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DIRITTO DEL LAVORO

Abbiamo visto problemi di carattere generale con la soluzione: ADOTTARE POLITICHE COMUNI
SOVRANAZIONALI, di fronte alla globalizzazione dell’economia. Quali sono le iniziative sul piano
sovranazionale? Sono risultate inadeguate, pur realizzando miglioramenti. finora sono risultate
inadeguate per almeno 2 ragioni: mancano strumenti e sanzioni idonee per garantire l’effettiva
osservanza delle misure internazionali; inoltre, si oppongono alla creazione di un diritto globale le
nazioni emergenti o sottosviluppate che temono che un diritto sindacale globale sarebbe un freno
per le loro economie. Anche la stessa UE difficilmente riuscirebbe da sola a imporre il suo modello
di welfare a altri attori del mercato internazionale. L’UE stessa stenta a rafforzare le proprie radici
politiche, trattandosi molto più di unione finanziaria ed economica. L’UE non può farsi promotrice
di un diritto sociale sovranazionale; oggi il processo a seguito dell’allargamento dell’UE è più
difficile, essendo alcuni stati dell’UE caratterizzati da sistemi di welfare diversi.
Vincoli di bilancio posti dalla unione europea hanno comportato pressione significativa spingendo i
paesi nella direzione di riforme dei sistemi pensionistici e ad adottare una serie di misure volte ad
agevolare la flessibilità nei rapporti di lavoro.
Situazione italiana: il corso del d del lavoro in Italia si modifica a partire dagli anni 70 del secolo
scorso: fino a quel momento vi era lo sviluppo costante delle tutele per i lavoratori, anche
accompagnate da fenomeni di assistenzialismo; a partire dalla seconda metà degli anni 70 la
direzione di marcia va verso un miglioramento delle condizioni di lavoro: ad esempio è prevista la
possibilità di deroghe anche da parte della contrattazione collettiva. Deroghe anche
PEGGIORATIVE. Oppure al contrario la legge fissa dei tetti ai miglioramenti della contrattazione
collettiva. Quindi ci sono prime indicazioni di un’inversione di tendenza: non più soltanto
provvedimenti di legge e di c. collettiva migliorativi, ma anche peggiorativi. questi primi
cambiamenti sono previsti come ipotesi speciali: in realtà hanno avuto un carattere anche
conservatore rispetto alle dinamiche internazionali. l’Italia ha continuato a difendere i livelli di
benessere acquisiti fino a quel momento; anche i tassi di crescita dell’economia italiana sono
sempre minori. L’Italia sceglie di mantenere tali livelli di benessere il più possibile, anche molto al
di là di quello che l’economia in quel momento le avrebbe consentito. Ha scelto di fare ricorso a
prestiti di denaro, pur di mantenere questi livelli. Lo stato inizia ad indebitarsi; le tasse sono
sempre più alte; L’INPS è un sistema in cui il finanziamento deriva dalle categorie direttamente
interessate. Ma la contribuzione richiesta ai lavoratori e ai ddl non è strutturalmente idonea a
coprire il costo di tutti i trattamenti erogati. Dall’80 fino al 2000 maturandosi la consapevolezza di
tali problemi strutturali, il legislatore adotta degli interventi: anzitutto , per difendere i diritti già
acquistati nella fase precedente, procede con singoli aggiustamenti e progressivi: la necessità
primaria era venire incontro alle esigenze delle imprese che richiedevano maggiore flessibilità
nella gestione del rapporto di lavoro, in quanto non erano abbastanza competitive: tale esigenza è
stata soddisfatta con singoli interventi, norme speciali dirette a regolamentare un singolo aspetto
e mettere a disposizione delle imprese nuovi modelli contrattuali diversi dal c di lavoro
subordinato a tempo pieno e indeterminato . la richiesta delle imprese è maggiore flessibilità:
succede che si iniziano a regolare nuovi contratti di lavoro caratterizzati non dallo stesso statuto
protettivo di quello standard, ma con uno statuto più flessibile: viene introdotto ad esempio il c di
lavoro part time. Il c. a termine (non a tempo indeterminato); il c. di formazione del lavoro (c
caratterizzato oltre alla causa tipica del c di lavoro, da una duplice causa: quella del ddl di formare
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il lavoratore); il lavoro interinale (vi è una dissociazione tra il ddl che assume il lavoratore e il ddl
che poi effettivamente ne usa le energie).
In materia pensionistica vi è l’esigenza di contenimento della spesa: il legislatore interviene con
una serie di riforme: la c. principale di tali riforme pensionistiche è che il legislatore introduce
riforme ma ne differisce gli effetti; si stabilisce che le riforme entrino in vigore molti anni più tardi.
C’ è sempre il problema del consenso politico. l’altra car. È che gli interventi pensionistici risultano
sempre inefficienti: con cadenza regolare a partire dagli anni 90 si succedono tante riforme
pensionistiche più o meno ampie. Gli effetti delle modifiche normative peggiorativi sono stati fatti
ricadere soprattutto sulle nuove generazioni.

IL NUOVO MILLENIO: in Italia il diritto del lavoro è alle prese con un duplice problema: da un lato
le carenze strutturali dell’economia italiana sono aggravate dall’ulteriore perdita di competitività
e dal fatto che l’Italia non può più ricorrere al debito pubblico, a causa dell’entrata dell’Italia
nell’UE. Da un certo momento in poi non può più ricorrere a politiche in deficit. Questo è il
primo problema: il d. di lavoro deve confrontarsi con tale elemento e impossibilità di chiedere
soldi a prestito.
Dall’altro lato, emerge un altro problema: come sono distribuite le risorse e le tutele del nostro
diritto del lavoro? A chi sono attribuite? Il principale criterio di imputazione delle tutele è la
nozione tecnico giuridica di subordinazione: le tutele sono distribuite attraverso tale nozione. (art
2094 cc) l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo del ddl (ETERO DIREZIONE). TUTTE
LE TUTELE NEL NOSTRO ORDINAMENTO sono concentrate sul c di lavoro subordinato; ciò vuol dire
che iniziano in quel momento alcuni problemi: non necessariamente la nozione di subordinazione
coincide con una subordinazione di effettiva debolezza del lavoratore: ad esempio emergono
alcune distonie: viene consentito l’accesso allo statuto protettivo a categorie che forse non
avrebbero tanto bisogno : I DIRIGENTI delle grandi aziende, che sono lavoratori sub dal punto di
vista tecnico giuridico, ma da un punto di vista socio economico non sono effettivamente deboli. Al
contrario, vengono escluse dallo statuto protettivo alcune categorie non subordinate dal punto di
vista tecno giuridico, ma sì da un p. di vista socioeconomico (es. lavoratori parasubordinati): tali
lavoratori sono formalmente autonomi ma sotto protetti da un punto di vista economico sociale.
Dunque, il secondo problema è la necessità di distribuire più equamente tali tutele, non
utilizzando solo più il criterio della subordinazione.
Vi sono anche altre distorsioni: ad esempio differenze di regime giuridico esistenti tra grandi
imprese e piccole e medie imprese: nel nostro ord i lavoratori delle grandi imprese sono più
tutelati; ciò sotto vari aspetti, in primis nella disciplina del licenziamento. Oppure privilegi acquisiti
da alcune categorie di lavoratori, soprattutto quelli nel settore pubblico/para pubblico.
Altro problema è la piaga del lavoro sommerso, o nero: questo problema lascia larghi strati della
popolazione totalmente fuori dal diritto. Dal 2000 in poi vi è il succedersi di una serie di riforme
per tali problemi: ci sono ambizioni riformatrici più organiche, così ‘ come più ristrette.
2015(jobs act): ultima grande riforma.
ATTUALE EVOLUZIONE D DEL LAVORO: dipende da vicende sovrannazionali;

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mercato del lavoro: serie variegata di misure dirette a favorire incontro tra offerta e domanda del
lavoro. (collocamento). Si ricomprende in tale nozione forme di sostegno previste per il lavoratore
nella fase di non lavoro; sia misure economiche che (ammortizzatori attivi) nella ricerca di una
nuova occupazione.
Si stanno inoltre sperimentando interazioni tra le varie fonti del diritto del lavoro. si sperimentano
nuovi rapporti tra tali fonti.
Ultima area di sviluppo: sistema della previdenza sociale anche qui la direzione è quella di una
riduzione delle tutele. È l’epoca dei cambiamenti demografici, aumento dell’aspettativa di vita, che
ha come controindicazione il fatto di mettere in crisi il sistema di welfare in quanto si accompagna
ad una forte diminuzione delle nascite: aumentano i pensionati e nel contempo vi sono sempre
meno persone attive, che finanziano il sistema pensionistico versando i contributi. Diminuiscono le
entrate e aumentano le spese.
DIRITTO SINDACALE
Libertà sindacale e art 39: nell’art 39 c’è il principio che costituisce la struttura portante dell’intero
diritto sindacale italiano: principio della libertà dell’org sindacale: art 39 c 1: “l’organizzazione
sindacale è libera” una delle poche norme dell’impianto cost che prevede una libertà non
sottoposte a limiti o condizioni; a differenza dei commi successivi, questo primo è stato ritenuto di
IMMEDIATA APPLICAZIONE, indipendentemente da un intervento del legislatore ordinario. È una
norma immediatamente precettiva, nei confronti dello stato e nei rapporti tra privati. Questo
principio non è stabilito solo nella cost italiana ma anche in molte altre convenzioni internazionali.
Qual è il significato? Quello principale è che l’organizzazione sindacale è portatrice solo di interessi
privati e non PUBBLICI. L’ORG SINDACALE PERSEGUE SOLO INTERESSI PRIVATI E NON PUBBLICI.
INT PRIVATI DI NATURA COLLETTIVA. Ciò al contrario di quanto avveniva nel sistema corporativo,
in cui il diritto sindacale non perseguiva interessi privati ma l’interesse dello stato, poiché c’era la
categoria professionale individuata specificatamente dalla legge. in ogni categoria professionale
esisteva nell’ordinamento corporativo un solo sindacato, per datori di lavoro e lavoratori. tale
sindacato era sottoposto al controllo dello stato. Dunque, i sindacati erano assorbiti
nell’organizzazione dello stato. Con l’approvazione dell’art 39 vi è una modifica: l’organizzazione
sindacale non è un organo dello stato, ma persegue solo interessi di natura privata.
LIB SINDACALE vuol dire facoltà di coalizione e azione per difesa e tutela di interessi collettivi
professionali. Facoltà di coalizione (mettersi insieme) che di azione. La nostra costituzione accoglie
una concezione pluralistica: non si disconosce la realtà del conflitto tra interessi del capitale e del
lavoro, ma l’esistenza di tale conflitto è riconosciuta. (es. art 41 cost libertà di iniziativa
economica/ art 39 lib. Di org sindacale, considerata come un contropotere rispetto a quello
economico). Dal riconoscimento della lib. Sindacale discendono 2 postulati: anzi tutto, il
riconoscimento della legittimità dei fini perseguiti da tale org sindacale; ancora prima, la
valutazione a priori che l’org sindacale è soggetto idoneo a perseguire quei fini.
ALTRI SIGNIFICATI Anzi tutto, lib. Dei singoli lavoratori e datori di lavoro rispetto allo stato di
costituire all’interno di uno stesso settore della produzione più sindacati.
Altro significato libertà di definire e modificare l’ambito di applicazione del contratto collettivo,
anche se l’ambito di applic non coincide con un settore merceologico o con una parte di esso.
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CATEGORIA PROFESSIONALE il concetto di cat professionale è contenuto nell’art 2070 cc
oramai la giurisprudenza prevalente da tempo esclude che tale norma dell’art 2070 sia applicabile
al c collettivo comune. Ritengono che si possa applicare solo al c collettivo dell’ordinamento
corporativo. Tale norma dice che l’ambito di applicazione del c collettivo doveva determinarsi
OGGETTIVAMENTE: non sono le parti a stipulare il c collettivo, ma l’ambito di applic era
predeterminato oggettivamente in base all’attività effettivamente svolta dall’imprenditore. La
categoria professionale era individuata secondo l’attività svolta dall’imprenditore. Tale criterio
oggi è rimasto come criterio sussidiario: oggi prevale il concetto di categoria CONTRATTUALE:
attualmente la cat professionale non è intesa come qualcosa che preesiste al sindacato: al
contrario in coerenza col principio della lib sindacale, sono le stesse parti che autodefiniscono
liberamente l’aerea entro la quale il c. collettivo esplica i suoi effetti, ampliando o restringendo
l’aerea di riferimento.
Esclusa ogni possibilità di imposizione eteronoma da parte della legge, la categoria ora si configura
non come un presupposto dell’azione sindacale, ma come un risultato della con. Collettiva, in
quanto essa stabilisce i contenuti e la categoria e l’ambito di applicazione del c. collettivo.
(concetto di categoria contrattuale).
Altri significati libertà org sindacale libertà dei singoli di scegliere l’org sindacale alla quale
aderire: all’interno di uno stesso settore vi sono più sindacati. Libertà negativa di non aderire ad
alcuna org. Sindacale. Nel nostro ordinamento a differenza di clausole di altri ordinamenti (es. ord
anglosassoni) non sarebbero valide clausole di closed shop /union shop (es. l’impr. Assume solo
lavoratori iscritti al sindacato/Licenzia coloro che non sono più iscritti al sindacato).
La lib. A volte è limitata dalla legge per interessi pubblici: oggi ci sono deroghe al principio di lib. Ad
esempio, per gli appartenenti alla polizia di stato vi è la condizione che i sindacati siano costituiti
esclusivamente per tale categoria e non abbiano collegamenti con altri sindacati; essi, inoltre, non
hanno diritto di sciopero. Le stesse limitazioni vi sono per i militari di stato, che non possono
costituire associazioni a carattere sindacale.
Altra legge importante 300/70 (statuto lavoratori) essenzialmente tutela la lib sindacale sui
luoghi di lavoro dandole contenuto. garantisce ai lavoratori di costituire ass sindacali, di aderirvi e
esercitare attività all’interno.
La norma costituzionale tutela la lib del tipo di organizzazione che chi costituisce un org sindacale
dà alla propria coalizione: vi possono essere coalizioni occasionali o stabili. la cost tutela anche
quindi coalizioni occasionali, utilizzando l’espressione ORGANIZZAZIONE sindacale, comprendendo
ogni tipo di aggregazione; non utilizza il termine ASSOCIAZIONE.
Art 39 c 2/4 se c 1 è norma immediatamente applicabile, tali commi prevedono un
procedimento complicato volto ad attribuire efficacia generale al contratto collettivo. Il
procedimento risente di modelli corporativi. È un procedimento che risolve problemi dell’efficacia
soggettiva del c. collettivo.
C 2  ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la registrazione …  il sindacato si
deve REGISTRARE.

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C 3 Condizione per la registrazione è che gli statuti del sindacato stabiliscano un ordinamento
interno a base democratica.
C 4 I sindacati registrati hanno personalità giuridica; possono stipulare c collettivi di lavoro con
efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il c si riferisce . (erga
omnes).  questa norma sancisce l’efficacia erga omnes del c collettivo all’interno della categoria
alla quale il c.si riferisce.
Il procedimento e il contenuto di tali commi, dal 2 al 4, non è mai stato attuato nel nostro
ordinamento. Il legislatore non ha mai dato attuazione a tutto ciò. Da cosa dipende la mancata
attuazione? Da alcune ragioni di carattere politico o dal fatto che il sistema riprendeva in parte
concezioni del modello corporativo.
Il problema più delicato è che il sistema prefigurato dall’art 39 avrebbe potuto costituire un
attentato alla lib. Sindacale. Ai sindacati non piaceva la registrazione del sindacato, da cui
dipendeva l’acquisizione della capacità giuridica, ma essa era sottoposta al controllo dell’autorità
amministrativa, che doveva controllare l’ordinamento a base democratica. Questo controllo venne
considerato con sospetto dai sindacati, che temevano che il controllo non fosse solo di legittimità
ma anche di MERITO. I sindacati temevano che lo stesso controllo di legittimità potesse consentire
agli organi pubblici preposti alle registrazioni INGERENZE che andavano a limitare le loro libertà.
C’erano dubbi e incertezze sullo status da applicare ai sindacati che non avessero chiesto o
ottenuto la registrazione. Il peso di tale preoccupazione si spinse a ritenere che solo i sindacati
registrati potessero essere abilitati a concludere c collettivi e esercitare il diritto di sciopero.
Il sistema era finalizzato in omaggio al pluralismo sindacale alla possibilità di stipulare c collettivi
con efficacia erga omnes. Ove vi fosse stato un dissenso sul contratto collettivo tra sindacati,
c’erano solo le alternative di votare all’unanimità o con maggioranza. Con la maggioranza si
ritenne che si attentasse alla libertà del sindacato dissenziente; nel secondo caso sarebbe bastato
il veto di una sola org. Sindacale.
Un’altra ragione dell’inattuazione è da ritrovare nei rapporti tra CGL CISL E UIL. I sindacati non
volevano contare i propri iscritti. Di qui l’opposizione del sindacato e dei sindacati con meno
iscritti.
Al di là delle ragioni, la scelta fu per l’inattuazione del procedimento. fu verso un sistema che
consentisse alle org. Sindacali di contare tutte allo stesso modo, a prescindere dal numero degli
iscritti. La mancata attuazione dell’art 39 e in parte dell’art 40 non ha impedito al diritto sindacale
italiano di svilupparsi secondo modelli via via diversi, che hanno tenuto conto di trasformazioni
avvenute nel contesto economico e sociale. Il diritto sindacale secondo una definizione famosa è
definito un diritto senza norme ma al tempo stesso senza LACUNE, in quanto si è costruito un
sistema sindacale di fatto che funziona autonomamente.
Come è stato costruito il sistema di fatto? Nel silenzio del legislatore la giurisprudenza ha utilizzato
soprattutto tecniche e istituti del diritto privato ad es. nell’associazione non riconosciuta o nel
contratto collettivo sono utilizzati gli istituti del contratto. La mancata attuazione dell’art 39 ha
consentito che il nostro sistema si realizzasse attraverso un pluralismo sindacale accentuatissimo.
Caratteristica essenziale del nostro sistema sindacale è il PLURALISMO. Vi sono diversi sindacati
nell’ambito della stessa categoria merceologica in concorrenza fra loro.
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Evoluzione sindacalismo italiano in Italia: l’org sindacale dei lavoratori è rimasta unitaria solo nel
periodo dopoguerra-1948: nel 1948 avviene una scissione in 3 organizzazioni sindacali. Oggi
sussiste per ogni settore e categoria una pluralità di org sindacali che fanno capo a CGIL CISL E UIL.
Tali confederazioni sono tuttora considerate dalla giurisprudenza organizzazioni maggiormente
rappresentative. Per rafforzare la loro azione tali sindacati in più occasioni si sono federati con un
patto di azione comune nel 1972. Tale patto di azione comune è entrato spesso in crisi. Nel
frattempo, accanto a queste 3 confederazioni ne sono state costituite altre, ad esempio UGL. Altre
confederazioni sindacali definite come autonome hanno scarsa rappresentatività.
Org sindacale datori di lavoro: è solitamente unica; i ddl sono organizzati in base al settore in cui
operano.
L’org sindacale ha questa caratteristica: rispetto a tutte le altre si caratterizza per elementi
peculiari: strumenti utilizzati, tipo di attività giuridica svolta e fine perseguito.
Strumento giuridico più importante contratto collettivo;
l’org sindacale è di tipo associativo: si costituisce come ASSOCIAZIONE volontaria di ddl e
lavoratori per ottenere migliori condizioni di lavoro per gli appartenenti alla associazione. L’org
si caratterizza per volontaria iscrizione dei soci, siano ddl o lavoratori.
Altra forma di org sindacale sindacato di tipo istituzionale vengono costituite perché’
liberamente elette dai lavoratori interessati. (RSA).
CONTRATTO COLLETTIVO: è sicuramente un accordo tra un gruppo di lavoratori e un ddl o
associazione di datori di lavoro per determinare le condizioni applicabili a un det. Rapporto di
lavoro.
Alla debolezza contrattuale del singolo lavoratore si sostituisce la forza del sindacato, della
coalizione: è probabile che il sindacato riesca a ottenere condizioni migliori di quelle che può
pattuire il lavoratore. La forza della coalizione riesce a ottenere condizioni migliori del singolo
lavoratore. Il contratto collettivo è espressamente nominato nell’art 39 cost (c 2-4, con
procedimento volto a costituire efficacia generale al contratto); esso è nominato anche da leggi
ordinarie anche se ha specifica disciplina nel settore pubblico: rappresenta la PRINCIPALE
MANIFESTAZIONE dell’attività sindacale. Il sindacato è nato per la stipula del contratto collettivo
ed è espressione dell’autonomia negoziale collettiva PRIVATA. TUTELANDO INTERESSI PRIVATI E
NON PUBBLICI, all’odierno c collettivo viene applicata la disciplina generale dei contratti prevista
nel cc. Di qui la definizione di contratto collettivo privatistico di diritto comune.
Il c collettivo non è altro che lo strumento negoziale mediante cui le org sindacali perseguono un
interesse PRIVATO COLLETTIVO. Il sindacato nasce proprio agli inizi del 900 del secolo scorso grazie
alla stipula anche del c collettivo.
Periodo pre-corporativo prima del ventennio fascista si applicavano le regole del diritto comune
dei contratti: il c collettivo era vincolante SOLO NEI CONFRONTI DEI SINGOLI LAVORATORI ISCRITTI
AL SINDACATO CHE STIPULAVA IL CONTRATTO. Il c era applicabile solo nei confronti di essi. C’era
un limite soggettivo. C’era anche in limite oggettivo in quanto il contratto aveva natura
meramente obbligatoria: poteva essere validamente derogato anche dal contratto individuale di

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lavoro, anche laddove questo prevedesse clausole meno favorevoli per il lavoratore. Non
efficacia quindi reale.
Periodo corporativo cambia tutto e la configurazione dello stato e del sindacato: esso perde le
sue caratteristiche, non essendo più associazione libera autonoma di lavoratori: diventa strumento
dello stato, chiamato a perseguire non solo interessi privati collettivi MA interessi pubblici
superiori, in particolare quello dell’economia. Il presupposto del periodo corporativo era il
concetto di categoria professionale, dato preesistente a quello dell’organizzazione. Era
riconosciuta una sola org sindacale, per lavoratori e ddl.
Caratteristiche c collettivo corporativo è come se fosse una legge, svolgendo una funzione
normativa avente efficacia erga omnes, obbligatoria per gli appartenenti alla categoria alla quale
il contratto si riferiva. Il con collettivo fu annoverato anche tra le fonti del diritto, come la legge.
Fu considerato anche inderogabile, se non in quanto il c individuale prevedesse migliori condizioni.
In tale contratto non vi erano problemi di efficacia.
C collettivo odierno: si approva la costituzione e si torna alla situazione del periodo pre-
corporativo; erano riproposti i problemi di efficacia già emersi. Caduto l’ord corporativo si pose il
problema di dotare il c collettivo di efficacia generale o tendenzialmente generale: è importante
perché l’esistenza di zone più o meno ampie sottratte alla c collettiva determina effetti negativi:
carenza di tutela, diminuzione mobilità aziende (hanno tutti interesse a stare nella zona protetta);
SOLUZIONE: non si utilizzarono gli strumenti del periodo precorporativo; fu decisivo l’apporto della
giurisprudenza : ricondotto il c collettivo nell’ambito delle categorie civilistiche, essendo l’art 39
rimasto inattuato, l’efficacia era limitata, come nel periodo pre corporativo, ai soggetti
appartenenti ai sindacati stipulanti: anche il c collettivo aveva effetto tra le parti. La
giurisprudenza ha contribuito alla risoluzione del problema: fu soprattutto la giurisprudenza a farsi
carico di meccanismi idonei a estendere soggettivamente le tutele del c collettivo.
1 meccanismo: collegamento tra due norme: 36 cost e 2099 cc si parlò di collegamento creativo.
La prima norma riguarda la retribuzione, che deve essere proporzionata alla qualità e alla quantità
del lavoro svolto E in ogni caso SUFFICIENTE. I GIUDICI dissero che la norma era immediatamente
precettiva e quindi applicabile al rapporto di lavoro, anche senza mediazione del legislatore. Da
tale norma si fa derivare la nullità della clausola del c individuale che prevedevano livelli di
retribuzione non proporzionati.
Art 2099 c 2 la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto ove occorra il parere
delle associazioni professionali. Il giudice equipara il caso in cui l’accordo mancava al caso in cui
l’accordo c’era ma era nullo in quanto contrastante con l’art 36.
Questo collegamento ha consentito al giudice a prescindere della volontà delle parti di APPLICARE
LA DISCIPLINA COLLETTIVA. Infatti, come faceva il giudice a determinare la retribuzione?
Sostanzialmente, determina la retribuzione prendendo in considerazione il trattamento
retributivo degli attuali contratti collettivi. Si può parlare di giurisprudenza in funzione normativa.
È un meccanismo quindi diretto a attribuire efficacia generale al c collettivo al meno sul piano
economico. Il giudice però non è obbligato: il contratto collettivo è solo un parametro di
riferimento NON VINCOLANTE. LA RETRIBUZIONE prevista dal con collettivo è parametro ma non
vincolante.
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Secondo meccanismo meccanismi che si basano su FONDAMENTI VOLONTARISTICI. Questi
meccanismi hanno contribuito a ridurre fortemente il problema della non applicazione del c
collettivo, le cui aree sono oramai residuali nel nostro ordinamento. La giurisprudenza ha ritenuto
applicabile il c collettivo non solo quando le parti sono entrambe iscritte al sindacato stipulante,
ma anche quando pure se il ddl non è iscritto al sindacato, le parti rinviano esplicitamente o
implicitamente al contratto collettivo, manifestando la comune volontà di vincolarsi alle
disposizioni del c collettivo attraverso il RINVIO. IL rinvio può essere esplicito o implicito ma anche
MATERIALE O FORMALE. Solitamente il rinvio è contenuto nel contratto individuale di lavoro
(rinvio esplicito); il rinvio può essere implicito: può essere desunto da comportamenti
CONCLUDENTI: tali fatti/comportamenti sono ad esempio la spontanea prolungata e costante
applicazione di un det c collettivo al rapporto di lavoro.
RINVIO MATERIALE/FORMALE il rinvio può essere a un det contratto collettivo (rinvio materiale
o recettizio): nel c individuale di lavoro c’è scritto di applicare le disposizioni del contratto
collettivo xx.
Può anche essere che il rinvio sia non al singolo contratto collettivo ma all’intero modello
contrattuale (rinvio formale o non recettizio o rinvio alla fonte di produzione giuridica) non c’è
per esempio l’indicazione della data del singolo contratto collettivo. In tale seconda ipotesi il rinvio
è DINAMICO consente l’automatico adeguamento all’evoluzione della disciplina del contratto
collettivo, con eventuali rinnovi.
Il rinvio dinamico vale quando il sistema a cui si fa rinvio resta immutato, cioè quando anche il
rinnovo viene fatto dagli STESSI soggetti che hanno stipulato il primo contratto.

INTERVENTI LEGISLATORE  dopo circa dieci anni dall’entrata in vigore della costituzione,
constatata l’impossibilità di dare attuazione all’art 39, il legislatore ritenne di dover comunque
intervenire per soddisfare l’interesse dei lavoratori a un minimo di trattamento economico e
normativo: nel 1958 fu emanata la legge 741 (Vigorelli) è una legge delega che delega il governo
a emanare decreti legislativi per stabilire i minimi di trattamento da garantire ai lavoratori e
l’obbligo del ddl di rispettare tali minimi (vi erano sanzioni penali in caso di non ottemperamento ).
La legge delega dice che nella formazione di tali decreti legislativi il governo si doveva
uniformare alle clausole dei contratti collettivi di diritto comune che fossero stati stipulati entro
una certa data. Si doveva prendere come riferimento le clausole dei contratti collettivi di diritto
comune, poi depositati entro una certa data.
Effettivamente furono emanati tali decreti legislativi; questo meccanismo escogitato dal legislatore
fu poi oggetto di una proroga con la legge 1027 del 1960: si capisce che il meccanismo divenne da
transitorio a definitivo: intervenne dunque la corte cost dichiarando il meccanismo
incostituzionale, in quanto in contrasto col meccanismo previsto dalla costituzione (art 39 c 2 – 4),
non attuato ma neanche mai abrogato. Nella sostanza tale meccanismo col sistema della legge
delega aggirava l’art 39 realizzando tuttavia gli stessi effetti.
Dopo la prima delega il governo emanò una serie di decreti legislativi che continuarono a rimanere
VALIDI. la legge 741 del 1959 non costituisce l’unica esperienza di estensione ex lege dell’efficacia
soggettiva del contratto collettivo.
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Quali sono le altre esperienze del legislatore? ad esempio la legge sottopone la concessione di
appalti, pubblici servizi alla condizione che siano applicate o fatte applicare ai lavoratori
condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi applicato in quel settore. Non è
un intervento diretto ma indiretto: tende indirettamente a estendere gli effetti dell’efficacia
collettiva del contratto.
stessa ratio ha il condizionamento del godimento di sgravi contribuitivi all’erogazione da parte del
ddl all’applicazione di un trattamento non inferiore a quello previsto dalla disciplina sindacale
nazionale. Non si può dire che il legislatore abbia esteso l’efficacia soggettiva del c collettivo
perché non è un intervento diretto ma un intervento finalizzato a incentivare una generalizzata
applicazione del contratto collettivo. È una norma di incentivazione indiretta. Un’altra volta il
legislatore ci dice che il contratto collettivo è lo strumento idoneo a determinare qual è la
retribuzione sufficiente ed adeguata, tramite riconoscimento indiretto.
In altri casi la legge ha attribuito direttamente efficacia generale a determinati accordi collettivi
particolari. ad esempio, gli accordi aziendali (art 4 e 6 statuto lavoratori) su installazione di
apparati audiovisivi a cui è stata attribuita efficacia generale. Oppure nell’ambito della procedura
di licenziamenti collettivi gli accordi riguardanti tale processo si ritiene abbiano efficacia generale;

EFFICACIA OGGETTIVA CONTRATTO COLLETTIVO abbiamo visto l’esigenza di estendere l’ambito


soggettivo del contratto e i vari interventi di giurisprudenza e del legislatore: essi hanno
contribuito ad attenuare il problema dell’esistenza di zone non coperte dal contratto collettivo. Un
altro problema è quello della INDEROGABILITA’ DEL CONTRATTO COLLETTIVO. Caduto
l’ordinamento corporativo, si pone il problema di giustificare l’inderogabilità del c collettivo da
parte del contratto individuale, evitando che un lavoratore possa accettare condizioni inferiori
rispetto a quelle previste dalla disciplina sindacale. Bisogna quindi giustificare tale inderogabilità.
Anche qui abbiamo un problema giuridico ancora più complesso di quello precedente: si tratta di
stabilire una prevalenza del c collettivo su quello individuale, entrambi espressioni di autonomia
privata. Nell’ordinamento corporativo vi era una norma apposita che risolveva tale problema: art
2077, che prevede il principio dell’inderogabilità del c collettivo, che era inderogabile da quello
individuale, A MENO CHE QUESTO NON PREVEDESSE CONDIZIONI MIGLIORATIVE (DEROGABILITA’
IN MELIUS). Tale inderogabilità è detta anche reale o automatica, perché era prevista la
sostituzione automatica della clausola del c individuale difforme con quella del contratto collettivo,
più favorevole. Non era dunque meramente obbligatoria.
Caduto l’ordinamento corporativo, si ripropone il problema. Provarono a risolverlo prima
giurisprudenza che legislatore. La giurisprudenza per lungo tempo continuava a risolvere il
problema applicando la norma dell’art 2077, se pure questa riguardasse i contratti collettivi
corporativi e non di diritto comune. La giurisprudenza supera questa obiezione consentendo la
sostituzione automatica delle clausole del c individuale difforme con quelle del c collettivo ANCHE
di diritto comune. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale con funzione normativa. La
dottrina fu critica verso questa giurisprudenza che trasponeva l’art 2077 dall’ordinamento
corporativo a quello costituzionale; proprio per questo la dottrina tentò a sua volta di elaborare

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teorie alternative per giungere a tale conclusione, senza mai trovare risultati pienamente
persuasivi.
Legislatore intervenne successivamente e fu la stessa legge a riconoscere espressamente il
carattere dell’inderogabilità al contratto collettivo: la legge 533 modificò l’art 2113 del cc: con tale
modifica il legislatore supera l’interpretazione contestata alla giurisprudenza consentendo di
affermare che la clausola collettiva opera sui rapporti individuali di lavoro nello stesso modo in
cui operano le norme di legge.
Art 2113 considera invalide le rinunce e le transazioni da parte del lavoratore che hanno ad
oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disp inderogabili della legge e dei contratti
collettivi. Si parla espressamente di inderogabilità anche per il contratto collettivo. Le clausole
del c collettivo concorrono a individuare la disciplina del c di lavoro indipendentemente dalla
volontà dei contraenti, in modo analogo alla norma di legge.
Con tale norma il legislatore finisce per attribuire fondamento giuridico alla regola della
inderogabilità del contratto collettivo. le disposizioni di tale contratto si pongono come fonte
eteronoma che disciplina o integra dall’esterno le norme di legge ferma restando la intangibilità
dei diritti quesiti dei lavoratori.
Nonostante tale intervento del legislatore, la giurisprudenza continua a sostenere l’art 2077.
Questo perché’ nell’art 2077 sono collegati all’inderogabilità anche gli effetti della sostituzione
automatica delle clausole difformi e la prevalenza di clausole individuali OVE PIU’ FAVOREVOLI.
Super MINIMI RETRIBUTIVI i super minimi retributivi sono eccedenze della retribuzione
rispetto ai minimi tabellari. Nella parte economica solitamente il c collettivo prevede minimi
tabellari. Spesso i super minimi sono pattuiti nel contratto individuale di lavoro; di solito sono
previsti nel c individuale per premiare particolari meriti o una maggiore qualità o quantità della
prestazione svolta dal lavoratore. Se le parti concordano nel c individuale di lavoro super minimi
retributivi, NON SI APPLICA LA DEROGABILITA’ IN MELIUS. Si applica solo nel caso in cui
effettivamente i super minimi dipendono da meriti del lavoratore. Ciò vuol dire che il superminimo
pattuito individualmente è assorbito negli aumenti della retribuzione via via stabiliti dal contratto
collettivo. Ciò perché il super minimo retributivo non è sorretto da titolo idoneo che lo sorregga, a
parte nel caso in cui vi siano meriti del lavoratore.
A volte le parti dicono espressamente nel contratto che il superminimo non è riassorbibile: in tal
caso il super minimo non è riassorbibile.
Resta un dato acquisito quello secondo cui il c collettivo sopravvenuto non può modificare in
senso peggiorativo i trattamenti economici previsti dal contratto individuale.
COMPARAZIONE TRA TRATTAMENTI: bisogna capire quando il trattamento individuale è
considerato più favorevole rispetto a quello del c collettivo. Spesso tale operazione è molto
difficile. Il problema è semplice quando varia un solo elemento, ma spesso variano in senso non
convergente vari elementi. Come risolvere il problema? La giurisprudenza e la dottrina hanno
elaborato due orientamenti di fondo:
1) TESI DEL CONGLOBAMENTO O ASSORBIMENTO: ritiene che la comparazione debba essere
fatta sui trattamenti complessivi dei singoli contratti. È una valutazione globale
10
2) CUMULO: non si fa una comparazione per trattamenti complessivi; tale tesi mette a
raffronto le singole clausole, isolando da ogni contratto le singole clausole, quelle più
favorevoli, e cumulandole tra di loro.

La giurisprudenza adotta una soluzione mediana: supera la teoria del cumulo facendo
prevalere quella del conglobamento, ma con una precisazione: la comparazione deve
essere effettuata non nell’ambito dei trattamenti complessivi ma per SINGOLI ISTITUTI
(all’interno della disciplina di singoli istituti)  ad esempio tutto l’insieme di disposizioni
che riguardano la retribuzione; l’insieme di disposizioni che riguardano l’orario di lavoro…

Sempre più spesso i con collettivi introducono clausole che stabiliscono espressamente che
determinati trattamenti sono inscindibili tra di loro e non cumulabili con altri trattamenti
derivanti da altre fonti (clausole di inscindibilità o non cumulabilità). Ovviamente le parti
sindacali con esse manifestano la volontà di considerare unitariamente l’accordo
stipulato, mirandone a garantirne la coerenza interna. Al lavoratore è impedito di
selezionare nel c collettivo solo dati trattamenti. Tali clausole privilegiano l’applicazione
globale del c collettivo.

CONTENUTO C COLLETTIVO: solitamente diviso in due parti: c’è una parte normativa e una
parte obbligatoria del contratto collettivo.
TRADIZONALMENTE CONTIENE LE CLAUSOLE CHE REGOLAMENTANO I RAPPORTI
INDIVIDUALI DI LAVORO CON L’INTERA DISCIPLINA, dalla costituzione del rapporto
all’estinzione.
DEFINIZIONI: si parla di contrattazione ABLATIVA o ACQUISITIVA: acquisitiva quando i
contratti collettivi incrementano i diritti dei lavoratori; si parla di contrattazione ablativa
quando i contratti collettivi riducono il trattamento previsto dal precedente c collettivo.
Nella sua evoluzione il c collettivo si è venuto arricchendo e incrementando anche come
volume. (minimo 100 pagine).
Oltre a regolamentare ogni singola vicenda del rapporto, il contratto finisce per regolare i
rapporti tra le parti stipulanti (sindacati contrapposti), contenendo anche clausole
destinate a determinare diritti e obblighi dei soggetti stipulanti. Convenzionalmente nel c
collettivo si distinguono 2 parti con funzioni diverse:
1) Parte normativa e 2) parte obbligatoria.
1) PARTE NORMATIVA ha ad oggetto la disciplina del trattamento economico e
normativo applicabile ai singoli rapporti di lavoro. È regolato ogni istituto (orario,
assenze, sospensione del rapporto, ferie.). tale parte non produce effetti giuridici
nei confronti dei soggetti stipulanti ma regola immediatamente la disciplina. c’è una
sotto distinzione nella parte normativa: parte normativa e parte economica (che è
sempre normativa ma si occupa solo dell’aspetto degli istituti che attengono alla
RETRIBUZIONE). La parte normativa in senso stretto comprende tutti gli altri aspetti
del rapporto di lavoro.
2) PARTE OBBLIGATORIA disciplina quelli che sono i rapporti che intercorrono tra le
parti stipulanti: le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei ddl (o imprenditore).
Disciplina situazioni giuridiche attive e passive. con lo sviluppo della contrattazione
collettiva ha assunto un’importanza rilevante nel sistema delle relazioni industriali
11
oltre che fondamentale per gli equilibri del contratto stesso. Convenzionalmente
esistono diverse tipologie di clausole: ad esempio quelle che reggono le relazioni
contrattuali (clausole che stabiliscono come rinnovare un contratto collettivo;
clausole che dettano la distribuzione delle competenze tra i diversi livelli di
contrattazione collettiva; clausole che regolano la stessa amministrazione del
contratto, ad esempio clausole che prevedono procedure di arbitrato o conciliative;
clausole che prevedono costituzione o funzionamento di alcune commissioni , ad
esempio gli organismi deputati all’interpretazione di determinati istituti
contrattuali; clausole che regolano gli organi di rappresentanza sindacale; clausole
che si occupano dei diritti di informazione e consultazione sindacale; clausole che
costituiscono organi o istituzioni , come gli enti bilaterali; clausole che
procedimentalizzano il ricorso alle azioni di sciopero durante la vigenza del
contratto stesso; ) tutte queste clausole obbligatorie a differenza di quelle
normative non producono effetti immediati sul rapporto di lavoro, ma solo nei
confronti dei soggetti stipulanti , prevedendo l’obbligo per essi di tenere o
astenersi dal tenere determinati comportamenti definite dalle parti necessari o
vietati per una corretta amministrazione del contratto collettivo. Comunemente la
violazione delle clausole obbligatorie non può essere fatta valere in giudizio dal
singolo lavoratore ma solo dai soggetti collettivi che hanno stipulato il contratto. Ciò
perché’ le clausole sono diritti soggettivi sindacali. Co0me si fanno valere in
giudizio? Vi sono strumenti predisposti dal legislatore, come l’art 28 della legge
300/700  procedimento giudiziario accelerato che può essere azionato dal
sindacato per far valere la violazione di una delle clausole (COMPORTAMENTO
ANTI-SINDACALE).
ALL’apparenza potrebbe apparire semplice distinguere clausole obbligatorie da
normative: in realtà non è sempre agevole perché negli ultimi tempi va registrata
una tendenza della contrattazione collettiva a introdurre clausole miste, di natura
ibrida, nelle quasi si combinano elementi normativi e obbligatori. Per esempio, Le
cd clausole di procedimentalizzazione, clausole che limitano il potere del datore di
lavoro introducendo una procedimentalizzazione. Il relativo esercizio del potere è
subordinato allo svolgimento di determinati comportamenti da parte del contratto
di lavoro. Per esempio, in materia di licenziamento collettivo, in cui il datore di
lavoro deve seguire una procedura. esistono procedure piò o meno analoghe in
materia di trasferimento dell’azienda; anche in materia di integrazioni salariali.
Si è ritenuto che questa clausola di controllo esplichi i suoi effetti anche sul piano
normativo. ciò perché pur avendo come destinatari soggetti collettivi, può
condizionare lo svolgimento dei comportamenti datoriali fino al punto di creare
situazioni giuridiche soggettive individuali. La giurisprudenza ha finito per
riconoscere anche al singolo lavoratore la legittimazione di agire in giudizio per la
violazione di tali clausole miste.

CONCETTO DI RAPPRESENTANZA: cosa è la rappresentanza sindacale? Il termine


indica in modo generico l’attitudine del sindacato a svolgere attività di tutela degli
interessi professionali; con tale concetto si intendeva l’esercizio da parte del

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sindacato di un potere di agire conferitogli dagli iscritti col così detto MANDATO
SINDACALE. (significato tecnico giuridico). In particolare, l’esercizio di stipulare il
contratto collettivo. Il legame tra sindacato e lavoratori era ricondotto all’istituto
civilistico del mandato con rappresentanza (art 1704 cc). Inizialmente la
rappresentanza sindacale fu intesa come rappresentanza civilistica degli iscritti col
conferimento del mandato sindacale.
Tale ricostruzione non ha mai soddisfatto giurisprudenza né dottrina: già da tempo
si riconosceva efficacia di contratto collettivo anche ai contratti stipulati da
organizzazioni sindacali di tipo istituzionale, che non sono sindacati di tipo
associativo ma istituzionale (sindacati eletti), privi di struttura associativa (assenza
del singolo che si iscrive). Quindi non era necessario il conferimento di un potere in
senso tecnico da parte dei singoli lavoratori. Quindi il concetto di rappresentanza
intesa come rappresentanza volontaria degli iscritti entrava in crisi. L’RSA agisce
infatti in nome proprio.
CONCETTO DI MAGGIORE RAPPRESENTATIVITA’  spesso il legislatore fa
riferimento a tale nozione: ad esempio il legislatore attribuisce specifiche funzioni e
poteri a questa categoria di sindacati, quelli maggiormente rappresentativi.
Valorizzando tale sindacato, la scelta del legislatore è quella di sostenere il
sindacato maggiormente rappresentativo. Questo lo fa perché ritiene che il
sindacato maggiormente rappresentativo si presume sia quello che garantisce
maggiore garanzia di affidabilità per l’intero sistema industriale. Del sindacato
maggiormente rappresentativo si è occupata anche la corte costituzionale:
attribuire maggiori privilegi al sindacato di tale genere per alcuni non era conforme
al principio di libertà sindacale (art 39) la corte ha confermato la legittimità del
criterio della maggiore rappresentatività. Questo sulla base del presupposto che il
requisito della maggiore rappresentatività può essere sempre conseguito da tutte
le organizzazioni sindacali. Come capire se un sindacato è maggiormente
rappresentativo? la legge ha fatto sempre riferimento al sindacato maggiormente
rappresentativo senza indicare i criteri in base ai quali accertare tale requisito. Chi
ha individuato tali criteri? LA GIURISPRUDENZA.
L’accertamento della maggiore rappresentatività è stato demandato alla
giurisprudenza: essa ha escluso la necessità della comparazione tra sindacati, anzi
tutto; ha solo individuato dei criteri. tutti i sindacati potenzialmente possono essere
maggiormente rappresentativi. Quali sono gli indici individuati? Essi sono 4:
1) CONSISTENZA NUMERICA: numero degli iscritti di ciascun sindacato;
2) EQUILIBRATA PRESENZA IN UN AMPIO ARCO DI SETTORI PRODUTTIVI: esser
presente in più settori produttivi e non solo in uno;
3) AVERE ORGANIZZAZIONE ESTESA A TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE: si parla di
diffusione territoriale.
4) PARTECIPAZIONE EFFETTIVA ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA, con carattere
di continuità e sistematicità.
In questa prospettiva era opinione generale che considerando la sociologia del
sindacalismo italiano, tale qualificazione di sindacato maggiormente
rappresentativo dovesse essere riconosciuta alle confederazioni storiche (CGL

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CISL E UIL). nel tempo anche confederazioni autonome hanno acquisito il diritto
a tale qualificazione, anche se prive di un effetto seguito rappresentativo (non
possedevano tutti e quattro i requisiti).
Anche il concetto di maggiore rappresentatività entra in crisi soprattutto per
effetto della rottura dell’unità sindacale: fino a quel momento i tre sindacati
agivano unitariamente; nel tempo, si è prodotta sempre più spesso la rottura
dell’unità sindacale: importanti contratti collettivi non erano sottoscritti da tutte
e tre le maggiori organizzazioni sindacali.
CONCETTO DI SINDACATO COMPARATIVAMENTE PIU RAPPRESENTATIVO
altra nozione usata dal legislatore sempre più spesso, sostituendo quella di
sindacato maggiormente rappresentativo. L’emergere di casi di compresenza di
più contratti collettivi sottoscritti nello stesso settore merceologico induce il
legislatore a elaborare questa nuova nozione: viene in rilievo quando il
legislatore delega funzioni alla contrattazione collettiva. Vi è necessità di una
comparazione per individuare il sindacato a cui demandare determinate
funzioni. La causa è la concorrenza di più contratti collettivi nello stesso settore
merceologico. Occorre individuare il contratto stipulato dal sindacato che
all’esito della comparazione risulti più rappresentativo alla luce degli stessi
indici.
L’individuazione di aspetti di determinati istituti è demandata alla
contrattazione collettiva dei sindacati comparativamente più rappresentativi.

RSA E RSU
RSA son previste dallo statuto dei lavoratori, in particolare art 19. È una
struttura istituzionale del sindacato a livello aziendale. L’art 19 consente ai
lavoratori di costituire RSA in ogni unità produttiva sempre che abbia più di 15
dipendenti di imprese industriali e commerciali. con questo articolo 19 (siamo
negli anni 70) il legislatore soddisfa l’interesse del sindacato ad essere presente
all’interno delle fabbriche (luoghi di lavoro). La legge non ci dice come esse
debbano essere strutturate, individuando solo i criteri per la selezione. C’ è stata
una evoluzione nel tempo per effetto di referendum e sentenze della corte
costituzionale
CRITERI DI SELEZIONE SINDACATI ALL’INTERNO DEI QUALI SI POTEVA
COSTITUIRE RSA inizialmente si richiedeva la costituzione ad iniziativa di una
pluralità di lavoratori; la costituzione doveva avvenire nell’ambito o di
associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul
piano nazionale; OPPURE (criterio sussidiario) associazioni sindacali che
comunque fossero firmatarie di un contratto collettivo applicato nell’unità
produttiva. Quando tale norma fu approvata, si privilegiava il sindacato
maggiormente rappresentativo, anche a prescindere dell’effettivo seguito
rappresentativo esistente nell’azienda. Proprio ciò fu alla base di due
referendum popolari che si svolsero nel 95: nel 95 l’esito di tali referendum
modifica il testo della norma dell’art 19: determinano una modifica
sostanziale dei criteri legali di costituzione della RSA: nel testo ora risultante la

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nuova norma prevede che le RSA possano essere costituite ad iniziativa dei
lavoratori in ogni unità produttiva da ogni associazione sindacale firmataria di
un c collettivo nell’ambito dell’unità produttivaScompare il riferimento ALLE
CONFEDERAZIONI MAGGIORMENTE RAPPRESENTATIVE. Si è passati dal favor
per il sindacato maggiormente rappresentativo, a favore di un criterio più
attento all’effettiva rappresentatività all’interno dell’azienda.
Chiarimenti giurisprudenza: la giurisprudenza ci dice che il requisito
DELL’ESSERE FIRMATARIO non si realizza se il sindacato si è limitato a
sottoscrivere il contratto collettivo PER ADESIONE (c collettivo stipulato da altri).
Il requisito di essere firmatari si realizza solo quando il sindacato ha
effettivamente definito con la controparte il contenuto del c collettivo;
ci dice inoltre che non è legittimato a costituire RSA il sindacato che abbia
occasionalmente stipulato un contratto collettivo che regola aspetti eccezionali
del rapporto di lavoro. ad esempio, accade che vi siano accordi su licenziamenti
collettivo o integrazioni salariali, che sono aspetti solo circoscritti del rapporto di
lavoro. La norma richiede che il sindacato sia parte del sistema di contrattazione
che detta la disciplina generale del contratto di lavoro nell’azienda.
Questo nuovo testo nei fatti subordina la costituzione delle RSA e la fruizione di
una serie di diritti sindacali alla SOTTOSCRIZIONE DI UN CONTRATTO
COLLETTIVO.
Si potrebbe quindi ritenere che tutto sia subordinato al fatto che il datore di
lavoro sia d’accordo a stipulare il contratto (investitura controparte datoriale).
Ciò ha fatto sorgere dubbi sulla costituzionalità della norma.
La corte costituzionale si è espressa dicendo che i dubbi erano infondati: ha
confermato la legittimità del nuovo testo dell’art 19 risultante dai referendum.
la corte dice che il nuovo testo non condiziona l’attribuzione dei diritti delle RSA
a un’investitura della controparte: l’attribuzione di questi diritti deriva solo dalla
capacità del sindacato stesso di imporsi alla controparte datoriale quale
interlocutore necessario nel sistema della contrattazione collettiva.
SENTENZA 96 più recentemente dopo i referendum del 95, anche tale criterio
di selezione (l’aver stipulato un contratto collettivo) è andato sempre più in crisi
in ragione della rottura dell’unità sindacale: c’ è stato un caso che ha poi
determinato un intervento ulteriore della corte, il caso FIAT: è accaduto che
nell’ambito di una vertenza sindacale (passaggio da FIAT alla nuova proprietà)
l’UNICO requisito previsto dalla legge (stipulazione c collettivo) per poter
validamente costituire l’RSA è venuto meno per un sindacato: FIOM CGIL.
Questo sindacato non aveva sottoscritto a differenza di altre organizzazioni
sindacali i nuovi contratti collettivo destinati a disciplinare complessivamente i
rapporti di lavoro dei dipendenti del gruppo FIAT. Dal suo punto di vista, la
FIOM riteneva che tali contratti collettivi non fossero adeguati a realizzare
l’interesse dei lavoratori.
Per effetto di queste scelte, nelle imprese del gruppo fiat veniva meno il diritto
della FIOM CGIL di istituire rappresentanze sindacali aziendali, destinate a
godere delle prerogative previste dalla legge 300/70.

15
La FIOM CGIL non risultava infatti firmataria del contratto collettivo applicato
nell’unità produttiva. Ovviamente ne è sorto un contenzioso giudiziario: la FIOM
ha messo in campo una serie di ricorsi per potere usufruire di benefici collegati
alla possibilità di costituire RSA: il contenzioso giudiziario ha avuto esiti opposti;
da un lato i giudici hanno escluso il diritto della FIOM CGIL sulla base di una
rigorosa applicazione del testo di legge, che parla di essere firmatario di
contratto collettivo. Altri giudici hanno preferito una soluzione opposta: avendo
constatato che la FIOM CGIL era un sindacato maggiormente rappresentativo in
quel settore, hanno forzato l’interpretazione del testo della legge, tentando
un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma: hanno ritenuto
che in realtà quando vi fosse la partecipazione alla CGIL al tavolo delle trattative
(anche se non era stato stipulato il contratto collettivo), in realtà il dato formale
della stipulazione del contratto diveniva superfluo ai fini della costituzione della
RSA.
Secondo questi ultimi giudici, Per essere firmatari dunque era sufficiente aver
partecipato alle trattative.
La questione è arrivata alla corte costituzionale: quest’ultima con una sentenza
del 2013 (n 231) ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art 19
nella parte in cui non prevede che la RSA possa essere costituita anche
nell’ambito di associazioni sindacali che pur non firmatarie, abbiano
comunque partecipato alla negoziazione relativa ai contratti stessi. La corte ha
quindi accolto il secondo orientamento dei giudici di merito.
Questo tipo di sentenza si chiama sentenza ADDITIVA: aggiunge un pezzo di
norma: afferma che le RSA possono essere costituite nell’ambito di associazioni
sindacali che abbiano comunque partecipato alle trattative relative al contratto
effettivamente applicato nell’unità produttiva.
Per arrivare a tale conclusione, la corte afferma che non sia possibile
un’interpretazione adeguatrice dell’art 19, in quanto tale testo non può essere
forzato sino a tal punto. Quindi ha adottato una sentenza definita additiva, che
ha quindi modificato il senso e il testo della norma. Tale tipo di sentenza
afferma che la norma è illegittima nella parte in cui non prevede una
determinata cosa.
Una volta ritenuti legittimari anche le organizzazioni sindacali che partecipano al
negoziato, in un successivo testo unico (2014) si precisa chi si intende
effettivamente per “soggetto partecipante alla negoziazione” e quali siano i
requisiti per partecipare alla negoziazione: si intendono partecipanti alla
negoziazioni le organizzazioni “che abbiano raggiunto il 5 per cento di
rappresentanza o che abbiano partecipato alla negoziazione presentando la
piattaforma di rivendicazioni da porre alla controparte, o aver fatto alla
delegazione dell’ultimo rinnovo del Ccnl”..
In ogni unità produttiva può essere costituita più di una RSA:
ovviamente i collettivi prevedono organi di coordinamento tra le varie RSA.
COMPETENZE RSA per legge le RSA hanno una serie di competenze e sono
abilitate alla contrattazione collettiva aziendale: a stipulare ad esempio gli

16
accordi che autorizzano l’istallazione di apparecchi audio visivi di controllo. Più
in generale le RSA hanno tra le competenze lo svolgimento dell’attività
sindacale dell’azienda a favore dei lavoratori dell’unità produttiva in cui
vengono costituite.
Son anche destinatarie degli obblighi di informazione e consultazione previsti
dalla legge per i datori di lavori. Ciò induce a escludere che il fondamento
giuridico dell’attività delle RSA possa essere individuato solo nei termini di
rappresentanza volontaria con mandato: è una rappresentanza ISTITUZIONALE.
Le RSA hanno anche competenza a convocare l’assemblea all’interno
dell’azienda, e indire referendum all’interno di questa.

RSU sono rappresentanze sindacali unitarie; non sono previste dalla legge
ma in alcuni accordi interconfederali. Tale tendenza all’unitarietà c’è sempre
stata; quest’esigenza è stata soddisfatta da una serie di accordi confederali: talI
RSU è destinata a sostituire le RSA, subentrando nella titolarità dei diritti
attribuiti alle RSA. La tendenza è stata poi rafforzata in un testo unico del 2014,
che ha riformato l’assetto delle relazioni sindacali: una parte di tale testo unico
della rappresentanza affronta il tema della rappresentanza sindacale
nell’azienda, dettando la disciplina della costituzione delle RSU.
COSTITUZIONE avviene mediante un sistema ELETTIVO: a scrutinio segreto e a
suffragio universale. A differenza delle RSA, sono un organismo sempre
istituzionale ma di tipo ELETTIVO. A tali nuovi organismi è stata riconosciuta la
titolarità degli stessi diritti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva in
favore delle RSA. Tuttavia, la diffusione delle RSU è tutt’oggi parziale, poiché in
molte aziende a causa delle difficoltà dei rapporti tra sindacati, non si è
preceduto alla indizione delle elezioni. Un tentativo di rilancio è stato previsto
proprio dal Testo Unico del 2014, che ha dettato una nuova disciplina delle RSU,
regolando in modo dettagliato costituzione e funzionamento, nonché la
disciplina delle elezioni , e attribuendo a queste la legittimazione a concludere
contratti aziendali , senza necessità di coinvolgimento delle organizzazioni
sindacali.

ART 28 L 300/70. Oltre allo sciopero vi è un altro strumento, a specifica tutela


dell’azione sindacale: l’art 28 l 300/70: ha previsto una serie di disposizioni
volte a sostenere l’attività sindacale. È un procedimento giudiziario particolare
col fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti sindacali, quelli soprattutto
garantiti dallo statuto dei lavoratori. La norma è importante sia perché è una
norma di garanzia; sia perché è a tutela della libertà e sicurezza sindacale dei
luoghi di lavoro.
È un particolare procedimento giudiziario: è urgente e sommario, cioè
particolarmente veloce, il giudice decide in tempi brevi, convocate le parti e
assunte le relative informazioni. È sommario in quanto non è prevista istruttoria
articolata come nel processo ordinario di cognizione: la parte istruttoria è più
veloce. All’esito di tale giudizio sommario il tribunale quando accerta l’esistenza

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di un’attività antisindacale emette un decreto motivato e immediatamente
esecutivo: tale decreto è volto a ordinare al ddl che ha posto in essere la
condotta di CESSARE immediatamente il comportamento illegittimo; inoltre
ordina la rimozione degli effetti. sono previste poi anche sanzioni penali per il
ddl che non ottempera il decreto. Esiste un reato, inosservanza di un ordine
della pubblica autorità.
Questo decreto del giudice ha duplice contenuto: il primo INIBITORIO
(cessazione comportamento); il secondo RIPRISTINATORIO (dispone la
rimozione degli effetti prodotti); ove il comportamento si sia in realtà esaurito in
un’unica sequenza (no effetti), il decreto o è inammissibile o finisce per avere un
contenuto di mero accertamento. sicuramente questo art 28 nelle relazioni
industriali all’interno dell’azienda è strumento effettivo e concreto per rendere
il principio di libertà sindacale EFFETTIVO all’interno dei luoghi di lavoro.

CONDOTTA ANTISINDACALE cos’è? La legge non dà nozione di condotta


antisindacale; proprio per questo, si ritiene che sia reprimibile qualsiasi
comportamento del ddl diretto a impedire o limitare la libertà sindacale o
l’esercizio del diritto di sciopero . Sulla base di ciò, la condotta antisindacale non
riguarda solo violazione di diritti tipici previsti nello statuto dei lavoratori
(assemblea, permessi. --> CONDOTTA ANTISINDACALE TIPICA) MA la
giurisprudenza ritiene che la condotta antisindacale riguardi qualsiasi altro tipo
di comportamento comunque lesivo dell’interesse sindacale, anche se non
viola direttamente una norma di legge o del contratto (condotta antisindacale
ATIPICA). Tale orientamento della giurisprudenza È stato criticato dalla dottrina
che ha affermato che non ogni comportamento del ddl è sempre
necessariamente qualificabile come antisindacale: è comportamento
antisindacale solo quello che lede un diritto previsto dalla legge o dal c
collettivo; il giudice finirebbe, se fosse sanzionabile qualsiasi comportamento,
per diventare giudice di interessi e non di diritti: finirebbe per creare diritto, non
per applicarlo.
Le condotte pluri offensive tra le attività antisindacali del ddl reprimibili con
tale strumento sono ricomprese quelle cd pluri offensive: sono quelle che hanno
una duplice attitudine: ledono allo stesso tempo un diritto del singolo
lavoratore e impediscono l’azione sindacale contemporaneamente. Ad
esempio, si pensi a quando un ddl licenzia o trasferisce un lavoratore
sindacalista: in tal caso il lavoratore trasferito può agire nei modi ordinari per
impugnare il licenziamento/trasferimento e nello stesso tempo anche l’org
sindacale potrà agire autonomamente perché quel provvedimento ha leso non
solo il diritto del singolo lavoratore ma anche impedito lo svolgimento
dell’attività sindacale.
Anche se il provvedimento fosse illegittimo, non sarebbe detto che esso sia
anche automaticamente antisindacale (sono due accertamenti diversi).
Elemento soggettivo è necessaria anche l’intenzione del ddl di ledere
l’interesse sindacale? La giurisprudenza ha oscillato tra uno e altro

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orientamento fino a quando sono intervenute le sezioni unite che risolvono tale
conflitto riguardo la necessità dell’elemento soggettivo, ritenendo che tale
elemento non fosse necessario e fosse SUFFICIENTE L’OGGETTIVO
COMPORTAMENTO ANTISINDACALE. Non vi è rilevanza l’elemento soggettivo.
La giurisprudenza attualmente ci dice che tale elemento non rileva.
Costituisce condotta antisindacale il diverso trattamento dei sindacati, ad
esempio, nell’ammissione alle trattive aziendali?
In generale l’opinione prevalente è che nel nostro ordinamento non vi è
principio di parità di trattamento tra sindacati; ciò viene desunto dall’art 19
(RSA) che attribuisce determinate prerogative solo a determinati sindacati. sulle
trattative vi sono stati due orientamenti:
uno più restrittivo, secondo cui in base ai principi della libertà negoziale le
associazioni datoriali sono libere di concludere o non concludere l’accordo o di
stipularlo solo CON ALCUNI SINDACATI E NON TUTTI. Secondo tale
orientamento, il principio di libertà sindacale comporta anche la libertà di scelta
della controparte contrattuale. Secondo tale orientamento quindi l’esclusione
dalla trattativa di alcuni sindacati non è condotta antisindacale: tutto è
rimesso sul piano dei rapporti esistenti tra le parti ed è il sindacato che deve
essere capace di imporsi alla controparte come controparte contrattuale valida,
anche in base alla forza che ACQUISISCE con il conflitto. Il ddl ha interesse a
stipulare il contratto coi sindacati più rappresentativi, in quanto così minore
sarà il rischio di scioperi e maggiore la tenuta del contratto; quindi, non vi è
principio generale di parità di trattamento tra sindacati anche con riguardo
all’accesso alle trattative.
Resta come unico limite quello posto dall’art 17 che vieta al ddl di costituire o
sostenere con mezzi finanziari sindacati DI COMODO.
Orientamento attualmente prevalente è più estensivo; anche se non esiste
un obbligo del ddl a contrattare col sindacato, vi sarebbe però obbligo almeno
di INTAVOLARE la trattativa, anche senza concluderla. In base a tale
orientamento, la conseguenza è che eventuale esclusione dalle trattative,
arbitraria, può integrare la fattispecie della condotta antisindacale,
specialmente se avviene in pregiudizio a un sindacato maggiormente o
comparativamente più rappresentativo. Questa giurisprudenza ritiene che il ddl
in realtà non deve usare in modo distorto la sua autonomia negoziale,
trasformando la disparità di trattamento in una restrizione della libertà
sindacale. La libertà di scelta della controparte deve essere esclusa anche
quando il legislatore facendo rinvii alla c collettiva abbia esplicitamente
indicato i soggetti legittimati alla stipula del c collettivo.
Altro problema: godimento diritti sindacali previsti dal c collettiva: la
discriminazione non sussiste se il ddl riconosce tali diritti solo ai sindacati che
hanno stipulato il contratto collettivo o alle RSA costituite nel loro ambito.
ART 28 legittimazione attiva. Chi può usare lo strumento alla tutela
dell’azione sindacale? Le organizzazioni sindacali sono i legittimati attivi ad
esercitare l’azione ex art 28. Ma la legge individua le organizzazioni sindacali in

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modo più specifico: dice che i legittimati ad iniziare lo speciale procedimento ex
art 28 sono gli organismi locali delle org sindacali nazionali CHE VI ABBIA
INTERESSE: non è richiesto il requisito della maggiore rappresentatività, ma
quello della CONSISTENZA NAZIONALE (deve essere org sindacale NAZIONALE);
ma sono solo gli organismi locali, cioè la struttura più periferica del sindacato.
non RSA E RSU, in quanto si vuole evitare che il ricorso alteri la dialettica
sindacale all’interno dell’azienda creando tensioni tra le parti.
Quindi a chi spetta la legittimazione attiva? Sono esclusi RSA E RSU; spetta
invece alle organizzazioni PROVINCIALI dei sindacati, la struttura più
periferica. (MAI RSA E RSU!!! NE’ SINDACATI CHE NON ABBIANO LA
CARATTERISTICA DI ESSERE LOCALI)

LIVELLI CONTRATTAZIONE COLLETTIVA la contrattazione collettiva si svolge a pari livelli che sono
quelli liberamente individuati dalle parti stipulanti; corrispondo solitamente ai vari livelli
dell’organizzazione sindacale. A seconda del periodo storico, le funzioni assegnate ai vari livelli non
sono sempre state le stesse. Si distinguono convenzionalmente 3 livelli di contrattazione:
1) LIVELLO DI CONFEDERAZIONE: attualmente a tale livello vengono stipulati i grandi contratti
nazionali su singoli temi che riguardano le grandi masse di lavoratori indipendentemente
dal settore di produzione al quale sono addetti; tali contratti sono noti come accordi
interconfederali. hanno la funzione di regolare singoli istituti e riguardano perciò tutti i
singoli lavoratori a prescindere dal settore merceologico di appartenenza.
2) LIVELLO DI FEDERAZIONE vengono stipulati a tale livello i cd contratti collettivi nazionali
di categoria (Ccnl) questi contratti sono quelli per definizione: in essi è presente una
articolata disciplina del rapporto di lavoro; soni i collettivi per antonomasia e riguardano i
distinti settori della produzione (metalmeccanico, chimico, di commercio). Sono molto
lunghi e contengono la disciplina completa del rapporto di lavoro. Spesso sono contratti il
cui rinnovo interessa anche l’opinione pubblica;
3) LIVELLO TERRITORIALE può essere di 2 sottotipi: REGIONALE E PROVINCIALE; il terzo
livello può essere anche AZIENDALE (o decentrato). Nel nostro sistema non sempre la c
collettiva a livello decentrato è stata tollerata, sia a livello aziendale che territoriale. Se non
che la legittimazione delle organizzazioni sindacali più periferiche (anche RSA e RSU) a porsi
come agente contrattuale è stata sancita dall’art 19 della l. 70 e da famosi protocolli (un
protocollo del 93, che si occupava di regolare i rapporti tra diversi livelli della c collettiva.).
il protocollo prevedeva 2 livelli di contrattazione collettiva: il primo è quello di
contrattazione nazionale e il secondo livello di contrattazione decentrata, a livello
territoriale o aziendali.
A livello decentrato la contrattazione collettiva risolve problemi aziendali, di stabilimento e
reparto o di settore nell’ambito di un determinato territorio (se è livello territoriale). Nel
protocollo, tale livello inferiore (aziendale o territoriale) è previsto in funzione integrativa
della disciplina dettata dal c collettivo nazionale e SOLO per le materie previste dal c
collettivo nazionale. In tali casi si parla di contrattazione SU RINVIO, in quanto opera solo

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sulle materie che le vengono rinviate dal c collettivo di primo livello. La c collettiva
aziendale non è mai destinata a sostituire la c collettiva nazionale.
Di cosa si occupa la c collettiva a livello aziendale e decentrato? La materia oggetto di
questo rinvio era soprattutto l’individuazione di quella parte della retribuzione connessa
alla produttività dell’impresa: il c collettivo di lavoro demanda al c aziendale o territoriale
l’individuazione di quella parte della retribuzione (variabile della retribuzione) collegata
all’andamento economico dell’impresa. È una funzione molto spesso incentivata dal
legislatore, che non di rado ha previsto sgravi contributivi o benefici fiscali per quelle
erogazioni prodotte dai c collettivi di secondo livello collegate all’andamento economico
dell’impresa (erogazioni note come salario di produttività).
L’esperienza applicativa del protocollo del 93 è stata deludente: la contrattazione collettiva
di secondo livello non ha avuto lo sviluppo che ci si attendeva; avrebbe dovuto accrescere
la variabilità dei trattamenti, differenziarli e collegarli alla produttività dell’impresa e
consentire una redistribuzione di guadagni di produttività: questo nei fatti non è avvenuto.
È stata una esperienza insoddisfacente da un punto di vista qualitativo e quantitativo.
Astrattamente il decentramento a livello territoriale (provinciale o regionale) sarebbe più
idoneo a garantire copertura contrattuale alle imprese; ma anche nelle categorie nelle
quali si è scelto decentramento territoriale, vi sono stati limiti derivanti dalla oggettività
difficoltà nel collegare i premi di produttività a obiettivi risultati aziendali se non attraverso
imprecisi valori medi territoriali.
PROBLEMA DEI RAPPORTI TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO: il problema è
del concorso potenziale tra contratti collettivi di diverso livello (o conflitto): uno stesso
istituto potrebbe essere regolato in modo DIVERSO in contratti collettivi di livello diverso,
entrambi applicabili allo stesso rapporto di lavoro. Qual è la disciplina collettiva che si
applica a quell’istituto in caso di contrasto?
la legge non se ne occupa, almeno nel settore privato. Spetta all’interprete e alla
giurisprudenza ricavare dal sistema un criterio risolutivo del conflitto e individuare la
disposizione ossia il contratto prevalente. I criteri di risoluzione sono molteplici:
1) CRITERIO DEL FAVOR: la giurisprudenza era fino a qualche tempo fa orientata nel senso
di applicare tale criterio, assegnando prevalenza alla disciplina collettiva più
favorevole al lavoratore, a prescindere dal livello che l’avesse espressa. In caso di
contrasto, prevaleva sempre la disciplina più favorevole al lavoratore. Tale
atteggiamento era giustificato in un periodo in cui la debolezza dell’organizzazione
sindacale poteva guardare con sospetto a qualsiasi deroga peggiorativa nei confronti
del lavoratore. Tale criterio però non tiene conto della diversa funzione dei livelli
dell’autonomia collettiva e MUOVEVA DA UNA FALSA INTERPRETAZIONE del testo di
legge: la giurisprudenza fondava l’applicazione di tale criterio sull’art 2077 cc: tale
norma dice che tra c collettivo e c individuale prevale sempre quello collettivo, a meno
che quello individuale non prevedesse una disciplina di maggior favore. MA TALE
ARTICOLO era in realtà applicabile solo ai c collettivo corporativi; in secondo luogo, tale
disposizione regola una fattispecie diversa, perché regola un conflitto tra contratto
individuale c collettivo e non tra 2 contratti collettivi di diverso livello. Dunque, tale
norma non può trovare né diretta applicazione, né essere applicata in via analogica,
vista la diversità delle fattispecie.

