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Introduzione al corso di Diritto tributario – la “grammatica tributaria”
Il diritto tributario studia i tributi: i tributi sono la principale entrata pubblica, senza la quale lo Stato
non potrebbe esistere né funzionare. L’esistenza di un sistema tributario è condizione stessa di
esistenza e funzionamento delle attività pubbliche e statali. Se lo vogliamo tradurre in numeri, le
entrate totali del 2022 dello Stato italiano saranno 627 milioni di euro, di cui 552 entrate tributarie:
le entrate tributarie, tra l’altro, sono le uniche entrate stabili, prevedibili e periodiche.
Il ruolo della tassazione e del prelievo tributario, oltre a consentire che la macchina statale funzioni,
è quello di garantire i diritti sociali: tra le attività pubbliche, quelle che hanno un ruolo in termini di
spesa più importante sono le attività che garantiscono o che hanno la funzione di realizzare e
garantire attività sociali, diritti sociali, dei consociati. Gli stati moderni garantiscono una serie di
diritti (salute, istruzione, pensioni, ambiente...) tramite le Costituzioni, e questi diritti richiedono
interventi da parte dello Stato per utilizzare le risorse. Le risorse monetarie indispensabili per poter
garantire i diritti sociali sono proprio i tributi. Un sistema tributario forte, che funziona, è condizione
fondamentale per garantire il godimento e l’attuazione dei diritti sociali: in questa prospettiva, si
definisce il tributo come “il costo dei diritti”. La parte più rilevante dei tributi è destinata alle attività
sociali (sanità, previdenza, istruzione). Il prelievo tributario non ha in ogni caso una natura
corrispettiva: io non pago per ottenere qualcosa in cambio, ma pago in rapporto alla mia forza
economica; poi, io come consociato, ricevo dei servizi in ragione dei miei bisogni. Il prelievo
tributario consente di coprire tutte le spese dello Stato che nascono dal fatto di far parte di una
comunità statale. Si parla, in tal senso, di uguaglianza sostanziale e di solidarietà economica alla
base del sistema tributario: chi paga più tributi sostiene i servizi anche per chi ha minore capacità
contributiva.
La quarta frase chiave riguarda “orientare i comportamenti individuali”: i tributi non servono solo a
garantire la macchina statale e la copertura delle attività sociali e di garantire una solidarietà
economica tra cittadini, ma anche quello di orientare le scelte dei singoli. Si utilizza cioè la leva
fiscale cioè il tributo come meccanismo di incentivo o disincentivo per il raggiungimento di finalità
extrafiscali. Ad esempio, se si introducono agevolazioni tributarie per le imprese che aprono filiali
in un certo territorio, si ha la finalità non solo di recuperare introiti, ma anche la finalità extrafiscale
di incentivare le imprese a investire per far crescere il territorio; altra agevolazione è il superbonus,
agevolazione molto forte concessa ai soggetti che intervengono sui propri immobili attraverso
ristrutturazioni, oppure agevolazioni tributarie con obiettivi ambientali per le aziende che non
inquinano (es: plastic tax)... nuove frontiere di imposte che orientano le scelte (e non solamente
scelte economiche) riguardano ad esempio le scelte comportamentali come la sugar tax sui junk
food, incidendo sulle scelte economiche individuali della collettività, per orientare i cittadini a scelte
alimentari più sane. Pertanto, la leva fiscale muove i comportamenti singoli in positivo e in negativo.
Dal punto di vista del singolo cittadino, il tributo è una ingerenza pubblica, una intromissione dello
Stato nella sfera della libertà individuale del singolo (art. 23 Cost. prevede la riserva di legge in
materia tributaria, limitando l’autonomia patrimoniale dei singoli in modo parificato rispetto alle
libertà personali, motivo per cui esiste la riserva di legge parlamentare). I tributi vengono in rilievo
in ogni momento di un’attività o di atti compiuti dai cittadini: ogni attività avente rilievo economico
ha una ricaduta fiscale e ogni soggetto è interessato dal diritto tributario. La materia tributaria è
quindi molto importante dal punto di vista professionale: la gestione e la soluzione dei problemi
fiscali necessita di diversi professionisti, ragionieri, consulenti, commercialisti, avvocati e giuristi
esperti della materia tributaria.
