibilit offerta in termini di sviluppo di carriera a chi dimostra di avere pi capacit professionale e maggiore volont d'impegnarsi. Un modello partecipativo di direzione, che non consenta di premiare i meritevoli, rappresenta null'altro che una bella facciata: chiaro, infatti, che qualsiasi forma effettiva di partecipazione legata all'assunzione di responsabilit e al corrispondente riconoscimento dei meriti acquisiti. Naturalmente, l'adozione con successo di uno stile di direzione partecipativo legato al riconoscimento della leadership del capo, a prescindere a volte dal grado rivestito nell'organizzazione. La leadership consente, infatti, di indurre modificazioni del comportamento di altri individui, senza far necessariamente ricorso ai meccanismi dell'autorit formale (riconosciuta in virt della carica), ma sfruttando l'autorevolezza per ottenere dagli altri l'adesione a progetti e programmi organizzativi. 3. La motivazione del personale mediante l'analisi e l'arricchimento delle mansioni. La funzione di conduzione trover minori ostacoli in presenza sia di modelli organizzativi e direzionali pi avanzati sia di una migliore assegnazione del personale alle varie posizioni organizzative (staffing). Il ruolo di chi dirige, infatti, dev'essere non solo quello di creare la massima armonia e il pi elevato spirito di corpo nei gruppi di lavoro, ma anche della ricerca della maggiore omogeneit possibile tra caratteristiche del lavoro (mansioni) e dei lavoratori. Nei capitoli precedenti si gi detto, in generale, che la soluzione dei problemi organizzativi dev'essere ottenuta con una difficile opera di mediazione fra le esigenze oggettive, connesse con le finalit aziendali da raggiungere, e le capacit soggettive presenti nell'impresa. Per facilitare l'integrazione tra obiettivi dei singoli e dell'organizzazione (e quindi motivare il personale), oltre al modello di conduzione e al sistema premiante, si deve incidere sulle mansioni. La soluzione dei problemi di motivazione del personale pu difatti essere significativamente facilitata mediante l'impiego di tecniche di analisi e valutazione delle mansioni. Queste tecniche hanno assunto un'importanza crescente all'emergere dei problemi di conduzione del personale. Esse possono essere adoperate per diversi scopi, come ad esempio l'individuazione dei requisiti necessari per coprire le posizioni istituite nell'organizzazione, la determinazione del piano retributivo, la misurazione dell'efficienza del personale, ecc. Ai fini del nostro discorso appare di maggiore importanza l'analisi delle mansioni (job-analysis), cio lo studio approfondito e sistematico delle singole posizioni organizzative, diretto a valutare le caratteristiche delle operazioni e dei compiti ad esse connesse, le conoscenze e capacit richieste all'esecutore e le responsabilit nei confronti di altre unit amministrative. L'analisi delle mansioni un procedimento di validit universale per orientare la gestione delle risorse umane. La descrizione della mansione e la specificazione dei requisiti richiesti per ricoprirla consentono di avere una guida preziosa nella selezione del personale, nell'attribuzione dei compiti, nella valutazione della prestazione e nella pianificazione delle carriere. Per migliorare il rendimento del fattore umano, oltre alla corretta assegnazione del personale alle varie posizioni della struttura organizzativa, si pu far ricorso a tecniche di variazione e di ampliamento delle mansioni attribuite. La motivazione a produrre pu essere stimolata mediante la rotazione, lestensione e larricchimento delle mansioni di lavoro. Si distingue: job rotation, l'individuo ruota in mansioni diverse, che sono comprese nello stesso ciclo di lavoro, che rendono la prestazione meno monotona e accrescono le conoscenze e la preparazione del lavoratore; job enlargement, lindividuo vede ampliare la sua mansione in senso orizzontale, cio diventa responsabile di unattivit completa (cicli integrati di operazioni) rispetto alle altre attivit svolte in azienda; job enrichment, lindividuo vede ampliare la sua mansione in senso verticale mediante il coinvolgimento del responsabile nella fase decisionale oltre che operativa. CAPITOLO TREDICESIMO. LA GESTIONE OPERATIVA E IL MARKETING. 1. Il rapporto tra la strategia competitiva e le strategie funzionali. Si gi sottolineato che nelle imprese ben amministrate viene definito un quadro strategico che si compone di una strategia complessiva (corporate), di una o pi strategia competitive nella o nelle aree di affari in cui opera o vuole operare l'impresa e di un insieme di strategie funzionali che attengono alle funzioni secondo cui si articola la gestione aziendale. In realt, come vedremo, sussiste uno stretto legame tra la strategia competitiva e tutte le strategie funzionali, dato che ogni scelta aziendale dovr inserirsi in un sistema di scelte che ricomprender i molteplici aspetti della gestione. 2. Le caratteristiche della gestione operativa. In premessa, il caso di rilevare che la gestione operativa, a differenza di quella strategica e dei meccanismi di governo aziendale, sui quali ci siamo intrattenuti nelle pagine precedenti, si svolge con caratteristiche e problematiche dissimili da azienda ad azienda. Di conseguenza, nell'approfondimento della gestione operativa necessario precisare se si faccia riferimento ad imprese manifatturiere, commerciali, bancarie e via elencando, perch la gestione tender a differenziarsi soprattutto in rapporto alla natura dell'attivit e alle dimensioni della struttura organizzativa. Non potendo peraltro occuparci di tutti i tipi di imprese, preferiamo qui fare riferimento prevalentemente all'organizzazione produttrice di beni (impresa industriale manifatturiera) ovvero a quella che, di solito, presenta la maggiore complessit. Dopo questa necessaria precisazione, schematizzando si pu osservare che le funzioni operative di gestione sono inquadrabili in tre distinti gruppi: 1) funzioni primarie od organiche, quelle non solo comuni a tutti i tipi di azienda, ma anche normalmente inserite all'interno dell'organizzazione; 2) funzioni di supporto, caratterizzate in prevalenza da un grado relativamente minore d'importanza e, in certi casi, affidabili anche a centri esterni di servizio; 3) funzioni ausiliarie, che molto spesso sono, anche se parzialmente, delegate all'esterno per ragioni di economicit o per mancanza di competenze idonee nell'organizzazione. Se volessimo ricorrere a delle classifiche potremmo inquadrare la vendita, la produzione, la finanza e, forse, la logistica quali funzioni organiche; la ricerca e sviluppo, l'amministrazione del personale e la contabilit quali funzioni di supporto; e, infine, la distribuzione commerciale, la pubblicit, i trasporti e la manutenzione quali possibili funzioni ausiliarie. Naturalmente, l'inquadramento proposto presenta molti limiti perch l'estrema differenziazione dei processi operativi pu portare ad una classificazione diversa delle funzioni (vedi la preminenza della ricerca e sviluppo in un'impresa farmaceutica oppure quella della logistica in una grande impresa). Dopo questa breve premessa, possibile ora avviare l'esame delle funzioni primarie od organiche, cominciando da quella di vendita nell'ottica allargata del marketing. 3. L'orientamento dell'impresa nei confronti del mercato. In passato si tendeva a distinguere due tipi di comportamento dell'impresa nei confronti del mercato: 1) il primo era rappresentato dall'orientamento al prodotto, cio dalla cura soprattutto dei problemi attinenti al ciclo di produzione dei beni, per i quali la successiva vendita finiva per costituire unattivit complementare e automatica. Lorientamento al prodotto configurava una situazione di mercato facile (mercato del venditore), nella quale bastava produrre a prezzi competitivi per poter vendere e conseguire profitti. 2) Il secondo era rappresentato dall'orientamento al mercato, ossia dal preventivo accertamento della vendibilit dei prodotti da realizzare. Lorientamento al mercato presupponeva la necessit di analizzare la domanda globale, di valutare la quota massima ottenibile dallazienda e di indirizzare le politiche di produzione in funzione degli obiettivi di vendita realizzabili. Parlare di orientamento al prodotto significa richiamare un comportamento certamente superato e inadatto a gestire l'attivit aziendale in un'epoca di accentuata variabilit delle condizioni di mercato. Ma anche fare riferimento all'orientamento al mercato pu apparire fuori tempo in un periodo in cui l'impresa in realt orientata al business. L'orientamento al business si concreta nella ricerca di nuove occasioni di affari da aggiungere eventualmente a quelle gi sfruttate nellambito del mix di settori in cui opera. In tal senso, lo sguardo di chi governa lazienda proiettato verso lindividuazione di bisogni e desideri dei consumatori che, in funzione delle risorse aziendali disponibili, possono rappresentare delle nuove opportunit di business addizionali o, in certi casi, sostitutive di quelle gi soddisfatte in passato. Il punto centrale della differenza tra orientamento al mercato e al business dato dallampiezza dellarea di osservazione da parte dellimpresa: nellorientamento al mercato le opportunit vanno ricercate nel mercato in cui gi si presenti, mentre nel business la ricerca si estende a tutti i mercati in cui le risorse aziendali possono essere impegnate con successo. Questo orientamento al business fondato sul concetto di marketing, posto al centro della gestione aziendale. In tal senso, il termine marketing, che appare intraducibile nella nostra lingua, indica, infatti, il processo mediante cui l'azienda studia il mercato o i mercati che ritiene interessanti, analizza le tendenze della domanda e la situazione della concorrenza, individua l'esistenza di opportunit di business, orienta la produzione in funzione dei potenziali acquirenti da conquistare, crea la domanda per i nuovi prodotti e provvede a collocare questi ultimi presso sbocchi prescelti. La definizione inquadra cos il contenuto dell'azione di marketing, che si articola in effetti nell'analisi di mercato, nella programmazione dei prodotti, nella promozione della domanda e nell'esecuzione della vendita. Fare del marketing significa attribuire all'area commerciale il ruolo di guida delle strategie competitive. 4. La gestione commerciale: funzioni di marketing e funzioni di vendita. Il marketing, alla luce della definizione proposta, si pone come una particolare filosofia di gestione, incentrata sul mercato e protesa a trovare il migliore equilibrio tra le potenzialit di offerta aziendale e le esigenze attuali e prospettiche della domanda. Come si osservato, la realizzazione di questo obiettivo comporta lo svolgimento di attivit di previsione, di programmazione, di promozione e di distribuzione dei prodotti, per cui il marketing costituisce una funzione fondamentale nell'ambito dell'organizzazione aziendale. Questa funzione richiede, ovviamente, la creazione di strutture idonee e la disponibilit di competenze professionali adeguate, con un allargamento ed arricchimento sostanziale della tradizionale area di vendita. In tal senso, infatti, nell'ambito della funzione commerciale si possono individuare due gruppi di compiti che, per la loro importanza, tendono ad originare delle distinte sub-funzioni: servizio di marketing, che consiste nell'analisi e studi di mercato, programmazione nuovi prodotti, programmazione e controllo di vendita, promozione e sviluppo delle vendite. Queste responsabilit richiedono competenze di studio e una centralizzazione degli organi a cui esse debbono essere confidate. servizio di vendita, che consiste nella gestione dei prodotti finiti, amministrazione delle vendite, gestione delle vendite (assistenza tecnica, rete di vendita, distributori). Queste responsabilit comportano delle azioni da svolgere in diretto contatto con il mercato. Questi due processi restano comunque strettamente collegati mediante flussi informativi bidirezionali. 5. Politiche di marketing o 4P. Come si detto, la strategia competitiva, prescelta in base agli orientamenti di sviluppo dell'impresa, si deve tradurre, sotto l'aspetto tattico, nella fissazione di obiettivi di periodo e nella definizione delle politiche da attuare nei confronti della clientela. Le politiche di marketing, nel loro insieme, compongono la combinazione o mix di marketing, cio la miscela delle scelte rivolte all'ottenimento degli obiettivi di mercato fissati di periodo in periodo. Queste scelte possono essere raggruppate in quattro politiche fondamentali (prodotti, prezzi, promozione e canali o, in inglese, product, price, promotion and place), su cui concentrare l'analisi. Sono esse, infatti, strumenti fondamentali dell'azione di marketing, il cui fine di avvicinare l'offerta dell'azienda alla domanda diffusa dal mercato, mediante un processo di adattamento che coinvolge le variabili essenziale dello scambio (il bene offerto, il prezzo di vendita, l'informazione sul prodotto e la disponibilit del bene nei punti di acquisto). La definizione della miscela di marketing poggia sulla scelta strategica del bersaglio di mercato o mercato-obiettivo (market-target) da raggiungere e richiede uno studio approfondito del comportamento dei consumatori, vale a dire delle abitudini e delle motivazioni di acquisto. Tale comportamento, tende, in generale, a variare in funzione del tipo di prodotto, dato che la frequenza, il luogo, il tempo e la causa dell'acquisto si differenziano notevolmente, passando da articoli di consumo giornaliero, ad articoli di consumo periodico e di acquisto eccezionale. 6. Il comportamento del consumatore e la segmentazione del mercato. In realt, le scelte del consumatore sono tanto pi ampie quanto maggiore la discrezionalit nella destinazione del reddito disponibile. Idealmente, infatti, il reddito netto di ciascuna unit consumatrice si fraziona in due parti: la prima impegnata per il soddisfacimento di bisogni essenziali o di prima necessit e la seconda disponibile per il risparmio o per l'appagamento di bisogni non essenziali. Di conseguenza, il processo di decisione, nel caso di reddito impegnato, si limita alla scelta tra beni diretti a soddisfare i bisogni essenziali; mentre nell'ipotesi di reddito discrezionale, destinato alla spendita e non al risparmio, comprende prima la selezione dei bisogni da soddisfare, e, poi, quella dei beni idonei a procurare tale soddisfacimento. Questo schema decisionale, in presenza di pi marche degli stessi prodotti, si estende, in entrambi i casi, anche alla selezione di una particolare marca, tra quelle presenti sul mercato. Ci significa che, per la spendita del reddito discrezionale, il consumatore attua in effetti un processo di scelta a tre stadi (bisogni, bene e marca) e che, di conseguenza, il produttore si trova a fronteggiare una concorrenza indiretta o tra bisogni, una concorrenza allargata o tra beni alternativi ed una concorrenza diretta o tra marche. Il processo di acquisto si realizza, in pratica, mediante un complesso di scelte del consumatore che si differenziano per quanto riguarda il luogo, il tempo, la quantit e le modalit di acquisto del bene o del servizio richiesto. Queste scelte determinano le <i>abitudini </i>dacquisto. La conoscenza di tali abitudini permette allazienda di orientare le sue politiche di marketing, che possono essere rivolte ad assecondare le abitudini esistenti o a creare nuovi modelli di comportamento. Ma, ai fini dell'orientamento dell'azione competitiva, interessa soprattutto conoscere le cause che originano differenti comportamenti di acquisto, cio risalire al perch di certe scelte da parte del consumatore. Quest'ultimo infatti, si muove secondo motivazioni tra le pi diverse, che s'intrecciano le une con le altre. Secondo un classico schema teorico, le motivazioni di acquisto si dividono in tre gruppi: 1) motivazioni razionali, incentrate sul calcolo economico e orientate, sostanzialmente, dalla valutazione del rapporto prezzo-qualit dei beni da acquistare; 2) motivazioni emotive, collegate alla sfera dei sentimenti e derivanti da fattori di gusto, di estetica, di personalit del consumatore; 3) motivazioni di patrocinio, correlate alla fiducia nel produttore o nel distributore e alla creazione di un rapporto di integrazione tra il consumatore e la marca, tale che il primo diventi non solo un acquirente stabile e fedele dei prodotti di quell'azienda o di quel negozio, ma anche un patrocinatore della marca o del punto di vendita nei confronti di altri consumatori. Come si accennato, le motivazioni di acquisto mutano non solo in funzione della natura dei prodotti, ma anche delle condizioni del consumatore. Infatti il rapporto tra prezzo del bene e reddito disponibile che influenza le modalit e le motivazioni dell'acquisto, pi questo rapporto elevato, pi tendono a prevalere i motivi razionali e di patrocinio rispetto a quelli emotivi. Questi ultimi, invece, concorrono a spiegare per intero la loro valenza per gli acquisti cosiddetti di impulso, caratterizzati da un basso rapporto prezzo/reddito. A causa delleterogeneit dei comportamenti dei consumatori, ogni mercato si pu frazionare in pi sub-mercati e segmenti di mercato, ciascuno comprendente una particolare categoria di acquirenti. Ogni mercato potrebbe essere costituito da un'infinit di segmenti, ma allimpresa interessa cogliere le principali uniformit di comportamento ed isolare classi di clientela che, per omogeneit e dimensione, si prestino ad essere considerate come un solo sub- mercato, meritevole di essere gestito in modo indipendente. I parametri utilizzati pi frequentemente per effettuare la segmentazione sono, in generale, raggruppabili in cinque classi: 1) parametri demografici (et, sesso, razza, nazionalit, ampiezza della famiglia); 2) parametri socio-economici (reddito, professione, livello di istruzione); 3) parametri ubicazionali (popolazione urbana, suburbana e rurale); 4) parametri psicografici (personalit, autonomia decisionale, preferenza per linnovazione); 5) parametri comportamentali (disposizione allacquisto, grado di fedelt, benefici desiderati).