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2) CRITERIO CRONOLOGICO (O DELLA SOPRAVVENIENZA): Secondo tale criterio prevale
sempre l’ultima pattuizione, cioè l’ultimo contratto stipulato che travolge tutte le
precedenti disposizioni in base all’art 1372 (primo comma) del cc. Esso è fondato
sull’assenza di gerarchia tra contratti e sull’assenza di rilievo ai CONTENUTI dei
contratti. In base a questo criterio il sopravvenuto contratto collettivo di diverso
livello, sia che più ampio sia che più ristretto, sia che più o meno favorevole rispetto
al precedente, prevale SEMPRE E IN OGNI CASO (anche se introduce una disciplina
peggiorativa).
3) CRITERIO GERARCHICO fondato sulla gerarchia delle fonti; in base a tale criterio, i
con collettivi di livello inferiore non possono mai modificare né in peggio né in meglio
quanto stabilito dal c collettivo di livello superiore, che prevale SEMPRE. La dottrina ha
tentato di fondare tale criterio sull’art 39 c 4, ove si fa riferimento ai c collettivi di
lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria al quale il
contratto si riferisce.
4) CRITERIO DELLA SPECIALITA’ O COMPETENZA tiene conto a differenza dei
precedenti dell’esistenza di diversi livelli di contrattazione collettiva e del fatto che la c
collettiva soddisfa l’esigenza di una disciplina sindacale il più adeguata possibile alle
esigenze e alle situazioni territoriali o aziendali. Può aversi che il c collettivo ad ambito
minore sia più favorevole rispetto a quello ad ambito maggiore: in tal caso prevale
comunque il contratto collettivo ad ambito minore, proprio perché la specifica realtà a
cui si riferisce quel contratto (ad ambito minore) giustifica quel miglior trattamento.
L’altro caso è che il c collettivo ad ambito minore sia meno favorevole rispetto a
quello ad ambito maggiore: anche in tal caso per le stesse ragioni prevale il c collettivo
ad ambito minore, perché anche qui la specifica realtà a cui si riferisce il c collettivo
GIUSTIFICA il peggior trattamento. In base a tale criterio PREVALE SEMPRE il contratto
collettivo più decentrato, più vicino alla realtà aziendale regolata. Tale soluzione tiene
conto del fatto che il legislatore ha già stabilito in alcune disposizioni di legge (art 19)
che anche la c collettiva di livello inferiore (territoriale o aziendale) offre in realtà
sufficienti garanzie.
La giurisprudenza recente della suprema corte di cassazione NEGA L’ESISTENZA di una
gerarchia tra i diversi contratti collettivi: sembra attribuire prevalenza al criterio di
specialità, nel presupposto che quel contratto collettivo ad ambito minore realizza
meglio rispetto a quello ad ambito maggiore il contemperamento degli interessi delle
parti rispetto a una specifica realtà economica. C’è però un problema: la giurisprudenza
dice che il contrasto tra eventuali previsioni può essere risolto in base a tale criterio MA
SOLO NELL’IPOTESI IN CUI I CONTRATTI COLLETTIVI DI LIVELLO DIVERSO SIANO
STIPULATI DAGLI STESSI SOGGETTI SINDACALI, o quanto meno da soggetti che
risultino omogenei sul profilo rappresentativo. Ciò vuol dire che, ad esempio, i
legittimati a stipulare contratti collettivi che derogano e specificano il contenuto di
contratti collettivi nazionali in realtà sono quei soggetti che siano riferibili ALLE STESSE
ORGANIZZAZIONI SINDACALI che hanno stipulato il contratto nazionale. (vi deve essere
identità tra le parti stipulanti). Vi deve essere un collegamento strutturale o
funzionale tra le due organizzazioni sindacali stipulanti dei diversi contratti collettivi
in conflitto. (principio della autonomia).

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Anche il criterio della specialità e competenza non risolve tutti i problemi: il problema
sussiste nel caso in cui i diversi contratti collettivi in conflitto non sono stipulati dagli
stessi soggetti o quando non vi è tra le organizzazioni sindacali un collegamento
strutturale o funzionale.
Anche la stessa DISCIPLINA SINDACALE ha provato a affrontare il problema, in realtà
PREVENENDOLO e cercando di evitare in radice che potesse esservi un contrasto tra c
collettivi di diverso livello. Tornando al protocollo del luglio 93: con questo protocollo
e altri, il problema è stato fortemente ridimensionato. In tutti i protocolli, infatti, il
criterio applicabile è sempre stato quello gerarchico: si è sempre detto che la
competenza della contrattazione decentrata (territoriale o aziendale) è limitata a
materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli regolati dal contratto
collettivo nazionale. In tali accordi è spesso detto che la c collettiva aziendale o
territoriale è prevista solo con le MODALITA’ e NEGLI AMBITI definite dalla
contrattazione collettiva nazionale.
Il problema è stato quindi ridimensionato ma mai risolto del tutto, poiché le
disposizioni non sono contenute in un provvedimento di legge: si tratta solo di
autodisciplina sindacale, e quindi la disciplina non è applicabile erga omnes.
L’effettività di quest’assetto contrattuale costruito nei protocolli è garantita solo da
sanzioni di natura associativa: un eventuale accordo sindacale o aziendale o territoriale
che non rispetti le competenze assegnate dal contratto collettivo nazionale RESTA
SEMPRE VALIDO ED EFFICACE perché l’eventuale sanzione prevista è di natura
associativa e non INCIDE SULLA VALIDITA’ ED EFFICACIA DELL’ACCORDO CHE NON
RISPETTI QUESTE COMPETENZE ASSEGNATE DAL C NAZIONALE. Le sanzioni sono di
natura endoassociativa.
Si può concludere dicendo che il problema dei rapporti tra contratti collettivi di diverso
livello, nonostante gli sforzi profusi, resta tuttora un problema irrisolto.
SOSTEGNO ALLA CONTRATTAZIONE AZIENDALE
Il legislatore ha iniziato a mostrare un chiaro favore nei confronti della contrattazione di
secondo livello adottando misure volte ad incentivare le retribuzioni legate ad
incrementi di produttività, redditività, qualità, innovazione ed efficienza organizzativa.
La ratio di tali misure è quella di spostare la “distribuzione” della retribuzione correlata
alla produttività nei luoghi in cui quest’ultima può essere effettivamente misurata e
dove effettivamente si realizzano i risultati che possono dare luogo ad un “dividendo”
tra i lavoratori.
Successivamente, il legislatore ha tentato di imprimere una decisa accelerazione nella direzione
della “adattabilità” del sistema contrattuale alle esigenze degli specifici contesti produttivi, con
l’articolo 8 del decreto legislativo 138 del 2011. Tale disposizione attribuisce ai contratti collettivi
stipulati a livello aziendale e territoriale la possibilità di sottoscrivere “intese” efficaci nei confronti
di tutti i lavoratori interessati, in relazione ad un ventaglio molto ampio di “materie inerenti
l’organizzazione del lavoro e della produzione”.
Diversi sono i punti critici dell’intervento del legislatore. La disciplina di legge, infatti, incide sugli
equilibri endosindacali e intersindacali, ed è stata perciò sospettata di essere in contrasto con il
principio di libertà sindacale di cui all’articolo 39, comma 1 della Costituzione, in quanto estende la

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gamma delle materie rimesse alla contrattazione di prossimità e conferisce a quest’ultima un
potere di derogare non solo la contrattazione nazionale, ma anche la legge. Si dubita, altresì, della
costituzionalità della attribuzione di efficacia generale alle intese in questione, poiché tale
attribuzione è disposta sulla base di un modello diverso da quello previsto dall’ultimo comma
dell’articolo 39 della Costituzione.
Ma una parte della dottrina obietta che questa ultima disposizione costituzionale riguarderebbe
esclusivamente i contratti di categoria e, quindi, non sarebbe applicabile ai contratti di diverso
livello. Peraltro, il modello dell’articolo 8 del decreto legge 138 del 2001 si fonda sul principale
requisito desumibile dal precetto costituzionale, poiché l’efficacia generale delle “intese” è
riconosciuta a condizione che esse siano sottoscritte “sulla base di un criterio maggioritario”
riferito alle rappresentanze sindacali legittimate alla loro stipulazione.
Si contesta, infine, l’ampiezza delle materie sulle quali è stato concesso alla contrattazione di
prossimità il potere di derogare la legge, poiché quel potere non è limitato a specifiche ipotesi
come era sempre avvenuto nei precedenti casi in cui il legislatore aveva fatto ricorso al modello
della “deregolazione controllata”, così da suscitare il timore che ciò possa mettere a rischio l’intero
sistema legale di tutela del lavoro. Ma va sottolineato che la delega alla contrattazione prossimità,
per quanto ampia, non ha un “ambito illimitato”, poiché riguarda solo le specifiche materie
tassativamente elencate.
Ed inoltre, quella delega trova un limite invalicabile nella condizione che essa operi nel “rispetto
della Costituzione” e dei “vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni
internazionali sul lavoro”; ditalché il timore di uno “smantellamento” della tutela legale appare
infondato. In ogni caso, è da constatare come le polemiche che hanno accompagnato l’articolo 8
del decreto legislativo 138 del 2011 abbiano determinato una sua limitata applicazione da parte
delle organizzazioni sindacali.
E anche la legislazione successiva sembra non tenere conto dell’esistenza di tale
disposizione, prevedendo norme che prefigurano la volontà di promuovere,
indirettamente, la contrattazione territoriale e aziendale, ma senza prevedere una
sovraordinazione di tali livelli contrattuali rispetto al contratto nazionale. Di particolare
rilievo è la tecnica normativa utilizzata dal decreto legislativo 81 del 2015, avente ad
oggetto la “disciplina organica dei contratti di lavoro”, e la “revisione della normativa in
tema di mansioni”.
Ed infatti, dopo aver fatto frequente rinvio ai “contratti collettivi”, tale decreto
legislativo stabilisce che tale rinvio è riferito, indistintamente, ai “contratti collettivi
nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle
loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.
Da ciò si desume sia una valutazione di pari idoneità dei diversi livelli di contrattazione a realizzare
gli scopi della legge, sia il riconoscimento che, rispetto alla disciplina legale, la contrattazione
aziendale può essere svolta dagli organismi di rappresentanza presenti in azienda anche senza la
“assistenza” o la “intesa” delle strutture aziendali esterne.
INFORMAZIONE E CONSULTAZIONE

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Sia prima che dopo la parentesi del periodo corporativo, le relazioni sindacali in Italia sono state
contrassegnate da una forte impronta conflittuale. La natura precettiva dell’articolo 40 della
Costituzione, e la configurazione del diritto di sciopero come diritto assoluto (sul piano dei diritti
della persona) e come diritto potestativo (sul piano dei rapporti obbligatori), hanno consentito che
il suo esercizio fosse liberamente ed immediatamente fruibile, anche in assenza delle leggi che
avrebbero dovuto regolarlo.
La “via” del conflitto ha potuto essere percorsa senza limiti, e talvolta anche poco
responsabilmente a causa della enfatizzazione della teoria della titolarità individuale e, più
recentemente, della frammentazione della rappresentanza sindacale. Ed invece, la natura
programmatica dell’articolo 46 della Costituzione, in mancanza di una legge che fissi “modi” e
“termini” con i quali i lavoratori possono collaborare alla gestione dell’impresa “in armonia con le
esigenze della produzione”, non ha favorito la costruzione della modalità della partecipazione e
l’accesso ad essa.
Le prime forme di partecipazione, giustamente definita “debole”, sono comunemente individuate
nei diritti di informazione e consultazione sindacale, che sono stati introdotti nella parte c.d.
“obbligatoria” dei contratti collettivi e con i quali le organizzazioni dei lavoratori hanno imposto il
loro ruolo di “interlocutori” nei procedimenti decisionali che riguardano la gestione dell’impresa
nel suo complesso, e non soltanto il trattamento dei lavoratori in senso stretto.
L’introduzione dei diritti di informazione e consultazione fu favorita dal rafforzamento del sistema
di rappresentanza sindacale in azienda voluto dalla legge 300 del 1970. Rafforzamento che ha reso
concretamente esigibili le nuove tipologie di diritti sindacali e che, effettivamente, puntava proprio
alla realizzazione di un vero e proprio “contropotere” volto a limitare la discrezionalità
dell’imprenditore ed a promuovere la democrazia in azienda.
Si tratta, però, di forme di partecipazione “debole”, perché informazione e consultazione non
implicano “congestione” o “codeterminazione”, né incidono sulla titolarità del potere di direzione
dell’impresa (e sulla responsabilità delle conseguenti decisioni), che è e resta dell’imprenditore.
Sulla stessa scia si muove anche la disciplina comunitaria, che, pur rivolgendo una particolare
attenzione al tema della partecipazione, ha dovuto tenere conto della eterogeneità delle situazioni
nazionali e delle resistenze frapposte dalle rappresentanze delle imprese anche a livello europeo.
Le crisi ripetute e prolungate del nuovo secolo spingono ora il sistema delle relazioni industriali
verso una nuova stagione che può contribuire ad “inoculare” nel sistema stesso “dosi” di cultura e
pratica partecipativa, riducendo, nel contempo, gli eccessi di una conflittualità esasperata, coltivati
nel malinteso senso di una duplice inattuazione costituzionale. Ed infatti, riducendosi gli spazi per
continuare a realizzare una crescita uniforme a livello nazionale dei trattamenti retributivi, sia le
parti sociali che il legislatore stanno oggi rivalutando il modello partecipativo non soltanto in una
prospettiva, meramente difensiva, di controllo dei poteri dell’imprenditore, ma anche in quella
(espansiva) della partecipazione ai profitti.
La partecipazione dei lavoratori alle performance dell’impresa anche quando sono positive,
oltreché stimolare la competitività e la crescita dei salari reali, può implicare un mutamento
profondo nella cultura e nella prassi delle relazioni tra capitale e lavoro, promuovendo
condivisione di obiettivi e favorendo comportamenti responsabili e cooperativi. A questo fine, la

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legge 92 del 2012 aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi “finalizzati a
favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione
di un contratto collettivo aziendale”.
La legislazione delegata avrebbe dovuto prevedere, tra l’altro, la partecipazione dei lavoratori “agli
utili o al capitale dell’impresa”, la istituzione di un consiglio di sorveglianza nelle società per azioni
e nelle “società europee”, e “l’accesso privilegiato dei lavoratori dipendenti al possesso di azioni,
quote del capitale dell’impresa, o diritti di opzione sulle stesse”. Senonché le previsioni della legge
92 del 2012 sono rimaste inattuate, poiché il Governo non ha esercitato la delega che gli era stata
conferita.
SCIOPERO
L’evoluzione storica corrisponde a quella del diritto del lavoro; si distinguono 4 fasi: in
ciascuna di esse lo sciopero viene inquadrato diversamente.
1) META’ 800 lo sciopero viene considerato un reato. Siamo durante la rivoluzione
industriale e c’è divieto penale di sciopero e coalizione; si spiega con l’ideologia del
pensiero liberale, che vedeva con sfavore tutti i corpi intermedi tra singoli e stato e
alla concezione individualistica dello stato e al principio della libera competizione
tra privati sul mercato. Ciò implica l’illeceità della condotta sul piano dei rapporti tra
singolo e stato e sul piano del rapporto col datore di lavoro: l’astensione dal lavoro
viene punita sia con applicazione della sanzione PENALE e, sul piano privatistico,
con conseguenze civilistiche e disciplinari conseguenti a inadempimento
contrattuale. (anche con erogazione della sanzione più forte, il licenziamento).
2) FINE 800 si era sviluppata la questione operaia e sociale e il timore che il conflitto
sociale si inasprisse di più induce il legislatore a cambiare atteggiamento: abroga il
divieto penale di sciopero (codice penale Zanardelli) ed esso non è più considerato
come reato. Tale abolizione riconduce lo sciopero nell’alveo delle libertà. Dal lato
civilistico non cambia nulla: resta intatta l’illeceità civile e lo sciopero è sempre
inadempimento contrattuale di lavorare.
3) PERIODO CORPORATIVO lo sciopero è di nuovo considerato come reato e viene
ripristinato il divieto penale di sciopero; ciò era coerente con l’impostazione dello
stato e della società nel periodo corporativo. Era vietata qualsiasi forma di protesta
e coalizione dei lavoratori, ritenute lesive dell’interesse pubblico SUPERIORE
dell’economia nazionale. In tale periodo, La necessità di perseguire il superiore
interesse era perseguita attraverso un sistema giuridico basato sulla creazione di
sindacati UNICI che perseguivano tale interesse superiore. Lo sciopero di nuovo è
considerato reato.
4) COSTITUZIONE REPUBBLICANA DEL 48 cambia la configurazione dello sciopero:
non più reato né libertà, ma sciopero come DIRITTO. Solo con l’emanazione della
costituzione si giunge al riconoscimento dello sciopero come diritto. La
qualificazione dello sciopero come diritto è importante sul piano dei rapporti tra ddl
e lavoratore: implica per la prima volta la possibilità per il lavoratore di rifiutare la
prestazione dovuta senza incorrere in sanzioni penali e civili. Il lavoratore può
rifiutarsi legittimamente di prestare l’attività dovuta. Questo perché lo stato non si
limita a tollerare lo sciopero(libertà) ma lo tutela. Per altro lo riconosce e tutela con

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una serie di strumenti, per esempio divieto di licenziamento, repressione condotta
antisindacale ecc.…
L’unica conseguenza che permane sul piano civilistico è la perdita della
RETRIBUZIONE corrispondente al periodo di mancato svolgimento dell’attività
lavorativa. È una conseguenza della configurazione del contratto di lavoro come
contratto a prestazioni CORRISPETTIVE. Se viene meno la prestazione per effetto
dello sciopero, viene meno anche l’obbligo del ddl di retribuire.
Art 40 cost si occupa dello sciopero e lo riconosce come diritto: “il diritto di
sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Tali leggi in realtà non
sono mai state emanate: anche l’art 40 come l’art 39 (commi 2 e 4) non è mai stato
attuato (mancata attuazione) fatta eccezione per alcune leggi emanate in settori
molti specifici e nei servizi pubblici essenziali.
In tale situazione di astensionismo legislativo, il compito di individuare quale fosse
la fattispecie protetta in relazione al diritto di sciopero è stato svolto dalla
giurisprudenza, che ha individuato la fattispecie protetta e i comportamenti che
integrano gli estremi dello sciopero, sia i limiti interni che quelli esterni.
Funzione essenziale è stata prima ancora svolta dalla corte costituzionale: una
volta caduto l’ordinamento corporativo, essa ha dovuto fare un’opera di
coordinamento tra le norme incriminatrici dello sciopero con il nuovo articolo 40
della costituzione che riconosceva lo sciopero come diritto. La corte non ha
proceduto all’automatica abrogazione di tutte le disposizioni penali sullo sciopero
esistenti, ma ha affermato l’immediata percettività dell’art 40 e in secondo luogo
ha proceduto a fare un confronto tra le previgenti norme penalistiche e i nuovi
principi costituzionali, distinguendo le norme da abrogare integralmente e quelle
da salvare, anche solo in parte, perché parzialmente compatibili col nuovo
ordinamento.
NATURA DIRITTO DI SCIOPERO dal punto di vista del c di lavoro, la dottrina più
autorevole lo definisce come diritto POTESTATIVO del lavoratore di sospendere
l’attività lavorativa. A tale diritto potestativo del lavoratore corrisponde una
posizione di SOGGEZIONE ASSOLUTA DEL DDL, che non può fare altro che limitarsi
a subire l’esercizio di tale diritto.
FUNZIONE DIRITTO DI SCIOPERO  lo sciopero secondo la dottrina è diritto
ASSOLUTO DI LIBERTA’ per la difesa di un interesse fondamentale della persona.
Esso è volto a ripristinare la parità SOSTANZIALE tra le parti del rapporto di lavoro
(art 3 costituzione).
TITOLARITA’ nel fenomeno dello sciopero vi è intreccio tra la posizione del
gruppo e del singolo. La titolarità è un problema giuridico al centro del dibattito. Il
gruppo è portatore dell’interesse collettivo; il singolo lavoratore sceglie liberamente
se partecipare o no allo sciopero. Come si coordinano tali posizioni? La legge non ci
dice nulla; interviene la dottrina che ritiene che lo sciopero è un diritto A
TITOLARITA’ INDIVIDUALE E A ESERCIZIO COLLETTIVO. Vuol dire che la titolarità del
diritto è individuale, perché la decisione finale sul concreto esercizio del diritto di
sciopero spetta a ciascun lavoratore; ma si dice che l’esercizio è collettivo: perché
lo sciopero può essere esercitato non per l’interesse del singolo, ma per la tutela

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dell’interesse collettivo, la cui valutazione è rimessa al gruppo (inteso come
qualsiasi coalizione, anche spontanea).
La titolarità spetta a tutti i lavoratori subordinati, pubblici o privati con esclusione
sia dei militari che delle forze di polizia. Spetta anche ai lavoratori para subordinati,
che sono in realtà autonomi dal punto di vista giuridico ma contrattualmente in una
situazione di debolezza nei confronti del committente. Per i lavoratori autonomi e
liberi professionisti è escluso un vero e proprio diritto di sciopero in quanto la
tutela della loro protesta trova fondamento nei principi generali di libertà.
DEFINIZIONE DIRITTO DI SCIOPERO in un primo momento, sulla base di una
ricostruzione risalente a Passarelli, la giurisprudenza aveva accolto l’idea che
esistesse una nozione di diritto di sciopero. Qual era? Sostanzialmente esso era
inteso come ASTENSIONE COLLETTIVA CONCORDATA DI TUTTO IL PERSONALE per
un ‘ intera giornata lavorativa per la tutela di un interesse collettivo professionale.
In base a tale nozione, tutti gli scioperi attuati con modalità corrispondente a tale
definizione erano considerati legittimi in quanto coperti dalla garanzia
costituzionale. Si parlò di tecnica DEFINITORIA, in quanto secondo tale
giurisprudenza era possibile individuare la definizione di sciopero. Ma tale
impostazione aveva come conseguenza che erano esclusi dalla legittimità i cd
SCIOPERI ANOMALI, NON CORRISPONDENTI ALLA FORMA NORMALE DI
ASTENSIONE DAL LAVORO. la giurisprudenza considerava ad esempio illegittimo lo
sciopero a singhiozzo, che non riguarda l’intero orario lavorativo della giornata, ma
solo una parte. Era considerato illegittimo altresì lo sciopero delle mansioni, che
riguarda solo l’esercizio di alcune mansioni (il lavoratore esercita non tutte le
mansioni che dovrebbe esercitare, ma solo alcune). Altra forma di sciopero
considerata illegittima era il blocco del lavoro straordinario (il lavoratore non svolge
le prestazioni di lavoro straordinario); Ancora, lo sciopero a scacchiera: qui
l’astensione non riguarda tutti i dipendenti ma solo quelli addetti ad alcuni reparti
dell’impresa o dello stabilimento. Ancora, il calo del rendimento: modo di eseguire
il lavoro che determina un calo della produzione abituale (sciopero di non
astensione).
Qual è la motivazione per cui la giurisprudenza considera tali forme anomale? Era la
teoria del danno ingiusto: si riteneva che in questi casi il danno subito dal ddl per
effetto dell’effettuazione dello sciopero fosse maggiore di quello subito dal
lavoratore per effetto della perdita della retribuzione.
1980 con una sentenza (711/1980), la corte di cassazione supera tale
interpretazione rifiutando la tecnica definitoria e la teoria del danno ingiusto.
muove dal presupposto che non si può affermare aprioristicamente l’esistenza di
una nozione di sciopero a cui ricondurre i singoli comportamenti conflittuali in base
a quelle che sono le modalità attuative dello sciopero. Ci dice invece che si deve
ritenere che una forma di protesta è considerata sciopero quando è percepita
come tale dalla coscienza sociale e in primo luogo dal titolare del diritto di
sciopero: lo sciopero può esser liberamente attuato in QUALSIASI FORMA. LO
SCIOPERO È QUELLO CHE LE PARTI CONCEPISCONO COME TALE. Né si può dire che
lo sciopero sia illegittimo quando provoca un danno al ddl, in quanto per

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definizione lo sciopero provoca un danno all’attività produttiva. Non esistono
quindi LIMITI INTERNI AL DIRITTO DI SCIOPERO, derivanti da una nozione
predeterminata; esistono invece limiti esterni: sono quelli derivanti dalla necessità
di tutelare gli altri valori della costituzione con cui lo sciopero può confliggere. Tali
limiti esterni sono innanzi tutto, quello dell’art 41 della costituzione (libertà di
iniziativa economia privata). La giurisprudenza, per capire se lo sciopero confligge
col diritto dell’art 41 ha elaborato la distinzione tra danno alla produzione e danno
alla produttività.
Ai fini della qualificazione della legittimità dello sciopero, bisogna distinguere tra
danno alla produzione: diminuzione attività produttiva, insito nello stesso
riconoscimento del diritto di sciopero; tale tipo di danno è ammesso.
Danno alla produttività: esso è qualcosa di diverso: è un danno che incide sulla
stessa capacità produttiva dell’azienda. non è quindi ammesso. C’è danno alla
produttività quando lo sciopero pregiudica la possibilità per gli imprenditori di
proseguire la propria iniziativa economia privata, riconosciuta dall’art 41.
Spesso vi sono accordi informali che prevedono che durante lo sciopero una parte
di lavoratori (comandata) non si astenga dal lavoro, per salvaguardare proprio la
produttività dell’azienda.
Prestazione inutile o inutilizzabile per effetto di tale nuova interpretazione, si
deve escludere la aprioristica definizione di sciopero in base alle modalità di
attuazione; ma quando le prestazioni offerte dai lavoratori che lavorano durante
lo sciopero durante una delle forme anomale di sciopero sono inutili o
inutilizzabili, vi è la possibilità per il ddl di rifiutare la concessione di retribuzione
anche per i lavoratori che NON SCIOPERANO. In tale situazione la giurisprudenza
ritiene che il ddl è tenuto sì a subire gli scioperi cd anomali, MA NON È TENUTO a
retribuire la prestazione di lavoro che sia risultata inutile (ore di lavoro
improduttive).
FINALITA’ SCIOPERO quali sono le finalità considerate legittime per le quali si può
esercitare lo sciopero? Qui è intervenuta la corte costituzionale. Essa in relazione
alle finalità ha dato una serie di principi per distinguere scioperi legittimi da scioperi
illegittimi in base alle finalità.
SCIOPERO TRADIZIONALE PER FINI CONTRATTUALI: la protesta è diretta a
ottenere miglioramento delle condizioni economiche e normative applicabili al
rapporto di lavoro. La corte costituzionale ben presto ha dichiarato
l’incostituzionalità della norma del codice penale rocco che sanciva l’incriminazione
penale dello sciopero per fini contrattuali. Ciò sul presupposto che il ddl ha la
DISPONIBILITÀ DELLA PRETESA: in qualsiasi momento può accogliere le richieste di
coloro che scioperano. Si stabilisce quindi la legittimità di tale sciopero. Il ddl può
accogliere le richieste di coloro che scioperano;
SCIOPERO DI SOLIDARIETA’ è quello diretto a esprimere solidarietà verso un altro
gruppo di lavoratori; il ddl non ha la disponibilità della pretesa in tal caso. La corte
costituzionale ammette tale sciopero quando il giudice accerti però che l’affinità
delle esigenze che giustificano l’agitazione sia tale da far ritenere che senza
l’associazione e lo sforzo di tutti, quelle esigenze rimangono insoddisfatte. Il giudice

29
deve valutare il grado di collegamento degli interessi tra chi sciopera e coloro per i
quali si sciopera.
SCIOPERO POLITICO è attuato per una rivendicazione non nei confronti del ddl o
dei datori di lavoro intesi nel loro insieme; lo sciopero è attuato per rivendicazione
nei confronti dei pubblici poteri.: Non già per influire sul ddl, ma sul legislatore o
sulla pubblica autorità. Tale tipo di sciopero ha avuto una vicenda più complicata:
cio’ perché il ddl non ha la disponibilità delle richieste avanzate dagli scioperanti. La
corte ha attuato una sotto distinzione, distinguendo lo sciopero POLITICO
ECONOMICO dallo sciopero POLITICO PURO: il primo è quello attuato per la tutela
degli interessi dei lavoratori (tit 3 parte 1 costituzione) , ad esempio si sciopera
contro il taglio delle pensioni ; in relazione allo sciopero politico economico la corte
ha affermato che va considerato come lo sciopero per fini contrattuali; invece con
riguardo alla sotto categoria dello sciopero politico PURO, la corte ha affermato che
non è un diritto ed è illegittimo , restando nell’area delle libertà . lo sciopero politico
puro è ad esempio quello attuato contro l’intervento dell’Italia in guerra. La
giurisprudenza è però contrastante: non tutta sostiene che lo sciopero politico
puro sia illegittimo; una parte di essa sostiene che anche lo sciopero politico puro
rappresenta un diritto. Sostanzialmente, quindi, si ammette lo sciopero politico
solo se finalizzato alla realizzazione di interessi economici e sociali dei lavoratori
(sciopero economico). Si supera la logica del rapporto individuale, ma comunque
riguarda un interesse dei lavoratori.
Quando, quindi, nell’attuale ordinamento lo sciopero resta reato? Vi è un’area
residuale di sciopero politico puro che è perseguibile penalmente: ciò si verifica
quando lo sciopero è diretto innanzi tutto a sovvertire l’ordinamento costituzionale.
È sanzionato in tal caso penalmente. Un’altra fattispecie dai contorni incerti è quella
in cui esso è diretto a ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi in cui si
esprime la volontà popolare.
Per riassumere: l’evoluzione giurisprudenziale mostra la tendenza ad affermare la
sola esistenza di limiti esterni al diritto di sciopero. Neppure il diritto di sciopero
costituzionalmente tutelato nell’art 40 si può dire incondizionato e illimitato:
deve essere contemperato con altri diritti costituzionali.
SCIOPERI DEI S PUBBLICI ESSENZIALI inizialmente furono le stesse parti sindacali a
regolare il diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali; tale
autoregolamentazione fallisce per una serie di ragioni: per la limitata effettività
della disciplina e del contratto collettivo. Si fa strada l’idea che sia indispensabile
una disciplina eteronoma e un provvedimento di legge su tale diritto di sciopero.
Nello sciopero dei servizi pubblici essenziali, Il conflitto avviene nei settori che
svolgono servizi pubblici essenziali ed è idoneo a provocare un danno ai cittadini
fruitori di quei servizi. Vi è un danno agli utenti; inoltre, nei servizi pubblici
essenziali vi è la coincidenza del lavoratore con la figura dell’utente.
L’esigenza dell’intervento del legislatore è salvaguardare i diritti della persona
costituzionalmente tutelati.
Legge 146/1990 disciplina organica dello sciopero dei servizi pubblici essenziali.
Tale legge ruota intorno alla necessità di stabilire contemperamento equo tra

30
l’esercizio del diritto di sciopero da garantire anche in tali settori e il godimento dei
diritti della persona tutelati costituzionalmente. La legge si colloca sulla scia della
giurisprudenza in tema di limiti del diritto di sciopero.
CARATTERISTICHE LEGGE legge CONCERTATA il contenuto è frutto di
convergenza tra mondo politico e mondo sindacale. Essa è stata approvata col
consenso delle parti sindacali. Altra caratteristica è che tale legge attribuisce un
forte ruolo all’autonomia collettiva: sono attribuiti diversi compiti alla
contrattazione collettiva. Centrale è la figura del LAVORATORE-UTENTE: il
lavoratore è direttamente colpiti dai disagi che si verificano in occasione dello
sciopero, in quanto utente del servizio. Altra caratteristica è il senso di
responsabilità delle organizzazioni sindacali, che erano ben consapevoli
dell’esigenza di proteggere e tutelare i cittadini utenti che subivano i pregiudizi
derivanti dallo sciopero, senza alcuno strumento per evitarlo, essendo esso in mano
al ddl.
AMBITO APPLICAZIONE LEGGE i servizi pubblici essenziali, cioè tutti quelli che
realizzano interessi essenziali dei cittadini (irrilevante se il servizio sia reso da
servizio pubblico o privato in concessione). La normativa non si applica solo ai
lavoratori subordinati ma anche a quelli autonomi, ai piccoli imprenditori e ai
liberi professionisti.
Altra caratteristica è che all’esercizio del diritto di sciopero sono posti una serie di
limiti. Questi limiti sono posti con un intreccio di fonti regolative (alcuni posti dalla
legge, altri dalla c collettiva); per alcuni sono previste procedure di raffreddamento
e conciliazione, ci deve essere predeterminazione della durata…
Altro elemento centrale è la COMMISSIONE DI GARANZIA: è un’autorità
indipendente con una serie di poteri, sia a monte dei conflitti che dopo lo sciopero
viene esercitato non rispettando i limiti posti. (apparato sanzionatorio).
Ultima caratteristica è la precettazione, la norma di chiusura del sistema.
I diritti costituzionalmente tutelati sono elencati nella legge stessa. L’esercizio dello
sciopero avviene con modalità tale da non pregiudicare i diritti fondamentali.
LIMITI: la legge dispone innanzi tutto la procedimentalizzazione, non dei poteri del
ddl, ma all’esercizio del diritto di sciopero.
1 LIMITE PREAVVISO: il sindacato che proclama lo sciopero deve comunicare per
iscritto con preavviso di almeno 10 gg con indicazione della durata, modalità di
attuazione e motivazioni.
tali limiti posti al vaglio della corte costituzionale sono stati ritenuti coerenti con
l’art 40. I destinatari della comunicazione sono gli appositi uffici competenti ad
emanare l’ordinanza di precettazione (prefetto o presidente del consiglio, o
ministro da questi delegato). tali uffici informano a loro volta la commissione di
garanzia e le amministrazioni o imprese che erogano i servizi (ddl). A loro volta le
imprese che erogano il servizio devono darne comunicazione agli utenti del servizio
almeno 5 giorni prima dell’inizio dello sciopero, dando comunicazione dei modi e
dei tempi dello sciopero.
2 LIMITE INDIVIDUAZIONE DELLE PRESTAZIONI INDISPENSABILI la legge
impone che anche in caso di sciopero debbano essere garantite le prestazioni

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INDISPENSABILI, cioè idonee a garantire i diritti degli utenti. Chi individua quando le
prestazioni sono indispensabili? Innanzi tutto, la legge dice che le prestazioni
indispensabili sono rimesse alla contrattazione collettiva, che le individua in prima
battuta. Un potere suppletivo lo ha la commissione di garanzia, nel caso in cui le
prestazioni non siano individuate dalla contrattazione collettiva o siano individuate
in modo non IDONEO a giudizio della commissione di garanzia.
3 LIMITE REGOLE DI RAREFAZIONE la c collettiva oltre a individuare le
prestazioni indispensabili deve individuare intervalli minimi tra effettuazione dello
sciopero e la PROCLAMAZIONE del successivo. Il fine è quello di evitare che per
effetto di scioperi proclamati in successione magari da sindacati diversi venga
compromessa la continuità del servizio pubblico.
4 LIMITE PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO E CONCILIAZIONE le parti sociali
nell’accordo collettivo devono concordare apposite procedure di raffreddamento e
conciliazione: tali procedure vanno esperite obbligatoriamente prima della
proclamazione dello sciopero.

COMMISSIONE DI GARANZIA ORGANO DI GARANZIA, istituita soprattutto a


tutela degli utenti che di fatto non partecipano all’individuazione delle prestazioni
indispensabili, rimesse in prima battuta alla c collettiva. In generale tale
commissione ha compito espresso di valutare l’idoneità delle misure volte a
assicurare contemperamento tra diritto di sciopero e diritti della persona
costituzionalmente tutelati. ha un potere di VALUTAZIONE AMPIO. È composta da 5
membri eletti dal pr della camera e del senato; il mandato dura 6 anni.
PRECETTAZIONE norma di chiusura del sistema; quando comunque esiste un
fondato pericolo ai diritto della persona c garantiti conseguente a come lo
sciopero viene posto in essere, l’autorità governativa (pr consiglio dei ministri o
prefetto) su segnalazione della commissione di garanzia o autonomamente può
invitare le parti a desistere dai comportamenti che generano la situazione di
pericolo; se le parti non desistono, adotta l’ordinanza di precettazione, cioè le
misure necessarie a prevenire il pregiudizio dei diritti degli utenti. L’ordinanza va
adottata almeno 48 ore prima dello sciopero. Con tale ordinanza si può differire lo
sciopero ad altra data, o ridurne la durata. Tale ordinanza è impugnabile dinanzi al
TAR.

SANZIONI Nell’ipotesi in cui lo sciopero sia effettuato contravvenendo alle


indicazioni della commissione di garanzia, sono previste sanzioni sia civili che
amministrative, sia per i lavoratori che non collaborano alla erogazione dei servizi
pubblici essenziali che per le organizzazioni sindacali dei lavoratori che proclamano
uno sciopero in contrasto con una delle previsioni imposte dalla legge e anche per
le imprese che erogano i servizi che non assicurino adeguati livelli di funzionamento
o non ottemperino all’ordinanza di precettazione.
LAVORATORI sanzioni disciplinari anche di carattere pecuniario.
ORG SINDACALI possono essere sospesi i permessi sindacali retribuiti, i contribuiti
sindacali …

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Chi delibera l’applicazione delle sanzioni? La commissione di garanzia, che apre un
procedimento di valutazione per valutare il comportamento dei soggetti coinvolti
nello sciopero; tale procedimento implica l’instaurazione di un contradditorio con le
parti coinvolte, che possono presentare osservazioni scritte. decorso il termine di
30 gg, la commissione formula una propria valutazione e se all’esito valuta
NEGATIVAMENTE il comportamento di una o di tutte le parti coinvolte, delibera la
sanzione che deve essere applicata e i tempi entro cui debba essere applicata. È
previsto anche un controllo sulla deliberazione della commissione di garanzia, di
tipo giudiziario (giudice del lavoro).

RAPPORTO DI LAVORO
SUBORDINAZIONE nozione classica; la questione della subordinazione nel diritto
del lavoro fin dalle origini è sempre stata centrale; riguarda l’essenza stessa del
diritto del lavoro. Fin dal secolo scorso dottrina e giurisprudenza si sono sforzate di
dare una definizione e individuare i tratti della fattispecie della subordinazione.
Inizialmente non vi era una definizione legislativa e quindi dottrina e giurisprudenza
si limitarono a configurare il contratto di lavoro subordinato utilizzandolo schema
romanistico del contratto di locazione: veniva fatta una distinzione tra locatio
operarum e operis: la prima era obbligazione di prestare mere energie lavorative; la
seconda obbligazione di fornire un determinato risultato. Ben presto tale
costruzione si rivela inadeguata in quanto finiva per equiparare le energie lavorative
senza tenere conto della implicazione della persona umana nel rapporto di lavoro.
In tale contesto fondamentale per la ricostruzione della fattispecie di
subordinazione fu l’elaborazione di un civilista dell’epoca, Lodovico Barassi: fu tra i
primi nell’epoca liberale a porsi l’obiettivo di fornire una ricostruzione giuridica il
più possibile rigorosa. Barassi si spinse oltre la tradizionale distinzione tra locatio
operis e operarum; per porre l’attenzione su un concetto nuovo: quello di
dipendenza o di ETERODIREZIONE. Su questo concetto per primo Barassi fonda il
criterio qualificante del contratto di lavoro. L’elaborazione è importante perché fu il
primo a fondare il concetto di subordinazione su un elemento tecnico giuridico,
caratteristico della rivoluzione industriale. L’elemento tecnico giuridico è
l’assoggettamento del lavoratore alle direttive del ddl. In questa ricostruzione
teorica non vi è spazio al fine di individuare la figura del lavoratore subordinato per
considerazioni di tipo socioeconomico: in quegli stessi anni oltre a Barassi c’era un
tentativo alternativo di fondare il concetto di subordinazione non su un dato
strettamente giuridico ma socioeconomico: la condizione di debolezza contrattuale
del lavoratore. Le due costruzioni si contrappongono: da un lato la subordinazione
giuridica, dall’altro quella socioeconomica. Barassi fonda appunto la fattispecie
della subordinazione su elementi tecnico-giuridici. La sua intuizione fu giusta, tant’è
che la distinzione tra lavoratore autonomo e subordinato venne poi riproposta nel
codice civile del 1942. Con l’approvazione del codice la fattispecie della
subordinazione trova una sua identificazione nell’art 2094 del cc: non ci dà una
definizione di subordinazione ma definisce il lavoratore subordinato il l

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subordinato è chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa
prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la
direzione dell’imprenditore.
Per contro nel codice civile vi è anche la definizione di lavoratore autonomo art
2222: il legislatore utilizza una definizione a contrario è lavoratore autonomo chi
opera senza vincolo di subordinazione nei confronti del proprio committente.
Caratteristiche essenziali del lavoro subordinato nel cc ETERODIREZIONE
DELL’ATTIVITA’ la prestazione lavorativa deve essere svolta nel modo imposto
dal datore di lavoro, mediante ordini che il lavoratore deve rispettare.
ASSOGGETTAMENTO DEL LAVORATORE AL DDL consentito soltanto in quanto
limitato alla prestazione dedotta nel contratto di lavoro. È una subordinazione
tecnica.
Art 2086 ribadisce il concetto di subordinazione.
Il c di lavoro subordinato è contratto a prestazioni corrispettive e centrale è
l’implicazione della persona: la persona del lavoratore resta implicata nel rapporto
del lavoro; questo potrebbe essere pericoloso soprattutto in una situazione di
diffusa disoccupazione in cui il lavoratore pur di tenere e conservare un reddito è
indotto a accettare condizioni contrattuali svantaggiose o subire prevaricazioni
senza alcuna protesta.
Da un lato l’ordinamento vigente riconosce e valorizza l’utilità e il valore
dell’impresa, riconoscendo la supremazia gerarchica dell’imprenditore; dall’altro
lato e nel contempo il nostro ordinamento attribuendo rilievo all’implicazione
personale del lavoratore, tutela la posizione del lavoratore subordinato con un
diritto del lavoro assai evoluto ed avanzato. Un diritto del lavoro sia quindi
finalizzato a rimuovere le diseguaglianze sostanziali (art 3 c 2) e anche (art 41 c 2)
finalizzato a realizzare la garanzia del secondo comma art 41 della costituzione,
facendo in modo che l’iniziativa economica privata non si svolga in contrasto con
l’utilità sociale.
Il nostro diritto del lavoro costruisce un sistema protettivo attorno al lavoratore
subordinato: tale sistema è stato costruito attorno alla figura normativa del lavoro
subordinato e quindi anche su un presupposto implicito: vi è coincidenza tra
lavoratore subordinato e soggetto debole sia sul piano del rapporto di lavoro che
sul piano del mercato di lavoro. La qualificazione del rapporto di lavoro subordinato
costituisce la porta esclusiva di accesso a tutele fondamentali, sia nei confronti del
ddl sia sul piano previdenziale. Ne consegue l’importanza della qualificazione della
subordinazione in sede giudiziale; le tutele del diritto di lavoro sono infatti
inderogabili e operano automaticamente per effetto dell’accertamento della
subordinazione: se sei lavoratore subordinato hai diritto a tutte le tutele. Non
sempre con l’utilizzo della fattispecie della subordinazione effettivamente le tutele
sono state distribuite in modo equo: es: il dirigente d’azienda è un lavoratore
subordinato e accede a tutte le tutele; un collaboratore autonomo invece non è
riconosciuto come lavoratore subordinato, nonostante sia molto più debole rispetto
al dirigente di azienda da un punto di vista socioeconomico.

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La corte costituzione ha più volte affermato un concetto, quello della indisponibilità
del tipo: il tipo LAVORO SUBORDINATO è indisponibile non solo da parte delle parti
del rapporto, ma anche da parte del legislatore: anche questo non può qualificare
come autonomo un rapporto che ha tutte le caratteristiche di lavoro subordinato.
Negli ultimi quarant’anni è cambiato il modello di produzione: le condizioni di
debolezza prescindono in realtà dalla natura del rapporto: ci sono lavoratori
subordinati che sono in realtà soggetti forti (es dirigenti d’azienda) e per contro vi
sono lavoratori autonomi che sono invece soggetti deboli sia sul piano del rapporto
che sul piano del mercato del lavoro (es. collaborazioni continuative in regime di
mono committenza). Si discute consapevoli di questo problema della necessità di
una migliore redistribuzione delle tutele in base non solo al concetto di
subordinazione, ma alle condizioni di effettiva debolezza del lavoratore. Nell’epoca
della globalizzazione si sta pensando di ridisegnare i confini del diritto del lavoro,
tanto è che si parla di elaborare uno statuto dei lavori. quindi le tutele sono
distribuite in base al concetto di lavoro subordinato.
QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO il problema non si pone nelle ipotesi
caratterizzanti (es lavoro autonomo/subordinato); la figura dell’operaio è il modello
social tipico di lavoratore subordinato. Dall’altro lato, nessuno discute l’autonomia
del libero professionista con un’ampia clientela. Il problema si pone nelle situazioni
incerte, al confine tra lavoro subordinato e autonomo. È in tali situazioni che il
criterio distintivo scelto dal legislatore deve dimostrare la sua idoneità allo scopo,
facendo chiarezza su chi sia lavoratore subordinato e chi autonomo.
Tale dibattito è particolarmente complesso; riassumendo i punti fondamentali: la
giurisprudenza ci dice anzi tutto che non vi è PRESUNZIONE DI SUBORDINAZIONE:
se si è dinanzi al giudice, spetta al soggetto che deve provare la subordinazione
allegare i fatti dimostrando che il rapporto è effettivamente subordinato e che
corrisponde alla fattispecie astratta della subordinazione. La giurisprudenza dice
che ai fini della qualificazione non è rilevante il nomen iuris utilizzato dalle parti:
non rileva come le parti hanno qualificato il rapporto: ciò che rileva è come di fatto
si è svolto il rapporto di lavoro. La volontà delle parti non è ovviamente sempre
irrilevante, ma ha un maggiore rilievo quando il lavoratore non è contrattualmente
debole: tanto più invece è debole, tanto più la volontà delle parti ha minore
rilevanza.
La giurisprudenza che metodo usa nella qualificazione del rapporto? In generale si
possono utilizzare 2 metodi nell’opera di qualificazione del rapporto: SILLOGISTICO
E TIPOLOGICO
SILLOGISTICO detto anche sussuntivo; è fondato sul sillogismo giuridico
possiamo dire che la fattispecie concreta è sussunta nella fattispecie astratta. Un
rapporto di lavoro può qualificarsi come subordinato solo se la fattispecie concreta
risulti perfettamente astratta descritta dalla legge (art 2094). (sussunzione per
identità). Il controllo della cassazione è più che altro sulla fattispecie astratta al
quale ricondurre le circostanze
TIPOLOGICO prevalente; opera all’opposto del primo. È un metodo di
qualificazione per approssimazione è sufficiente ai fini della qualificazione del

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rapporto come subordinato una coincidenza anche solo parziale tra fattispecie
astratta e concreta. In base a tale metodo non è richiesta coincidenza assoluta, ma
che le due fattispecie in qualche modo si assomiglino.
Il primo metodo è quindi più rigoroso; il secondo è meno rigoroso, favorendo
l’espansione del lavoro subordinato.
Altro punto fondamentale nell’opera di qualificazione è il principio secondo cui
qualsiasi attività umana economicamente rilevante può essere svolta in forma
autonoma o subordinata: ciò che conta ai fini della distinzione tra autonomia e
subordinazione son sempre le modalità concrete di svolgimento dell’attività:
anche l’attività che potrebbe apparirci come subordinata potrebbe essere svolta in
modo autonomo. (es. il lavoro dell’operaio può essere svolto in modo autonomo se
ad esempio collabora dall’esterno per l’impresa). Qual è l’elemento decisivo per la
qualificazione? L’eterodirezione della prestazione lavorativa, cioè
l’assoggettamento a controlli sulla modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.
INDICI SUBORDINAZIONE non essendo semplice distinguere tra lavoro autonomo
e subordinato, nel corso del tempo dottrina e giurisprudenza hanno elaborato
ulteriori indici della subordinazione, oltre a quello dell’accertamento della
eterodirezione, CHE RIMANE FONDAMENTALE. L’accertamento spetta al giudice,
che va a verificare la presenza o meno di una serie di indici indicativi
1) STABILE INSERIMENTO NELL’ORGANIZAZZIONE DEL DDL se il lavoratore è
stabilmente inserito, è più probabile sia lavoratore subordinato e non
autonomo.
2) FATTO CHE OGGETTO DELLA SUA ATTIVITA’ SIA OBBLIGAZIONE DI MEZZI E NON
DI RISULTATO oggetto della sua prestazione è mera prestazione dell’attività
lavorativa.
3) ASSENZA DI ORGANIZZAZIONE E RISCHIO il fatto che il lavoratore non abbia
una sua organizzazione e non assuma su di sé il rischio è indice del fatto che è è
più lavoratore subordinato e non autonomo.
4) FATTO CHE DEBBA RISPETTARE UN DETERMINATO ORARIO DI LAVORO
PREDETERMINATO DAL DDL la predeterminazione e l’obbligo di rispettare
l’orario è indice del fatto che si è in presenza di un rapporto di lavoro
subordinato e non autonomo.
5) ESISTENZA DI UN SISTEMA DI RIVELAZIONE DELLE PRESENZE E NECESSITA’ DI
GIUSTIFICARE LE ASSENZE  se il lavoratore possiede il badge, è più probabile
che sia subordinato e non autonomo.
6) INSERIMENTO NEL PIANO FERIE se il lavoratore è inserito nel piano ferie
predisposto dal ddl è più probabile che sia subordinato e non autonomo.
7) ESCLUSIVITA’ DEL RAPPORTO è chiaro che se il lavoratore lavora
esclusivamente per un ddl è più probabile che sia lavoratore subordinato e non
autonomo.
8) CONTINUITA’ PRESTAZIONE  un rapporto che perdura da tanti anni e va
avanti in modo costante fa desumere che oggetto dell’obbligazione non è un
risultato ma un’attività. (obbligazione di mezzi e non di risultato).

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9) RETRIBUZIONE FISSA A TEMPO senza rischio del risultato; se il lavoratore
percepisce una retribuzione fissa e costante anziché un compenso per l’opera
svolta è più probabile che sia un lavoratore subordinato e non autonomo.
Che dice la giurisprudenza? essa dice che questi sono solo indici sussidiari: in
realtà nessuno di essi è di per sé decisivo per accertare la natura del rapporto:
ciascuno di essi più o meno sono compatibili con un rapporto di lavoro
autonomo. Sono indici rivelatori che concorrono in via indiziaria a formare il
convincimento del giudice: l’unico elemento su cui deve fondarsi il
convincimento è l’accertamento della eterodirezione dell’attività. Da esso il
giudice non può prescindere.
LAVORO PARA SUBORDINATO tradizionalmente quello che si contrappone al
lavoro subordinato è quello autonomo, vista da sempre come l’alternativa,
anche all’interno del codice civile. (art 2222). In realtà la categoria del lavoro
autonomo è quella in cui far confluire tutte le prestazioni svolte senza vincolo di
subordinazione. Se escludiamo la tutela previdenziale, per lungo tempo il
legislatore non ha ritenuto necessario estendere anche al lavoro autonomo il
sistema di garanzie previste per il lavoro subordinato, considerando sufficienti le
garanzie previste dal codice in relazione al contratto d’opera. La condizione di
inferiorità economica rispetto all’imprenditore è attenuata nel lavoro
autonomo. Questa rigida contrapposizione tra lavoro autonomo e subordinato
ha mostrato una straordinaria capacità di tenuta per tutto il secolo scorso;
però sicuramente questa capacità di tenuta si è realizzata fino a quando la
figura social tipica di lavoratore subordinato (operaio della grande impresa che
lavora stabilmente…) la trasformazione dei sistemi di produzione non ha
determinato una graduale emersione di forme di collaborazione all’impresa
diverse dalla subordinazione. Modelli appunto radicalmente diversi dal modello
standard del lavoratore subordinato. Si tratta di modelli che implicano modalità
di svolgimento simili a quelle del rapporto di lavoro subordinato, ma che non
coincidono con esso. Tali forme comportano pur sempre una forma di
integrazione della prestazione lavorativa con la organizzazione dell’impresa,
pur restando forme di lavoro AUTONOME. tale integrazione non esclude
appunto l’assoggettamento al potere datoriale.
Quindi entra in crisi la distinzione tra lavoratore autonomo e subordinato. si
afferma il modello della para subordinazione. In tale nuovo “contenitore” sono
state fatte confluire tutte le posizioni di coloro che pur collaborando all’impresa,
non erano in realtà lavoratori subordinati.
COLLABORAZIONI CONTINUATIVE E COORDINATE (COCOCO) il primo
riconoscimento di tale modello risale a una legge, quella VIGORELLI (1959), che
riguardava anche i rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni
d’opera continuative e coordinate. Il primo vero riconoscimento si ha nel 1973,
con una legge, la 533 che è in realtà una legge processuale ed estende le
controversie di lavoro anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in
una prestazione d’opera continuativa e coordinata prevalentemente personale,
anche se non a CARATTERE SUBORDINATO. L’elemento che caratterizza tale

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modello è dunque una collaborazione, non un risultato. Tale collaborazione
deve essere CONTINUATIVA, quindi continua nel tempo, e COORDINATA, cioè la
prestazione deve essere svolta in coordinamento col committente. Nella pratica
è spesso difficile distinguere coordinamento da eterodirezione.
Nel tempo il legislatore ha progressivamente esteso alcune tutele anche a
questa particolare forma di collaborazione: il presupposto della estensione è lo
stesso per cui le tutele sono state introdotte per il lavoratore subordinato: la
condizione di debolezza socioeconomica nei confronti del committente, specie
nella mono committenza. Quali sono queste tutele minimali? anzi tutto, il
processo del lavoro, che è stato ritenuto applicabile anche ai lavoratori para
subordinati. Altra tutela è la speciale disciplina del 2113, riguardante la
disciplina di rinunce e transazioni, che si applica anche ai collaborativi
coordinati e continuativi. Anche da un punto di vista fiscale si è pervenuti a
una equiparazione: i redditi da lavoro para subordinato sono soggetti alla
medesima tassazioni di quelli da lavoro subordinato. Vi è anche una minima
previdenziale, a cui si è giunti solo nella metà degli anni 90 del secolo scorso,
soprattutto perché si assisteva a un crescente ricorso a forme di lavoro para
subordinato. Nel tempo l’aliquota contributiva dei lavoratori para subordinati è
progressivamente aumentata: nel 2002 è almeno del 34 per cento. Tale
progressivo aumento è finalizzato a garantire al lavoratore adeguate prestazioni
previdenziali. Nel 2000 è stata estesa ai collaboratori la tutela per l’infortunio
Ovviamente le tutele sono però, fatte queste eccezioni, molto limitate. ciò ha
favorito il ricorso alle collaborazioni per dissimulare rapporti di lavoro
subordinato, determinato dal fatto che i rapporti di lavoro subordinati erano
sempre più onerosi. Determinando minori oneri per il committente, il lavoro
para subordinato nel nostro ordinamento è spesso stato utilizzato in modo
fraudolento. Ciò è dimostrato anche da un dato empirico: lo sviluppo anomalo
dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.
LAVORO A PROGETTO non esiste attualmente più. Esso è detto COCOPRO:
collaborazioni continuative a progetto. Sono introdotte nel 2003 con l’intento di
arginare in fenomeno delle false collaborazioni; tale disciplina è stata poi
oggetto di una serie di interventi e modificazioni successive. Nel 2015 è stato
definitivamente abrogato. Nell’ultima versione la norma diceva che era vietata
l’instaurazione di rapporti di cococo che non fossero riconducibili a uno
specifico progetto. Doveva esistere necessariamente un progetto, e le
collaborazioni dovevano essere riconducibili a uno o più specifici progetti. La
ratio è quella di legittimare in senso restrittivo la fattispecie delle cococo solo
quando vi fosse all’interno di esse un elemento aggiuntivo, cioè un progetto che
specificasse che si trattava di un rapporto di lavoro AUTONOMO E NON
FITTIZIAMENTE SUBORDINATO. Se tale progetto avesse mancato, i rapporti
sarebbero stati considerati con presunzione assoluta rapporti di lavoro
subordinato fin dalla data della costituzione del rapporto. Anche se nel
contratto vi era un progetto specifico che specificasse che il rapporto si
configurava come autonomo, il giudice poteva comunque andare ad accertare

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che il rapporto si era configurato come rapporto di lavoro subordinato. Se tale
esistenza fosse stata accertata, si sarebbero applicati tutte le tutele previste per
il rapporto di lavoro subordinato.
Le modifiche apportate nel corso degli anni furono tutte in senso restrittivo,
volte a circoscrivere ancora più il progetto.
2015 il legislatore abroga la fattispecie del cocopro e interviene introducendo
un’altra fattispecie contrattuale: LE COLLABORAZIONI ORGANIZZATE DAL
COMMITTENTE.
COLLABORAZIONI ORGANIZZATE DAL COMMITTENTE: d lgs 81/2015
riorganizzazione dell’area della para subordinazione. Tale decreto lgs anzi tutto
ha abrogato la disciplina del lavoro a progetto, superando tale esperienza
poco fortunata; ha fatte salve le cococo previste dal 409 del codice di procedura
civile (quelle senza progetto); ha disciplinato le collaborazioni organizzate dal
committente. C’è prima da dire che nel 2017 apportando una specifica modifica
all’art 409 il legislatore ha fatto una precisazione importante: ha chiarito un
concetto, affermando cosa si intende per attività COORDINATA. Per essa deve
intendersi quella attività nella quale la modalità di coordinamento è stabilita di
comune accordo tra le parti; per effetto di tale precisazione per cococo il
coordinamento è di comune ACCORDO, e non unilateralmente dal committente.
Ovviamente è un intervento in senso restrittivo in quanto riduce
sostanzialmente i poteri del committente.
COLLABORAZIONI ORGANIZZATE DAL COMMITTENTE il legislatore ha
stabilito che quando le collaborazioni, che si concretano in prestazioni di lavoro
continuative e personali, sono eseguite con MODALITA’ ORGANIZZATE DAL
COMMITTENTE, A QUESTE SI APPLICA LA DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI
LAVORO SUBORDINATO. Per tale applicazione, diventa decisivo un requisito
nuovo: quello della etero organizzazione. Questa disposizione ha dato luogo a
plurime interpretazioni, sia in dottrina che in giurisprudenza. Vi furono 3 diverse
interpretazioni:
1) Una prima interpretazione ha detto che la norma estende la subordinazione
non solo al requisito della etero direzione ma anche della etero
organizzazione, andando a integrare l’art 2094 (AMPLIAMENTO AREA
SUBORDINAZIONE);
2) Una seconda, avanzata dalla dottrina, sarebbe un TERZIUM GENUS, un
genere intermedio tra autonomia e subordinazione. Sarebbe quindi una
fattispecie autonoma, come le cococo.
3) Una terza afferma che si tratta pur sempre di fattispecie di lavoro
autonomo; quest’ultima interpretazione sembrerebbe quella prevalente.
Tale interpretazione ha i l fine di contrastare l’abuso del ricorso alle false
collaborazioni, per dissimulare un rapporto di lavoro subordinato. L’altra
finalità del legislatore è quella di assicurare nel contempo un’uniformità di
trattamento tra fattispecie che hanno forti analogie con la subordinazione:
l’etero organizzazione rende il collaboratore comparabile con un lavoratore
subordinato e ciò giustifica l’applicazione di una tutela equivalente.

39
Non si tratta di una fattispecie di lavoro subordinato e per questo motivo
non sembra possa essere accolta la prima delle ricostruzioni, secondo cui le
collaborazioni continuative etero organizzate hanno ampliato l’area della
subordinazione.
Sembra più corretta l’interpretazione secondo cui si rimane nell’ambito del
lavoro autonomo.
La novità è che le collaborazioni, pur autonome, sono disciplinate come
lavoro subordinato. Quindi lavoro autonomo A CUI PERO’ SI APPLICA LA
DISCIPLINA DEL LAVORO SUBORDINATO.
Quali sono gli elementi che maggiormente sostengono la correttezza
dell'interpretazione? vi sono elementi ricavabili direttamente dal testo di
legge e poi vi sono elementi di carattere sistematico.
Elementi testuali nel testo di legge si utilizza sempre l’espressione
COMMITTENTE: questo è un indice che ci può’ far propendere per il fatto
che siamo dinanzi a un rapporto di lavoro autonomo. Inoltre, è previsto
nella norma di legge il fatto che la disciplina del lavoro subordinato SI
APPLICA anche a tale fattispecie delle collaborazioni: quindi si parla di
applicazione, ma non si fa riferimento al fatto che le collaborazioni
coincidono con il lavoro subordinato.
ELEMENTI SISTEMATICI nella norma del d lgs 81 sono previste ipotesi
nelle quali a queste collaborazioni organizzate dal committente non si
applica la disciplina del lavoro subordinato: ciò quando la contrattazione
collettiva prevede discipline speciali per particolari forme di collaborazioni
previste dal committente. Quindi le parti collettive possono stabilire che a
determinate collaborazioni organizzate dal committente, non si applichi la
disciplina del lavoro subordinato, ma discipline SPECIALI che possono
derogare alla disciplina del lavoro subordinato: se effettivamente fossimo in
presenza di rapporti di lavoro subordinato, dare la possibilità alle parti
collettive di introdurre discipline in deroga sarebbe stato verosimile, anche
perché sussisterebbe il problema dell’indisponibilità del tipo.
Ci sono dubbi anche su quale sia l’effettiva disciplina del rapporto di lavoro
subordinato da applicare alle collaborazioni organizzate. Vi potrebbero
essere ad esempio situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina
del rapporto subordinato potrebbe essere ONTOLOGICAMENTE
incompatibile col rapporto da regolare; dubbi vi sono poi sulla disciplina
previdenziale applicabile: non è chiaro se in presenza di collaborazione
organizzata dal committente, quella collaborazione debba essere trattata da
un punto di vista previdenziale come se si fosse dinanzi a lavoratore
subordinato.
In concreto, è difficile distinguere le collaborazioni etero organizzate sia
dalla subordinazione sia dalle cococo di cui all’art 409; nella teoria, sono
state avanzate alcune differenziazioni per consentire una distinzione tra le
collaborazioni.

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Rispetto alle cococo nelle collaborazioni coordinate, il coordinamento
deve essere di COMUNE ACCORDO. Quindi non vi è ingerenza alcuna del
committente; invece, nelle collaborazioni organizzate, l’organizzazione
spetta al committente. Vi è dunque un’ingerenza organizzativa da parte del
committente.
Rispetto alla subordinazione la distinzione è ancora più sottile: nella
subordinazione, l’elemento centrale è l’ETERO DIREZIONE; il potere del ddl è
caratterizzato dal potere di modificare e specificare di volta in volta l’oggetto
e il contenuto stesso del rapporto di lavoro, sulla base delle mutevoli
esigenze dell’impresa. Nelle collaborazioni organizzate, invece il
committente esercita un coordinamento che ha ad oggetto il contenuto e
l’oggetto della prestazione, ma solo LE MODALITA’ DI ESECUZIONE DELLA
PRESTAZIONE (ES. TEMPO E LUOGO DELLA PRESTAZIONE).

INQUADRAMENTO PROFESSIONALE E PATTO DI PROVA


L’inquadramento professionale dei lavoratori assume rilievo non solo al fine
di determinare l’oggetto della prestazione di lavoro, ma anche al fine di
individuare il trattamento economico e normativo applicabile al lavoratore.
La contrattazione collettiva individua le qualifiche tipiche o più ricorrenti in
base alle concrete caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nei diversi
settori produttivi.
Le singole qualifiche, poi, sono raggruppate per “gradi” a seconda della loro “importanza”, ossia
tenendo conto della collocazione nella “scala gerarchica” dei collaboratori dell’impresa, e del
livello di autonomia, responsabilità e competenze, che è caratteristico di ciascun “grado”. Di
conseguenza, la stessa contrattazione collettiva stabilisce il trattamento applicabile
differenziandolo in base ai “gradi” individuati, e ciò in particolare per quanto riguarda la
retribuzione spettante, dovendo questa essere “proporzionata” non solo alla quantità ma anche
alla “qualità” del lavoro prestato.
L’articolo 2095 del Codice civile prevede, inoltre, che le innumerevoli mansioni e qualifiche
enucleabili nell’organizzazione del lavoro dei diversi settori produttivi siano tutte riconducibili a
quattro grandi categorie legali: dirigenti, quadri, impiegati, operai. Tale classificazione ha, tuttavia,
un rilievo limitato, in quanto l’unica categoria che risulta destinataria di una disciplina legale e
sindacale nettamente differenziata è quella dei dirigenti.
Il dirigente si caratterizza, infatti, per essere l’alter ego dell’imprenditore, molto più vicino a
quest’ultimo che non agli altri lavoratori dipendenti. Per questa ragione, i dirigenti hanno dato vita
ad una propria distinta rappresentanza sindacale (anche a livello aziendale) e sono destinatari di
una propria distinta contrattazione collettiva. L’articolo 2095 del codice civile prevede che i
“requisiti di appartenenza” alla categoria dei dirigenti, così come alle altre categorie legali, sono
stabiliti dalle leggi speciali e dai contratti collettivi, “in relazione a ciascun ramo di produzione e
alla particolare struttura dell’impresa”.
La giurisprudenza ha definito il dirigente come colui che è preposto alla direzione dell’intera
azienda, o di un suo ramo autonomo ed importante, esercitando i relativi poteri decisionali ed

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ambiti di autonomia. La contrattazione collettiva, invece, individua requisiti meno rigorosi,
tenendo conto della notevole complessità che l’organizzazione può assumere, per effetto della
quale, nell’ambito della stessa impresa, vi possono essere più livelli dirigenziali.
La contrattazione collettiva tiene conto, altresì, della importanza di funzioni
che risultano determinanti ai fini della assunzione delle decisioni che
competono ad altri soggetti (come nel caso del dirigente preposto a delicate
funzioni c.d. di staff, quale la direzione legale, che è essenziale per orientare
importanti decisioni che riguardano l’attività dell’impresa). Per quanto
riguarda le altre categorie legali, i criteri di identificazione sono più incerti, e
limitate sono le differenze di trattamento legale e sindacale.
I quadri sono la categoria più “giovane”, essendo stata introdotta dalla legge 190 del 1985 per
soddisfare le richieste e le pressioni di un allora nascente movimento sindacale che mirava
all’affermazione di una precisa identità professionale per i lavoratori collocati nei livelli più alti
della categoria degli impiegati. Il legislatore ha, così, incluso i quadri nella classificazione
dell’articolo 2095 del Codice civile, stabilendo che tale nuova categoria è costituita da quei lavorati
che “pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti svolgono funzioni con carattere
continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi
dell’impresa”.
Il riconoscimento in tal modo intervenuto è rimasto, però, essenzialmente di carattere formale.
Infatti, in linea di principio, ai quadri si applicano le stesse norme che riguardano gli impiegati,
salvo diverse espresse disposizioni. La categoria degli impiegati, invece, affonda le radici già nel
regio decreto legge 1825 del 1924, che la individuava facendo riferimento ad elementi generici
quali la “professionalità” e la “non manualità” della prestazione di lavoro.
Prendendo atto della genericità di tali elementi, la dottrina ha elaborato diversi criteri distintivi; tra
questi merita di essere ricordato il criterio che fa riferimento al tipo di collaborazione prestata
dagli impiegati, che avrebbe ad oggetto le attività che riguardano l’organizzazione dell’impresa,
mentre gli altri operai presterebbero semplicemente una collaborazione “nell’impresa”.
In ogni caso, l’esigenza di distinguere con precisione la categoria impiegatizia da quella operaia è
venuta gradualmente perdendo di interesse, in quanto la contrattazione collettiva ha superato la
distinzione tra le due categorie prevedendo il cd “inquadramento unico”.
Con il contratto di lavoro, le parti possono concordare un periodo di prova, durante il quale
ciascuna di esse può recedere liberamente, senza obblighi di preavviso. Lo scopo di tale
pattuizione è valutare la convenzione del rapporto prima che questo divenga definitivo. Tale
“esperimento” è previsto dalla legge nell’interesse di entrambe le parti, anche se solitamente è il
datore di lavoro che richiede di sottoscrivere il patto in questione, subordinando, di fatto,
l’assunzione alla accettazione della prova da parte del lavoratore, al fine di verificare le qualità e le
attitudini professionali di quest’ultimo.
A tutela del lavoratore, il periodo di prova deve risultare da “atto scritto”, il quale è previsto,
secondo l’opinione prevalente, ad substantiam. Inoltre, le parti hanno facoltà di prevedere una
durata minima della prova (e, in tal caso, prima della sua scadenza, il datore di lavoro non è libero

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di recedere), e sono in ogni caso tenute a stabilire una durata massima, che non può eccedere
quella stabilita dai contratti collettivi e, comunque, non può superare il periodo di 6 mesi.
Superato tale limite, infatti, in caso di recesso del datore di lavoro, trova applicazione la disciplina
limitativa dei licenziamenti. Infine, il datore di lavoro è tenuto a consentire l’effettivo svolgimento
di tale “esperimento”. Ciò implica, per un verso, che il patto deve individuare l’attività che forma
oggetto della prova, indicando le mansioni da svolgere o, quantomeno, la “qualifica” o il “livello”
attribuiti. Per altro verso, il recesso del datore di lavoro è impugnabile nell’ipotesi in cui il
lavoratore dimostri che non gli sia stato consentito l’effettivo svolgimento della prova o che il
recesso sia stato determinato da un motivo illecito o discriminatorio.
Le parti possono dare atto del positivo superamento della prova sia con una esplicita dichiarazione
di volontà, sia con un comportamento concludente, e cioè non avvalendosi della facoltà di recesso
entro il termine della prova. In entrambi i casi, l’assunzione diviene “definitiva” e “il servizio
prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”. Essendo, comunque, lavoro a tutti gli
effetti, il servizio prestato dal lavoratore in prova determina la maturazione di tutti i diritti
derivanti dalle prestazioni eseguite, compreso il trattamento di fine rapporto.