L’obiettivo di questo corso è innanzitutto imparare i principi e i fondamenti del sistema tributario
italiano, esaminando come funziona il rapporto giuridico tributario nei rapporti tra singoli e Stato,
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vedremo quali sono le principali imposte in italia, come girano i procedimenti amministrativi
tributari, il ruolo dell’amministrazione finanziaria e del contribuente, e la fase processuale.
IL TRIBUTO
Può essere definito attraverso una serie di elementi definitori: tale definizione tiene conto di una
serie di componenti e ulteriori definizioni che a seconda dei punti di vista riescono a individuare il
tributo. Il tributo può essere definito in molti modi:
- Entrata pubblica: innanzitutto il tributo è un’entrata pubblica (la più importante tra le
entrate pubbliche nell’organizzazione statale). Il tributo ha una sua periodicità e una sua
prevedibilità, cioè lo stato può calcolare esattamente (più o meno) tale entrata per
l’avvenire. Sono entrate definitivamente acquisite, senza obbligo di restituzione per lo Stato
(l’entrata tributaria, infatti, si distingue dalle entrate derivati da debito pubblico: sono anche
queste entrate, ma prima o poi saranno anche restituiti). Il tributo ha lo scopo di finanziare
la spesa pubblica, e questo è previsto dalla Costituzione.
Uno dei principi su cui si regge il diritto della contabilità dello Stato è che il tributo realizza
un’entrata pubblica, e tale entrata pubblica non è finalizzata a coprire una determinata
spesa. Ci sono però degli altri tributi che nella loro legge istitutiva prevedono la destinazione
delle risorse, come deroga al principio generale (es: tassa di soggiorno: viene finalizzata al
turismo, beni culturali, ambienti locali... oppure l’Iresa, imposta regionale sulle emissioni
sonore degli aeromobili civili)
- Coattività: il tributo si caratterizza per essere una prestazione imposta. Il tributo è
direttamente espressione della sovranità dello Stato, cioè attraverso il tributo lo Stato opera
nella piena esplicazione della propria sovranità e superiorità rispetto al singolo. Lo Stato
opera in modo coattivo: il rapporto giuridico che si innesta tra il singolo e lo Stato, nel tributo,
è un rapporto di superiorità e sovranità dello Stato, che si manifesta e realizza nell’elemento
della coattività del tributo. Il tributo è un’entrata pubblica coattiva, posta in modo
obbligatorio e inderogabile al singolo, come diretta espressione della sovranità statale.
Nell’individuare e nell’applicare il tributo in nessun modo concorre e rileva il consenso del
consociato che subisce il prelievo tributario.
- Decurtazione patrimoniale: con l’imposizione tributaria si realizza un impoverimento del
singolo. Il tributo realizza una decurtazione patrimoniale definitiva nella sfera giuridica del
singolo, senza un qualunque tipo di controprestazione. Il tributo impoverisce il singolo
perché ha come finalità quella di prelevare risorse dal singolo, che viene impoverito (del
reddito, del patrimonio, ecc), senza nulla in cambio: non vi è una corrispettività né un
rapporto sinallagmatico
- Obbligazione pecuniaria: il rapporto tributario fa nascere un rapporto obbligatorio di natura
pubblica. Tale rapporto ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro: attraverso il
tributo sorge nel rapporto tra Stato e singolo contribuente, rapporto che ha le caratteristiche
di un’obbligazione che entra nel paradigma delle obbligazioni disciplinate dal Codice civile.
Vi è un creditore (Stato) e un debitore (cittadino), e l’oggetto è l’adempimento di
un’obbligazione pecuniaria.
- Finalità di sostenimento delle spese pubbliche: le finalità sono anche di natura extrafiscale
(ambiente, stile di vita...)
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Nel linguaggio comune, quando si parla di tassa si fa in realtà riferimento all’imposta: dal punto di
vista giuridico questo è errato. SI può parlare di tassazione come fenomeno, ma quando parliamo
dell’Iva e dei principali tributi non possiamo dire tassa ma imposta.