7. La strategia competitiva e la strategia di marketing.
Il processo di segmentazione comporta non solo la scelta dei criteri di suddivisione dei consumatori, cio l'individuazione dei fattori pi direttamente influenti sui comportamenti di acquisto del prodotto considerato; ma anche la separazione dei vari segmenti di mercato e la misurazione della loro consistenza. Quest'ultimo punto mira a valutare se l'ampiezza degli strati individuati consente di predisporre un'apposita azione di marketing. In particolare l'impresa pu adottare tre differenti atteggiamenti: 1) rivolgersi al mercato come se fosse omogeneo, prescindendo cio dalla sua segmentabilit; 2) indirizzarsi ad un gran numero di segmenti mediante la formulazione di diversi programmi di marketing; 3) mirare ad uno solo o, al massimo, a pochi segmenti di mercato con la predisposizione di un unico programma di marketing. Nel primo caso l'impresa si rivolge ad un ampio numero di potenziali acquirenti sulla base di un programma standard di marketing; nel secondo i programmi di marketing si differenziano per i diversi segmenti; nel terzo, invece, il programma sempre uno, ma la sua formulazione mirata ad uno specifico segmento o strato di mercato. Partendo da questa classificazione, il Kotler ha distinto i casi del marketing indifferenziato, differenziato e concentrato. Da tempo pi difficili a ritrovarsi sono gli esempi di marketing indifferenziato. Una strategia del genere presenta l'indubbio vantaggio di far realizzare consistenti economie di costo, dovute alla standardizzazione del processo produttivo, della distribuzione ecc.; ma comporta una maggiore rischiosit a causa della concentrazione di tutti gli sforzi aziendali su un unico modello di prodotto. Una strategia di marketing differenziato rivolta a creare delle condizioni di offerta il pi possibile omogenee a quella della domanda, allo scopo di ampliare il volume delle vendite. Questo modo di procedere pone in grado di conquistare larghe fette di mercato, ma comporta il sostenimento di maggiori costi di produzione, di amministrazione e di promozione. Infine, in una strategia di marketing concentrato i vantaggi sono connessi con la maggiore specializzazione (che significa minori costi di produzione, di amministrazione e di promozione). Anch'essa, per, sottoposta a condizioni di elevata rischiosit in quanto l'azienda lega il uso successo ad uno specifico sub-mercato e finisce, di conseguenza, per dipendere strettamente dalle vicende che si verificano in quest'ultimo. 8. La politica di prodotto e della marca. Il successo di un'impresa dipende dal favore che riscuote la sua offerta commerciale e, innanzitutto, dal grado di accettazione dei beni che pone sul mercato. La politica del prodotto appare caratterizzata da un alto tasso di strategicit perch richiede l'allestimento di strutture molto impegnative sotto il duplice profilo delle risorse finanziarie da immobilizzare e della rigidit delle scelte di fondo formulate. Si tratta, difatti, di decisioni che vincolano l'impresa per tempi lunghi, necessari per ammortizzare gli investimenti, e che s'incentrano nel determinare: 1) l'ampiezza dell'offerta, ovvero la minore o maggiore estensione della gamma di vendita; 2) la differenziazione degli assortimenti, ovvero la distinzione interna alla gamma ed esterna rispetto alla concorrenza; 3) l'innovativit delle produzioni, ossia il tasso di rinnovamento e di ricambio dei prodotti posti in vendita; 4) la visibilit dei prodotti, ossia la scelta della marca e della confezione. 8.1. Ampiezza della gamma di vendita. La gamma di vendita si pu caratterizzare in ampiezza (tipologia produttiva), profondit (assortimento) e coerenza (affinit dei tipi di prodotti, ovvero maggiore l'affinit tecnologica e di mercato, pi marcato il grado di coerenza della gamma). oggi sempre pi raro ritrovare delle imprese che realizzano e vendono un solo prodotto. Questo sia per ragioni strettamente produttive sia di mercato, ossia per potere operare in pi mercati diversi frazionando il rischio. In aggiunta a questi motivi di carattere generale, bisogna tenere conto anche dei rapporti di complementarit e sostituibilit tra prodotti diversi. I casi di maggiore rilievo sono quelli dei: 1) prodotti strategici: allinterno di ogni impresa ci sono i cosiddetti prodotti da reddito, che generano i maggiori flussi di cassa. I prodotti strategici sono prodotti la cui presenza necessaria per favorire la vendita dei prodotti da reddito. 2) Prodotti da richiamo: beni che possono richiamare lattenzione dellacquirente sullintera gamma (in quanto particolarmente convenienti) e contribuire alla vendita dei prodotti da reddito. Ipotesi pi frequente a livello distributivo.
8.2. La profondit degli assortimenti.
Rispetto al concetto dell'assortimento (pi modelli, pi versioni del prodotto), si deve sottolineare che, quasi sempre, ogni prodotto viene portato al mercato in una variet di modelli. Questo per una serie di ragioni che riguardano: 1) le caratteristiche intrinseche del tipo di prodotto (ad es. abiti, calzature ecc., da adattare a taglie e gusti diversi del consumatore); 2) la segmentazione della domanda e il posizionamento dell'offerta, da differenziare in funzione dei gruppi di consumatori da servire; 3) l'invecchiamento dei modelli e la differente capacit di contribuzione al reddito d'impresa. 8.2.1. Differenziazione dei modelli e posizionamento di mercato. Tralasciando l'approfondimento della prima causa di differenziazione in quanto in parte estranea a decisioni di politica aziendale, il caso di soffermarsi sul secondo e, soprattutto, sul terzo punto prima elencato. Le ragioni di marketing degli assortimenti si legano, infatti, soprattutto alla strategia di differenziazione con la quale l'impresa intende servire pi segmenti e nicchie di mercato. A tale proposito, la decisione fondamentale concerne il posizionamento dell'offerta nei confronti della concorrenza. Per posizionamento s'intende l'insieme di iniziative volte a definire le caratteristiche del prodotto dell'impresa e ad impostare il marketing-mix pi adatto per attribuire una certa posizione al prodotto nella mente del consumatore. Il problema del posizionamento di collega direttamente con quello della segmentazione. A seguito infatti della segmentazione, l'azienda pu scegliere la strategia di marketing da attuare (indifferenziata, differenziata o concentrata), ma quest'ultima dev'essere orientata in funzione delle fasce pi particolari da servire. Spiegandoci con un esempio, partiamo dalla constatazione che nel mercato automobilistico presente un segmento costituito dagli acquirenti di autovetture di piccola cilindrata (fino a 1200 c.c.), ma che all'interno di questo i consumatori si suddividono in pi strati secondo il peso attribuito alle economie nel prezzo di acquisto, nella qualit e all'estetica dei prodotti. Di conseguenza, logico che i costruttori puntino a caratterizzare differentemente i loro modelli secondo una certa combinazione di questi attributi, in modo da posizionare il proprio prodotto nel particolare mercato. Come appare nel grafico, le quattro imprese concorrenti hanno adottato decisioni differenti in tema di posizionamento: l'impresa A ha scelto una politica di qualit e prezzo alto, l'impresa C si orientata per prezzi pi contenuti e standard qualitativi meno elevati, mentre le aziende B e D si sono attestate su posizioni intermedie di qualit e di prezzo del prodotto. Supponendo che l'impresa D sia entrata per ultima nello specifico segmento di mercato, la sua scelta l'ha portata a porsi in concorrenza pi diretta con l'azienda B e meno immediata con le aziende A e C. Le motivazioni di un tale comportamento possono essere state, ad esempio, la maggiore capacit di costruire un auto utilitaria con caratteristiche intermedie di qualit e prezzo, il desiderio d'inserirsi nel sub-segmento pi consistente e redditizio, la volont di non scontrarsi con le impresa A e C. 8.2.2. Ciclo di vita del prodotto e necessit di rinnovamento della gamma. Lesigenza di una pluralit di modelli e tipi di prodotto deriva anche dal naturale invecchiamento della gamma e della necessit, quindi, di procedere in modo sistematico e continuativo al suo rinnovamento. Sotto tale profilo assumono particolare rilevanza i concetti di ciclo di vita del prodotto e della matrice del portafoglio prodotti. Per l'impresa assumono un'importanza rilevante tutte le decisioni relative al ringiovanimento e alla radiazione dei prodotti obsoleti e al correlativo inserimento dei prodotti nuovi nella gamma di vendita. A tal fine, bisogna tentare di prevedere il ciclo di vita del prodotto, in modo da provvedere tempestivamente alle scelte di rinnovamento. Ogni prodotto, dal momento della sua immissione nel mercato a quello della sua eliminazione dalla gamma di vendita dell'impresa, attraversa sostanzialmente quattro fasi: 1) introduzione, in cui il prodotto inizia ad affermarsi con una crescita piuttosto debole delle vendite. In questa fase il prodotto, anche se venduto ad un prezzo elevato, genera perdite, a causa della scarsa quantit collocata e degli alti costi distributivi e promozionali da sopportare per la sua immissione sul mercato; 2) sviluppo, in cui lespansione delle vendite avviene ad un ritmo molto rapido, a seguito dellaffermazione del prodotto nel mercato. Il rapido aumento delle vendite consente lottenimento di margini crescenti, data la riduzione dei costi unitari dovuta a risparmi assoluti di costi e alla possibilit di diffondere i costi totali su una maggiore quantit di produzione. Inoltre, lazione promozionale comincia a produrre appieno i suoi frutti e lattivit di collocamento facilitata a causa dellinteresse suscitato nei distributori; 3) maturit, in cui le vendite continuano a svilupparsi ma ad un tasso meno elevato. Il prodotto continua a generare profitti elevati per effetto dellallargamento del mercato, ma la situazione diventa pi difficile a causa della concorrenza sviluppatasi nel mercato e della stazionariet della domanda: il volume delle vendite si stabilizza e comincia ad accusare delle lievi flessioni; 4) declino, in cui il volume delle vendite comincia a ridursi pi o meno rapidamente per lobsolescenza del prodotto, per limmissione di un prodotto sostitutivo o per la saturazione della domanda. I consumatori perdono progressivamente interesse per il prodotto e i margini di profitto si comprimono fino ad arrivare ad un punto tale da consigliare la radiazione del prodotto dalla gamma. Il ciclo di vita del prodotto non ha sempre lo stesso andamento perch, a seconda dei casi, si pu presentare a balzi, con tempi di crescita e di declino pi brevi, con picchi elevatissimi e cadute altrettanto rapide. La differente partecipazione al reddito aziendale delle diverse fasi del ciclo di vita del prodotto alla base della nota matrice del portafoglio prodotti, costruita dal Boston Consulting Group. Essa suddivide i prodotti in quattro gruppi in funzione del cash-flow, intendendo con questo termine il divario tra investimenti e ritorni relativi a ciascun tipo di prodotto. La matrice stabilisce un rapporto diretto tra cash-flow di prodotto e condizioni interne (quota di mercato) ed esterne (sviluppo della domanda). In altre parole, per ciascun prodotto la situazione favorevole o sfavorevole del ritorno dell'investimento, dipende dalla quota di mercato detenuta dall'impresa e dal tasso di variazione della domanda globale. In base a questi due parametri viene costruita una matrice, al cui interno figurano nei quattro quadranti: 1) prodotto marginale (dogs, cani): prodotti con bassa quota di mercato e lento sviluppo della domanda. Questo prodotto presenta un flusso di cassa insoddisfacente o addirittura negativo, a causa del costo elevato da sostenere per mantenere una posizione competitiva debole; 2) prodotto rischioso (question marks, enigmi): prodotti con bassa quota di mercato e rapido sviluppo della domanda. Questo prodotto genera il cash-flow peggiore perch richiede elevati investimenti per fronteggiare un mercato in rapido sviluppo, nel quale per la quota detenuta limitata: si tratta, in effetti, di un prodotto che deve diventare di successo oppure va eliminato dalla gamma; 3) prodotto di successo (stars, stella): prodotti