CONTRATTO A TERMINE la forma normale del c di lavoro è a tempo


indeterminato ma può essere stipulato anche a tempo determinato. Il
lavoro a tempo determinato costituisce la più comune forma di
manifestazione del cd lavoro temporaneo. È definito anche precario,
Flessibile, a seconda del \punto di vista. Ha subito una lunga e complessa
evoluzione della disciplina legale. L’analisi della evoluzione è fondamentale
per capire le valutazioni del nostro ordinamento sul contratto di lavoro a
termine.
Codice 1865 tale codice imponeva addirittura la temporaneità della
prestazione: non esisteva il contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ciò
era frutto di una cultura liberale, in cui i rapporti a vita potevano essere
profondamente simili al lavoro servile.
Successivamente, le rivoluzioni indotte da quella industriale e la
preoccupazione di rendere più stabile l’inserimento del lavoratore
nell’organizzazione produttiva portarono alla instaurazione di rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, che realizzava una tutela più forte dei diritti
dei lavoratori. quindi in quel periodo il contratto a termine era visto come
negozio potenzialmente fraudolento: vennero introdotti forti limiti
all’autonomia negoziale delle parti, ad esempio la forma scritta.
1962 LEGGE 230 nella legge del 62 vennero introdotti limiti formali e
sostanziali ancora più rigorosi rispetto a quelli introdotti precedentemente:
con tale legge l’atteggiamento di sfavore nei confronti del contratto a
termine raggiunge il suo punto più alto: venne confermata la necessità della
forma scritta per appore un termine al contratto di lavoro e si individuano
tassativamente le ipotesi in cui tale pattuizione del termine era consentita
(introdusse quindi delle causali: il contratto a termine poteva essere
stipulato solo se ricorrevano determinate ipotesi individuate tassativamente
43
). Tra le causali più importanti vi furono lo svolgimento di attività stagionali,
sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto,
esecuzione di opera o servizio aventi carattere straordinario o occasionale.
L’onere della prova dell’esistenza di una delle ragioni era sempre a carico
del ddl. In mancanza, il contratto si considerava a tempo indeterminato.
Seconda metà anni 70 inizia a mutare l’atteggiamento di sfavore nei
confronti del contratto a termine: vi sono primi segnali di flessibilità; il punto
di partenza è riconoscere anche al contratto a termine essere uno
strumento idoneo a soddisfare un’esigenza produttiva meritevole di tutela.
Sono gli anni in cui dal lato del licenziamento vengono introdotti limiti
(obbligo di giustificazione), quindi tale atteggiamento di minor sfavore si
spiega anche con l’introduzione contemporanea di nuove tutele in caso di
licenziamento. Così si iniziarono ad aggiungere alcune causali a quelle già
previste;
1987 LEGGE 56 in tale contesto di atteggiamento di minor sfavore,
l’innovazione maggiormente significativa fu quella introdotta da tale legge;
tale legge attribuisce ai contratti collettivi stipulati dai sindacati aderenti alle
confederazioni nazionali maggiormente rappresentativi, il potere di
individuare ulteriori ipotesi in cui era consentito apporre un termine al
contratto di lavoro. La legge non pose alcun limite alle causali di fonte
collettiva, che quindi potevano essere potenzialmente molto ampie. Tali
causali potevano prescindere dal requisito della temporaneità dell’occasione
di lavoro. La legge impose però ai contratti collettivi che prevedessero nuove
causali, la necessità di accompagnare la previsione da un limite quantitativo,
consistente in un limite di percentuali di lavoratori assumibili a tempo
determinato. (clausole di contingentamento).
2001 d lgs 368 tale decreto determina il definitivo superamento
dell’atteggiamento di sfavore del legislatore nei confronti del contratto a
termine. Si mantiene fermo il principio secondo cui la forma comune resta
quella del contratto di lavoro a tempo indeterminato; si propone però un
modello legislativo che tende a PROMUOVERE e non a restringere la
domanda di lavoro a tempo determinato. Con tale decreto, tutta la
disciplina del contratto a termine viene contenuta in tale decreto;
si supera il sistema delle causali: l’apposizione del termine non è più
vincolata alla ricorrenza di causali, ma la legge dice che l’apposizione del
termine al contratto di lavoro è consentita sempre……… (causale
generale o CAUSALONE). Non è più richiesto che le ragioni per l’apposizione
del termine siano costituite da eventi straordinari contingenti o
imprevedibili. l’interpretazione di tale clausola “aperta” ha rappresentato un
nodo difficile da sciogliere; l’incertezza maggiore riguardava proprio il
requisito della TEMPORANEITA’. da un lato, una prima tesi affermava che le
ragioni che dovevano giustificare l’apposizione del termine dovevano
comunque essere temporanee; dall’altro lato, una seconda tesi affermava

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che non era necessario che le ragioni fossero temporanee, ma era
sufficiente una qualsiasi ragione oggettiva, purché non ARBITRARIA.
2007 la legge 247 si propone tra i suoi obiettivi quello di contrastare il
fenomeno del precariato, anche tramite la disciplina del contratto di lavoro
a tempo determinato. anche tale legge ribadisce come preambolo che il
contratto di lavoro subordinato è di regola stipulato a tempo indeterminato;
la maggiore novità è l’introduzione di un limite di durata massima per il
lavoro a termine, anche in caso di successione di contratti: il limite è di 36
mesi. tale vincolo era ricondotto allo svolgimento di mansioni equivalenti,
quindi si doveva trattare di proroghe o rinnovi relativi alle medesime
mansioni. Quindi in controtendenza rispetto all’atteggiamento di maggior
favore, tale legge introduce un limite massimo di 36 mesi (comprensivo di
proroghe, rinnovi e successioni di contratti). Era possibile per le parti
stipulare un ulteriore contratto ma con ulteriori garanzie.
2012-2014 riprende la direzione di una maggiore flessibilità nei confronti
del contratto a termine: per la prima volta si introduce un contratto a
termine ACAUSALE: non è necessaria una giustificazione.
Legge 92/2012 viene prevista la stipula di un contratto a termine a
prescindere dalla ricorrenza di ragioni oggettive; si ammette la possibilità di
stipulare un contratto a termine ACAUSALE. La durata massima era di un
anno e il contratto era prorogabile una volta sola. Veniva consentita al ddl di
stipulare un contratto a termine per stipulare QUALSIASI ESIGENZA
AZIENDALE: non era più richiesto il requisito della temporaneità. Il ricorso
alla tecnica della acausalità esprimeva la rinuncia dell’ordinamento ad
imporre un limite alla scelta datoriale di quale tipo contrattuale utilizzare.
Tale tipo di impostazione era criticata da chi scorgeva il rischio di un
esasperato meccanismo di ricambio del personale. Il legislatore era
consapevole del rischio, introducendo contemporaneamente una contro
indicazione, imponendo un contributo addizionale al datore di lavoro per il
contratto a termine. si tratta di un cambiamento epocale rispetto
all’esigenza di casuali specifiche.
A distanza di soli due anni, con una legge del 2014 la regola della
giustificazione viene abbandonata anche per le assunzioni successive
(limite che era stato posto dalla legge del 92). viene quindi istituito un
sistema di accesso al contratto di lavoro a termine totalmente ACAUSALE. Si
imponeva esclusivamente la durata non superiore a 36 mesi. Si stabiliva poi
che il numero dei rapporti a tempo determinato non poteva eccedere il
venti per cento dell’organico aziendale (clausola del contingentamento).
Dunque, gli unici limiti che rimanevano erano da un lato economici e
dall’altro quantitativi.
2015 si ha un riordino della disciplina; il legislatore pone una nuova
disciplina contenuta nel d.lgs. 81 del 2015, uno dei sette decreti attuativi del
jobs act sulle tipologie contrattuali. Attualmente è la disciplina in vigore,
salve alcune modifiche intervenute successivamente. Le modifiche nei

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contenuti sono piccole; vi è il preambolo che esordisce dicendo che la forma
comune di contratto di lavoro nel nostro ordinamento è quello a tempo
indeterminato; si conferma la generalizzazione del criterio della acausalità,
sia la durata massima triennale (36 mesi). La disciplina si adatta anche alla
riforma sulle mansioni (art 2103).
Si conferma la possibilità di stipulare un ulteriore contratto in deroga ai 36
mesi, della durata massima di UN ANNO. Resta confermato anche il limite
percentuale del venti per cento del numero dei lavoratori assumibili a
tempo determinato. dalle clausole di contingentamento sono esclusi una
serie di contratti come le attività stagionali.
Non si applica la disciplina del contratto a termine in una serie di ipotesi, ad
esempio nei confronti dei dirigenti.
2018 decreto DIGNITA’- bisogna contestualizzare la disciplina del
contratto a termine con altre, come le riforme in tema di licenziamento;
questo decreto finalizzato a recare disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori, interviene un’altra volta sulle causali. Introduce una disciplina
che rappresenta una via di mezzo tra la liberalizzazione del contratto a
termine e il rigido apparato precedente alla stagione della flessibilità. Per il
resto, non altera la disciplina vigente, in quanto il suo intervento è appunto
sulle causali. Cosa stabilisce? rimane l’acausalità (possibilità di non fornire
giustificazioni) solo per rapporti di durata NON SUPERIORE A 12 MESI; il
contratto è poi prorogabile ma fino a 4 volte (non 5, come prima). Inoltre, in
caso di contratto di durata superiore a 12 mesi, devono ricorrere 2 causali:
1) esigenze temporanee oggettive estranee alla ordinaria attività; 2)
esigenze di sostituzione di altri lavoratori.

la durata massima complessiva è ridotta inoltre a 24 mesi, salve disposizioni


dei contratti collettivi. Per il rinnovo, la giustificazione occorre SEMPRE. Gli
effetti restrittivi di tale norma di legge si incentrano sulle causali. Tali regole
introdotte dal decreto dignità hanno reso più difficile stipulare contratti a
termine: il rischio è che le imprese, piuttosto che affrontare un contenzioso
derivante dall’incertezza dell’interpretazione delle causali, siano indotte ad
aumentare il turnover (ricambio del personale).
2021 c’ è una modifica importante: il legislatore prevede che il contratto a
termine può essere stipulato anche per specifiche esigenze previste dalla
contrattazione collettiva.

CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO PARZIALE


Il contratto di lavoro a tempo parziale, di cui è richiesta la forma scritta ai fini
della prova, può essere stipulato sia a tempo indeterminato che
determinato, e si caratterizza per la previsione di un orario di lavoro ridotto
rispetto al normale orario individuato ai sensi dell’articolo 3 del decreto
legislativo 66 del 2003. Tale riduzione può essere effettuata riducendo
l’orario di ogni singola giornata lavorativa (cd. part time “orizzontale”),

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ovvero prevedendo l’alternanza di giorni di lavoro con orario pieno e giorni
di non lavoro (cd. part time “verticale”), ovvero ancora prevedendo una
combinazione tra le due forme, e cioè prevedendo sia periodi di riduzione
dell’orario giornaliero di lavoro, sia periodo di non lavoro (cd. part time
“misto”).

In tutte e tre le ipotesi, è necessario che nel contratto vi sia la “puntuale


indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione
temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e
all’anno”. Nella ipotesi di organizzazione del lavoro articolata in turni, è
consentito che tale indicazione sia ricavabile “mediante rinvio a turni
programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite”. La durata e la
collocazione dell’orario di lavoro, quindi, non possono essere stabilite e
variate, ad arbitrio del datore di lavoro, durante lo svolgimento del
rapporto, in quanto devono essere ab origine contrattualmente
determinate.

La legge prevede, però, che la durata e la collocazione dell’orario di lavoro


contrattualmente stabilite possano essere modificate nel corso del rapporto,
entro limiti ed a condizioni determinati. Anzitutto, il datore di lavoro può
richiedere al lavoratore prestazioni di lavoro “supplementare”, ossia ore di
lavoro svolto oltre l’orario concordato tra le parti (ma pur sempre contenute
entro l’orario normale di lavoro stabilito per i lavoratori a tempo pieno).
Tali prestazioni possono essere richieste dal datore di lavoro “nel rispetto di quanto previsto dai
contratti collettivi”, o, nel caso in cui questi non prevedano una disciplina del lavoro
supplementare, “in misura non superiore al 25 per cento delle ore di lavoro settimanali
concordate”. In questa ultima ipotesi, il lavoratore può, comunque, rifiutarsi di svolgere il lavoro
supplementare richiesto ove sussistano comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari, o di
formazione professionale. Il lavoro supplementare svolto è retribuito con una maggiorazione
retributiva.
Il datore di lavoro può, inoltre, chiedere lo svolgimento di prestazioni di
lavoro “straordinario”, ossia ore di lavoro svolto oltre l’orario normale
previsto per i lavoratori a tempo pieno, nei limiti e alle condizioni previste
dal decreto legislativo 66 del 2003. Anche il lavoro straordinario deve essere
compensato con una specifica maggiorazione retributiva. Infine, le parti del
contratto di lavoro a tempo parziale possono stipulare, con atto scritto,
clausole c.d. “elastiche”, con le quali è attribuito al datore di lavoro il potere
di variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa o di
aumentare la sua durata.
Nel caso in cui l’utilizzo di tali clausole sia disciplinato dal contratto collettivo applicabile, le parti
sono tenute ad osservare tale disciplina, fermo restando che la comunicazione di variazione della
collocazione temporale o della durata della prestazione deve avvenire con un preavviso di due
giorni lavorativi e che il lavoratore ha diritto ad una specifica compensazione. Nel caso in cui,
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invece, manchi la disciplina sindacale, le clausole in questione possono essere pattuite dalle parti,
sempre in forma scritta, avanti alle commissioni di certificazione.
In tale ipotesi, le parti stesse devono prevedere, a pena di nullità, le condizioni e le modalità di
esercizio del potere attribuito al datore di lavoro, nonché la misura massima dell’aumento
dell’orario di lavoro. Le modifiche dell’orario devono essere, in ogni caso, remunerate con una
specifica maggiorazione retributiva. Il consenso prestato dal lavoratore alla clausola elastica non
può essere revocato, tranne ove ricorrano specifiche ipotesi regolate dalla legge.
Al lavoratore a tempo parziale sono riconosciuti i medesimi diritti del lavoratore a tempo pieno,
salvo il riproporzionamento dei trattamenti economici e normativi in base alla “ridotta entità della
prestazione lavorativa”. Per quanto riguarda alcuni istituti (periodo di prova, periodo di preavviso
in caso di recesso, periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia e infortunio), i
contratti collettivi possono prevedere una modulazione della loro durata “in relazione
all’articolazione dell’orario di lavoro”.
Poiché la riduzione dell’orario di lavoro può corrispondere ad un interesse del lavoratore, non solo
è consentito che le parti coordino la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in
rapporto a tempo parziale, con la sola condizione che l’accordo risulti da atto scritto, ma è anche
previsto l’obbligo del datore di lavoro di informare il personale a tempo pieno della propria
intenzione di effettuare assunzioni a tempo parziale e di prendere in considerazione le eventuali
domande di trasformazione.
Per i lavoratori che si trovino in determinate situazioni di salute o familiari, è riconosciuto il diritto,
o una priorità, alla trasformazione del rapporto, nonché il diritto di ottenere successivamente una
nuova trasformazione del rapporto, ripristinando il tempo pieno. I lavoratori il cui rapporto sia
stato trasformato da tempo pieno in tempo parziale hanno diritto di precedenza nel caso di
assunzioni successivamente effettuate dal datore di lavoro per mansioni di pari livello rispetto a
quelle svolte.
A protezione della libertà della scelta del lavoratore, è previsto che non costituisce giustificato
motivo di licenziamento né il rifiuto di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale, o viceversa, né il rifiuto di concordare variazioni dell’orario di lavoro. Sotto il profilo
sanzionatorio, è previsto che, ove manchi la prova della stipulazione a tempo parziale del
contratto, il lavoratore possa richiedere la giudice la dichiarazione della sussistenza di un rapporto
a tempo pieno, fermo restando, per il periodo antecedente alla pronunzia giudiziale, il diritto alla
retribuzione e ai contributi previdenziali dovuti per le prestazioni effettivamente rese.
Analoghe conseguenze sono previste anche nel caso in cui il contratto, pur stipulato in forma
scritta, non contenga la determinazione della durata della prestazione di lavoro. In questo caso,
però, al lavoratore è riconosciuto anche il diritto al risarcimento del danno in relazione al periodo
antecedente alla pronunzia con la quale il giudice dichiara la sussistenza tra le parti del rapporto a
tempo pieno. Ove, invece, le parti abbiano determinato per iscritto la durata, ma non la
collocazione temporale dell’orario di lavoro, il contratto resta a tempo parziale, ma il lavoratore
può richiedere che la collocazione temporale venga determinata dal giudice, il quale, a tal fine,
tiene conto delle responsabilità familiari del lavoratore e della sua necessità di svolgere altre
attività retribuite, nonché delle esigenze del datore di lavoro.

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Anche in tale ipotesi, per le prestazioni rese sino alla pronunzia giudiziale, è
previsto il diritto alla retribuzione ed al risarcimento del danno. Il
risarcimento del danno spetta, altresì, al lavoratore nell’ipotesi in cui egli
abbia svolto le sue prestazioni in esecuzione di clausole elastiche, senza che
siano stati osservati i limiti, le condizioni e le modalità previste dalla
disciplina legale e sindacale. Va, infine, rilevato che il contratto di lavoro a
tempo parziale può costituire uno strumento utile per perseguire specifiche
finalità occupazionali.
In particolare, è incentivata la trasformazione volontaria del rapporto di
lavoro da tempo pieno a tempo parziale da parte dei lavoratori prossimi alla
pensione di vecchiaia. Ed infatti, ove i predetti contratti prevedano un
“ulteriore incremento dell’occupazione”, tali lavoratori possono richiedere
l’anticipazione della pensione di vecchiaia, che è cumulabile con la
retribuzione entro il limite massimo del trattamento retributivo percepito
prima della riduzione dell’orario di lavoro. Tale beneficio è subordinato alla
condizione che i lavoratori di cui trattasi accettino di svolgere una
prestazione di lavoro di durata non superiore alla metà del loro orario di
lavoro precedente.
CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE
Con il contratto di lavoro intermittente, “un lavoratore si pone a disposizione di un datore di
lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo ed intermittente”. Il suo
utilizzo è consentito soltanto nei casi in cui ricorrano specifiche “esigenze” giustificative, la cui
individuazione è affidata ai contratti collettivi (i quali possono fare riferimento, a tal fine, “anche
alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del
mese o dell’anno”) o, in mancanza, al Ministero del lavoro. Il contratto di lavoro intermittente,
peraltro, può soddisfare, oltre che obiettive e reali esigenze produttive, anche finalità
occupazionali.
E così la legge prevede che è sempre consentito l’utilizzo di tale contratto per assumere lavoratori
che abbiano più di 55 anni o meno di 24 anni di età (fermo restando che le prestazioni di questi
ultimi non possono più essere svolte dal raggiungimento del venticinquesimo anno). È previsto,
inoltre, un limite quantitativo superato il quale la prestazione di lavoro non può più essere
considerata svolta “in modo discontinuo ed intermittente”.
Infatti, ove vengano svolte più di “quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni”, il
rapporto si trasforma a tempo pieno e indeterminato. Questo limite non è applicabile soltanto nei
settori del terziario, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, a ragione delle peculiari caratteristiche
dell’organizzazione del lavoro in tali settori. La legge lascia all’autonomia negoziale la possibilità di
prevedere o no l’obbligo del lavoratore di rispondere alle singole richieste di prestazioni formulate
dal datore di lavoro in base alle proprie esigenze intermittenti e discontinue. Ove tale obbligo non
sia previsto, il lavoratore non ha diritto ad alcun trattamento economico e normativo nei periodi in
cui la sua prestazione di lavoro non viene utilizzata.
Nel caso in cui, invece, l’obbligo di disponibilità sia stato previsto, al lavoratore spetta una
“indennità di disponibilità”. Inoltre, nel contratto, le parti devono specificamente indicare, in

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forma scritta ad probationem, il luogo e le modalità della disponibilità garantita dal lavoratore,
nonché il “preavviso di chiamata” che non può essere inferiore ad un giorno. Tale disciplina
consente di ritenere che il contratto di lavoro intermittente non realizzi una lesione della libertà
del lavoratore tale da risultare costituzionalmente illegittima.
Ed infatti, nel caso in cui non sia previsto l’obbligo di disponibilità, il lavoratore resta pienamente
libero di organizzare il suo tempo libero; nel caso in cui l’obbligo sia previsto, le modalità della
disponibilità e il preavviso di chiamata sono contrattualmente definite e, soprattutto, il vincolo
assunto dal lavoratore è compensato da uno specifico corrispettivo, la cui misura è determinata
dai contratti collettivi e, comunque, non può essere inferiore all’importo fissato dal Ministero del
lavoro. L’obbligo di disponibilità eventualmente assunto dal lavoratore comporta anche l’obbligo
di informare tempestivamente il datore di lavoro degli eventi che gli impediscano
temporaneamente di rispondere alla chiamata, e, durante il periodo di impedimento, l’indennità
di disponibilità non è dovuta.
L’inadempimento di tale obbligo di informazione comporta la perdita del diritto all’indennità per
15 giorni, mentre il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può comportare il
licenziamento, oltreché l’obbligo di restituire l’indennità di disponibilità riferita al periodo
successivo al rifiuto. Il contratto di lavoro intermittente deve indicare, oltreché luogo e modalità
della disponibilità eventualmente garantita, anche altri elementi, quali: la durata e le ragioni che
ne hanno consentito la stipulazione; le modalità che il datore di lavoro deve osservare per la
richiesta della prestazione di lavoro; le misure di sicurezza necessarie in relazione alla specifica
attività di lavoro.
La legge non prevede quali conseguenze derivino dalla mancanza di tali indicazioni o della prova
scritta che esse abbiano formato oggetto di pattuizione. È da ritenere, tuttavia, che, in tali ipotesi,
mancando gli elementi (o la prova degli elementi) che caratterizzano il lavoro intermittente, il
contratto debba essere considerato un normale contratto di lavoro subordinato assoggettato alla
disciplina generale per esso dettata. Al fine di consentire il controllo sulla regolarità dell’impiego
del lavoratore intermittente, il datore di lavoro è tenuto a comunicare alla direzione territoriale
del lavoro la durata delle singole prestazioni richieste prima dell’inizio di ciascuna di esse o di un
“ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a trenta giorni”.
Anche per il lavoro intermittente, infine, sono previsti un divieto e un
principio di non discriminazione analoghi a quelli stabiliti in relazione al
contratto a termine ed al contratto di somministrazione. Precisamente, il
ricorso al lavoro intermittente è vietato: per sostituire lavoratori che
esercitano il diritto di sciopero; per i datori di lavoro che non effettuano la
“valutazione dei rischi”; per le unità produttive che procedono, nei sei mesi
precedenti, a licenziamenti collettivi ovvero a sospensioni del rapporto o a
riduzioni dell’orario di lavoro con diritto al trattamento di integrazione
salariale riguardanti lavoratori adibiti alle stesse mansioni dei lavoratori
assunti con contratto di lavoro intermittente.
In base al principio di non discriminazione, il lavoratore intermittente ha diritto ad un trattamento
economico e normativo che, per i periodi lavorati, non può essere complessivamente meno
favorevole di quello riconosciuto al lavoratore che svolge la propria prestazione in modo
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ininterrotto. Come è previsto per i lavoratori a tempo parziale, dall’applicazione di tale principio
deriva che il trattamento spettante al lavoratore intermittente può essere riproporzionato in
ragione della quantità della prestazione effettivamente eseguita. Allo stesso modo, ai fini
dell’applicazione delle disposizioni che attribuiscono rilievo alle dimensioni dell’organico
dell’impresa, i lavoratori di cui trattasi sono computati “in proporzione all’orario di lavoro
effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre”.
CONTRATTO DI APPRENDISTATO
L’apprendistato ha origini risalenti e già il Codice Civile lo regolava come un rapporto “speciale” di
lavoro, caratterizzato dall’obbligo dell’imprenditore di “permettere che l’apprendista frequenti i
corsi per la formazione professionale” e di “destinarlo soltanto ai lavori attinenti alla specialità
professionale cui si riferisce il tirocinio”. La disciplina dettata, poi, dalla legge 25 del 2955 ha
ulteriormente evidenziato come il contratto di apprendistato configuri un negozio a causa mista, in
quanto alle obbligazioni che realizzano lo scambio tra lavoro e retribuzione, si aggiunge l’obbligo
del datore di lavoro di impartire la formazione necessaria ai fini dell’acquisizione di una
qualificazione professionale da parte dell’apprendista.
Quando, però, ha iniziato ad essere maggiormente avvertito il problema della disoccupazione
giovanile, il legislatore ha ritenuto che l’apprendistato non fosse uno strumento sufficiente a darvi
soluzione. Fu, così, introdotto un nuovo e distinto modello contrattuale, denominato “contratto di
formazione e lavoro”, nel quale risultava prevalente la finalità promozionale dell’occupazione,
realizzata mediante la previsione di notevoli benefici di natura economica e normativa a favore
delle imprese.
La previsione di alcuni di tali benefici fu ritenuta in contrasto con la disciplina comunitaria della
concorrenza. Il legislatore nazionale decise di sopprimere l’utilizzo di tale modello contrattuale per
tutti i datori di lavoro privati, ritenendo di poterlo sostituire con una profonda riforma
dell’apprendistato. A tal fine, venivano individuate tre diverse tipologie di apprendistato, che
avrebbero dovuto soddisfare esigenze formative diverse, al fine di favorire la diffusione in tutti i
settori economici e, nel contempo, di realizzare un collegamento tra il sistema dell’istruzione e il
mondo del lavoro.
Di fatto, l’apprendistato non ha avuto, e non ha tuttora, la diffusione auspicata. Appare, quindi,
oggi ben distante dalla realtà l’incauta dichiarazione del legislatore di considerarlo la “modalità
prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro”. La disciplina vigente definisce
l’apprendistato “un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla
occupazione dei giovani”, confermando così che si tratta di un contratto a causa mista, nel quale,
però, assume esplicitamente rilevanza non soltanto la tradizionale finalità formativa, ma anche
quella di promozione dell’impiego.
È, inoltre, confermato che l’apprendistato può articolarsi in tre diverse tipologie, che sono oggi
denominate: “a) apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione
secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore; b) apprendistato
professionalizzante; c) apprendistato di alta formazione e ricerca”.
La prima e la terza tipologia sono dirette a realizzare un sistema cd. “duale” di integrazione
organica tra la formazione e lavoro ai fini dell’acquisizione dei titoli di istruzione e formazione e
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delle qualificazioni professionali contenuti nel Repertorio nazionale di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 13 del 2013; mentre l’apprendistato professionalizzante è finalizzato al “conseguimento
di una qualifica professionale a fini contrattuali”, ossia ai fini previsti dai sistemi di inquadramento
professionale stabiliti dai contratti collettivi. La disciplina generale prevede la forma scritta, ai fini
della prova, del contratto.
Il contratto deve contenere, almeno “in forma sintetica”, il piano formativo individuale, definito
“anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti
bilaterali”. Per la prima e la terza tipologia, tale piano formativo è predisposto direttamente dalla
istituzione formativa interessata, sia pure “con il coinvolgimento dell’impresa”. La durata del
contratto non può essere inferiore a 6 mesi, salva la possibilità, nelle prime due tipologie, di
specifiche disposizioni regionali e collettive in relazione allo svolgimento di attività stagionali.
Per consentire che svolga la sua funzione, durante il periodo di apprendistato trova applicazione la
disciplina che limita il potere di licenziamento del datore di lavoro e sanziona l’illegittimo esercizio
di tale potere. È precisato, al riguardo, che, nella prima e terza tipologia, il mancato
raggiungimento degli obiettivi formativi, attestato dall’istituzione competente, costituisce
giustificato motivo di licenziamento. Terminato il periodo di apprendistato, al fine di mantenere
tra le caratteristiche del modello contrattuale una flessibilità che non è assicurata dal modello
standard, le parti sono libere di recedere dal contratto, dandone preavviso con decorrenza dal
termine stesso.
In mancanza di recesso il rapporto prosegue come rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La
disciplina dell’apprendistato è, in prevalenza, demandata agli accordi interconfederali e ai contratti
collettivi nazionali di lavoro, tenuti, però, ad attenersi, ai seguenti principi: divieto di retribuzione a
cottimo; possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto a quello spettante
per la qualificazione che il contratto è finalizzato a conseguire, ovvero, in alternativa, possibilità “di
stabilire la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale e in modo graduale all’anzianità di
servizio”; presenza di un “tutore o referente aziendale”; possibilità di finanziare i percorsi formativi
aziendali per il tramite dei fondi paritetici interprofessionali; possibilità del riconoscimento della
qualifica professionale ai fini contrattuali e delle competenze acquisite ai fini del proseguimento
degli studi e nei percorsi di istruzione degli adulti; registrazione della formazione effettuata e della
qualificazione professionale ai fini contrattuali eventualmente acquisita nel “libretto formativo del
cittadino”; possibilità di prolungare il periodo di apprendistato in caso di malattia, infortunio o
altra causa di sospensione involontaria del rapporto di durata superiore a 30 giorni; possibilità di
definire forme e modalità per la conferma in servizio, come condizione per procedere ad ulteriori
assunzioni di apprendisti.
È consentito che gli apprendisti vengano “indirettamente” assunti tramite le agenzie di
somministrazione di lavoro, con una ulteriore valorizzazione della funzione di quest’ultima, anche
se limitata, in questo caso, alla sola forma della somministrazione a tempo indeterminato. Il
numero complessivo di apprendisti non può superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze
specializzate e qualificate.
Tuttavia: nel caso di datori di lavoro che occupino meno di 10 lavoratori, il numero degli
apprendisti non può superare quello delle predette maestranze; nel caso di datore di lavoro che
non abbia lavoratori qualificati o specializzati, o ne abbia in numero inferiore a 3, gli apprendisti
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possono essere assunti in numero non superiore a 3. Inoltre, salvi diversi limiti previsti dai
contratti collettivi, è previsto che i datori di lavoro con più di 50 dipendenti possono assumere
nuovi apprendisti con contratto professionalizzante a condizione che, nei 36 mesi precedenti,
abbiano proseguito il rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato con almeno il 20%
degli apprendisti precedentemente assunti.
Nel caso la percentuale non sia stata rispettata, è consentita l’assunzione di un solo apprendista
con contratto professionalizzante. Gli apprendisti “assunti in violazione di tale disposizioni sono
considerati ordinari” lavoratori subordinati a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione
del rapporto. Per ciascuna delle tre diverse tipologie di apprendistato sono dettate, poi,
disposizioni specifiche che regolano i limiti di età dei soggetti che possono essere assunti come
apprendisti, la durata del periodo di apprendistato, i principi riguardanti la regolamentazione dei
profili formativi e il raccordo tra le diverse competenze e le attività formative previste, a seconda
che queste siano svolte all’esterno o all’interno dell’azienda.

Per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni, gli standard formativi sono definiti con decreto
ministeriale, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e
le provincie autonome di Trento e Bolzano. Numerosi e incisivi sono i benefici con i quali la legge
intende promuovere la diffusione dell’apprendistato. C’è la possibilità del “sottoinquadramento”
dell’apprendista e del “rirproporzionamento” della retribuzione in relazione all’anzianità di
servizio.
Si aggiunga che, per l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di
istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore, e per
l’apprendistato di alta formazione e ricerca, le ore di formazione a carico del datore di lavoro sono
retribuite con un importo pari al 10% di quello che sarebbe dovuto, mentre è escluso ogni obbligo
retributivo per le ore di formazione svolte presso la istituzione formativa.
Va ricordato, infine, che per l’assunzione dell’apprendista sono riconosciuti anche benefici
contributivi, i quali, in caso di prosecuzione del rapporto al termine del periodo di apprendistato,
sono mantenuti per un anno dopo il predetto termine. Sotto il profilo sanzionatorio,
l’inadempimento nella erogazione della formazione, ove derivi da responsabilità del datore di
lavoro e sia tale da impedire la realizzazione delle finalità dell’apprendistato, determina la
riconduzione del rapporto di apprendistato in un ordinario rapporto di lavoro a tempo
indeterminato.
Inoltre, tale inadempimento comporta l’obbligo del datore di versare agli istituti previdenziali il
doppio della differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di
inquadramento superiore che l’apprendista avrebbe dovuto conseguire. Tuttavia, se
l’inadempimento da parte del datore di lavoro nella erogazione della formazione è rilevato dal
personale ispettivo del Ministero del lavoro mentre il periodo di apprendistato è ancora in corso, il
personale stesso provvede ad impartire le disposizioni necessarie per porvi rimedio, assegnando al
datore di lavoro un congruo termine per adempiere.
La violazione delle disposizioni di legge e collettive, aventi ad oggetto la forma e il contenuto del
contratto, è punita con sanzioni amministrative. Gli apprendisti sono esclusi dal computo dei limiti
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numerici previsti da leggi e contratti collettivi di lavoro per l’applicazione di particolari normativi ed
istituti, salvo diverse disposizioni speciali.
SOMMINISTRAZIONE – secondo l’art 2127 cc, vi è un divieto di
interposizione, in base a cui L’IMPRENDITORE NON PUO’ AFFIDARE AI
PROPRI DIPENDENTI LAVORI A COTTIMO DA ESEGUIRSI DA PRESTATORI DI
LAVORO ASSUNTI O RETRIBUITI DIRETTAMENTE DAI DIPENDENTI MEDESIMI.
la legge 1369/60 prevede il divieto di qualsiasi forma di intermediazione nel
rapporto di lavoro; questa legge stabilì anche la sanzione: prevedeva che i
prestatori di lavoro occupati in violazione di tale divieto sono considerati alle
dipendenze dell’imprenditore che ha utilizzato le loro prestazioni e non a
quelle del ddl formale. la ratio di tale legge è che si temeva che la
dissociazione tra chi utilizza le prestazioni e chi è formalmente ddl avrebbe
consentito al ddl di eludere tutte le disposizioni di legge previste per il ddl
nei confronti dei dipendenti. Il legislatore ha vietato che l’imprenditore
potesse servirsi di intermediari, qualunque fosse lo strumento giuridico
utilizzato per eludere tutte le disposizioni di legge. Ciò per evitare il
verificarsi di fenomeni molto pericolosi, come quello del caporalato. Tra gli
strumenti che realizzavano tale forma di dissociazione vi era il ricorso a
contratti di appalto e subappalto FITTIZI: la legge non vieta il ricorso al
contratto di appalto, ma si deve trattare di un appalto genuino e lecito, non
illegittimo. Quando un appalto è lecito e non si trasforma in appalto di mere
prestazioni di lavoro (in cui l’appaltatore mette a disposizione
dell’appaltante mere prestazioni)? Innanzi tutto, si deve trattare di un vero
imprenditore che realizza l’opera con UNA PROPRIA ORGANIZZAZIONE DI
MEZZI. tale organizzazione può essere sia di beni materiali ma anche solo di
beni immateriali, consistendo anche solo nell’insieme delle conoscenze (es.
programmatori). Tale organizzazione deve essere predisposta e gestita
dall’appaltatore; quando l’opera e il servizio sono ad alta intensità di lavoro,
il fatto che l’appaltatore gestisca l’opera autonomamente può consistere
nella circostanza che l’appaltatore concretamente gestisce e dirige i
lavoratori impiegati nell’opera. La gestione è quindi a rischio
dell’appaltatore, che assume su di sé il rischio di impresa. Quindi i due
presupposti sono la presenza di un vero imprenditore (con propria
organizzazione di mezzi) e la gestione a rischio dell’imprenditore. In
mancanza, vi è una somministrazione illecita di lavoro e il lavoratore può
chiedere l’istaurazione di un rapporto alle dipendenze dell’appaltante che
effettivamente ha usato le prestazioni di lavoro.
Nel tempo si è attenuato il divieto; il legislatore ha addirittura disciplinato il
lavoro interinale, che corrisponde all’attuale somministrazione. La ratio di
tale diverso atteggiamento è dovuta al fatto che la dissociazione non è più
considerata di per sé una modalità di lesione dei diritti del lavoratore: si
riconosce che tale attività di intermediazione nella fornitura di soltanto
prestazioni di lavoro, se regolata da idonee garanzie, può costituire un
servizio idoneo a promuovere l’occupazione e il collocamento.
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CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE è stato introdotto nel 2003, dal
d.lgs. 276. fin dalla sua introduzione, il contratto di somministrazione ha
avuto uno sviluppo complicato, per il timore che potesse costituire
strumento per ledere i diritti dei lavoratori. È stato anche negli anni
successivi più volte modificato, ma mai abrogato. Oggi è regolato dal d.lgs.
81 del 2015 (che è una sorta di codice del lavoro flessibile).
Con il contratto di somministrazione e di lavoro un soggetto autorizzato dal
ministero del lavoro e in possesso di determinati requisiti (agenzia di
somministrazione) mette a disposizione dell’utilizzatore (un altro ddl)
propri dipendenti. Per tutta la durata della messa a disposizione (MISSIONE
DEL LAVORATORE) i dipendenti dell’agenzia di somministrazione (lavoratori
somministrati) svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione
dell’UTILIZZATORE. La somministrazione può essere a tempo determinato o
a tempo indeterminato. Attualmente, per la stipula del contratto (stipulato
tra i due datori di lavoro) non è richiesta alcuna giustificazione causale.
Anche per la somministrazione vi sono limiti quantitativi: per quello a tempo
indeterminato, i lavoratori somministrati non possono eccedere il venti
percento dei lavoratori assunti a tempo indeterminato; per il contratto a
tempo determinato, la valutazione circa i limiti di contingentamento è
rimessa alla contrattazione collettiva.
Il lavoratore somministrato è dipendente dell’agenzia di somministrazione:
se è assunto a tempo indeterminato presso l’agenzia, ha diritto anche a
un’indennità di disponibilità, durante il periodo in cui rimane in attesa di
essere assegnato a un utilizzatore. L’importo dell’indennità è determinato
dal contratto collettivo. se è assunto a tempo determinato, si applica la
disciplina che riguarda il contratto di lavoro a tempo determinato, salve
eccezioni.
Vi è un principio di parità di trattamento: a parità di mansioni e livello, i
lavoratori somministrati hanno diritto alle medesime condizioni
economiche e normative degli altri dipendenti dell’utilizzatore. Gli obblighi
retributivi e contribuitivi gravano sul somministratore, che è il ddl. (agenzia
di somministrazione). È prevista però una solidarietà tra utilizzatore e
somministratore, per l’adempimento delle obbligazioni retributive e
contributive del lavoratore somministrato. L’utilizzatore si potrà anche
rivalere nei confronti del somministratore che non abbia adempiuto agli
obblighi retributivi.
Il potere disciplinare è esercitato formalmente dal somministratore, che
resta il titolare del potere disciplinare; chiaramente, dovrà essere
l’utilizzatore a riferire e informare il somministratore delle eventuali
infrazioni compiute dal lavoratore: sull’utilizzatore grava quindi un onere di
informazione.
Mutamento di mansioni può accadere che l’utilizzatore adibisca il
lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle contrattualmente stabilite,
senza darne comunicazione scritta al somministratore. L’utilizzatore sarà

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ritenuto responsabile di eventuali differenze retributive rivendicate dal
lavoratore e di eventuale risarcimento del danno.
Somministrazione irregolareè definita tale se manca la forma scritta del
contratto di somministrazione tra somministratore e utilizzatore. Il
contratto sarà nullo e i lavoratori considerati alle dipendenze
dell’utilizzatore. Se sono violate le altre disposizioni della somministrazione,
il lavoratore può ottenere l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato
con l’utilizzatore.
in questa ultima ipotesi, i pagamenti effettuati dal somministratore per
retribuzioni e contributi si intendono effettuati dall’utilizzatore. Allo stesso
modo, gli atti relativi alla costituzione e alla gestione del rapporto, i quali
siano stati compiuti o ricevuti dal somministratore, si intendono compiuti o
ricevuti dall’utilizzatore. Tranne che nell’ipotesi della mancanza della forma
scritta del contratto, la richiesta della costituzione del rapporto di lavoro con
l’utilizzatore è sottoposta ad un termine di decadenza e ad un regime
risarcitorio analoghi a quelli previsti nel caso di richiesta di trasformazione
del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.
Il termine di decadenza per l’impugnazione, che può essere proposto anche con atto stragiudiziale,
è, però, di 60 giorni e decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività
presso l’utilizzatore, essendo, quindi, irrilevante che abbia proseguito o no il rapporto con il
somministratore. Identici, invece, sono sia l’importo minimo e massimo dell’indennità spettante a
titolo di risarcimento del danno, sia la sua funzione di integrale ristoro di ogni pregiudizio subito
dal lavoratore.
TRASFERIMENTO, TRASFERTA E DISTACCO siamo nell’ambito dei poteri
del datore di lavoro. Tutti e tre gli istituti hanno a che fare col luogo di
esecuzione della prestazione di lavoro e implicano una modifica del luogo di
esecuzione della prestazione lavorativa. Normalmente, il luogo
dell’esecuzione è determinato contrattualmente al momento
dell’assunzione. Solitamente coincide con la sede dell’impresa o con una
delle sue filiali o articolazioni. Vi sono anche forme di lavoro differenti (es.
lavoro a domicilio), in cui la prestazione è svolta in locali al di fuori di quelli
dell’azienda. Rispetto al momento in cui il contratto è stipulato, le esigenze
del ddl possono mutare. Per questo, nel corso del rapporto la legge
attribuisce al ddl il potere di modificare unilateralmente il luogo di
esecuzione della prestazione di lavoro, anche se esso era stato
contrattualmente determinato di comune accordo. Ci sono due tipi di
modifiche del luogo della prestazione: se la modifica è provvisoria, si chiama
trasferta; se è definitiva, si chiama TRASFERIMENTO. Nella trasferta, vi è
quindi un mutamento temporaneo della sede di lavoro. Per questo, la
trasferta non è sottoposta ad alcun limite o condizione. La legge prevede poi
per compensare il lavoratore del disagio temporaneo, una maggiorazione
della retribuzione che viene definita indennità di trasferta.

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In caso di trasferimento, la modifica del luogo di lavoro è definitiva e incide
sulla posizione del lavoratore e può comportare lo sradicamento del
lavoratore dal proprio ambiente sociale. Dal punto di vista giuridico, implica
una modificazione delle condizioni contrattuali convenute al momento
dell’assunzione. La legge tiene in considerazione le esigenze del lavoratore,
ma ritiene prevalente le esigenze dell’imprenditore. Sono indicati limiti
rigorosi al trasferimento: la necessità di giustificazione.
Bisogna capire cosa si intende per trasferimento: non qualsiasi spostamento
spaziale definitivo è trasferimento; se è disposto all’interno della stessa
unità produttiva, il ddl non ha alcun onere. Cosa si intende per unità
produttiva? La giurisprudenza ci dice che con essa si intende quella che
costituisce un’organizzazione autonoma dell’impresa con idoneità a
produrre beni e servizi per l’azienda.
Se il lavoratore è trasferito da unità produttiva a un’altra, la giustificazione
deve consistere in ragioni oggettive e non arbitrarie: non è necessario
indicare le ragioni nel provvedimento di trasferimento, ma se il lavoratore
ne fa richiesta il ddl deve comunicare le ragioni al lavoratore. Le ragioni
devono essere comprovate e il ddl deve dimostrarne l’esistenza in caso di
controversia.
La giurisprudenza ci dice che la scelta dell’imprenditore è INSINDACABILE
NEL MERITO, in quanto il ddl ha libertà di scegliere tra più soluzioni
organizzative. non essendo sindacabili nel merito le scelte imprenditoriali,
ciò che il ddl deve provare è l’effettività della ragione EFFETTIVA e l’esistenza
di un nesso di causalità tra l’esigenza e il trasferimento della singola
persona.
Le esigenze oggettive sono ravvisabili sia nella unità produttiva di
provenienza che in quella di destinazione.
La legge non prevede preavviso né forma scritta per il trasferimento, previsti
di regola dalla c collettiva.
Scelta del lavoratore da trasferire l’individuazione spetta al ddl ed è una
scelta insindacabile perché la legge non prevede criteri che devono
presiedere a quella scelta né una procedura che ne consenta il controllo.
Però, a tutela di interessi del lavoratore, molto spesso vincoli e divieti al
potere di scelta sono posti dalla contrattazione collettiva. (es. divieto di
trasferimento del lavoratore che deve assistere familiare con la 104
convivente; è vietato anche il trasferimento disciplinare, in quanto il
trasferimento è disposto solo per ragioni oggettive). Infine, a tutela di un
interesse del lavoratore prevalente, il trasferimento di un dirigente
sindacale aziendale può essere disposto solo col consenso
dell’organizzazione sindacale di appartenenza.
Non deve essere confuso né con la trasferta, né con il trasferimento, il
“distacco”, o “comando”, che si ha “quando un datore di lavoro, per
soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori
a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata

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attività lavorativa”. Il distacco è legittimo a condizione che: a) sia disposto
per soddisfare un interesse del datore di lavoro distaccante; b) sia
temporaneo; c) avvenga per lo svolgimento di una determinata attività
lavorativa.

Per quanto riguarda l’interesse del datore di lavoro, si deve trattare di un


interesse GIURIDICAMENTE LECITO, ossia funzionale al risultato produttivo
perseguito dal datore di lavoro. Non può trattarsi, invece, di un interesse di
mero lucro, e cioè giustificato dal solo fatto di percepire un corrispettivo per
la messa a disposizione del lavoratore. In tale caso, infatti, il distacco
finirebbe per configurare una forma surrettizia e non autorizzata di
somministrazione di lavoro. Una presunzione legale dell’esistenza
dell’interesse è stata, di recente, introdotta in relazione all’ipotesi in cui il
distacco avvenga tra aziende che hanno sottoscritto un contratto cd. “di rete
di impresa”. Il distacco può durare sino a quando permanga il legittimo
interesse che lo giustifica. Infine, è necessario che il distacco sia disposto per
lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, in quanto, ove fosse
consentito al distaccatario variare, a seconda delle proprie (mutevoli)
esigenze, l’oggetto della prestazione del lavoratore distaccato, sarebbe
difficile configurare l’esistenza di un legittimo interesse al distacco da parte
del datore di lavoro.

In conclusione, anche il distacco è espressione tipica del potere direttivo


dell’imprenditore. Esso non determina l’estinzione dell’originario rapporto
di lavoro, né la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con il
beneficiario della prestazione. Difatti il datore di lavoro distaccante “rimane
anche responsabile del trattamento economico e normativo a favore del
lavoratore”. Tuttavia, pur rientrando il distacco nel potere direttivo del
datore di lavoro, nel caso in cui comporti un “mutamento di mansioni”, è
richiesto il consenso del lavoratore.

Inoltre, quando il distacco comporti, oltreché l’assegnazione presso un terzo


datore di lavoro, anche “un trasferimento a una unità produttiva sita a più di
50 km da quella in cui il lavoratore è adibito”, trova applicazione una
disposizione analoga a quella applicabile alla fattispecie di trasferimento. In
tale ipotesi, quindi, il distacco può avvenire “SOLTANTO PER COMPROVATE
RAGIONI TECNICHE, ORGANIZZATIVE, PRODUTTIVE E SOSTITUTIVE”.
Laddove il distacco sia privo dei requisiti previsti, il lavoratore può chiedere
la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne
ha utilizzato la prestazione.
Invece, la legge non prevede una specifica disciplina sanzionatoria nel caso di distacco che, pur
comportando un mutamento di mansioni, sia avvenuto senza il consenso del lavoratore, e nel caso
di distacco che, pur comportando un trasferimento ad una unità produttiva distante oltre 50 km,
non sia giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive. Deve,
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però, ritenersi che il lavoratore abbia diritto ad ottenere l’eventuale risarcimento dei danni subiti
per effetto, ed a seguito, del provvedimento di distacco illegittimo.
POTERE DI CONTROLLO Il potere di controllo deriva anche esso dal contratto di lavoro
subordinato. L’ordinamento, infatti, riconosce al datore di lavoro il potere di verificare l’esatto
adempimento degli obblighi del lavoratore, non solo ai fini dell’eventuale esercizio del potere
disciplinare, ma anche quale strumento necessario per esercitare lo stesso potere direttivo in
modo tempestivo e proficuo. I controlli, peraltro, possono avere ad oggetto l’esecuzione della
prestazione lavorativa, ma anche l’osservanza dell’obbligo di fedeltà e la tutela del patrimonio
aziendale, ivi compresa l’immagine dell’impresa. A seconda delle finalità e della forma del
controllo, però, sono previsti limiti diversi dalla legge, a tutela della libertà e della dignità del
lavoratore. La violazione di alcuni di quei limiti è punita con sanzioni penali.
Sono posti limiti per ciò che riguarda il personale che può essere utilizzato dal datore di lavoro ai
fini dell’effettuazione dei controlli. In particolare, con riferimento alle guardie giurate, esse
possono essere impiegate esclusivamente per scopi di “tutela del patrimonio aziendale”. È, quindi,
vietato loro sia di esercitare “vigilanza sull’attività lavorativa”, sia di accedere nei locali di lavoro
durante lo svolgimento dell’attività stessa. Tale accesso è consentito in via “eccezionale”, soltanto
ove sussista una specifica e motivata esigenza attinente ai predetti scopi di tutela del patrimonio
aziendale.
Pertanto, le guardie giurate non possono muovere contestazioni di alcun genere nei confronti del
lavoratore. Secondo la giurisprudenza, inoltre, il controllo su eventuali comportamenti illeciti posti
in essere dal lavoratore in danno del patrimonio o dell’immagine aziendale può essere svolto
anche mediante investigatori privati. Per quanto riguarda il controllo sull’attività lavorativa, ove il
datore di lavoro utilizzi propri dipendenti specificamente addetti alla vigilanza, egli è tenuto a
comunicare “i nominativi e le mansioni specifiche”, onde consentire ai lavoratori di identificare i
soggetti a ciò deputati. Resta fermo il potere del datore di lavoro di esercitare il controllo
personalmente, o tramite i superiori gerarchici del lavoratore. In tal caso, non è necessaria alcuna
specifica comunicazione ai lavoratori, in quanto il potere di controllo deriva direttamente dal
potere direttivo di cui è titolare l’imprenditore.
L’articolo 23 del decreto legislativo 151 del 2015, nel sostituire l’articolo 4 della legge 300 del
1970, ha confermato che l’installazione degli impianti audiovisivi e di ogni altro strumento dai
quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è consentita a due
condizioni: a) che essa sia finalizzata a soddisfare esigenze aziendali ritenute meritevoli (“esigenze
organizzative e produttive” “sicurezza del lavoro” e “tutela del patrimonio aziendale”); b) che,
prima dell’installazione, venga raggiunto un accordo con le rappresentanze sindacali (aziendali o
unitarie) o, in mancanza, sia concessa una autorizzazione amministrativa da parte della Direzione
territoriale del lavoro.
Diversamente dalla disciplina previgente, è previsto che le imprese aventi unità produttive situate
in più di una provincia possono, in alternativa, stipulare l’accordo direttamente con le associazioni
sindacali nazionali comparativamente più rappresentative, e, nel caso di mancato accordo,
richiedere l’autorizzazione amministrativa al Ministero del lavoro. L’innovazione più rilevante è
costituita, tuttavia, dalla previsione che le esigenze aziendali oggettive, l’accordo sindacale o
l’autorizzazione amministrativa, non è necessario ricorrano quando si tratti di “strumenti utilizzati
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dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e di “strumenti di registrazione degli accessi e
delle presenze”.
La disciplina vigente prevede espressamente che le informazioni raccolte dal datore di lavoro (per
mezzo degli impianti e degli strumenti legittimamente impiegati) “sono utilizzabili a tutti i fini
connessi al rapporto di lavoro” e, quindi, anche ai fini disciplinari. Il contemperamento con le
esigenze di tutela della persona è realizzato prevedendo che l’utilizzazione di dati raccolti è
subordinata alla duplice condizione: a) che sia data al lavoratore “adeguata informazione delle
modalità di uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli”; b) che tale utilizzazione avvenga
“nel rispetto” di quanto disposto dal decreto legislativo 196 del 2003.

La prima condizione mira a far sì che il lavoratore sia preventivamente posto a conoscenza sia di
quali siano le modalità consentite per l’uso degli strumenti, sia di quali siano i controlli che
potrebbero essere effettuati. La seconda condizione mira a soddisfare l’esigenza di protezione dei
dati personali, richiamando la necessità che venga rispettata la disciplina generale che regola il
trattamento di tali dati. È, però, da escludere che l’utilizzo dei dati legittimamente raccolti sia
subordinato anche all’acquisizione del preventivo consenso da parte del lavoratore.
Ed infatti, il consenso del lavoratore interessato è soltanto uno dei possibili presupposti che
legittimano il trattamento dei dati personali da parte del datore di lavoro, in quanto altri
presupposti di legittimazione sono previsti dal decreto legislativo 196 del 2003 e altri ancora
possono essere previsti da disposizioni di legge, purché conformi alla direttiva di cui il predetto
decreto legislativo costituisce attuazione. Il legislatore ha attribuito rilievo alle esigenze
organizzative del datore di lavoro connesse con la gestione del rapporto di lavoro, quando i dati
personali del lavoratore siano raccolti nel rispetto della disciplina dettata dall’articolo 4 della legge
300 del 1970, alla quale il Codice della privacy fa espresso rinvio. Pertanto, è da ritenere che il
testo novellato della norma statutaria contenga l’esplicita previsione di uno specifico presupposto
di legittimazione del trattamento dei dati personali, applicabile nell’ipotesi in cui tali dati siano
stati raccolti legittimamente. Proprio in considerazione dell’esistenza di uno specifico presupposto
legale di legittimazione al trattamento di tali dati, il legislatore ha, contestualmente, modificato
anche l’articolo 171 del decreto legislativo 196 del 2003. Il testo novellato limita espressamente
l’applicazione di sanzioni penali alla violazione dei commi dell’articolo 4 della legge 300 del ’70 che
regolano le ipotesi di legittimo utilizzo degli impianti e strumenti che possono realizzare forme di
controllo a distanza, escludendo così l’illiceità penale della violazione del comma dello stesso
articolo che prevede l’utilizzazione dei dati legittimamente raccolti a tutti i fini connessi al rapporto
di lavoro.
VISITE PERSONALI, ACCERTAMENTI SANITARI, DIVIETO DI INDAGINI SULLE OPINIONI La legge
detta una disciplina limitativa anche per le perquisizioni del lavoratore e dei suoi effetti personali.
Stante la maggiore incidenza sulla dignità della persona, è previsto, in via di principio, un divieto
assoluto di visite personali di controllo. In via eccezionale, tali forme di controllo sono ammesse
nei casi in cui siano “indispensabili” per tutelare “il patrimonio aziendale, in relazione alla qualità
degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti”. Tali ipotesi, e le modalità di
effettuazione delle visite personali, devono, inoltre, essere preventivamente concordate con le

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rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in difetto di accordo, possono essere individuate dalla
Direzione territoriale del lavoro.
In ogni caso, la legge prescrive condizioni inderogabili da rispettare, stabilendo che le visite, ove
consentite, devono essere eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro, con modalità tali da
salvaguardare la dignità e la riservatezza del lavoratore, ed individuando le persone soggette alla
perquisizione mediante sistemi di selezione automatica. La previsione eccezionale di perquisizioni
personali è stata ritenuta costituzionalmente legittima proprio in considerazione dei limiti e delle
garanzie che essa introduce a tutela del lavoratore.
Il lavoratore, peraltro, resta libero di rifiutare di sottoporsi anche alle visite personali di controllo
lecitamente disposte dal datore di lavoro, ma si espone, in questo modo, a responsabilità
disciplinare. Al datore di lavoro è vietato compiere, tramite medici di propria fiducia, gli
accertamenti volti a verificare l’effettiva giustificazione delle assenze del lavoratore per malattia od
infortunio. I controlli di tali assenze, devono, quindi, essere obbligatoriamente eseguiti, su
richiesta dello stesso datore di lavoro, dalle istituzioni pubbliche competenti.
A queste ultime, il datore di lavoro può rivolgersi anche quando intenda far controllare la “idoneità
fisica” del lavoratore, ossia la sussistenza non di una alterazione meramente temporanea dello
stato di salute, bensì una situazione di sopravvenuta incapacità (definitiva o, quantomeno, di
durata imprevedibile) allo svolgimento delle mansioni.
Purtroppo, l’inefficienza dell’organizzazione delle strutture pubbliche preposte è stata una delle
cause della diffusione del fenomeno di “assenteismo”, che si è cercato di contrastare sia
prevedendo l’obbligo di effettuazione della visita nello stesso giorno della richiesta inviata dal
datore di lavoro, anche se coincidente con la domenica o altro giorno festivo, sia prevedendo
l’obbligo del lavoratore, salvo giustificato motivo, di rispettare fasce orarie di reperibilità presso il
proprio domicilio. Anche in questo caso, il lavoratore resta libero di rifiutare la visita, ma da ciò
deriva un inadempimento contrattuale, oltreché la decadenza o la perdita parziale del trattamento
economico spettante per la malattia.
Corollario necessario della libertà di opinione, è il divieto posto al datore di lavoro di effettuare
indagini, sia ai fini dell’assunzione, sia nel corso del rapporto di lavoro, che abbiano ad oggetto
opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore, “nonché” fatti che non siano rilevanti ai fini
della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore. Per evitare, dunque, il rischio di
discriminazioni, sono considerate comunque illecite le indagini che abbiano ad oggetto le opinioni
in materia politica, religiosa e sindacale.
Una complessa problematica si pone in relazione alle cd. organizzazioni di tendenza. Per loro
natura, tali organizzazioni devono poter riporre affidamento sulla adesione alla finalità che esse
perseguono da parte dei propri dipendenti addetti allo svolgimento di funzioni rilevanti. In tale
ipotesi, quindi, si dovrebbe ammettere una interpretazione adeguatrice del testo normativo, in
quanto le opinioni del lavoratore assumono un diretto e comprensibile rilievo proprio ai fini della
valutazione della idoneità del lavoratore a svolgere il ruolo che l’organizzazione ha necessità di
ricoprire. Del resto, si ricava che il datore di lavoro ha facoltà di svolgere indagini su ogni fatto che
incida sulla valutazione dell’attitudine professionale.

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Nel rigoroso limite dell’incidenza su tale valutazione, quindi, le indagini sui fatti rilevanti possono
estendersi anche alla vita privata del lavoratore. Ne offre conferma l’orientamento della
giurisprudenza ordinaria, secondo il quale anche i comportamenti posti in essere dal lavoratore al
di fuori del rapporto di lavoro possono configurare giusta causa di licenziamento ove siano tali da
evidenziare l’inidoneità professionale del lavoratore stesso. Ne offre conferma, altresì, la
giurisprudenza costituzionale, la quale, chiamata a giudicare di uno specifico divieto legale di
indagini relativo alla sieropositività, ha ritenuto necessario che tale divieto non operi in relazione a
determinate mansioni che possono esporre al rischio di contagio.
TUTELA CONTRO LE DISCRIMINAZIONI Non esiste un principio generale che obblighi il datore di
lavoro alla parità di trattamento dei propri dipendenti. Specifiche disposizioni di legge, però,
prevedono ipotesi nelle quali la parità è dovuta (e anche promossa con azioni positive), e le
differenziazioni di trattamento sono vietate. Anche la tutela contro le discriminazioni risponde
all’esigenza di salvaguardare i diritti fondamentali della persona, in particolare quello della dignità.
Il diritto antidiscriminatorio ha ricevuto espansione e rafforzamento pure nel nuovo corso del
diritto del lavoro, come naturale compensazione della contestuale revisione delle tutele di
carattere più tradizionale. La Costituzione riconosce il diritto alla parità di retribuzione, “a parità di
lavoro”, sia alle donne, che ai minori. La legge 300 del 1970 ha sancito la nullità di qualsiasi patto
od atto diretto a fini di discriminazione per motivi sindacali. La stessa previsione è stata, poi, estesa
alle ipotesi di discriminazione per motivi legati al sesso, alla politica, alla religione, alla razza e alla
lingua.
Il legislatore, poi, ha dettato una disciplina delle azioni positive per la realizzazione delle pari
opportunità tra uomo e donna. Infine, un nuovo sviluppo è stato offerto dalla disciplina
comunitaria, in attuazione della quale sono stati emanati i decreti legislativi 215 e 216, riguardanti,
rispettivamente, “la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e
dall’origine tecnica” e “la parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione,
dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto
concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro”.
Particolare rilievo ha la disciplina diretta a contrastare ogni discriminazione basata sul sesso e
perseguire l’obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra uomini e donne. La
definizione delle discriminazioni vietate è assai ampia. Essa tiene conto, anzitutto, del fatto che la
discriminazione può essere realizzata con qualsiasi strumento, in quanto può essere l’effetto di
“qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento”, nonché “dell’ordine di porre
in essere un atto o un comportamento”. La discriminazione, inoltre, può essere sia diretta che
indiretta.
È diretta quando lo strumento utilizzato produce di per sé un “effetto pregiudizievole” e,
comunque, un “trattamento meno favorevole” in ragione del sesso. Si realizza, invece, una
discriminazione indiretta quando lo strumento utilizzato pone o può porre i lavoratori di un
determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso.
Viene, però, precisato che non si ha discriminazione quando la posizione di svantaggio sia
determinata dalla previsione di requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, al fine di
perseguire un obiettivo legittimo, sempreché i mezzi impiegati siano appropriati e necessari.

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Il legislatore, poi, ha esplicitamente ricompreso tra le discriminazioni: i trattamenti meno
favorevoli applicati in ragione dello stato di gravidanza, di maternità e paternità (anche adottive),
o in ragione dei diritti riconosciuti ad ognuno di tali stati; le molestie (“comportamenti indesiderati
posti in essere per ragioni connesse al sesso”) e le molestie sessuali (“comportamenti indesiderati
a connotazione sessuale”), che hanno lo scopo o, comunque, l’effetto di violare la dignità della
persona e di creare un “clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
L’ambito del divieto di discriminazione riguarda, in particolare, l’accesso al lavoro, la formazione e
la promozione professionali, nonché le condizioni di lavoro. Inoltre, nelle attività della moda,
dell’arte e dello spettacolo, è consentito condizionare l’assunzione all’appartenenza ad un
determinato sesso “quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione”. Specifici
divieti di discriminazione sono previsti per quanto riguarda la retribuzione, l’attribuzione delle
qualifiche, delle mansioni e la progressione di carriera, l’accesso alle prestazioni previdenziali
pubbliche, alle forme pensionistiche complementari collettive ed agli impieghi pubblici.
La disciplina di legge mira a realizzare condizioni di eguaglianza sostanziale mediante la
promozione di pari opportunità per le donne lavoratrici, al fine di superare le situazioni di
svantaggio derivanti non da ostacoli giuridici (di per sé illeciti), bensì da condizionamenti strutturali
e culturali. A tal fine, sono previste azioni positive (quali la promozione di orari di lavoro flessibili,
corsi di formazione per sole donne, asili nido sovvenzionati), ossia di misure rivolte alla rimozione
degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità, con l’obiettivo di
“favorire l’occupazione femminile e realizzare l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne”.
Tale obiettivo, inoltre, è perseguito anche con il sostegno di apposite istituzioni, individuate nel
“Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di
opportunità tra lavoratori e lavoratrici”, istituito presso il Ministero del lavoro, nonché le
“consigliere e i consiglieri di parità” nominati a livello nazionale, regionale e provinciale. A tali
istituzioni è riconosciuta, altresì, la legittimazione ad agire, sia in via ordinaria che con uno speciale
procedimento di urgenza, contro le discriminazioni che abbiano una rilevanza collettiva. Un
analogo procedimento di urgenza può essere proposto, inoltre, con ricorso individuale da parte
del lavoratore leso dalla discriminazione.
Secondo i principi generali, l’onere della prova della discriminazione ricade su chi ricorre in
giudizio, ma l’assolvimento di tale onere è agevolato prevedendo che anche “dati di carattere
statistico”, purché precisi e concordanti, sono idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti,
fatti o comportamenti discriminatori. Tale presunzione può essere superata solo dalla prova
contraria eventualmente fornita dal datore di lavoro.
MOBBING Tra i fenomeni che incidono sui valori della persona va considerato il cd. mobbing.
Dal punto di vista giuridico, vi è stata, a lungo, incertezza sugli elementi che configurano il
mobbing. Allo stato, sembra affermarsi il convincimento che il mobbing sia costituito da un
indistinto complesso di atti e comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere dal
datore di lavoro o da altri lavoratori, volti a perseguitare ed emarginare la “vittima” e tali da
lederne la salute o la dignità.
In realtà, l’uso del termine mobbing non è di particolare utilità per il diritto, perché l’ordinamento
giuridico già prevede e sanziona le fattispecie che solitamente si fanno ricondurre alla incerta

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nozione del mobbing. L’ordinamento, a tutela dei diritti della persona, prevede quali sono i limiti
dei poteri del datore di lavoro, cosicché l’inosservanza di quei limiti determina, di per sé, la
illegittimità dell’atto o del comportamento posto in essere nell’esercizio dei poteri stessi.
Il progresso della tutela antidiscriminatoria ha portato ad includere espressamente, tra le
discriminazioni vietate, anche la fattispecie delle “molestie”, ovvero di quei “comportamenti
indesiderati”, posti in essere per uno dei motivi considerati illeciti, e che abbiano “lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante ed offensivo”.
Quella delle molestie è una fattispecie che ha notevoli punti di contratto con il mobbing, ma si
distingue perché presuppone che i comportamenti siano illeciti in quanto motivati da ragioni
tipizzate, sia pure individuate in modo ampio. Inoltre, l’apparato predisposto dal legislatore risulta
idoneo a reagire anche alle nuove forme di insidia che possono presentarsi nell’ambiente di
lavoro.
L’orientamento più recente della giurisprudenza tende ad evitare l’espansione incontrollata della
fattispecie del mobbing, riconducendo la valutazione del comportamento del datore di lavoro alla
luce dei precetti legali esistenti e limitando l’impiego di quella fattispecie ai casi in cui tale
comportamento, pur apparentemente lecito, sia ispirato da uno specifico intento illecito, quale è
quello persecutorio o ritorsivo.
DIRITTO ALLA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALIFra i diritti di contenuto non patrimoniale che
spettano ad ogni lavoratore è compreso il diritto alla protezione dei dati personali, espressamente
riconosciuto anche da fonti internazionali. Tale diritto, pur non trovando un esplicito richiamato
nella Costituzione italiana, è certamente espressione della tutela della dignità umana. Il
collegamento con il valore della dignità spiega anche la ragione per la quale si ritiene che una
prima, embrionale, forma di tutela del diritto dei lavoratori alla protezione dei propri dati
personali già derivasse da alcune disposizioni dello Stato dei lavoratori formalmente dirette alla
tutela della “dignità del lavoratore”.
Il diritto dei lavoratori alla protezione dei dati personali ha trovato compiuta tutela a seguito di
una direttiva comunitaria, a seguito della cui adozione, il legislatore ha adottato il Codice in
materia di protezione dei dati personali, anche definito come Codice della privacy, dalle cui
disposizioni derivano, in capo al datore di lavoro che proceda al trattamento dei dati personali di
un lavoratore alle sue dipendenze, obblighi ulteriori e distinti rispetto a quelli già derivanti dalle
disposizioni dello Statuto dei lavoratori.
È bene avere presente la assoluta atipicità che caratterizza il concetto di “trattamento dei dati
personali”, come si ricava dalle definizioni di “dato personale” e di “trattamento” contenute
nell’articolo 4 dello stesso Codice. Per “dato personale” deve, intendersi, infatti, “qualunque
informazione relativa a persona fisica, indentifica o identificabile”. Pertanto, al fine di rendere
applicabile la disciplina contenuta nel Codice della privacy, non assume rilevanza la natura o il
contenuto della informazione, né la sua forma, che potrà quindi essere alfanumerica oppure
visiva, o anche soltanto sonora. Una analoga atipicità caratterizza la definizione di “trattamento”,
da intendersi, infatti, come “qualunque operazione” effettuata “anche senza l’ausilio di strumenti

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elettronici”, concernente anche soltanto “l’utilizzo” di dati personali, “anche se non registrati in
una banca dati”.

Pertanto, affinché si realizzi un “trattamento di dati personali”, è sufficiente che sia posta in essere
anche una sola delle operazioni menzionate dall’articolo 4 del Codice della privacy (“la raccolta, la
registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione,
la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la
diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati”).
Si comprende, quindi, come nel corso del rapporto di lavoro il datore di lavoro possa procedere a
numerosi trattamenti di dati personali dei propri lavoratori. Si pensa alla verifica delle informazioni
relative allo stato di salute dei lavoratori, che il datore di lavoro deve compiere per giustificare la
loro assenza dal lavoro o per concedere permessi o altri benefici. Costituisce un trattamento di
dati personali anche la redazione della lettera di contestazione disciplinare, così come la redazione
della eventuale successiva lettera di licenziamento, poiché a tal fine il datore di lavoro deve
necessariamente utilizzare informazioni relative ad un lavoratore ben individuato e, anzi,
informazioni dotate di un adeguato livello di specificità.
Il trattamento da parte del datore di lavoro dei dati personali dei lavoratori assunti alle sue
dipendenze richiede il necessario adattamento della disciplina dei presupposti della
“legittimazione del trattamento”, cioè di quei presupposti, giuridici o di fatto, che sono tipizzati dal
legislatore e sulla cui presenza deve basarsi ogni trattamento di dati personali per poter essere
legittimo. Ed infatti, nonostante l’articolo 23 del Codice della privacy individui nel “consenso
espresso dell’interessato” il principale presupposto di legittimazione del trattamento di dati
personali “da parte di privati o di enti pubblici economici”, il consenso del lavoratore interessato è
destinato ad assumere un ruolo soltanto sussidiario fra i presupposti di legittimazione del
trattamento da parte del datore di lavoro.
Se, infatti, il lavoratore interessato, negando il suo consenso, potesse impedire il trattamento dei
propri dati personali, il datore di lavoro potrebbe trovarsi non soltanto in grave difficoltà nella
gestione del rapporto di lavoro, ma addirittura nella impossibilità di esercitare i poteri giuridici che
la legge gli attribuisce in funzione della realizzazione della causa del contratto di lavoro, quali, ad
esempio, il potere di controllo e il potere disciplinare.
In tal prospettiva, il Garante per la protezione dei dati personali, ha precisato che il datore di
lavoro deve ottenere il consenso del lavoratore interessato “solo quando, anche a seconda della
natura dei dati, non sia corretto avvalersi di uno degli altri presupposti equipollenti al consenso”.
Pertanto, la legittimazione del datore di lavoro al trattamento dei dati personali dei lavoratori deve
ritenersi prevalentemente basata su presupposti diversi dal consenso dei lavoratori interessati,
quali sono quelli elencati nell’articolo 24 del Codice della privacy. In base a tale disposizione, il
consenso non è richiesto quando il trattamento in questione sia necessario “per adempiere ad un
obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria”.

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Particolare rilievo nel rapporto di lavoro riveste, inoltre, il presupposto di legittimazione costituito
dal perseguimento di “un legittimo interesse nei casi individuati dal Garante sulla base dei principi
sanciti dalla legge”. Ed infatti, sulla base del bilanciamento degli interessi in conflitto, il Garante ha
ritenuto che tale presupposto possa realizzarsi anche nelle ipotesi in cui il trattamento di dati
personali sia diretto a soddisfare “esigenze organizzative e produttive” del datore di lavoro.
Il consenso del lavoratore interessato costituisce, quindi, il principale presupposto di
legittimazione del trattamento soltanto quando questo abbia ad oggetto “i dati che possono per
loro natura ledere le libertà fondamentali o la vita privata”, cioè soltanto quando si tratti del
trattamento dei cd. “dati sensibili”, quali sono i “dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed
etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a
partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale,
nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
Il trattamento di tali dati viene, infatti, circondato da particolari cautele poiché presenta
oggettivamente una spiccata potenzialità lesiva per il soggetto interessato, trattandosi di
informazioni che attengono alla sfera più intima della persona. Ciò nonostante, avendo ancora
riguardo alle specifiche esigenze connesse con il rapporto di lavoro, la disciplina comunitaria ha
espressamente previsto che anche il trattamento dei dati sensibili, in particolari ipotesi, possa
essere legittimato pur in assenza del consenso del lavoratore.