1) Impostaà è la categoria più importante. Si differenzia dalla causa giustificatrice. Il motivo
giuridico che sta alla base dell’imposta è diverso dal motivo giuridico che sta alla base della
tassa. La causa giustificatrice dell’imposta è la forza economica del contribuente: l’imposta
si giustifica sul piano anche costituzionale/normativo perché il singolo manifesta una
determinata forza economica. Tutti coloro che manifestano una certa forza economica
realizzano la causa giustificatrice dell’imposta e sono tenuti a pagare l’imposta (chi ha una
maggiore forza economica contribuisce in misura maggioreà art. 53 Cost. sulla capacità
contributiva). Con l’imposta lo Stato preleva denaro in forza di una causa giustificatrice che
è esclusivamente la forza economica del soggetto, che è espressa da una pluralità di fatti
indice ovvero degli elementi che esprimono la forza economica del soggetto. I fatti indice
tradizionali sono il reddito, il patrimonio, i consumi che i singoli realizzano (ma anche gli atti
giuridici e altri indici...) ... Se un soggetto produce un reddito, o possiede un patrimonio,
esprime una forza economica, in misura superiore rispetto a chi non ha reddito o
patrimonio... I fatti indice giustificano l’imposizione fiscale e quindi l’introduzione di
imposte.
2) Tassaà è un tributo strutturato in modo vecchio, perché la causa giustificatrice della tassa,
a differenza dell’imposta, è nel fatto che nella tassa è previsto che il singolo riceva un
determinato servizio pubblico. Al singolo viene consentito l’accesso ad un servizio o un atto
pubblico, e quindi la causa giustificatrice della tassa è l’attività pubblica a favore del
contribuente, secondo il principio del beneficio (es: Tosap per chi fa il mercato, oppure la
tassa universitaria). Sembrerà che ci sia una controprestazione, cioè un rapporto
sinallagmatico (le tasse vengono anche chiamate tributi para commutativi). Dal punto di
vista giuridico questo però non realizza un rapporto di corrispettività perché NON c’è un
rapporto sinallagmatico. Ciò che paghiamo come tassa è sempre inferiore rispetto al valore
reale del servizio offerto, anche se la tassa può sembrarci alta.
Per distinguere tasse e imposte, la Corte costituzionale precisa che non ci si deve limitare al nomen
iuris che il legislatore attribuisce all’entrata, ma bisogna guardare la disciplina riservata a
quell’entrata.
Es: Canone Rai: per capire se si tratta di un’imposta o di una tassa bisogna osservare la norma. La
norma non dice che bisogna pagare se usufruisci del servizio, ma che si paga se si ha un apparecchio.
Il Canone Rai è infatti considerato un’imposta patrimoniale, la cui causa giustificatrice è forza
economica (possesso di una televisione). Il canone non è un prezzo per un servizio, non è una tassa
(non si prevede il servizio dato ma una forza economica) ma è un’imposta, patrimoniale, perché si
basa sul possesso di una televisione a prescindere dal suo utilizzo.
Altro esempio è la Tari (Tassa sui rifiuti): la Tari è una tassa, perché a fronte del pagamento vi è la
raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha detto che la Tari potrebbe
passare da tassa a “prezzo” qualora il legame tra servizio reso e quantum pagato sia un legame
corrispettivo cioè di proporzionalità. In tal caso si sarebbe in una situazione di diritto privato, e cioè
accade quando la Tari diventa la cd. TariP (Puntuale), misurando ad esempio i sacchetti di spazzatura
indifferenziata, facendo variare il contributo in base alla spazzatura prodotta. In questo caso si
parlerebbe di una tariffa e non più una tassa. La differenza tra Tassa e Prezzo pubblico per il
cittadino sta nel fatto che se fosse un prezzo pubblico allora sarebbe un corrispettivo: il comune ti
fornisce un servizio a fronte di un pagamento di un prezzo; se è così, il Comune deve applicare l’IVA
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(che si applica su ogni servizio reso). Se la Tari rimane un tributo, non è un corrispettivo per un
servizio, e quindi non si applica l’IVA. Questo non è da poco, perché se fosse un corrispettivo-servizio
allora il cittadino dovrebbe pagare molto di più per l’IVA.
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consente che il tributo sia riscosso dallo Stato in modo rapido e sicuro. Vi è quindi un iter
amministrativo (di accertamento/riscossione spontanea ecc) ...