con alta quota di mercato e rapido sviluppo della domanda. Questo prodotto presenta un cash-flow positivo anche se, per fronteggiare la concorrenza in un mercato in rapida espansione, sar necessario continuare ad investire risorse; 4) prodotto da reddito (cash cows, vacche da mungere): prodotti con alta quota di mercato e lento sviluppo della domanda. Questo prodotto quello che dar i ritorni pi soddisfacenti perch lazienda sfrutter la sua posizione di forza (alta quota) in un mercato poco interessante per la concorrenza (perch non si sviluppa). La matrice, oltre ad individuare classi differenti di prodotto, definisce tappe diverse nella vita degli stessi prodotti. Essa permette di determinare due tipi di progressione: favorevole, prevede il passaggio da prodotto rischioso a prodotto di successo e, infine, a prodotto da reddito; sfavorevole, ipotizza il passaggio da prodotto di successo a prodotto rischioso e a prodotto marginale, ma anche da prodotto da reddito a prodotto marginale (meno frequente). Anche se con certi limiti (quale, ad esempio, la mancata considerazione di prodotti inseriti in mercati con decremento della domanda), la matrice del portafoglio prodotti pu in sostanza aiutare la direzione aziendale a valutare la potenzialit economico-finanziaria dei prodotti compresi nella gamma di vendita. Rispetto alla matrice del portafoglio del BCG, pi completa appare quella messa a punto dalla General Eletric, fondata sull'attrattivit del mercato e sulla posizione competitiva. In realt, queste due variabili ampliano gli elementi della matrice BCG (sviluppo della domande e quota di mercato) e ipotizzano nove possibili situazioni per ciascuna impresa. L'attrattivit di un settore , infatti, funzione del tasso di sviluppo della domanda, ma anche da rapportare ai margini di profitto conseguibili, alla dimensione totale del mercato e ad altri fattori che possono essere importanti a seconda dei casi. Cos, la posizione competitiva, oltre ad essere correlata alla quota di mercato, pu rapportarsi alla velocit della sua crescita, al grado di innovativit dei prodotti, ecc. Da ci deriva che la costruzione di questo schema multifattoriale richiede una preventiva analisi dei fattori tipici di ciascun settore e pu indurre a valutazione che si attagliano meglio ai singoli casi concreti. La lettura della matrice consente, difatti, di rilevare che i quadranti in alto a sinistra (1, 2, 4) denotano la necessit per l'impresa di investire per rafforzare la posizione di mercato detenuta dai suoi prodotti, mentre i quadranti in basso a destra (6, 8, 9) definiscono posizioni di scarso interesse per le quali sarebbe opportuno disinvestire e realizzare quanto possibile. Rimane, in tal modo, un'area intermedia (quadranti 3, 5, 7), nella quale le decisioni aziendali dovrebbero essere di mantenimento in funzione delle prospettive di evoluzione della posizione occupata. I modelli di portafoglio, da impiegare comunque con cautela, aiutano dunque ad impostare strategicamente il marketing relativo ai vari prodotti inseriti nell'assortimento o ai differenti settori in cui opera l'impresa. 8.2.3. La politica della marca e le altre scelte che rientrano nella politica del prodotto. Un prodotto non pu essere visto solo come un mezzo per appagare un bisogno chiaramente delimitato, ma va considerato come un fascio di utilit (bundle of utilities), un insieme di attributi tangibili e intangibili, che risponde ad esigenze di vario ordine. Per chiarire meglio il concetto, basta osservare che chi compra un'automobile non intende soddisfare solo il bisogno di potersi trasferire pi velocemente da un luogo ad un altro, ma anche quello di ottenere un simbolo di appartenenza ad un certo livello sociale, di appagare particolari esigenze della sua personalit (gusto di velocit, senso di sicurezza, ecc.). Nella politica del prodotto s'inserisce, perci, una specifica componente promozionale, che si estrinseca nella costruzione dell'immagine della marca. A tale scopo, la politica della marca, insieme con quelle di confezionamento (presentazione) del prodotto e dell'assistenza post-vendita (servizio), finisce per rappresentare un ulteriore ed importante aspetto della politica di prodotto, che appare quanto mai poliedrica e complessa. La marca ha assunto un ruolo di primo piano nel marketing mix perch sinonimo di garanzia di qualit del prodotto. Limpresa pu scegliere tra ladozione di: una marca industriale o commerciale; una marca unica per lintera famiglia di prodotti (family brand o firm brand); marche distinte per ciascun prodotto venduto (product brand). La confezione per certi tipi di beni assume un'importanza considerevole sotto il profilo promozionale e sotto quello della migliore conservazione del prodotto. Il tipo di confezione spesso sfruttato per indurre il consumatore a preferire quel tipo di marca rispetto alle concorrenti. Lindustrial packaging per molti prodotti alimentari diventato un fattore competitivo fondamentale per le possibili sinergie che si possono sfruttare con la funzione di trasporto, i cui costi si riducono proporzionalmente allutilizzo di confezioni che, per struttura e praticit, ne agevolano il servizio, velocizzandolo e rendendolo pi efficiente. Infine, nell'ambito della politica del prodotto s'inquadra il problema delle garanzie da fornire ai compratori e dell'assistenza post-vendita. Il primo comune alla maggior parte dei prodotti. La garanzia di qualit pu essere implicita nel nome del produttore, quando questo abbia acquisito una posizione di prestigio nel mercato, oppure pu essere <i>esplicita </i>mediante lapposizione di marchi di qualit. Differente, anche se naturalmente correlata allo standard qualitativo, la concessione di garanzie di funzionamento, che si concretano nell'assicurare l'assistenza gratuita da parte del produttore, generalmente entro un certo lasso di tempo dalla data di acquisto del bene. 9. La politica di prezzo. La determinazione e l'amministrazione dei prezzi di vendita assumono un ruolo importante nell'elaborazione del programma di marketing, in quanto il fattore prezzo rimane quello su cui, in ultima analisi, si impostano le comparazioni finali dei consumatori. Il problema si concreta nella formulazione del sistema dei prezzi da applicare ai prodotti compresi nella gamma e nell'amministrazione dei listini praticati alla clientela. Il primo aspetto riguarda, sostanzialmente, la determinazione dei prezzi di vendita, mentre il secondo concerne la discriminazione e il controllo dei prezzi stessi. 9.1. La determinazione dei prezzi di vendita. La determinazione del prezzo avviene sulla base delle seguenti premesse generali: funzione attribuita al prezzo in relazione alla segmentazione del mercato e al posizionamento della marca; equilibrio volumi-margini da conseguire; ruolo del particolare prodotto (modello) allinterno della gamma di vendita; peso della politica del prezzo nel marketing-mix. Il prezzo pu essere, difatti, lo strumento preferito per posizionare il prodotto nellambito del segmento di mercato prescelto: questo accade tutte le volte in cui l'elasticit della domanda al prezzo e al reddito del consumatore elevata. La scelta del livello di prezzo conseguente alla definizione della clientela da servire e determina lintervallo di manovra in rapporto a particolari obiettivi da conseguire. Questi ultimi possono essere orientati all'ottenimento di maggiori volumi immediati oppure allo sfruttamento di pi elevati margini reddituali. L'area di manovra per la fissazione del prezzo risulta definita soprattutto da tre elementi: 1) costo del prodotto (legato all'incerta imputazione dei costi comuni, all'incertezza dei costi variabili, previsione del volume di produzione e vendita che a sua volta legata al prezzo); 2) elasticit della domanda (la determinazione del prezzo deve tener conto del valore attribuito al prodotto dai consumatori); 3) pressione della concorrenza (il prezzo risentir del livello di differenziazione del prodotto). In pratica, il possibile spostamento del prezzo dipende da molti fattori, fra i quali assumono un maggior peso: concorrenza reale, cio la presenza nel mercato di prodotti con caratteristiche pi o meno similari a quelle del prodotto considerato; concorrenza potenziale, cio la possibile entrata di altri produttori una volta superate certe soglie di prezzo; concorrenza indiretta, cio la minaccia di prodotti sostitutivi; grado di differenziazione del prodotto rispetto alla concorrenza; qualit del servizio fornito insieme al prodotto. Il concetto di fondo a cui si lega la politica del prezzo quello della differenziazione del prodotto, dato che i gradi di libert nella fissazione del prezzo dipendono dai vantaggi differenziali di cui il prodotto gode nei confronti della concorrenza. Ci vale ancor pi allorch i vantaggi differenziali sono destinati a permanere nel tempo. questo grado di differenziazione che consente di ricavare un premium-price, cio un differenziale favorevole di prezzo nella vendita del prodotto. In senso generale, la fissazione dei prezzi di vendita orientata dagli obiettivi e dalle politiche che l'azienda intende perseguire nel tempo breve e nel lungo termine. Lasciando da parte le decisioni di breve periodo, che possono rispondere a finalit occasionali (creare liquidit finanziaria, acquisire un nuovo cliente ecc.), gli orientamenti della politica di prezzo possono essere verso: 1) penetrazione del mercato: limpresa mira a raggiungere il numero pi ampio di consumatori mediante la fissazione di un prezzo minimo che le consenta di acquisire immediatamente una larga fascia di clientela e di recuperare, in termini di profitto globale, il minor margine unitario. La politica di penetrazione consigliabile quando possibile ottenere economie di scala e quando la differenziazione del prodotto annullabile in tempi brevi. La minaccia della concorrenza reale e potenziale e lopportunit di sfruttare delle economie di costo, possono consigliare al produttore, soprattutto se il prodotto si presta ad essere accettato subito dai consumatori, di scegliere lobiettivo di una rapida conquista della pi ampia quota di mercato. 2) Scrematura del mercato: limpresa si prefigge la conquista successiva di segmenti di mercato sempre meno ricchi o, per meglio dire, di classi di consumatori disposte a spendere sempre meno per acquistare quel particolare prodotto. Questo obiettivo di scrematura si collega, dunque, ad una politica di prezzi inizialmente elevati e decrescenti nel tempo, il cui fine la massimizzazione del profitto unitario come via per massimizzare il profitto globale. La politica di scrematura si fa preferire quando il prodotto gode di una protezione diffusa nel tempo, non si presta ad essere accolto immediatamente da larghe fasce di clientela e consente, a causa della differente elasticit della domanda rispetto al prezzo, di segmentare redditiziamente il mercato. Inoltre la determinazione della politica di prezzo fissa i limiti entro cui vanno assunte le scelte relative ai singoli prodotti. Queste, infatti, devono tener conto anche del ruolo che ciascun prodotto o modello chiamato a svolgere all'interno della gamma di vendita. Si tratta, cio, di valutare se, tra i prodotti posti in vendita, esistano delle relazioni d'interdipendenza e stabilire, in caso affermativo, in qual modo esse debbano essere regolate. Per valutare l'interrelazione fra i prezzi dei prodotti venduti, si pu calcolare l'indice di elasticit incrociata, cio nell'ipotesi di due beni A e B il rapporto fra la variazione percentuale della domanda del bene A rispetto a quella del prezzo del bene B. Dove: Ea,b = indice di elasticit incrociata; Va = domanda del bene A; Pb = prezzo del bene B. Se l'elasticit dovesse risultare positiva (ad un aumento del prezzo di B corrisponde un aumento delle vendite di A) i beni sarebbero intersostituibili; se negativa, complementari se bassa o nulla, non correlati. Con un esempio potremmo rilevare che la progressiva e drastica riduzione del prezzo dei telefoni cellulari con lettori MP3 far diminuire le vendite dei lettori CD portatili (prodotto alternativo), far aumentare le vendite delle memory card (prodotto complementare) e non avr nessun particolare effetto su quella dei PC (bene non correlato).