MANSIONI
Cosa sono? Le mansioni sono l’insieme dei compiti che il lavoratore può
essere chiamato a svolgere su pretesa del ddl; sono compiti specifici che
corrispondono alla prestazione di lavoro promessa.
PRINCIPIO DI CONTRATTUALITA’ le mansioni del lavoratore sono
individuate in base alle intese tra le parti, individuate nel contratto al
momento dell’assunzione. Ciò lo ricaviamo dall’art 2103 cc (norma che
sioccupa di mansioni) che stabilisce che il lavoratore deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto. Un'altra norma è l’art 96 delle
disposizioni di attuazione del cc, che afferma che il ddl deve comunicare al
lavoratore categoria e qualifica che gli sono state assegnate.
Solitamente nel contratto individuale di lavoro non sono indicate in modo
analitico tutte le singole mansioni: nel contratto solitamente le mansioni
sono descritte e riassunte nella QUALIFICA o più spesso nel LIVELLO. Ad
esempio, le mansioni sono indicate con la qualifica di infermiere, portiere…
o con l’indicazione di un livello (primo, secondo.). la qualifica o il livello
indicano la posizione occupata dal lavoratore all’interno dell’organizzazione
aziendale. La suddivisione in qualifiche e livelli è contenuta nei contratti
collettivi, in cui le mansioni sono suddivise in livelli o qualifiche. È la stessa
legge a stabilire che l’inquadramento del lavoratore dipende dalle mansioni
dedotte nel contratto. La qualifica comprende quindi al suo interne le
mansioni.
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CATEGORIA le categorie sono indicate nell’art 2095 cc; individua 4 grandi
categorie: OPERAI, IMPIEGATI, QUADRI, DIRIGENTI. Chi stabilisce i requisiti
di appartenenza a ciascuna delle categorie? I contratti collettivi. In realtà il
trattamento economico e normativo varia non tanto secondo
l’appartenenza a una categoria piuttosto che a un’altra, ma in funzione del
livello. La vera differenza nelle categorie è tra la categoria dei dirigenti e le
altre 3 categorie. Il valore delle diverse qualifiche nel mercato del lavoro è
fissato dai contratti collettivi, che spesso provvedono a raggruppare le
diverse mansioni raggruppandole per livelli, in base all’importanza delle
mansioni. Lo stesso art 36 della costituzione parla di proporzionalità della
retribuzione in base alla quantità e alla qualità del lavoro svolto: tale
qualità si individua mediante la suddivisione delle mansioni in vari livelli
contrattuali; a ciascun livello corrisponde un determinato trattamento.
MUTAMENTO MANSIONI il ddl ha il potere di mutare unilateralmente le
mansioni concordate nel contratto individuale? Ovviamente sì. Il ddl ha tale
potere unilaterale. il ddl può avere tale esigenza organizzativa durante il
rapporto di lavoro. La disciplina del mutamento delle mansioni è contenuta
nell’art 2103 de cc. Il potere di mutamento delle mansioni da alcuni è
ricompreso nel più generale potere DIRETTIVO del ddl (potere di impartire
ordini e direttive finalizzate allo svolgimento della prestazione di lavoro); per
altri, è espressione di una distinta e autonoma posizione giuridica di
potestà in capo al ddl, denominata IUS VARIANDI. In ogni caso, non è
necessario ottenere il consenso del lavoratore.
Distinzioni  trattandosi di un potere unilaterale, il legislatore ha introdotto
una serie di limiti e condizioni; la prima macro-distinzione è la disciplina in
materia di mutamento di mansioni prima e dopo il JOBS ACT: nel 2015 uno
dei sette decreti attuativi ha riguardato la disciplina del mutamento di
mansioni.
Disciplina prima del JA bisogna fare sotto distinzioni:
1) MANSIONI EQUIVALENTI: si ha una variazione in senso orizzontale: si
attribuiscono mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. La
legge consentiva l’adibizione del lavoratore a mansioni equivalente a
quelle precedentemente svolte. Quindi il limite al potere era quello
dell’EQUIVALENZA. Questa secondo la giurisprudenza corrisponde alla
nozione di professionalità: la giurisprudenza diceva che le nuove
mansioni, per essere equivalenti alle precedenti, devono consentire al
lavoratore l’UTILIZZAZIONE DEL PATRIMONIO PROFESSIONALE
ACQUISITO FINO A QUEL MOMENTO. Il patrimonio professionale è il
bagaglio di competenze e conoscenze maturato nello svolgimento di
mansioni fino ad allora svolte. Era nozione che mirava a tutelare la
professionalità del lavoratore. Tale norma era considerata
eccessivamente statica in quanto lasciava pochi margini di operatività al
ddl. Per esempio, non vi era la possibilità di adibire il lavoratore a
mansioni dello stesso livello di quelle precedenti, ma attinenti a un

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settore diverso. In uno stesso livello vi possono essere mansioni
eterogenee tra di loro.
Negli ultimi anni una parte della giurisprudenza aveva affermato la
possibilità per la contrattazione collettiva di introdurre CLAUSOLE DI
FUNGIBILITA’ sono clausole che introducevano meccanismi di
MOBILITA’ ORIZZONTALE, prevedendo la fungibilità (quindi
l’equivalenza) di mansioni appartenenti allo stesso livello.
L’adibizione a mansioni equivalenti prevede in ogni caso la garanzia di
IRRIDUCIBILITA’ DELLA RETRIBUZIONE: non è possibile ridurre la
retribuzione nel momento in cui si adibisce il lavoratore a mansioni
equivalenti.
2) MANSIONI INFERIORI il ddl attribuisce al lavoratore mansioni inferiori
(DEQUALIFICAZIONE O DEMANSIONAMENTO). Tale possibilità era
vietata prima del jobs act: nell’art 2103 vi era una norma che vieta ogni
PATTO CONTRARIO alla disciplina stabilita, che consente al ddl di mutare
le mansioni ma con il limite dell’equivalenza. Uno specifico
peggioramento qualificativo era quindi vietato. Il demansionamento era
quindi VIETATO. La legge prevedeva però eccezioni in cui era consentito
al ddl adibire il lavoratore a mansioni inferiori: tali eccezioni erano
state introdotte nell’interesse del lavoratore, per tutelare o la sua
salute o come alternativa al licenziamento. Tali eccezioni riguardano o le
lavoratrici madri (fino a sette mesi dopo il parto) o nel caso di lavoratori
in esubero (per evitare il licenziamento, il legislatore consente di adibire
quei lavoratori a mansioni inferiori). Anche la giurisprudenza introduce
una propria deroga all’art 2103: ammette talvolta la legittimità del
PATTO DI DEQUALIFICAZIONE, consentendo che tale patto potesse
essere considerato legittimo per il fine proprio di salvaguardare la
occupazione del lavoratore.
3) MANSIONI SUPERIORI il ddl può anche spostare il lavoratore a
mansioni SUPERIORI. Vi è una variazione in senso VERTICALE. In linea
generale, tale adibizione non esige il consenso del lavoratore, ma può
esigerlo sia quando la adibizione è definitiva (in tal caso la adibizione
modifica l’oggetto del contratto) o quando tale adibizione imponesse
obblighi e responsabilità che il lavoratore non era disponibile a
assumersi. Tale adibizione comportava l’attribuzione del trattamento
economico e normativo corrispondente alle mansioni attribuite.
La legge dice inoltre che l’adibizione a mansioni superiori diviene
DEFINITIVA quando tali mansioni vengono svolte per un periodo
superiore a 3 mesi. In tali casi, il lavoratore acquisisce il diritto alla
PROMOZIONE AUTOMATICA.

DISCIPLINA DOPO JOBS ACT IL DLGS 81 DEL 2015 ha modificato l’art


2103. La direzione è una notevole estensione dello ius variandi del ddl.

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1) SPOSTAMENTO IN SENSO ORIZZONTALE la legge elimina il
requisito della equivalenza. Il nuovo limite introdotto è sufficiente
che le nuove mansioni siano riconducibili allo stesso livello e
categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte. In base a tale formulazione, il ddl può tranquillamente adibire
il lavoratore, ad esempio, dall’ufficio legale all’ufficio marketing. Si è
quindi ampliato il potere del ddl.
2) MANSIONI INFERIORI col jobs act cambia molto: è consentita
anche l’assegnazione a mansioni inferiori, purché rientranti nella
medesima CATEGORIA LEGALE. (operai, dirigenti.). però la legge
introduce alcune condizioni o limiti: si può adibire il lavoratore a
mansioni inferiori quando si verifica una modifica degli assetti
organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore (es.
soppressione del posto di lavoro); o nelle ulteriori ipotesi previste
dalla contrattazione collettiva. Altre cautele sono che l’adibizione a
mansioni inferiori deve essere comunicata per iscritto a pena di
nullità. RESTA FERMA LA GARANZIA DI IRRIDUCIBILITA’ DELLA
RETRIBUZIONE.
Ovviamente con il mutamento della disciplina, può accadere che il
lavoratore venga adibito a mansioni che comportano difficoltà per il
lavoratore: per questo, la legge prevede che ove le nuove mansioni
lo richiedano, il ddl è obbligato a fornire al lavoratore la
FORMAZIONE NECESSARIA per svolgere tali mansioni. In realtà, il
mancato adempimento di tale obbligo del ddl, non comporta la
nullità dell’adibizione. Quantomeno, il mancato adempimento
dovrebbe però comportare l’esonero del lavoratore da eventuali
responsabilità in caso di non corretta esecuzione delle mansioni.

3) MANSIONI SUPERIORI anche qui vi è una modifica pro-datore di


lavoro: la legge dice che l’assegnazione diviene definitiva quando le
mansioni sono svolte per 6 mesi continuativi: il lavoratore, quindi,
deve attendere un periodo di tempo superiore prima di acquisire il
diritto alla promozione automatica.
PRINCIPI GIURISPRUDENZIALI cosa succede se il lavoratore è
adibito a mansioni inferiori al di fuori dei limiti imposti? ovviamente,
il lavoratore può chiedere al giudice la dichiarazione di nullità
dell’atto e una pronuncia di condanna del ddl e la reintegrazione
nelle mansioni svolte in precedenza (salvo risarcimento del danno
subito a causa della dequalificazione). L’onere della prova è
ovviamente a carico del lavoratore che deve dimostrare l’esistenza di
un demansionamento e della sussistenza di un danno, oltre che il
nesso di casualità tra demansionamento e danno.

69
POTERE DISCIPLINARE è uno delle espressioni del potere direttivo
del ddl; la violazione degli obblighi da parte del lavoratore, comporta
l’irrogazione di sanzioni disciplinari.
Art 2106 cc la violazione degli obblighi dagli artt 2104 e 2105 può
dar luogo a sanzioni disciplinari (tali artt disciplinano l’obbligo di
diligenza e di fedeltà). Ma in sostanza ogni inadempimento da parte
del lavoratore dell’obbligazione può dar luogo a sanzione
disciplinare. È un’ulteriore posizione di supremazia tipica del
rapporto di lavoro, necessaria per l’organizzazione dell’attività
produttiva. Il potere consiste nel potere di irrogare sanzioni ai
dipendenti e trova fondamento nel contratto di lavoro subordinato.
Importante è la differenza rispetto al pubblico impiego, dove invece il
ddl in presenza di inadempimento del lavoratore non può ma DEVE
applicare sanzioni disciplinari: non è una facoltà, bensì un obbligo.
Le sanzioni disciplinari sono una sorta di pene di natura PRIVATA;
ovviamente, come per quasi tutti gli altri poteri imprenditoriali,
anche per questo potere la legge e la contrattazione collettiva hanno
introdotto importanti limiti al potere del ddl di irrogare sanzioni
disciplinari; limiti sia di carattere sostanziale ma soprattutto
procedimentali. Si introduce quindi una procedimentalizzazione.
LIMITI PROCEDURALI sono stati introdotti dalla legge 300 del 70,
all’art 7; tale articolo ha introdotto diversi limiti procedimentali al
concreto esercizio del potere disciplinare. Tali limiti sono introdotti a
garanzia del lavoratore, sia a non essere punito ingiustamente, sia a
conoscere preventivamente le regole da rispettare e le sanzioni
previste per ciascuna violazione; a garanzia del lavoratore vi è anche
la garanzia di informazione di qual è l’accusa, permettendogli di
potersi difendere prima della irrogazione della sanzione. Importante
dire che il mancato rispetto delle procedure, come la violazione del
diritto di difesa, determinano la NULLITÀ della sanzione inflitta. Per
altro, in alcune situazioni, anche nell’ambito del lavoro privato,
l’esercizio del potere disciplinare è doveroso, non essendo più una
facoltà ma un obbligo: il potere disciplinare in tal caso è a tutela della
protezione di interessi distinti da quelli del ddl, come interessi
generali. Ad esempio, il ddl deve esercitare il potere disciplinare se il
lavoratore non osserva la normativa sulla sicurezza del lavoro;
oppure, le condotte illecite di un dipendente nei confronti di un altro
richiedono l’intervento del ddl, che deve esercitare l’azione
disciplinare. Il mancato esercizio del potere disciplinare può infatti
determinare o aggravare la responsabilità del ddl nei confronti dei
soggetti danneggiati.
CODICE DISCIPLINARE: prima di irrogare una sanzione, il ddl deve
predisporre il codice disciplinare e pubblicizzarlo. Ciò in conformità
di un principio proprio della legge penale, secondo cui NESSUNO

70
PUO’ ESSERE PUNITO PER UN FATTO CHE NON SIA PREVEDUTO
DALLA LEGGE COME REATO; il codice disciplinare deve contenere le
norme disciplinari relative alle sanzioni applicabili; alle infrazioni in
relazione a cui ciascuna sanzione può essere applicata; la procedura
di contestazione delle sanzioni. Ovviamente, secondo la
giurisprudenza prevalente, non è necessaria nel codice disciplinare
l’indicazione analitica di tutte le infrazioni e delle singole sanzioni
applicabili;
il codice disciplinare deve applicare quanto è stabilito in materia da
accordi e contratti collettivi di lavoro, ove esistano (art 7 legge 300).
Il ddl può quindi anche fare riferimento alla regolamentazione
contenuta nel contratto collettivo. In tal caso non sarà necessario
predisporre un autonomo codice disciplinare aziendale. Se non vi è il
contratto collettivo o se questo non è applicabile, il codice
disciplinare, essendo un obbligo del ddl, è predisposto
unilateralmente da questo.
PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ regola fondamentale, limite
sostanziale; è una regola legale di proporzionalità tra infrazione e
sanzione. Sia il contratto collettivo, che il ddl devono rispettare tale
regola legale inderogabile. Tale regola è posta dall’art 1206 che pone
il seguente principio: la sanzione va applicata secondo la gravità
dell’infrazione. Se non viene rispettato tale principio, la conseguenza
è la nullità della sanzione.
Elementi rilevanti ai fini della valutazione della proporzionalità
vengono in essere sia circostanze oggettive (danno prodotto
all’azienda; vantaggio per il lavoratore) sia quelle soggettive
(elemento psicologico, intensità del dolo, reazione del lavoratore
all’addebito, buona fede, particolari stati emotivi.)
La legge inoltre vieta sanzioni disciplinari che comportano
mutamenti definitivi del rapporto (limite sostanziale). (Fa eccezione
il licenziamento disciplinare, ove consentito: la giurisprudenza
attuale considera questo come una sanzione disciplinare, la più
grave, al fine di estendere anche al licenziamento disciplinare le
garanzie procedurali che assistono l’irrogazione delle sanzioni
disciplinari diverse dal licenziamento). Quindi non può essere, per
esempio,
disposta una modifica peggiorativa delle mansioni in funzione
punitiva; anche un trasferimento non può essere disposto come
sanzione disciplinare, in quanto anche esso comporta un mutamento
definitivo della sede di lavoro; anche la riduzione della retribuzione è
una sanzione che non può essere disposta in funzione punitiva.
Quindi, solo sanzioni conservative possono essere applicate: la
sanzione è CONSERVATIVA quando mira a consentire la proficua
prosecuzione del rapporto di lavoro.

71
SANZIONI CONSERVATIVE sono 3: rimprovero (verbale o scritto);
multa; sospensione dal lavoro o dalla retribuzione.
La legge fissa inderogabilmente nell’art 7 sia l’entità massima della
multa (che non potrà mai superare le 4 ore della retribuzione base),
sia l’entità massima della sospensione dal lavoro (che non può
superare i 10 gg).
RECIDIVA  altro limite importante; la legge dice che il ddl non può
tenere conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari, decorsi 2
anni dalla loro applicazione. La recidiva assume quindi rilievo nei
limiti del biennio; solitamente comporta sempre la applicazione di
una sanzione più grave.
PUBBLICITA’ limite PROCEDURALE. il codice disciplinare deve
essere predisposto dal ddl; inoltre, il ddl deve anche pubblicizzarlo
prima che si verifichino eventuali infrazioni. La pubblicizzazione
avviene mediante AFFISSIONE in luogo accessibile a tutti i
lavoratori. La giurisprudenza, con indirizzo eccessivamente rigoroso,
non ammette forme equipollenti all’affissione. Ha escluso che una
forma equipollente alla pubblicità possa essere la consegna del
codice a ciascun lavoratore. L’affissione è una forma di pubblicità
COSTITUTIVA; è sufficiente, secondo la giurisprudenza, da parte del
ddl l’affissione dell’intero contratto collettivo.
PROCEDIMENTO DISCIPLINAREpredisposto e pubblicizzato il
codice disciplinare, una volta che il ddl viene a conoscenza della
infrazione del lavoratore, il ddl deve preventivamente contestare
l’addebito al lavoratore, inviandogli la lettera di contestazione. Il
ddl non può quindi irrogare subito la sanzione. la lettera di
contestazione ha delle caratteristiche: deve essere SCRITTA, non è
possibile contestazione orale (tranne nel caso del rimprovero
verbale); deve essere specifica e precisa: deve innanzi tutto indicare
il fatto, NON GLI EFFETTI DEL FATTO, in modo sufficiente a far sì che il
lavoratore comprenda la accusa che gli viene rivolta. Non sono
ammessi giudizi e valutazione del fatto, che deve essere solo
descritto; allo stesso modo, il ddl non può utilizzare espressioni
generiche, come “scarsa collaborazione”, perché si deve indicare
specificamente le circostanze di fatto; deve essere tempestiva, in
relazione al momento in cui il ddl è venuto a conoscenza della
infrazione: non viene fissato un tempo preciso entro cui il ddl deve
contestare il fatto, ma il ddl non può attendere un tempo più lungo
di quello necessario ad acquisire ogni informazione utile.
Ovviamente, la valutazione della tempestività dipende anche dalla
complessità degli accertamenti necessari o dalla complessità
dell’organizzazione aziendale; deve essere, infine, immutabile: la
contestazione deve essere immutabile (rispetto ai fatti addebitati), in

72
quanto si vuole evitare che il ddl individui ex post nuove e diverse
infrazioni che possono giustificare la sanzione irrogata.
DIFESA DEL LAVORATORE il lavoratore ha diritto di essere sentito a
sua difesa dal ddl (diritto a difesa). Si può fare assistere anche da un
sindacalista nel suo diritto. La difesa può avvenire sia oralmente
(audizione orale); ma spesso si fa per iscritto, inviando le cd
GIUSTIFICAZIONI entro 5 giorni. Si garantisce quindi un
contraddittorio prima della irrogazione della sanzione. Alcuni
contratti collettivi fissano un termine più ampio rispetto ai 5 gg. I 5 gg
sono la cd pausa di riflessione, perché evita decisioni a caldo da parte
del ddl. Dopo le giustificazioni o trascorso il tempo di attesa minimo
di 5 giorni, il ddl può irrogare la sanzione, essendosi conclusa la
procedura disciplinare. Non è fissato un termine per l’irrogazione
della sanzione, dopo le giustificazioni: ma anche in tal caso il ddl
deve provvedere con una certa tempestività, altrimenti si desume
l’acquiescenza alle giustificazioni fornite o si presume la non volontà
di irrogare le sanzioni. Alcuni contratti collettivi fissano un termine
massimo per la irrogazione della sanzione.
Nell’atto di irrogazione, il ddl non è tenuto a replicare alle
giustificazioni del lavoratore; può limitarsi a dichiarare di ritenere
infondate le giustificazioni fornite e irroga quindi la sanzione che
ritiene opportuna (rimprovero, multa, sospensione dal lavoro o dalla
retribuzione, O licenziamento disciplinare). Con l’irrogazione,
termina la fase del procedimento disciplinare.
Il lavoratore può però impugnare la sanzione: se il lavoratore ritiene
che la sanzione sia ingiusta, illegittima o sproporzionata, può
impugnarla. Essa può essere impugnata in sede giurisdizionale
oppure innanzi a un collegio di conciliazione e arbitrato, costituita
presso la DTL appositamente. L’attivazione della procedura arbitrale
è una via alternativa ed è sottoposta a termine di decadenza di 20 gg
dall’irrogazione della sanzione ed è incentivata dal legislatore,
proprio in quanto determina la sospensione della sanzione fino alla
decisione del collegio.
Il ricorso al giudice è improponibile se le parti hanno accettato
l’arbitrato. Il ricorso al giudice non ha invece termini prescrizionali,
perché si fa valere la nullità della sanzione.
Se il ddl non intende sottoporsi all’arbitrato, può egli stesso adire a
sua volta l’autorità giudiziaria, facendo un ricorso di accertamento
della legittimità della sanzione irrogata: in tal caso la sanzione è
sospesa fino alla definizione del giudizio.
La sanzione diviene INEFFICACE anche nel caso in cui il ddl non
provveda entro 10 gg dall’invito datogli dalla DTL a nominare il
proprio arbitro o ad adire l’autorità giudiziaria.

73
ORARIO DI LAVORO
Il contratto di lavoro subordinato è un contratto di durata: da esso
derivano obbligazioni che per natura sono destinate ad essere
adempiute nel corso del tempo; per quanto riguarda l’obbligazione
di lavorare, l’interesse del ddl è soddisfatto nel lavoro subordinato
dall’esecuzione di una prestazione CONTINUATIVA, al contrario di ciò
che avviene nel contratto di lavoro autonomo, in cui l’obbligazione è
soddisfatta da un opus, cioè un opus distinto dall’attività svolta per
la realizzazione del risultato.
La dimensione temporale rileva perché determina l’esigenza di tutela
della integrità fisica e psichica del lavoratore (problema di tutela
della salute): i primi interventi del legislatore in materia di lavoro
sono stati diretti a limitare la durata della prestazione di lavoro
giornaliera e settimanale. Gli interventi allo stesso tempo erano
diretti ad assicurare al lavoratore periodi di riposo adeguati.
Con l’espressione orario di lavoro si indica QUANTITA’ E
DISTRIBUZIONE: sia la quantità complessiva della prestazione
lavorativa dovuta in un determinato periodo temporale (di solito una
settimana); ma anche collocazione e distribuzione della prestazione
in un determinato arco di tempo. (giorno, settimana o anno).
L’orario di lavoro può essere stabilito nel contratto individuale di
lavoro; esso può anche prevedere un orario di lavoro ridotto, come
nel contratto di lavoro part time, dove oggetto del contratto è una
prestazione di lavoro ridotta rispetto all’orario normale; più
frequentemente, l’orario di lavoro è stabilito dalla contrattazione
collettiva, che da tempo prevede una disciplina convenzionale del
tempo della prestazione più favorevole rispetto a quella legale.
Alcune regole fondamentali anzi tutto, il ddl non può modificare
unilateralmente la quantità della prestazione lavorativa DOVUTA.
Una modifica dell’orario implicherebbe una modifica dell’oggetto del
contratto; si richiede quindi il consenso del lavoratore. La quantità
dovuta non è quindi modificabile, ma può essere modificata solo
tramite accordo tra le parti; il ddl non può nemmeno modificare
unilateralmente la DISTRIBUZIONE DELL’ORARIO di lavoro nell’unità
di tempo, quando questa distribuzione è prevista nel contratto
individuale. Se invece la distribuzione non è prevista nel c
individuale, allora il ddl può modificare non la QUANTITÀ
COMPLESSIVA, ma la distribuzione della quantità, in ragione del
mutamento delle sue esigenze aziendali e nei limiti previsti dalla
legge e dalla c collettiva. (solo entro questi limiti è riconosciuto il cd
potere DISTRIBUTIVO).
LIMITI ORARIO DI LAVORO la disciplina dell’orario di lavoro
coinvolge vari interessi; quindi, vi è anche un CONTEMPERAMENTO
tra esigenze diverse; anzi tutto, vi è l’esigenza di tutelare la persona

74
del lavoratore contro un’eccessiva durata della prestazione di
lavoro; questo è il primo interesse coinvolto nella disciplina. Poi vi è
un interesse diverso, quello della riduzione della disoccupazione
mediante la riduzione della quantità di lavoro di ciascun occupato;
questo per una migliore ripartizione delle occasioni di lavoro, anche
mediante l’incentivazione del part-time. Anche tale interesse di
carattere generale viene riconosciuto. Un altro interesse coinvolto è
quello di una flessibilità di utilizzazione dei lavoratori da parte
dell’impresa: quindi un interesse del ddl ad utilizzare più
flessibilmente i lavoratori, per accrescere la competitività
dell’impresa. Vi è anche un interesse del lavoratore ulteriore: una
personalizzazione dei tempi di svolgimento della prestazione di
lavoro, per un miglior coordinamento con le proprie esigenze di vita
(es. un lavoratore che preferisce lavorare in un determinato arco di
tempo piuttosto che in un altro). il legislatore ha dovuto quindi
contemperare interessi diversi.
FONTI DISCIPLINA ORARIO vi sono fonti costituzionali, legislative e
la contrattazione collettiva. Vi è l’art 36 c 2 che riserva alla legge di
determinare la durata massima della giornata lavorativa; in Italia, a
lungo la disciplina dell’orario è stata regolata da una legge del 1923
con una disciplina vincolistica. Essa fissava la durata massima della
giornata lavorativa (8 h) ma anche il limite massimo dell’orario
settimanale (48 h); successivamente tale disciplina è stata modificata
dal legislatore, per contenere il ricorso al lavoro straordinario (lavoro
prestato oltre il normale orario di lavoro) e per adeguare la durata
del lavoro massimo settimanale, ridotto da 48 a 40 h settimanali. Già
la contrattazione collettiva aveva modificato la disciplina dell’orario
di lavoro settimanale, distribuendo su 5 giorni le 40 ore.
In linea generale, si deve segnalare che nel nostro ordinamento la
disciplina legislativa e della contrattazione collettiva, ha registrato
una tendenza costante alla RIDUZIONE dell’orario di lavoro, sotto
vari profili (sia durata giornaliera, che settimanale e annua). Tale
tendenza caratterizza quasi tutti i paesi europei (in America si lavora
invece più ore rispetto a quanto si lavoro in Europa). Tale tendenza
alla riduzione non è più giustificata solo da esigenza di protezione
della salute del lavoratore, essendo più che altro espressione di
esigenze di POLITICA ECONOMICA. (è uno strumento utilizzato per
combattere la DISOCCUPAZIONE, tramite la riduzione dell’orario di
lavoro, anche al prezzo di riduzioni retributive).
Attualmente la materia dell’orario di lavoro è contenuta nel d lgs 66
del 2003: tale è la fonte principale attualmente vigente; con tale
decreto il legislatore ha dettato una disciplina organica di tutti i
profili di disciplina del rapporto, connessi all’organizzazione
dell’orario di lavoro. Tale organizzazione ha dato attuazione a diverse

75
direttive comunitarie, sia pure tardivamente. L’obbiettivo di tale
legge è soprattutto la FLESSIBILITA’ dell’orario di lavoro, al fine di
migliorare la competitività delle imprese. Non tanto quindi
l’obbiettivo di garantire standard di sicurezza più alti, in quanto tali
standard erano già elevati.
ELEMENTI RIFORMA 2003 anzi tutto, vi è una rilevante apertura
verso la flessibilità nella gestione degli orari di lavoro, per tenere
conto delle mutevoli esigenze dell’impresa; ci sono molti rinvii ai
contratti collettivi; quindi, un’apertura sempre maggiore alla
contrattazione collettiva di secondo livello vi è una gestione
contrattata della flessibilizzazione dell’orario di lavoro: sì più
flessibilizzazione, ma attraverso il controllo della contrattazione
collettiva.
DISCIPLINA anzi tutto, la nuova disciplina non contiene più
L’ESPLICITA PREVISIONE del limite di durata massima del lavoro
giornaliero (otto ore); tale limite è ricavato però indirettamente,
dalla previsione che attribuisce al lavoratore un diritto di riposo della
durata di 11 ore ogni 24 ore. Da questa previsione si può ricavare
che il lavoro giornaliero non può superare le 13 ore.
Per quanto riguarda l’orario di lavoro settimanale, la legge prevede
un orario NORMALE e una durata MASSIMA: l’orario normale
settimanale è di 40 ore, salva la facoltà dei contratti collettivi di
prevedere una durata minore ma soprattutto di riferire quell’orario
normale di lavoro settimanale alla durata media delle prestazioni
lavorative rese in un periodo non superiore all’anno; le 40 ore
settimanali non debbono essere rispettate nella settimana, ma anche
in un arco di tempo più lungo, non superiore all’anno. in una singola
settimana, può anche essere non rispettato l’orario di 40 ore
settimanale, purché tale orario venga rispettato nella MEDIA. Tale
potere viene definito MULTIPERIODO. tale orario multi periodale
costituisce un forte fattore di flessibilizzazione, dando al ddl poteri di
maggiore flessibilizzazione dell’organizzazione di lavoro. Non si
guarda alla singola settimana, ma ad un arco di tempo più ampio.
Così si evita anche la qualificazione come lavoro straordinario, che
comporta costi più alti per il ddl.
La durata massima dell’orario settimanale è fissata dalla c. collettiva,
e non può eccedere le 48 ore, in un periodo determinato non
superiore a 4 mesi (anche qui vi è una multi periodalità).
Lavoro straordinario prolungamento dell’orario di lavoro normale;
ovviamente ha degli oneri maggiori per il ddl. Se il lavoro normale è
riferito a una media plurisettimanale, quello straordinario si verifica
quando si supera la media oraria di lavoro, NON NELLA SINGOLA
SETTIMANA, bensì nell’arco di tempo considerato. Fin dalle origini,
l’atteggiamento del legislatore è stato quello di impedire l’abuso del

76
lavoro straordinario , che presenta una serie di contro indicazioni:
innanzi tutto, potenzialmente vanifica la ratio posta a fondamento
della disciplina dell’orario di lavoro: se si ricorresse
SISTEMATICAMENTE al lavoro straordinario, ci sarebbe un problema
di pericolosità per la salute dei lavoratori e sarebbe vanificata anche
la finalità occupazionale che il legislatore persegue tramite la
riduzione dell’orario di lavoro. Il lavoro straordinario è vantaggioso in
termini economici per il ddl: il costo di un’ora di lavoro straordinario
è inferiore a quello di un’ora ordinaria prestata da un lavoratore
aggiuntivo da retribuire: ecco perché sovente le imprese
preferiscono ricorrere al lavoro straordinario, anziché ampliare il
proprio organico. La legge prevede una serie di disincentivi al lavoro
straordinario: ad esempio, la disciplina precedente al d lgs 2003
prevedeva una maggiorazione contributiva del lavoro straordinario.
Tale previsione è stata oggi abrogata.
Ora, ad esempio, vi è una norma che afferma che il ricorso al lavoro
straordinario deve essere CONTENUTO. Questa è però piuttosto una
norma di principio, avendo valore di auspicio. In ogni caso, il
legislatore consente che entro i limiti di orario di lavoro giornaliero
e settimanale, i contratti collettivi REGOLINO LE MODALITÀ DI
ESERCIZIO DEL LAVORO STRAORDINARIO.
Nell’ipotesi in cui il lavoro straordinario è regolato dalla
contrattazione collettiva, per i lavoratori è obbligatoria la
prestazione di lavoro straordinario richiesta dal ddl, ovviamente in
conformità con la disciplina sindacale. Nel caso in cui non vi sia una
disciplina sindacale applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è
consentito SOLO COL CONSENSO DEL LAVORATORE e vi è un limite
massimo di ore di lavoro straordinario, di 250 ore l’anno.
vi sono talune fattispecie in cui, anche se non vi è una disciplina
sindacale, la prestazione di lavoro straordinario può essere sempre
richiesta dal ddl: si parla di esigenze tecnico produttive alle quali è
impossibile far fronte con l’assunzione di nuovi lavoratori; di causa di
forza maggiore o pericolo imminente alle persone o alla produzione;
di eventi particolari come la partecipazione a mostre, fiere e
manifestazioni.
L’esecuzione del lavoro straordinario comporta una maggiore
gravosità della prestazione, che viene svolta oltre il normale orario
di lavoro; per questo, la prestazione di lavoro straordinario deve
essere COMPENSATA a parte, con una maggiorazione retributiva
prevista dai contratti collettivi. In alternativa o in aggiunta alla
maggiorazione, si possono prevedere riposi compensativi o
aggiuntivi.
ORARIO DI LAVORO cosa si intende? secondo il d lgs 2003, Si
considera orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia a

77
disposizione del ddl e nell’esercizio della sua attività e delle sue
funzioni; si tratta di una definizione ricalcata su quella comunitaria.
Resta confermato il precedente riferimento al lavoro effettivo. la
legge ci dice che non vanno computati nell’orario di lavoro i riposi
intermedi, il tempo per raggiungere la sede della trasferta, il tempo
di reperibilità (compensato invece da una semplice indennità).
L’orario di lavoro è criterio fondamentale per la determinazione e
quantificazione dell’obbligo retributivo del ddl.
SANZIONI in caso di violazione delle disposizioni riguardanti la
durata massima di lavoro settimanale e straordinario, sono previste
sanzioni AMMINISTRATIVE, oltre al risarcimento del danno.
CAMPO DI APPLICAZIONE vi è un elenco di fattispecie che sono
escluse dal campo di applicazione della nuova disciplina
dell’organizzazione dell’orario di lavoro; oppure vi sono fattispecie in
cui si consentono deroghe da parte della c. collettiva. Sono escluse
dal campo di applicazione dei limiti in materia di orario di lavoro
normale e massimo le categorie dei dirigenti e di tutto il personale
direttivo. La ratio di tale esclusione è quella che la durata della
prestazione lavorativa di un dirigente può essere predeterminata dai
lavoratori stessi.
Tra le modalità temporali di svolgimento della prestazione,
annoveriamo il lavoro notturno, ossia il lavoro svolto in un periodo di
almeno 7 ore consecutive che ricomprenda le ore dalle 24 alle 5. È,
quindi, previsto, anzitutto, che, tramite le competenti strutture
sanitarie, possa essere accertata l’inidoneità al lavoro notturno,
ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di provvedere alla
valutazione dello stato di salute del lavoratore, attraverso controlli
preventivi e periodici.
Ove venga accertata l’inidoneità, il lavoratore ha diritto di essere assegnato al lavoro diurno, “in
altre mansioni equivalenti, se esistenti o disponibili”. Non sono obbligati a svolgere lavoro
notturno: la madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o, in alternativa, il padre convivente; l’unico
affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni; il lavoratore che abbia a proprio carico
un soggetto disabile. Altri requisiti soggettivi di esclusione dell’obbligo di effettuare lavoro
notturno possono essere stabiliti dai contratti collettivi.
È stato escluso che possa essere previsto un generale divieto per le
donne. Di conseguenza, il lavoro notturno è vietato alle lavoratrici
esclusivamente nel periodo che intercorre “dall’accertamento dello
stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del
bambino”. Per il lavoratore notturno (ossia colui che per almeno 80
giorni l’anno svolga almeno 3 ore di lavoro nell’orario notturno), è
prevista una durata massima di 8 ore di lavoro nelle 24 ore. La
contrattazione collettiva può fissare un periodo di riferimento più
ampio sul quale calcolare come media tale limite, salvo che per

78
specifiche lavorazioni “che comportano rischi particolari o rilevanti
tensioni fisiche o mentali”.

La contrattazione collettiva può, altresì, definire a favore dei lavoratori notturni riduzioni
dell’orario di lavoro o trattamenti economici indennitari. Infine, è previsto il controllo sindacale, sia
nella fase dell’introduzione del lavoro notturno, sia per quanto riguarda l’obbligo del datore di
lavoro di garantire durante il lavoro notturno un livello di servizi o di mezzi di prevenzione o
protezione adeguato ed equivalente a quello previsto per il lavoro diurno, nonché di predisporre
specifiche misure di protezione personale e collettiva per i lavoratori notturni addetti a lavorazioni
che comportano rischi particolari.
FERIE Il lavoratore ha diritto, oltre ad un periodo di riposo giornaliero (pari ad almeno 11 ore
consecutive), a periodi di riposo settimanale e annuale, entrambi previsti dall’articolo 36, comma
3, della Costituzione, che espressamente ne stabilisce la irrinunziabilità. Per quanto riguarda il
riposo settimanale, la legge regola la durata e la periodicità stabilendo che il lavoratore ha diritto
“ogni sette giorni ad un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive”, che non è
sovrapponibile ai periodi di riposo giornaliero.
Tale periodo di riposo minimo “è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni”,
cosicché al termine di 6 giorni di lavoro il riposo settimanale può “slittare”. In questo ultimo caso,
entro la fine della settimana seguente, il lavoratore dovrà fruire di almeno due periodi di riposo
consecutivo di 24 ore. Sono, peraltro, ammesse ampie deroghe. In particolare, ai contratti collettivi
è consentito stabilire previsioni diverse, “a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati
periodi equivalenti di riposo compensativo”, o, nei “casi eccezionali” in cui ciò non sia possibile,
“sia accordata una protezione appropriata”.
Inoltre, è previsto che il riposo settimanale coincida, “di regola”, con la domenica. Il riposo
settimanale può essere fissato in un giorno diverso, a “rotazione” tra il personale interessato, nel
caso di lavoratori addetti “a modelli tecnico-organizzativi di turnazione particolare” o addetti ad
attività che non consentano la sospensione del lavoro nella giornata domenicale. Per quanto
riguarda il riposo annuale, esso è costituito dalle “ferie”, che devono essere “retribuite” e non
possono avere durata inferiore a 4 settimane.
La legge non stabilisce il periodo in cui le ferie devono essere godute, rimettendone la
determinazione all’imprenditore, il quale a tal fine deve tenere conto sia della “esigenza
dell’impresa” che “degli interessi del prestatore di lavoro”. Nell’ipotesi in cui non sia possibile
realizzare un contemperamento tra esigenze dell’impresa e interessi del lavoratore, prevalgono le
prime. Il potere del datore di lavoro di stabilire il periodo di fruizione delle ferie è, però, sottoposto
a limiti ulteriori. Anzitutto, per consentire che le ferie realizzino effettivamente la funzione tipica di
reintegrazione delle energie psico-fisiche, esse devono essere godute in modo “possibilmente
continuativo”.
Inoltre, salva diversa previsione dei contratti collettivi, “almeno due settimane” devono essere
godute entro la fine dell’anno in cui le ferie stesse sono state maturate e il datore di lavoro è
obbligato ad accogliere l’eventuale richiesta del lavoratore di fruirne in modo non frazionato. Le
restanti due settimane devono, comunque, essere godute “nei 18 mesi successivi al termine

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dell’anno di maturazione”. Infine, il datore di lavoro non può imporre la fruizione delle ferie né
durante il decorso del preavviso di licenziamento, né, tantomeno, durante i periodi nei quali il
rapporto di lavoro è già sospeso per effetto di altre cause legali. Nel caso in cui durante il periodo
di ferie si verifichi una malattia tale da comprometterne la finalità di riposo e di svago, il decorso
delle ferie è sospeso.
Così come il lavoratore non può rinunziare al diritto delle ferie, non è consentito neppure che tale
diritto venga sostituito con un mero equivalente economico, che in passato era solitamente
previsto dai contratti collettivi con la denominazione di “indennità per ferie non godute”. Al fine di
sollecitare e rendere effettivo il godimento delle ferie, l’erogazione di tale indennità è ora vietata
nel corso del rapporto di lavoro, ed è consentita eccezionalmente solo quando, alla cessazione del
rapporto stesso, residuino giorni di ferie maturate e ancora non fruite.
Il principio di irrinunciabilità delle ferie e dei riposi riguarda la durata minima prevista dalla legge.
Pertanto, i giorni di riposo o di ferie maturati per effetto di trattamenti più favorevoli (rispetto al
minimo legale) possono essere ceduti dai lavoratori a loro colleghi che abbiano necessità di
assistere figli minori per particolari condizioni di salute, nella misura, alle condizioni e secondo le
modalità stabilite dalla contrattazione collettiva. Da ultimo, vanno ricordate le altre ricorrenze
festive, diverse dalla domenica. Durante tali festività, ove il lavoratore svolga la sua attività, ha
diritto ad una retribuzione aggiuntiva.
LAVORO AGILE non è un nuovo tipo di contratto di lavoro, bensì una modalità di esecuzione del
rapporto di lavoro subordinato , che le parti possono stabilire mediante accordo individuale.
L’accordo può essere concluso sia al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro che nel
suo svolgimento, deve essere stipulato PER ISCRITTO e deve essere comunicato ai servizi pubblici
competenti. Ciò che contraddistingue il lavoro agile è l’ASSENZA di precisi vincoli di orario o di
luogo di lavoro.
ORARIO le parti sono tenute ad osservare i soli limiti di durata massima giornaliera e settimanale
derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva; LUOGO la prestazione può essere svolta in
parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno, senza una postazione fissa. Per la parte di
prestazione svolta all’esterno, il luogo di lavoro è scelto dal lavoratore, che lo può modificare
liberamente nel tempo.
La legge prevede che sia possibile l’utilizzo di strumenti tecnologici; il ddl non è inoltre obbligato a
stipulare accordi per l’esecuzione del lavoro in modalità agile, ma ove intenda farlo deve
riconoscere priorità alle richieste formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione
del congedo di maternità , e dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità.
In conseguenza all’epidemia da COVID 19, il legislatore ha promosso fortemente il ricorso al lavoro
agile, consentendo che esso potesse essere attivato dal ddl anche in assenza di accordo individuale
(dalla drammatica vicenda deriva un forte impulso alla diffusione dello smart working).
Per quanto riguarda la disciplina, il legislatore detta poche disposizioni e rinvia per il resto
all’accordo individuale.
Le disposizioni speciali prevedono: responsabilità del ddl per il buon funzionamento e la sicurezza
degli strumenti tecnologici eventualmente assegnati al lavoratore; diritto del lavoratore ad un

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trattamento economico non inferiore a quello applicato ai lavoratori che operano all’interno
dell’azienda; obbligo del ddl di garantire la sicurezza e la salute del lavoratore; diritto del
lavoratore alla tutela contro gli infortuni e le malattie professionali ..
All’accordo individuale è invece rimessa la regolamentazione degli ulteriori profili del rapporto di
lavoro. L’accordo con cui le parti concordano la modalità di lavoro agile può essere a tempo
determinato o indeterminato; in entrambi i casi è prevista la facoltà di recesso unilaterale. In caso
di accordo a tempo indeterminato , il recesso può avvenire ad nutum, salvo un preavviso non
inferiore a 30 gg. Tale preavviso non potrà essere inferiore a 90 gg se il lavoratore rientra nella
categoria dei disabili: in tal caso si assicura un maggiore periodo di tempo, utile per consentire
un’adeguata riorganizzazione dei percorsi di lavoro.
Il recesso può avvenire senza preavviso laddove ricorra un giustificato motivo , sia nell’accordo a
tempo indeterminato che determinato. Il giustificato motivo può riguardare esigenze di natura
aziendale , così come esigenze personali del lavoratore. L’esercizio della facoltà di recesso
determina INTEGRALE RIPRISTINO delle ordinarie modalità della prestazione di lavoro svolta nei
locali aziendali.
COLLOCAMENTO MIRATO DEI DISABILI
Tra i regimi speciali di avviamento al lavoro, una particolare rilevanza sociale è rivestita dal
“collocamento mirato” dei disabili. In coerenza con i nuovi indirizzi adottati in materia di servizi per
l’impiego, la legge 68 del 1999 ha perseguito l’obiettivo della “promozione dell’inserimento e
dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di
sostegno e di collocamento mirato”.
Il sistema del “collocamento mirato” è costituito da un insieme “di strumenti tecnici e di supporto
che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative
e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni
positive e soluzione dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni
interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.
A questi fini, sono considerati disabili: i soggetti affetti da menomazioni fisiche, psichiche,
sensoriali e intellettive “che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per
cento”; gli invalidi la cui “capacità di lavoro”, in occupazioni “confacenti” alle loro “attitudini”, sia
ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo; gli
invalidi del lavoro “con un grado di invalidità superiore al 33 per cento”; le persone non vedenti e
sordomute e gli invalidi di guerra, militari e civili.
L’obbligo di assunzione grava su tutti i “datori di lavoro pubblici e privati” che occupino 15 o più
dipendenti, ma in modo differenziato a seconda della dimensione dell’organico. Precisamente, chi
occupa più di 50 dipendenti, deve assumere “disabili” in numero pari al 7 per cento dei lavoratori
occupati; quando, invece, sono occupati da 36 a 50 e da 15 a 35 dipendenti, i “disabili” da
assumere sono, rispettivamente, due e uno.
Ai fini dell’assolvimento di tale obbligo, sono computabile anche i dipendenti divenuti disabili
prima della costituzione del rapporto di lavoro, pur non essendo stati assunti tramite il
collocamento obbligatorio, a condizione che la riduzione della loro capacità lavorativa sia

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superiore al 60%, o soffrano di minorazioni specificamente individuate, o di una “disabilità
intellettiva e psichica” con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%.
Per contro, ai fini dell’assolvimento della “quota” di posti di lavoro riservati ai disabili, non sono
computabili i lavoratori che diventino inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in
conseguenza di infortunio o malattia, nel caso in cui abbiano subito una riduzione della capacità
lavorativa inferiore al 60% e in tutti i casi in cui l’inabilità sia stata causata dall’inadempimento del
datore di lavoro alle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.
I datori di lavoro che abbiano più unità produttive, ed i datori di lavoro che esercitino imprese
facenti parte di un “gruppo”, possono operare una “compensazione” tra il numero di disabili
assunti in ciascuna singola unità produttiva, o impresa. Cosicché i disabili eventualmente assunti in
eccedenza (rispetto alla quota) in una di esse sono utilizzabili per coprire l’insufficiente numero di
disabili assunto presso altre unità produttiva dello stesso datore di lavoro, o altra impresa dello
stesso “gruppo”.
Infine, l’obbligo di assumere “disabili” è temporaneamente sospeso nei confronti delle imprese
che abbiano ottenuto interventi di integrazione salariale o abbiano avuto una procedura di
mobilità. Per quanto riguarda le modalità dell’assunzione, questa avviene o mediante richiesta di
avviamento agli uffici competenti, ovvero mediante la stipula di convenzioni con gli stessi uffici. Il
decreto legislativo 151 del 2015 ha introdotto la regola che la richiesta di avviamento sia
“nominativa”, e che possa essere preceduta dalla domanda agli uffici competenti di effettuare una
preselezione tra i soggetti aventi diritti che siano interessati alla specifica occasione di lavoro.
Soltanto nel caso di mancata assunzione entro il termine di 60 giorni dal momento in cui è sorto
l’obbligo di assumere, gli uffici competenti avviano al lavoro un disabile in possesso della qualifica
richiesta o di altra qualifica “concordata” con il datore di lavoro; ove ciò risulti impossibile, può
essere avviato un lavoratore di qualifica “simile”, secondo l’ordine di graduatoria e previo
addestramento o tirocinio.
Periodicamente, i datori di lavoro devono altresì inviare agli uffici competenti un “prospetto
informativo” sulla situazione dell’organico e tale prospetto, ove da esso risulti una divergenza
rispetto alla quota di obbligo, è considerato dalla legge atto idoneo a configurare una richiesta di
avviamento per il numero di disabili mancanti. Con la “convenzione”, invece, il datore di lavoro
concorda con gli uffici competenti un programma “mirato al compimento degli obiettivi
occupazionali” perseguiti dalla legge secondo “tempi” e “modalità” più flessibili.
Sono consentite, inoltre, anche specifiche convenzioni (definite, rispettivamente, di “inserimento
lavorativo temporaneo con finalità formative” e “convenzioni di inserimento lavorativo”) in base
alle quali il datore di lavoro può assolvere, in parte, i propri obblighi di assunzione impegnandosi
ad affidare commesse di lavoro a soggetti disponibili ad assumere le persone disabili. La violazione
degli obblighi di assunzione è punita con l’irrogazione di sanzioni amministrative, oltreché con
l’esclusione dalla partecipazione a bandi per appalti pubblici e da rapporti convenzionali o di
concessione con pubbliche amministrazioni.
La tutela legale dei disabili, peraltro, ha ad oggetto anche lo svolgimento del rapporto di lavoro. A
tutela della salute e della conservazione del posto di lavoro, il datore di lavoro non può richiedere
al disabile “una prestazione non compatibile con le sue minorazioni”. Ove venga accertato che le
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condizioni di salute del disabile siano divenute incompatibili con la prosecuzione della prestazione
lavorativa, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto fino a quando persista
tale incompatibilità.
Il datore di lavoro può, quindi, licenziare il disabile soltanto quando l’apposita commissione
prevista dalla legge accerti che, pur “attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del
lavoro” sia definitivamente impossibile reinserire il lavoratore all’interno dell’azienda. In ogni caso,
al datore di lavoro non è consentito il recesso per giustificato motivo oggettivo, o per riduzione di
personale, qualora, all’atto della cessazione del rapporto, risulti scoperta la quota di posti di lavoro
da riservare ai disabili.
Il potere di recesso del datore di lavoro è, infine, limitato anche nel caso di lavoratori che non
siano stati assunti obbligatoriamente e che siano divenuti disabili durante il rapporto di lavoro per
infortunio sul lavoro o malattia professionale. In questa ipotesi, l’infortunio o la malattia non
costituiscono giustificato motivo di licenziamento ove il lavoratore possa essere adibito a mansioni
equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori.
AMMORTIZZATORI SOCIALI IN COSTANZA DI RAPPORTO DI LAVORO
L’ordinamento riconosce all’imprenditore il potere di procedere a licenziamenti collettivi nel caso
di eccedenze di personale. La legge, però, prevede una disciplina volta a favorire la conservazione
dell’occupazione e, nello stesso tempo, a tutelare il reddito dei lavoratori nel caso in cui
l’eccedenza sia temporanea. A tal fine, ha introdotto la disciplina della “cassa integrazione
guadagni” avente il compito di erogare integrazioni salariali nelle ipotesi di sospensione o
riduzione temporanea della prestazione di lavoro determinata da fatti riguardanti l’impresa.
La Cassa interveniva, originariamente, ad integrare le retribuzioni degli operai dell’industria che
avessero subito una riduzione dell’orario di lavoro (ed una conseguente riduzione della
retribuzione) a causa di eventi che non fossero “imputabili” né agli imprenditori né ai lavoratori.
Nel tempo, tuttavia, il campo di intervento della Cassa integrazione guadagni è stato
progressivamente esteso. Si è affermata una tendenza all’utilizzo delle integrazioni salariali per fini
meramente assistenziali.

Molto spesso, infatti, esse sono state concesse anche periodi ben superiori a quelli
originariamente previsti, ed in situazioni aziendali nelle quali la sospensione del lavoro non è
affatto temporanea, in quanto non vi è alcuna prospettiva di effettiva ripresa dell’attività
produttiva. La crisi economica del 2008, poi, con i conseguenti effetti sul tessuto produttivo, ha
dato vita alla predisposizione di un apposito regime di integrazioni salariali “in deroga”, a beneficio
sia dei lavoratori per i quali sono già stati consumati i periodi massimi “integrabili” con l’intervento
ordinario e straordinario, sia dei dipendenti dei datori di lavoro esclusi dalla disciplina della Cassa
integrazione guadagni.
Pertanto, il legislatore ha provveduto, nel 2015, ad un complessivo riordino della disciplina delle
integrazioni salariali, in una prospettiva di nuova razionalizzazione che tiene anche presente
l’esigenza di contenimento dei costi di finanziamento. È da notare che la nuova disciplina, per
descrivere l’insieme degli interventi previsti, utilizza l’espressione “ammortizzatori sociali in

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costanza di rapporto di lavoro”, al fine di distinguerli dagli ammortizzatori sociali applicabili “in
caso di disoccupazione involontaria”, segnalando così la parziale comunanza di funzione e la
diversità del campo di intervento. Entrambe le tipologie di “ammortizzatori”, infatti, sono desinate
ad attenuare i problemi, e le tensioni, sociali derivanti dalla perdita (totale o parziale) della
retribuzione.
Allo stesso tempo, anche per evitare abusi o sovrapposizioni, si intende rimarcare la distinzione tra
gli interventi di sostegno del reddito diretti a mantenere in vita rapporti di lavoro destinati a
riprendere la loro normale funzionalità e gli interventi di sostegno del reddito dei lavoratori che
hanno perso la loro occupazione. Tra i presupposti per l’intervento delle integrazioni salariali è
prevista la domanda del datore di lavoro. Il datore di lavoro ha la facoltà, non un obbligo, di
presentare tale domanda, potendo decidere di gestire l’eccedenza di personale mediante il ricorso
a licenziamenti collettivi.
In secondo luogo, la presentazione della domanda, anche ove sussistano tutti gli altri presupposti e
requisiti previsti dalla legge, non determina automaticamente il diritto alle prestazioni di
integrazione salariale a favore dei lavoratori, essendo necessario il provvedimento autorizzativo da
parte dell’INPS (nel caso di integrazioni ordinarie) o del Ministro del lavoro e delle politiche sociali
(nel caso di integrazioni straordinarie).

Qualora il datore di lavoro, in attesa del provvedimento autorizzativo, proceda unilateralmente


alla sospensione delle prestazioni di lavoro e della relativa retribuzione, assume su di sé il rischio
che l’autorizzazione non venga concessa. In tal caso, infatti, i lavoratori hanno diritto al
risarcimento del danno consistente nelle retribuzioni perse, a meno che il datore di lavoro non
provi che la sospensione della prestazione di lavoro è stata determinata da una causa di
impossibilità a lui non imputabile.
Alla luce di tali principi, non appare agevole comprendere l’esatta portata della seguente
disposizione: “Qualora dalla omessa o tardiva presentazione della domanda” (relativa al
trattamento, ordinario o straordinario, di integrazione salariale) “derivi a danno dei lavoratori la
perdita parziale o totale del diritto all’integrazione salariale, l’impresa è tenuta a corrispondere ai
lavoratori stessi una somma di importo equivalente all’integrazione salariale non percepita”.
L’interpretazione più plausibile è quella di ritenere che tale disposizione sia applicabile
esclusivamente nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia omesso o tardato di presentare la
domanda, pur avendo già provveduto a sospendere la prestazione di lavoro e la retribuzione. È
allora ragionevole che il legislatore abbia inteso riconoscere il diritto dei lavoratori ad un
risarcimento per i trattamenti di integrazione salariale persi, anche laddove la sospensione decisa
dal datore di lavoro fosse stata determinata da causa di impossibilità a lui non imputabile.
La legge prevede due tipi di integrazione salariale, ordinaria e straordinaria, dettando alcune
regole comuni. Destinatari di entrambi i trattamenti sono i lavoratori subordinati che hanno
maturato almeno 90 giorni di lavoro effettivo presso l’unità produttiva in cui è richiesto il
trattamento. Sono compresi, salvo alcune eccezioni, gli apprendisti assunti con contratto di
apprendistato professionalizzante. Sono, invece, esclusi i dirigenti e i lavoratori a domicilio.

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L’importo del trattamento di integrazione salariale è pari, entro determinati limiti massimi mensili,
all’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata per le ore non lavorate.
i trattamenti di integrazione salariale ordinari e straordinari, anche cumulati tra di loro e salvo
alcune eccezioni, non possono superare, per ciascuna unità produttiva, un periodo massimo di 24
mesi in un quinquennio cd. mobile, ossia decorrente dalla data in cui la prestazione è erogata. I
periodi in cui il trattamento è corrisposto sono considerati utili ai fini del diritto a pensione e della
determinazione del suo ammontare, tramite l’accredito di contribuzione figurativa. I trattamenti di
integrazione salariale sono erogati dall’INPS ma anticipati dal datore di lavoro, salvi i casi in cui
l’impresa è in serie e documentate difficoltà finanziarie.
L’INPS provvede poi a rimborsare il datore di lavoro o a conguagliare l’importo anticipato con i
contribuiti da esso dovuti. Tali trattamenti sono finanziati con contributi posti a carico delle
imprese (e in minima parte anche a carico dei lavoratori) distinti a seconda che si tratti di
integrazioni ordinarie o straordinarie. Inoltre, comune ad entrambe è la previsione di un ulteriore
contributo addizionale, progressivamente più elevato in relazione alla durata del trattamento, a
carico soltanto delle imprese che abbiano presentato domanda di integrazione salariale.
I lavoratori percettori di trattamenti di integrazione salariale per i quali la riduzione di lavoro sia
superiore al 50% dell’orario di lavoro, calcolato in un periodo di 12 mesi, sono soggetti a
meccanismi cd. di condizionalità. Anche tali lavoratori, quindi, devono sottoscrivere con il centro
per l’impiego un patto di servizio personalizzato al fine di mantenere o sviluppare le proprie
competenze in vista della conclusione del periodo di sospensione o riduzione dell’attività
lavorativa. Nell’ipotesi di violazione delle prescrizioni contenute in tale patto, sono previste
sanzioni economiche e, nei casi più gravi, la decadenza dalla prestazione.
Durante il periodo di integrazione salariale, il lavoratore non ha diritto al relativo trattamento se
svolge attività di lavoro autonomo o subordinato per le giornate di lavoro effettuate. A pena di
decadenza dal trattamento di integrazione salariale, il lavoratore ha l’onere di comunicare
preventivamente all’INPS lo svolgimento di tale attività.
INTEGRAZIONI SALARIALI ORDINARIE E STRAORDINARIE

Non tutte le imprese rientrano nel campo di applicazione delle integrazioni salariali ordinarie. Esse,
infatti, si applicano essenzialmente alle imprese del settore industriale, a prescindere dal numero
di lavoratori occupati. Regole particolari, inoltre, vigono per le imprese del settore agricolo. Le
integrazioni salariali ordinarie sono concesse per sospensioni o riduzioni dell’attività produttiva
conseguenti a situazioni aziendali dovute ad eventi transitori non imputabili all’impresa o ai
dipendenti o a situazioni temporanee di mercato.
La legge prevede l’obbligo del datore di lavoro che intende proporre domanda di integrazione
salariale ordinaria di dare corso preventivamente ad una procedura di informazione e
consultazione sindacale. Tale procedura deve concludersi entro 25 giorni, ridotti a 10 se l’impresa
occupa fino a 50 dipendenti. Per il sorgere del diritto alle prestazioni l’impresa deve presentare
apposita domanda all’INPS in via telematica entro 15 giorni dall’inizio della sospensione o
riduzione del lavoro. In tale domanda, oltre a comunicare di aver eseguito la procedura sindacale,

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deve indicare la causa della sospensione o riduzione dell’orario di lavoro, la presumibile durata, i
nominativi dei lavoratori interessati e le ore richieste.
Le integrazioni salariali ordinarie sono poi concesse dall’INPS sulla base di criteri definiti da un
decreto del Ministero del lavoro. Se la domanda è rigettata, l’impresa può fare ricorso entro 30
giorni al Comitato amministratori della gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti
istituito presso l’INPS. I trattamenti ordinari sono corrisposti per un periodo massimo di 13
settimane continuative, prorogabile per ulteriori trimestri fino al limite massimo complessivo di 52
settimane.
Raggiunto tale limite massimo, l’impresa deve attendere almeno 52 settimane per proporre una
nuova domanda di integrazione salariale ordinaria con riferimento alla stessa unità produttiva. Se,
invece, l’integrazione è corrisposta per più periodi non continuativi, essa non può superare
complessivamente la durata di 52 settimane in un biennio mobile. In ogni caso, le ore di
integrazione salariale ordinaria concesse non possono superare il limite massimo di un terzo delle
ore ordinarie lavorabili nel biennio mobile da tutti i lavoratori mediamente occupati nell’unità
produttiva nel semestre precedente la presentazione della domanda.
Le integrazioni salariali straordinarie hanno un campo di applicazione più limitato rispetto a quelle
ordinarie. Le limitazioni, infatti, riguardano non soltanto i settori produttivi delle imprese, ma
anche il numero dei loro dipendenti. Possono beneficiarne, anzitutto, le imprese industriali che,
nel semestre precedente la data di presentazione della relativa domanda, abbiano occupato
mediamente più di 15 dipendenti, inclusi dirigenti e apprendisti.
Inoltre, il trattamento straordinario si applica anche alle imprese commerciali con più di 50
dipendenti, alle agenzie di viaggi e turismo con più di 50 dipendenti e alle imprese del trasporto
aereo e del sistema aeroportuale a prescindere dal numero dei dipendenti. L’integrazione salariale
straordinaria può essere concessa per le sospensioni o riduzioni di lavoro determinate da processi
di riorganizzazione aziendale o da crisi aziendali, purché esse non abbiano dato luogo alla
cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un suo ramo. Inoltre, l’intervento straordinario
può essere richiesto nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro sia determinata da un
contratto di solidarietà sottoscritto dall’impresa al fine di evitare, in tutto o in parte, licenziamenti
collettivi.
Come per il trattamento ordinario, anche per quello straordinario l’impresa prima di presentare la
relativa domanda deve avviare la procedura di informazione e consultazione sindacale (salvo il
caso in cui la causale dell’intervento sia un contratto di solidarietà già stipulato con il sindacato). La
disciplina di tale procedura è, però, più complessa, specie nella fase di esame congiunto della
situazione aziendale, alla quale partecipano anche i rappresentanti della regione o del Ministero
del lavoro (a seconda che l’intervento richiesto riguardi unità produttive ubicate nella stessa
regione o in più regioni).
Oggetto dell’esame congiunto è il programma di riorganizzazione o di risanamento che l’impresa
intende attuare, le misure previste per la gestione delle eventuali eccedenze di personale ed i
criteri di scelta dei lavoratori da sospendere. A quest’ultimo riguardo, ove la struttura
organizzativa dell’impresa lo consenta, devono essere concordati meccanismi di rotazione tra i
lavoratori per distribuire il sacrificio della sospensione della prestazione di lavoro tra tutto il

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personale. La fase della consultazione deve concludersi entro 25 giorni (ridotti a 10 se l’impresa
occupa fino a 50 dipendenti) dalla richiesta delle parti di esame congiunto.
Diversamente dalle integrazioni ordinarie, la domanda per quelle straordinarie, contenente
l’elenco dei nominativi dei lavoratori sospesi o il cui orario di lavoro è stato ridotto, va presentata
contestualmente al Ministero del lavoro e alle Direzioni territoriali del lavoro competenti entro 7
giorni dalla data di conclusione della procedura sindacale. Il trattamento straordinario è poi
concesso con decreto del Ministero del lavoro entro 90 giorni dalla data di presentazione della
domanda. Alle Direzioni territoriali del lavoro competenti per territorio spetta il compito di
controllo e verifica sullo svolgimento del programma presentato dall’impresa.
Il trattamento di integrazione salariale straordinario è alternativo a quello ordinario nel senso che
esso non può essere richiesto se per la stessa unità produttiva è già stato richiesto il trattamento
ordinario per gli stessi periodi e per causali sostanzialmente coincidenti. Infine, la durata della
prestazione è diversa a seconda della causale dell’intervento. Nel caso di ristrutturazione aziendale
e di contratto di solidarietà, il trattamento straordinario non può superare i 24 mesi, anche
continuativi, in un quinquennio mobile.
Nel caso di crisi aziendale, invece, la durata massima, sempre con riferimento a ciascuna unità
produttiva, è di 12 mesi, anche continuativi. In ogni caso, nelle ipotesi di ristrutturazione aziendale
e di crisi aziendale, le sospensioni o riduzioni concesse non possono riguardare più dell’80% delle
ore lavorabili nell’unità produttiva nel periodo di tempo in relazione al quale il programma è
autorizzato.
FONDI DI SOLIDARIETA’ il legislatore, sviluppando modelli di collaborazione funzionale tra
pubblico e privato già esistenti nel nostro ordinamento, ha affidato direttamente alle categorie
interessate, nell’ambito di una disciplina legale assai vincolante, la predisposizione di tutele che lo
Stato, per esigenze di bilancio, non è in grado di assicurare direttamente. Nei settori non
ricompresi nel campo di applicazione delle integrazioni salariali, infatti, la contrattazione collettiva
è chiamata a costituire fondi di solidarietà bilaterali, anche intersettoriali, che sono obbligatori per
i datori di lavoro che occupano più di 5 dipendenti.
Scopo di tali fondi è quello di garantire ai lavoratori esclusi dalla disciplina legale delle integrazioni
salariali una analoga tutela nelle ipotesi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. In
particolare, ai lavoratori deve essere assicurata almeno la prestazione di un assegno ordinario di
importo pari all’integrazione salariale, per una durata predeterminata dai fondi stessi entro limiti
minimi e massimi fissati dalla legge, oltre alla contribuzione previdenziale correlata. Inoltre, è
previsto che i fondi possono eventualmente operare, a favore dei lavoratori, anche altri interventi,
e, in tale ipotesi, è consentita la loro istituzione anche in quei settori e per quei datori di lavoro che
già beneficiano di trattamenti di integrazione salariale.
In particolare, i fondi possono anche erogare: prestazioni integrative dei trattamenti pubblici
erogati in caso di cessazione del rapporto di lavoro; prestazioni integrative rispetto ai trattamenti
spettanti per legge in caso di cessazione del rapporto di lavoro o a titolo di integrazioni salariali;
assegni straordinari per agevolare l’esodo dei lavoratori prossimi al pensionamento; contributi per
il finanziamento di programmi formativi di riconversione o riqualificazione professionale. Tali
fondi, privi di personalità giuridica, sono istituiti presso l’INPS, con un apposito decreto

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interministeriale, che determina l’ambito di applicazione sulla base degli accordi collettivi
costitutivi. Per effetto di tale decreto, quindi, l’accordo costitutivo, entro l’ambito di applicazione
determinato, acquisisce efficacia erga omnes.
Ove la contrattazione collettiva non abbia provveduto a costituire fondi di solidarietà bilaterali, la
legge prevede che, nei settori e per i datori di lavoro (che occupano più di 5 dipendenti) ancora
esclusi da ogni tutela, debba operare l’apposito fondo a carattere residuale istituito presso lo
stesso INPS, denominato fondo di integrazione salariale. Tale fondo ha il compito di provvedere ad
erogare, in particolare, l’assegno di solidarietà ai dipendenti dei datori di lavoro che stipulano
accordi collettivi aziendali in cui è prevista una riduzione dell’orario di lavoro per evitare o ridurre
eccedenze di personale nel corso di una procedura di licenziamento collettivo o licenziamenti
individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo.
I fondi di solidarietà bilaterali, come anche il fondo di integrazione salariale, sono finanziati
esclusivamente con contributi posti a carico dei soggetti che rientrano nei rispettivi ambiti di
applicazione, secondo aliquote definite con apposito decreto interministeriale. Innanzitutto, è
previsto un contributo ordinario – ripartito per i due terzi a carico del datore di lavoro, e per un
terzo a carico del lavoratore – di importo tale da garantire la costituzione di risorse adeguate
all’attività che il fondo deve svolgere.
Inoltre, è previsto un contributo addizionale, non inferiore all’1,5% della retribuzione, soltanto per
i datori di lavoro che abbiano fatto ricorso a sospensioni o riduzioni dell’attività lavorativa. Infine,
un ulteriore contributo straordinario è posto a carico dei datori di lavoro nell’ipotesi di erogazione
di assegni straordinari nell’ambito di procedure di incentivazione all’esodo. A tutte queste
tipologie di contributi, si applica la disciplina della contribuzione previdenziale obbligatoria, fatte
salve le disposizioni in materia di sgravi contributivi.
I fondi di solidarietà bilaterali, ed anche quello di integrazione salariale, sono gestiti da un
comitato amministratore, nominato con decreto del Ministero del lavoro, composto, oltre che da
esperti designati dalle organizzazioni sindacali, anche da due funzionari pubblici nominati dai
ministeri vigilanti. Sempre per garantire il controllo pubblico, ed il coordinamento gestionale con
l’INPS presso cui i fondi sono incardinati, alle riunioni del comitato amministratore devono
partecipare anche il collegio sindacale dell’INPS ed il suo direttore generale, a cui è attribuito il
potere di sospendere le decisioni del comitato amministratore, nell’ipotesi in cui esse siano
illegittime.
Nei settori ove già esiste un sistema di bilateralità consolidato, il legislatore ha prefigurato un
modello di tutela alternativo a quello base dei fondi di solidarietà bilaterali (cd. fondi di solidarietà
bilaterali alternativi), preservando comunque l’autonomia dei fondi bilaterali e di quelli
interprofessionali già istituiti ma imponendo agli stessi misure di adeguamento alla nuova
disciplina. In ogni caso, anche nei riguardi di tali fondi, la legge ha accentuato la vigilanza pubblica,
essendo demandata ad un apposito decreto interministeriale l’individuazione dei requisiti di
professionalità e onorabilità dei soggetti preposti alla gestione, dei criteri per la contabilità e la
sostenibilità finanziaria, nonché delle modalità per il controllo sulla gestione e il monitoraggio
sull’andamento delle prestazioni.

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In coerenza con l’autonomia finanziaria ed anche per tutelare gli iscritti, tutti i fondi di solidarietà
bilaterali, compresi i fondi alternativi e quello di integrazione salariale, hanno l’obbligo di
perseguire il pareggio di bilancio. Inoltre, è stabilito che i fondi in questione non possono erogare
prestazioni in assenza di risorse, dovendo tutti gli interventi essere concessi previa costituzione di
specifiche riserve finanziarie e soltanto entro i limiti delle risorse già acquisite.