- Disciplina sanzionatoria: è l’insieme delle norme che individuano e consentono di attuare le
sanzioni amministrative e penali collegate alle violazioni tributarie
- Disciplina processuale: è l’insieme di norme che regolamenta il processo tributario
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del presupposto del tributo e/o della base imponibile del tributo. Es: la Società A vende a
Tizio un immobile per un prezzo di 200 mila euro, ma le parti si accordano per non indicare
nell’atto 200 mila ma 150 mila (i restanti 50 mila glie li darà cash in nero). Questo è un
comportamento evasivo perché la Società A ha occultato parte della base imponibile.
Attraverso tale occultamento si è violata una serie di norme tributarie
- Elusione: è un comportamento posto in essere dal contribuente che non viola direttamente
una norma tributaria, ma determina un conseguimento un vantaggio fiscale (minore
tassazione o assenza di tassazione) in capo al soggetto. Il comportamento si considera illecito
non perché vi è la violazione diretta di una norma, ma perché il risultato non è coerente con
i principi del sistema, aggirando le norme tributarie. In molti casi sta al limite con un
comportamento legittimo che prende il nome di pianificazione fiscale (che prevede una serie
di scelte fiscali sulla base della propria autonomia negoziale).
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principio è presente nello statuo del diritto del contribuente, nel d.lgs. sul processo tributario e nel
d.lgs. sulle sanzioni amministrazioni tributarie.
Quando si parla di autonomia tributaria degli enti diversi dallo Stato parliamo di Regioni, Province,
Comuni, Città metropolitane. Possiamo definire un ente territoriale che ha autonomia finanziaria
quando ha capacità e autonomia sia di spese che di entrate. Dal punto di vista dell’autonomia delle
entrate, possiamo definire che un ente è autonomo quando è libero di introdurre i tributi che
desidera, di disciplinare il contenuto di questi e ha la titolarità del credito che deriva dai tributi, in
Italia non esiste questa autonomia. Nelle regioni a statuto ordinario (fonti: titolo V Cost. art.117 e
119 e le leggi cost. in attuazione del titolo V) il sistema costituzionale prevede che lo Stato debba
fissare per legge i principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario, la regione li deve
rispettare nel momento in cui deve disciplinare l’autonomia. Questi principi sono limitativi della
possibilità e dell’autonomia regionale, non ci può essere una doppia tassazione regionale.
Per le regioni a statuto speciale non operano i principi predetti, perché hanno una maggiore
autonomia tributaria, tuttavia hanno il limite di armonia con il sistema statale e indirettamente si
riportano i limiti di cui sopra.
Le tipologie di tributi che il sistema tributario regionale conosce:
1) Tributi propri, realizzano davvero l’autonomia tributaria delle regioni, ci deve essere un
tributo istituito e regolato dalla regione e di cui quest’ultima ha la titolarità;
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2) Tributi propri derivati, non sono veri e propri tributi, sono istituiti da una legge statale e
disciplinati da questa rispetto ai quali la regione ha la titolarità del credito e può prevedere
parzialmente alcuni aspetti di disciplina (es. IRAP);
3) Addizionali, la più famosa è la addizionale regionale all’IRPEF, la finalità è di garantire un
ulteriore gettito.
Nelle provincie e nei comuni non si possono emanare leggi, per questo motivo questi enti hanno
solo la disponibilità di esercitare la propria autonomia nei tributi propri derivati, ovvero quei
tributi istituiti e disciplinati o da una legge statale o da una legge regionale, rispetto ai quali
possono prevedere alcuni elementi di disciplina e rispetto ai quali hanno la titolarità del credito
(es. IMU).
Per fonti di soft law si intendono regole che non hanno valore percettivo, non producono norme
cogenti ma producono modelli di norme che possono diventare norme giuridiche proprie se
tradotte in leggi, è un “diritto morbido”. In materia tributaria esistono fenomeni che in senso lato
definiamo come evasione/ elusione fiscale internazionale in cui l’intervento dei singoli stati e dei
singoli legislatori è troppo limitato (es. tassazione rendite finanziarie), alcuni aspetti così hanno
bisogno del consenso internazionale e addirittura mondiale e perciò ci si rifà alla soft law.