9.2. L'amministrazione dei prezzi di vendita.
La determinazione del prezzo base di ciascun articolo della gamma non esaurisce il problema di cui ci stiamo occupando. Un problema che scaturisce dalla determinazione dei prezzi quello della definizione dei margini commerciali, cio delle detrazioni sul prezzo finale di vendita da praticare agli intermediari mercantili. Dal modo di fissazione dei prezzi si collega il grado di controllo che l'impresa desidera esercitare nei confronti del sistema dei prezzi praticato nel mercato. Sotto tale profilo, i prezzi possono essere: 1) imposti, cio quelli da praticare senza sconti ai compratori finali; 2) suggeriti, cio quelli per cui consentito al rivenditore un certo margine di manovra ( il caso dei distributori di carburante); 3) liberi, cio quelli stabiliti solo indicativamente dal produttore, ma che non vincolano in alcun modo il distributore. 10. La politica di promozione e sviluppo delle vendite. La politica promozionale si concreta nello stabilire gli obiettivi, le modalit e i mezzi di comunicazione con i vari pubblici, in quanto soprattutto ad essa confidato il compito di inviare informazione agli interlocutori con cui limpresa in contatto. L'azienda, dovendo vivere in un rapporto di reciproco scambio con l'ambiente, ha necessit di ricevere ed inviare messaggi, di farsi conoscere, di creare relazioni, d'inserirsi nel contesto socio-culturale che la circonda. In questo senso, dunque, l'attivit di comunicazione esercitata anche al di l dell'azione promozionale, ricollegandosi a qualsiasi forma di relazione con il sistema ambientale. La promozione pu essere definita in generale come <i>il complesso di azioni poste in essere dallimpresa per indurre, preservare o modificare i modelli di comportamento degli operatori di mercato (consumatori, intermediari, finanziatori, altri produttori, ecc.) allo scopo di ritrarre un vantaggio competitivo. In ogni caso lo scopo ultimo e pi specifico di creare delle preferenze, d'informare e di persuadere ad acquistare i beni prodotti dall'impresa. Essa, dunque, deve indurre all'acquisto, sfruttando le motivazioni che determinano il comportamento del consumatore. Per comprendere meglio quest'ultimo, qui opportuno ritornare sul processo di formazione delle decisioni di acquisto, oggetto di studio specie in campo psico-sociologico. In tale processo sono stati individuati tre momenti o fasi successive: [Modello AIDA] 1) il momento cognitivo (stadio conoscitivo), in cui si acquisisce la consapevolezza del bisogno da soddisfare e si inizia a rivolgere lattenzione ai prodotti idonei a tale scopo; 2) il momento emotivo (stadio affettivo), in cui lattenzione si trasforma prima in interesse e poinel desiderio di disporre del prodotto; 3) il momento attivo (stadio comportamentale), in cui si passa alla fase materiale dellacquisto mediante una comparazione delle varie offerte di mercato. L'impresa, dunque, partendo dalla conoscenza dei meccanismi di formazione della volont del consumatore, per ci che attiene specialmente alle motivazioni di acquisto, orienta la sua attivit promozionale e invia una serie di messaggi e di stimoli che devono spingere a preferire il proprio prodotto. La politica promozionale pu essere realizzata mediante: 1) lattivit di pubbliche relazioni; 2) la pubblicit; 3) la promozione in senso stretto; 4) lattivit persuasiva dei venditori. Queste attivit si collocano in posizioni differenti in quello che pu essere definito l'imbuto promozionale. Si ricorre al concetto di imbuto per sottolineare l'immissione nell'attivit promozionale di risorse, che si differenziano per modalit d'impiego e per effetti prodotti, allo scopo di ottenere lo sviluppo delle vendite. Ciascuna via promozionale ha, quale fine ultimo, l'aumento del volume d'affari dell'impresa, ma pu prefiggersi anche degli obiettivi diversi nel breve termine. tale, ad esempio, il caso delle relazioni pubbliche che concorrono a creare un'immagine favorevole dell'impresa presso i pubblici con cui essa entra in rapporto. Attraverso conferenze, convegni, istituzione di borse di studio, opere sociali, beneficenza, ecc., limpresa riesce infatti a farsi accettare dal pubblico. Le relazioni pubbliche non si propongono, dunque, di far vendere i prodotti, ma di far conoscere l'impresa. intuibile, tuttavia, che il fine ultimo quello di creare le condizioni pi favorevoli per migliorare le posizioni di mercato. Per questo, esse si trovano all'inizio dell'imbuto, dato che hanno lo scopo di raggiungere il pi vasto pubblico possibile (massimo effetto orizzontale o informativo) senza tuttavia mirare immediatamente a risultati di vendita (minimo effetto verticale o persuasivo). La pubblicit senz'altro l'attivit pi tradizionale di sviluppo delle vendite, per cui talvolta confusa con la funzione promozionale nel suo complesso. Secondo una definizione molto diffusa, per pubblicit s'intende qualsiasi forma di messaggio impersonale inviato a pagamento da un promotore individuato a coloro che sono o possono essere interessati al prodotto. La pubblicit viene realizzata attraverso i media (radiotelevisione, stampa quotidiana e periodica, cinema, manifesti, ecc.) ed ha generalmente un ampio effetto di propagazione del messaggio. Le campagne possono essere necessarie per: 1) propagandare un nuovo prodotto (campagne di lancio); 2) rivitalizzare un prodotto in declino (campagne di urto); 3) rafforzare laffermazione della marca (campagne di prestigio); 4) sottolineare la continuit di presenza del prodotto nel mercato (campagne di ricordo). Accanto alla via pubblicitaria, le imprese, proprio per rafforzare l'effetto di richiamo, attuano azioni cosiddette di promozione in senso stretto. Quest'ultima si differenzia dalle altre forme perch si concreta nel creare, di solito per periodi limitati di tempo, particolari incentivi per l'acquisto dei prodotti aziendali, e quindi ha un'elevata carica persuasiva. Per questo, si colloca quasi alla fine dell'imbuto promozionale, vicino all'attivit del personale di vendita (ultimo livello dell'imbuto) che, nella stessa promozione, ritrova spesso opportunit per realizzare una pi efficace azione commerciale. I problemi di composizione quali-quantitativa della miscela promozionale fanno parte della formulazione del budget pubblicitario, che serve a predeterminare l'entit, le modalit e i tempi d'impiego dei differenti strumenti promozionali. Il primo problema da risolvere concerne l'ammontare dei mezzi da destinare alla promozione delle vendite: problema reso complesso dal fatto che la misura dell'efficacia pubblicitaria estremamente difficile. Per tale motivo, lo stanziamento determinato spesso in modo empirico e poco razionale. 11. La politica di distribuzione commerciale. Per limpresa industriale, la politica distributiva comporta scelte relative: 1) alla determinazione del livello di contatto con il mercato (fino allo stadio del commercio allingrosso, del dettaglio o del consumo finale) [tipologia degli sbocchi]; 2) allintensit della distribuzione (vendita estensiva, selettiva o esclusiva) [numero di sbocchi]; 3) al tipo di operatori cui affidare il collocamento dei prodotti aziendali (venditori aziendali, commercianti, ausiliari mercantili) [modo di collegamento]. In altri termini le scelte distributive riguardano la tipologia degli sbocchi attraverso cui far defluire i beni posti in vendita, il loro numero e il modo di collegarsi con essi. Per stabilire le vie di deflusso delle produzioni necessario conoscere, anzitutto, la struttura della distribuzione prevalente nel mercato. Appare opportuno, in altre parole, accertare se, ad esempio, gli acquirenti prediligano una forma di vendita diretta al consumo o se propendano per l'acquisto presso unit dettaglianti di piccole o di grandi dimensioni. Il secondo momento, nello schema esposto, concerne la scelta del numero di sbocchi attraverso cui avviare i prodotti sul mercato. Questa opzione riguarda, in effetti, la decisione fra: 1) una vendita estensiva, con la massima copertura dei punti finali di vendita; 2) una vendita selettiva, attraverso un numero limitato e selezionato di sbocchi. La scelta viene orientata, in primo luogo, dalle abitudini di acquisto dei compratori e, in secondo luogo, da fattori di politica aziendale. Diverse possono essere, infatti, le decisioni adottate se il produttore vuole perseguire obiettivi di massimizzazione delle vendite e dei profitti, se vorr ottenere la massima esposizione del prodotto oppure la maggiore aggressivit dell'azione di vendita. Per puntare ad una massimizzazione del volume d'affari, cosa che esige un'elevata esposizione dei prodotti, si presenta pi idonea una forma di distribuzione estensiva; invece fini di massimo profitto e di pi spinta e vigorosa attivit di vendita si prestano ad essere meglio conseguiti mediante forme di distribuzione selettiva, che nel caso limite pu assumere il carattere di distribuzione in esclusiva. La scelta della tipologia degli sbocchi (primo punto) determina la lunghezza del circuito distributivo (aspetto verticale) mentre la definizione del numero di sbocchi (secondo punto) riguarda la fissazione dell'intensit di distribuzione (aspetto orizzontale). Il primo aspetto riguarda il grado di controllo che si desidera conservare sulla domanda finale, mentre il secondo si collega sostanzialmente al grado di copertura del mercato. Quest'ultimo funzione del numero di punti di vendita e del loro peso relativo, per cui va misurato sulla base di due indici: la quota numerica dei punti di vendita (rapporto tra punti di vendita aziendali e punti di vendita totali); la quota ponderata (rapporto tra il volume di affari realizzato dai punti di vendita toccati dallazienda e quello ottenuto da tutti i punti di vendita). Questi due indici sono particolarmente importanti per valutare il proprio grado di presenza nel mercato servito. Guardando agli stadi per cui passa il prodotto per giungere al mercato ultimo di deflusso, la scelta tra l'uso di: canali diretti (produttore consumatore); canali brevi (produttore - dettagliante consumatore); canali lunghi (produttore - grossista - dettagliante consumatore). In definitiva, le possibili soluzioni del problema dei canali sono limitate e spesso sono destinate ad esercitare un effetto fortemente condizionante rispetto alle politiche di prodotto, prezzo e promozione. La scelta del tipo di distribuzione si collega, innanzi tutto, all'orientamento dell'azione di vendita da attuare. Se, infatti, l'impresa intende attuare una strategia di marketing di spinta (o di push), deve far ricorso a forme distributive particolarmente incisive e penetranti nei confronti del mercato ultimo da raggiungere. Se, invece, vuole adottare una <i>strategia di marketing di attrazione (o di pull), deve sfruttare soprattutto lo strumento pubblicitario, a cui si aggiunger lo sforzo distributivo. 12. La qualit del marketing: il customer relationship management (CRM). Il piano di marketing, messo a punto con la determinazione degli obiettivi e delle politiche su cui ci siamo intrattenuti in questo capitolo, dev'essere attuato con un'efficace gestione dei rapporti con la clientela. Il customer relationship management deve infatti consentire di mantenere un elevato grado di fedelt dei clienti. L'incremento della cosiddetta customer retention (letteralmente fidelizzazione dei clienti e pu essere identificata come l'attitudine a mantenere i clienti acquisiti) genera difatti significativi effetti sulla profittabilit dell'impresa perch: 1) acquisire un nuovo cliente un'attivit che genera costi che potrebbero non essere ammortizzati sulla singola transazione, per cui i profitti derivanti dal singolo cliente aumentano dopo che i costi di acquisizione sono stati totalmente coperti; 2) se i clienti restano fedeli all'azienda e continuano a comprare i suoi prodotti, il relativo flusso di ricavi aumenta nel corso del tempo, mentre i costi correlati possono ridursi (se l'impresa riesce ad esempio a valorizzare le economie di apprendimento e ad accrescere il suo grado di efficienza nel servire il cliente); 3) i consumatori fidelizzati attivano un processo di passaparola (word of mouth) che pu raggiungere nuovi potenziali clienti attirandoli verso lazienda; 4) i consumatori fidelizzati diventano meno sensibili verso le offerte alternative, anche se economicamente pi vantaggiose, perch aumentano i costi di cambiamento o transizione verso un nuovo fornitore (switching cost). Lobiettivo finale del marketing relazionale il miglioramento della profittabilit della clientela nel lungo termine e la massimizzazione del Customer Lifetime Value. Il CLV definisce il valore che un cliente pu generare per una determinata impresa. In termini di ricavi, pu essere calcolato moltiplicando il valore medio della transazione per la frequenza di acquisto e per il ciclo di vita atteso del cliente. CAPITOLO QUATTORDICESIMO. LA GESTIONE DELLA PRODUZIONE. 1. Il ruolo della funzione di produzione nella gestione industriale: il sistema operativo. La funzione di produzione presenta aspetti e problemi molto differenti da impresa a impresa, in dipendenza delle caratteristiche dell'impianto e del processo operativo. Per potere produrre beni occorre disporre di una tecnologia appropriata, allestire uno stabilimento, assumere e organizzare le maestranze, predisporre le procedure di programmazione dei cicli di produzione e di controllo dei prodotti semilavorati e finiti, creare i servizi a supporto della fabbrica: tutto ci comporta cospicui investimenti finanziari ed organizzativi. A causa dell'orientamento nel lungo termine delle scelte da formulare e della loro difficile reversibilit, emerge chiaramente il carattere strategico della maggior parte delle decisioni riguardanti questa particolare area di gestione. La funzione di produzione riguarda il processo di trasformazione dei beni, ossia l'insieme delle operazioni mediante il quale le risorse acquistate dall'impresa (materie prime, ausiliare, semilavorati, ecc.) sono tramutate in prodotti finiti da collocare nel mercato. La funzione di produzione strettamente collegata alle altre funzioni aziendali, infatti: il rapporto con la funzione di approvvigionamento necessario per la corretta alimentazione delle linee di lavorazione; il rapporto con la funzione commerciale necessario per indirizzare la produzione secondo le tendenze di mercato e per porre in fase il ciclo di produzione e quello di vendita; il rapporto con la funzione finanziaria molto stretto sotto il profilo della programmazione del fabbisogno di capitale fisso e circolante. E cos il discorso potrebbe proseguire accennando alle relazioni con la funzione di ricerca e sviluppo, del personale, ecc. Le scelte di produzione si collocano, come si diceva, al centro delle strategie aziendali perch impegnano, per tempi non brevi e in misura rilevante, le risorse finanziarie e umane disponibili. Accanto al profilo strategico va, tuttavia, attentamente considerato quello pi puramente operativo, incentrato in prevalenza sui problemi di logistica industriale. La produzione si svolge, infatti, secondo cicli che devono essere coordinati nelle fasi di predisposizione degli input, di trasformazione e di ottenimento degli output. Il punto cardine dell'efficienza rappresentato proprio dal coordinamento tra i processi di approvvigionamento, di produzione e di vendita. Tenere raccordati nel tempo e nelle quantit questi flussi significa ridurre i tempi e i costi di funzionamento dell'intero sistema operativo: il risultato quello di migliorare il time-to-market, di ridurre gli immobilizzi in scorte, di comprimere i tempi d'ozio dei fattori produttivi. Le scelte di produzione possono, per semplicit, essere distinte in tre gruppi: 1) scelte strategiche, il cui obiettivo di concorrere alla creazione del vantaggio competitivo (qualit delle operazioni di trasformazione, flessibilit del ciclo produttivo, basso costo di produzione e servizio da rendere alla clientela); 2) scelte strutturali, il cui scopo di costituire il sistema operativo, necessario per coordinare l'impiego delle risorse disponibili; 3) scelte di gestione operativa, finalizzate alla razionalizzazione delloperativit del processo produttivo mediante la programmazione e il controllo della produzione. 