SICUREZZA SUL LAVORO: sappiamo che dal contratto di lavoro


derivano molti obblighi a carico del lavoratore, cui corrispondono
altrettanti diritti a favore di questo. La ratio è quella di soddisfare le
esigenze di tutela della persona implicata nel contratto di lavoro. Lo
sviluppo del diritto del lavoro italiano negli ultimi decenni è stato
caratterizzato da due linee di tendenza : la prima linea è la revisione
di alcune tutele sia nell’ambito del mercato del lavoro sia nell’ambito
del rapporto di lavoro ( sono state ritenute troppo rigide, e quindi
riviste, alcune tutele in contrasto soprattutto con l’esigenza di
competitività delle Imprese e di difesa dell’occupazione); la seconda
linea è la sempre più forte conservazione dei diritti fondamentali
sanciti dalla nostra costituzione e in particolare quelli della dignità,
della libertà e della sicurezza. Diritti che nell’articolo 41 comma 2
costituiscono dei limiti all’iniziativa economica privata. quindi sì, da
un lato, revisione delle tutele, ma dall’altro rafforzamento dei diritti
fondamentali. Nell’ambito di tale seconda linea di sviluppo si colloca
l’evoluzione sempre maggiore della disciplina della sicurezza sul
lavoro; anche se, si vedrà, riguardo la disciplina della sicurezza sul
lavoro continuano a sussistere seri problemi, dovuti a cause di
diverso tipo, legate alla diffusa inosservanza del sistema normativo
sulla sicurezza in molte aree territoriali del nostro paese.
Disciplina: come in molti altri ordinamenti, le istanze di protezione
dell’ambiente di lavoro sono le ragioni che hanno determinato la
nascita stessa del diritto di lavoro; le prime leggi riguardano proprio
la necessità di tutelare la salute all’interno del luogo di lavoro. Gli
ambienti di lavoro erano definiti infernali dagli autori dell’Ottocento.
Fondamentale è una norma del cc del 1942, che ha dettato una
disposizione (art 2087) che è ancora oggi fondamentale: prevede a
carico dell’imprenditore un obbligo generale di sicurezza; prevede
che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le
misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la
tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica …
Quindi, ancora prima della promulgazione della costituzione, che è
successiva al codice, la legge prende in considerazione la esigenza di
proteggere la salute del lavoratore; non solo il corpo (integrità fisica)
ma anche la dignità del lavoratore (personalità morale). Attualmente

89
il complesso sistema di tutte le norme in materia di sicurezza è
contenuto in un unico testo di legge, il decreto 81 del 2008: in un
testo unico sono riunite, coordinate e riordinate tutte le norme
esistenti in materia di sicurezza sul lavoro;
Art 2087: questa norma ancora oggi, nonostante sia stato approvato
il testo unico del 2008, riveste un ruolo centrale nel sistema di
sicurezza : è il fulcro del sistema; anzi tutto, la norma parla di
imprenditore , ma la giurisprudenza ha detto che le responsabilità
vanno estese al ddl non imprenditore; la norma è così importante
perché obbliga il ddl a rispettare non solo le norme di igiene e
prevenzione poste dalle norme di legge, ma anche ogni altra misura
necessaria a proteggere il lavoratore; fa riferimento quindi a tutte le
misure. La disposizione garantisce che il sistema di protezione sia
chiuso e completo perché colma eventuali lacune, in caso di assenza
di singole disposizioni di leggi speciali. È definita NORMA DI
CHIUSURA, perché integra dinamicamente le norme del testo unico
del decreto del 2008 e tutte le altre norme speciali.
Come viene effettuata la valutazione di conformità del
comportamento del ddl, riguardo all’adempimento degli obblighi di
sicurezza? È operata dalla giurisprudenza in modo rigoroso: il ddl non
può invocare a propria giustificazione le condizioni organizzative
della propria struttura produttiva (mancanza di risorse economiche
necessarie per attuare gli obblighi di sicurezza) e neppure l’errore o
la mancata conoscenza o individuazione della misura di sicurezza da
rispettare. Vi è inoltre una parte della giurisprudenza che dice che il
ddl è tenuto ad adempiere all’obbligo di sicurezza posto dall’articolo
2087 in base al criterio della massima sicurezza tecnologicamente
possibile: il ddl, in base a tale orientamento, dovrebbe
costantemente applicare nella sua organizzazione ogni innovazione
che risulti dall’evoluzione della scienza e della tecnica. Magari,
ancora prima che la innovazione abbia avuto una certa diffusione e
che abbia dimostrato la sua concreta efficacia. Tale criterio,
interpretato in tal modo, determina una forte incertezza per il ddl,
che non sa quale sia la misura da rispettare per adempiere
all’obbligo di sicurezza.
Corte costituzionale è parzialmente diversa la sua posizione, in
quanto ha temperato il rigore dell’orientamento. Il punto di partenza
della corte è il presupposto che dalla violazione dell’obbligo di
sicurezza, oltre a una responsabilità contrattuale, può derivare una
responsabilità penale a carico del ddl. Poiché la responsabilità
penale presuppone sempre la necessaria determinazione dei
presupposti in cui opera (art 25), l’art 2087 va interpretato in tal
modo: le misure a cui fa riferimento l’articolo sono quelle che nei
diversi settori corrispondono ad applicazioni tecnologiche

90
generalmente praticate e acquisite. La corte dice che l’articolo 2087
è legittimo solo se le misure sono quelle già acquisite e praticate nel
settore. Limita quindi l’obbligo di sicurezza a tali misure.
(generalmente praticate e acquisite). Sì al criterio della massima
sicurezza, ma non necessariamente tramite applicazioni di ultima
tecnologia, ma di quella tecnologia genericamente applicata in quel
momento e in quel settore.
Così interpretato, il criterio che poteva dare adito a forte incertezze
per il ddl, è aderente al principio della certezza del diritto.
L’applicazione di misure generali può essere già ritenuta una
ADEGUATA GARANZIA di sicurezza per il lavoratore.
Procedimentalizzazione obbligo di sicurezza: pure in tale materia
esiste una procedimentalizzazione prevista dal testo unico del
decreto del 2008; in tal caso è procedimentalizzato l’obbligo di
sicurezza tramite la previsione di una serie di adempimenti, tutti
volti a prevenire i danni alla salute dei lavoratori .si riferisce a Tutti i
lavoratori, non solo quelli subordinati. All’attuazione di tali
adempimenti sono chiamati a partecipare non solo il ddl, ma anche
molti altri soggetti, incluso lo stesso lavoratore; è il così detto
MODELLO PARTECIPATO della sicurezza, cioè un modello in cui tutti i
soggetti partecipano alla necessità di tutelare la sicurezza su l luogo
di lavoro.
Delega di funzioni: essa è messa in atto solitamente nelle
organizzazioni più grandi e complesse; nel nostro ordinamento è
consentita, perché il ddl può delegare le sue funzioni a un altro
soggetto, per quanto riguarda gli obblighi di sicurezza; lo può fare
solo nel rispetto di alcuni limiti e condizioni poste dalla legge.
Condizioni: anzi tutto, la delega deve risultare da atto scritto, avere
data certa; per iscritto deve poi risultare l’accettazione del delegato,
che è solitamente un dirigente.
La seconda condizione è che il dirigente delegato deve possedere
requisiti di professionalità ed esperienza.
La terza condizione è che il dirigente deve essere dotato di adeguati
poteri, e soprattutto della autonomia di spesa necessaria per
attuare i poteri che gli sono delegati.
Altri soggetti chiamati a collaborare all’obbligo di sicurezza:
cooperano anche il SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE, che il
ddl deve organizzare in ciascuna organizzazione, nominando anche
un responsabile del servizio: obbligo che la legge afferma non
delegabile da parte del ddl. Altra persona che partecipa al modello
partecipato è il medico competente, che ha funzioni di sorveglianza
sanitaria ed è anche esso nominato dal ddl.

91
Anche i lavoratori cooperano: vi è una figura istituzionale, IL
RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA, eletto dai
lavoratori stessi, che ha competenze consultive.
Sui lavoratori gravano inoltre obblighi, come osservare le direttive
impartire dal ddl in materia o dai dirigenti, utilizzare correttamente
i dispositivi messi a disposizione del ddl... La violazione di tali
obblighi è sanzionabile disciplinarmente, e nei casi più gravi la
violazione è anche sanzionata penalmente.
adempimento di importanza fondamentale, nel sistema della legge,
è la valutazione dei rischi connessi allo svolgimento della
prestazione; obbligo fondamentale del ddl, in tutte le organizzazioni
produttive, è la valutazione dei rischi; tale adempimento è funzionale
alla predisposizione di un documento che si chiama documento di
valutazione dei rischi, (DVR).
CONTENUTI DVR in tale documento devono essere contenuti la
relazione sulla valutazione effettuata; le misure di prevenzione o di
protezione già attuate o quelle che si intendono attuare o che
devono essere attuate, in quanto ritenute necessarie; i soggetti che
vi devono provvedere in relazione a ciascuna misura; le mansioni che
espongono i lavoratori a rischi specifici e tutto quello che riguarda
potenziali rischi per la sicurezza del lavoratore.
Il documento deve essere predisposto dal ddl e tale obbligo non è
delegabile, essendo previsto direttamente a carico del ddl.
Ovviamente, trattandosi di un documento ad elevato contenuto
tecnico, nella predisposizione il ddl può farsi assistere solitamente
dal servizio di protezione e prevenzione (con il suo responsabile) e
dal medico competente. Deve essere anche consultato il
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
Il documento è così importante perché costituisce una sorta di
scatola nera: in caso di contenzioso, il DVR servirà da parametro di
valutazione per il giudice, per valutare eventuali responsabilità
connesse a infortunio o a malattia. per questo, è fondamentale che il
documento rechi una data certa.
Tutta la disciplina fin qui esaminata si applica a tutti i ddl, pubblici e
privati: non vi è differenza tra ddl privato e pubblico, La disciplina é
poi applicabile a tutte le tipologie di rischio (non rileva l’intensità di
quest’ultimo) e anche a tutti i lavoratori: non solo subordinati, ma
anche autonomi.

TRASFERIMENTO D’AZIENDA
Nell’ambito del rapporto di lavoro, Modifiche possono riguardare anche gli stessi soggetti che sono
parte del rapporto di lavoro, e in particolar modo la figura del ddl, anche se il rapporto di lavoro
resta unico ed unitario.

92
La sostituzione della figura del ddl nel nostro ordinamento è consentita nella perduranza dello
stesso rapporto di lavoro. Il rapporto prosegue ininterrottamente, nonostante la modificazione
SOGGETTIVA intervenuta. Tale modificazione soggettiva nel nostro ordinamento può avvenire in
due modi:
1) CESSIONE DEL CONTRATTO è consentito al ddl cedere (ai sensi dell’art 1406 cc) il
rapporto di lavoro a un altro ddl; presupposto fondamentale per la cessione è il consenso
del lavoratore CEDUTO. Senza tale consenso, la cessione non produce effetti.
2) TRASFERIMENTO D’AZIENDA ipotesi più frequente. Si colloca in una fattispecie più
ampia: quella del fenomeno dell’OUTSOURCING, detto anche decentramento produttivo:
tale fenomeno comprende tutte le tecniche con le quali un’impresa esternalizza la gestione
diretta di alcuni segmenti della propria attività produttiva; ciò avviene per ragioni collegate
in parte alla riduzione dei costi e in parte alla riduzione delle responsabilità derivanti dalla
gestione diretta dell'impresa. Tali processi di outsourcing sono oramai fenomeni naturali in
tutti i grandi gruppi societari. il vantaggio della esternalizzazione è che il terzo a cui viene
ceduta quella parte di attività o servizio, dovrebbe essere un soggetto più competente e
abilitato a svolgere quel servizio e quindi a organizzare quel servizio con risorse proprie e
con gestione a proprio rischio. Si tende a esternalizzare a soggetti specializzati in quel
determinato settore.
Come avvengono tali processi di esternalizzazione? Nel nostro ordinamento possono
essere realizzati a discrezione dell’imprenditore in 2 modi: attraverso la cessione da parte
dell’impresa di un ramo della propria azienda; o tramite il contratto di appalto di opere o
servizi (la società che intende esternalizzare una attività o un servizio appalta a terzi lo
svolgimento dell’attività o servizio: non vi è in tal caso un trasferimento di parte
dell’azienda).
Tali due strumenti giuridici (trasferimento di parte dell’azienda e contratto di appalto)
vengono utilizzati spesso insieme: accade spesso che in una prima fase (di vera e propria
esternalizzazione) in cui, attraverso lo strumento del trasferimento di rami d’azienda,
l’impresa dismette parte della propria azienda; in una seconda fase (da alcuni detta di
internalizzazione) , l’impresa riacquisisce sul piano economico la gestione nell’attività che
ha appena esternalizzato, tramite lo strumento del contratto di appalto di opere e servizi.
L’impresa stabilisce alla fine un contratto commerciale con l’impresa destinataria
dell’esternalizzazione. Si può fare l’esempio di una società automobilistica che cede un
ramo della propria azienda, costituito ad esempio dalla costruzione di tutti i pezzi di
plastica di un’automobile, a favore di una società specializzata in lavorazioni plastiche.
Contestualmente, stipula con la società un contratto di appalto.
Tale premessa era necessaria per introdurre il tema del trasferimento di azienda,
fattispecie giuridica fondamentale. Nel trasferimento d’azienda vi è un mutamento nella
persona del titolare dell’impresa: vi è la sostituzione di un ddl con un altro.
EFFETTI i rapporti di lavoro che ineriscono all’impresa ceduta proseguono OPE LEGIS con
il nuovo imprenditore. Questo è un effetto legale inderogabile, caratteristica fondamentale
del trasferimento d’azienda. Nella cessione del contratto, diversamente, deve esservi il
consenso del lavoratore ceduto. Nel trasferimento d’azienda, il passaggio dei lavoratori
dall’azienda cedente a quella cessionaria è AUTOMATICO.

93
Altro effetto fondamentale che si verifica nel trasferimento d’azienda è la conservazione di
tutti i diritti da parte dei lavoratori ceduti; nel passaggio da un ddl all’altro, i lavoratori
conservano tutti i diritti che avevano acquisito con il precedente ddl.
Sono entrambi effetti diretti a tutelare la posizione dei lavoratori occupati nell’azienda che
viene ceduta.
Quali sono gli interessi che la disciplina del trasferimento d’azienda intende soddisfare? Si
tendono a contemperare gli opposti interessi di ddl e lavoratore; da un lato, l’interesse del
lavoratore alla stabilità dell’occupazione; allo stesso tempo, la disciplina del trasferimento
soddisfa anche l’interesse dell’impresa alla conservazione della propria organizzazione
produttiva, necessaria per la continuazione dell’attività.
FONTI l’attuale disciplina del trasferimento di azienda è frutto di una serie di
ramificazioni normative che nel tempo si sono succedute, anche per la necessità di dare
attuazione a direttive comunitarie. Allo stato attuale, la disciplina è contenuta nell’articolo
2112 del codice civile, norma che si occupa del trasferimento dell’azienda. Una parte della
disciplina è poi contenuta nell’art 47 della legge 428/1990. Le disposizioni hanno subito nel
tempo numerose modifiche.
Le modifiche sono state quasi sempre nel senso di venire incontro alle esigenze di
flessibilità dell’impresa, agevolando i processi di esternalizzazione; si è ampliata da un
lato la fattispecie dell’art 2112, dall’altro si è modificata la disciplina a tutela degli interessi
collettivi e individuali dei lavoratori.
Talvolta, la fattispecie del trasferimento è utilizzata dall’imprenditore per ridimensionare
parti della propria attività e dismettere i dipendenti parte di quella attività. Ciò per
evitare al ddl sia di sottostare agli oneri previsti, ad esempio, per la fattispecie dei
licenziamenti collettivi.
Spesso il trasferimento viene “subito” dai lavoratori ceduti, che preferirebbero a volte
rimanere presso l’azienda cedente, perché magari più solida. Non è quindi del tutto
indifferente, per il lavoratore, chi sia il proprio ddl. Se l’applicazione della tutela prevista
dal 2112 è di regola vantaggiosa per i lavoratori, soprattutto quando il trasferimento
dell’azienda riguarda l’azienda nel suo complesso, quando il trasferimento riguarda solo
un RAMO dell’azienda , tale trasferimento non è sempre vantaggioso per il lavoratore: la
cessione potrebbe esporre i lavoratori ceduti, ad esempio, ad un peggioramento delle
proprie condizioni di lavoro: pensiamo alle volte in cui ,all’esito del procedimento di
trasferimento di parte dell’azienda, si arriva ad un contratto di lavoro meno favorevole:
può accadere che l’azienda cessionaria applichi un contratto collettivo meno favorevole , o
che non applichi alcun contratto collettivo. Può accadere anche che il lavoratore, nel
passaggio dall’impresa cedente a quella cessionaria perda una delle tutele simbolo del
rapporto di lavoro: la tutela più forte in caso di licenziamento illegittimo.
Si pensi ancora all’ipotesi della possibile perdita del posto di lavoro, dovuta al fatto che
l’azienda cessionaria è un’azienda che dal punto di vista finanziario è molto meno solida di
quella cedente. È possibile che il cedente sia economicamente molto forte, mentre il
cessionario sia privo delle adeguate risorse economiche.
NOZIONE DI TRASFERIMENTO DI AZIENDA prima del 2001, nel nostro ordinamento non
vi era una nozione di azienda da utilizzare per questa fattispecie. Vi era una nozione di
azienda, ma ai fini del diritto commerciale. nel 2001 (5 comma art 2112) la legge ha

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precisato che i due effetti propri del trasferimento d’azienda (prosecuzione del rapporto e
conservazione dei diritti) operano in tutti i casi in cui vi sia il mutamento della titolarità di
un’attività economica organizzata, con o senza fini di lucro. Si tratta di una specifica
nozione di trasferimento d’azienda, dettata a fini lavoristici. La legge richiede ulteriori due
requisiti affinché si verifichi la fattispecie del trasferimento d’azienda: l’attività economica
organizzata deve essere PREESISTENTE AL TRASFERIMENTO e deve CONSERVARE NEL
TRASFERIMENTO LA PROPRIA IDENTITA’. La legge pone queste due condizioni. I due
requisiti implicano che sono trasferibili le organizzazioni utilizzate per lo svolgimento di
una attività economica PRIMA del trasferimento; i 2 requisiti sono posti a garanzia del
lavoratore, per evitare usi fraudolenti della nozione. Il trasferimento non può essere
occasione per modificare lo scopo a cui era preposta l’azienda stessa.
Non è comunque necessaria la continuazione da parte del cessionario della stessa attività
esercitata dal cedente: dopo il trasferimento, il cessionario è libero di apportare modifiche
che ritiene opportune.
PRINCIPI GIURISPRUDENZIALI secondo la giurisprudenza, è considerato trasferimento
d’azienda non solo l’acquisizione di un complesso stabilmente organizzato di beni, ma
l’acquisizione può essere anche di un complesso stabilmente organizzato SOLTANTO DI
PERSONE (non occorrono mezzi materiali per l’esercizio di un’attività economica) si pensi
ad esempio all’esternalizzazione delle attività di pulizia, dove non si trasferiscono tanto
beni, quanto persone (servizi labor intensive). La parte di impresa che viene ceduta può
essere quindi costituita anche da un complesso solo di persone.
DISCIPLINA COMUNITARIA era concorde nel ritenere che l’organizzazione dell’impresa
possa essere costituito anche solo da un gruppo di lavoratori. Ciò che conta per la
giurisprudenza è che il trasferimento abbia ad oggetto una attività economica
organizzata. Purché vi sia un’attività economica organizzata, il trasferimento è legittimo. Le
riforme del 2001 e del 2003 hanno poi ampliato il concetto di trasferimento: si è arrivati a
affermare che è irrilevante IL MEZZO TECNICO GIURIDICO CON CUI LE PARTI EFFETTUANO
IL TRASFERIMENTO (TIPOLOGIA NEGOZIALE), purché vi sia un mutamento nella titolarità
dell’attività economica organizzata. Il legislatore rinuncia quindi a una tipizzazione degli
strumenti giuridici idonei per trasferire l’azienda, optando per una fattispecie APERTA.
Il trasferimento di ramo o di parte della azienda è un tema che in dottrina e in
giurisprudenza è stato dibattuto. Per configurare il ramo d’azienda, sono considerate
necessarie L’AUTONOMIA FUNZIONALE E AUTOSUFFICIENZA del ramo autonomo.
Un’articolazione funzionalmente autonoma può configurare sia una parte essenziale del
ciclo produttivo (che appartiene al core business dell’impresa) ma anche una parte solo
ACCESORIA del ciclo produttivo (che non fa parte del core business dell’impresa).
Quali sono i requisiti per la legittimità del trasferimento di un ramo dell’azienda?
Inizialmente, il legislatore aveva previsto che l’articolazione funzionalmente autonoma
(presupposto fondamentale) dovesse preesistere al trasferimento e conservare nel
trasferimento la propria identità. successivamente, l’obbiettivo del legislatore è stato di
agevolare le operazioni di outsourcing: in quest’ottica, il legislatore ha ritenuto opportuno,
per il trasferimento del ramo di azienda, eliminare entrambi i requisiti. Sostanzialmente, il
legislatore ha consentito al cedente e al cessionario di identificare l’articolazione
funzionalmente autonoma anche direttamente al momento del trasferimento. con la

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nuova disciplina, la definizione di ramo d’azienda è sicuramente meno rigida, soggettiva e
rimessa alla decisione di cedente e cessionario al momento stesso del trasferimento. Sul
piano temporale, l’identificazione del ramo autonomo d’azienda può essere effettuata da
cedente e cessionario fino al momento del trasferimento. Tale articolazione può esistere
anche soltanto al momento del trasferimento.

EFFETTI La prima fondamentale tutela prevista per i lavoratori trasferiti è la prosecuzione


del rapporto di lavoro. Consiste nella continuazione del rapporto di lavoro col cessionario,
che acquista la azienda trasferita. La continuazione del rapporto è effetto LEGALE
AUTOMATICO INDEROGABILE della norma di legge. Le parti individuali non possono
opporsi a tale effetto. La legge precisa che il trasferimento d’azienda non costituisce motivo
di licenziamento: il recesso da parte del cessionario nei confronti di un lavoratore ceduto
sarà consentito solo ove ricorrano i motivi previsti dalla disciplina limitativa dei
licenziamenti.
In caso di trasferimento parziale (di un ramo dell’azienda), l’effetto automatico di
prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario si verifica per i lavoratori addetti al
ramo trasferito. È sufficiente che il lavoratore sia addetto al ramo ceduto in via
prevalente: non è necessario che il lavoratore sia addetto in modo esclusivo al ramo
ceduto, ma è sufficiente che sia addetto in via prevalente.
Oltre alla continuazione automatica del rapporto di lavoro col ddl cessionario, altro effetto
consiste nella conservazione dei diritti derivanti dal precedente rapporto. Le parti sono
lasciate nella posizione contrattuale precedente: il cessionario deve riconoscere ai
lavoratori trasferiti tutti i diritti precedentemente riconosciuti, oltre a quelli contenuti nel
contratto individuale. Tra i diritti che il lavoratore conserva vi è anche il trattamento di fine
rapporto (TFR): nel caso di trasferimento d’azienda, la giurisprudenza considera il
cessionario UNICO DEBITORE del trattamento di fine rapporto, anche per il periodo
passato alle dipendenze del ddl cedente.
Quale disciplina collettiva si applica al lavoratore trasferito? L’art 2112 risolve tale
problema al comma 3. “Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e
normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla
data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri
contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario”.  nell’ipotesi di trasferimento
di azienda o di ramo di azienda, ai rapporti di lavoro dei dipendenti ceduti si applica la
contrattazione collettiva del ddl cedente SOLTANTO se manca presso il cessionario un
contratto collettivo DI PARI LIVELLO. La legge non garantisce una immutabilità della
disciplina sindacale applicabile al rapporto di lavoro. Se il cessionario applica un proprio
contratto collettivo dello stesso livello di quello del ddl cedente, si applicherà quel
contratto collettivo (effetto di sostituzione). I lavoratori trasferiti non hanno diritto di
conservare la disciplina sindacale applicabile al ddl cedente. Il trattamento previsto dal
nuovo contratto collettivo potrebbe comportare un peggioramento per la condizione dei
lavoratori; solitamente, in sede di procedura sindacale, sono stipulati accordi collettivi,
definiti di ARMONIZZAZIONE, CONFLUENZA O INGRESSO, che tendono a armonizzare il
trattamento di vecchi e nuovi dipendenti del cessionario: vengono smussate le differenze
di trattamento nel passaggio dal contratto collettivo del cedente a quello del cessionario.

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Il legislatore ha limitato l’effetto di sostituzione del contratto collettivo del cessionario a
quello del cedente (SOLO SE È DELLO STESSO LIVELLO) in quanto si vuole arginare
potenziali effetti pregiudizievoli per i lavoratori, determinati da una indiscriminata
sostituzione di contratti collettivi NAZIONALI con contratti AZIENDALI che abbiano un
carattere peggiorativo. In ogni caso, l’obbligo del cessionario di applicare i contratti
collettivi del ddl cedente cessa alla scadenza dei suddetti contratti. Si vuole garantire la
libertà del ddl cessionario, che è anche quella di non aderire ad alcun sindacato e di non
applicare alcun contratto collettivo. se il cessionario non intende applicare alcun contratto
collettivo, dovrà applicare quello del ddl cedente SOLO FINO ALLA SCADENZA DEL
CONTRATTO.
PROCEDURA SINDACALE ultima garanzia prevista nella fattispecie del trasferimento
d’azienda. La previsione di una procedura sindacale è prevista dalla direttiva comunitaria
del 1977, che prevede una procedura di INFORMAZIONE E CONSULTAZIONE SINDACALE in
caso di trasferimento d’azienda. Tali procedure sono previste anche per altri istituti, come
quello delle integrazioni salariali. L’Italia è rimasta a lungo inadempiente, adempiendo
all’obbligo di uniformarsi alla direttiva comunitaria solo nel 1990. Con la legge 428/90, si
dispone che il trasferimento dell’azienda, quando l’azienda occupa più di 15 lavoratori,
deve formare oggetto di preventiva procedura di informazione e consultazione sindacale.
Si procedimentalizzano ancora una volta i poteri del ddl, tramite un controllo sindacale. Vi
è un controllo sindacale.
La procedura si articola in 2 fasi: una prima è necessaria e obbligatoria: è la fase
dell’informazione. La seconda fase, invece, è solo eventuale, ed è la fase dell’esame
congiunto (consultazione).
INFORMAZIONE la procedura inizia con una comunicazione di cedente e cessionario, che
intendono uno cedere e l’altro acquisire l’azienda o parte di essa. La comunicazione viene
inviata alle organizzazioni sindacali. Deve essere una comunicazione scritta, da inviare alle
RSU delle unità produttive interessate, e anche ai sindacati di categoria che hanno stipulato
il contratto collettivo applicato (o, in mancanza, a quelli comparativamente più
rappresentativi). Cedente e cessionario devono comunicare la data ed i motivi del
trasferimento che si intende effettuare, e anche le conseguenze giuridiche, economiche e
sociali che il trasferimento avrà sui rapporti di lavoro; l’informazione deve essere
PREVENTIVA al trasferimento: i sindacati devono essere avvertiti almeno 25 gg prima
della data di trasferimento, prima che le parti abbiano concluso qualsiasi accordo.
Sarebbe ad esempio tardiva l’informazione data dopo la conclusione di un contratto
preliminare o addirittura dopo la stipula del contratto definitivo: tale sarebbe un
comportamento antisindacale.
ESAME CONGIUNTO seconda fase eventuale. Entro 7 gg dall’informazione scritta, i
sindacati possono richiedere un esame congiunto con cedente e cessionario. Se richiesto, si
apre tale seconda fase. Cedente e cessionario, sono, in tal caso, obbligati ad avviare tale
seconda fase, entro 7 gg dalla richiesta di esame congiunto e devono proseguire l’esame
PER ALMENO 10 GG. Non vi è comunque nessun obbligo a concludere accordo con i
sindacati, di qualsiasi natura. Decorso il termine di 10 gg, i soggetti interessati, in
mancanza di accordo, possono procedere alla realizzazione del loro programma.

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La procedura sindacale intende favorire soprattutto un accordo che dia soluzione alle
problematiche derivanti dal passaggio dei lavoratori trasferiti, dalla vecchia alla nuova
azienda, soprattutto con riferimento al contratto collettivo applicabile.
Caratteristica di tale procedura sindacale è che l’informazione di cedente e cessionario
deve essere TEMPESTIVA, FEDELE E COMPLETA, al fine di consentire un esercizio effettivo
dell’azione sindacale. Se cedente e cessionario violano tali obblighi, potrebbero incorrere
nell’illecito della CONDOTTA SINDACABILE, reprimibile ai sensi dell’art 28 della legge 300.

SOSPENSIONE DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO PER FATTI INERENTI ALLA PERSONA DEL
LAVORATORE
La legge e la contrattazione prevedono il diritto del lavoratore di sospendere l’esecuzione
della prestazione di lavoro, in presenza di determinati eventi o per soddisfare esigenze
ritenute meritevoli di tutela. Le prime, fondamentali, esigenze prese in considerazione
sono legate alle condizioni fisiche della malattia, dell’infortunio, della gravidanza e del
puerperio. In presenza di tali eventi, l’articolo 2110 del Codice Civile stabilisce che, ove non
siano previste dalla legge forme equivalenti di previdenza o assistenza, è dovuta al
lavoratore la retribuzione o una indennità da parte del datore di lavoro.
Inoltre, il datore di lavoro non può recedere dal contratto di lavoro se non dopo che sia
decorso il periodo di conservazione del posto stabilito dalla legge, dai contratti collettivi,
dagli usi o secondo equità: l’intero periodo di assenza è computato nell’anzianità di
servizio. Il progresso civile e sociale, mentre ha fatto venire meno il servizio di leva
obbligatoria, ha consentito di rafforzare le altre tutele codicistiche (soprattutto con
riguardo alla maternità), e di apprestare analoghe garanzie per soddisfare nuove esigenze o
nuovi bisogni.
Diritti speciali di sospensione della prestazione lavorativa (senza diritto alla retribuzione)
sono stati, ad esempio, previsti: in relazione allo stato di tossicodipendenza o di patologie
alcolcorrelate, al fine di consentire al lavoratore di partecipare a programmi terapeutici e
riabilitativi; in relazione allo stato di disabilità, quando vi sia un aggravamento delle
condizioni di salute o vi siano significative variazioni dell’organizzazione del lavoro.
Sono stati, altresì, previsti “congedi per eventi e cause particolari”, che, a seconda dei casi,
possono essere retribuiti o non retribuiti. Di particolare rilievo sono i congedi per la
formazione, che si aggiungono ai permessi di studio, nonché gli ulteriori, distinti, “congedi
per la formazione continua”, finalizzati ad attuare il principio in base al quale tutti “i
lavoratori, occupati o non occupati, hanno diritto di proseguire i percorsi di formazione per
tutto l’arco della vita, per accrescere conoscenze e competenze professionali”.
Nei congedi formativi, peraltro, appare evidente come il diritto di assentarsi (e di non
svolgere la prestazione di lavoro) sia legato non ad uno stato fisico che è di ostacolo al
regolare svolgimento della prestazione di lavoro, bensì sia riconosciuto sulla base di una
valutazione di meritevolezza della causa (formazione) che determina l’assenza dal lavoro.
La stessa ratio è ravvisabile nelle disposizioni che riconoscono diritti di aspettative o
permessi per chi svolge funzioni di rappresentanza sindacale, nonché per chi svolge
“funzioni pubbliche elettive”. In particolare, i membri del Parlamento nazionale, del
Parlamento europeo e delle Assemblee regionali hanno facoltà di richiedere una

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aspettativa non retribuita. Anche ai lavoratori donatori di midollo osseo, sangue e
emocomponenti sono riconosciuti permessi retribuiti.
Particolare rilievo assume la tutela riguardante gli eventi della malattia e dell’infortunio. Tali eventi
determinano una situazione di temporanea incapacità di adempiere all’obbligazione di lavoro, che
comporterebbe, secondo i principi propri dei contratti a prestazione corrispettive, il venir meno
del diritto alla retribuzione relativa alla parte di prestazione non eseguita (ossia ai giorni di assenza
dal lavoro) o, addirittura, il recesso. Invece, a tutela della salute del lavoratore, è previsto che,
durante la malattia e l’infortunio sino alla guarigione, egli ha diritto alla conservazione del posto
di lavoro e alla percezione di un trattamento economico.
Anche a questo proposito, peraltro, opera il necessario contemperamento con le esigenze
dell’impresa e della collettività, in quanto la conservazione del posto di lavoro spetta per un
periodo predeterminato (chiamato periodo di comporto), superato il quale il datore di lavoro è
libero di recedere dal contratto di lavoro. Il periodo di conservazione del posto è determinato dai
contratti collettivi, che ne individuano la durata in misura differenziata in relazione ai diversi settori
economici, alla anzianità di servizio del lavoratore ed al suo inquadramento professionale.
La maggior parte dei contratti collettivi, inoltre, prevede e regola, distintamente, l’ipotesi in cui il
lavoratore sia affetto da una malattia unica ed ininterrotta (cd. comporto secco) e l’ipotesi in cui si
tratti di una pluralità di malattie, della stessa o di diversa natura (cd. comporto per sommatoria).
Ma, ove manchi una specifica disciplina di una delle due ipotesi, alla determinazione del periodo di
comporto provvede il giudice facendo ricorso all’equità. Per quanto riguarda il profilo economico,
vi è tuttora un trattamento differenziato tra operai ed impiegati.
Per gli impiegati, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere la retribuzione contrattualmente
prevista; per gli operai, invece, è prevista a carico degli enti previdenziali pubblici (INPS o INAIL)
l’erogazione di una indennità di natura assistenziale, che è determinata in misura inferiore alla
normale retribuzione e che non spetta nei primi giorni della malattia (cd. periodo di carenza
assicurativa). Tuttavia, i contratti collettivi hanno provveduto ad un graduale avvicinamento dei
due diversi regimi, prevedendo l’obbligo del datore di lavoro di anticipare l’indennità di malattia
agli operai e di integrarne gli importi in base alla misura e alla durata spettanti agli impiegati.
Purtroppo, la tutela apprestata dal legislatore e dalla contrattazione collettiva ha dato luogo anche
ad usi distorti, come quello dell’assenteismo da parte di soggetti “furbi” e “finti malati”, nei
confronti dei quali, in passato, non sempre vi è stata una adeguata reazione da parte della società
e della giurisprudenza che sarebbe dovuta nell’interesse della collettività. Per agevolare i controlli
necessari ad impedire o, almeno, contenere usi distorti, il legislatore ha previsto l’obbligo di
trasmissione telematica dei certificati medici direttamente all’INPS, e dall’INPS al datore di
lavoro, ove questi ne faccia richiesta.
Inoltre, nell’ipotesi di malattia protratta per più di 10 giorni e, in ogni caso, al terzo evento di
malattia nell’anno solare, la giustificazione dell’assenza richiede che la certificazione medica sia
rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario
nazionale. Infine, il legislatore ha individuato delle fasce orarie di reperibilità, durante le quali il
lavoratore malato è tenuto a rimanere nel proprio domicilio per l’effettuazione della visita di
controllo da parte delle istituzioni preposte.

99
La violazione di tale obbligo, ove non ricorra un giustificato motivo, comporta la decadenza
del diritto al trattamento economico relativo ai primi 10 giorni di malattia, nonché, nel caso
si verifichi una seconda assenza ingiustificata, la perdita della metà del trattamento
retributivo relativo all’ulteriore periodo di prosecuzione della malattia, qualunque ne sia la
durata. Dal canto sua, la giurisprudenza afferma che gli abusi della tutela della malattia
configurano illeciti anche sul piano disciplinare.
In particolare, configura giusta causa di licenziamento l’ipotesi in cui risulti che la malattia
denunziata è insussistente, ovvero risulti che durante la malattia il lavoratore si dedica allo
svolgimento di attività tali da aggravare la malattia stessa, o comunque, incompatibili con le
esigenze di cura o di riposo richiesti per una pronta guarigione e la regolare ripresa dell’attività
lavorativa. Senonché, è spesso difficile, se non impossibile, fornire la prova dell’insussistenza della
malattia o dello svolgimento di attività incompatibili, soprattutto quando si tratti di malattie di
breve durata.
Forse anche inconsapevolmente in considerazione di ciò, una recente sentenza della Corte di
Cassazione, ha ritenuto che, a prescindere dalla veridicità o no delle singole malattie, il ripetersi di
assenze per malattia di breve durata, collocate sistematicamente in determinati giorni (come
quelli a ridosso delle festività o durante le ferie, così da determinare il prolungamento dei giorni di
riposo), possa configurare giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ove determini rilevanti
disfunzioni all’organizzazione del lavoro.
Si tratta, però, di una pronunzia che è disattesa dall’orientamento tuttora prevalente della stessa
giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la malattia del lavoratore, anche ove si manifesti
attraverso episodi morbosi di breve durata (cd. eccessiva morbilità), comporta l’obbligo del datore
di lavoro di tollerare le assenze che ne derivano sino al momento in cui venga superato il periodo
di comporto.
È, infine, opinione unanime che il datore di lavoro possa intimare il licenziamento durante il
periodo di comporto, ove ricorrano ragioni diverse dalla malattia idonee a configurare giustificato
motivo o giusta causa. Nel caso di giustificato motivo, che comporta l’obbligo di preavviso, il
licenziamento produce i suoi effetti al termine della malattia; il licenziamento per giusta causa,
invece, non essendo sottoposto ad obbligo di preavviso e presupponendo, anzi, l’impossibilità
della prosecuzione del rapporto di lavoro anche in via provvisoria, è immediatamente efficace
anche in costanza di malattia.
CONGEDI PARENTALI
La Repubblica “protegge la maternità” e sancisce che “le condizioni di lavoro” della donna
lavoratrice “devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare
alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. In attuazione di tali principi, il
legislatore ordinario ha dettato una disciplina inizialmente caratterizzata dalla finalità di
protezione della salute della madre e del bambino. Tale disciplina si è evoluta, nel tempo, in due
direzioni.
Da un lato, sono stati presi in considerazione anche ulteriori bisogni affettivi e di “conciliazione
delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”. Dall’altro lato, le tutele legali sono state estese anche a
100
favore del lavoratore padre. Viene, così, riconosciuto rilievo alle esigenze affettive di entrambi i
genitori, e, allo stesso tempo, superando retaggi culturali, si mira a corresponsabilizzare anche il
lavoratore padre nello “adempimento dei compiti” relativi alla formazione della famiglia.
Con gli opportuni adattamenti, le stesse tutele sono state, altresì, estese a favore dei genitori
adottivi o affidatari. Le diverse disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della
maternità e della paternità sono state raccolte in un testo unico. Per l’esigenza di protezione della
salute, la legge prevede un divieto temporaneo di adibizione della lavoratrice a determinate
attività, durante il periodo di gravidanza e fino a 7 mesi di età del figlio.
Il divieto riguarda il trasporto ed il sollevamento pesi, nonché, in generale, i lavori pericolosi,
faticosi, insalubri; nei casi in cui opera tale divieto la lavoratrice è temporaneamente assegnata
ad altre mansioni, anche inferiori. Lo spostamento ad altre mansioni deve essere disposto anche
nel caso venga accertato dai servizi ispettivi pubblici che le condizioni di lavoro o ambientali sono
pregiudizievoli alla salute della donna.
Nel caso in cui lo spostamento non sia possibile, gli stessi servizi ispettivi dispongono l’interdizione
dal lavoro. Nel periodo pre e post partum, alla lavoratrice è, poi, riconosciuto un congedo di
maternità della durata complessiva di almeno 5 mesi, durante il quale opera un divieto assoluto di
adibizione al lavoro. La durata di tale divieto può essere estesa quando la lavoratrice sia addetta a
lavori gravosi o pregiudizievoli, o quando siano comunque accertate situazioni di rischio per la
salute.
Il congedo di maternità ricomprende, di norma, i due mesi precedenti la data presunta del parto e
i tre mesi successivi alla data in cui il parto è effettivamente avvenuto. Ove il parto avvenga dopo
la data presunta, si aggiungono al periodo di congedo i giorni intercorrenti tra data presunta e
data effettiva; ove il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, i giorni non goduti
si aggiungono, comunque, a quelli spettanti dopo il parto. Ferma restando la durata complessiva,
alla lavoratrice è riservata una limitata disponibilità di modificare l’inizio ed il termine del congedo
di maternità, avendo la facoltà di astenersi dal lavoro “a partire dal mese precedente la data
presunta del parto e nei quattro mesi successivi”, sempreché risulti accertato che ciò non arrechi
pregiudizio né alla gestante, né al nascituro.
È stato previsto che il periodo di congedo post partum può essere sospeso in caso di ricovero del
neonato in una struttura pubblica o privata, onde proseguirne la fruizione, nella parte non goduta,
al momento di dimissione del bambino. L’inosservanza delle disposizioni relative ai divieti di
adibizione al lavoro è sanzionata penalmente. Dal punto di vista della tutela economica, la
lavoratrice ha diritto ad una indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione, a carico dell’INPS
(anche ove venga anticipata dal datore di lavoro), per tutto il periodo del congedo di maternità.
Tale periodo, inoltre, è computato nell’anzianità di servizio “a tutti gli effetti”, come se si trattasse
di periodo di lavoro. Soltanto ai fini della progressione di carriera è consentito ai contratti collettivi
prevedere “particolari requisiti”.
L’indennità di maternità continua ad essere corrisposta anche nei casi in cui:

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a) il rapporto di lavoro venga risolto durante il periodo di congedo a causa della cessazione
dell’attività dell’azienda o della scadenza del termine apposto al rapporto di lavoro;
b) le lavoratrici gestanti si trovino, all’inizio del periodo di congedo, in una situazione di
sospensione dal lavoro, di assenza dal lavoro senza retribuzione, o di disoccupazione, sempreché
tale situazione si sia verificata entro 60 giorni dalla predetta data di inizio del congedo.
Quella natura emerge, altresì, dal fatto che, sia pure a diverse condizioni, un trattamento
economico di maternità è stato previsto anche per le lavoratrici autonome, le libere
professioniste, le imprenditrici, le lavoratrici parasubordinate e, in determinati casi, anche al padre
lavoratore autonomo. Infine, in aggiunta al congedo di maternità, durante il primo anno di vita del
bambino, è previsto il diritto della lavoratrice madre o, in determinati casi, del lavoratore padre di
fruire di riposi giornalieri retribuiti (precisamente della durata complessiva di due ore, ridotta ad
un’ora nel caso di orario giornaliero di lavoro inferiore a sei ore).
in alternativa al congedo di maternità della lavoratrice madre, è riconosciuto al lavoratore padre
un congedo di paternità, che, però, ha caratteristiche diverse. Esso, infatti, spetta esclusivamente
nei casi in cui la madre non possa assolvere alle sue funzioni (morte, gravità infermità, abbandono,
affidamento esclusivo del bambino al padre). Inoltre, il lavoratore ha la facoltà, ma non l’obbligo,
di fruire del congedo di paternità, poiché nel suo caso non ricorrono le ragioni di tutela della salute
che, per la madre, giustificano l’imposizione di un divieto di lavoro.

Ove si avvalga di tale diritto, il lavoratore padre gode del medesimo trattamento economico,
normativo e previdenziale previsto per il congedo di maternità. Il congedo di paternità è stato, da
ultimo, riconosciuto al lavoratore padre anche nell’ipotesi in cui la madre sia lavoratrice autonoma
o imprenditrice agricola. In via sperimentale, al fine di promuovere una maggiore condivisione dei
compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di
lavoro, è stato previsto che, in aggiunta al congedo di maternità della lavoratrice madre, il
lavoratore padre entro i 5 mesi dalla nascita del figlio, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per due
giorni (si tratta, quindi, di un congedo obbligatorio). Inoltre, egli ha la facoltà di fruire di due
ulteriori giorni di congedo, previo accordo con la madre e, in tale ipotesi, in sostituzione di due
corrispondenti giorni di congedo spettanti a quest’ultima.
Per i primi 12 anni di vita del bambino, è riconosciuto ad entrambi i genitori il diritto di fruire di
congedi, definiti “parentali”, per un periodo complessivo di dieci mesi. La legge intende stimolare
la ripartizione tra i due genitori dell’esercizio di tale diritto, e, in particolare, l’utilizzo del congedo
anche da parte del lavoratore padre (storicamente e culturalmente meno disponibile ad assentarsi
dal lavoro per la cura delle esigenze del bambino).
Quindi, è previsto che ciascun genitore non possa usufruire di un periodo di congedo superiore a 6
mesi (salvo il caso in cui, essendovi un solo genitore, il periodo complessivo di 10 mesi è
interamente di sua spettanza) ed è, altresì, previsto che, nel caso in cui il padre eserciti il diritto di
astenersi dal lavoro per un periodo non inferiore a 3 mesi, il suo limite individuale è elevato a 7
mesi e quello complessivo ad 11 mesi. Tuttavia, la legge prevede per i congedi parentali una tutela
economica ridotta, sia per quanto riguarda l’importo, sia per quanto riguarda il periodo di
erogazione. Una misura sperimentale finalizzata a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di
102
lavoro prevede la possibilità di concedere alla lavoratrice madre la corresponsione di voucher per
l’acquisto di servizi di baby-sitting o per fare fronte agli oneri dei servizi per l’infanzia.
A sostegno dei genitori di minore con handicap grave, inoltre, sono previste disposizioni di miglior
favore, sia per quanto riguarda i congedi parentali, sia per quanto riguarda i riposi giornalieri ed
altri permessi. Infine, è riconosciuto ad entrambi i genitori il diritto di astenersi dal lavoro,
alternativamente, per l’intera durata della malattia del figlio di età non superiore a 3 anni.
Superata tale età, quel diritto è riconosciuto fino all’ottavo anno del bambino nel limite di 5 giorni
lavorativi l’anno. Il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo all’esercizio del diritto di fruire i riposi
giornalieri, i congedi parentali e i congedi per la malattia del bambino sono puniti con sanzioni
amministrative.
DIVIETO DI LICENZIAMENTO
L’effettività dei diritti della lavoratrice e del lavoratore, quale il diritto alla procreazione e i diritti
che ne conseguono, è garantita anche da uno specifico divieto di licenziamento. La lavoratrice
madre non può essere licenziata durante l’intero periodo di gravidanza fino al compimento del
primo anno di età del bambino. Sono escluse da tale divieto esclusivamente le ipotesi di colpa
grave della lavoratrice che configuri giusta causa di licenziamento e di esito negativo della prova,
oltre che i casi della cessazione dell’attività dell’azienda e della scadenza del termine apposto al
contratto di lavoro.
Analogo divieto di licenziamento opera nei riguardi del lavoratore che fruisca del congedo di
paternità, per l’intera durata del congedo stesso e fino al compimento del primo anno di età del
bambino. È nullo, inoltre, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo
parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore. La violazione di
tali disposizioni comporta anche l’applicazione di sanzioni amministrative.
Nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento, e durante i primi tre anni di vita del bambino,
inoltre, è previsto che l’accordo di risoluzione del rapporto di lavoro e le dimissioni da parte della
lavoratrice e del lavoratore devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del
lavoro, onde verificare che la loro volontà non sia stata estorta dal datore di lavoro. Inoltre,
durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non è tenuta a dare il
preavviso delle dimissioni, ed anzi ha diritto alle indennità previste dalla legge e dalla
contrattazione collettiva in caso di licenziamento.
Lo stesso trattamento è applicabile al padre lavoratore che abbia fruito del congedo di paternità.
Durante il congedo di maternità e paternità, infine, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto di
conservare il posto di lavoro. Hanno, altresì, diritto, salvo che espressamente vi rinunzino, al
rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati in precedenza o in altra ubicata nel
medesimo comune e di rimanervi fino ad un anno di età del bambino. All’atto del rientro, il datore
di lavoro è tenuto a riassegnare alla lavoratrice ed al lavoratore le mansioni da ultimo svolte o
mansioni equivalenti. Anche tali garanzie sono estese, con gli opportuni adattamenti, ai genitori
adottivi o affidatari.
RETRIBUZIONE E CORRISPETTIVITA’

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La retribuzione è, anzitutto, l’oggetto del principale diritto del lavoratore derivante dal contratto
di lavoro. Per questa ragione, il legislatore predispone specifiche garanzie e tutele, la più
importante delle quali è dettata già dalla Carta costituzionale: ogni lavoratore ha diritto ad una
retribuzione “proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”. Oltreché un diritto individuale del
lavoratore, la retribuzione rappresenta una parte consistente del prodotto interno lordo nazionale.
Essa è oggetto di imposizione fiscale (a carico del lavoratore) e, come tale, contribuisce in misura
altrettanto consistente al finanziamento delle attività pubbliche; è anche oggetto dell’imposizione
contributiva (a carico, in parte del lavoratore, e per una parte maggiore, del datore di lavoro), che
è destinata specificamente a finanziare il sistema della previdenza sociale. Le politiche legislative e
di governo ruotano spesso intorno al tema delle retribuzioni, poiché, attraverso di esse, possono
essere perseguiti obiettivi di interesse economico generale.
Inoltre, anche nelle strategie dei sindacati, il tema della retribuzione è centrale, incidendo sul loro
stesso ruolo e sulla loro struttura organizzativa. Una delle più importanti funzioni sociali svolte dal
sindacato è la determinazione della retribuzione “minima” spettante nei diversi settori produttivi
sull’intero territorio nazionale. E a tale funzione può essere collegata, come causa od effetto, la
dimensione nazionale assunta storicamente dalle organizzazioni italiane e la centralizzazione della
contrattazione collettiva. La retribuzione è oggetto di una pluralità di norme, legali e contrattuali,
che hanno ambiti di applicazione e fini diversi, a volte tra loro nemmeno coordinati. E, di
conseguenza, sono diverse anche le nozioni di retribuzione che possono essere previste ed
utilizzate.
Il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive e la retribuzione è la
controprestazione dovuta al lavoratore quale corrispettivo della prestazione che egli si è obbligato
ad eseguire. Si tratta di una corrispettività che ha connotazioni del tutto peculiari rispetto a quella
che normalmente caratterizza i contratti di scambio, in quanto la prestazione del lavoratore non è
costituita dalla cessione o dalla locazione di un bene qualsiasi, ma dalla messa a disposizione di
beni della persona (le sue energie, la sua collaborazione, la sua fedeltà) che non sono separabili
dalla persona nel suo insieme. Pertanto, la determinazione del valore della prestazione di lavoro
non è rimessa al libero apprezzamento delle parti, essendo, comunque, dovuto un importo
“minimo” conforme ai requisiti stabiliti dall’articolo 36 della Costituzione.

La deviazione dal nesso di corrispettività risulta, in particolare, evidente dalla previsione del
requisito della “sufficienza” della retribuzione, che fa riferimento ad elementi estranei al valore
della prestazione di lavoro ed attribuisce rilievo ad elementi di natura socioeconomica. Una
ulteriore alterazione del principio di corrispettività è, poi, determinata da quelle disposizioni di
legge che prevedono il diritto del lavoratore alla retribuzione anche in talune ipotesi di
sospensione della prestazione di lavoro, causate da eventi riconducibili non solo all’impresa, ma
anche alla persona del lavoratore stesso.
Particolarmente significativa, al riguardo, è anche la previsione dei permessi sindacali “retribuiti”,
durante i quali il lavoratore svolge una attività non a favore del datore di lavoro, bensì
nell’interesse dei lavoratori. Altre disposizioni, infine, prevedono il diritto del lavoratore a

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trattamenti retributivi, cosiddetti “differiti” o “indiretti”, che compensano la collaborazione
complessivamente fornita dal lavoratore nel corso dell’anno, o dell’intero rapporto di lavoro. Si
può, dunque, affermare che, in base alla disciplina di legge e della contrattazione collettiva, la
retribuzione costituisce il corrispettivo della complessiva situazione di implicazione della persona
del lavoratore che il contratto di lavoro comporta.
Nell’impianto costituzionale, il compito di determinare la retribuzione “minima”, ai sensi
dell’articolo 36 della Costituzione, avrebbe dovuto essere assolto dai contratti collettivi previsti
dall’ultimo comma dell’articolo 39 della Costituzione, i quali, avendo efficacia generale, avrebbero
assicurato a tutti i lavoratori il diritto di percepire i trattamenti retributivi previsti da quei contratti.
Stante l’inattuazione del sistema di contrattazione collettiva efficace erga omnes, quel compito è
stato assolto dalla giurisprudenza mediante una interpretazione creativa.
A tal fine, la giurisprudenza HA PRESO LE MOSSE DALL’AFFERMAZIONE DELLA IMMEDIATA
PRECETTIVITÀ DELL’ARTICOLO 36 DELLA COSTITUZIONE, dalla quale ha fatto correttamente
derivare la nullità delle clausole dei contratti individuali che non prevedono una retribuzione
conforme ai requisiti della sufficienza e della proporzionalità. Altrettanto correttamente, è stato
ritenuto che la nullità di tali clausole non comporti la nullità dell’intero contratto, poiché una tale
conseguenza si tradurrebbe in danno del soggetto protetto.
Svolte tali corrette premesse, la giurisprudenza ha operato una interpretazione estensiva
dell’articolo 2099, comma 2, del Codice Civile ritenendo che tali disposizioni, pur affidando al
giudice il compito di determinare la retribuzione “in mancanza di accordo tra le parti”, sia
applicabile anche all’ipotesi in cui le parti abbiano stipulato un accordo, ma questo sia nullo
perché in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione. Ciò posto, restava il problema di come
individuare, in relazione al singolo rapporto di lavoro dedotto in giudizio, l’importo della
retribuzione che corrisponde ai requisiti della sufficienza e della proporzionalità, tanto al fine di
valutare se l’accordo individuale sia o no nullo, quanto al fine di quantificare, in caso di nullità,
quali differenze di retribuzione siano dovute dal datore di lavoro.
Questo ulteriore problema è stato risolto anche esso in modo pragmatico, e ragionevole. I giudici,
infatti, da un lato, hanno rinunziato a svolgere quelle complesse indagini tecniche che sarebbero
state necessarie per accertare, caso per caso, la retribuzione proporzionata e sufficiente in base
alle caratteristiche del lavoro svolto, alla situazione di mercato e alle condizioni di vita e familiari
del lavoratore; d’altro lato, hanno, invece, scelto di fare riferimento alla retribuzione prevista dai
contratti collettivi nazionali di diritto comune nel cui campo di applicazione sia riconducibile il
rapporto di lavoro dedotto in giudizio, sia pure tenendo conto che tali contratti, non avendo
efficacia generale, possono essere utilizzati solo come parametri di orientamento e non già come
fonti vincolanti.
Tale scelta appare perfettamente coerente con l’impianto costituzionale che riconosce alle
organizzazioni sindacali una specifica competenza in materia di regolazione delle condizioni di
lavoro. Inoltre, quella scelta è ragionevole perché prende atto che tali soggetti possiedono una
diretta conoscenza delle caratteristiche della produzione e del lavoro nei diversi settori, e che i
contratti collettivi che essi stipulano sono il risultato di una negoziazione che tiene conto sia delle
rivendicazioni dei lavoratori ma anche degli interessi dell’impresa.

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Va, però, evidenziato come una scelta siffatta finisca con il privilegiare il requisito costituzionale
della proporzionalità rispetto a quello della sufficienza, in quanto la contrattazione collettiva non
differenzia le retribuzioni in base alle esigenze familiari del lavoratore (le quali formano, peraltro,
oggetto di una specifica forma di tutela previdenziale). Peraltro, essendo un parametro non
vincolante, il giudice non è tenuto alla rigida applicazione di ogni singola “voce” retributiva
prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
Cosicché, se è costantemente riconosciuto che il “minimo” costituzionale comprenda almeno la
retribuzione cd. “base” (ossia quella prevista, in relazione all’orario di lavoro svolto, per ciascuna
qualifica o livello dell’inquadramento professionale), da tale minimo sono state escluse altre
erogazioni aggiuntive, quali gli scatti di anzianità e la quattordicesima mensilità. In casi particolari,
il giudice si è discostato anche dalla retribuzione “base” facendo riferimento alle particolari
caratteristiche dell’impresa o del lavoro svolto, ovvero ritenendo legittime le riduzioni stabilite da
contratti collettivi territoriali o aziendali.

Almeno in questa ultima ipotesi, il discostamento dal parametro della contrattazione nazionale
appare condivisibile, in quanto i contratti collettivi territoriali e aziendali, oltre ad essere anche essi
espressione della libertà sindacale protetta dall’articolo 39, comma 1 della Costituzione, sono
stipulati da soggetti che hanno una conoscenza più diretta del mercato del lavoro e del costo della
vita locali. È da ricordare, infine, che, nel caso in cui il contratto collettivo sia direttamente
applicabile al rapporto di lavoro, tutti i trattamenti retributivi che esso prevede costituiscono
trattamenti minimi inderogabili.
In ipotesi del tutto eccezionali, però, anche la retribuzione prevista dal contratto collettivo
potrebbe essere considerata non conforme alla disposizione dell’articolo 36 della Costituzione,
come è avvenuto in relazione a fattispecie nelle quali il termine di vigenza del contratto collettivo
era scaduto da tempo e non si era proceduto al suo rinnovo, cosicché la retribuzione prevista nel
contratto scaduto non è stata ritenuta adeguata all’aumento del costo della vita nel frattempo
intervenuto.

Ai sensi dell’articolo 2099 del Codice civile, la retribuzione può essere stabilita in forme diverse: a
tempo o a cottimo, con la partecipazione agli utili o ai prodotti dell’azienda, con provvigione o con
prestazioni in natura. Qualunque sia la forma scelta dalle parti, essa non può mai determinare
l’erogazione di una retribuzione inferiore a quella “minima”. Ne deriva che le forme che
comportano l’erogazione di retribuzioni di importo variabile ed incerto (come la provvigione) o
prestazioni in natura (tra le quali rientra anche la partecipazione ai prodotti) non sono utilizzate, di
norma, in via esclusiva, bensì sono applicate ad integrazione di una retribuzione “fissa” che
garantisca di per sé il rispetto dei requisiti previsti dall’articolo 36 della Costituzione.
Anche per questa ragione, la forma di gran lunga più diffusa è quella che commisura la
retribuzione esclusivamente al “tempo”, ossia all’orario di lavoro, senza attribuire alcun rilievo né
ai risultati della prestazione di lavoro, né all’utilità che ne abbia tratto il datore di lavoro. La
retribuzione a cottimo, invece, è commisurata al RENDIMENTO del lavoro reso dal singolo
lavoratore o dal “gruppo” in cui è inserito, sulla base di “tariffe” concordate con il sindacato,
106
nonché di parametri predeterminati, i quali non possono essere modificati unilateralmente dal
datore di lavoro se non in relazione a oggettivi mutamenti nelle condizioni di esecuzione del
lavoro.

La contrattazione collettiva prevede, di solito, che la retribuzione non sia integralmente a cottimo
(cd. cottimo integrale), bensì sia determinata mediante l’applicazione di una maggiorazione
rispetto alla retribuzione già determinata in ragione del tempo. Il sistema del cottimo è
obbligatorio, per assicurare al lavoratore la possibilità di una maggiore retribuzione, quando
l’organizzazione del lavoro vincola il lavoratore “all’osservanza di un determinato ritmo
produttivo” o quando la sua prestazione è valutata “in base al risultato della misurazione dei tempi
di lavorazione”.
L’obbligo del cottimo è, inoltre, previsto nel lavoro a domicilio, poiché, essendo quest’ultimo
svolto fuori della possibilità di controllo da parte del datore di lavoro, la retribuzione non può
essere commisurata al tempo di lavoro. Per contro, tale sistema è vietato nell’apprendistato,
essendo ritenuto incompatibile con la funzione formativa che tale contratto assolve. Le altre forme
di retribuzione previste dall’articolo 2099 del Codice Civile sono meno diffuse. La partecipazione
agli utili dell’impresa è poco diffusa anche perché essa deve essere calcolata, salvo patto contrario,
sugli utili netti dell’impresa (come risultanti dal bilancio, nel caso di imprese soggette alla sua
pubblicazione), rispetto ai quali, però, il lavoratore non ha un potere direttivo di effettivo
controllo.
La provvigione, determinata in percentuale agli affari conclusi dal lavoratore, è il corrispettivo
tipico nel contratto di agenzia, ed è applicabile al lavoro subordinato esclusivamente quando il
lavoratore sia addetto a mansioni che implichino la promozione della vendita di beni o servizi.
Circoscritte nell’ambito di particolari attività lavorative sono, poi, la partecipazione ai prodotti ed
altre tradizionali prestazioni in natura (come il vitto e l’alloggio nel lavoro domestico). Retribuzione
in natura può essere considerata anche la concessione di benefici, quali la stipulazione di polizze
assicurative o la concessione di beni anche ad uso personale.

Per converso, assumono maggior rilievo altre forme di partecipazione economica all’impresa da
parte dei lavoratori, e, in particolare, le forme di retribuzione variabile collegate a vari indicati
della produttività individuale o di gruppo, o della redditività dell’impresa, in relazione alle quali
sono previste anche agevolazioni contributive e fiscali.
La retribuzione dovuta al lavoratore è costituita da una pluralità di attribuzioni patrimoniali, che
hanno origini e finalità diverse. La più utile distinzione che deve essere tenuta presente, al fine di
classificare le diverse attribuzioni, è tra quelle che hanno fonte legale e quelle che hanno fonte
nella contrattazione collettiva. Le erogazioni di fonte legale, infatti, sono generalmente applicabili
a tutti i lavoratori, e anche i contratti collettivi non possono disporre di esse, se non nei limiti
individuati dalla legge stessa.
Le attribuzioni di fonte collettiva, invece, non sono sottoposte ad alcun limite legale e possono,
quindi, essere liberamente regolate dalle parti sindacali per quanto riguarda sia i destinatari, sia le

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condizioni di maturazione del diritto, sia i criteri di calcolo. Tra le attribuzioni di fonte legale
possono essere ricordate le maggiorazioni previste per il lavoro straordinario, il lavoro
supplementare nel part-time, il lavoro notturno, il lavoro domenicale e quello prestato durante le
altre ricorrenze festive.
Tali maggiorazioni possono essere considerate anche attuazione del principio costituzionale della
proporzionalità della retribuzione, essendo dirette a prevedere una remunerazione aggiuntiva per
prestazioni da ritenersi più gravose di quelle retribuite dalla sola retribuzione “base”. Molto più
numerose ed eterogenee sono le attribuzioni di fonte collettiva. Pressoché generalizzata è la
tredicesima mensilità. La corresponsione di tale mensilità aggiuntiva di retribuzione, pur avendo
origine contrattuale, è ritenuta obbligatoria per tutti i lavoratori dell’industria (cui l’accordo
interconfederale che l’ha prevista si riferisce).
In alcuni settori è prevista anche una quattordicesima mensilità, corrisposta nel mese di giugno.
Ampia diffusione hanno anche gli scatti di anzianità, che costituiscono aumenti periodici legati
all’anzianità di servizio e alla presunta maggiore qualità della prestazione derivante dalla crescita
dell’esperienza professionale; ma la contrattazione collettiva ha avviato da tempo un processo di
riduzione della loro incidenza complessiva, ritenendo che essi rappresentino un automatismo di
incremento della retribuzione che assorbe risorse del costo del lavoro più opportunamente
utilizzabili per incentivare la produttività ed il merito.
A livello aziendale era pure relativamente diffusa la previsione di premi annuali, conseguiti
adottando come parametro un qualsiasi indicatore di produttività o di redditività, (quali i premi di
presenza) o di “superminimi” collettivi, che costituiscono incrementi fissi della retribuzione “base”.
Dai superminimi collettivi sono da tenere distinti i “superminimi” individuali, o ad personam, che
possono essere concessi unilateralmente dal datore di lavoro o costituire oggetto di accordo tra le
parti (al momento dell’assunzione, o nel corso del rapporto di lavoro).
Va ricordato, infatti, che anche in materia retributiva le disposizioni dei contratti collettivi sono
inderogabili solo in pejus, ed è, quindi, sempre consentita la previsione di condizioni individuali di
miglior favore per il lavoratore. Si pone, al riguardo, il problema di sapere se il superminimo
concesso individualmente possa essere o no “assorbito” dagli aumenti della retribuzione previsti
da contratti collettivi stipulati successivamente. Questo problema è risolto spesso nell’atto stesso
di concessione del superminimo, mediante una previsione esplicita.
Ma, la soluzione deve essere fatta, comunque, discendere dalla volontà negoziale, sia pure
ricavata mediante l’applicazione dei criteri di interpretazione diversi da quello testuale.
Tendenzialmente, si è indotti a ritenere che l’assorbimento deve essere escluso quando risulti che
il superminimo sia stato attribuito per premiare particolari qualità del lavoratore. Infine, i contratti
collettivi prevedono una eterogenea varietà di indennità collegate a condizioni particolari del
lavoro, le quali hanno, anche esse, solitamente natura retributiva, poiché costituiscono il
corrispettivo della prestazione di lavoro.
Non hanno, invece, natura retributiva le attribuzioni che non costituiscono corrispettivo della
prestazione di lavoro. Così è per quanto riguarda: i rimborsi spese, i quali hanno ad oggetto
esclusivamente la reintegrazione del patrimonio del lavoratore dalle spese sostenute nell’interesse
del datore di lavoro; le elargizioni corrisposte dal datore di lavoro per mera liberalità; altre

108
attribuzioni che abbiano una causa distinta ed autonoma dal contratto di lavoro, come avviene nel
caso di fornitura di beni o servizi aziendali al loro normale prezzo di mercato.
Diversamente dalla retribuzione tabellare, le altre voci retributive sono normalmente determinate
mediante la previsione dei criteri per provvedere alla loro determinazione. Per il trattamento di
fine rapporto, ad esempio, si deve tenere conto di “tutte le somme, compreso l’equivalente delle
prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale”,
restando salva l’eventuale “diversa previsione dei contratti collettivi”; nell’indennità di mancato
preavviso, va computato “ogni compenso di carattere continuativo”; per le festività non lavorate, è
previsto il diritto alla “normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento
accessorio”.

Nei casi appena elencati, quindi, la base di calcolo dell’istituito retributivo previsto dalla legge è
individuata utilizzando come parametro di riferimento una nozione ampia di retribuzione. Non
esistendo un principio generale di onnicomprensività della retribuzione, la individuazione della
base di calcolo degli istituti diversi dalla retribuzione tabellare deve essere fatta discendere
dall’interpretazione delle specifiche disposizioni di legge e contrattuali che regolano ciascuno di
essi.

Va ricordato, infine, che la retribuzione costituisce anche il reddito sulla base del quale sono
calcolati e versati i contribuiti previdenziali e le imposte. A tal fine, il legislatore individua una base
di calcolo notevolmente ampia, funzionale all’incremento delle risorse destinate al finanziamento
del sistema tributario e della previdenza sociale. Specifiche disposizioni, però, prevedono
esclusioni o riduzioni dell’obbligo impositivo, al fine di perseguire determinati obiettivi di politica
economica e sociale.
TFR
La legge prevede il diritto del lavoratore ad una erogazione legata alla cessazione del rapporto di
lavoro. Tale erogazione ha le sue radici nella indennità di anzianità: La indennità di anzianità
doveva essere “proporzionale agli anni di servizio” e la sua base di calcolo era rappresentata dalla
“ultima retribuzione” percepita dal lavoratore: quindi, l’ammontare della indennità spettante era
determinato moltiplicando l’ultima retribuzione per il numero degli anni di servizio. Tale sistema di
calcolo era particolarmente favorevole per il lavoratore, poiché l’ultima retribuzione è solitamente
più elevata di quella percepita nel corso del rapporto di lavoro (e, in particolare, durante la fase
iniziale).
La legge, successivamente, soppresse l’indennità di anzianità, e, in sua sostituzione, ha introdotto
il trattamento di fine rapporto, che è strettamente legato all’effettiva progressione economica del
lavoratore durante l’intero rapporto di lavoro. Il trattamento di fine rapporto, infatti, si calcola
accantonando e sommando singole quote della retribuzione effettivamente percepita in ogni anno
di servizio. In particolare, le singole quote da accantonare anno per anno sono determinate
dividendo la retribuzione annua per 13,5, in considerazione della tendenziale articolazione
contrattuale di quest’ultima su 13 o 14 mensilità.

109
Per le frazioni di anno, la quota è proporzionalmente ridotta considerando come mese intero le
frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni. Le singole quote accantonate sono rivalutate ogni
anno per tenere conto degli effetti dell’inflazione mediante l’applicazione di un tasso costituito
dall’1,5% in misura fissa e dal 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo accertato
dall’ISTAT rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente.
La retribuzione annua da prendere come base di calcolo è assai ampia, poiché è rappresentata da
tutte le somme corrisposte al lavoratore, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, in
dipendenza del rapporto di lavoro. Sono escluse dalla base di calcolo soltanto le somme
corrisposte a titolo occasionale (ossia dirette a remunerare specifiche prestazioni, o modalità della
prestazione, aventi carattere straordinario od episodico), nonché i rimborsi spese (ossia le somme
dirette a rifondere il lavoratore di spese sostenute nell’interesse del datore di lavoro).
I contratti collettivi hanno, però, il potere di apportare deroghe anche in senso peggiorativo per i
lavoratori, adottando una base di calcolo più circoscritta. Nell’ipotesi di sospensione del rapporto
di lavoro dovuta ad una delle cause previste dall’articolo 2110 del Codice Civile o all’intervento
delle integrazioni salariali, la retribuzione da prendere come riferimento per calcolare il
trattamento di fine rapporto è quella che il lavoratore avrebbe percepito in caso di normale
svolgimento del rapporto di lavoro. Il trattamento di fine rapporto, in quanto somma di quote di
retribuzione accantonate annualmente, ha natura di RETRIBUZIONE DIFFERITA.
Ha natura di retribuzione, perché costituisce il corrispettivo del complesso delle prestazioni rese
nel tempo dal lavoratore. Si tratta di retribuzione differita, poiché il diritto alla sua erogazione
sorge soltanto al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Prima di tale evento, non è
configurabile un diritto del lavoratore alle singole quote del trattamento di fine rapporto
accantonate anno per anno, eccetto che sia riconosciuto un tale diritto.
PREVIDENZA COMPLEMENTARE TFR, ANTICIPAZIONI E INDENNITA’ IN CASO DI MORTE
Ferma la sua natura retributiva, il trattamento di fine rapporto, essendo erogato in ogni caso di
cessazione del rapporto di lavoro ed essendo, quindi, destinato a soddisfare bisogni futuri del
lavoratore, svolge sostanzialmente una funzione previdenziale. In particolare, nei casi di
cessazione involontaria del rapporto di lavoro (come nel caso di licenziamento), il trattamento di
fine rapporto ha svolto, di fatto, la funzione di ammortizzatore sociale, anche tenuto conto delle
limitate prestazioni offerte dalla tutela previdenziale pubblica.
Stante la sua funzione, quando il legislatore ha regolato e promosso le forme di previdenza
complementare, ha previsto che il trattamento di fine rapporto possa essere una fonte privilegiata
per il loro finanziamento. I lavoratori, quindi, possono conferire alle forme di previdenza
complementare, con modalità esplicite o tacite, gli accantonamenti annuali del trattamento di fine
rapporto. Non si tratta, però, di un obbligo, in quanto i lavoratori, entro sei mesi dall’assunzione,
possono anche decidere di mantenere il trattamento di fine rapporto presso il datore di lavoro.
In quest’ultimo caso, la legge prevede due distinte discipline a seconda del numero dei lavoratori
occupati dal datore di lavoro. Ove i lavoratori siano 50 o più, il datore di lavoro deve
automaticamente conferire l’intero accantonamento annuale per il trattamento di fine rapporto
ad un apposito fondo istituito presso l’INPS per conto dello Stato. Per agevolarne la
corresponsione, è tuttavia previsto che, analogamente a quanto avviene per le integrazioni
110
salariali, anche il trattamento di fine rapporto trasferito al fondo dell’INPS sia materialmente
erogato dal datore di lavoro, salvo successivo conguaglio con i contributi dovuti dallo stesso datore
di lavoro all’INPS.