2. I rapporti tra strategia di produzione e strategia competitiva: le scelte di lungo periodo. La funzione di produzione direttamente correlata alla strategia competitiva perch o consente di perseguire lobiettivo dei bassi costi necessari per una strategia di price-competition o concorre a garantire la qualit (intesa come innovativit e superiorit dei prodotti) essenziale per una strategia di differenziazione. Se a ci si aggiunge la rilevanza economica dei problemi di gestione ad essa collegati, che in termini di efficienza si traduce in minori o maggiori oneri per il conto economico, non si pu sottovalutare il ruolo centrale che assume in tutte le imprese. La strategia di produzione dev'essere, dunque, centrata sugli aspetti prioritari della strategia competitiva, cio deve assicurare il miglior contributo alla creazione del vantaggio competitivo. La tecnologia produttiva va vista in modo dinamico, ovvero come attitudine e capacit ad organizzare secondo modalit innovative il processo operativo. In altre parole, la tecnologia non pu essere considerata come il tradizionale know-how, rappresentato dalla procedura e dalle modalit di attuazione del ciclo di trasformazione di determinati input (lavoro, merci, ecc.) in altrettanti output (certe tipologie produttive), ma dev'essere piuttosto intesa come l'abilit a rinnovare in funzione dei mutamenti del contesto le caratteristiche qualitative e quantitative della funzione di produzione. Sul piano strategico, dunque, le principali scelte riguardano: la determinazione del mix (tipologia e assortimenti qualitativi) e delle quantit di produzione; la progettazione dellimpianto (dimensione, tecnologia e servizi di supporto); la logistica (integrazione verticale e decentramento produttivo). 3. La tipologia dei sistemi produttivi. Il processo produttivo pu essere organizzato secondo differenti modelli: 1) produzione di beni per unit distinte; 2) produzione di massa differenziata; 3) produzione di massa standardizzata; 4) produzione omogenea continua. Questi tipi di produzione si ordinano, in effetti, secondo il grado di ripetitivit e di uniformit dei prodotti: si passa, infatti, da prodotti unici eseguiti su commessa, a prodotti distinti per lotti o posti in essere in serie oppure lavorati secondo processi continui. Il primo caso quello di produzioni che si differenziano, di volta in volta, per caratteristiche sostanziali in rapporto ad indicazioni specifiche del committente, la produzione su commessa comporta un'elevata capacit di adattamento alle richieste della clientela, attrezzature meno specializzate e personale pi versatile. Generalmente, adatta per prodotti di valore considerevole, che impegnano gran parte delle risorse disponibili nell'impresa. Una commessa pu essere singola (progetto) o ripetitiva (job); nel primo caso l'output di processo unico e spesso caratterizzato da tempi lunghi di realizzazione o da dimensioni considerevoli (grande nave, diga ecc.). Nel secondo caso quello della commessa ripetitiva l'output generalmente ha dimensioni inferiori e pu eventualmente essere rappresentato da pi unit simili tra loro, e comunque prodotte in numero limitato. All'altro estremo si colloca la produzione continua, che caratterizzata dalla continuit e dall'indifferenziazione dei prodotti posti in essere; il modello tipico delle lavorazioni petrolchimiche, del cemento e dell'acciaio, che si svolgono secondo processi continui pressoch totalmente automatizzati. In posizione intermedia si situa, invece, la produzione di massa, che pu assumere degli orientamenti diversi in funzione delle esigenze di mercato. L'organizzazione di una produzione di massa standardizzata (ripetitiva) comune nelle situazioni in cui possibile sfruttare a fondo il principio delle economie di scala. Questo, s'intende, quando l'omogeneit del mercato consente di fornire agli acquirenti il medesimo tipo di prodotto. Nell'ipotesi di fronteggiamento di pi strati diversi di consumatori, la soluzione precedente dev'essere infatti adattata alle esigenze specifiche da soddisfare. La produzione assume, allora, il carattere della lavorazione di massa differenziata, basata su un'elevata standardizzazione delle parti componenti e sulla creazione della differenziazione in fase di montaggio finale (ad es. un televisore, composto di pezzi del tutto identici, ma dotato di una differenze carrozzeria). Questo tipo di produzione si definisce per lotti in quanto si sviluppa nell'allestimento di particolari serie di prodotti, caratterizzate da alcune differenze. Essa richiede, ovviamente, una programmazione pi flessibile del ciclo produttivo poich bisogna, di volta in volta, predisporre le operazioni in funzioni delle caratteristiche dei lotti da allestire. Sotto l'aspetto dell'organizzazione dei cicli di lavorazione prioritarie sono le decisioni circa la produzione in proprio o l'acquisto all'esterno di componenti, parti ed accessori del prodotto (questo problema si collega, in effetti, alla definizione del confine efficiente dell'organizzazione su cui ci siamo soffermati in precedenza). In pratica, nelle strategie di decentramento si pu riconoscere una distinzione fondamentale tra: 1) outsourcing, che un opzione revocabile di ricorso al mercato per certe forniture; equivale ad una modalit di approvvigionamento; 2) deintegrazione, opzione strategica di rinuncia a certe fasi di lavorazione prima svolte allinterno dellorganizzazione; rappresenta ad una scelta organizzativa ed equivale ad un accorciamento della filiera verticale. Sotto questo profilo si pu osservare che spesso i prodotti finiti di un'impresa rappresentano semilavorati o parti per un'altra impresa, il cui processo produttivo pu dar luogo, a sua volta, a nuovi beni intermedi o a prodotti finali (filiera di produzione). Un prodotto, allora, : finito, quando esce dal ciclo di lavorazione di un'azienda; finale, quando non richiede ulteriori trasformazioni per essere destinato ad un particolare uso. Bisogna, infine, osservare che le imprese, e non solo quelle di grandissime dimensioni, possono suddividere la loro produzione tra pi stabilimenti. In queste aziende multiplant, pertanto, l'organizzazione dei cicli produttivi si amplia fino a comprendere un modello di rete di impianti, differentemente articolato da caso a caso. Quando, infatti, un'azienda dispone di pi unit produttive, oltre al problema del dimensionamento di ciascuna di esse, si presenta l'esigenza di scegliere un determinato modello di suddivisione dei cicli o delle linee di produzione. Le soluzioni adottabili sono, in sostanza, le seguenti: 1) un modello di ripetizione degli impianti, quando ogni centro produttivo lavora fondamentalmente gli stessi prodotti; 2) un modello di parcellizzazione del ciclo di produzione, quando ciascun impianto svolge una certa parte del processo di fabbricazione, producendo parti o semilavorati da avviare ad alcuni stabilimenti centrali di montaggio; 3) un modello di specializzazione, quando ogni impianto produce un particolare tipo o modello di prodotto inserito nella gamma aziendale. 4. L'esigenza di flessibilit nella progettazione dell'impianto. La disposizione fisica delle strutture tecnico-produttive, che compongono lo stabilimento e limpianto, costituisce il cosiddetto lay-out, ovvero la disposizione delle strutture edilizie, delle macchine, delle attrezzature e dei posti di lavoro allinterno della fabbrica, allo scopo di ottimizzare limpiego delle quattro M (Men, Materials, Machines, Money) che gli americani includono nellequazione della produzione, rendendo pi rapido e diretto il movimento dei materiali in corso di lavorazione e riducendo i tempi di ozio. La sistemazione dei macchinari all'interno dello stabilimento pu seguire i seguenti criteri: lay-out funzionale, i macchinari possono essere raggruppati per tipo di attivit svolta; lay-out per prodotto, i macchinari possono essere posizionati in sequenza secondo le lavorazioni successive necessarie per giungere alla realizzazione di un prodotto finito; lay-out a postazioni fisse, in caso di progetti di rilevante ingombro (navi, aerei) e le correlate difficolt di spostamento di semilavorati nelle varie fasi di lavorazione, il prodotto resta fermo e sono le risorse necessarie alla produzione a ruotare nel suo intorno; lay-out a celle, quando i prodotti vengono accorpati in gruppi caratterizzati da sequenze di lavorazione simili, ogni gruppo di lavorazioni ad essi destinate viene assegnato ad una cella, in modo da poter lavorare i prodotti che condividono le lavorazioni in quella particolare cella.
Gli obiettivi di queste scelte sono quelli di disporre di strutture tecnicamente
efficienti e in grado di minimizzare i costi di produzione e i rischi di mercato. Nelle attuali condizioni di instabilit dell'economia lesigenza di fondo quella di assicurare la flessibilit al sistema di produzione senza rinunciare ai principi essenziali della produttivit e delleconomicit di funzionamento del sistema stesso. A questo proposito bisogna in realt distinguere: 1) il grado di elasticit o flessibilit economica, ovvero la capacit dell'impianto di rimanere competitivo anche in condizioni di parziale utilizzazione; 2) il grado di flessibilit tecnica, ossia la capacit dell'impianto ad adattarsi a produrre beni differenti senza incorrere in sovraccosti difficilmente sopportabili sotto il profilo competitivo. In altri termini, il concetto di flessibilit dell'impianto pu essere considerato sotto il profilo tecnico (opportunit di variare il mix produttivo) e sotto quello economico (capacit di assorbire le riduzioni del volume di produzione). In rapporto a questo secondo aspetto, un impianto tanto pi flessibile quanto minore l'incremento dei costi unitari di produzione al ridursi del grado di utilizzazione dell'impianto stesso (cio l'incidenza dei costi fissi sulla produzione). Infine, nell'allestimento dell'impianto si vanno sempre pi affermando i <i>sistemi computerizzati: 1) CAD, computer aided design, per intendere sistemi di progettazione del prodotto assistiti dall'elaboratore; 2) CAE, computer aided engineering, per riferirsi ad un sistema di progettazione e costruzione di prototipi integrato in un unico elaboratore; 3) CAM, computer assisted manufacturing, per intendere un sistema di produzione assistito dall'elaboratore; 4) MRP, material requirements planning, per intendere i sistemi di pianificazione dei fabbisogni dei materiali. 5. Il dimensionamento della produzione e dell'impianto. Uno dei problemi pi seri nell'organizzazione della produzione rappresentato dal dimensionamento da conferire all'impianto. Questo problema presenta implicazioni soprattutto economiche, in quanto si lega ai concetti di economicit e di rischiosit dell'investimento. L'obiettivo quello di individuare la dimensione ottimale, definibile teoricamente come quella idonea a minimizzare il costo unitario di prodotto. La definizione tuttavia teorica perch si collegaal concetto di capacit produttiva massima, che non sempre univocamente misurabile, ed al concetto di rischiosit, non facilmente calcolabile. Tutto ci fa s che il problema assuma una complessit rilevante e costituisca una delle decisioni pi impegnative per l'imprenditore. Sotto il profilo dimensionale opportuno tener presente due scelte: la determinazione della capacit produttiva massima dellimpresa; la determinazione della potenzialit ottimale degli impianti. Si tratta di problemi interdipendenti, ma che devono essere impostati e risolti secondo criteri, almeno in parte, diversi. La decisione circa il volume globale di produzione deriva essenzialmente dalla considerazione di fattori di mercato, cio dalla previsione delle quote di vendita ottenibili nei mercati in cui opera l'impresa. In proposito, v' da sottolineare che l'attivit di produzione deve adattarsi al ciclo di vendita, ciclo che di solito contraddistinto da un'accentuata variabilit nel tempo e nello spazio. Se i ritmi di produzione dovranno adeguarsi agli andamenti della domanda, gli impianti saranno caratterizzati da un grado di utilizzazione che andr via via diminuendo all'aumentare della variabilit del ciclo di vendita. Ma, in pratica, ci non accade perch (nell'ipotesi di produzione di beni e non di servizi) l'equilibrio temporale rispetto alla vendita ottenuto mediante la creazione di scorte di prodotti. In questo caso il problema si concreta nel dimensionare la capacit di produzione intorno al livello medio della domanda, in modo da potere soddisfare, mediante le scorte, le esigenze attuali e prospettiche del mercato, continuando a produrre un quantitativo costante di output (c.d. Strategia di livellamento). Va peraltro rilevato che, per ottenere il bilanciamento tra quote di produzione e richieste di mercato, l'impresa pu ricorrere anche ad altri strumenti, vale a dire l'aumento dei turni di lavoro, il lavoro straordinario, il lavoro interinale (temporaneo) e, quando possibile, l'acquisto di prodotti da terzi. Fra dimensione della produzione e dimensione dell'impianto sussiste ovviamente identit quando l'attivit produttiva si realizza in un solo impianto. Se, invece, le unit operative sono pi di una, al problema della determinazione della potenzialit globale di produzione da creare a livello aziendale, si aggiunge quello della sua ripartizione fra i vari impianti. La scelta dell'ampiezza di un impianto deriva essenzialmente da fattori tecnico-economici, cio dall'effetto sui costi unitari di produzione di una diversa potenzialit di lavorazione. Un impianto , di norma, un sistema complesso, costituito da una serie di macchine, attrezzature, servizi, ecc. Ciascuna macchina rappresenta un fattore quanto, cio un bene a flusso rigido di servizi, il cui costo prevalente in funzione del fluire del tempo pi che della sua effettiva utilizzazione. Una macchina infatti capace di svolgere un numero massimo di operazioni nell'unit di tempo e il suo costo, maggiormente, prescinde dal numero di operazioni effettivamente svolte. L'impresa, dunque, tende allo sfruttamento totale dei fattori quanti, in modo da ridurre al minimo il costo unitario di produzione. Il problema sorge, per, per il fatto che non tutte le macchine che compongono le linee di produzione raggiungono lo stesso ritmo di lavoro. L'esistenza di fattori quanti pone, fra l'altro, dei limiti ad un ulteriore espansione della capacit produttiva, dato che, una volta superata la potenzialit massima di una macchina, per accrescere la produzione, anche di una sola unit, bisogner acquistare una seconda macchina con un salto verso l'alto dei costi fissi. Il dimensionamento dell'impianto deve rispondere anche alla minimizzazione del rischio e non solo a quella del costo unitario di produzione. Ai fini del rischio assume un'importanza fondamentale il concetto di margine di sicurezza, sul quale opportuni fermare l'attenzione. Ogni azienda opera con una certa struttura di costi e ricavi e, quindi, con una differente leva operativa. La condizione di leva operativa si traduce nell'opportunit di diminuzione dei costi globali unitari di produzione all'aumentare del volume prodotto, in funzione del migliore sfruttamento dei costi fissi. Pi gioca la leva operativa, ossia pi elevata l'incidenza dei costi fissi sul costo totale, pi aumenta il rischio, ma pi cresce il vantaggio generato dall'espansione dell'attivit produttiva. La scelta del livello di leva operativa s'inquadra all'interno della strategia aziendale, poich l'imprenditore deve stabilire fino a che punto sfruttare questo vantaggio potenziale, e, naturalmente, quale grado di rigidit (e quindi di rischiosit) accettare sul piano dei comportamenti di gestione. Dato, dunque, che in qualsiasi struttura di costo vi sono dei costi indipendenti dal volume di produzione e di vendita e degli altri che variano in rapporto ai movimenti di tale volume, sempre necessario raggiungere un volume minimo di attivit per recuperare integralmente i costi fissi e variabili. Questo volume, per il quale i ricavi eguagliano i costi complessivi, quello corrispondente al c.d. Punto di pareggio o break-even point (b.e.p.) perch in quella condizione per l'impresa dovrebbe essere indifferente produrre o rimanere inattiva (ovviamente questo ragionamento vale nell'ipotesi di progettazione di un nuovo impianto). Il punto di pareggio si ricava graficamente con la costruzione del diagramma di redditivit, che basandosi su un sistema di assi cartesiani riproduce l'andamento dei costi fissi, dei costi variabili e dei ricavi al variare della quantit prodotta. Al concetto di punto di pareggio si lega quello di margine di sicurezza rappresentato dalla differenza (espressa solitamente in percentuale della capacit massima di produzione) tra il previsto volume di utilizzo dellimpianto e quello a cui corrisponde il punto di pareggio. Se nell'immagine in basso l'azienda ha un b.e.p. al 50% (cio Q=50) e se prevista la produzione e il collocamento di una quantit pari a Q1=68% della capacit produttiva massima, essa pu disporre di un margine di sicurezza pari al 18%. Nella scelta dimensionale si intrecceranno, cos, elementi qualitativi e quantitativi, parametri tecnici ed economici, vincoli d'investimento e di rischio.