Per far fronte alla perdita di liquidità derivante dall’obbligo di conferire le quote
dell’accantonamento annuale del trattamento di fine rapporto al fondo dell’INPS, la legge prevede
specifiche misure compensative per il datore di lavoro, consistenti in agevolazioni fiscali e
contributive. Ove, invece, il datore di lavoro occupi fino a 49 dipendenti, l’accantonamento
annuale per il trattamento di fine rapporto continua a restare nella sua disponibilità fino al
momento della cessazione del rapporto di lavoro.
La funzione previdenziale del trattamento di fine rapporto trova ulteriore conferma nella disciplina
delle anticipazioni. Il lavoratore, infatti, nel corso del rapporto, può richiedere una anticipazione
del trattamento di fine rapporto maturato fino a quel momento, ma soltanto per soddisfare alcuni
specifici bisogni ritenuti meritevoli di tutela. In particolare, la richiesta deve essere giustificata
dalle seguenti necessità:
a) spese sanitarie per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture
pubbliche;
b) acquisto, anche in itinere, della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con
atto notarile o con qualsiasi altro mezzo idoneo;
c) spese da sostenere durante i periodi di congedo parentale e per la formazione.
Per poter richiedere l’anticipazione, il lavoratore deve avere almeno 8 anni di anzianità di servizio
presso lo stesso datore di lavoro.
L’anticipazione può essere richiesta una sola volta nel corso del rapporto e non può eccedere il
70% del trattamento di fine rapporto maturato alla data della richiesta.: si intende evitare che
possa essere vanificata la funzione essenziale del trattamento di fine rapporto, cioè GARANTIRE AL
LAVORATORE UN SOSTEGNO ECONOMICO al momento dell’estinzione del rapporto di lavoro.
Inoltre, il datore di lavoro, così come il fondo dell’INPS, sono tenuti a soddisfare le richieste di
anticipazione, ogni anno, soltanto entro il limite del 10% degli aventi titolo e, comunque, entro il
4% del numero totale dei dipendenti. Da ciò si desume che il legislatore ha anche inteso porre un
limite agli oneri gravanti sul datore di lavoro a causa dell’esborso anticipato di parte del
trattamento di fine rapporto.
La disciplina delle anticipazioni, peraltro, può essere integrata dall’autonomia negoziale, sia
collettiva che individuale, prevedendo condizioni di miglior favore per quanto riguarda: a)
l’importo dell’anticipazione; b) l’individuazione degli aventi diritto; c) la previsione di ulteriori
causali, le quali devono comunque essere collegate all’esistenza di bisogni essenziali del lavoratore
e della sua famiglia. La sola autonomia collettiva, infine, può anche stabilire criteri di priorità per
l’accoglimento delle richieste di anticipazione.
L’anticipazione concessa al lavoratore è detratta, a tutti gli effetti, dal trattamento di fine rapporto
dovuto al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

111
In via sperimentale e temporanea, con riferimento al periodo dal 1 marzo 2015 al 30 giugno 2018,
il legislatore ha previsto la possibilità per i lavoratori con almeno 6 mesi di anzianità di servizio
presso lo stesso datore di lavoro (esclusi i lavoratori domestici e quelli del settore agricolo) di
richiedere il pagamento delle quote maturande del trattamento di fine rapporto, compresa la
parte eventualmente già destinata alla previdenza complementare, mensilmente in busta paga
come parte integrativa della retribuzione.
Si tratta di un intervento innovativo che, se reso strutturale e confermato, determinerebbe un
inevitabile ripensamento della natura e della funzione del trattamento di fine rapporto. L’obiettivo
perseguito è quello di far ripartire i consumi e con essi la domanda interna assicurando al
lavoratore l’immediata disponibilità di un reddito più elevato.
Nel caso in cui il rapporto di lavoro si estingua per la morte del prestatore di lavoro, il datore di
lavoro è tenuto a corrispondere ai figli e, se vivevano a suo carico, ai parenti entro il terzo grado e
agli affini entro il secondo grado, l’indennità in caso di morte. Tale indennità è costituita
dall’indennità sostitutiva del preavviso e dal trattamento di fine rapporto e svolge essenzialmente
una funzione previdenziale, in quanto spetta alle persone che più dipendevano economicamente
dal lavoratore defunto.
Tra di esse è compreso anche il coniuge divorziato purché non sia passato a nuove nozze e risulti
titolare di un assegno di mantenimento a carico del de cuius. Ad ulteriore conferma della funzione
previdenziale assolta dalla indennità in caso di morte, la legge prevede che essa sia ripartita
secondo il bisogno effettivo di ciascuno, salvo diverso accordo tra gli aventi diritto. Soltanto in caso
di mancanza dei superstiti, è previsto che l’indennità in caso di morte debba essere attribuita in
base alle norme sulla successione legittima e che il lavoratore ne possa disporre per testamento.
Per tale ragione, dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono che ai familiari titolari del diritto
l’indennità in caso di morte sia attribuita iure proprio, e non, invece, iure successionis. La disciplina
di legge dell’indennità in caso di morte è inderogabile, essendo prevista la nullità di ogni patto
anteriore alla morte del prestatore di lavoro che abbia ad oggetto l’attribuzione dell’indennità e i
relativi criteri di ripartizione, confermando così anche la generale avversione dell’ordinamento
verso i patti successori.
RISARCIMENTO DEL DANNO
Secondo i principi generali, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito a causa di
quelle condotte del datore di lavoro che configurino inadempimento alla disciplina legale e
contrattuale che regola il rapporto di lavoro. Il danno risarcibile è sia quello patrimoniale,
comprensivo del danno emergente e del lucro cessante, sia quello non patrimoniale che derivi
dalla lesione dei diritti inviolabili della persona. Ed infatti, il riconoscimento di tali diritti contenuti
nella Costituzione “configura un caso determinato della legge, al massimo livello, di riparazione del
danno non patrimoniale”.
Pertanto, anche in assenza di conseguenze patrimoniali, il lavoratore ha diritto al risarcimento dei
danni alla salute, alla dignità, all’onore, all’immagine, alla riservatezza e alla professionalità,
eventualmente patiti in conseguenza di atti o comportamenti illegittimi posti in essere dal datore
di lavoro. Il danno non patrimoniale subito dal lavoratore deve formare oggetto di una valutazione
complessiva ed unitaria da parte del giudice.
112
Possono, in particolare, venire in considerazione: la componente biologica, costituita dalla lesione
della integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale, indipendentemente dalla sua
incidenza sulla capacità del lavoratore di produrre reddito; la componente esistenziale, costituita
dal pregiudizio (oggettivamente accertabile e di natura non meramente emotiva) provocato alle
abitudini di vita e alle relazioni socio-familiari del lavoratore (e di conseguenza ai modi in cui la
personalità si esprime e si realizza al di fuori delle attività reddituali); la componente morale,
costituita dalla sofferenza patita.
Il diritto al risarcimento del danno implica che venga fornita la prova della sussistenza del danno,
oltreché del nesso di causalità tra il danno stesso e l’inadempimento del datore di lavoro. Tali
principi valgono anche nell’ipotesi di danno alla professionalità, che il lavoratore lamenti di aver
subito a causa della condotta del datore di lavoro che lo abbia lasciato inattivo (non
consentendogli di svolgere alcuna prestazione di lavoro), ovvero lo abbia assegnato a svolgere
mansioni dequalificanti. Ed infatti, anche se l’ordinamento riconosce e tutela il diritto del
lavoratore all’esecuzione della prestazione lavorativa e al mantenimento della professionalità
acquisita, la lesione di tale diritto non comporta “automaticamente” il verificarsi di un danno.
È, quindi, necessario che la domanda in giudizio contenga le specifiche allegazioni idonee ad
individuare la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, poiché “la violazione di un dovere
non equivale a danno e questo non discende automaticamente dalla violazione del dovere”. Solo
ove sia stata fornita la prova dell’esistenza del danno, anche mediante presunzioni, l’impossibilità,
o la obiettiva difficoltà, di provarne il “preciso ammontare” consente di procedere alla liquidazione
del danno stesso con valutazione equitativa.
GARANZIE CREDITI DI LAVORO
La legge prevede specifiche garanzie per assicurare l’effettiva soddisfazione dei crediti retributivi e
di altri crediti pecuniari del lavoratore. Anzitutto, per conservare il valore del credito in caso di
inadempimento da parte del datore di lavoro, sono dovuti, “oltre gli interessi nella misura legale, il
maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione del valore del suo
credito”, con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto.
Il legislatore, peraltro, con una disposizione riguardante gli “emolumenti di natura retributiva”
spettanti sia ai dipendenti pubblici che ai dipendenti privati, aveva escluso la cumulabilità
dell’indennizzo da svalutazione monetaria con gli interessi legali, ma la Corte Costituzionale ha
dichiarato illegittima tale disposizione con riguardo ai dipendenti privati, ritenendo necessario, per
questi ultimi, “una effettiva specialità di tutela, rispetto alla generalità degli altri crediti”.
Ai lavoratori subordinati, inoltre, sono riconosciute cause legittime di prelazione per quanto
riguarda la soddisfazione dei propri crediti sui beni del debitore datore di lavoro. In particolare, un
privilegio generale sui beni mobili del debitore è accordato ai crediti relativi alle retribuzioni
dovute “sotto qualsiasi forma”, alle indennità derivanti dalla cessazione del rapporto di lavoro, e al
risarcimento dei danni derivanti da omissione contributiva o da licenziamento illegittimo. Tali
crediti, peraltro, in caso di concorso tra più crediti privilegiati, sono preferiti ad ogni altro credito
con la sola eccezione delle spese di giudizio.
In caso di infruttuosa esecuzione sui beni mobili, i crediti in questione sono collocati
sussidiariamente sul prezzo degli immobili, con preferenza, però, solo rispetto ai crediti
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chirografari. Nell’ipotesi di insolvenza del datore di lavoro, il legislatore ha istituito un Fondo
pubblico di garanzia che assicura al lavoratore il pagamento del trattamento di fine rapporto,
nonché, a determinate condizioni, il pagamento delle retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del
rapporto.
Infine, i crediti retributivi sono protetti anche da azioni esecutive da parte di terzi. Retribuzioni e
indennità relative al rapporto di lavoro possono essere oggetto di pignoramento e sequestro solo
nella misura di un terzo per i crediti alimentari e di un quinto per i tributi e per ogni altro credito.
Nel caso di simultaneo concorso di più pignoramenti o sequestri, e tra di essi uno sia relativo a
crediti alimentari, la misura massima pignorabile o sequestrabile è elevata alla metà delle
retribuzioni e delle indennità di cui il lavoratore è creditore. Gli stessi limiti si applicano anche
nell’ipotesi di compensazione. Una apposita disciplina limitativa è, invece, dettata per limitare la
cessione di quote della retribuzione e regolare l’ipotesi di concorso con pignoramenti e sequestri.
PRESCRIZIONE CREDITI DI LAVORO
La disciplina della prescrizione in materia di diritti dei lavoratori, salvo eccezioni, è ancora oggi
quella generale dettata dal Codice civile, sulla quale, però, ha inciso notevolmente la
giurisprudenza della Corte Costituzionale. Anzitutto, anche i diritti dei lavoratori si estinguono per
prescrizione quando essi non vengono esercitati “per il tempo determinato dalla legge”. In
particolare, il Codice civile prevede un termine “breve” di 5 anni per la prescrizione di “tutto ciò
che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, nonché delle “indennità
spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”.
Dunque, i diritti di credito del lavoratore si prescrivono in 5 anni, sia ove abbiano ad oggetto le
retribuzioni che costituiscono il corrispettivo diretto delle prestazioni tempo per tempo rese, sia
ove abbiano ad oggetto le forme di retribuzione differita erogate annualmente (quali le mensilità
aggiuntive), sia ove abbiano ad oggetto il trattamento di fine rapporto o la indennità di mancato
preavviso.
La prescrizione ordinaria, che è invece decennale, trova applicazione in relazione ai diritti del
lavoratore aventi ad oggetto il risarcimento del danno o le retribuzioni erogate con periodicità
superiore all’anno e non legate alla cessazione del rapporto di lavoro, ovvero, ancora, in relazione
a diritti di contenuto non patrimoniale (quale, ad esempio, il diritto al riconoscimento della
qualifica superiore in corrispondenza delle mansioni effettivamente svolte).
Per le sole “retribuzioni” è prevista anche una prescrizione “presuntiva”, di un anno o tre anni, a
seconda che si tratti di retribuzioni corrisposte, rispettivamente, a periodi non superiori al mese o
a periodi superiori al mese. Il decorso di tale termine abbreviato, però, non determina l’estinzione
del diritto, ma soltanto la presunzione che il diritto sia stato soddisfatto. Peraltro, è espressamente
ammessa la prova contraria (ossia la prova del mancato adempimento dell’obbligazione di
credito), sia pure limitata alla confessione e al giuramento decisorio, cosicché la presunzione
legale è soltanto relativa e non assoluta.
Di conseguenza, è raro che il datore di lavoro convenuto in giudizio eccepisca la prescrizione
presuntiva quando in realtà non abbia adempiuto. Anzitutto, ove gli venga deferito il giuramento e
dichiari il falso, può essere chiamato a rispondere del reato di cui all’articolo 371 del Codice
Penale. Inoltre, l’eccezione relativa alla prescrizione presuntiva presuppone ammessa l’esistenza
114
del credito (che si dichiara di aver soddisfatto), cosicché il datore di lavoro si esporrebbe
automaticamente alle conseguenze amministrative, fiscali e previdenziali derivanti dalla mancata
osservanza degli obblighi che la legge collega alla corresponsione di qualsiasi retribuzione.
Pur lasciando inalterati i termini di compimento della prescrizione, la Corte Costituzionale ha
modificato l’impianto codicistico, per tenere conto dei sopravvenuti principi costituzionali di tutela
del lavoro, prevedendo una disciplina speciale della decorrenza di tali termini. Infatti, la
prescrizione inizia a decorrere dal giorno stesso in cui il diritto può essere fatto valere. La Corte
Costituzionale ha, però, ritenuto che gli articoli 2948, n.4, 2955, n.2, e 2956, numero 1, del Codice
Civile, nella parte “in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra
durante il rapporto di lavoro”, contrastano con l’articolo 36 della Costituzione.
Più precisamente, il giudice delle leggi ha ritenuto che la prescrizione possa configurare,
indirettamente, un atto dispositivo assimilabile alla rinuncia, in quanto il lavoratore “può essere
indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a
rinunciarvi, cioè per timore di licenziamento”. Pertanto, la prescrizione dei diritti retributivi inizia a
decorrere non dal giorno in cui il diritto è maturato, bensì dal giorno della cessazione del rapporto
di lavoro, poiché è questo il momento in cui viene meno il timore che l’esercizio del diritto
comporti la ritorsione del licenziamento.
Tale differimento non si estende a tutti i rapporti di pubblico impiego per i quali vige “una
disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto” od “offre garanzie di rimedi
giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso”. Tra il 1966 e il 1970, è stata introdotta anche
nel rapporto di lavoro privato una disciplina legale diretta a limitare il potere di licenziamento e ad
assicurare la tutela della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo. Le innovazioni
legislative hanno indotto la Corte Costituzionale a precisare il proprio precedente orientamento.
È stato, così, affermato che anche per i lavoratori privati ai quali si applica quella disciplina e, in
particolare, la tutela della reintegrazione, la prescrizione decorre in costanza di rapporto di lavoro,
non essendo quei lavoratori sottoposti al timore di licenziamento che impedisce l’immediato
esercizio del diritto. è, però, da tenere presente che le tutele applicabili in caso di licenziamento
illegittimo sono state, recentemente, modificate dal legislatore, il quale ha ristretto notevolmente
le ipotesi in cui il giudice può disporre la reintegrazione del lavoratore.
Si pone, di conseguenza, il problema di sapere se la protezione offerta dalla nuova disciplina sia
ancora idonea ad assicurare quel grado di “stabilità” che la Corte Costituzionale ha ritenuto
necessario per escludere il timore di licenziamento e consentire l’esercizio dei diritti retributivi in
corso di rapporto. A voler esaminare tale problema nella prospettiva del contesto socio-giuridico
nel quale si inseriva la giurisprudenza costituzionale descritta, la soluzione appare scontata.
La motivazione della sentenza 174 del 1972, infatti, affermava esplicitamente che “una vera
stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la
completa reintegrazione nella posizione giuridica fatta illegittimamente cessare”. In realtà, i
termini del problema sono più complessi poiché è oggi necessario tenere conto dei profondi
mutamenti da allora intervenuti nella società, nel lavoro e nel diritto.
La situazione di debolezza economica, e psicologica, del lavoratore non è la stessa, sia per il
maggior radicamento del sindacato e dell’azione di autotutela che esercita, sia per il ruolo più
115
incisivo esercitato dall’attività di vigilanza amministrativa, sia per la rafforzata tutela contro le
discriminazioni e la specifica protezione che continua ad essere prevista nel caso di licenziamento
intimato per ritorsione. Del resto, l’ordinamento ha ampliato il potere del lavoratore di disporre
dei propri diritti anche in materia di rinunce e transazioni, oltreché con la nuova disciplina della
conciliazione e dell’arbitrato.

LICENZIAMENTO Partiamo dal codice civile, dagli articoli 2118 e 2119; l’art 2118 regola
uniformemente il recesso del ddl (licenziamento) o del lavoratore (dimissioni) dal contratto di
lavoro a tempo indeterminato, consentendolo liberamente COL SOLO OBBLIGO DEL PREAVVISO.
Tale recesso, cd ad nutuum, non richiede dunque nessuna giustificazione, ma è rimesso alla
volontà di chi lo compie. È un negozio unilaterale recettizio, che per produrre effetto deve essere
portato a conoscenza del destinatario, ai sensi dell’art 1334. A tutela della parte che subisce il
recesso e che quindi deve trovare un altro contraente, è previsto l’obbligo del PREAVVISO,
secondo cui l’efficacia del comunicato recesso (e quindi dell’estinzione del rapporto) è differita
per un certo periodo di tempo.
La durata del preavviso è fissata dai contratti collettivi, che solitamente la differenziano in base
alla anzianità di servizio e alla qualifica del lavoratore, prevedendo di norma un preavviso più
lungo in caso di licenziamento piuttosto che in caso di dimissioni. La prosecuzione del rapporto di
lavoro per un notevole lasso di tempo DOPO LA SCADENZA DEL PREAVVISO può integrare gli
estremi di una revoca per fatti concludenti del licenziamento, salvo la prova che vi sia un accordo
di differimento dell’efficacia del recesso.
Il lavoratore malato non può essere licenziato fino alla scadenza del periodo di comporto; se
questo avviene, il licenziamento è temporaneamente inefficacie; anche la malattia sopravvenuta
durante il preavviso, ne sospende il decorso, perché è impedita la normale funzione del preavviso
medesimo: la ricerca di una occupazione.
La legge stabilisce espressamente le conseguenze della violazione dell’obbligo di preavviso: si
prevede al secondo comma dell’art 2118 che in mancanza di preavviso il recedente è tenuto verso
l’altra parte ad una indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata
per il periodo di preavviso.
L’art 2119 ci parla del recesso PER GIUSTA CAUSA: a differenza del recesso libero CON PREAVVISO,
qui abbiamo un recesso per giusta causa. Esso riguarda non solo il contratto a tempo
indeterminato, ma anche quello a tempo determinato. L’art 2119 reca che ciascuno dei
contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine (c. a tempo determinato)
o senza preavviso (c. a tempo indeterminato) qualora sia verifichi una causa CHE NON CONSENTE
LA PROSECUZIONE, NEANCHE PROVVISORIA, DEL RAPPORTO DI LAVORO. Ciò significa che nel
contratto a tempo determinato non occorre attendere la scadenza del termine; in quello a tempo
indeterminato non occorre il preavviso: si parla di recesso in tronco, in quanto si verifica una
giusta causa che consente l’immediata estinzione del rapporto di lavoro.
Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa
compete l’indennità di mancato preavviso.

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La disciplina del codice civile è chiaramente ispirata a principi di libertà contrattuale e di
uguaglianza formale delle parti, che regola allo stesso modo il recesso del ddl e quello del
lavoratore. Il lavoratore, è evidente, ha un fortissimo interesse alla prosecuzione del rapporto,
specie se non possiede una qualifica professionale ricercata sul mercato del lavoro; per questo
motivo, preso atto della inadeguatezza della prospettiva codicistica, è intervenuto il legislatore,
che ha dettato la legge 604 del 66, prevedendo una disciplina speciale in materia di licenziamenti
individuali.
Con tale disciplina, è stato introdotto l’obbligo della giustificazione causale per il licenziamento
ed un primo regime di tutele per il lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo. L’obbligo
della giustificazione causale, prima previsto solo nei confronti dei ddl di maggiori dimensioni, è poi
stato esteso dalla legge 604 a tutti i datori di lavoro: sono del tutto eccezionali e residuali i casi in
cui opera la libera recedibilità dal rapporto di lavoro.
Sono esclusi dall’applicazione di tali limiti i lavoratori domestici; i lavoratori che hanno maturato i
requisiti per la pensione di vecchiaia; gli sportivi professionisti; i lavoratori in prova e i dirigenti: in
tali casi è possibile nei confronti di tali soggetti recedere dal rapporto di lavoro SENZA ALCUNA
GIUSTIFICAZIONE. Per i lavoratori domestici e per i dirigenti è però espressamente prevista
l’applicazione del divieto di licenziamento discriminatorio (vietato in ogni caso per qualsiasi tipo
di lavoratore).
In base alla regola della giustificatezza del licenziamento, è possibile in base alla legge 604 del 66, è
possibile recedere dal rapporto in presenza di GIUSTA CAUSA O GIUSTIFICATO MOTIVO
(SOGGETTIVO O OGETTIVO).
Incombe sul ddl l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di
licenziamento.
la nozione di giusta causa ci è data direttamente dal cc: è una causa talmente grave da non
consentire una prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro; tale connotazione di
“urgenza” ha condotto la giurisprudenza a elaborare il principio di IMMEDIATEZZA: secondo cui il
licenziamento per giusta causa è ammesso solo in CONTINUITA’ TEMPORALE con la verificazione
del fatto, o la conoscenza del fatto stesso da parte del ddl; tale principio incide nell’ambito del
processo del lavoro: nel momento in cui il lavoratore andrà ad impugnare il licenziamento e
contesterà l’esistenza della giusta causa, sarà fondamentale vedere se c’ è stata continuità
temporale tra la conoscenza del fatto e l’irrogazione del licenziamento. L’immediatezza è intesa in
senso RELATIVO, essendo compatibile con il tempo necessario per l’esatto accertamento dei fatti e
per la loro verificazione, con l’onere della prova sul ddl interessato a giustificare un eventuale
ritardo.
Nelle more dell’accertamento e anche del procedimento disciplinare, il ddl che tema pregiudizi
dalla presenza in azienda del dipendente, può procedere comunque alla SOSPENSIONE
CAUTELARE del medesimo; il potere di sospensione cautelare non è previsto dalla legge, ma è
riconosciuto dalla giurisprudenza, che impone peraltro l’obbligo retributivo per tutto il periodo di
sospensione, salva che sia prevista una diversa disciplina dal contratto collettivo.
GIUSTA CAUSA la nozione è fissata dalla legge; le tipizzazioni contenute nei contratti collettivi e
nel contratto individuale, non vincolano il giudice. la giusta causa non comprende solo GRAVI
117
INADEMPIMENTI DELL’OBBLIGO PRINCIPALE gravante sul dipendente; ma anche altri fatti, che pur
essendo estranei di per sé allo svolgimento del rapporto, possono incidere sul medesimo,
eliminando l’interesse del ddl alla prosecuzione anche provvisoria del rapporto medesimo. Si parla
di una lesione IRRIMEDIABILE DELL’OBBLIGO FIDUCIARIO, o comunque di un travolgimento
dell’aspettativa di puntualità agli adempimenti. In questa nozione rientrano casi anche di
sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle sue mansioni (non solo dal punto di
vista fisico e tecnico, ma anche con riferimento alle qualità morali, all’immagine richieste da quel
tipo di prestazione).
GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO individuato dalla legge 604 del 66; la stessa legge
provvede a definire il giustificato motivo, distinguendo quello cd soggettivo (notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro) da quello oggettivo
(consistente in ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare
funzionamento di essa). In presenza di un giustificato motivo soggettivo è possibile recedere dal
rapporto, MA DANDO UN PREAVVISO: quindi, la giusta causa legittima il recesso in tronco; il
giustificato motivo soggettivo (e anche oggettivo) è sì grave, ma che comunque consentirebbe
una prosecuzione temporanea del rapporto, almeno durante il periodo del preavviso.
La casistica del giustificato motivo soggettivo si intreccia con quella della giusta causa, relativa ad
inadempimenti del lavoratore: la differenza può rilevarsi sottile e va valutata caso per caso.
Il giustificato motivo OGGETTIVO è determinato (art 3 legge 604) da ragioni INERENTI
ALL’ATTIVITA’ PRODUTTIVA, ALL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E AL REGOLARE
FUNZIONAMENTO DI ESSA. Tipica ipotesi di giustificato motivo oggettivo è costituita dalla
soppressione del posto di lavoro; Il giudice non può sindacare le scelte economiche del ddl, tra cui
rientrano anche quella di sopprimere determinate posizioni; deve solo verificare l’effettiva
realizzazione di tali scelte e il nesso CAUSALE con il licenziamento: al ddl spetta in giudizio
provare la reale SOPPRESSIONE del posto cui era addetto il lavoratore licenziato. La soppressione
del posto non implica necessariamente soppressione delle mansioni cui era adibito quel
lavoratore, poiché la scelta organizzativa può consistere in una loro distribuzione tra altri
dipendenti, o l’accorpamento in un’altra posizione lavorativa. La prova della soppressione del
posto di lavoro non è di per sé sufficiente a integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo;
è necessaria la dimostrazione della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti,
quindi l’impossibilità di utilizzare il lavoratore aliunde (secondo il principio giurisprudenziale che
vede nel licenziamento l’extrema ratio).
Procedura relativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stato introdotto l’obbligo,
per i ddl di dimensioni medio-grandi che vogliano procedere a licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, di osservare particolare procedura innanzi all’Ispettorato territoriale del lavoro;
tale procedura opera però solo per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
1) COMUNICAZIONE la procedura prende avvio con comunicazione, inviata all’ispettorato
territoriale, con la quale il ddl deve dichiarare la propria intenzione di licenziare e indicare i
motivi, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore;
2) Entro 7 giorni dalla comunicazione del ddl, l’Ispettorato territoriale provvede a convocare
le parti (che possono essere assistite da avvocato, consulente del lavoro o da un proprio
rappresentante sindacale), AL FINE DI TROVARE UN ACCORDO ALTERNATIVO AL RECESSO;
118
il tentativo di conciliazione deve concludersi entro il termine di 20 giorni dalla
convocazione , termine prorogabile solo con il consenso delle parti ; il suo decorso può
essere sospeso per un MASSIMO DI 15 GIORNI, SOLO IN CASO DI LEGITTIMO E
DOCUMENTATO IMPEDIMENTO.
3) Se il tentativo di conciliazione fallisce, o l’ispettorato non provvede entro 7 giorni alla
convocazione delle parti, il ddl comunica il licenziamento, indicandone contestualmente i
motivi. Per favorire l’esito positivo del tentativo di conciliazione, trova applicazione la
disciplina prevista dall’ASPI; inoltre, al fine di favorire la ricollocazione del lavoratore,
quest’ultimo può essere affidato ad un’agenzia di somministrazione di lavoro.
Il comportamento tenuto dalle parti durante il tentativo di conciliazione è comunque
valutato dal giudice, ai fini della determinazione della indennità prevista nel caso di
insussistenza del giustificato motivo di licenziamento.
Quando il licenziamento è riconducibile a inadempimenti del lavoratore (giustificato motivo
soggettivo), allo scopo di rafforzare la tutela del lavoratore, l’art 7 dello statuto prevede un
procedimento disciplinare da attivare. Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo
soggettivo sono licenziamenti DISCIPLINARI; proprio per questo, sono sottoposti al requisito
dell’immediatezza e a tutte le regole procedurali previste dall’articolo 7 della legge 300. anche a
fronte di fatti di massima gravità, il ddl deve, prima di espellere definitivamente il lavoratore,
aver formulato una CONTESTAZIONE disciplinare al dipendente; si prevede una
procedimentalizzazione del potere di LICENZIAMENTO DISCIPLINARE, che prevede in primis che il
ddl debba inviare al dipendente una lettera di contestazione disciplinare. la procedura tutela il
dipendente, consentendogli di rendere le proprie giustificazioni.
Il ddl contesta l’addebito; il lavoratore rende entro 5 gg le proprie giustificazioni: è a questo punto
in corso il procedimento disciplinare, che si può concludere con l’irrogazione di una sanzione (di
natura conservativa o di natura espulsiva) o con un nulla di fatto.
A difesa dei valori preminenti della persona, sono previste ipotesi specifiche di nullità del
licenziamento; licenziamento determinato da discriminazione per ragioni di affiliazione sindacale,
di partecipazione ad uno sciopero ; per ragioni politiche, religiose, di sesso, lingua… licenziamento
intimato per causa di matrimonio; licenziamento della lavoratrice madre, dall’inizio della
gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino ad un anno di età del
bambino; licenziamento del lavoratore padre che fruisca del congedo di paternità;..
Il licenziamento è altresì nullo quando determinato da un motivo illecito, come nel caso del
licenziamento CD RITORSIVO; manca una definizione legale di ritorsione, quindi in realtà è
intervenuta la giurisprudenza, in quanto non qualsiasi divergenza o contrasto può essere di per sé
considerata motivo di licenziamento ritorsivo. La giurisprudenza pone a carico del ddl l’onere di
provare che il licenziamento sia determinato dal motivo della ritorsione; esclude anche la nullità
del licenziamento quando risulti che il motivo ritorsivo non sia stato UNICO E DETERMINANTE.
IMPUGNAZIONE LICENZIAMENTO una volta irrogato il licenziamento, il testo originario della
legge 604 prevedeva che il licenziamento dovesse essere impugnato, a pena di decadenza, entro
60 giorni dalla ricezione CON QUALSIASI ATTO SCRITTO, ANCHE STRAGIUDIZIALE.

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Vi sono state una serie di modifiche: è previsto l’onere di impugnazione, a pena di decadenza,
sempre entro 60 giorni; tale impugnazione può essere proposta con qualsiasi atto scritto, idoneo a
manifestare la volontà del lavoratore di contestare il licenziamento.
La modifica più rilevante è quella secondo la quale l’impugnazione, proposta entro 60 giorni,
DIVIENE INEFFICACIE SE ENTRO I SUCCESSIVI 180 GIORNI, il lavoratore non provvede al deposito
del ricorso giudiziale, o in alternativa alla comunicazione alla controparte della richiesta del
tentativo di conciliazione. Tale delimitazione è stata introdotta per motivi di certezza e di
coerenza: la possibilità consentita dal regime previgente di proporre ricorso al giudice entro il
termine quinquennale (proprio delle azioni di annullamento) determinava situazioni di
incertezza: quindi, per ragioni di coerenza è stata introdotta tale delimitazione.
TUTELE previste nel nostro ordinamento nel caso in cui il licenziamento sia illegittimo  è una
disciplina complessa in quanto ci sono tanti regimi diversi; una prima distinzione tradizionale è
quella in base alle dimensioni dell’organizzazione del ddl: si distinguono 2 regimi di tutela
REALE e OBBLIGATORIA. La tutela reale riguarda le aziende e i ddl di medie o grandi dimensioni; si
applica quando il ddl occupa più di 60 dipendenti sull’intero territorio nazionale, oppure più di 15
lavoratori in ciascuna unità produttiva o nel territorio o nel comune in cui ha avuto luogo il
licenziamento. La tutela obbligatoria si applica solo ai ddl di dimensioni più ridotte; tutti quelli al di
sotto delle soglie sopra dette (meno di 60 lavoratori assunti sul territorio nazionale/15 in ciascuna
unità produttiva).
Altra distinzione è prima del 2012 e dopo il 2012; prima, vi era un determinato regime. Poi vi sono
state 2 riforme che hanno modificato tale regime. Per comprendere le modifiche apportate,
bisogna capire cosa vi fosse prima del 2012, che è una disciplina non più in vigore.
Prima del 2012, nel campo di applicazione della tutela reale (imprese di medie e grandi
dimensioni), in tutti i casi in cui venisse accertata illegittimità del licenziamento, la tutela prevista
era la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno (art 18 statuto dei lavoratori);
come era commisurato il risarcimento? Il giudice condannava il ddl al risarcimento del danno
commisurato a tutte le retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito, dal giorno del
licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione. Questo in tutti i casi di accertamento
di illegittimità del licenziamento, nel campo di applicazione della tutela reale.
REINTEGRAZIONE doveva avvenire nello stesso posto di lavoro, ossia nello stesso luogo di
svolgimento della prestazione e nelle stesse mansioni; ciò perché il licenziamento inefficace era
considerato inidoneo ad estinguere il rapporto di lavoro, che proseguiva come se non fosse mai
stato interrotto.
INDENNITA’ RISARCITORIA vi era un limite minimo di 5 mensilità: l’indennità non
poteva essere COMUNQUE inferiore a 5 mensilità; vi era anche la detrazione dal risarcimento del
danno DELL’ALIUNDEM PERCEPITUM E PERCIPIENDUM… dalla retribuzione dovevano essere
detratti i redditi percepiti da una nuova occupazione, ma anche quelli che il lavoratore avrebbe
potuto percepire usando l’ordinaria diligenza, nel trovare una nuova occupazione.
Campo di applicazione della tutela obbligatoria (ddl di dimensioni piccole) prima del 2012, in
caso di accertamento di illegittimità del licenziamento, la sanzione era che il ddl era condannato
all’obbligo di riassumere il lavoratore entro il termine di 3 giorni o a un risarcimento del danno,
120
calcolato diversamente. Tale risarcimento era calcolato con un’indennità compresa tra 2.5 e 6
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Tale indennità poteva poi essere aumentata,
arrivando fino alla forbice di 13-14 mensilità della retribuzione, in caso di anzianità di servizio
elevata. La scelta tra riassunzione e risarcimento spetta al ddl: l’esperienza ha dimostrato che il ddl
privilegia quasi sempre la soluzione economica (preferisce il risarcimento del danno). Ciò anche
perché il risarcimento è calcolato entro limiti relativamente modesti. Si tratta di un meccanismo
sanzionatorio diverso da quello dell’art 18: non è prevista l’invalidazione del licenziamento: il
licenziamento, anche se non giustificato, è idoneo a estinguere il rapporto di lavoro.
Nella tutela obbligatoria, il rapporto di lavoro che intercorreva col dipendente licenziato, non
viene ricostituito dal giudice: prevedendo l’obbligo di riassumere, la legge stabilisce che
l’eventuale adempimento di quell’obbligo comporta l’estinzione del rapporto di lavoro e una
nuova assunzione.
2012 Cambia la normativa; vi sono 2 riforme: LEGGE 92/2012(LEGGE FORNERO) E D LGS
23/2015 (JOBS ACT).
Questi 2 provvedimenti riformano le tutele contro i licenziamenti illegittimi: la grande novità
rispetto la situazione precedente è che viene sostituito il modello incentrato sulla soluzione unica
(reintegrazione) con regimi diversificati, in relazione alla tipologia dei vizi di licenziamento, e
graduati in base alla gravità dei vizi. Resta la reintegrazione come sanzione, ma solo nei casi più
gravi. La regola generale diventa solo quella economica: un indennizzo economico. Bisogna fare
un’ulteriore distinzione, in base alla data di assunzione: vi sono 2 diversi regimi a seconda dalla
data di assunzione del lavoratore.
7 marzo 2015 disciplina per tutti i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (vecchi assunti) la
disciplina dei vecchi assunti è introdotta dalla legge Fornero, che modifica l’art 18 della legge 300
del 70. Per i vecchi assunti, la nuova disciplina, incentrata su regimi diversificati, prevede 4 regimi
di tutele, diversificati in ragione della gravità del vizio di licenziamento.
TUTELA REINTEGRATORIA PIENA è la tutela più forte e incisiva; tale prima tutela si applica
indipendentemente dal numero di lavoratori assunti (si applica a tutti i ddl). In quali ipotesi si
applica? Si applica nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio; al licenziamento nullo per causa
di matrimonio, maternità, paternità; licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma
orale; per motivo illecito determinante.
Cosa prevede la tutela? Si prevede la reintegrazione più l’indennità risarcitoria, sempre
commisurata a tutte le retribuzioni non corrisposte al lavoratore, dal giorno del licenziamento
fino a quello della effettiva reintegrazione; rimane il limite minimo di 5 mensilità e rimane la
detrazione dell’aliundem perceptum. Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione, può
chiedere al ddl il pagamento di un ulteriore indennità, pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto (cd indennità sostitutiva della reintegrazione).
TUTELA REINTEGRATORIA ATTENUATA si applica solo nel campo di applicazione della tutela
reale (riguarda solo i ddl di dimensioni più grandi). A quali fattispecie si applica? Si applica ai
licenziamenti disciplinari più gravi: quelli intimati per giusta causa o giustificato motivo soggettivo
nelle ipotesi in cui il giudice accerti o insussistenza del fatto contestato oppure quando accerti la
riconducibilità del fatto a condotte punibili con sanzione conservativa , sulla base di quanto
121
previsto dal contratto collettivo applicabile o dal codice disciplinare. Si applica anche ad altri
licenziamenti, come quelli intimati senza giustificazione per motivo oggettivo consistente
nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore; nelle ipotesi il giudice accerti la manifesta
insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Tale regime prevede la reintegrazione nel posto di lavoro; ma la tutela è attenuata perché cambia
il calcolo del risarcimento del danno: vi è un tetto massimo all’indennità, di 12 mensilità. È
eliminato invece il tetto minimo. Resta prevista la detrazione dal risarcimento dell’aliundem
perceptum e percipiendum; anche in tal caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva
della reintegrazione (che resta di 15 mensilità), che si somma al risarcimento del danno.
Sentenza corte costituzionale 59/2021 nella fattispecie del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, nelle ipotesi in cui era accertata la manifesta insussistenza del fatto contestato, il
giudice non era obbligato ma poteva disporre la reintegrazione (era una facoltà); dopo
l’intervento della corte costituzionale, il giudice DEVE disporre la reintegrazione, è obbligato.
TUTELA INDENNITARIA IN FORMA PIENA si applica nel campo di applicazione della tutela reale;
si applica nelle ipotesi di licenziamento disciplinari meno gravi e nelle ipotesi di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo meno gravi; si applica “nelle altre ipotesi in cui il giudice accerta che
non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo.”
Regime non È PIÙ PREVISTA REINTEGRAZIONE; resta tutela indennitaria in forma piena: è
prevista un’indennità risarcitoria ONNICOMPRENSIVA, tra un minimo di 12 e un massimo di 24
mensilità. All’interno della forbice (12-24), il giudice sceglie in concreto in base a criteri che sono
innanzi tutto l’anzianità del lavoratore e altri criteri.
Il lavoratore che sia stato licenziato può sempre dedurre in giudizio che la reale motivazione del
licenziamento non sia per giustificato motivo oggettivo, ma sia motivato per ragioni
discriminatorie e disciplinari in tal caso, troveranno applicazione per il lavoratore le tutele più
favorevoli previste per la fattispecie di licenziamento accertata.
TUTELA INDENNITARIA IN FORMA RIDOTTA siamo nel campo di applicazione della tutela reale;
si applica nelle ipotesi dei cd vizi formali di licenziamento (mancata indicazione motivi, violazione
della procedura che il ddl è tenuto ad osservare quando intima un licenziamento). È un’indennità
che va da un minimo di 6 a un massimo di 12 mensilità. Entro questa forbice, l’indennità è
determinata dal giudice, in base alla gravità della violazione. Anche in presenza di vizi
procedimentali, il legislatore lascia aperta la possibilità al lavoratore di sindacare le reali
motivazioni del licenziamento.
Per i ddl di dimensioni minori, resta la tutela obbligatoria esistente prima del 2012, quindi
l’alternativa tra riassunzione del lavoratore entro 3 giorni o risarcimento del danno.

Disciplina applicabile ai nuovi assunti, assunti dal 7 marzo 2015 in poi dlgs 23/2015 la
disciplina sarà destinata ad applicarsi in futuro in linea generale. Qual è la caratteristica principale
del decreto legislativo 23? Rispetto alla disciplina per i vecchi assunti, riduce ulteriormente le
ipotesi in cui è applicabile la reintegrazione; consolida il trend di far diventare la sanzione
indennitaria quella di prevalente applicazione. La ratio dell’intervento è quella secondo cui una
122
tutela meno rigida del posto di lavoro può essere strumento idoneo per rafforzare l’occupazione e
favorire occupazioni a tempo indeterminato. Non ci sono evidenze empiriche su questo dato, per
quanto sia ragionevole ritenere ciò.
Su questa riforma del 2015, negli anni successivi, sono intervenute sentenze della corte
costituzionale, che hanno modificato alcune parti importanti della riforma; tuttavia, la riforma è
stata in generale confermata nelle sue basi, in quanto le modifiche hanno riguardato soprattutto
il criterio di quantificazione dell’indennizzo spettante.
Evoluzione del sistema la tendenza è quella ad abbandonare l’idea di JOB PROPERTY, cioè una
proprietà individuale del posto di lavoro; tale tendenza è stata sostituita da un modello
alternativo, con l’idea della FLEXICURITY; compensare la perdita di sicurezza da parte del
lavoratore per effetto di una disciplina meno rigida, secondo un’idea di derivazione comunitaria: la
maggiore flessibilità nel rapporto di lavoro deve essere bilanciata da un efficiente sistema di
sicurezza nel mercato di lavoro.
Per far sì che tale modello teorico possa funzionare, è necessario che siano realizzati i presupposti
del modello, quello della flessibilità e quello della sicurezza; è necessario che la flexicurity realizzi
anche un efficiente rete di sicurezza per il lavoratore che perde l’occupazione: ciò lo si fa tramite
un intervento di sostegno del reddito (ammortizzatori sociali); dall’altro lato, vi è un secondo
intervento , consistente nella creazione di efficienti sistemi di politiche attive del lavoro (servizi per
l’impiego realmente efficienti e in grado di trovare una nuova collocazione per il lavoratore, nel più
breve tempo possibile).
Il lato debole, nel nostro ordinamento, è quello delle politiche attive del lavoro, che sono
largamente inefficienti.
CAMPO DI APPLICAZIONE D LGS 23/2015 la legge non fa riferimento a tutti i lavoratori
subordinati, ma esclude i dirigenti. Ciò in coerenza con una tendenza generale a escludere la
categoria, dall’ambito di applicazione della disciplina dei licenziamenti.
Esistono 4 diversi regimi di tutele, graduate a seconda della diversa gravità del vizio del
licenziamento:
1) TUTELA REINTEGRATORIA PIENA si applica a tutti i ddl (indipendentemente dal numero
dei dipendenti occupati); si applica anche ai dirigenti, essendo la forma di licenziamento
più grave. Si applica nelle ipotesi che sono quasi le medesime previste per i vecchi assunti:
licenziamento nullo (discriminatorio e altre nullità espressamente previste dalla legge);
licenziamento intimato in forma orale; licenziamento che non è giustificato, per il motivo
consistente nella disabilità fisica o psichica. Quest’ultima fattispecie è una novità perché
per questa fattispecie prima era prevista solo la seconda tutela, quella reintegratoria con
indennizzo limitato.
Non è indicata invece una fattispecie che esisteva prima: licenziamento nullo per motivo
illecito determinante.
La tutela è identica a quella prevista per i vecchi assunti: reintegrazione, risarcimento
integrale del danno (senza tetto massimo), possibilità di chiedere in sostituzione della
reintegrazione l’indennità sostitutiva, oltre al risarcimento.

123
2) TUTELA REINTEGRATORIA REALE ATTENUATA si applica nel campo di applicazione della
tutela reale (imprese più grandi); sono esclusi i dirigenti; la regola generale è che il difetto
di giusta causa o giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, COMPORTA UNA TUTELA
ESCLUSIVAMENTE INDENNITARIA, tranne in alcune ipotesi specifiche più gravi, in cui invece
si mantiene la tutela reintegratoria. Quali sono queste ipotesi? Nelle ipotesi di
licenziamento “per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa dove sia direttamente
dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto
alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzionalità del licenziamento”
resta centrale l’elemento dell’insussistenza del fatto contestato. Qui è aggiunto fatto
MATERIALE contestato. Nonostante questo nuovo riferimento al fatto qualificato come
materiale, in realtà la giurisprudenza ritiene che il fatto materiale (sia per la vecchia, che
per la nuova disciplina) sia insussistente non solo quando il fatto non è accaduto, ma anche
quando quel fatto è accaduto ma non ha rilievo disciplinare, o non sia imputabile al
lavoratore licenziato.
La differenza rispetto al regime applicabile in precedenza è che, per i nuovi assunti, non è
prevista l’ipotesi del fatto contestato punibile con sanzione conservativa prevista dal
contratto collettivo. (in tal caso, quindi, non è prevista la reintegrazione). Vi è quindi una
riduzione del campo di applicazione della norma, perché per i nuovi assunti vi è una
fattispecie in meno.
Cosa prevede? La reintegrazione del lavoratore e il pagamento di un’indennità risarcitoria
COL TETTO MASSIMO DELLE 12 MENSILITA’. Una piccola differenza è che dall’importo
dell’indennità risarcitoria va detratto sia aliundem perceptum che aliundem percipiendum;
3) TUTELA INDENNITARIA PIENA siamo nel campo di applicazione della tutela reale; si
escludono i dirigenti; si applica nelle ipotesi del difetto di giusta causa o giustificato
motivo soggettivo, esclusa l’ipotesi di insussistenza del fatto contestato.
Si applica anche a tutte le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Vi è
un’importante differenza coi vecchi assunti, in quanto nella nuova disciplina, IN TUTTI I
CASI DI LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER ASSENZA DI GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO,
si applica sempre e solo tutela risarcitoria piena (tutela quindi solo indennitaria).
La tutela indennitaria, inizialmente, era tra 4 e 24 mensilità ed era previsto che fosse
determinata solo in relazione alla anzianità di servizio del lavoratore. Non vi era
discrezionalità nel calcolo. (erano, più precisamente, previste 2 mensilità per ogni anno di
servizio). Successivamente, su questa quantificazione sono intervenuti legislatore e corte
costituzionale: il legislatore, nel 2018, ha aumentato limiti minimi e massimi: aumentandoli
da 4 a 6 e da 24 a 36. La corte interviene invece sul criterio di calcolo dell’indennità,
ritenuto ILLEGITTIMO COSTITUZIONALMENTE, in quanto, facendo riferimento solo al
criterio dell’anzianità, vi era una predeterminazione rigida e automatica dell’indennità,
tale da non consentire al giudice di graduare l’indennizzo in base all’effettivo pregiudizio
subito dal lavoratore. Il nuovo calcolo prevede che il giudice debba quantificare l’indennità
tra 6 e 36 mensilità, in base a diversi criteri, tra cui anche (ma non solo) l’anzianità del
servizio.
4) TUTELA INDENNITARIA RIDOTTA siamo nel campo di applicazione della tutela reale; sono
esclusi i dirigenti; siamo nel caso di vizio del licenziamento ritenuto meno grave: VIZI

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FORMALI O PROCEDIMENTALI. (es. si viola il requisito della motivazione). Si applica,
sostanzialmente, una tutela indennitaria ridotta.
Anche qui interviene la corte costituzionale qui l’indennità era pari a una mensilità di
retribuzione per ogni anno di servizio. il limite era da 2 a 12 mensilità. Con la sentenza
150/2020 la corte costituzionale ha confermato l’incostituzionalità del criterio di calcolo
basato sull’anzianità di servizio, e ha affermato, nuovamente, che l’indennità deve essere
determinata concretamente dal giudice, tenendo conto di altri criteri. Resta salva la
possibilità per il lavoratore di chiedere al giudice l’accertamento del reale motivo del
licenziamento, per ottenere l’applicazione di tutele più favorevoli.
Ddl di dimensioni minori l’unica fattispecie che si applica a tutti i ddl (a prescindere dalle
dimensioni) è quella del licenziamento discriminatorio o nullo, in cui vi è tutela
reintegratoria piena. Per i ddl di dimensioni minori, per i nuovi assunti sono state previste
disposizioni ad hoc, per evitare che la nuova disciplina comporti un incremento degli oneri
rispetto a quanto previsto per i vecchi assunti. (nel cui caso, vi era risarcimento compreso
tra 2.5 e 6 mensilità). Per i dipendenti dei ddl in questione, al di fuori del licenziamento
nullo, non è MAI PREVISTA REINTEGRAZIONE, essendoci solo indennità risarcitoria;
quest’ultima viene poi prevista in misura DIMEZZATA rispetto a quella prevista per i ddl di
dimensioni medio grandi. In ogni caso, vi è il limite massimo di 6 mensilità.

LICENZIAMENTI COLLETTIVI il rapporto di lavoro può essere unilateralmente sciolto dal


ddl per ragioni economiche (licenziamento per giustificato motivo oggettivo). Nella
macrocategoria dei licenziamenti economici vi è anche la fattispecie del licenziamento
collettivo. La diversità tra la fattispecie del licenziamento individuale e quello collettivo non
riguarda tanto il profilo causale (entrambi riguardano motivi che attengono
all’organizzazione del ddl); la differenza è nei diversi requisiti dimensionali, quantitativi e
temporali. Tali requisiti attribuiscono al licenziamento collettivo una particolare rilevanza
sociale, coinvolgendo questo un numero più ampio di lavoratori.
Le ragioni della specialità della disciplina dei licenziamenti collettivi sono da un lato il fatto
che i licenziamenti coinvolgano una pluralità di lavoratori, quindi hanno un rilievo non solo
individuale, ma che va oltre; altra ragione che giustifica una disciplina speciale è che la
decisione del ddl di procedere a licenziamenti collettivi è una decisione ricollegabile al
principio della LIBERTA’ DI INIZIATIVA ECONOMICA PRIVATA (art 41), che implica la libertà
di creare l’impresa e anche di cessare l’esercizio dell’impresa e ridimensionare
l’organizzazione dell’impresa, riducendo nel caso il personale.
DISICPLINA legge 223/1991. La funzione essenziale della disciplina speciale è stata quella
di coinvolgere, in tale processo, le organizzazioni sindacali: prima di procedere a
licenziamenti collettivi, il legislatore deve preventivamente esperire una procedura
sindacale e amministrativa. Quindi il primo punto è il coinvolgimento dell’organizzazione
sindacale nella fase precedente all’intimazione dei licenziamenti: ciò per far sì che il
numero di licenziamenti programmati dall’imprenditore possa essere ridotto in tutto o in
parte; l’altra funzione essenziale della legge è che l’individuazione dei lavoratori da
licenziare (cd in esubero) avvenga sulla base di criteri di scelta che siano il più possibile
OGGETTIVI, IMPARZIALI, TRASPARENTI E CONTROLLABILI.

125
Prima della legge 223/1991, la fattispecie del licenziamento collettivo non era regolata
dalla legge. Esistevano solo accordi interconfederali. Ad occuparsi della materia dei
licenziamenti collettivi, in ambito comunitario, fu per la prima volta una direttiva del 75, la
numero 129. Per lungo tempo, l’Italia rimase inadempiente ai contenuti di tale direttiva,
ritardando l’adozione di un apposito apparato legislativo. Dopo l’approvazione della legge
223/91, in ambito comunitario vi è stata un’altra direttiva che ha modificato parzialmente
quella del ’75; una direttiva del ’98, che ha sostanzialmente ribadito i presupposti della
precedente direttiva.
CONTENUTI LEGGE 223/1991 la legge introduce una disciplina organica dell’intera
materia dei licenziamenti collettivi, dettando anche una definizione LEGALE della fattispecie
del licenziamento collettivo: distingue a riguardo 2 diverse fattispecie di licenziamento
collettivo. Gli effetti delle due fattispecie sono gli stessi; la differenza riguarda i presupposti.
Unica è anche la procedura sindacale, per entrambe le fattispecie.
1) PERSONALE SOSPESO CON DIRITTO AL TRATTAMENTO DI INTEGRAZIONE
SALARIALE il licenziamento si qualifica come collettivo in quanto coinvolge una
pluralità di lavoratori, il cui rapporto di lavoro è stato TEMPORANEAMENTE sospeso,
con diritto all’integrazione salariale straordinaria; non vi sono requisiti numerici , ma gli
unici presupposti per la qualificazione di tale fattispecie sono che i lavoratori dichiarati
in esubero (che il ddl intende licenziare) stiano beneficiando del trattamento di
integrazione salariale straordinaria; l’altro presupposto è che il ddl non sia in grado di
garantire il rimpiego dei lavoratori. Il licenziamento si qualifica come collettivo,
indipendentemente dal numero dei lavoratori che il ddl intende licenziare;
2) LICENZIAMENTO COLLETTIVO PER RIDUZIONE DI PERSONALE vero e proprio
licenziamento collettivo. Il licenziamento si qualifica come collettivo essenzialmente per
il numero di lavoratori coinvolti, e a prescindere dal fatto che il ddl abbia attivato il
procedimento dell’ammortizzatore della cassa integrazione guadagni STRAORDINARIA.
Qui ricorrono i requisiti numerici, temporali, dimensionali e territoriali: il
licenziamento collettivo (art 24 l.223) “si configura quando un ddl che occupa più di 15
dipendenti (in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro)
intende effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, nella stessa unità
produttiva, o in più unità produttive, del territorio della stessa provincia”.
Anche l’imprenditore che rientra nel campo di applicazione della CIGS (cassa
integrazione guadagni straordinari) può procedere direttamente ai licenziamenti
collettivi anche senza PREVENTIVAMENTE ATTIVARE l’ammortizzatore sociale della
CIGS. Questo perché è libero di procedere immediatamente al licenziamento, se ritiene
che l’esubero abbia una natura STRUTTURALE e non contingente;
il requisito dei 15 dipendenti, ci dice la giurisprudenza, va riferito all’impresa NEL SUO
COMPLESSO, e non solo alla eventuale area aziendale in cui sono individuati gli esuberi;
il dato della soglia occupazionale dei 15 dipendenti va verificato nel semestre che
precede l’intimazione dei licenziamenti;
il limite dei 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni va riferito all’intenzione del ddl, al
momento iniziale della procedura: è poi irrilevante se il numero, al termine della
procedura, sia inferiore ai 5 licenziamenti.

126
Nel computo dei 5 licenziamenti, inizialmente non si computavano i dirigenti;
successivamente, una sentenza della corte di giustizia del 2014 ha ritenuto tale
esclusione CONTRASTANTE con la direttiva del ’98; attualmente quindi, nel computo dei
5 licenziamenti vanno contati anche i licenziamenti dei dirigenti.
Fino a poco tempo fa, sulla base del testo della norma, la giurisprudenza escludeva che
si potessero prendere in considerazione, ai fini del computo dei 5 licenziamenti, altre
ipotesi di cessazione del rapporto (diverse dal licenziamento): ad esempio, le dimissioni
o risoluzioni consensuali, anche laddove esse fossero state incentivate dal ddl. Questo
perché la norma faceva esplicito riferimento ad “almeno 5 LICENZIAMENTI”. Negli
ultimi tempi, è cambiato l’orientamento della giurisprudenza della corte di cassazione:
un’ordinanza del 2020 ha ampliato la nozione di licenziamento collettivo, includendo
nella fattispecie anche quelle cessazioni del rapporto di lavoro che non sono
licenziamenti in senso tecnico, ma dimissioni, risoluzioni concordate e addirittura
prepensionamenti. tale ampliamento è avvenuto in coerenza con un’impostazione
della corte di giustizia europea, che aveva già assimilato alla fattispecie di licenziamento
quella di risoluzione consensuale, quando essa fosse stata determinata da una
variazione peggiorativa e UNILATERALE da parte del ddl. Quindi, attualmente vi è un
dibattito circa la maniera di intendere la fattispecie “licenziamento”.
Causale licenziamento collettivo  “riduzione o trasformazione dell’attività o del
lavoro”; è una causale molto ampia, quindi comprende ogni processo organizzativo
idoneo a giustificare un RIDIMENSIONAMENTO dell’organico, a prescindere dal fatto
che il ddl sia in condizioni economiche gravi.
Le scelte organizzative e tecnico-produttive del ddl sono INSINDACABILI nel merito: non
è consentito un controllo di merito sulle valutazioni che riguardano quella
trasformazione di attività o di lavoro; il giudice deve solo accertare l’esistenza effettiva
della trasformazione, ma non le motivazioni alla base. Tale principio è stato stabilito da
una norma di legge del 2010, non riguardante solo i licenziamenti.
A cosa si limita il controllo giudiziale sul licenziamento collettivo? Tale controllo
giudiziale resta circoscritto a un rigoroso controllo sulla regolarità formale della
procedura sindacale e amministrativa e sulla corretta individuazione e applicazione dei
criteri di scelta. L’unica “arma” per i lavoratori sono dunque le garanzie
PROCEDIMENTALI e la CORRETTA APPLICAZIONE dei criteri di scelta, oltre al controllo
ex ante effettuato dalle organizzazioni sindacali.
Nell’esperienza degli ultimi 30 anni, i licenziamenti collettivi hanno formato oggetti di
un contenzioso imponente, dagli esiti imprevedibili: quasi tutti i licenziamenti sono stati
impugnati. Le cause di tale ingente contenzioso risiedono nella complessità della
procedura che il ddl è chiamato a rispettare e le difficoltà legate all’individuazione dei
criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
Anche nella materia dei licenziamenti collettivi, il legislatore è intervenuto nel biennio
2012-2015 (Fornero e Jobs Act) , con interventi diretti a mitigare il sistema
sanzionatorio applicabile , in quanto anche nel licenziamento collettivo non veniva
attuata distinzione in base al vizio del licenziamento collettivo: tutte le volte in cui il
licenziamento collettivo veniva dichiarato illegittimo, qualunque fosse la motivazione, il
giudice disponeva SEMPRE la reintegrazione e il risarcimento del danno pieno.

127
PROCEDURA SINDACALE i due capisaldi della materia dei licenziamenti collettivi sono
LA PROCEDURA SINDACALE e i CRITERI DI SCELTA. Le caratteristiche della procedura
sono che, anzi tutto, la procedura è preventiva; si tratta di una procedura sia di
INFORMAZIONE che di CONSULTAZIONE sindacale. È prevista dalla legge per entrambe
le fattispecie di licenziamento collettivo. è disciplinata dall’art 4 della legge 223.
Il primo atto della procedura è la cd COMUNICAZIONE DI APERTURA della procedura
di licenziamento collettivo (comunicazione di avvio) il ddl deve inviare alle
organizzazioni sindacali una comunicazione scritta per rendere nota la sua volontà di
voler procedere a un licenziamento collettivo. I contenuti della comunicazione sono
previsti in modo dettagliato dalla legge: il ddl deve specificare i motivi che hanno
determinato l’esubero del personale; i motivi tecnici e produttivi per i quali il ddl
ritenga di non poter adottare soluzioni alternative al licenziamento; il numero dei
lavoratori che intende licenziare, la collocazione aziendale; i tempi di attuazione del
programma di riduzione del personale; eventuali misure alternative programmate per
fronteggiare le conseguenze di tale riduzione del personale.
La comunicazione va inviata alle organizzazioni sindacali, innanzi tutto le RSA o, in
mancanza, alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale. Lo scopo della comunicazione è avviare un
confronto con le organizzazioni sindacali, che sia il più possibile leale e trasparente: per
questo la comunicazione deve essere veritiera, puntuale e completa. Entro 7 giorni dal
ricevimento della comunicazione, i sindacati possono chiedere un confronto congiunto
tra le parti. Le parti non sono obbligate a raggiungere un accordo: se non si raggiunge
tale accordo, dopo la fase sindacale se ne apre una di confronto amministrativo
dinnanzi alla DTL.
Una volta raggiunto l’accordo sindacale o se la procedura sindacale si esaurisce per
decorso dei termini, il ddl ha facoltà di procedere a licenziare i lavoratori in esubero. Lo
fa comunicando per iscritto il licenziamento a ciascun lavoratore, nel rispetto dei
termini di preavviso (preavviso che si applica a tutte le fattispecie di licenziamento,
escluso quello per giusta causa).
Entro 7 giorni dalla comunicazione di licenziamento, il ddl deve adempiere ad altri
obblighi: deve inviare alle stesse organizzazioni sindacali l’elenco dei lavoratori
licenziati, e deve indicare nella comunicazione stessa le modalità con cui sono stati
applicati i criteri di scelta. Lo scopo della comunicazione successiva è di consentire alle
organizzazioni sindacali e, indirettamente, ai lavoratori, di avere piena consapevolezza
di come sono stati individuati i criteri di scelta.
ACCORDO SINDACALE il ddl non è tenuto a concludere un accordo con i sindacati;
tuttavia, la legge incentiva notevolmente la conclusione di un accordo tra le parti: sia
con incentivi di carattere economico, che di carattere normativo; è prevista per il ddl
che raggiunge un accordo coi sindacati, una riduzione della contribuzione aggiuntiva
che il ddl deve versare per ogni licenziamento collettivo. Vi sono poi incentivi di
carattere normativo: ad esempio, è previsto che vizi eventuali della comunicazione di

128
avvio della procedura di avvio del licenziamento collettivo, possano essere sanati
nell’ambito dell’accordo sindacale concluso nella stessa procedura.
CRITERI DI SCELTA LAVORATORI DA LICENZIARE la scelta è effettuata unilateralmente
dall’imprenditore, ma non discrezionalmente: il ddl non può scegliere arbitrariamente i
lavoratori da licenziare; il ddl deve rispettare determinati criteri di scelta, previsti
innanzi tutto dai contratti collettivi. In assenza dei contratti collettivi, i criteri di scelta
sono stabiliti dalla legge. Vi sono anche limiti esterni, come il divieto di licenziamento
collettivo delle lavoratrici madri, fino al compimento di un anno di età del bambino (con
la solo eccezione della ipotesi di cessazione dell’attività); un altro limite è il rispetto
della proporzione della manodopera maschile e femminile occupata nelle stesse
mansioni. Ultimo limite esterno è che deve essere garantito il rispetto delle quote
occupazionali riservate alle categorie di lavoratori protette dalla disciplina di
collocamento obbligatorio.
I criteri di scelta legali operano solo in assenza di un accordo con le organizzazioni
sindacali; hanno una funzione suppletiva. Tali criteri di scelta vanno applicati sull’intero
complesso aziendale. È possibile restringere l’applicazione dei criteri di scelta legali a un
singolo ambito aziendale, ma questa scelta deve essere giustificata da ragioni oggettive,
difficili da dimostrare. I criteri di scelta legali sono 3:
carichi di famiglia, l’anzianità e le esigenze tecnico organizzative e produttive. Sono tutti
caratterizzati da un certo margine di ambiguità ed incertezza: ciò rende difficile per il
ddl capire come questi criteri debbano essere applicati.
Carichi di famiglia (criterio sociale) non è specificato cosa intende il legislatore per
carichi di famiglia. Si intende, generalmente, il numero di persone a carico del
lavoratore. Come individuare tale numero? Si fa riferimento, ad esempio, ai carichi di
famiglia rilevanti per conseguire il diritto alle detrazioni fiscali, o ai componenti del
nucleo familiare a cui il lavoratore fornisce i mezzi di sostentamento; o la complessiva
situazione economica del lavoratore, al di là della composizione del nucleo familiare.
Anzianità (criterio sociale) per anzianità si può intendere sia quella anagrafica, che
quella di servizio (anni di servizio prestati nell’azienda). L’azienda comunemente
intende tale requisito prendendo a riferimento l’anzianità di servizio.
Esigenze tecnico produttive e organizzative viene incontro alle esigenze di scelta del
ddl; dà un margine di scelta più ampio al ddl. È un criterio oggettivamente incerto.
Come debbono essere applicati tali criteri? La legge dice che i 3 criteri debbono essere
applicati IN CONCORSO TRA DI LORO: ciascuno risponde ad un interesse diverso da
tutelare; Ciò significa che debbono essere applicati tutti e 3: il ddl non può escludere
l’applicazione di uno o due dei tre criteri, ma deve applicarli necessariamente. la
giurisprudenza sostiene che il ddl può dare prevalenza a uno dei 3 criteri, senza
escluderne uno.

129
CRITERI DI SCELTA CONTRATTUALI (concordati tra le parti) le parti sono libere di
individuare qualsiasi criterio di scelta; qualunque sia la scelta, tali criteri convenzionali
debbono comunque avere delle caratteristiche: deve trattarsi di criteri di scelta
RAZIONALI, aventi i caratteri della OBIETTIVITA’ e della GENERALITA’ e NON
DISCRIMINATORI.
Qual è solitamente il criterio scelto dall’autonomia collettiva? Le parti sindacali tendono
a individuare criteri di scelta in grado di attenuare l’impatto sociale dei licenziamenti
collettivi; il criterio che più di tutti attenua l’impatto sociale è il criterio della
PROSSIMITA’ AL PENSIONAMENTO: si scelgono tra i lavoratori da licenziare quelli più
vicini alla maturazione del diritto a pensione. La ratio è che le parti, scegliendo tale
criterio, evitano che con la cessazione del rapporto di lavoro il lavoratore rimanga privo
di reddito; applicando tale criterio, si sostituirà il reddito da lavoro con il reddito da
pensione. La corte costituzionale ha chiarito che tale tipo di accordo risponde ai
requisiti sopra detti (è razionale, non discriminatorio ecc)
REGIME SANZIONATORIO qual è la sanzione nell’ipotesi in cui il licenziamento sia
dichiarato illegittimo? Come nel licenziamento individuale, prima del 2012, la sanzione
era unica: reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento integrale del danno.
Attualmente, come nel licenziamento individuale, ci sono due diversi regimi a seconda
della data di assunzione (la data spartiacque è sempre 7 marzo 2015). Per i vecchi
assunti, la disciplina è posta dalla legge Fornero. Si elimina la sanzione unica e si
distinguono le sanzioni in base al vizio di licenziamento, riservando la sanzione più
grave solo ai licenziamenti collettivi illegittimi ritenuti più gravi.
Le possibili tipologie di vizi sono 3: in caso di licenziamento intimato in forma orale, il
legislatore mantiene la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno
pieno;
nella seconda ipotesi, cioè il licenziamento intimato in violazione delle procedure
previste dalla legge, il legislatore non prevede più la reintegrazione nel posto di lavoro,
ma un’indennità economica, compresa tra 12 e 24 mensilità. l’indennità è determinata
discrezionalmente dal giudice, sulla base di una serie di criteri (es. anzianità del
lavoratore).
Terza ipotesi il ddl viola o ha male applicato i criteri di scelta si mantiene la
reintegrazione con il risarcimento del danno; tale risarcimento non è pieno, ma nella
forma attenuata (limite massimo di 12 mensilità di retribuzione).
DISCIPLINA NUOVI ASSUNTI (dopo il 7 marzo 2015) si prevedono 3 diversi regimi per
ciascun vizio del licenziamento; la direzione è quella dell’attenuazione delle tutele. le
tutele sono le stesse sia nel caso di violazione della forma scritta (tutela reintegratoria e
risarcimento del danno), sia in caso di violazione degli obblighi procedimentali (tutela
indennitaria). La novità riguarda la tutela in caso di mal applicazione dei criteri di scelta:
nella disciplina dei nuovi assunti non vi è più la reintegrazione, ma si prevede solo una
tutela indennitaria.

130
Quindi, con il jobs act, la riduzione delle tutele è stata ancora più marcata; anche
nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta legali o contrattuali non è più applicabile la
sanzione della reintegrazione, ma solo l’indennità risarcitoria. Tale indennità era
inizialmente calcolata con lo stesso sistema previsto in caso di licenziamento
individuale (2 mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo e un massimo di 4 e 24
mensilità). Anche in tal caso, la corte costituzionale ha modificato la misura e la
modalità di quantificazione della indennità: le modifiche operate valgono anche per il
licenziamento collettivo, perché la norma del jobs act riguardante i licenziamenti
collettivi viene individuata tramite rinvio alla norma riguardante il licenziamento
individuale.
Nell’ipotesi di licenziamento collettivo illegittimo per vizi procedimentali o mal
applicazione dei criteri di scelta, il giudice individua discrezionalmente l’indennità,
tenendo conto di una serie di criteri. Nel jobs act, l’indennità è applicabile anche
nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta. Si equipara, quanto a gravità del vizio,
l’ipotesi di violazione delle procedure a quella di mal applicazione dei criteri di scelta.
Nel licenziamento collettivo, LA TUTELA ECONOMICA È DIVENUTA REALMENTE LA
REGOLA: la sanzione della reintegrazione permane solo nell’ipotesi -meramente
teorica- del licenziamento collettivo intimato in forma orale. Tale regime di tutele si
applica a tutti i lavoratori, esclusi i dirigenti.
Attualmente, anche per il licenziamento collettivo illegittimo vi è un diverso regime di
tutele, non solo sostanziale, ma anche processuale.