6. La programmazione delle operazioni di produzione.
Nella programmazione della produzione occorre distinguere lottica di lungo termine, cio la programmazione della capacit produttiva dellimpianto, di cui ci siamo fino ad ora occupati, da quella di breve termine, cio dalla programmazione delle operazioni durante lesercizio. Unefficace programmazione della produzione deve articolarsi: nel medio-lungo termine per costituire la capacit produttiva necessaria in rapporto agli obiettivi strategici dellimpresa; nel breve termine per allocare le risorse disponibili, in modo da raggiungere i traguardi di produzione posti dal programma annuale di vendita; nel brevissimo termine per organizzare il lavoro dei centri di produzione in funzione delle quote settimanali o mensili da realizzare. 8. Il controllo di efficienza della produzione: fattori statici e dinamici. Gli obiettiva sull'efficienza economica e della customer satisfaction sono centrali nell'organizzazione e nello svolgimento della funzione di produzione. Rispetto al tema pi generale dell'efficienza di produzione, occorre sottolineare l'importanza fondamentale del momento del controllo. Il controllo di produzione riguarda sia il ciclo di svolgimento delle operazioni produttive e sia la qualit dei prodotti finiti da destinare al mercato. Lobiettivo quello di prevenire anomalie nel ciclo operativo e nei prodotti, allo scopo di evitare di sopportare costi a vuoto e garantire la qualit al consumatore. In particolare, nell'area della produzione il controllo dovrebbe articolarsi nel: 1) controllo dei risultati di produzione (prestazioni fisiche in termini di assortimenti posti in essere e produttivit delle risorse impegnate), questo tipo di controllo si manifesta nel calcolo e nell'analisi di indici di produttivit; 2) controllo di qualit dei prodotti (rispondenza dei prodotti alle specifiche tecniche di progettazione e alle caratteristiche di rendimento garantite all'utilizzatore), si tratta di un controllo operato su campioni di materiali; 3) controllo economico o di valore (value analysis), per individuare le aree di risparmio di costi nella funzione produttiva. Il concetto base che, partendo dalle caratteristiche che deve avere il prodotto, possibile comparare alternative o singole fasi di produzione al fine di individuare quella pi economica. In questo modo, dunque, si punta ad attuare le stesse attivit in modo pi conveniente, cio ottimizzando l'impiego delle risorse ed evitando operazioni superflue. Oggi, poich spesso vero che i costi si fanno sui prezzi, diviene elemento essenziale l'efficienza organizzativa, che si traduce nel miglioramento dell'economicit dei processi aziendali. I principali fattori di efficienza nel processo produttivo sono rappresentati: 1) dallo sfruttamento ottimale dell'impianto (massimizzazione delle ore lavorabili con riduzione dei tempi di fermata delle macchine, di pausa degli operai e delle operazioni di set-up); 2) dalla razionalizzazione dei consumi di materie prime e ausiliarie mediante la riduzione delle perdite e dei cali di lavorazione; 3) dalla produttivit dei gruppi di lavoro mediante il miglioramento dell'organizzazione e la formazione del personale; 4) dall'idoneit dei servizi di supporto alla produzione (magazzino, ricerca, trasporti interni, ecc.). In effetti, all'interno degli elementi richiamati si combinano fattori statici o strutturali e fattori dinamici o operativi, con la conseguenza che l'ottimizzazione del processo sempre la risultante di una struttura tecnologicamente avanzata e di un'organizzazione altamente coordinata. Altro obiettivo di fondo dell'organizzazione della produzione costituito dalla riduzione degli scarti, dovuti a difetti dei materiali o di lavorazione. Questi possono essere relativi sia a materie prime e semilavorati sia a prodotti finiti. Nel caso di materie prime e semilavorati il danno consiste nello spreco di materiali e ore di lavoro con conseguente riduzione dell'output produttivo (e contemporaneamente lievitazione dei costi); nell'ipotesi di prodotti finiti, se la difettosit viene accertata prima che il prodotto lasci la fabbrica (in house), essa pu essere associata ai costi di rilavorazione (se attuabile). Viceversa, se la difettosit viene accertata dopo l'invio del prodotto al cliente (in field, in campo), oltre ai danni economici, si subiscono anche danni d'immagine, spesso ancora pi gravi dei primi. Da ci l'assoluta importanza del controllo di qualit che, condotto con procedimenti e tecniche appropriate, si pone come uno strumento essenziale di efficienza della gestione produttiva nel suo complesso. Ma il concetto di qualit va inteso in senso ancora pi ampio. In particolare, il total quality management si pone come una vera e propria filosofia, che va molto oltre il semplice controllo di qualit dei prodotti (modalit e tempi di consegna, assistenza prima, durante e dopo l'acquisto ecc.). Il controllo, tuttavia, comporta costi rilevanti e deve rendere in misura pi che proporzionale rispetto ai costi sostenuti. Per questo motivo, anche in questo caso, le soluzioni migliori dovranno rispettare sempre il principio generale dell'economicit nel lungo termine. CAPITOLO QUINDICESIMO. LA GESTIONE DELLA FINANZA: INVESTIMENTI E FINANZIAMENTI. 1. La gestione finanziaria. Nell'impresa industriale la gestione finanziaria deve correttamente assumere un ruolo strumentale nei confronti della gestione caratteristica. Ancorch in certi casi essa possa rappresentare un centro di profitto a s stante, la visione appropriata quella della sua amministrazione in funzione delle esigenze della gestione tipica. Tanto premesso, bisogna tuttavia riconoscere che i confini organizzativi della funzione si sono progressivamente ampliati, in rapporto alla crescente importanza assunta nella gestione aziendale. Ai tradizionali compiti di reperimento dei fondi occorrenti per coprire il fabbisogno finanziario, si sono difatti aggiunte le responsabilit di impiego dei capitali, vale a dire soprattutto le responsabilit di programmazione degli investimenti. <i>Nella funzione finanziaria, difatti, si comprende il complesso di decisioni ed operazioni volte a reperire e ad impiegare i fondi aziendali. La gestione finanziaria pu essere inquadrata sotto il profilo: strategico, dove si considerano le decisioni finanziarie di lungo periodo, intese ad ottimizzare limpiego e la raccolta dei fondi; operativo, si includono i compiti di attuazione e di controllo delle decisioni prese. La gestione del piano finanziario richiede, infatti, la creazione e il mantenimento dell'equilibrio tra fonti ed impieghi nel lungo, nel breve e nel brevissimo termine. In generale, la gestione finanziaria deve rispettare i tre tipi di equilibri fondamentali, diversi ma interdipendenti tra loro: equilibrio economico tra ricavi e costi, equilibrio che deve tradursi in un divario positivo per la formazione del profitto; equilibrio finanziario, cio il bilanciamento tra impieghi di capitale e fonti di provvista dello stesso; equilibrio monetario tra entrate e uscite di cassa preservando la liquidit. La gestione finanziaria ha, ovviamente, un diretto impatto su tutti e tre gli equilibri. Tralasciando gli ultimi due, per i quali la dipendenza appare evidente, sembra invece il caso di esplicitare il riflesso diretto che genera la funzione finanziaria sull'equilibrio economico per effetto degli oneri e dei proventi finanziari da essa determinati. Le interrelazioni tra i tre equilibri dipendono dal fatto che il ciclo di formazione dei costi e ricavi incide sull'altezza del fabbisogno di capitale e sul ciclo dei movimenti monetari. chiaro, infatti, che teoricamente solo nel tempo lungo il totale dei costi corrisponde al totale delle uscite e il totale dei ricavi corrisponde a quello delle entrate, perch nella gestione corrente lo sfasamento tra momento economico e monetario costituisce la norma. La diffusa presenza di costi e ricavi anticipati e differiti rappresenta, infatti, la conferma di quanto si detto e configura la necessit di creare, attraverso la programmazione finanziaria, il raccordo tra l'aspetto economico e finanziario della gestione. Secondo un processo logico la formazione del preventivo economico deve precedere quella del preventivo finanziario (anche se poi quest'ultimo finir per incidere sul primo) e, a sua volta, la costruzione del preventivo finanziario dovr tenere conto dei tempi di manifestazione delle entrate e delle uscite. Data la complessit dei compiti che ricadono in questa area, sempre pi frequente il loro accentramento nell'ambito di una direzione finanziaria, che finisce, cos, per avere delle competenze esclusive e per partecipare, insieme con le altre direzioni di funzione, alla definizione delle strategie e delle politiche generali di gestione. Volendo comunque restringere i confini della funzione alle sole decisioni di programmazione finanziaria, cio tenendo da parte la scelta degli investimenti, potremmo individuare tra i suoi compiti fondamentali: 1) la programmazione finanziaria a lungo, a breve e brevissimo termine; 2) la gestione del piano finanziario; 3) il governo della liquidit. 2. La scelta di progetti di investimento. Come si gi detto, i problemi di fondo della gestione finanziaria sono quelli di programmazione degli investimenti e delle fonti di copertura. Nel processo decisionale l'individuazione degli investimenti dovrebbe logicamente precedere la ricognizione delle fonti di finanziamento disponibili, anche se intuibile che queste ultime porranno un limite assoluto al volume dei primi. Nelle assunzioni delle scelte di investimento la risorsa finanziaria pu rappresentare: un vincolo assoluto, che si determina quando impossibile reperire ulteriori mezzi necessari per dare attuazione all'investimento (impossibilit di espandere la struttura finanziaria); un vincolo relativo, che si configura quando sussiste un divario sfavorevole tra redditivit dell'investimento e costosit del capitale (condizioni sfavorevoli della leva finanziaria). Dal punto di vista dell'analisi degli investimenti pu essere utile distinguere gli investimenti: di natura strategica, per i quali l'impresa chiamata a decidere sul se intraprendere determinati progetti che modificano la sua posizione competitiva. Si tratta di valutazioni complesse che devono tener conto di numerose variabili, spesso di difficile determinazione (es. decisione sul lancio di un nuovo prodotto, ingresso in una diversa area strategica d'affari, costruzione di un nuovo stabilimento); di tipo operativo, per i quali l'impresa valuta soluzioni alternative per decisioni che non modificano le proprie scelte strategiche. Si tratta di decisioni di minore rilevanza, che non alterano significativamente la composizione quali- quantitativa dei ricavi. In presenza di un sistema evoluto di programmazione, la determinazione del piano dinvestimenti rientra nella formulazione delle strategie aziendali e richiede unapposita procedura (capital budgeting), fondata su tecniche decisionali avanzate. In linea di principio, va sottolineato che la scelta degli investimenti, a prescindere da valutazioni di tipo etico, guidata da parametri fondamentali di qualsiasi comportamento imprenditoriale, vale a dire profitto e rischio. A parit di altre condizioni, saranno, infatti, preferiti progetti che assicurano i margini pi elevati di profitto entro un prestabilito coefficiente di rischio oppure che producono un determinato profitto con il pi basso grado di rischiosit. Per condurre queste valutazioni si possono utilizzare delle apposite tecniche di carattere economico-finanziario atte a: stabilire laccettabilit del progetto rispetto a valori standard prefissati (es. un tasso minimo di redditivit, un periodo massimo di recupero dei capitali); comparare progetti alternativi, cio determinare una lista di priorit tra pi proposte di investimento. 3. La previsione del fabbisogno finanziario. L'analisi economico finanziaria dei progetti di investimento dovrebbe essere condotta prescindendo dalle modalit di finanziamento dei progetti stessi, questo perch, in teoria, si presuppone che un progetto economicamente valido possa in ogni caso trovare opportunit di finanziamento nel mercato dei capitali. Tuttavia, non sempre ci vero. Imperfezioni dei mercati finanziari, scarsa trasparenza e razionalit limitata degli operatori generano vincoli nella raccolta di capitali da parte dell'impresa, determinando l'esigenza di considerare congiuntamente i progetti e le relative soluzioni finanziarie adottabili. L'impresa, si detto, ha bisogno di capitali per finanziare i processi di investimento e per far fronte alla gestione corrente. Il fabbisogno finanziario aziendale infatti uguale alla somma del capitale fisso, necessario per acquisire le immobilizzazioni materiali e immateriali, e del capitale circolante, occorrente per alimentare il ciclo acquisti-produzione-vendite. L'ammontare del fabbisogno varia, nella sue entit e nella sua genesi, a seconda se ci si trova in fase di costituzione o di funzionamento dell'impresa. In generale, ogni azienda presenta un differente rapporto di composizione tra capitale fisso e circolante, in relazione sia delle caratteristiche del settore sia alle caratteristiche della gestione: il fabbisogno di capitale fisso legato al grado di capitalizzazione dei processi operativi, cio allesigenza di disporre di maggiori immobilizzazioni per lo svolgimento delle funzioni di produzione, di commercializzazione, di amministrazione, ecc. Pi cresce la consistenza degli impianti e delle attrezzature pi aumenta il fabbisogno di capitale fisso; il fabbisogno di capitale circolante, ossia di mezzi finanziari che si rigenerano al massimo nei 12 mesi dellesercizio gestionale, correlato, invece, al ciclo di reintegro dei ricavi (o ciclo di reintegro del circolante). A parit di volume di attivit, esso sar tanto minore quanto pi breve questo ciclo, vale a dire quanto pi rapidi sono i processi di acquisto-produzione-vendita e, soprattutto, quanto pi veloce il corrispondente ciclo monetario che intercorre tra il sostenimento dei costi e il correlativo incasso dei ricavi. Quest'ultimo dipende dalle condizioni di riscossione dai clienti e di pagamento ai fornitori: condizioni pi favorevoli all'impresa (incassi pi veloci rispetto ai pagamenti) contribuiscono a limitare il fabbisogno di circolante correlato al processo di gestione. Relativamente alle interrelazioni esistenti tra i tre cicli (economico, finanziario e produttivo) possibile osservare che, mentre il ciclo di produzione generalmente di durata inferiore a quello economico, meno generalizzabile la relazione tra il ciclo finanziario ed economico (e quindi produttivo). In particolare, l'avvio del ciclo produttivo, che coincide con l'inizio della lavorazione delle materie acquisite, risulta di norma posticipato rispetto al sostenimento del costo, e ci avviene in rapporto sia ai tempi tecnici necessari per la messa a disposizione delle materie acquisite, sia al tempo di giacenza delle scorte di materie prime. Analogamente il conseguimento del ricavo segue il completamento del ciclo produttivo in considerazione del tempo di giacenza dei prodotti finiti, determinando un ciclo economico pi ampio di quello di produzione. Per quanto attiene alle relazioni tra ciclo economico e finanziario, esse saranno funzione del ciclo monetario dell'impresa e, in particolare, delle dilazioni concesse ai clienti e ottenute dai fornitori. Il pagamento delle forniture avviene, spesso, con dilazioni di pagamento che dipendono sia dagli usi commerciali sia dalla forza contrattuale delle parti. tuttavia possibile che il pagamento sia eseguito in contati all'atto dell'acquisto o, addirittura, in maniera totalmente o parzialmente anticipata. Analogamente, il regolamento delle vendite pu prevedere pagamenti in contanti, mediante concessioni di dilazioni o anticipatamente mediante acconti. Anche in tal caso, evidentemente, le diverse alternative saranno funzione delle prassi commerciali in uso e del potere contrattuale delle parti. Tutto ci premesso, volendo schematizzare le relazioni tra ciclo economico e finanziario utile fare riferimento alla tabella alla pagina seguente. Soffermandosi, in particolare sul caso in cui C.F.=C.E., possibile osservare che, nell'ipotesi in cui sia gli acquisti che le vendite sono regolate in contanti, i due cicli otre che essere uguali risulteranno perfettamente sovrapposti. Viceversa, negli altri due casi, il C.F., pur essendo uguale al C.E., risulter rispettivamente posticipato o anticipato rispetto a quest'ultimo in considerazione dei giorni di dilazione o anticipo. Per quanto riguarda il capitale circolante, i suoi principali componenti sono: scorte necessarie per lalimentazione dei processi di produzione e di vendita (scorte di materie prime, ausiliarie, semilavorati, parti, componenti e prodotti finiti); crediti commerciali verso i clienti; debiti commerciali verso i fornitori; attivit finanziarie (cassa, banche e altri mezzi monetari) occorrenti per assicurare la liquidit aziendale; altre attivit e passivit correnti (crediti a breve termine, debiti a breve, quota imposta, ecc.). In effetti, il capitale circolante netto pari alla differenza tra attivit e passivit correnti. All'interno di questa figura di capitale occupa una posizione di rilievo il capitale circolante commerciale, rappresentato dalla somma algebrica del valore delle scorte di magazzino, dei crediti commerciali e dei debiti verso i fornitori. Nell'impresa, dunque, bisogna stimare il fabbisogno finanziario netto, in modo da prevedere tempestivamente l'esigenza di reperire nuove fonti di copertura (nell'ipotesi di un disavanzo finanziario) oppure individuare le migliori opportunit di impiego di fondi esuberanti. La previsione di questo fabbisogno deve discendere dall'analisi della dinamica finanziaria, all'interno della quale si legano gli aspetti economici e finanziari della gestione. Gli strumenti per conoscere tale dinamica sono l'analisi dei flussi di capitale circolante e l'analisi dei flussi monetari. In sostanza, la gestione finanziaria deve preservare la solvibilit (equilibrio finanziario) dell'impresa e la sua liquidit (equilibrio monetario): da ci l'esigenza di compiere la duplice analisi dei flussi di circolante e dei flussi monetari (o di cassa). 4. Le scelte di struttura finanziaria: minimizzazione degli oneri e del rischio finanziario. La struttura finanziaria determinata dalla scelta delle fonti di copertura del fabbisogno aziendale. Essa pu assumere caratteristiche molto differenti in funzione della partecipazione dei soci e delle condizioni del mercato dei capitali. Le variabili incidenti sul fabbisogno finanziario sono: le operazioni di investimento e di alienazione dei beni impiegati nella gestione corrente e patrimoniale; il livello delle scorte di magazzino (se le scorte diminuiscono il fabbisogno finanziario diminuisce); le condizioni di pagamento applicate ai clienti; le condizioni di pagamento stabilite con i fornitori; il livello di liquidit (se la liquidit aumenta il fabbisogno finanziario aumenta). La prima voce incide sul fabbisogno di capitale fisso, mentre le altre sono correlate al fabbisogno di capitale circolante in senso stretto. Il fabbisogno finanziario globale pu essere coperto: dotazione di mezzi propri, legati allimpresa con vincolo di capitale; risultato economico della gestione (autofinanziamento); finanziamento interno dei soci; finanziamento esterno attinto presso i risparmiatori, le banche, i clienti, i fornitori e i dipendenti. A livello strategico, la gestione finanziaria si concreta, in sostanza, nell'assunzione e nell'attuazione delle scelte che incidono sul fabbisogno e sulle vie di copertura. Essa orientata da alcuni obiettivi o politiche generali tese ad assicurare l'omogeneit, la flessibilit, l'elasticit e l'economicit della struttura finanziaria aziendale. Una delle prime regole, peraltro spesso disattese, della gestione finanziaria suggerisce di impiegare capitali omogenei rispetto al fabbisogno da coprire: ci vuol dire che, nell'ipotesi di finanziamento di immobilizzazioni, dovrebbero essere attinti mezzi finanziari a lungo termine, mentre nel caso di fabbisogno di esercizio sarebbe opportuno farvi fronte con mezzi a breve. Questo allo scopo di assicurare una maggiore corrispondenza tra i due fenomeni (fabbisogno e copertura). La caratteristica dell'omogeneit si lega a quella della flessibilit, cio alla possibilit di modificare la struttura finanziaria in rapporto all'evoluzione del fabbisogno. La flessibilit dipende, in effetti, dalla particolare combinazione delle fonti di finanziamento, ciascuna delle quali presenta un grado diverso di vincolo rispetto alla gestione aziendale. Anche l'attributo dell'elasticit si lega ai primi due e in particolare a quello della flessibilit, concretandosi nell'opportunit di dilatare l'area di manovra delle scelte finanziarie. Una struttura finanziaria, infatti, tanto pi elastica quanto maggiori sono le possibilit quali-quantitative di espanderla. Gli attributi della flessibilit e dell'elasticit potrebbero apparire simili ma in realt non lo sono in quanto una struttura finanziaria tanto pi flessibile quanto pi in grado di modellarsi in rapporto alle esigenze della gestione, mentre tanto pi elastica quanto pi facilmente pu essere espansa. A questi tre attributi di omogeneit, flessibilit ed elasticit deve poi necessariamente accompagnarsi quello dell'economicit, in quanto l'ottimizzazione delle scelte finanziarie dipende dalla massimizzazione dei differenziali tra rendimenti dell'investimento e costosit del capitale. In definitiva, la gestione finanziaria dovrebbe essere orientata alla <i>minimizzazione degli oneri e del rischio. La prima, per pu incontrare dei limiti nella gestione finanziaria privata dei soggetti proprietari dell'impresa: il fatto che gli oneri finanziari siano parzialmente o totalmente deducili nell'economia d'impresa e non deducibili nelle economie individuale crea un forte differenziale di convenienza per l'indebitamento aziendale rispetto a quello individuale; inoltre, la possibilit in determinate condizioni di mercato finanziario e di redditivit aziendale di ricavare un rendimento maggiore dagli investimenti all'esterno dell'impresa, pu far crescere ulteriormente la convenienza dell'indebitamento bancario aziendale rispetto all'alimentazione dell'impresa con mezzi propri. In merito al rischio bisogna innanzitutto puntualizzare che rappresentato dall'incapacit di alimentare, sotto il profilo finanziario, i processi di gestione caratteristica. Esso pu assumere un carattere strutturale o congiunturale: il primo si traduce nello squilibrio delle fonti rispetto agli impieghi; il secondo si collega ad occasionali carenze di cassa. Nelle due situazioni si potrebbe meglio qualificare il rischio finanziario come rischio di insolvenza (incapacit di alimentari i processi di investimento e le esigenze di capitale circolante) e come rischio di illiquidit (momentaneo deficit di cassa durante lo svolgersi della gestione). A questo proposito, opportuno osservare che l'illiquidit pu essere, specie in periodi di crisi economica, altrettanto grave quanto l'insolvenza. L'incapacit di bilanciare le entrate e le uscite monetarie pu difatti concorrere a creare una situazione di sofferenza generale ed acuta dell'organismo aziendale con conseguenze che, nel tempo, potrebbero portare anche alla determinazione dello stato di insolvenza. 5. La leva finanziaria. Il processo di scelta delle fonti di finanziamento deve poggiare sull'analisi del fabbisogno di capitali e sulla conoscenza del mercato dell'offerta dei capitali stessi. Il passo di maggiore importanza rappresentato dalla previsione del fabbisogno e dall'individuazione delle sue caratteristiche. Volendo analizzare il fabbisogno di capitali, si potrebbe osservare che nella realt aziendale esso la risultante di quattro tipi differenti di esigenze: 1) un fabbisogno strutturale, permanente nel tempo perch legato alle caratteristiche di struttura dellimpresa (lungo termine, permanente); 2) un fabbisogno corrente, permanente nel tempo perch correlato al volume di attivit della gestione corrente (breve termine, permanente); 3) un fabbisogno straordinario, legato ad esigenze di lungo periodo, destinato per a cessare in un arco ampio di tempo (lungo termine, non permanente); 4) un fabbisogno occasionale, collegato a fenomeni congiunturali e imprevedibili, i cui effetti si svolgono nel breve periodo (breve termine, episodico). Questa classificazione suddivide, in effetti, il fabbisogno in rapporto alla natura e alla permanenza nel tempo. A seconda delle caratteristiche del fabbisogno l'azienda deve, quindi, reperire capitali a diversa scadenza e con differenti modalit di vincolo. La scelta delle fonti di finanziamento, partendo dalla previsione e della composizione del fabbisogno, deve potere trarre vantaggio in modo ottimale dalle possibilit offerte dal mercato finanziario in funzione degli obiettivi di economicit, omogeneit, flessibilit ed elasticit posti alla gestione finanziaria nel suo complesso. Bisogna peraltro dire che il processo di scelta pu essere inquadrato in modo diverso a seconda se la copertura finanziaria dev'essere considerata una variabile dipendente e subordinata alle scelte di programma compiute nell'impresa, oppure dev'essere vista come una variabile interdipendente e, pertanto, non definita in maniera irrevocabile all'atto della fissazione del piano aziendale di gestione. Nella realt, il modo corretto di decisione si collega a questo secondo tipo di impostazione poich la risorsa finanziaria una delle componenti da considerare nelle combinazioni produttive, poste a base del programma di gestione. La considerazione della finanza quale variabile nella formulazione del piano aziendale estende, quindi, i confini delle scelte, che si potranno concretare anche nella variazione del fabbisogno originariamente previsto. In altri termini, il processo di scelta pu partire dal fabbisogno come un dato di fatto e tradursi nella ricerca delle forme pi idonee di copertura oppure nella determinazione dello stesso fabbisogno in funzione di ipotesi alternative di gestione e della valutazione delle opportunit di conveniente reperimento di risorse finanziarie aggiuntive. Partendo dall'ipotesi principale, una delle scelte fondamentali da assumere riguarda il livello di indebitamento da accettare per l'impresa. Questa opzione, oltre che da fattori qualitativi riguardanti la rischiosit e la rigidit connesse con un appesantimento della situazione debitoria, dev'essere orientata dal presumibile effetto del fattore leva finanziaria. La redditivit del capitale proprio investito nell'attivit aziendale (ROE) pu essere difatti migliorata o peggiorata dal fattore leva: sar migliorata se la redditivit del capitale investito risulter superiore al costo dell'indebitamento; sar peggiorata se gli oneri finanziari da sopportare per ottenere in prestito dei capitali supereranno la redditivit dell'investimento. Si parla, infatti, di leva finanziaria per sottolineare la capacit dell'indebitamento di ampliare la redditivit aziendale. In tal senso, il ricorso a capitale di terzi funge da moltiplicatore delle opportunit di investimento e, nel caso di differenziali favorevoli tra ritorno dell'investimento e costo del capitale preso a prestito, da generatore di reddito addizionale (la leva finanziaria viene misurata dal rapporto tra indebitamento totale e capitale investito). Il rapporto tra reddito ottenuto sul capitale proprio e le condizioni di leva appare chiaro dall'esempio riportato nella tabella in basso. Dalla comparazione finale dei tassi percentuali di rendimento (ultimo prospetto), emerge, difatti, una situazione migliorata per l'azienda Alfa (che non fa ricorso all'indebitamento) nell'ipotesi di condizioni economiche sfavorevoli e una migliore situazione per l'azienda Beta, con una leva pi elevata, al verificarsi di condizioni economiche pi favorevoli. L'azienda Beta, in condizioni di redditivit pari al 15%, riesce a ricavare per l'effetto del fattore leva un reddito pari al 18% del capitale proprio. Questo deriva non solo dal differenziale tra tasso di rendimento e costo del capitale, ma anche dall'effetto fiscale, che avvantaggia l'impiego del capitale di terzi (sui quali si corrispondono degli interessi che concorrono a ridurre in parte il reddito imponibile) rispetto a quello di mezzi propri. Ovviamente, in condizioni normali si ha una parit di rendimento per le due aziende (dato che il tasso di redditivit netto risulta uguale al costo del denaro). L'effetto del fattore leva dipende, dunque, dal divario tra il rendimento netto del capitale investito risultato economico meno imposte) e il <i>costo reale del capitale preso a prestito. Quest'ultimo va determinato sottraendo dagli interessi corrisposti al finanziatore l'ammontare dell'imposizione risparmiata per effetto del caricamento degli oneri finanziari nel conto economico. Per valutare il costo effettivo dell'indebitamento e, quindi, per potere comparare la convenienza delle varie fonti di provvista occorre determinare il Taeg (tasso annuo effettivo globale), che ricomprende, oltre al tasso annuo nominale (cosiddetto tasso base, Tan), gli oneri accessori (commissioni e spese). Naturalmente, il Taeg dev'essere valutato anche in rapporto ai possibili risparmi fiscali correlati alla riduzione, per effetto degli oneri finanziari sostenuti, della base imponibile. Se, ad esempio, l'interesse pagato sul capitale pari al 10% e l'impresa soggetta all'imposizione del 40%, nel caso di integrale deducibilit, il costo effettivo dell'indebitamento (per i soli interessi) sar uguale al 6%. Nell'ipotesi, poi, in cui si volesse scegliere se finanziare un investimento con capitale proprio o con indebitamento, dovrebbe essere questo valore (costo reale del capitale) ad essere comparato con il costo del capitale proprio (pari al maggiore dei rendimenti netti alternativi a cui si dovr rinunciare pi un certo coefficiente corrispondente alla rischiosit dell'investimento stesso). Se la congiuntura favorevole, l'effetto leva dunque generalmente positivo perch i ritorni dell'investimento si stimano superiori al costo del capitale preso a prestito; ma, se il segno della congiuntura cambia, l'accresciuto indebitamento si pu tradurre in una situazione aziendale di debolezza. All'inversione della congiuntura si verificano, infatti, due fenomeni negativi: 1) il differenziale tra ritorno dell'investimento e costo dell'indebitamento pu diventare sfavorevole; 2) il rischio di una riduzione del volume dei capitali ricevuti in prestito aumenta. Da ci deriva la maggiore vulnerabilit dell'azienda indebitata. 