PREVIDENZA SOCIALE punto di partenza dell’evoluzione sono i sistemi di gestione


degli ordinamenti pensionistici. Esistono 2 sistemi per gestire le risorse, tra loro diversi:
il sistema a ripartizione o a capitalizzazione.
SISTEMA DELLA RIPARTIZIONE sono le contribuzioni correnti (tutte le contribuzioni
versate dai lavoratori attivi) che finanziano le prestazioni pensionistiche correnti (di
coloro che sono già pensionati). In questo sistema le pensioni vengono pagate con i
contributi previdenziali dei lavoratori attivi.
A CAPITALIZZAZIONE in questo sistema ogni iscritto all’ente previdenziale ha un
proprio conto individuale; su questo conto vengono accreditati i contributi che il ddl
gli versa (o che in parte versa lui stesso) e i rendimenti che questi contributi
producono. Tutto ciò servirà all’ente previdenziale per pagare la pensione, una volta
che il lavoratore avrà maturato i requisiti per la pensione. Le pensioni vengono pagate
con i contributi previdenziali dello stesso lavoratore.
VANTAGGI E SVANTAGGI non esiste un sistema ideale; il sistema a ripartizione a
differenza dell’altro, non implica la costituzione di riserve di alcun tipo: tutti i contributi
sono spesi immediatamente per erogare le pensioni: è quindi un sistema immune dai
danni prodotti dall’inflazione.
Il sistema a ripartizione realizza poi una maggiore solidarietà rispetto a quello a
capitalizzazione; solidarietà tra chi lavora e chi ha cessato di lavorare. Il sistema
funziona sulla base di un patto implicito: sono i lavoratori attivi che si fanno carico delle

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pensioni degli anziani, con il patto implicito che saranno poi i nuovi lavoratori attivi a
finanziare le loro future pensioni; è UN PATTO INTERGENERAZIONALE. Quindi il sistema
funziona solo con determinati equilibri.
Possono essere realizzati anche sistemi misti di gestione delle risorse; si prevede spesso
che il trattamento pensionistico sia fondato sui due pilastri: in Italia vi è un pilastro
pubblico e uno privato (pensione pubblica e pensione complementare). Il sistema
pubblico è finanziato con il sistema a ripartizione; la pensione complementare privata è
finanziata con il sistema a capitalizzazione.
ITALIA inizialmente adottò il sistema della capitalizzazione; per una delle contro
indicazioni di tale sistema, fu costretta ad abbandonarlo, nei primi anni 50 del secolo
scorso: proprio a causa della svalutazione monetaria del dopoguerra. Da allora, il
nostro sistema pensionistico pubblico è finanziato col sistema a ripartizione.
Quando il sistema a ripartizione inizia a entrare in crisi? Agli inizi degli anni 70 del
secolo scorso, per una serie concomitante di fattori.
Fattori di crisi un fattore di natura economica e uno di natura demografica.
Fattore demografico: progressivo invecchiamento demografico; nel 68 la struttura
demografica del paese era a forma piramidale: vi erano tanti giovani che lavoravano e
versavano contributi e pochi anziani che ricevevano un trattamento pensionistico; nel
68 il legislatore introdusse provvedimenti migliorativi della condizione degli anziani. Il
tasso di natalità era molto elevato; nel 1970 si raggiunge il punto più alto di fertilità:
l’aspettativa di vita degli italiani era 65 anni: gli italiani andavano in pensione a 55 anni;
quindi, le prestazioni venivano erogate in media per 10 anni. Negli anni successivi, tale
piramide demografica inizia a cambiare, fino a rovesciarsi: oggi, l’età media è di oltre 44
anni e 1/4 ha più di 65 anni. L’aspettativa di vita è aumentata di molto, grazie al nostro
sistema di welfare; l’aspettativa media di vita, attualmente è di 81 anni per gli uomini,
85 per le donne. Tutto ciò determina un fenomeno negativo per il funzionamento del
sistema ripartizione: la popolazione invecchia e nel contempo si riduce la natalità. Ciò
ha messo a rischio l’equilibrio su cui si basava il funzionamento del sistema a
ripartizione, che funziona se vi è un equilibrio tra chi versa contributi e chi va in
pensione.
L’invecchiamento demografico è provocato dall’innalzamento dell’aspettativa di vita e
dalla riduzione del tasso di natalità.
Fattore economico il secondo fattore che mette in crisi il sistema a ripartizione è il
rallentamento della crescita economica, con fasi cicliche di vera e propria RECESSIONE
ECONOMICA. Tale rallentamento della crescita economica riduce l’occupazione;
inevitabilmente, diminuisce la popolazione in età di lavoro. Si riduce il gettito della
contribuzione previdenziale. Tutti questi fattori contribuiscono a ridurre il gettito della
contribuzione previdenziale. Aumenta, allo stesso tempo, il numero dei pensionati e
aumentano le aspettative di vita degli anziani: il lavoratore pensionato percepisce una
pensione per un periodo di tempo più lungo. La combinazione di tali fattori ha finito per
alterare gli equilibri dell’intero sistema previdenziale.
I bilanci dell’INPS sono attualmente quasi tutti in negativo. Il problema attuale è che
mancano risorse per pagare le pensioni.

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La necessità dello stato è di aumentare le entrate delle contribuzioni. fino a quando ha
potuto, lo stato ha aumentato i contributi che il ddl e il lavoratore pagano. poi, lo stato
è intervenuto direttamente, tramite la fiscalità generale, aumentando le tasse e
trasferendo le risorse agli enti previdenziali. Negli anni lo stato ha svolto un ruolo
sempre più determinante.
C’è un terzo fattore: il funzionamento del sistema a ripartizione è stato messo in crisi
anche dagli interventi del legislatore: questo ha introdotto alcune distorsioni, acuendo
ancora di più il problema. Ha introdotto dal lato pensionistico riforme “GENEROSE”, sia
per quanto riguarda il quantum della pensione, sia con riguarda i requisiti per maturare
la pensione, anticipando sempre di più il termine per maturarla. All’epoca il legislatore
si illuse che le condizioni di benessere (piena occupazione, alta natalità) sarebbero
rimaste invariate anche negli anni successivi.
Riforme prese all’epoca una riforma agiva sull’anticipo dei requisiti per andare in
pensione viene introdotta LA PENSIONE DI ANZIANITÀ, accanto a quella di vecchiaia:
la pensione di anzianità non era collegata all’età anagrafica, ma all’anzianità di servizio,
cioè al fatto di aver lavorato un certo numero di anni; in alcuni settori, l’anzianità di
servizio era sempre più ridotta. L’altro provvedimento agisce sull’importo dei
trattamenti pensionistici: il legislatore aumenta l’importo delle pensioni, introducendo
un sistema di calcolo più favorevole: il cd METODO RETRIBUTIVO. Prima l’importo della
pensione era collegato ai contributi versati; tale nuovo sistema collega l’importo della
pensione alla media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni della vita lavorativa. In
alcuni settori, vi è il fenomeno delle PENSIONI D’ORO: si arriva a collegare l’importo
della pensione addirittura all’ultima retribuzione percepita dal lavoratore prima di
andare in pensione; o, in alcuni settori, si collega l’importo della pensione all’ultima
retribuzione percepita del parigrado in servizio. Facendo il raffronto con l’art 38 c2, ci
rendiamo conto che un importo della pensione corrispondente all’ultima retribuzione
percepita, è qualcosa che va oltre.

Agli inizi degli anni 90, il legislatore avvia un processo di riforme non più differibile (vi
era un ingente debito pubblico). L’esigenza di fondo è duplice: ridurre la spesa
pensionistica in crescita esponenziale; la seconda esigenza è di equità e
armonizzazione dei regimi applicabili alle diverse categorie: si cercano di eliminare le
distorsioni tra le diverse categorie.
Caratteristica interventi nessuno degli interventi è mai decisivo; se ne approva
sempre uno successivo. L’inadeguatezza dei singoli interventi è dipesa ovviamente dalle
scelte delle maggioranze parlamentari; lo strumento utilizzato dal legislatore per
attenuare l’impatto peggiorativo delle riforme è stato il DIFFERIMENTO NEL TEMPO
degli effetti delle modifiche introdotte. Spesso si è quindi trattato di riforme destinate a
produrre effetti non immediatamente, ma nel tempo.
I provvedimenti iniziano nel biennio 92-93; la riforma più importante è la legge
335/1995 legge Dini. Questa legge fissa l’obbiettivo di stabilizzare il rapporto tra
spesa pensionistica e PIL. Dice che la spesa pensionistica deve essere in rapporto alla
crescita economica. Si fa ciò soprattutto tramite uno strumento: si reintroduce il

133
sistema di calcolo delle pensioni contributivo (correlato all’insieme dei contributi
versati). nel 69 il sistema era stato sostituito con il sistema retributivo delle pensioni.
Il calcolo è una moltiplicazione: la pensione contributiva si calcola con due grandezze:
coefficiente di trasformazione x montante contributivo individuale. Quest’ultimo è
l’insieme dei contributi versati dal lavoratore. Il coefficiente di trasformazione serve a
trasformare il capitale teorico nel capitale effettivo (importo della pensione). Il
coefficiente tiene conto sia dell’attesa di vita del pensionato (tempo in cui si presume
che il trattamento verrà percepito dall’assicurato- sarà più elevato quanto maggiore è
l’età del pensionamento).
la scelta del legislatore è stata quella di posticipare nel tempo gli effetti dell’entrata in
vigore della riforma ha tracciato una linea: SOLO per coloro assunti dal primo
gennaio 96 in poi, si applica il sistema di calcolo contributivo delle pensioni. Tale
riforma non ha ad oggi ancora prodotto i suoi effetti, perché gli assunti dal 96 in poi
devono nella stragrande maggioranza ancora andare in pensione. Per coloro che
erano già assunti, si fa una distinzione: per coloro che, al 31 dicembre 1995, avevano
più di 18 anni di contribuzione, si continua ad applicare il vecchio sistema retributivo.
Per chi invece, al 31 dicembre 1995, aveva meno di 18 anni di contribuzione, il
legislatore applica il sistema cd MISTO: retributivo fino al 1995 e contributivo per gli
anni successivi.
ecco il modo con cui il legislatore ha differito di molto gli effetti di tali riforme, meno
favorevoli per il lavoratore.
Negli stessi anni, per compensare i trattamenti più sfavorevoli, il legislatore introduce
anche la PREVIDENZA COMPLEMENTARE si chiama così perché dovrebbe servire ad
integrare la componente pubblica della pensione e garantire un livello di pensione
ADEGUATO. Il fine di tale introduzione è quindi compensare per i lavoratori più giovani
le riduzioni della loro pensione che si avrebbero per effetto del sistema contributivo.
La reintroduzione del sistema di calcolo contributivo comporta un’attenuazione del
principio di solidarietà, e un riavvicinamento alla stretta corrispettività tra quanto
versato e quanto si riceve.
Altra novità fondamentale della legge è l’eliminazione della pensione minima: essa è un
trattamento minimo di pensione, a prescindere dalla contribuzione versata. Era un
Istituto di ispirazione chiaramente solidaristica. La legge 335 abolisce la pensione
minima: la pensione sarà corrispondente a quanto effettivamente versato. In realtà,
l’abolizione della pensione minima vale sempre e SOLO per gli assunti dal 1° gennaio
1996.
Ciò non significa che il principio della solidarietà non caratterizzi il nostro ordinamento
previdenziale; il principio è solamente attenuato. Esistono comunque altri istituti: si
pensi al sistema della ripartizione, basato sul principio della solidarietà
intergenerazionale.

Anni 2000 continua il processo di riforme; si susseguono riforme delle pensioni, più o
meno organiche. anche sotto la spinta comunitaria, la direzione rimane sempre la
stessa, per assicurare una maggiore sostenibilità finanziaria: si elevano i requisiti

134
dell’età anagrafica per maturare la pensione; si collega l’aumento del requisito dell’età
anagrafica all’aumento della speranza di vita.
LEGGE FORNERO /2011 si accelera il passaggio definitivo al sistema di calcolo
contributivo, perché si estende, a decorrere dal 1° gennaio 2012, il metodo contributivo
a quelli precedentemente esclusi (coloro che nel 1995 avevano già 18 anni di
contributi);
Si elimina la pensione di anzianità (introdotto alla fine degli anni 60), introducendo in
realtà la pensione anticipata.
La legge Dini e la legge Fornero sono 2 leggi di riforma di grande impatto sociale e sono
state entrambe introdotte da governi TECNICI; le maggioranze parlamentari non hanno
avuto la forza di introdurre tali riforme, introdotte solo da governi tecnici, che avevano
minori problemi di consenso.
Problema ancora attuale è l’assenza di risorse: dopo l’entrata nell’UE, l’Italia non può
più aumentare il debito pubblico, né può aumentare le tasse.
Ci sarà sicuramente un’ulteriore riforma organica delle pensioni, anche se è necessario
un equilibrio tra valori e principi in contrasto fra di loro. Le proposte sono le più
disparate, ma sicuramente bisogna stanziare più risorse per incentivare la natalità,
come in Francia. La prima necessità è comunque quella di ampliare la produttività del
lavoro.
LA PENSIONE DI VECCHIAIA
La legge 214 del 2011 ha previsto nuovi requisiti per il diritto a pensione di vecchiaia,
sia per quanto riguarda l’età anagrafica (cd. età pensionabile) che la contribuzione (cd.
anzianità contributiva). Soltanto in alcune ipotesi si continuano ad applicare le regole
previste dalla disciplina previgente, al fine di tutelare le aspettative di quei lavoratori
che erano più vicini alla maturazione del diritto a pensione. Per quanto riguarda l’età
anagrafica, in base alla disciplina in vigore dal 1° gennaio 2012, ai fini della maturazione
della pensione di vecchiaia, è necessario aver compiuto: a) almeno 66 anni, per i
lavoratori del settore pubblico e privato, e per le lavoratrici del settore pubblico; b)
almeno 62 anni, con un aumento graduale fino a 66 nel 2018, per le lavoratrici del
settore privato.
Con cadenza triennale, e biennale a partire dal 2022, i requisiti di età anagrafica sono adeguati
automaticamente all’aumento della speranza di vita. Per effetto di tale adeguamento, dal 1°
gennaio 2016, al fine di conseguire il diritto alla pensione di vecchiaia, è richiesto, a tutti i
lavoratori e alle lavoratrici del settore pubblico, il raggiungimento di almeno 66 anni e 7 mesi. In
ogni caso, la legge ha già previsto che dal 2021 l’età minima sarà, comunque, per tutti di almeno
67 anni. La legge, inoltre, incentiva i lavoratori a proseguire l’attività lavorativa anche oltre il
compimento dell’età minima, fino all’età di 70 anni.
A tal fine, sono, anzitutto, previsti dei coefficienti di trasformazione periodicamente aggiornati,
che assicurano prestazioni di importo superiore quanto più elevata è l’età del pensionamento. Un
ulteriore incentivo a proseguire il rapporto di lavoro, oltre il raggiungimento del requisito
anagrafico minimo, è costituito dalla previsione dell’applicazione della tutela contro i licenziamenti
illegittimi di cui all’articolo 18 della legge 300 del 1970 fino al limite massimo di 70 anni.

135
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno, però, affermato che tale previsione non attribuisce al
lavoratore il “diritto potestativo” di proseguire il rapporto di lavoro fino al raggiungimento del
settantesimo anno di età. Per quanto riguarda il requisito della contribuzione è previsto, di regola,
un minimo di 20 anni di anzianità contributiva. È necessario, tuttavia, che l’ammontare dei
contributi versati determini l’erogazione di un importo pensionistico che sia superiore a 1,5 volte
l’assegno sociale, annualmente rivalutato.
Nel caso in cui il lavoratore non abbia maturato i 20 anni di contribuzione, o i contributi versati
non siano sufficienti a determinare l’erogazione di un importo pensionistico superiore al limite ora
ricordato, il diritto a pensione di vecchiaia si consegue quando si raggiunge l’età di 70 anni,
sempreché siano stati maturati almeno 5 anni di contribuzione effettiva, esclusi quindi i contributi
figurativi. In questo modo, si può ritenere che il legislatore abbia parzialmente compensato la
soppressione della garanzia dell’integrazione al trattamento minimo per le pensioni calcolate con il
sistema contributivo.
Resta, però, che nell’ipotesi in cui il lavoratore non raggiunga il requisito contributivo minimo per
avere diritto a pensione, egli “perde” la contribuzione versata, e potrà eventualmente fruire
dell’assegno sociale previsto a favore di tutti i cittadini residenti in Italia che abbiano compiuto 65
anni e che si trovino in disagiate condizioni economiche. In via generale, la pensione di vecchiaia
decorre dal mese successivo a quello di maturazione del diritto, previa la cessazione del rapporto
di lavoro e la presentazione della domanda.
La legge ha abolito, sia per la pensione di vecchiaia che per gli altri trattamenti pensionistici, le cd.
finestre mobili (o di uscita), ossia le norme che imponevano date predeterminate nel corso
dell’anno in cui poter ottenere la liquidazione della pensione. L’imposizione di tali “finestre”,
infatti, è stata lo strumento con il quale spesso in passato veniva aumentata indirettamente l’età
pensionabile, avendo l’effetto di posticipare ulteriormente la decorrenza della pensione già
maturata. Salve alcune residue limitazioni, la pensione di vecchiaia è cumulabile con i redditi da
lavoro autonomo e dipendente, in quanto il legislatore ha progressivamente eliminato i vincoli alla
possibilità di cumulo della pensione con altri redditi.
PENSIONE ANTICIPATA
Nel 2012, è stata introdotta la possibilità di conseguire la pensione anticipata, in sostituzione della
vecchia pensione di anzianità. Dal 1° gennaio 2016, la pensione anticipata si matura, a prescindere
dall’età anagrafica raggiunta, con una anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per i lavoratori, e
di 41 anni e 10 mesi per le lavoratrici. Sono, però, previste penalizzazioni progressive applicate
sull’ammontare della pensione erogata, per coloro che accedono al pensionamento anticipato
prima del compimento di 62 anni di età.
Per i lavoratori che hanno iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996 (ai quali si applica integralmente
il sistema di calcolo contributivo), la pensione anticipata si può conseguire anche quando si
raggiungono 20 anni di anzianità contributiva effettiva, con almeno 63 anni di età (dunque, oggi,
con 3 anni di anticipo rispetto alla pensione di vecchiaia), purché l’importo della pensione sia
superiore a 2,8 volte l’assegno sociale, annualmente rivalutato. Anche per la pensione anticipata, i
requisiti anagrafici sono adeguati automaticamente, sempre ogni 3 anni (e 2 dal 2022), in relazione
all’incremento dell’aspettativa di vita.

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Per i lavoratori che svolgono attività particolarmente faticose e pesanti (cd. lavori usuranti), il
legislatore ha previsto ulteriori agevolazioni per il conseguimento della pensione, richiedendo
minori requisiti di età e di anzianità contributiva anche rispetto a quelli necessari per avere diritto
alla pensione anticipata. In questo modo, è stata riconosciuta a tale categoria di lavoratori una
maggiore effettività di tutela, giustificata dallo svolgimento di una prestazione di lavoro più
gravosa di quella degli altri lavoratori.
A condizione che sia cessato il rapporto di lavoro, la pensione anticipata decorre dal mese
successivo a quello di presentazione della domanda. Anche essa è totalmente cumulabile con i
redditi da lavoro autonomo e dipendente. La pensione anticipata ha sostituito la previgente
pensione di anzianità, dalla quale, in realtà, si distingue soltanto per effetto della previsione di
condizioni più rigorose per la maturazione del diritto. La vecchia pensione di anzianità e, oggi,
quella anticipata, continuano a costituire una anomalia del nostro sistema previdenziale, non
trovando analoghi riscontri in altri ordinamenti comparabili.
La ratio della pensione di anzianità è quella di premiare i lavoratori che hanno contribuito al
benessere della collettività con il proprio lavoro, partecipando assiduamente alle attività
produttive per un lungo periodo di anni. È però indubbio che questa particolare forma di tutela,
che non trova un fondamento costituzionale diretto ed esplicito, essendo erogata per un periodo
solitamente più lungo degli altri trattamenti pensionistici, finisce per incidere sulla sostenibilità
finanziaria dell’intero sistema previdenziale.
PENSIONE DI INABILITA’
L’evento “invalidità” è tutelato con due distinte prestazioni: l’assegno di invalidità e la pensione di
inabilità. Per entrambe le prestazioni, è necessario che il soggetto protetto abbia una anzianità
contributiva di almeno 5 anni, con un minimo di 3 anni nei 5 anni precedenti la presentazione della
domanda. L’assegno di invalidità spetta all’invalido, ovvero al lavoratore “la cui capacità di lavoro,
in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o
difetto fisico o mentale a meno di un terzo”.
L’assegno di invalidità è temporaneo, essendo riconosciuto per un periodo di 3 anni. È, però,
rinnovabile, su richiesta del titolare, per periodi della stessa durata, ove permangano le condizioni
di invalidità. Dopo 3 rinnovi consecutivi, l’assegno è confermato automaticamente. Il diritto
all’assegno sussiste anche nel caso in cui la riduzione della capacità lavorativa sia preesistente al
rapporto previdenziale purché vi sia stato un successivo aggravamento o siano sopraggiunte nuove
infermità.
L’assegno è calcolato secondo le norme in vigore nel regime generale per determinare
l’ammontare della pensione. Per coloro ai quali si applica il sistema retributivo o misto, l’assegno è
integrato al trattamento minimo stabilito per la pensione, ma soltanto quando il reddito del
soggetto protetto e del suo nucleo familiare non superi un certo importo; in ogni caso, anche con
l’integrazione l’importo dell’assegno non può essere superiore a quello dell’assegno sociale. Al
compimento dell’età pensionabile, l’assegno di invalidità si trasforma in pensione di vecchiaia, ove
sussista anche il relativo requisito di anzianità contributiva.
In difetto di specifica norma di legge, invece, non è consentita la trasformazione di quell’assegno
anche in pensione di anzianità, ora anticipata. La pensione di inabilità, invece, spetta all’inabile,
137
ovvero al lavoratore che, “a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovi nell’assoluta e
permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”. La pensione è costituita
dall’importo dell’assegno di invalidità più una determinata maggiorazione distinta a seconda che la
pensione sia liquidata con il sistema retributivo o contributivo. La pensione di inabilità è
totalmente incompatibile con qualsiasi reddito da lavoro, nonché con ogni trattamento
previdenziale di disoccupazione o, comunque, sostitutivo o integrativo della retribuzione.
Essa, inoltre, impone anche la cancellazione da qualsiasi elenco o albo professionale. La rinuncia a
tali trattamenti, così come la cancellazione da elenchi o albi, sono soltanto condizioni di erogabilità
della pensione in relazione ad un diritto già sorto. Nella ipotesi in cui sia anche impossibilitato a
deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o, comunque, non sia in grado di
compiere gli atti della vita quotidiana, il pensionato di inabilità ha diritto ad un ulteriore assegno
mensile per l’assistenza necessaria e continuativa.
Tale assegno non è dovuto in caso di ricovero in istituti di cura o di assistenza a carico della
pubblica amministrazione. Nel corso del tempo, infine, lo stato di invalidità e quello di inabilità
possono modificarsi sia in termini di miglioramento che di peggioramento rispetto alle condizioni
che hanno dato diritto al relativo trattamento. Per questo, l’assegno di invalidità e la pensione di
inabilità possono essere sottoposte a revisione ad iniziativa sia dell’INPS che del titolare del
trattamento. Nel caso in cui, all’esito delle visite sanitarie, vengono accertate condizioni mutate
rispetto a quelle originarie, il trattamento liquidato viene revocato e viene adottato il
provvedimento conseguente. Se l’interessato si rifiuta senza giustificato motivo di sottoporsi agli
accertamenti sanitari, il trattamento è sospeso fino a quando tali accertamenti non siano compiuti.
PENSIONE AI SUPERSTITI
La situazione di bisogno dei familiari del lavoratore defunto è tutelata dalla legge che riconosce
loro un diritto pensionistico iure proprio, e non iure successionis. La pensione spetta, innanzitutto,
al coniuge e, a determinate condizioni ed entro certi limiti, anche a quello divorziato o separato
legalmente. Non spetta, invece, al convivente more uxorio. Oltre al coniuge, la pensione spetta ai
figli legittimi o legittimati e alle persone equiparate purché, al momento del decesso del dante
causa, siano: minori di 18 anni o inabili; studenti di scuola media professionale di età compresa tra
i 18 ed i 21 anni; studenti universitari fino a 26 anni.
Il diritto è riconosciuto anche ai figli postumi e a quelli coniugati. In mancanza di coniuge e figli, la
pensione spetta ai genitori, anche adottanti e/o affidatari, se di età superiore a 65 anni e non
titolari di altra pensione. In mancanza anche dei genitori, la pensione spetta ai fratelli e alle sorelle,
purché non coniugati (o vedovi o divorziati), permanentemente inabili al lavoro e non titolari di
altra pensione. Per tutte le categorie di superstiti, condizione per avere diritto alla pensione è la
vivenza a carico del lavoratore al momento della morte, in quanto il bisogno tutelato è il venire
meno di una fonte di reddito per il sostentamento del nucleo familiare.
Tale requisito è presunto per il coniuge e i figli minori di anni 18, mentre per tutti gli altri superstiti
deve essere provato. Se il lavoratore defunto era già pensionato, la pensione ai superstiti è
denominata pensione di reversibilità. Sono reversibili le pensioni di vecchiaia, anticipata, di
inabilità e supplementare (e le previgenti pensioni di anzianità e di invalidità). Mentre, non sono
reversibili l’assegno di invalidità e le rendite dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Se,

138
invece, il lavoratore defunto svolgeva ancora attività lavorativa, la pensione ai superstiti è
denominata pensione indiretta.
Per conseguirne il diritto, è necessario che al momento della morte il dante causa abbia maturato i
requisiti di contribuzione previsti per almeno una delle prestazioni dell’assicurazione di
riferimento. L’importo della pensione ai superstiti corrisponde ad una quota della pensione già
liquidata o che sarebbe spettata al lavoratore defunto. Essa è suddivisa tra gli aventi diritto,
secondo le percentuali stabilite dalla legge, fermo restando che l’importo complessivo non può
essere inferiore al 60% né superiore al 100% della pensione diretta, ed è ridotto in relazione ai
redditi del beneficiario.
Per evitare possibili abusi, la legge prevede che l’importo della pensione sia ridotto anche
nell’ipotesi in cui il matrimonio con il dante causa sia stato contratto dopo i 70 anni di quest’ultimo
e vi sia una differenza di età tra i coniugi superiore a 20 anni. Infine, il diritto alla pensione è
escluso quando il familiare superstite sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per
aver causato la morte del dante causa.
Se i rapporti di lavoro flessibile sono un elemento richiesto per aumentare la competitività delle
imprese e i tassi di occupazione regolare, è anche vero che essi possono determinare una
attenuazione della tutela previdenziale. I rapporti di lavoro flessibile, invero, sono spesso
contrassegnati dalla discontinuità e dalla breve durata della prestazione lavorativa, caratteristiche
che determinano, entrambe, il rischio che il lavoratore maturi una contribuzione previdenziale
ridotta e, di conseguenza, anche un trattamento pensionistico inadeguato.
Inoltre, il nostro ordinamento previdenziale, nonostante la tendenza alla omogeneizzazione delle
tutele, continua ad essere ancora caratterizzato da una molteplicità di regimi diversi per
organizzazioni amministrative ed anche discipline (cd. pluralismo previdenziale). Così, a seguito
delle più importanti riforme del mercato del lavoro, il legislatore ha previsto specifici adattamenti
della disciplina pensionistica proprio per consentire una tutela previdenziale adeguata. In
particolare, per evitare la perdita dei vari periodi di contribuzione versata, il legislatore ha
introdotto i due diversi istituti della totalizzazione e della ricongiunzione dei periodi contributivi.
La totalizzazione (o cumulo) consente al soggetto protetto di utilizzare le anzianità contributive
maturate presso regimi previdenziali diversi per raggiungere i requisiti di contribuzione necessari
per il sorgere del diritto a pensione o per ottenere livelli di pensione più elevati. Per i lavoratori
che hanno maturato periodi contributivi prima del 1° gennaio 1996, è prevista la facoltà di
totalizzare i diversi periodi di contribuzione scegliendo tra due distinte regolamentazioni. La
totalizzazione è prevista a condizione che il lavoratore: non sia già titolare di un trattamento
pensionistico autonomo presso una delle gestioni previdenziali di iscrizione, anche se ne abbia
maturato i requisiti; abbia maturato almeno 20 anni di contribuzione e abbia raggiunto almeno 65
anni di età, ovvero abbia almeno 40 anni di contribuzione, indipendentemente dall’età.
È, inoltre, richiesto che i periodi di contribuzione da cumulare non siano coincidenti, anche ove
l’eventuale coincidenza riguardi contributi di natura diversa. Una volta totalizzati i contributi, la
legge prevede che la pensione venga calcolata secondo il criterio del pro-rata, per cui ogni singola
gestione previdenziale, senza alcun onere per gli interessati, accerta la sussistenza del diritto a
pensione e determina la quota di pensione a suo carico in proporzione ai contributi versati,

139
applicando il sistema contributivo. L’INPS eroga le quote di pensione determinate dalle singole
gestioni, sulla base di apposite convenzioni stipulate con ciascuna di esse.
Una diversa disciplina è applicabile nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia maturato i requisiti di
contribuzione e di età anagrafica per conseguire la pensione di vecchiaia più elevati tra quelli
previsti dai diversi regimi ai quali egli è stato iscritto. La pensione resta determinata da ciascuna
gestione previdenziale, sempre secondo il criterio del pro-rata applicando, però, il proprio sistema
di calcolo, che può essere, quindi, anche retributivo. Invece, per i lavoratori assunti dal 1° gennaio
1966 e, cioè, per i lavoratori le cui pensioni sono liquidate esclusivamente con il sistema
contributivo, il diritto alla totalizzazione può essere esercitato anche quando tali lavoratori siano
già titolari di un trattamento pensionistico autonomo presso uno dei regimi previdenziali di
iscrizione, al fine di raggiungere livelli di pensione più elevati.
Nella ricongiunzione si realizza un trasferimento effettivo di contributi da una gestione all’altra e,
quindi, un accentramento delle diverse posizioni contributive presso un unico regime, che
erogherà una unica pensione, calcolata secondo la propria disciplina. L’esercizio del diritto alla
ricongiunzione, che preclude il ricorso alla totalizzazione, è a titolo oneroso, e ciò sia nell’ipotesi in
cui i contributi vengano trasferiti dal regime generale ai regimi speciali sostitutivi o esclusivi, sia, a
far data dal 1° luglio 2010, nell’ipotesi invera e, cioè, quando i contributi versati nei regimi speciali
sostitutivi o esclusivi vengano trasferiti nel regime generale. La ricongiunzione comporta oneri di
carattere economico anche per i liberi professionisti. Infine, per evitare che la contribuzione
eventualmente versata nel periodo successivo alla decorrenza della pensione venga persa, sono
previsti gli istituti del supplemento della pensione e della pensione supplementare.
OBBLIGAZIONE CONTRIBUTIVA
Particolarmente controversa è la natura giuridica dei contributi previdenziali, anche in
considerazione delle diverse tipologie di contributi e delle diverse forme di previdenza che
caratterizzano il nostro ordinamento. Secondo la tesi più accreditata, essi possono essere
configurati come tributi o imposte speciali stabiliti dalla legge a favore di enti pubblici o privati per
la realizzazione di un interesse pubblico costituzionalmente protetto, quale è quello al quale
risponde la tutela previdenziale. Quei contributi, infatti, perseguono la funzione di fornire agli enti
previdenziali i mezzi necessari per soddisfare i compiti istituzionali loro assegnati dalla legge.
L’obbligo del pagamento dei contributi previdenziali sorge immediatamente al verificarsi delle
condizioni previste dalla legge (solitamente, il divenire parte di un rapporto di lavoro subordinato
o autonomo) e si estingue quando quelle condizioni vengono meno. Nel rapporto di lavoro
subordinato, l’obbligazione contributiva è, di regola, posta a carico del datore di lavoro, ed è
rafforzata dalla previsione di sanzioni civili, e nei casi più gravi, anche penali. In alcune forme di
previdenza, e normalmente nei regimi pensionistici, quella obbligazione è posta anche a carico del
lavoratore, sia pure solitamente in misura minore.
In questi casi, responsabile dell’adempimento dell’obbligo contributivo, anche per la parte a carico
del lavoratore, resta comunque il datore di lavoro. Nel rapporto di lavoro parasubordinato, invece,
l’onere del versamento dei contributi previdenziali è posto in parte a carico del committente e in
parte a carico del lavoratore, mentre esso ricade pressoché integralmente sui lavoratori autonomi
e sui liberi professionisti. La legge determina l’ammontare dell’obbligo contributivo in misura

140
proporzionale alla retribuzione imponibile e, per i lavoratori autonomi, al reddito professionale,
prevedendo aliquote contributive diverse per le diverse attività lavorative ed i diversi rapporti di
lavoro.
L’aliquota contributiva è ancora oggi più elevata per il lavoro subordinato rispetto al lavoro
autonomo e parasubordinato; tuttavia, la tendenza è quella di ridurre progressivamente le
differenze esistenti tra le diverse aliquote, e ciò sia per ragioni di equità, sia per disincentivare il
ricorso ad una utilizzazione fraudolenta del lavoro autonomo e, soprattutto, parasubordinato. Per i
lavoratori subordinati, l’individuazione della retribuzione da prendere come base per
l’applicazione dell’aliquota contributiva è stabilita dalla legge equiparando le nozioni di reddito
imponibile a fini fiscali e a fini contributivi.
Precisamente, la legge considera retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale quella
che deriva da “rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle
dipendenze e sotto la direzione di altri”, ed in particolare “tutte le somme e i valori in genere, a
qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in
relazione al rapporto di lavoro”. A fronte di tale definizione sostanzialmente onnicomprensiva,
sono espressamente escluse dall’obbligo contributivo alcune voci tassativamente elencate, quali:
le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto, in quanto, pure avendo natura
retributiva, svolgono una funzione previdenziale; le somme corrisposte in occasione della
cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori; più in generale, tutte
le somme che traggono origine dalla cessazione del rapporto, con l’esclusione dell’indennità
sostitutiva del preavviso; i proventi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento danni; i
redditi da lavoro dipendenti derivanti dall’esercizio di piani di stock option. Infine, per controllare
l’andamento della spesa pensionistica, sono previsti massimali e minimali contributivi. In
particolare, per i lavoratori privi di anzianità contributiva al 1° gennaio 1996 è previsto un tetto
massimo di retribuzione imponibile e pensionabile, annualmente rivalutabile. Inoltre, sempre ai
fini del versamento dei contributi previdenziali, è stabilito un minimale di retribuzione da
assumere come base per il calcolo di quei contributi.
In numerosi casi, l’obbligo contributivo viene ridotto allo scopo di perseguire interessi generali. In
particolare, la legge prevede, a determinate condizioni ed entro certi limiti, agevolazioni
contributive per tutti i datori di lavoro che assumono con contratto di lavoro a tempo
indeterminato. Inoltre, per incentivare l’occupazione giovanile e favorire l’ingresso nel mercato del
lavoro, la legge prevede anche agevolazioni contributive per particolari tipologie di contratti di
lavoro subordinato, come il contratto di apprendistato, ove prevalente è l’attività di formazione.
Infine, sgravi contributivi sono previsti per i datori di lavoro che assumono, con contratto di lavoro
anche a tempo determinato, lavoratori ultracinquantenni disoccupati da oltre 12 mesi o lavoratrici
di qualsiasi età disoccupate da almeno 24 mesi. Infine, sgravi contributivi sono previsti anche per
quella parte di retribuzione collegata all’andamento economico dell’impresa (cd. salario di
produttività) stabilita da contratti e accordi collettivi aziendali o territoriali. Per effetto di questi
provvedimenti, il datore di lavoro è esonerato, in tutto o parzialmente, dall’obbligo del
versamento dei contributi previdenziali, a condizione che eroghi ai dipendenti trattamenti
economici e normativi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali di settore (cd.
clausola sociale), mentre l’onere corrispondente è assunto dallo Stato.

141
Peraltro, poiché tali misure riducono il costo del lavoro e, quindi, concorrono ad incrementare la
competitività delle imprese, esse possono talvolta creare problemi di compatibilità con il diritto
comunitario, poiché quest’ultimo vieta a tutti gli Stati membri di introdurre o mantenere
disposizioni che possano alterare le regole della libera concorrenza. Di contro, in altre ipotesi,
l’obbligo contributivo non viene ridotto, bensì incrementato mediante l’imposizione di contributi
di solidarietà che perseguono una finalità redistributiva. Così, contributi di questa natura sono stati
imposti sia a carico di determinati fondi, gestioni o regimi previdenziali, aventi maggiori
disponibilità di risorse rispetto ad altri, sia direttamente a carico dei soggetti titolari dei trattamenti
pensionistici più elevati, o a quote di tali trattamenti eccedenti un determinato importo.
Nei casi in cui il rapporto di lavoro, e con esso l’obbligo retributivo, rimane sospeso per effetto di
determinati eventi (malattia, maternità, infortunio, trattamenti di integrazione salariale,
svolgimento di cariche pubbliche elettive, congedi parentali), la legge dispone che i periodi di
sospensione si considerino comunque “coperti” da contribuzione ai fini del diritto alle prestazioni
previdenziali e della determinazione del loro ammontare. È il finanziamento pubblico, attraverso il
sistema fiscale, che provvede a farsi carico della contribuzione posta a carico dei datori e dei
prestatori di lavoro, e da essi non versata per effetto della sospensione del rapporto, e ciò ancora
una volta in attuazione del principio di solidarietà al fine di evitare che i soggetti protetti possano
subire un pregiudizio per quanto attiene al futuro godimento delle prestazioni previdenziali.
Nell’ipotesi in cui, invece, il rapporto di lavoro si estingua, il lavoratore è autorizzato a proseguire
volontariamente il versamento dei contributi, al fine di conseguire il diritto a pensione o ad una
pensione più elevata. Agli stessi fini, è previsto anche l’istituto del riscatto che consente al
lavoratore di incrementare la propria posizione contributiva computando in essa i periodi di
svolgimento di corsi universitari di studio, a seguito dei quali siano stati conseguiti i relativi
diplomi.
Il diritto di percepire i contributi previdenziali, di cui è titolare l’ente previdenziale, può estinguersi
per prescrizione. Per tutte le contribuzioni di previdenza obbligatoria, il termine di prescrizione è
di 5 anni, ma per i contributi dovuti alle gestioni pensionistiche il termine è di 10 anni se il
lavoratore o i suoi superstiti abbiano denunziato all’ente previdenziale l’omissione contributiva del
datore di lavoro. Per salvaguardare l’equilibrio delle gestioni pensionistiche, la legge ha disposto
che i contributi prescritti non possono più essere versati neppure spontaneamente.
Pertanto, ove il lavoratore abbia denunziato l’omissione contributiva, l’ente previdenziale, titolare
del diritto, è obbligato a compiere gli atti necessari per interrompere la prescrizione e recuperare i
contributi non versati. Dalla prescrizione dei contributi omessi può derivare un danno per il
lavoratore, costituito dalla perdita del diritto alla prestazione previdenziale o dalla maturazione del
diritto ad una prestazione di importo inferiore di quella che sarebbe spettata ove i contributi
fossero stati regolarmente versati. In relazione a tale danno, è riconosciuto al lavoratore il diritto al
risarcimento, anche in forma specifica, mediante la costituzione di una rendita vitalizia.
PREVIDENZA COMPLEMENTARE
Negli ultimi decenni si è progressivamente modificato in tutte le economie occidentali il rapporto
tra l’intervento pubblico e l’intervento dei soggetti privati in materia sociale. A causa delle cicliche
e prolungate crisi economiche, gli Stati nazionali più evoluti, se hanno dovuto ridimensionare il

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loro intervento diretto, individuando in maniera più rigorosa e selettiva le situazioni di effettivo
bisogno, nel contempo hanno cercato di sopperire a tale ridimensionamento tramite la
promozione dell’azione di soggetti privati nell’organizzazione dei servizi e nell’erogazione delle
prestazioni.
Per effetto di ciò, la realizzazione di obiettivi di interesse generale in campo sociale risulta affidata
ad un sistema sempre più integrato e plurale, nel quale (interesse) pubblico e (interesse) privato
coesistono e interagiscono, dando vita a nuovi modelli che, pur tra loro diversificati, puntano tutti
a valorizzare le comunità intermedie e la dimensione collettiva. Devono essere dunque ricordate le
scelte del legislatore che hanno avuto ad oggetto: La “privatizzazione” di alcuni enti che gestiscono
la tutela previdenziale obbligatoria; l’affidamento ai fondi istituiti dalla contrattazione collettiva
della gestione degli ammortizzatori sociali in settori che ne erano privi, come il credito e, più,
recentemente, la generalizzazione del sistema dei fondi di solidarietà bilaterali; la istituzione dei
fondi interprofessionali per la formazione continua, ai quali può essere devoluta una parte della
contribuzione dovuta dal datore di lavoro per la tutela della disoccupazione; l’estensione delle
funzioni demandate agli istituti di patronato; il riconoscimento e la promozione dell’attività degli
enti bilaterali; il regime fiscale di favore previsto in favore del welfare aziendale.
La collaborazione tra pubblico e privato nella realizzazione della tutela previdenziale, mediante
una proficua cooperazione tra Stato, gruppi intermedi e società civile, trova fondamento negli
stessi principi costituzionali. L’articolo 38 Cost. abilita lo Stato a realizzare l’obiettivo
dell’adeguatezza della prestazione previdenziale anche non direttamente, ma con organi da esso
solo integrati. Il ruolo delle formazioni sociali, a sua volta, è protetto e valorizzato negli articoli 2 e
39 della Costituzione. infine, il nuovo testo del comma 4 dell’articolo 118 della Costituzione
accoglie il principio della sussidiarietà orizzontale, imponendo allo Stato, e alle altre entità di
governo locali, di favorire l’autonoma iniziativa privata per lo svolgimento di tutte le attività di
interesse generale, compresa la previdenza sociale.
PREVIDENZA E FONDI PENSIONE
La disciplina della previdenza complementare assume una significativa espressione. Al fine di
compensare e rendere socialmente tollerabile il ridimensionamento delle pensioni pubbliche reso
necessario dalla crisi finanziaria del sistema, il legislatore ha regolato e promosso forme di
previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari, prevedendo, tra l’altro, la
progressiva destinazione al loro finanziamento del trattamento di fine rapporto. Così, gli interventi
di riforma adottati hanno sostanzialmente finito per modificare la struttura del nostro sistema
previdenziale, affiancando alla tradizionale componente a ripartizione costituita dalla previdenza
obbligatoria di base una componente volontaria gestita, invece, a capitalizzazione e sulla base di
criteri rigorosi di corrispettività, come è la previdenza privata complementare.
Ne è derivato un sistema previdenziale articolato in due sottosistemi distinti quanto a strutture,
discipline e caratteristiche, ma aventi una funzione comune. Ed infatti, in coerenza con
l’evoluzione descritta, non può più ritenersi che la previdenza complementare sia destinata a
perseguire interessi esclusivamente privati, dovendosi prendere atto che anche essa, unitamente
alla previdenza obbligatoria riformata, concorre a realizzare la tutela prevista dal comma 2
dell’articolo 38 della Costituzione, ovvero l’obiettivo dell’adeguatezza delle prestazioni
pensionistiche.
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La previdenza complementare si realizza mediante la costituzione di autonomi fondi pensione, che
assumono la forma giuridica di associazioni non riconosciute o di associazioni riconosciute con
personalità giuridica. I fondi pensione si suddividono in tre categorie: i fondi pensione negoziali, i
fondi pensione aperti e le forme pensionistiche individuali. I fondi pensione negoziali, detti anche
chiusi o sindacali, sono istituti dalla contrattazione collettiva o da accordi sindacali, anche
aziendali.
Invece, i fondi pensione aperti, detti anche commerciali, sono istituti da intermediari finanziari e,
cioè, banche, società di intermediazione finanziaria, assicurazioni, società di gestione di fondi
comuni di investimento. Infine, le forme pensionistiche individuali, dette anche piani pensionistici
individuali, sono realizzate mediante l’adesione a fondi pensione aperti o la stipula di contratti di
assicurazione sulla vita con imprese di assicurazione autorizzate dall’IVASS. Forme pensionistiche
complementari possono essere istituite anche dalle regioni, con legge regionale, e dagli enti
previdenziali privatizzati, con l’obbligo di gestione separata.

Ai fondi negoziali possono essere iscritti esclusivamente i lavoratori ai quali si applica la disciplina
sindacale che li istituisce, mentre ai fondi aperti possono iscriversi tutti i lavoratori, pubblici e
privati, autonomi e subordinati, a prescindere da ogni vincolo di appartenenza aziendale,
categoriale, professionale o territoriale.
Nonostante la previdenza complementare sia finalizzata ad assicurare più elevati livelli di
copertura previdenziale per concorrere al raggiungimento della garanzia costituzionale
dell’adeguatezza, l’adesione ai fondi pensione è tutt’ora libera e volontaria, in coerenza con il
principio anche esso costituzionale di libertà della previdenza privata.
La libertà di adesione individuale, però, facendo dipendere dalla volontà del lavoratore
l’applicazione o no della tutela pensionistica complementare, pone un problema sia sul piano dei
principi, che in termini di conseguenze pratiche. Sul piano dei principi, si evidenzia un elemento di
incoerenza con la natura obbligatoria ed anzi necessaria della tutela prevista dall’articolo 38,
comma 2, della Costituzione, che non dovrebbe consentire che l’applicazione di tale tutela possa
formare oggetto di disposizione da parte del soggetto protetto. Sul piano pratico, ne è derivato che
l’adesione dei lavoratori alle forme pensionistiche complementari è stata limitata tra quei
lavoratori che, avendo più basse retribuzioni, non possono rinunciare ad una parte di esse per
finanziare la propria pensione complementare.
Cosicché rischiano di restare esclusi dall’intervento della previdenza complementare proprio
quelle categorie di lavoratori che, alla cessazione dell’attività lavorativa, ne avranno
presumibilmente maggior bisogno. Anche in considerazione di ciò il legislatore ha dettato
disposizione volte a favorire la diffusione della previdenza complementare. A tal fine, ha previsto
un sistema di tassazione agevolato, fondato essenzialmente sul rinvio dell’imposizione fiscale al
momento dell’erogazione della prestazione. Inoltre, ha introdotto un meccanismo di conferimento
del trattamento di fine rapporto diretto ad orientare al massimo la volontà dei lavoratori affinché
essi prestino la loro adesione alle forme pensionistiche complementari.
Il conferimento di tale trattamento può avvenire, infatti, sia con modalità esplicite, che
tacitamente, comportando in entrambi i casi l’automatica adesione del lavoratore alla forma
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pensionistica complementare cui esso è destinato. Il conferimento è esplicito quando il lavoratore,
entro 6 mesi dall’assunzione, sceglie la forma di previdenza complementare alla quale destinare
l’intero trattamento di fine rapporto. Se decide di mantenere il trattamento di fine rapporto
presso il datore di lavoro, la scelta può essere successivamente revocata. Il conferimento è, invece,
tacito quando il lavoratore, sempre entro il termine di 6 mesi dall’assunzione, non esprime alcuna
volontà.
In questa ipotesi, il trattamento di fine rapporto è destinato in via prioritaria alla forma
pensionistica complementare prevista da contratti o accordi collettivi, anche territoriali, e in via
residuale alla speciale forma pensionistica complementare istituita presso l’INPS, denominata
FONDINPS. Nonostante tali disposizioni, però, la diffusione della previdenza complementare è
ancora insufficiente.
E le cause di tale limitata diffusione sono difficili da rimuovere, perché esse possono essere
individuate non solo nella difficoltà di contemperare valori ed interessi diversi che in essa sono
coinvolti, quali sono quelli della solidarietà e del mercato, ma, soprattutto, nelle conseguenze della
crisi economica. Tali conseguenze, infatti, da un lato, limitano le risorse disponibili da destinare
allo sviluppo delle forme di previdenza complementare, e, dall’altro lato, provocano il timore da
parte dei lavoratori che l’adesione a tali forme determini la maturazione di pensioni di importo
non congruo rispetto ai contributi versati.
FINANZIAMENTO
Il finanziamento delle forme di previdenza complementare avviene non soltanto con il
conferimento del trattamento di fine rapporto, ma anche con il versamento di contributi a carico
del lavoratore e del datore di lavoro o del committente. È stato stabilito che anche i contributi
erogati dal datore di lavoro per il finanziamento della previdenza complementare, pur essendo
esclusi dalla nozione di retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale, siano
assoggettati ad un contributo di solidarietà nella misura ridotta del 10% a favore dei regimi
previdenziali pubblici.
La previsione del contributo di solidarietà si pone in contrasto con l’obiettivo dello sviluppo della
previdenza complementare, e trova giustificazione soltanto nell’esigenza di reperire ulteriori
risorse per contrastare la crisi finanziaria delle gestioni pensionistiche pubbliche. In presenza di
determinate condizioni ed entro certi limiti, l’iscritto alla previdenza complementare può
richiedere anticipazioni ed esercitare la facoltà di riscatto della posizione individuale maturata.
Inoltre, per favorire la concorrenza tra le diverse forme pensionistiche complementari, il
lavoratore è libero di trasferire la posizione individuale maturata da un fondo pensione all’altro
dopo appena due anni di iscrizione (cd. portabilità).
In questa ipotesi, però, l’eventuale contributo posto a carico del datore di lavoro dalla
contrattazione collettiva che ha istituto il fondo pensione può essere trasferito soltanto “nei limiti
e secondo le modalità” stabilite da quella stessa contrattazione. L’iscritto consegue il diritto alla
prestazione pensionistica complementare quando matura i requisiti per avere diritto a pensione
nel regime obbligatorio di appartenenza, purché esso abbia almeno 5 anni di contribuzione nelle
forme di previdenza complementare. Le prestazioni pensionistiche possono essere erogate non

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soltanto sotto forma di rendita, ma anche sotto forma di capitale, sia pure fino ad un massimo del
50% del montante finale accumulato.
L’importo della pensione complementare è condizionato dall’andamento dei mercati finanziari,
essendo costituito dal rendimento prodotto dall’investimento di tutti i contributi accreditati sul
conto individuale dell’iscritto, compreso il trattamento di fine rapporto. La legge vieta ai fondi
pensione la gestione diretta delle risorse, imponendo che essa venga affidata a soggetti esperti e
specializzati, quali società di intermediazione mobiliare, società di gestione del risparmio, imprese
assicurative. In questo modo, la previdenza complementare, oltre a svolgere la sua preminente
funzione previdenziale, dovrebbe concorrere anche allo sviluppo dei mercati finanziari, e più in
generale dell’intera economica, favorendo gli investimenti produttivi.
Ma proprio perché è fondata su logiche di mercato che potrebbero implicare rischi per il capitale
investito, la legge ha previsto un rigido sistema di regole inderogabili e di sanzioni (penali e
amministrative) sulla costituzione e l’attività dei fondi pensione, affidando il potere di controllo e
di vigilanza ad una apposita authority (la COVIP), a sua volta vigilata dal Ministero del lavoro.
Ancora inadeguate, invece, sono le forme di garanzia a salvaguardia delle prestazioni da erogare
nell’ipotesi di insolvenza o di crisi del fondo pensione e/o dei gestori, ma anche nell’ipotesi di
investimenti che abbiano vanificato, in tutto o in parte, il capitale versato.
TUTELA PER GLI INFORTUNI SUL LAVORO E LE MALATTIE PROFESSIONALI
Il sistema di tutela degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali si è caratterizzato per
una evoluzione piuttosto lineare, oltreché attenta a preservarne gli equilibri finanziari. Essa fu
prevista alla fine del diciannovesimo secolo, con il moltiplicarsi degli infortuni sul lavoro,
conseguenza inevitabile dell’avvento delle macchine nel mondo del lavoro e della produzione. La
legge 80 del 1898 impose ai datori di lavoro dell’industria l’obbligo di assicurarsi per la
responsabilità civile dei danni derivanti dagli infortuni sul lavoro di cui fossero rimasti vittima i loro
operai, estendendo la tutela anche agli infortuni non determinati da colpa dello stesso datore di
lavoro, bensì derivanti da caso fortuito, forza maggiore e colpa non grave del lavoratore.
Questo obbligo di assicurazione era fondato sul principio del rischio professionale, per cui il datore
di lavoro deve sostenere, con il pagamento del premio assicurativo, le conseguenze negative del
verificarsi del rischio dell’infortunio. Negli anni successivi, la tutela per gli infortuni sul lavoro
estese progressivamente il suo ambito di applicazione e assunse caratteristiche pubblicistiche
sempre più marcate. Dapprima, essa venne applicata anche ai lavoratori dell’agricoltura; poi
nell’oggetto della tutela vennero ricomprese anche le malattie professionali; infine, la sua gestione
venne affidata in via esclusiva ad un ente pubblico, l’attuale INAIL, introducendo nel contempo il
principio dell’automaticità delle prestazioni.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, anche il compito di realizzare la tutela per gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali è stato affidato allo Stato, trattandosi di soddisfare un
interesse pubblico di tutta la collettività, finalizzato alla eliminazione di una situazione di bisogno.
La tutela di cui trattasi continua a conservare una propria specificità. Per chi si trova in condizioni
di bisogno a causa di un infortunio subito sul lavoro è riservata una considerazione particolare ed
una tutela più intensa. Dunque, con l’accoglimento dei principi costituzionali, anche il principio del
rischio professionale, posto a fondamento della tutela, assume un significato diverso, dovendo

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essere inteso come criterio per giustificare una tutela privilegiata per tutti quei lavoratori che
subiscono un evento dannoso connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa.
Coerentemente, la competenza attribuita all’INAIL di gestire, in regime di monopolio, la tutela di
cui trattasi non è stata ritenuta contrastante con le regole comunitarie sulla libera concorrenza, in
quanto tale gestione non costituisce attività di impresa, ma una forma di tutela esclusivamente
sociale, fondata sul principio di solidarietà. L’intervento dell’assicurazione esonera il datore di
lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro. Tale esonero, però, non opera nel caso
in cui una sentenza, civile o penale, accerti che l’evento lesivo si è verificato per fatto costituente
reato perseguibile di ufficio, imputabile alo datore di lavoro o a suoi preposti.
In questo caso, l’INAIL può agire nei confronti del soggetto responsabile dell’infortunio con
l’azione di regresso, nei limiti dell’importo della prestazione erogata. La disciplina dell’esonero del
datore di lavoro dalla responsabilità civile, fondata su una logica di compromesso, non contrasta
con i principi dettati dagli articoli 3 e 38 della Costituzione, in quanto i vantaggi della tutela
previdenziale continuano a giustificare le limitazioni poste al diritto del lavoratore infortunato o
malato al risarcimento integrale del danno subito.
L’articolo 38, comma 2 della Costituzione, nel sancire il diritto dei lavoratori a che siano assicurati
mezzi adeguati alle esigenze di vita anche in caso di infortunio, non opera alcuna distinzione né tra
le diverse tipologie di lavoro, né tra lavoratori più o meno esposti al rischio di infortunio. Tuttavia,
la tutela apprestata dal legislatore non ha mai avuto carattere universale. Tale tutela trova
applicazione soltanto in relazione a determinate tipologie di attività considerate maggiormente
pericolose e a determinate categorie di lavoratori.
In particolare, salvo per le attività agricole ove vigono regole specifiche, le attività pericolose sono
individuate secondo tre diversi criteri. Il primo criterio è quello della cd. macchina isolata (o del
rischio specifico o proprio), in base al quale sono tutelate le lavorazioni che comportano
l’adibizione a macchine mosse non direttamente dalla persona che le usa, ad apparecchi a
pressione, ad apparecchi ed impianti elettrici. La pericolosità della macchina sta nel fatto che il suo
funzionamento può sfuggire al controllo del lavoratore che la deve manovrare.
È evidente, però, che questa giustificazione non è più configurabile, nella stessa misura, per le
sofisticate e oramai diffusissime macchine elettriche ed elettroniche, anche esse ricomprese nella
copertura assicurativa, ma il cui funzionamento non determina gli stessi rischi tradizionalmente
prodotti da eventi traumatici. Il secondo criterio è quello del cd. rischio ambientale, in base al
quale sono assicurate anche le lavorazioni che determinano la presenza del lavoratore in opifici,
laboratori o ambienti organizzati per lavori, opere o servizi che utilizzino le suddette macchine,
apparecchi o impianti. In questa ipotesi, quindi, ciò che rileva è che il lavoratore operi nello stesso
ambiente in cui è situata la macchina ritenuta fonte di rischio.
Infine, con il terzo criterio, il legislatore detta un elenco tassativo di 28 lavorazioni che sono
ritenute pericolose in via presuntiva, indipendentemente dalla sussistenza del rischio specifico o
ambientale. Destinatari della tutela sono le persone cd. assicurate. Tra le persone assicurate,
rientrano, innanzitutto, i lavoratori subordinati, siano essi impiegati od operai, rispetto ai quali
rileva unicamente il fattore oggettivo dell’esposizione al rischio. In questo ambito, la tutela è stata
estesa espressamente anche ai dirigenti, agli apprendisti, ai lavoratori a domicilio, agli sportivi

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professionisti e dilettanti, senza limitazioni con riguardo alla tipologia di attività svolta, ai lavoratori
in aspettativa sindacale, nonché ai lavoratori italiani operanti all’estero, anche se autonomi.
Inoltre, la tutela comprende anche numerose altre categorie di soggetti che non sono lavoratori
subordinati, e a volte neppure lavoratori in senso proprio.
Così, sono tutelati, ad esempio, i lavoratori parasubordinati; i prestatori di lavoro accessorio, i
lavoratori che svolgono attività in ambito domestico, anche essi a prescindere dalla tipologia di
attività svolta, gli insegnanti e gli alunni delle scuole o istituti di istruzione di qualsiasi ordine e
grado, i soci delle cooperative e di ogni altro tipo di società, i ricoverati in case di cura, in ospizi e in
ospedali, nonché in istituti di assistenza e di beneficenza, i detenuti in istituti di prevenzione o di
pena. Continuano ad essere esclusi dall’ambito di applicazione dell’assicurazione, salvo alcune
eccezioni (come, per esempio, gli artigiani), i lavoratori autonomi e i liberi professionisti.
Dal punto di vista oggettivo, la tutela comprende tutti gli infortuni avvenuti per causa violenta in
occasione di lavoro da cui sia derivata la morte, l’inabilità al lavoro, permanente o temporanea,
oppure la lesione all’integrità psico-fisica suscettibile di valutazione medico legale (cd. danno
biologico). Per causa violenta, deve intendersi una causa che agisce con rapidità, concentrazione e
intensità sull’organismo del soggetto protetto, anche se gli effetti patologici si producono a
distanza di tempo. Invece, l’occasione di lavoro ricorre ogniqualvolta lo svolgimento dell’attività
lavorativa determini l’esposizione del soggetto protetto al rischio dell’infortunio.
Ne consegue che l’infortunio deve ritenersi avvenuto in occasione di lavoro tutte le volte in cui la
condotta del lavoratore sia in rapporto finalistico-strumentale con la prestazione lavorativa e, cioè,
quando il rischio che ha determinato l’infortunio, a prescindere dalla sua intensità, venga
affrontato, in modo necessitato, per finalità lavorative. L’eventuale colpa del lavoratore collegata
all’esecuzione della sua prestazione lavorativa non esclude il nesso occasionale che deve
intercorrere tra il lavoro e l’infortunio. Per contro, quel nesso è escluso nell’ipotesi di dolo del
soggetto protetto, in ordine sia al verificarsi dell’infortunio, che all’aggravamento della lesione.
Inoltre, il requisito dell’occasione di lavoro è escluso anche quando l’infortunio consegue ad un
comportamento del soggetto protetto che non può essere considerato adempimento
dell’obbligazione di lavoro (cd. rischio elettivo). Ciò accade quando il lavoratore, per ragioni
personali non inerenti alle modalità ed esigenze di svolgimento della prestazione lavorativa,
affronti un rischio diverso da quello cui sarebbe stato assoggettato se a tali modalità ed esigenze si
fosse regolarmente attenuto. Peraltro, la legge tutela anche l’infortunio in itinere e, cioè,
l’infortunio occorso durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a
quello di lavoro, o dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti, se il datore di
lavoro non ha predisposto un servizio di mensa aziendale, o, infine, durante il normale percorso
che collega due luoghi di lavoro, se il lavoratore ha più rapporti di lavoro.
L’infortunio in itinere non è, però, indennizzabile nel caso in cui esso sia occorso in dipendenza di
una interruzione o deviazione del percorso che risultino del tutto indipendenti dal lavoro o,
comunque, non necessitate, ossia non dovute a causa di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed
improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti. L’utilizzo del mezzo di trasporto
privato è consentito soltanto se necessitato, e cioè quando il percorso non è servito da mezzi di
trasporto pubblici. In questa ipotesi, la tutela è esclusa se l’infortunio è determinato dall’abuso di

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alcolici e psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni, nonché quando il
conducente è sprovvisto della prescritta abilitazione di guida.
Desta, infine, qualche perplessità la scelta del legislatore di estendere la tutela dell’infortunio in
itinere soltanto alle persone assicurate, in quanto tutti i lavoratori, a prescindere dalla tipologia di
attività svolta, sono ugualmente esposti al rischio della strada. Diverso e più ristretto è, infine,
l’ambito di applicazione della tutela per le malattie professionali. Apposite tabelle, infatti,
individuano in modo tassativo le malattie che sono considerate professionali in quanto contratte
nell’esercizio e a causa di specifiche lavorazioni, anche esse tassativamente elencate nelle
medesime tabelle. Tuttavia, dopo il decisivo intervento della Corte Costituzionale, la tutela è stata
estesa anche a malattie e lavorazioni non comprese nelle tabelle, purché si tratti di malattie di cui
sia comunque provata l’origine professionale. Dunque, a differenza di quanto accade per gli
infortuni sul lavoro, la legge richiede che il lavoro costituisca non già soltanto l’occasione, ma la
causa diretta e determinante della malattia professionale. Il diritto alla prestazione previdenziale,
peraltro, sorge anche quando la malattia si manifesti a distanza di tempo dall’abbandono della
lavorazione considerata morbigena.
In caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, l’INAIL eroga ai soggetti protetti alcune
prestazioni sanitarie, per la maggior parte ora assicurate dal Servizio sanitario nazionale, e
soprattutto prestazioni economiche. Queste prestazioni, contenute entro determinati massimali,
sono finanziate mediante i premi assicurativi, posti esclusivamente a carico del datore di lavoro,
salvo che nel rapporto di lavoro parasubordinato ove essi, invece, sono posti per due terzi a carico
del committente, e per un terzo a carico del lavoratore. I premi assicurativi sono determinati in
proporzione alla retribuzione, sulla base delle tariffe dei premi che sono distintamente predisposte
per ciascuna gestione tenendo conto del rischio medio nazionale di ogni singola lavorazione,
dell’andamento infortunistico aziendale e dell’attuazione delle norme a tutela della salute e della
sicurezza sul lavoro.
In questo modo, anche il sistema di tutela per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali
svolge una importante funzione di prevenzione indiretta, incentivando il datore di lavoro a
predisporre misure di sicurezza più efficaci. Se la inabilità è temporanea ed assoluta, e cioè
impedisce totalmente di attendere al lavoro svolto pur essendo sanabile nel tempo, il soggetto
protetto ha diritto ad una indennità giornaliera per tutta la durata dell’inabilità, con decorrenza dal
quarto giorno successivo a quello in cui si è verificato l’infortunio o si è manifestata la malattia. Se,
invece, l’inabilità è permanente, assoluta o parziale (tale da ridurre l’attitudine al lavoro in misura
superiore al 10% in caso di infortunio e al 20% in caso di malattia professionale) il soggetto
protetto ha diritto ad una rendita, con decorrenza dal giorno successivo a quello della cessazione
della inabilità temporanea assoluta. Su domanda del titolare o per disposizione dell’INAIL, la
rendita può essere soggetta a revisione in caso di diminuzione o di aumento dell’attitudine al
lavoro e, più in generale, di intervenute modificazioni delle condizioni fisiche.
Il danno biologico rileva solo se è permanente e la sua entità è stabilita secondo percentuali
determinate in base ad una specifica tabella delle menomazioni. Il soggetto protetto ha diritto ad
un indennizzo erogato sotto forma di capitale per i danni dal 6 fino al 15%, e sotto forma di rendita
per i danni ulteriori. Per i danni inferiori al 6%, stante la loro lieve entità, non è previsto alcun
indennizzo. Ove, infine, dall’infortunio sul lavoro o dalla malattia professionale sia derivata la

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morte del soggetto protetto, la legge attribuisce ai superstiti, tra i quali non è compreso il
convivente more uxorio, il diritto ad una rendita, nonché ad un assegno una tantum, per le spese
funerarie.
TUTELA CONTRO LA DISOCCUPAZIONE INVOLONTARIA
Tra gli eventi generatori di bisogno, la Costituzione indica anche la disoccupazione involontaria. La
tutela del lavoratore disoccupato, come quella pensionistica, è stata caratterizzata da una
disciplina formatasi per stratificazioni successive, che ha dato luogo ad esclusioni soggettive e
trattamenti diversificati secondo logiche e criteri non sempre giustificati. Dopo diversi tentativi
infruttuosi, soltanto negli ultimi anni il legislatore ha provveduto a riordinare il complesso sistema
dei cd. ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria. La nuova disciplina persegue
obiettivi di semplificazione, armonizzazione e universalizzazione della tutela, e prevede, tra i
principi fondamentali, l’obbligo del disoccupato di attivarsi per la ricerca di una nuova
occupazione.
Dal 1° gennaio 2013, è stata istituita presso l’INPS l’assicurazione sociale per l’impiego (ASPI), con
lo scopo di garantire a tutti i lavoratori subordinati, compresi gli apprendisti, i soci di cooperative e
il personale artistico, teatrale e cinematografico, che abbiano perso involontariamente la propria
occupazione, una indennità mensile di disoccupazione. Dal 1° maggio 2015, tale indennità è
denominata nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (NASpI). La nuova disciplina
sostituisce ed assorbe diversi trattamenti previsti dalla disciplina previgente, e, precisamente,
l’indennità di disoccupazione ordinaria, anche a requisiti ridotti, l’indennità di disoccupazione
edile. Sostituisce, altresì, l’indennità di mobilità, ossia il più favorevole trattamento di
disoccupazione riconosciuto esclusivamente ai lavoratori licenziati da imprese rientranti nel campo
di applicazione delle integrazioni salariali a seguito di riduzione di personale.
L’obiettivo perseguito è quello di uniformare tutti i trattamenti aventi il medesimo oggetto di
tutela, la disoccupazione involontaria, eliminando le disparità di trattamento e, allo stesso tempo,
estendendo il campo di applicazione dei soggetti tutelati. Restano esclusi dall’ASPI i dipendenti
della P.A. assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, e gli operai agricoli, ai quali
continua ad applicarsi, stante la specificità del lavoro in agricoltura, l’indennità di disoccupazione
agricola. L’indennità di disoccupazione non spetta ai lavoratori che siano dimessi o che abbiano
risolto consensualmente il proprio rapporto di lavoro, non essendo configurabile, in queste ipotesi,
la involontarietà della disoccupazione.
Il trattamento corrisposto dall’assicurazione sociale per l’impiego, per gli eventi di disoccupazione
successivi al 1° maggio 2015, è denominato nuova prestazione di assicurazione sociale per
l’impiego. La NASpI sostituisce le prestazioni previste dall’articolo 2 della legge 92 del 2012.
Dunque, la NASpI costituisce una nuova prestazione unitaria istituita nell’ambito della stessa
assicurazione sociale per l’impiego. Presupposto per il riconoscimento di tale prestazione è, oltre
la perdita involontaria dell’impiego, la dichiarazione da parte del lavoratore di immediata
disponibilità allo svolgimento di una attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica
attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego attraverso la stipula di un patto di servizio
personalizzato.

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La NASpI, inoltre, è subordinata al duplice requisito di una anzianità contributiva di almeno 13
settimane nei 4 anni precedenti l’inizio della disoccupazione e dello svolgimento di almeno 30
giorni di lavoro effettivo negli ultimi 12 mesi. La NASpI si fonda sull’adempimento contributivo, sia
pure con l’applicazione del principio della automaticità delle prestazioni, e con la previsione di
requisiti ridotti rispetto a quelli precedentemente previsti, confermando così la permanenza di
profili che evidenziano una ispirazione di natura assicurativa.
La NASpI è corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di
contribuzione degli ultimi 4 anni, e quindi per una durata massima di 2 anni, con esclusione dal
computo dei periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione di prestazioni di
disoccupazione. Dunque, la NASpI è parametrata alla contribuzione versata, sia pure con la
previsione di un limite massimo. In ogni caso, pur incrementando la durata massima per i
lavoratori con maggiore continuità contributiva, anche la NASpI risulta di durata più breve rispetto
ai precedenti trattamenti speciali di disoccupazione, e in modo particolare rispetto all’indennità di
mobilità, erogabile in passato, in alcune ipotesi particolari, addirittura per dieci anni.