6. Le principali fonti di finanziamento. Il problema dell'indebitamento non si concreta solo nel decidere fino a quale livello conviene indebitarsi per ampliare la redditivit aziendale, ma interviene anche nella scelta, una volta stabilito il fabbisogno da coprire, tra il ricorso a mezzi propri e a mezzi di terzi. Questa scelta che attiene alla struttura del capitale, si correla sia a fattori generali, che possono far propendere a favore dell'una o dell'altra forma, sia a fattori specifici di costosit delle varie fonti di finanziamento. L'investimento di capitale proprio rappresenta una fonte di finanziamento a lungo termine perch i mezzi cos immessi nella gestione sono destinati a permanervi durevolmente. Assimilabile alla prima fonte l'autofinanziamento, cio il reinvestimento dei profitti nell'attivit aziendale. In condizioni di normalit, cio in presenza di una gestione economica e finanziaria equilibrata, parte cospicua dei nuovi investimenti dovrebbe essere coperta mediante lautofinanziamento. Nellipotesi, invece, di un fabbisogno occasionale di capitali, i soci possono far affluire propri fondi sotto forma di finanziamento diretto. In tal caso, concedono delle anticipazioni allazienda oppure sottoscrivono direttamente un prestito obbligazionario. In entrambe le alternative i soci si possono riservare il diritto di chiedere la restituzione dellanticipazione o il rimborso delle obbligazioni in qualsiasi momento. Pi ricorrente, anche se non diffuso, appare l'accesso al mercato mobiliare da parte di imprese anche di media dimensione, che attraverso la quotazione in borsa riescono a collocare parte del capitale sociale direttamente presso i risparmiatori. Questo canale di finanziamento consente di ampliare significativamente la struttura finanziaria dell'impresa, in modo da favorire, mediante operazioni di aumento di capitale e successivo collocamento azionario, la promozione di processi disviluppo dimensionale. Di fronte al ricorso ai mezzi propri, nella triplice forma dell'aumento di capitale, dell'autofinanziamento e del finanziamento diretto, si pongono le fonti esterne, tra cui il maggior rilievo pi frequentemente assunto dal credito bancario. Tra le fonti creditizie bisogna inserire anche i risparmiatori o gl'investitori istituzionali, i fornitori e gli stessi dipendenti dell'impresa. Quest'ultima pu procurarsi mezzi finanziari emettendo prestiti obbligazionari (sottoscrivibili da risparmiatori e investitori istituzionali) e carta commerciale (cambiali finanziarie), chiedendo credito ai fornitori, attingendo a conti di deposito alimentati dai suoi dipendenti. Pi frequente il ricorso al credito bancario, che pu assumere una differente estensione temporale e concretarsi in forme tecniche diverse. Il finanziamento pu essere, infatti, ottenuto per lunghi tempi (operazioni di mutuo) o per tempi brevi (aperture di credito, sconto di effetti, anticipazioni su titoli e merci, ecc.). Si devono distinguere due operazioni: operazioni autoliquidantesi o finalizzate, che sono rappresentate, di solito, da anticipi concessi dalla banca su crediti vantati dall'impresa verso terzi (es. anticipi su fatture o contratti), che si estingueranno, quindi, automaticamente all'incasso dei crediti ceduti; operazioni non autoliquidantesi, che si configurano, invece, come forme di concessione di fido allo scoperto, per le quali l'istituto bancario normalmente chiede delle garanzie reali o personali. Accanto alle forme pi tradizionali di finanziamento esterno, bancario e non bancario, gi da lungo tempo si sono affiancate forme atipiche, quali il leasing e il factoring. Con il leasing, limpresa non costretta a sopportare immediatamente il peso dellinvestimento perch ottiene il bene mediante un contratto di locazione con diritto di riscatto del bene dopo un certo numero di anni e ad un prezzo prefissato (di solito molto basso). In tal modo limpresa pu utilizzare immediatamente il bene pagando un canone periodico e riservandosi alla fine del contratto di assumere una decisione circa lacquisto delloggetto delloperazione. Una forma particolare di leasing il lease-back, che consiste nel vendere ad una societ di leasing un bene posseduto, ma allo stesso tempo richiedendolo in locazione alla stessa societ acquirente. In questo modo lazienda venditrice ha due vantaggi: ottiene un finanziamento a fronte dellalienazione di un bene di propriet, di cui non perde luso, e sfrutta leffetto fiscale delle operazioni di leasing. Il factoring rappresenta una particolare forma tecnica di finanziamento, perch consente di rendere liquidi crediti verso la clientela non suffragati da documenti scontabili commercialmente. Il factoring ha, infatti, luogo su fatture o titoli di credito imperfetti (ad es. tratte non accettate), solitamente con la cessione del credito al factor. Nel factoring la norma pi comune di cessione del credito pro-solvendo, cio con il rischio di insolvenza condiviso tra il debitore e il cedente del credito stesso. Nel caso non vi sia condivisione del rischio tra debitore e cedente del credito, la forma del factoring viene definita pro-soluto. tuttavia il caso di sottolineare che, in realt, l'operazione consiste nellaffidare, ad istituti specializzati, la gestione del portafoglio crediti, delegando il factor ad esperire tutta la procedura per il recupero dei crediti stessi. Per tale compito al factor spetta una commissione di factoring. Nel contratto pu essere previsto lottenimento di anticipazioni da parte di colui che ricorre al factoring e che, per questa operazione finanziaria, tenuto a corrispondere degli interessi. Un'altra forma piuttosto sofisticata di finanziamento il forfaiting, cio la vendita pro-soluto di effetti cambiari che, in rapporto alla loro scadenza e al grado di rischio di incasso, vengono ceduti in base al loro valore facciale decurtato in ragione di un tasso di sconto a forfait (da qui il nome di forfait financing). Solitamente i titoli di credito sono tratte emesse da esportatori e accettate dagli imprenditori esteri. I vantaggi per lesportatore sono rappresentati dalla rapidit dincasso del credito e dalleliminazione di qualsiasi rischio finanziario conseguente alloperazione di vendita allestero. Il leasing appare la forma idonea di finanziamento per lacquisizione di beni fungibili (perch il rischio per lazienda di leasing limitato, data la possibilit di uneventuale ricollocazione di un bene non pagato); lindebitamento adatto per beni semi-fungibili (perch su questi la banca richiede ipoteca o pegno e pu rivalersi); il finanziamento con mezzi propri necessario per lacquisizione di beni scarsamente fungibili. Parlando di fonti di finanziamento dovremmo estendere l'esame anche al <i>credito mercantile, cio al credito diretto collegato ad operazioni di scambio. Sia il credito ottenuto dai fornitori sia gli anticipi ricevuti dai clienti possono rappresentare una voce importante del bilancio finanziario. In pratica, per, il credito mercantile non considerato una fonte di finanziamento, ma una voce del capitale circolante, atteso che concorre a determinarne la misura.
CAPITOLO SEDICESIMO. LA LOGISTICA INDUSTRIALE E LA GESTIONE DEGLI
APPROVVIGIONAMENTI. 1. La logistica quale processo. Come si accennato nei capitoli precedenti, la gestione d'impresa ha assunto caratteristiche nuove per poter rispondere alla crescente complessit dell'ambiente, accentuando fortemente le esigenze di coordinamento operativo. Da ci il ruolo di maggiore importanza assunto dalla logistica, ovvero il sistema di connessione tra l'approvvigionamento di materiali (logistica in entrata), la trasformazione produttiva e il collocamento dei prodotti realizzati (logistica in uscita). Il processo logistico si attua mediante due flussi: flusso fisico dei materiali (materie prime, semilavorati, parti componenti e prodotti finiti), che ha inizio dal momento dellevasione dellordine da parte del fornitore e si conclude con il ricevimento della merce da parte dellimpresa; flusso di informazioni, che attraversa in senso bidirezionale lintero processo. Lobiettivo da raggiungere rappresentato dal migliore equilibrio tra costo della logistica e standard di servizio reso ai clienti interni (organi della produzione) ed esterni (consumatori). In termini pi concreti, bisogna minimizzare i livelli delle scorte e massimizzare il livello di servizio alla clientela. Le funzioni di acquisto, magazzinaggio, trasporto e distribuzione fisica generano un ammontare rilevante di oneri e consentono, mediante il miglioramento del livello di efficienza, di conseguire vantaggi significativi in termini di costi di produzione. La velocit del ciclo di evasione dell'ordine del cliente, il rispetto dei tempi di consegna e la salvaguardia delle caratteristiche di sanit del prodotto contribuiscono peraltro in modo decisivo anche alla customer satisfaction e, quindi, alla fidelizzazione della clientela. L'efficienza della logistica si pone, cos, quale elemento non secondario della strategia competitiva sia perch riesce a contenere i costi sia perch contribuisce ad elevare la qualit del servizio. All'interno del processo logistico i due sotto-processi di maggiore rilievo sono quelli di approvvigionamento e di distribuzione. 2. La funzione di approvvigionamento: aspetti strategici e tattici. Per funzione di approvvigionamento si intende il processo di acquisto e di gestione delle scorte dei materiali diretti allalimentazione dei cicli di lavorazione. Il suo obiettivo di assicurare leconomicit della gestione degli acquisti e di preservare la continuit dei cicli di lavorazione. Il rifornimento di materiali deve infatti garantire lininterrotto svolgimento della produzione, al fine di evitare tempi di ozio per limpianto e di conseguenza costi sprecati per lazienda. Nell'organizzazione della funzione di approvvigionamento dev'essere operata una distinzione tra aspetti strategici e tattici od operativi. Essa, infatti, sconter delle scelte strategiche sui confini posti all'attivit produttiva da realizzare in azienda e seguir delle procedure ricorrenti per la sua realizzazione nel corso della gestione. L'aspetto strategico si lega a scelte pi ampie e complesse (vedi casi d'integrazione verticale o di quasi-integrazione mediante rapporti di sub- fornitura) e, in particolare, dipende dalle caratteristiche dei cicli di produzione e dei mercati di rifornimento. Il ruolo della funzione di approvvigionamenti assume contenuti che potremmo definire strategici sia per l'incidenza sul conto economico aziendale (per il peso dei costi di acquisto sul costo globale del prodotto) sia per i riflessi generati sulla qualit e, quindi, sul volume dei prodotti venduti. L'impostazione del processo di approvvigionamento legata soprattutto a due elementi: 1) la criticit dei materiali da acquistare, cio limpresa dovr assicurare il rifornimento per quei materiali, componenti, parti o accessori che possono creare ostacoli nel ciclo di lavorazione, bloccando fasi importanti o impedendo il processo terminale di allestimento del prodotto finito. Si pu trattare ad esempio di componenti non standardizzabili e quindi non rinvenibili nel mercato, per i quali occorre una preparazione professionale del fornitore con conseguenti lunghi tempi di attesa. 2) l'impatto economico sul costo totale del prodotto, cio se limpresa lavora con un basso valore aggiunto, leconomicit degli approvvigionamenti riveste un carattere fondamentale per la competitivit aziendale. In teoria, incrociando questi due elementi si pu costruire una matrice, che consente di distinguere i vari tipi di acquisti e suggerire i modelli organizzativi per gestire il relativo processo di approvvigionamento. Sotto tale profilo, i materiali si possono dividere in: materiali leva o chiave, il cui peso economico, dati gli elevati costi di acquisto e di magazzinaggio, incide sul profitto finale dellimpresa, ma presentano un basso rischio di reperimento sul mercato; materiali strategici, hanno un ruolo critico nellallestimento del bene oggetto di produzione da parte dellimpresa, perch sono di difficile reperimento e di elevato impatto sulla redditivit; materiali colli di bottiglia, sono caratterizzati dalla difficile reperibilit ma da un peso economico modesto; materiali non critici o di routine, sono facilmente reperibili sul mercato e hanno unincidenza modesta in rapporto al valore del bene da produrre. Questa classificazione appare utile per comprendere la differente gestione delle varie tipologie di materiali, per alcuni dei quali (prodotti leva e critici) sar opportuno stringere accordi durevoli con i fornitori assicurandosi, in anticipo, le migliori condizioni di acquisto (prezzo e celerit della consegna); per altri (colli di bottiglia) sar soprattutto necessario garantirsi la tempestivit e la precisione dell'esecuzione degli ordini, selezionando pi fornitori ad alta affidabilit; per altri ancora (prodotti non critici), infine, converr disporre di un nutrito albo dei fornitori, in modo da potere usufruire di una pluralit di offerte tra cui operare le scelte pi vantaggiose.
3. L'organizzazione della funzione acquisti.
La gestione della funzione di acquisto comporta la definizione di politiche commerciali nei confronti di fornitori e di piazze diverse, di quantit e tempi di rifornimento, di condizioni di pagamento e di ricevimento dei beni acquistati. Lattuazione del processo diversa in rapporto allarea di mercato di riferimento e al grado di standardizzazione dei materiali e, quindi, comporta unorganizzazione pi o meno articolata. Anche se la procedura sempre la stessa a seconda dei casi muteranno l'area territoriale di riferimento e i rapporti di collaborazione con i fornitori. Al vertice dalla funzione utile che vi siano uno o pi approvvigionatori (buyer), che conoscano i mercati di acquisto e che siano in grado di prendere le decisioni pi convenienti e nel momento pi opportuno. chiaro, infatti, che sul marketing di acquisto poggia l'economicit e l'efficienza della funzione e l'abilit previsionale sull'andamento dei prezzi gioca un ruolo di grande rilievo nell'economia complessiva dell'azienda produttrice. Inoltre, il responsabile della funzione di approvvigionamento deve agire di concerto con i responsabili di altre funzioni aziendali e pi in particolare con: il direttore di produzione, per garantire, conoscendo esattamente le esigenze, la continuit dei processi di rifornimento e per concordare le caratteristiche di affidabilit tecnica dei materiali; il direttore del marketing per valutare i riflessi dell'approvvigionamento sulla politica di prodotto (differenziazione della qualit) e sulla politica del prezzo (valutando congiuntamente le opportunit per conseguire risparmi di costi di acquisto) il direttore finanziario per determinare il fabbisogno di capitale circolante, potendo influire nell'attuazione della funzione di acquisto sulle quantit (e, quindi, sull'altezza delle scorte) e sulle dilazioni di pagamento (e, quindi, sull'utilizzo del credito di fornitura). Il direttore della ricerca e sviluppo per valutare le possibilit di impiego di nuovi materiali utilizzabili in luogo di materiali difficilmente approvvigionabili, soggetti a forti rischi congiunturali e pi costosi. La ricerca e successiva selezione dei fornitori dev'essere, in sostanza, la risultante di un processo complesso di valutazione. I criteri oggettivi di scelta sono solitamente rappresentati dal costo, dalla qualit e dalla puntualit del fornitore. Questi criteri, come si gi sottolineato in precedenza, avranno una diversa importanza in funzione del peso relativo del costo dei materiali rispetto al costo totale del prodotto e delle conseguenze negative del mancato rifornimento sul ciclo di produzione.