L’indennità decorre dall’ottavo giorno successivo a quello della cessazione del rapporto di lavoro o
dal giorno successivo a quello di presentazione della domanda. Per ottenere il trattamento, è
necessario presentare domanda all’INPS in via telematica, a pena di decadenza, entro il termine di
68 giorni dalla cessazione del lavoro. La presentazione di tale domanda esonera il soggetto
disoccupato dalla dichiarazione di immediata disponibilità. L’ammontare della indennità è pari al
75% della retribuzione mensile – calcolata dividendo la retribuzione imponibile a fini previdenziali
degli ultimi 4 anni per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicando il risultato per il
coefficiente 4,33 – nel caso di retribuzioni nel 2015 fino ad un importo di 1195 euro, annualmente
rivalutato. Se la retribuzione è superiore all’importo di 1195 euro, l’ammontare della indennità è
incrementato di un ulteriore 25% della quota eccedente tale importo.
A partire dal quarto mese la indennità è ridotta progressivamente del 3% ogni mese. In ogni caso,
per l’intero periodo di erogazione della indennità è riconosciuto, con onere a carico della fiscalità
generale ed entro limiti di retribuzione predeterminati, il diritto alla contribuzione figurativa, utile
ai fini della maturazione e della misura del diritto a pensione. L’erogazione della indennità è
sospesa nella ipotesi in cui il soggetto protetto reperisca una nuova attività di lavoro subordinato
quando essa sia di durata inferiore a 6 mesi. Se, invece, il periodo di occupazione è superiore al
semestre, il lavoratore perde il diritto alla indennità nella ipotesi in cui il reddito annuale prodotto
sia superiore al reddito minimo da imposizione fiscale.
Si verifica, invece, la decadenza dal diritto all’indennità nei casi di: perdita dello stato di
disoccupazione; inizio di una attività lavorativa subordinata, in forma autonoma o di impresa,
senza provvedere a darne comunicazione all’INPS; raggiungimento dei requisiti per la pensione di
vecchiaia o anticipata; acquisizione del diritto all’assegno ordinario di invalidità, salvo il diritto del
lavoratore di optare per la NASpI. Infine, sono previste sanzioni progressive fino alla stessa
decadenza dal diritto anche quando il soggetto percettore del trattamento si rifiuti di partecipare
senza giustificato motivo alle iniziative di politica attiva ed ai percorsi di riqualificazione
professionale concordati con il centro per l’impiego attraverso la stipula del patto di servizio
personalizzato o non accetti una offerta di lavoro che abbia determinate caratteristiche di
151
congruità (cd. condizionalità). In queste ipotesi, le sanzioni sono adottate dal centro per l’impiego
e comunicate all’INPS che emette i provvedimenti conseguenti e provvede anche a recuperare le
somme indebite eventualmente erogate. Avverso le sanzioni adottate dal centro per l’impiego, è
ammesso ricorso all’ANPAL.
Fanno eccezione i casi in cui le dimissioni siano state determinate da una giusta causa, perché
anche in tale ipotesi la perdita della occupazione è stata provocata da fatti non riconducibili ad una
libera scelta del lavoratore, nonché i casi in cui la risoluzione consensuale sia avvenuta nell’ambito
della procedura obbligatoria di conciliazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Non rientrano, infine, tra i destinatari dell’ASPI i cd. inoccupati, ossia coloro che sono alla ricerca
della prima occupazione.
ASSEGNO DI RICOLLOCAZIONE
La tutela del reddito del lavoratore disoccupato è garantita non soltanto dalla NASpI ma anche da
uno strumento denominato assegno di ricollocazione. L’assegno individuale di ricollocazione è
destinato ai disoccupati che percepiscono la NASpI la cui durata sia superiore a 4 mesi ed è
rilasciato, su loro richiesta, dai centri per l’impiego (nei limiti, però, delle risorse disponibili)
all’esito della procedura con la quale è definito il profilo personale di occupabilità del richiedente.
Tale assegno non è assoggettato a contribuzione previdenziale, è spendibile dal disoccupato
presso gli stessi centri per l’impiego o presso gli operatori privati accreditati al fine di ottenere un
servizio di assistenza intensiva nella ricerca di un lavoro.
Per favorire la concorrenza, è stabilito che sia il titolare dell’assegno di ricollocazione a scegliere il
soggetto erogatore del servizio. Il servizio deve essere richiesto, a pena di decadenza dallo stato di
disoccupazione, entro 2 mesi dalla data di rilascio dell’assegno ed ha una durata di 6 mesi,
prorogabile per altri 6 nel caso in cui non sia stato speso l’intero ammontare dell’assegno. Il
servizio di assistenza alla ricollocazione deve garantire al disoccupato l’affiancamento di un tutor e
un programma di ricerca intensiva della nuova occupazione in una determinata area, anche con
eventuali percorsi di riqualificazione professionale.
Nel contempo, il soggetto disoccupato ha l’onere di svolgere le attività individuate dal tutor e di
accettare offerte di lavoro congrue, anche con riferimento alle condizioni del mercato del lavoro
nell’area di riferimento. L’importo dell’assegno di ricollocazione, finanziato con le risorse del
Fondo per le politiche attive del lavoro istituito presso il Ministero del lavoro nonché delle regioni
e delle provincie autonome, è definito dall’ANPAL e deve essere graduato in relazione al profilo
personale di occupabilità. Infine, con un meccanismo di premialità che dovrebbe favorire anche
esso la concorrenza, è previsto che l’assegno di ricollocazione sia incassato dal soggetto erogatore
del servizio prevalentemente a risultato occupazione ottenuto.
In via sperimentale, il legislatore ha introdotto un ulteriore strumento di tutela del reddito per i
lavoratori disoccupati che ne hanno più necessità. Si tratta dell’assegno di disoccupazione (ASDI)
previsto soltanto per i lavoratori privi di occupazione che abbiano già fruito interamente della
NASpI e che si trovino in una condizione economica di bisogno. Per l’erogazione della prestazione
è necessario che il richiedente sottoscriva un patto di servizio personalizzato concordato con il
centro per l’impiego alle cui prescrizioni esso deve poi attenersi per evitare l’applicazione delle
relative sanzioni.

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L’assegno è erogato mensilmente per una durata massima di 6 mesi ed è pari al 75% dell’ultima
NASpI percepita e, comunque, non può essere superiore all’importo dell’assegno sociale.
Finanziato interamente dalla fiscalità generale, tale assegno consente, in sostanza, un
prolungamento della NASpI per i lavoratori disoccupati in condizioni economicamente più
svantaggiate. L’ASDI è configurabile quindi come un trattamento assistenziale anche perché non
sono richiesti requisiti di contribuzione per maturarne il diritto.
L’ambito di applicazione della tutela contro la disoccupazione è stato sempre limitato ai lavoratori
subordinati. Recentemente, però, il legislatore ha previsto, in via sperimentale, delle forme di
sostegno del reddito anche a favore dei lavoratori parasubordinati e dei lavoratori a progetto
(fermo restando che dal 1° gennaio 2016 non possono più essere stipulati contratti a progetto e
che possono continuare ad avere esecuzione sino alla loro scadenza soltanto i contratti a progetto
già stipulati). Tali forme di sostegno esprimono la consapevolezza dell’esigenza di estendere
almeno alcune delle tutele del lavoro subordinato ad altre attività caratterizzate da analoghe
condizioni di debolezza e di bisogno.
In particolare, già nel 2009 il legislatore aveva introdotto, in via sperimentale per un triennio, uno
speciale trattamento di sostegno del reddito anche per i lavoratori a progetto. Tale trattamento
era stato poi reso definitivo dal 1° gennaio 2013. La tutela era limitata soltanto ai collaboratori a
progetto iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell’INPS i quali, nell’anno precedente la
cessazione del rapporto, avevano operato in regime di monocommittenza, erano stati disoccupati
per un periodo ininterrotto di almeno due mesi e avevano conseguito un reddito inferiore a
20.000,00 euro, annualmente rivalutato, limite oltre il quale il legislatore presumeva non vi fosse
uno stato di bisogno.
Inoltre, era richiesto che il collaboratore a progetto avesse una anzianità contributiva di almeno 4
mesi (ridotti a 3 per il triennio 2013-2015) nell’anno precedente la cessazione del rapporto e di
almeno un mese nell’anno di disoccupazione. In presenza di queste condizioni, ma pur sempre
entro i limiti di spesa prestabiliti, era corrisposta ai lavoratori a progetto una indennità, che poteva
essere una tantum o mensile a seconda che essa risultasse inferiore o superiore a 1000 euro. Tale
indennità era determinata in misura pari al 5% (aumentato al 7% per il triennio 2013-2015) di un
determinato minimale di reddito, moltiplicato per il minor numero tra mensilità contributive
accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione.
Da ultimo, sempre in via sperimentale, ma soltanto per gli eventi di disoccupazione verificatisi nel
2015 e nel 2016, il legislatore ha introdotto, in sostituzione del trattamento predetto, una
indennità di disoccupazione mensile denominata DIS-COLL per tutti i collaboratori coordinati e
continuativi anche a progetto che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione. Per
avere diritto alla DIS-COLL è necessario che i collaboratori coordinati e continuativi, oltre ad essere
iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell’INPS, siano anche non pensionati, privi di partita
IVA e in stato di disoccupazione al momento della presentazione della domanda.
È, inoltre, richiesto che essi abbiano una anzianità contributiva di almeno 3 mesi dal primo gennaio
dell’anno solare precedente la cessazione del rapporto e di almeno un mese nell’anno solare in cui
si verifica la cessazione del rapporto. Come la NASpI, l’ammontare dell’indennità è pari al 75% del
reddito medio mensile nel caso in cui tale reddito nel 2015 sia pari o inferiore all’importo di 1195
euro, annualmente rivalutato. Se il reddito è superiore all’importo di 1195 euro, l’ammontare della
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indennità, sempre entro un massimale predeterminato, è incrementato di un ulteriore 25% della
quota eccedente tale importo. Invece, per quanto riguarda la durata, la DIS-COLL è erogata
mensilmente per un numero di mesi pari alla metà dei mesi di contribuzione accreditati dal primo
gennaio dell’anno solare precedente la cessazione del rapporto, con un limite massimo di 6 mesi.

LAVORO NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI


Mentre il rapporto di lavoro privato è finalizzato al soddisfacimento delle esigenze dell’impresa, il
rapporto di lavoro tradizionalmente definito “di pubblico impiego” è finalizzato al perseguimento
degli interessi pubblici, la cui cura è demandata alle pubbliche amministrazioni: “i pubblici
impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Questo determina decisive conseguenze in
ordine alle differenze che dall’origine contraddistinguono i due tipi di rapporto.
Occorre infatti ricordare che “l’iniziativa economica privata è libera”, e, quindi, il datore di lavoro
privato, nella gestione dell’impresa, è assoggettato solo ad un limite negativo, che consiste nel
divieto di svolgere la sua attività “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Il rapporto alle dipendenze della pubblica
amministrazione è invece caratterizzato dalla particolare natura dei poteri, ma correlativamente
anche dei vincoli, che fanno capo al datore di lavoro pubblico.
Proprio perché la pubblica amministrazione è tenuta a perseguire esclusivamente finalità di
pubblico interesse, il suo agire non è libero, bensì funzionalizzato, in quanto “i pubblici uffici sono
organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e
l’imparzialità dell’amministrazione”. La disciplina del rapporto alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni è sempre stata caratterizzata anche, e soprattutto, dalla esigenza di far sì che
entrambe le parti del rapporto (sia il datore di lavoro che il lavoratore) conformassero i propri
comportamenti al raggiungimento delle finalità di pubblico interesse previste dalla legge. Di qui, la
scelta di assoggettare l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni al regime del
diritto pubblico, regolando e gestendo i rapporti di lavoro mediante provvedimenti amministrativi
e non atti di diritto comune.
Il modello del rapporto di pubblico impiego è entrato in crisi essenzialmente per due ragioni. Da
un lato, la progressiva estensione del campo di azione della pubblica amministrazione ha
determinato un considerevole incremento del personale pubblico. Dall’altro lato, sulla scia della
teoria di ispirazione anglosassone del cd. “new public management”, si è fatta strada l’idea che il
regime di diritto pubblico sia causa di rigidità e di complessità tali da ostacolare quelle esigenze di
efficienza e di efficacia ritenute proprie della cultura aziendale.
In coincidenza con l’approssimarsi di importanti scadenze comunitarie, e con la necessità di
riforme strutturali che esse imponevano, è stato, così, avviato il processo cosiddetto della
“privatizzazione” del pubblico impiego, che ha fatto sì che fosse emanato un “testo unico per il
pubblico impiego”, fatto subito oggetto di modifiche. I rapporti di lavoro “privatizzati” sono quelli
che intercorrono con amministrazioni dello Stato, ivi compreso il personale delle scuole, aziende
ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, enti territoriali, università, istituti
autonomi, case popolari, camere di commercio, enti pubblici non economici, servizio sanitario
nazionale, agenzie governative.
154
Sono, però, escluse alcune categorie di dipendenti il cui rapporto resta integralmente regolato dal
diritto pubblico: magistrati, avvocati dello stato, professori e ricercatori universitari, personale
militare e delle forze di polizia, della carriera diplomatica e prefettizia, vigili del fuoco e personale
dirigenziale penitenziario, nonché degli enti che svolgono le loro attività in materia di tutela del
risparmio, funzione creditizia e valutaria, tutela della concorrenza e del mercato. La
privatizzazione, però, ha dato luogo ad una lievitazione dei costi della macchina amministrativa
senza un corrispondente aumento di efficienza dei servizi prestati.
Così, è stata emanata una nuova “riforma organica” finalizzata all’ottimizzazione della produttività
del lavoro pubblico e all’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, che ha innovato
profondamente sia la disciplina delle relazioni sindacali, che quella del rapporto di lavoro, in
particolare per quanto riguarda la dirigenza, la valutazione delle performance e le sanzioni
disciplinari. Il rapporto dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni resta, quindi, uno dei più
delicati punti di tensione dell’evoluzione del diritto del lavoro. Da ultimo, la legge 124 del 2015 ha
conferito ampie deleghe al Governo che prevedono una ulteriore, incisiva, “riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche”.
La “privatizzazione del pubblico impiego” è una formula che ha avuto notevole successo e
diffusione, ma, per la sua concisione, non è sufficiente a descrivere i principi e gli effetti che ne
sono il fondamento. E ne è prova il fatto che i diversi interventi legislativi che si sono succeduti
esprimono una diversa concezione della “privatizzazione”. Nella sostanza, allo stato attuale, si può
affermare che il tratto di collegamento è rappresentato dal fatto che, salvi gli atti di
“macroorganizzazione” (che restano espressione di un potere pubblicistico, il cui esercizio è
vincolato nello scopo e sottoposto al corrispondente sistema di controlli), tutte “le determinazioni
per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono
assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro”.
Tuttavia, l’esercizio di tali poteri risulta vincolato da una fitta rete di disposizioni speciali, le quali
dettano indicazioni in ordine ai principi e criteri da seguire, o ai fini da perseguire, o a regole
procedurali da rispettare, compresi in taluni casi l’imposizione di oneri di istruttoria e motivazione.
Così che, se è troppo severo il giudizio di chi ritiene che la privatizzazione del pubblico impiego sia
sostanzialmente fittizia, si deve anche riconoscere che essa non ha certamente comportato una
effettiva unificazione dei modelli di gestione dei rapporti di lavoro.
Né, al riguardo, assume un particolare rilievo il fatto che la costituzione del rapporto di lavoro
pubblico è stata ricollegata, come nel lavoro privato, ad un contratto. Nelle pubbliche
amministrazioni, infatti, continua a trovare applicazione il principio, peculiare e distintivo, in base
al quale la scelta del contraente non è libera, bensì è rimessa ad un rigido procedimento di
“reclutamento”. La disciplina del rapporto è dettata da fonti eteronome (legge e contratto
collettivo).
Inoltre, nel rapporto tra tali fonti, lo spazio lasciato all’autonomia collettiva è sensibilmente più
ridotto di quello che essa occupa nella regolamentazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze di
privati datori di lavoro. Infine, va ricordato che, per il datore di lavoro pubblico, l’esercizio
dell’autonomia negoziale soggiace ad un ulteriore limite di portata generale, che è rappresentato
dall’obbligo di parità di trattamento, che non è invece configurabile nel rapporto di lavoro privato.
155
Dall’esame di diverse disposizioni si evince che non è individuabile alcun istituto del rapporto di
lavoro (dalla costituzione allo svolgimento ed all’estinzione) nel quale la specialità indotta dalla
matrice pubblicistica non prevalga in modo decisivo sulle disposizioni del rapporto di lavoro
privato. Basti considerare che “l’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche” non solo ha propri “principi generali”, ma si è dotato di una specifica disciplina che
regola la materia della “organizzazione”, comprensiva di “relazioni con il pubblico”, “dirigenza”,
“uffici, piante organiche, mobilità e accessi”, la “contrattazione collettiva e rappresentatività
sindacale” e gli elementi essenziali del “rapporto di lavoro”, ivi compresi mansioni e potere
disciplinare.
È significativo che anche dopo l’avvenuta “privatizzazione” le più importanti leggi sul rapporto di
lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati escludono dal loro campo di applicazione il lavoro
pubblico, o comunque fanno rinvio ad un apposito intervento di “armonizzazione” così
smentendo, nei fatti, la dichiarata intenzione di applicare ad entrambi i rapporti “condizioni
uniformi”. Anche il decreto legislativo 81 del 2015 non prevede, ne presuppone, la generale
riconduzione nel suo campo di applicazione del pubblico impiego.
Al contrario, prevede specifiche disposizioni per stabilire, di volta in volta, se il pubblico impiego è
incluso o escluso dalla loro applicazione, oppure detta i limiti e le modalità con cui l’inclusione è
eventualmente prevista. Per una visione completa dello stato attuale, è da segnalare la tendenza
ad interventi di sia pur parziale “ripubblicizzazione” dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle
società costituite e controllate dalle pubbliche amministrazioni proprio al fine di svolgere
determinate attività con i più agili strumenti del diritto privato. Ed infatti, mentre è in atto una più
generale rimeditazione dell’utilizzo di tale strumento, le esigenze di trasparenza e di controllo
della spesa pubblica hanno portato ad estendere a tali società obblighi e limiti analoghi a quelli
previsti nel rapporto di lavoro pubblico, con particolare riguardo alla materia delle assunzioni.
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Alcun elemento di “uniformazione” può essere rappresentato dalla contrattazione collettiva e
dalle relazioni sindacali in generale. Nel pubblico impiego, infatti, non esiste, e non è
artificiosamente simulabile, un vero conflitto industriale come quello che contrappone capitale e
lavoro, e neppure un generico conflitto di interessi, poiché le pubbliche amministrazioni non
perseguono scopi di lucro e non esprimono una figura che possa svolgere un ruolo effettivamente
equivalente a quello svolto dal datore di lavoro privato.
In particolare, più che la figura manageriale, manca il soggetto assimilabile al “proprietario”
dell’impresa, che possa valutare i risultati dell’attività allo stesso modo, e con la stessa rigorosità,
con cui quest’ultimo agisce, adottando prontamente le decisioni conseguenti alle proprie
valutazioni. Nei confronti della pubblica amministrazione, la valutazione ultima può essere
espressa soltanto mediante l’esercizio del diritto di voto da parte dei cittadini, ma è evidente che si
tratta di una valutazione meno diretta e, soprattutto, condizionata anche da fatti diversi e ulteriori
rispetto a quelli che hanno ad oggetto l’efficacia e l’efficienza della pubblica amministrazione.
Quindi, sin dall’avvio del processo di privatizzazione, la contrattazione collettiva è stata sottoposta
a obblighi procedimentali e ad un regime di controlli, i quali sono del tutto estranei al principio di
libertà che regola l’organizzazione e l’azione sindacale nel lavoro privato e sono, invece, giustificati

156
dalla necessità di assicurare il perseguimento di interessi pubblici preminenti e, in particolare,
l’obiettivo del contenimento della “spesa complessiva per il personale, diretta ed indiretta, entro i
vincoli di finanza pubblica”.
A questo fine, e per contrastare in particolare pratiche degenerative, è stato reso più rigoroso il
sistema dei controlli, sia per quanto riguarda i contratti nazionali che quelli integrativi. Inoltre, è
stato attribuito alle amministrazioni la possibilità di superare le situazioni di stallo negoziale con le
organizzazioni sindacali anticipando l’erogazione degli incrementi compatibili con la situazione
economico-finanziaria qualora l’accordo non sia stato raggiunto nei tempi previsti.
È stato, inoltre, previsto che la contrattazione decentrata debba essere, comunque, finalizzata ad
assicurare “adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e
la qualità della performance” mediante l’utilizzo a tal fine di “una quota prevalente del
trattamento accessorio comunque denominato”. Ed infine, di fronte all’incrudirsi della crisi del
debito pubblico, il legislatore ha addirittura stabilito il “blocco” temporaneo dei rinnovi
contrattuali, venendo ad assumere carattere durevole, sì da essere ritenuto incostituzionale,
peraltro con effetto solo per il futuro, per aver sconfinato in un bilanciamento irragionevole tra la
libertà sindacale e le esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, con
conseguente violazione dell’articolo 39 della Costituzione.
Peraltro, l’intervento della legge sulla contrattazione collettiva non riguarda soltanto le materie
che hanno diretti riflessi economici. Ed infatti, al fine di arrestare l’espansione della contrattazione
collettiva sulle materie di competenza manageriale, al sindacato del settore pubblico è stato
precluso di negoziare le decisioni relative all’organizzazione degli uffici e alla gestione dei rapporti
di lavoro, in quanto esse devono essere assunte dai dirigenti “in via esclusiva”. Resta salva soltanto
la possibilità dello “esame congiunto” (per quanto riguarda le “misure riguardanti i rapporti di
lavoro”) e della “informazione” (nel caso di “determinazioni relative all’organizzazione degli
uffici”).
Su altre materie, quali le sanzioni disciplinari, la valutazione delle prestazioni, la mobilità e le
progressioni, poi, la legge detta una disciplina non soltanto di “cornice” ma anche di “dettaglio”,
che limita notevolmente gli spazi negoziali disponibili per la contrattazione collettiva. E ciò anche
perché il principio generale è che i contratti collettivi possono ora modificare le “disposizioni di
legge, regolamento o statuto” dettate specificamente per i dipendenti delle amministrazioni
pubbliche solo qualora la derogabilità sia espressamente consentita dalla legge.
Si può, dunque, affermare che, allo stato attuale, la disciplina del lavoro pubblico rimane
sensibilmente diversa da quella del lavoro privato, e che il più rilevante elemento in comune –
quello della riconduzione nell’orbita del diritto privato degli atti di “microorganizzazione” e di
gestione dei rapporti di lavoro – riguarda il ruolo e le modalità di esercizio unilaterale dei poteri
dirigenziali, piuttosto che il ruolo e le modalità dell’esercizio dell’autonomia collettiva. Infine, per
l’esigenza di garantire l’imparzialità della pubblica amministrazione anche nella scelta dei sindacati
con i quali trattare, la legge detta i criteri per misurare la rappresentatività dei sindacati.
In particolare, l’ARAN, l’Agenzia alla quale è affidata la rappresentanza delle pubbliche
amministrazioni per la contrattazione collettiva nazionale, ammette alle trattative le organizzazioni
sindacali che abbiano nel comparto (per i non dirigenti) o nell’area (per i dirigenti) “una

157
rappresentatività non inferiore a 5 per cento, considerando a tal fine la media tra il dato
associativo” (“espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali
rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito considerato”) e “il dato elettorale” (“espresso
dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale
rispetto al totale dei voti espressi nell’ambito considerato”). L’ARAN può sottoscrivere l’ipotesi di
accordo alla quale abbiano aderito organizzazioni sindacali che rappresentino complessivamente
almeno il 51% come media tra dato associativo e dato elettorale, oppure il 60% del dato elettorale.
VALUTAZIONE DELLA PERFORMANCE E PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE
l cardine sul quale fa leva il tentativo di “cambiamento” della cultura del lavoro pubblico è
rappresentato dall’introduzione di un sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti, il
quale mira al miglioramento della qualità dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche
attraverso la valorizzazione del merito e l’erogazione di premi per i risultati conseguiti dai singoli e
dalle unità organizzative in cui essi prestano servizio. Il sistema risulta complesso e non di agevole
applicazione, cosicché, la legge delega 124 del 2015 prevede debba procedersi alla sua
semplificazione.

La disciplina vigente regola dettagliatamente l’intero “ciclo di gestione della performance” che le
amministrazioni sono tenute ad osservare. Tale “ciclo” prevede: la definizione e assegnazione degli
obiettivi (anche in relazione alla allocazione delle risorse); il monitoraggio dell’attività in corso di
esecuzione (anche per attivare gli interventi correttivi eventualmente necessari); la misurazione e
valutazione finale dei risultati raggiunti dall’unità organizzativa e dal singolo (prevedendo, a questo
riguardo, anche l’istituzione di un “organismo indipendente di valutazione all’interno
dell’amministrazione” e un organismo centrale di indirizzo e coordinamento, costituito dalla
“Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche”);
l’utilizzo di sistemi premianti in base al merito accertato; la rendicontazione dei risultati stessi non
solo a beneficio degli organi di indirizzo politico-amministrativo e dei vertici delle amministrazioni,
ma anche a beneficio di tutti i cd. stakeholder (soggetti interessati, utenti e destinatari dei servizi,
cittadini).
Il sistema di valutazione dovrebbe, per un verso, favorire un controllo diffuso e più penetrante da
parte della collettività, nell’idea che questa possa svolgere un ruolo “surrogatorio” di quello
esercitato dal proprietario dell’impresa privata. Ed infatti, a tal fine, è anche previsto un generale
dovere da parte delle pubbliche amministrazioni di “massima trasparenza” in ogni fase di gestione
del ciclo della performance, assicurando, altresì, “accessibilità totale” non soltanto dei risultati
dell’attività di misurazione e valutazione, ma anche “delle informazioni concernenti
l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.
Per l’altro verso, quel sistema dovrebbe essere il canale vincolato attraverso il quale operano, in
concreto, i “principi di selettività e concorsualità nelle progressioni di carriera e nel riconoscimento
degli incentivi” diretti a valorizzare il merito e promuovere produttività e qualità della prestazione
lavorativa. Conseguentemente, il legislatore vieta l’erogazione di incentivi e premi “in maniera
indifferenziata o sulla base di automatismi” in assenza delle prescritte verifiche, e dispone che le

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risorse destinate al trattamento accessorio collegato alla performance individuale siano distribuite
in modo non uniforme, e non a tutto il personale, dovendo quest’ultimo essere collocato in fasce
diverse di merito secondo percentuali prestabilite dalla legge e alle quali la contrattazione
collettiva può apportare soltanto deroghe di limitata portata. Le pubbliche amministrazioni,
quindi, devono fornire anche i “dati relativi alla distruzione dei premi al personale” per dar conto
del “livello di selettività” a tal fine “utilizzato”.
In considerazione della natura pubblica degli interessi sottesi al rapporto di lavoro “privatizzato”,
particolarmente sentita è l’esigenza di individuare strumenti volti a favorire il rispetto del principio
di legalità. La legge 190 del 2012 ha dettato una articolata disciplina volta alla “prevenzione” e alla
“repressione” della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, che incide anche sui
rapporti di lavoro. In particolare, occorre ricordare l’obbligo per le amministrazioni di definire un
piano di prevenzione della corruzione, individuando anche, tra i propri dirigenti, il responsabile del
rispetto di tale piano.
La violazione delle regole e dei precetti dettati nel piano è fonte di specifica responsabilità
disciplinare, estesa anche allo stesso responsabile, laddove non dimostri di aver ottemperato ai
propri obblighi di predisposizione del piano e di verifica del suo rispetto. Inoltre, la normativa cd.
“anti corruzione” prevede casi di inconferibilità e incompatibilità di incarichi in tutte le ipotesi nelle
quali il soggetto abbia riportato determinate condanne, o ricopra posizioni che lo pongano in
relazione con interessi privati che siano in possibile conflitto con l’esercizio delle funzioni
pubbliche affidate.
È stata, altresì, introdotta una limitazione alla libertà negoziale del dipendente pubblico per il
periodo successivo alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, vietandogli per un
determinato periodo, a pena di nullità, di instaurare rapporti di lavoro o collaborazione con datori
di lavoro privati, rispetto ai quali come dipendente pubblico abbia esercitato poteri autoritativi o
negoziali (si parla di divieto di pantouflage). Il legislatore ha previsto, altresì, la necessità che si
proceda al “coordinamento” della normativa anticorruzione “con gli strumenti di misurazione e
valutazione delle performance”.
DIRIGENZA PUBBLICA
Nella disciplina vigente, i dirigenti sono inseriti in ruoli costituiti presso ciascuna amministrazione,
articolati in due fasce: la prima, cui appartengono i dirigenti titolari di uffici dirigenziali generali, i
quali collaborano direttamente con gli organi di vertice e sovraintendono agli uffici di livello non
generale ad essi assegnati; la seconda, cui appartengono tutti gli altri dirigenti, i quali gestiscono e
organizzano gli uffici di livello non generale ed effettuano la valutazione del relativo personale ai
fini della progressione economica e tra le aree, nonché della corresponsione di indennità e premi
incentivanti.
Alla seconda fascia si accede mediante concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni,
ovvero per corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della P.A. Alla
prima fascia accedono invece i dirigenti della seconda fascia che abbiano ricoperto incarichi di
direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti per un periodo di almeno 5 anni senza essere
incorsi in valutazioni negative. È stato altresì previsto che il 50% dei posti disponibili di prima fascia

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è assegnato mediante concorso per titoli ed esami indetti da ciascuna amministrazione, cui fa
seguito un periodo di formazione che deve precedere il conferimento del primo incarico.
Peraltro, tale modalità di reclutamento è stata sospesa fino alla conclusione dei processi di
riorganizzazione previsti nella legge 135 del 2012. All’esito della procedura di reclutamento, il
vincitore stipula con l’amministrazione un contratto individuale costitutivo del rapporto di lavoro
dirigenziale a tempo indeterminato e viene inserito nel ruolo dell’amministrazione di
appartenenza. Successivamente, al dirigente viene affidato, con atto unilaterale di natura
privatistica, un incarico dirigenziale con il quale sono individuati l’oggetto dell’incarico, gli obiettivi
da conseguire e la durata del medesimo incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati
e, comunque, compresa tra i 3 e i 5 anni.
Gli incarichi di livello generale sono conferiti dall’organo di vertice dell’amministrazione, mentre gli
altri incarichi sono conferiti al dirigente generale nell’ambito del suo ufficio. Tutti gli incarichi
devono essere conferiti tenendo conto delle attitudini e delle capacità professionali e
organizzative del singolo dirigente, nonché dei risultati in precedenza conseguiti e della relativa
valutazione. L’incarico può avere ad oggetto anche compiti diversi dalla titolarità di un ufficio
dirigenziale, quali compiti ispettivi, di consulenza, di studio e ricerca.
In ogni caso, è espressamente previsto che al conferimento degli incarichi e al passaggio ad
incarichi diversi non si applica l’articolo 2103. Onde, alla scadenza dell’incarico, il dirigente non ha
diritto all’assegnazione dello stesso incarico o di incarico di equivalente complessità. Peraltro, la
titolarità di un ufficio dirigenziale può essere attribuita, entro precisi limiti quantitativi, a dirigenti
appartenenti ai ruoli di altra amministrazione (previo collocamento fuori ruolo o in comando)
ovvero, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare qualificazione professionale ed
esperienza non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione.
Al conferimento dell’incarico accede un contratto individuale con cui è definito il relativo
trattamento economico, fondamentale e accessorio. Il trattamento economico accessorio deve
essere collegato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti dal
dirigente. La parte collegata ai risultati deve costituire almeno il 30% della retribuzione
complessiva del dirigente e non può essere corrisposta se l’amministrazione di appartenenza non
ha provveduto a predisporre il sistema di valutazione della performance.
FUNZIONI E RESPONSABILITA’
Il dirigente resta l’attore principale del processo di privatizzazione, anche se sulla sua figura si
concentra un duplice ruolo difficile da far convivere: quello di essere il soggetto al quale sono
affidati “la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (per quanto riguarda la
“microorganizzazione” e la gestione dei rapporti di lavoro) e, allo stesso tempo, di essere egli
stesso un dipendente pubblico e, come tale, di essere destinatario di garanzie, come quella della
stabilità dell’impiego, che lo separano e distinguono dal dirigente privato.
Per la difficile convivenza di questi due ruoli, il legislatore ha da tempo puntato sulla separazione
delle funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di Governo dalle funzioni di gestione
dell’attività amministrativa spettanti alla dirigente. Separazione mediante la quale, riservando ai
primi il compito di impartire gli indirizzi ed individuare gli obiettivi strategici, si vuole garantire

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l’autonomia della seconda nelle decisioni che le competono e la corrispondente responsabilità per
quanto riguarda i risultati raggiunti.
Così, da un lato, le funzioni attribuite dalla legge ai dirigenti possono essere derogate soltanto
espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. Per le amministrazioni statali è
altresì previsto che il Ministro non può revocare, riformare, avocare a sé o altrimenti adottare
provvedimenti o atti di competenza del dirigente, potendo soltanto fissare un termine perentorio
in caso di inerzia o ritardo del dirigente stesso, ovvero, in caso di perdurante inerzia o di grave
inosservanza delle direttive generali, nominare un commissario ad acta.
D’altro lato, il dirigente è sottoposto al controllo degli organi di indirizzo politico-amministrativo,
mediante la verifica ex post della rispondenza dei risultati agli indirizzi e agli obiettivi assegnati, e
ad uno speciale regime di responsabilità. La riforma più recente si è mossa nella direzione del
rafforzamento di tale distinzione di funzioni, ma introduce una linea di politica del diritto ulteriore,
che è quella di sollecitare il dirigente pubblico ad esercitare effettivamente le funzioni che gli
competono evitando alcune degenerazioni che era state registrate.
Il legislatore ha imposto al dirigente di assumere “in via esclusiva”, e cioè senza il consenso ed il
condizionamento delle organizzazioni sindacali, le decisioni relative all’organizzazione degli uffici e
alla gestione dei rapporti di lavoro0. Allo stesso modo, la nuova regolamentazione delle sanzioni
disciplinari prevede che il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare comportano,
per i soggetti responsabili aventi qualifica dirigenziale, l’applicazione di una severa sanzione
disciplinare, che è prevista anche nell’ipotesi in cui il dirigente non curi l’osservanza della disciplina
dei controlli sulle assenze.
Inoltre, per evitare che il timore del rischio della responsabilità civile derivante da profili di illiceità
nello svolgimento del procedimento disciplinare possa far venir meno le determinazioni del
dirigente, è precisato che tale responsabilità “è limitata, in conformità ai principi generali, ai casi di
dolo o colpa grave”. Inoltre, va evidenziato che il dirigente, oltre ad essere soggetto attivo nel
processo di misurazione e valutazione della performance, ne è anche oggetto, nel senso che la sua
performance individuale forma anche essa oggetto di misurazione e valutazione, ai fini della
distribuzione selettiva della retribuzione di risultato secondo i diversi livelli di performance
conseguiti.
Inoltre, i risultati raggiunti assumono rilevanza sia nella procedura che le amministrazioni
pubbliche devono attivare ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale, sia ai
fini della conferma e della revoca degli incarichi assegnati (cd. responsabilità dirigenziale). Nei casi
di mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero di inosservanza delle direttive, che siano
imputabili al dirigente, è prevista l’impossibilità di rinnovare lo stesso incarico alla scadenza (ferma
restando l’eventuale responsabilità disciplinare del dirigente per gli stessi fatti).
Nei medesimi casi, laddove la condotta sia di particolare gravità, l’amministrazione può revocare
l’incarico prima della naturale scadenza, con collocamento del dirigente a disposizione nel ruolo
dell’amministrazione, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto
collettivo. Soltanto gli incarichi apicali delle amministrazioni statali cessano automaticamente
decorsi 90 giorni dal voto di fiducia al Governo, indipendentemente da qualsiasi verifica dei
risultati e dalla sussistenza di qualsiasi ipotesi di responsabilità.

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Le disposizioni di legge, statali e regionali, che nel tempo avevano esteso tale meccanismo di
caducazione automatica dell’incarico (cd. spoil system) a dirigenti non apicali, sono state
dichiarate costituzionalmente illegittime perché contrarie ai principi di buon andamento e
imparzialità delle pubbliche amministrazioni, di cui il sistema di conferma e revoca degli incarichi
fondato sulla valutazione dei risultati conseguiti dai dirigenti costituisce specifica attuazione.
Rispetto al lavoro privato, tuttavia, il regime della responsabilità del dirigente pubblico resta nel
suo complesso molto distante.
Anzitutto, sono diversi i presupposti formali (poiché i provvedimenti conseguenti a responsabilità
dirigenziale devono essere preceduti non solo da una contestazione, ma anche dall’acquisizione
del parere del Comitato dei garanti composto da esperti) e sostanziali (tenuto conto che il
dirigente privato può essere licenziato per qualsiasi motivo che non sia puramente arbitrario o
pretestuoso). Inoltre, la giurisprudenza ha riconosciuto a favore dei dirigenti pubblici la tutela
prevista dall’articolo 18 della legge 300 del 1970, nonostante essa non sia applicabile (salvo il caso
del licenziamento nullo o orale) ai dirigenti privati.
La riforma del 2009, peraltro, ha introdotto una ulteriore ipotesi di responsabilità dirigenziale,
prevedendo che, in caso di colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del
personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati
dall’amministrazione, è prevista una decurtazione della retribuzione di risultato, in relazione alla
gravità della violazione, di una quota fino all’ottanta per cento.
Infine, per assicurare l’effettività dei nuovi sistemi di valutazione della performance, è stato
disposto il divieto di erogare la retribuzione di risultato ai dirigenti che abbiano concorso alla
mancata adozione del “piano della performance” o del “programma triennale per la trasparenza e
l’integrità”. Quest’ultimo inadempimento costituisce anche elemento di valutazione della
responsabilità dirigenziale, nonché possibile causa di responsabilità per danno all’immagine
dell’amministrazione.

RECLUTAMENTO DEL PERSONALE


I principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione sono declinati dall’articolo 97
della Costituzione, con specifico riferimento alla costituzione del rapporto di pubblico impiego,
mediante la previsione che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante
concorso salvo i casi stabiliti dalla legge. L’assunzione, dunque, avviene di regola tramite
“procedure selettive” che devono conformarsi ai principi di pubblicità, imparzialità, trasparenza,
pari opportunità, decentramento delle procedure di reclutamento.
Nella logica del decentramento, peraltro, specifiche disposizioni del bando di avvio delle
procedure selettive possono prevedere che il principio della parità di condizioni per l’accesso ai
pubblici uffici sia garantito facendo riferimento al luogo di residenza dei concorrenti “quando tale
requisito sia strumentale all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili
con identico risultato”. Esclusivamente per l’assunzione in qualifiche e profili per i quali è richiesto
il solo requisito della scuola dell’obbligo, è previsto, in luogo delle procedure selettive,
l’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento.

162
Si applica alle pubbliche amministrazioni la disciplina per il collocamento dei disabili. L’accesso ai
posti di lavoro pubblico è aperto, in condizioni di parità con i cittadini italiani, a tutti i cittadini
comunitari, salvo per le posizioni che implicano l’esercizio di pubblici poteri ovvero attengono alla
tutela dell’interesse nazionale. Anche il passaggio da una area funzionale ad altra superiore,
comportando l’accesso ad un nuovo posto di lavoro, è soggetto alla regola del concorso pubblico,
con possibilità di riservare al personale interno il 50% dei posti disponibili.
Il principio costituzionale del concorso non può essere aggirato, nemmeno ad opera del
legislatore, procrastinando indefinitamente situazioni di “provvisoria” attribuzione a dipendenti
già in forza di incarichi appartenenti ad una area funzionale superiore. È stato quindi dichiarato
costituzionalmente illegittimo il reiterato ricorso all’assegnazione di incarichi dirigenziali a
funzionari, nell’attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali. La legge delega 124 del 2015
ha demandato al Governo di riordinare la disciplina delle procedure concorsuali sotto vari profili.
TIPOLOGIE DI LAVORO FLESSIBILE NEL SETTORE PUBBLICO
Le pubbliche amministrazioni possono avvalersi di tipologie contrattuali flessibili e, precisamente,
di contratti di formazione e lavoro, a termine, di somministrazione a tempo determinato, a tempo
parziale, nonché del lavoro accessorio. Tuttavia, tale facoltà è limitata alle ipotesi in cui sia
necessario “rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo ed eccezionale”. Per
le esigenze connesse con il proprio “fabbisogno ordinario”, invece, le pubbliche amministrazioni
possono assumere “esclusivamente” con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato,
così rimarcando una ulteriore notevole differenza dal lavoro privato. I contratti di collaborazione
coordinata e continuativa possono essere stipulati solo con “esperti di particolare e comprovata
specializzazione anche universitaria”, previo accertamento da parte dell’amministrazione
dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
La violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori non può
dar luogo alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, poiché ciò
comporterebbe un aggiramento dei principi di trasparenza ed imparzialità che debbono
presiedere alla selezione dei pubblici impiegati. Il lavoratore ha, però, diritto al risarcimento dei
danni, con obbligo per l’amministrazione di rivalersi sul dirigente responsabile, che abbia agito con
dolo o colpa grave. Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile, inoltre,
non può essere erogata la retribuzione di risultato.
Con la stessa logica, “fino al completo riordino della disciplina dei contratti di lavoro flessibili da
parte della pubblica amministrazione”, questa ultima è esclusa dalla disposizione che prevede
l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni coordinate e continuative
“esclusivamente personali” ed “organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al
luogo di lavoro”. Si è dubitato che la tutela soltanto risarcitoria prevista in caso di abuso nella
reiterazione di contratti a tempo indeterminato non sia conforme alla direttiva 70 del 1999 della
Comunità Europea.
Nel decidere la questione, la Corte di giustizia ha affermato che la legislazione nazionale non deve
necessariamente prevedere che la sanzione, in caso di abuso, consista nella trasformazione del
rapporto a tempo indeterminato, potendo essere prevista altra forma di sanzione, anche
risarcitoria; è, però, necessario che la sanzione sia “proporzionata”, “energica” e “dissuasiva”. In

163
effetti, il legislatore si trova a dover tenere conto del fatto che presso le pubbliche amministrazioni
si è verificato nel passato il ricorso intensivo a forme di lavoro flessibile per far fronte ad esigenze
permanenti e durevoli, che ha determinato la crescente aspettativa dei lavoratori utilizzati di
essere assunti a tempo indeterminato.
Tale aspettativa, però, si pone in contrasto con la Costituzione che stabilite che le assunzioni a
tempo indeterminato devono avvenire mediante pubblico concorso aperto a tutti. Per conciliare
tali esigenze, il legislatore ha previsto, con norme generali o settoriali, la possibilità di prevedere le
cd. “stabilizzazioni”, e cioè di riservare parte dei posti disponibili al personale cd. precario in
possesso di determinati requisiti minimi, e che abbia comunque superato procedure selettive.
Un problema diverso, infine, si è posto con riguardo ai soggetti vincitori di concorsi pubblici per
l’assunzione a tempo indeterminato, o risultati idoneo in base a graduatorie vigenti, i quali non
possono essere assunti a causa dei reiterati “blocchi” delle assunzioni pubbliche determinati da
esigenze di contenimento della spesa. Tali soggetti, in attesa che si realizzino le condizioni per
procedere all’assunzione a tempo indeterminato (nel caso dei vincitori di concorso), o per avere la
chance di tale assunzione (gli idonei), possono essere assunti a tempo determinato.
TRATTAMENTO ECONOMICO E IUS VARIANDI NEL SETTORE PUBBLICO
Alla materia retributiva il legislatore ha dedicato una attenzione particolare in tutte le varie fasi del
processo di “privatizzazione”, limitando fortemente l’autonomia negoziale, individuale e collettiva.
In linea di principio, il trattamento economico, fondamentale e accessorio, è definito dalla
contrattazione collettiva, così stabilendo una espressa riserva di competenza che preclude la
possibilità di accordi individuali modificativi da parte dell’amministrazione, poiché questa è tenuta
a garantire parità di trattamento contrattuale e ad assicurare comunque trattamenti non inferiori a
quelli previsti dai contratti collettivi.
Questa ultima previsione – unitamente alla disposizione, di portata generale, che impone alle
pubbliche amministrazioni di osservare gli obblighi assunti con i contratti collettivi e a quella che
attribuisce all’ARAN la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni nel procedimento di
contrattazione – finisce, di fatto, per rendere applicabili erga omnes le clausole dei contratti
collettivi aventi ad oggetto la retribuzione. L’autonomia collettiva è, però, soggetta ad un sistema
di vincoli e controlli.
A “monte” del procedimento stesso di contrattazione, infatti, le risorse disponibili sono
predeterminate attraverso gli strumenti di finanza pubblica; e i contratti collettivi sono tenuti a
prevedere clausole che consentano di sospendere l’esecuzione, totale o parziale, in caso di
accertata esorbitanza dai limiti di spesa. I trattamenti economici accessori, inoltre, devono essere
ancorati a parametri stabiliti direttamente dalla legge (performance individuale, performance
organizzativa dell’amministrazione e delle sue unità organizzative, ovvero effettivo svolgimento di
attività particolarmente disagiate o pericolose per la salute).
In ogni caso, possono essere riconosciuti soltanto nei limiti quantitativi che la stessa legge
predetermina (non più di un quarto dei dipendenti di ciascuna amministrazione può beneficiare
del trattamento accessorio nella misura massima prevista dal contratto; non più della metà può
goderne in misura superiore al 50% del massimo; alla restante parte non può essere riconosciuto
alcun incentivo) e che sono solo parzialmente modificabili dalla contrattazione collettiva.
164
La disciplina delle mansioni e dello jus variandi resta differenziata da quella dettata per il lavoro
privato dall’articolo 2103 del Codice Civile, pur a seguito della recente modifica di quest’ultimo.
Comune al settore privato è il principio per cui il dipendente pubblico deve essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia
successivamente acquisito in base a regolari procedure selettive per la progressione di carriera.
Diversi sono, invece, presupposti ed effetti dell’esercizio dello jus variandi, da parte
dell’amministrazione, soprattutto in relazione all’ipotesi di assegnazione a mansioni superiori.
Anzitutto, la disciplina speciale continua a prevedere il diritto del lavoratore di essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni “equivalenti”, ma precisa che l’equivalenza può
essere individuata nell’ambito della intera area di inquadramento. Al riguardo, la giurisprudenza
ha affermato che nel pubblico impiego vige “un concetto di equivalenza ‘formale’, ancorato cioè
ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice”. Le
mansioni superiori possono essere assegnate al dipendente pubblico in presenza di obiettive
ragioni di servizio e purché si tratti di mansioni riconducibili alla qualifica immediatamente
superiore, in ipotesi tassative e per periodi limitati.
Precisamente, l’assegnazione di mansioni superiori è consentita nel caso di vacanza di posto in
organico, limitatamente ad un periodo non superiore a 6 mesi, prorogabile fino a 12 mesi, durante
i quali l’amministrazione ha l’obbligo di avviare le procedure per la copertura del posto vacante, e
nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con
esclusione dell’assenza per ferie, limitatamente al periodo di durata dell’assenza.
In ogni caso, il dipendente ha diritto, per il periodo di effettiva prestazione, al trattamento
(economico e normativo) previsto per la qualifica superiore, ma il superamento del periodo
massimo di svolgimento delle mansioni superiori non determina il diritto alla definitiva
attribuzione della qualifica corrispondente, poiché le progressioni di carriera da un’area di
inquadramento all’altra devono avvenire necessariamente sulla base di concorsi pubblici.
Al di fuori delle menzionate ipotesi tassative, l’assegnazione a mansioni superiori è nulla, onde è
che il lavoratore può legittimamente rifiutarla. Tuttavia, in caso di esercizio di fatto di mansioni
superiori, al lavoratore è comunque riconosciuto il diritto alle differenze di trattamento
economico, mentre il dirigente che ha disposto illegittimamente tale assegnazione, laddove abbia
agito con dolo o colpa grave, risponde personalmente del maggiore onere economico sostenuto
dall’amministrazione.
POTERE DISCIPLINARE
Il legislatore ha previsto che anche nel settore pubblico trova applicazione l’articolo 2106 del
Codice Civile, in base al quale l’inosservanza degli obblighi di diligenza e fedeltà “può” dare luogo
all’irrogazione di sanzioni disciplinari secondo il principio di proporzionalità alla gravità
dell’infrazione ed in conformità con le previsioni dei contratti collettivi. Tuttavia, al dichiarato fine
“di potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa
produttività ed assenteismo”, il legislatore ha nuovamente legificato l’intera materia disciplinare
dettando disposizioni che si distaccano in apicibus dalla disciplina del lavoro privato, in quanto:
a) il responsabile dell’ufficio ove è stata commessa l’infrazione non soltanto “può”, bensì deve
avviare l’azione disciplinare;
165
b) quelle disposizioni hanno natura di norme imperative ai sensi degli articoli 1339 e 1419, comma
2 del Codice Civile e, quindi, determinano la nullità di ogni diversa previsione della contrattazione
collettiva pubblica.
In particolare, pur riconoscendo a tale contrattazione la competenza di definire la tipologia delle
infrazioni e delle relative sanzioni, il legislatore ne limita il campo di azione regolando
direttamente, e, inderogabilmente, i provvedimenti disciplinari che devono essere adottati in
presenza di determinati comportamenti inadempienti da parte dell’impiegato pubblico.
E così, è previsto il licenziamento disciplinare, anzitutto, in caso di falsa attestazione della presenza
in servizio con modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza mediante certificazione
medica falsa o attestante falsamente uno stato di malattia (per tali ipotesi, è prevista anche la
sanzione penale sia per il dipendente che per chiunque altro abbia concorso nel reato, incluso il
medico). Norme più restrittive sono previste nello schema di decreto legislativo che, ai sensi della
legge delega 124 del 2015, è stato sottoposto al prescritto esame parlamentare.
In particolare, è previsto: l’ampliamento della nozione di falsa attestazione, così da includere
qualunque “modalità fraudolenta”, mediante la quale un dipendente faccia falsamente risultare di
essere in servizio; l’obbligo, in caso di accertamento “in flagranza” o mediante strumenti di
sorveglianza o di registnrazione degli accessi o delle presenze, di sospensione cautelare entro le
successive 48 ore; la previsione di una procedura disciplinare accelerata, che deve concludersi
entro 30 giorni dalla conoscenza dei fatti; l’obbligo di trasmettere gli atti alla Procura della Corte
dei conti per il risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, causato dal
dipendente assenteista.
Altre ipotesi tipizzate, nella disciplina vigente, per le quali deve essere irrogato il licenziamento
disciplinare sono: l’assenza ingiustificata per un numero superiore a 3 giorni nell’arco di un biennio
o di 7 giorni nel corso degli ultimi 10 anni; l’ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto
dall’amministrazione per motivate ragioni di servizio; le falsità documentali o dichiarative
commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro o di progressioni di
carriera; la reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive, moleste o minacciose
o ingiuriose o lesive dell’altrui onore o dignità; la condanna penale definitiva per la quale sia
prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici o l’estinzione del rapporto di lavoro.
Il licenziamento disciplinare è, inoltre, previsto nel caso di valutazione di insufficiente rendimento
riferibile ad un arco temporale di almeno un biennio, sempreché esso sia dovuto alla reiterata
violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa. Sono, inoltre, previste sanzioni
conservative diverse e più gravi di quelle tipizzate dall’articolo 7 della legge 300 del 1970. In
particolare, la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento del danno derivante dalla
violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi concernenti la sua prestazione, comporta
l’applicazione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di 3
giorni fino ad un massimo di 3 mesi, in proporzione all’entità del risarcimento.
In ogni caso, ove il lavoratore cagioni grave danno al normale funzionamento dell’ufficio di
appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate dall’amministrazione ai
sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale, è
collocato in disponibilità. Il provvedimento che definisce il giudizio disciplinare stabilisce le

166
mansioni e la qualifica per le quali può avvenire l’eventuale ricollocamento e, durante il periodo
nel quale è collocato in disponibilità, il lavoratore non ha diritto di percepire aumenti retributivi
sopravvenuti. Infine, l’esercizio del potere disciplinare è condizionato all’affissione del codice
disciplinare in luogo accessibile a tutti i dipendenti, ma tale adempimento può essere soddisfatto
anche mediante la pubblicazione del codice sul sito istituzionale dell’amministrazione.
PROCEDIMENTO DISCIPLINARE Il procedimento che regola l’esercizio del potere disciplinare è
interamente e minuziosamente disciplinato dalla legge. Il procedimento disciplinare deve essere
avviato direttamente dal responsabile della struttura, se questi è in possesso della qualifica
dirigenziale, nel caso in cui abbia notizia di comportamenti da parte di un dipendente della sua
struttura che siano punibili con una sanzione disciplinare di minore gravità (e, cioè, superiore al
rimprovero verbale ed inferiore alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di 10
giorni).
Ove, invece, il responsabile della struttura non abbia qualifica dirigenziale o la sanzione applicabile
sia di maggiore gravità, il provvedimento disciplinare è avviato da un apposito “ufficio competente
per i procedimenti disciplinari”, al quale il predetto responsabile è tenuto a trasmettere gli atti
entro 5 giorni dalla notizia del comportamento ritenuto sanzionabile, dandone contestuale
comunicazione al lavoratore interessato. In entrambe le ipotesi, i principi regolatori del
procedimento sono identici, ma nella seconda sono previsti termini pari al doppio di quelli
applicabili alla prima.
La contestazione dell’addebito deve essere fatta per iscritto e deve essere tempestive (e, cioè,
nella prima ipotesi non oltre 20 giorni dalla data in cui il dirigente ha avuto notizia del
comportamento, e, nella seconda, non oltre 40 giorni dalla data in cui “l’ufficio competente per i
procedimenti disciplinari” ha ricevuto gli atti o abbia altrimenti acquisito la notizia dell’infrazione);
il dipendente deve essere convocato per consentirgli di esercitare la sua difesa, ed ha diritto di
farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante sindacale; se non intende presentarsi, il
lavoratore ha diritto di difendersi per iscritto o, in caso di grave ed oggettivo impedimento, può
chiedere una sola volta il differimento della convocazione; il procedimento deve essere chiuso con
l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione entro 60 o 120 giorni, i quali decorrono,
rispettivamente, dalla contestazione dell’addebito (ove effettuata dal dirigente della struttura) e
dalla data della prima acquisizione della notizia dell’infrazione (nel caso della contestazione
effettuata “dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari”); questi ultimi termini sono
prorogabili in misura corrispondente al differimento eventualmente richiesto dal lavoratore per la
sua audizione.
Tutti i termini del procedimento sono perentori, poiché la loro violazione comporta, per
l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare e, per il dipendente, la decadenza
dall’esercizio del diritto di difesa. Il mancato esercizio o la decadenza dall’azione disciplinare,
dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare
o a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate,
in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta l’applicazione
della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione in
proporzione alla gravità dell’infrazione non perseguita, fino ad un massimo di 3 mesi in relazione
alle infrazioni sanzionabili con il licenziamento.

167
È in via di approvazione un inasprimento di tali sanzioni con riguardo al caso in cui il dirigente
ometta di avviare l’azione disciplinare nei confronti del dipendente assenteista: è previsto, infatti,
che in tale caso il dirigente può essere licenziato, ed il suo comportamento può essere valutato
penalmente rilevante, come omissione di atti di ufficio. Al medesimo fine, è prevista la sanzione
della sospensione dal servizio e dalla retribuzione, fino al massimo di 15 giorni, per il dipendente o
dirigente, appartenente alla stessa amministrazione pubblica dell’incolpato o ad una diversa, che,
essendo a conoscenza per ragioni di ufficio o di servizio di informazioni rilevanti per un
procedimento disciplinare in corso, rifiuta, senza giustificato motivo, la collaborazione richiesta
dall’autorità disciplinare procedente ovvero rende dichiarazioni false o reticenti.
Correlativamente sono state introdotte norme a tutela del dipendente pubblico, il quale segnali
illeciti, commessi da altri dipendenti (cd. whistleblowing). Ed infatti, è garantito, nei limiti del
possibile, l’anonimato, ed è escluso che il lavoratore possa subire, anche in modo indiretto,
qualsivoglia effetto negativo dalla denuncia, esclusi i soli casi di responsabilità per calunnia o
diffamazione, ovvero a titolo di responsabilità per illecito extracontrattuale.
La contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione stragiudiziale dei
provvedimenti disciplinari. Ad essa è consentito soltanto disciplinare procedure di conciliazione
non obbligatoria, ad eccezione dei casi riguardanti comportamenti punibili con il licenziamento, le
quali devono essere concluse entro 30 giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima
dell’irrogazione della sanzione. Nell’ambito di tali procedure, il lavoratore può raggiungere un
accordo sulla sanzione da applicare, che può essere di misura inferiore, ma non di specie diversa,
rispetto a quella prevista per l’infrazione per la quale si procede.
Coerentemente, la sanzione in tal modo “patteggiata” non è soggetta ad impugnazione. Infine, è
stata introdotta una nuova regolamentazione dei rapporti tra procedimento disciplinare e
processo penale. Il legislatore dispone che il procedimento disciplinare sia proseguito e concluso
anche in pendenza del procedimento penale avente ad oggetto, in tutto o in parte, gli stessi fatti.
La sospensione del procedimento disciplinare, fino alla conclusione di quello penale, è consentita
in via facoltativa, ad eccezione delle infrazioni di minore gravità, nei soli casi di particolare
complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria
l’ufficio competente non disponga di elementi sufficienti a m0tivare l’irrogazione della sanzione. In
ogni caso, il giudizio disciplinare deve essere ex post conformato agli esiti del giudizio penale.
Quindi, se il procedimento disciplinare, non sospeso, si è concluso con un provvedimento di segno
diverso rispetto al giudizio penale, esso deve essere riaperto, entro un termine perentorio, al fine
di adeguarne gli esiti a quelli del giudicato penale.
ESTINZIONE DEL RAPPORTO
Anche la fase dell’estinzione del rapporto di pubblico impiego forma oggetto di particolare
attenzione da parte della legislazione più recente. La commissione di specifiche condotte da parte
del dipendente obbliga il dirigente ad avviare il procedimento disciplinare e “l’ufficio competente”
ad irrogare il licenziamento. Ciò al fine di modificare una ben nota situazione nella quale sono
state tollerate nel passato anche infrazioni gravissime o la totale assenza di qualsiasi prestazione
lavorativa. Unitamente alla fattispecie del licenziamento disciplinato è stato, inoltre, previsto il
potere dell’amministrazione di risolvere il rapporto di lavoro nel caso di accertata inidoneità

168
permanente psicofisica al servizio da parte del dipendente, nonché nel caso di reiterato rifiuto di
questi di sottoporsi alla visita diretta a verificare la sua idoneità al servizio.
Un problema di rilevante interesse è quello della individuazione della tutela applicabile in caso di
licenziamento illegittimo. Per quanto riguarda i lavoratori “vecchi assunti”, l’opinione prevalente
riteneva dovesse continuare ad applicarsi la disciplina più favorevole prevista dall’articolo 18
prima delle modifiche apportate dalla legge 92 del 2012, non essendo stati emanati i
provvedimenti che avrebbero dovuto stabilire “gli ambiti, le modalità e i tempi” previsti per
“armonizzare” l’applicazione al rapporto di lavoro pubblico dei “principi” e dei “criteri” dettati
dalla stessa legge.
Una recente pronunzia della Cassazione è stata di diverso avviso, in quanto ha affermato che
l’articolo 51 del decreto legislativo 165 del 2001 prevede l’applicazione alle pubbliche
amministrazioni della legge 300 del 1970 e delle sue “successive modificazioni ed integrazioni”, e,
quindi, anche delle modifiche contenute nella legge 92 del 2012. Una analoga argomentazione
potrebbe essere svolta per affermare la applicabilità ai lavoratori “nuovi assunti” della disciplina
del contratto a tutela crescenti, in quanto il decreto legislativo 165 del 2001 dispone un rinvio di
carattere generale alle leggi “sui rapporti di lavoro subordinato nella impresa”, che non opera solo
laddove una specifica disposizione stabilisca diversamente.
Tuttavia, l’importanza di tale questione rende opportuno che la sua soluzione venga data da una
esplicita ed univoca disposizione che chiarisca la volontà parlamentare. Infine, diversamente dal
lavoro privato, nel pubblico impiego sono previsti limiti di età per la permanenza in servizio,
raggiunti i quali il dipendente è collocato a riposo. Il dipendente pubblico, di norma, non può
beneficiare nemmeno della possibilità di differire la data del pensionamento sino a 70 anni, come
previsto dalla legge 214 del 2001, poiché essa fa espressamente salvi i “limiti ordinamentali” che
stabiliscono l’età di collocamento a riposo.
Anzi, al fine di favorire “il ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni”, è consentito
alle P.A. di risolvere unilateralmente il contratto di lavoro con un preavviso di 6 mesi, anche prima
dell’età per il collocamento a riposo, nel momento in cui il lavoratore raggiunga l’anzianità
massima contributiva utile per la pensione cd. anticipata. Unicamente nel caso in cui il dipendente
non abbia maturato alcun diritto a pensione al compimento dell’età limite ordinamentale ha
diritto a proseguire il rapporto di lavoro sino al raggiungimento dei requisiti minimi per l’accesso a
pensione, e comunque non oltre il raggiungimento dei 70 anni di età.
MOBILITA’ E ECCEDENZE DI PERSONALE
Al fine di migliorare la “allocazione” del personale presso le singole pubbliche amministrazioni, la
legge prevede la mobilità, sia volontaria che obbligatoria. In caso di carenze di organico,
l’amministrazione può pubblicare un bando in cui sono indicati i posti che intende coprire
attraverso passaggio diretto di personale di altre amministrazioni appartenenti ad una qualifica
corrispondente a quella richiesta. A tal fine devono essere previste apposite tabelle di
equiparazione tra le classificazioni previste nei diversi comparti. In tale ipotesi, la mobilità è
volontaria, proprio perché presuppone la presentazione della domanda del lavoratore disponibile
al trasferimento, oltreché l’assenso dell’amministrazione di appartenenza.

169
La mobilità obbligatoria può avvenire sia all’interno dell’amministrazione di appartenenza, sia
(previo accordo tra le amministrazioni interessate) in altra amministrazione, presso sedi collocate
nello stesso comune ovvero a distanza non superiore a 50 chilometri dalla sede cui il dipendente è
adibito. Con decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, possono
essere fissati criteri per realizzare la mobilità obbligatoria, anche con passaggi diretti tra
amministrazioni senza preventivo accordo, per garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da
parte delle amministrazioni che presentano carenze di organico.
Nel caso di trasferimento o conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, ad altri
soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano,
salvo disposizioni speciali, l’articolo 2112 del Codice Civile e le procedure di informazione di cui
all’articolo 47 della legge 428 del 1990. La disciplina delle eccedenze di personale prevede che le
amministrazioni pubbliche sono, anzitutto, tenute ad effettuare annualmente rilevazioni volte ad
accertare l’eventuale esistenza di eccedenze di personale su base territoriale per categoria o area,
qualifica e profilo professionale (e tale obbligo è rafforzato dal divieto, in caso di inadempimento,
di effettuare assunzioni o instaurare rapporti di lavoro con qualunque tipologia di contratto).
Quando dalla rilevazione, o in qualsiasi momento, risultino situazioni di soprannumero o
comunque eccedenze, sia in relazione alle esigenze funzionali che alla situazione finanziaria, il
dirigente è tenuto – pena la sua responsabilità disciplinare – ad avviare una procedura detta di
“collocamento in disponibilità”. La procedura prevede che l’amministrazione fornisca
un’informativa preventiva ai rappresentanti sindacali e che, decorsi 10 giorni, proceda alla
risoluzione dei contratti di lavoro con il personale che abbia già raggiunto l’anzianità massima
contributiva o, in subordine, verifichi la possibilità di ricollocare, in tutto o in parte, il personale
soprannumerario o eccedente.
La ricollocazione può avvenire o presso la stessa amministrazione, oppure presso altre
amministrazioni comprese nella stessa Regione, previo accordo con esse. La gestione delle
eccedenze può costituire oggetto di passaggio ad amministrazioni operanti al di fuori del territorio
regionale. Trascorsi 90 giorni dalla informativa sindacale, l’amministrazione “colloca in
disponibilità” il personale che non è stato possibile reimpiegare, determinando in tal modo la
sospensione del rapporto di lavoro per un periodo massimo di 24 mesi, durante il quale è
corrisposta al lavoratore una indennità pari all’80% dello stipendio e della indennità integrativa
speciale.
Ove anche durante tale periodo il lavoratore non trovi ricollocazione, il rapporto di lavoro si
intende definitivamente risolto. Da ultimo, è stato stabilito che, nel caso in cui processi di
riorganizzazione degli uffici comportino l’individuazione di esuberi o l’avvio di processi di mobilità,
le pubbliche amministrazioni sono tenute non soltanto ad informare le organizzazioni sindacali,
ma anche ad avviare con esse un esame congiunto “sui criteri per l’individuazione degli esuberi o
sulle modalità per i processi di mobilità”. Decorsi 30 giorni, in assenza di accordo su quei criteri e
quelle modalità, l’amministrazione “procede alla dichiarazione di esuberi e alla messa in mobilità”.
GIURISDIZIONE DEL GIUDICE DI LAVORO
Coerentemente con i presupposti della privatizzazione, sono devolute al giudice ordinario, in
funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro pubblico, incluse

170
quelle che hanno ad oggetto l’assunzione, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e
la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto. Stante la
natura negoziale degli atti di gestione del rapporto adottati dall’amministrazione, queste
controversie riguardano diritti soggettivi, suscettibili di una tutela piena ed effettiva nell’ambito di
un giudizio in cui la condotta dell’amministrazione non è sindacata sulla base dei criteri utilizzati
per individuare i vizi dell’atto amministrativo, ma alla luce dei principi civilistici in materia di
adempimento delle obbligazioni, ad iniziare dai criteri di buona fede e correttezza.
A conferma di ciò, è espressamente previsto che il giudice adotta, nei confronti delle P.A., tutti i
provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati.
Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è
avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente
costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. Ove ai fini della decisione assuma rilievo un
provvedimento amministrativo presupposto all’atto privatistico di gestione del rapporto di lavoro,
il giudice ordinario può disapplicarlo se illegittimo.
Ed anche la impugnazione di quel provvedimento davanti al giudice amministrativo non è causa di
sospensione del processo pendente dinanzi al giudice ordinario. La giurisdizione del giudice
ordinario si estende anche alle controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche
amministrazioni e alle controversie relative alle procedure di contrattazione collettiva disciplinate
dal decreto legislativo 165 del 2001. Restano, invece, devolute alla giurisdizione del giudice
amministrativo le controversie relative ai rapporti di lavoro cd. non contrattualizzati (magistrati,
avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e forze di polizia di Stato, personale della
carriera diplomatica e prefettizia), nonché le controversie in materia di procedure concorsuali per
l’assunzione.
La riserva del giudice amministrativo in materia concorsuale è limitata alle fasi procedimentali sino
alla approvazione della graduatoria finale, a seguito della quale l’amministrazione non è più
titolare di poteri autoritativi e discrezionali, e il dipendente vanta un diritto soggettivo
all’assunzione, tutelabile davanti al giudice ordinario. Nel caso, però, in cui l’amministrazione,
successivamente alla approvazione della graduatoria, non proceda all’assunzione e decida, invece,
di coprire i posti messi a concorso ricorrendo ad una diversa procedura, si ritiene che la
controversia investa l’esercizio di un potere pubblicistico, cui corrisponde una situazione di
interesse legittimo, tutelabile unicamente avanti al giudice amministrativo.
La giurisprudenza ha altresì chiarito che la giurisdizione del giudice amministrativo si estende ai
concorsi “interni” per il passaggio da un’area di inquadramento all’altra, ma non alle procedure
selettive per il passaggio da una posizione economica ad altra superiore nell’ambito della stessa
area di inquadramento, che sono di competenza del giudice ordinario. Il legislatore ha, infine,
stabilito regole particolari per la definizione delle questioni relative all’efficacia, alla validità e
all’interpretazione dei contratti collettivi nazionali del settore pubblico, finalizzate a ridurre il
contenzioso su quelle questioni, affidandone l’uniforme definizione, in prima battuta, alle parti
firmatarie del contratto collettivo e, in seconda battuta, alla Corte di Cassazione.
In particolare, è previsto che, quando è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione
concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo
collettivo nazionale, il giudice, con ordinanza non impugnabile, nella quale indica la questione da
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risolvere, fissa una nuova udienza di discussione non prima di 120 giorni e dispone la
comunicazione degli atti di causa all’ARAN. Entro 30 giorni da quella comunicazione, l’ARAN
convoca le organizzazioni sindacali firmatarie per verificare la possibilità di un accordo
sull’interpretazione autentica (in caso di questione interpretativa) ovvero sulla modifica (in caso di
questione di validità o efficacia) della clausola controversa.
In caso di accordo, il giudice è tenuto ad uniformarsi, senza la necessità del consenso delle parti
del giudizio. L’accordo sull’interpretazione autentica del contratto collettivo assolve ad una
funzione nomofilattica ed è, quindi, previsto che esso venga pubblicato sulla Gazzetta ufficiale
della Repubblica italiana. Se non interviene l’accordo, il giudice deve decidere con sentenza sulla
questione pregiudiziale, adottando distinti provvedimenti per la prosecuzione della causa. La
sentenza sulla questione pregiudiziale è impugnabile solo con ricorso per cassazione, la cui
proposizione determina la sospensione del processo di merito.
La finalità deflattiva è perseguita anche da due ulteriori disposizioni: da un lato, in pendenza del
giudizio di cassazione sulla questione pregiudiziale, può essere sospeso ogni processo di merito la
cui definizione dipende dalla risoluzione della medesima questione sulla quale la Corte di
Cassazione è chiamata a pronunciarsi; dall’altro, una volta che la Corte di Cassazione abbia risolto
una questione sulla validità, efficacia o interpretazione del contratto collettivo, ogni giudice di
merito che intendesse, successivamente, risolvere diversamente la medesima questione è tenuto
a procedere decidendo separatamente la questione relativa al contratto collettivo, con sentenza
impugnabile solo con ricorso per cassazione.
PATTO DI NON CONCORRENZA
Il divieto di concorrenza, previsto dall’articolo 2105 del Codice Civile, deriva dal contratto di lavoro
ed opera per tutta la durata del rapporto di lavoro. Pertanto, cessato il rapporto, il lavoratore è
libero di utilizzare le conoscenze e le esperienze acquisite in una nuova attività di lavoro
dipendente, autonomo o imprenditoriale, anche in concorrenza con il suo ex datore di lavoro (salvi
i divieti generali stabiliti dall’articolo 2598 del codice civile e dagli articoli 622 e 623 del codice
penale).
Il datore di lavoro, però, avvalendosi della posizione di forza contrattuale, potrebbe limitare la
libertà del lavoratore inducendolo, durante il rapporto di lavoro, a sottoscrivere un patto che lo
obblighi a non svolgere attività concorrenziali anche nel periodo successivo alla cessazione del
rapporto di lavoro. A tutela della libertà del lavoratore, quindi, l’articolo 2125 del Codice Civile
prevede la nullità del patto che “limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il
tempo successivo alla cessazione del contratto”, ove il patto stesso non soddisfi determinate
condizioni, vale a dire:
a) ove non risulti da atto scritto;
b) ove non sia pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
c) ove il vincolo del lavoratore non sia contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di
luogo.
In ogni caso, la durata del vincolo non può essere superiore, per i dirigenti, a 5 anni, e, per gli altri
lavoratori, a 3 anni. Pertanto, ove il patto preveda una durata maggiore, essa è ridotta entro i
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termini ora indicati. Il corrispettivo pattuito deve essere adeguato, al fine di compensare il
lavoratore della limitazione della sua libertà e della conseguente riduzione delle possibilità di
guadagno derivanti dal vincolo assunto.
Allo stesso modo, i limiti di oggetto, di tempo e di luogo devono essere individuati in modo che la
loro estensione non sia tale da precludere al lavoratore qualsiasi possibilità di occupazione, in
relazione alla specifica professionalità posseduta. L’articolo 2125 del Codice Civile, dunque,
contempera opposte esigenze. Da un lato, tiene conto della ragionevole esigenza del datore di
lavoro di prevenire la concorrenza che lecitamente il dipendente può esercitare dopo la cessazione
del rapporto di lavoro. D’altro lato, però, intende salvaguardare il diritto del lavoratore di
continuare a lavorare anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, ponendo limiti inderogabili
all’assunzione dell’obbligo contrattuale di non concorrenza e assicurando, nel contempo, un
corrispettivo per l’assunzione di tale obbligo. Fare clic o toccare qui per immettere il testo.

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