Il diritto tributario italiano ruota intorno a due principi costituzionali, dettati dagli art. 23 (riserva di
legge) e 53 (capacità contributiva e progressività). Queste due norme sono importanti perché
regolano i rapporti tra stato e i singoli, e sono norme definiscono i confini di quello che è il giusto
tributo: ciò significa che lo Stato può prevedere la spesa dei singoli solo alle condizioni previsti dagli
art.23 e 53, che si rivolgono al legislatore e sono appunto un vincolo nel senso che non possono non
essere presi in considerazione. Al tempo stesso il diritto di un singolo del giusto tributo diventa
anche un vincolo di pagamento.
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- Non si parla di tributi all’art.23, ma di prestazione patrimoniale impostata: questo concetto
è più ampio del tributo, cioè il tributo è la prestazione patrimoniale imposta più importante.
La prestazione patrimoniale si caratterizza per due elementi:
o Coattività: la prestazione deve essere imposta al singolo con un atto di imperio
o Deve realizzare una decurtazione patrimoniale (cioè impoverire il singolo)
L’art.23 Cost. ha una riseva assoluta o relativa? à In materia tributaria è una riserva relativa e quindi
c’è un ricorso ad atto normativi inferiori alla legge; questo si deduce sia da un’interpretazione
letterale che da un concetto strettamente storico legato alla legge, infatti esistono due settori: uno
dove c’è la legge e uno dove è possibile anche la disciplina di atti normativi inferiori alla legge.
Come si distinguono questi due settori? à Se si tratta di disciplina sostanziale, questa deve essere
sola nella legge (unica eccezione è l’aliquota), mentre se si tratta di disciplina del procedimento è
nel secondo settore ma c’è sempre una legge di riferimento di base.
L’art.23 parla di ‘’legge’’, che cose intende per legge? àIntende la legge del parlamento, disciplinata
dagli art.71 e seguenti, ma anche gli altri atti equiparati alla legge quindi decreto legislativo, legge e
decreto regionale. Sia nel D.Lgs che nel D.L. c’è un controllo parlamentare, ovvero la legge delega e
quindi il controllo del parlamento c’è ma è successivo.
Qual è il rapporto tra la riserva di legge e le fonti subordinate?à Le fonti subordinate sono i
regolamenti che possono essere statali o degli enti locali.
Con il termine “regolamenti statali” intendiamo quelli governativi o ministeriali: esistono ben 6
tipologie di regolamenti definititi dalla legge n. 400/1988.
Sono ammessi:
- Regolamenti esecutivi: disciplinano in dettaglio
- Regolamenti attuativi ed integrativi: completano norme di legge che pongono principi di una
disciplina
- Regolamenti organizzativi: pongono una valenza organizzativi
Non sono ammessi:
- Regolamenti autonomi o indipendenti: intervengono su materie che non hanno disciplina
normativa
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- Regolamenti delegati: procedimento di delegificazione, quando c’è una riserva di legge piena
come quella sostanziale i regolamenti non hanno un’operatività
L’art. 53 limita il legislatore per quanto riguarda i soggetti che possono essere tassati: il legislatore
deve individuare i soggetti passivi del tributo, cioè individuare il contribuente, e questo è sottoposto
a determinati vincoli. L’art. 53 della Costituzione, in termini di ambito soggettivo (cioè soggetto
passivo), è particolarmente ampio: non viene detto che i cittadini devono pagare i tributi, né che i
residenti in italia devono pagare i tributi, ma il termine utilizzato dall’art. 53 è “tutti”. Tutti sono
tenuti a concorrere alle spese pubbliche: tale scelta è molto ampia. Se lo Statuto Albertino si riferiva
ai soli cittadini, la definizione attuale in Costituzione prevede invece davvero tutti, cioè qualunque
soggetto, persona fisica o giuridica, a prescindere dalla cittadinanza o dal luogo di provenienza del
soggetto. Il “tutti” non significa che ogni soggetto nel mondo deve essere tassato in Italia, ma che
ogni soggetto nel mondo può potenzialmente essere assoggettato a tassazione in Italia: ciò che
emerge dall’interpretazione dell’art. 53 Cost. è che per assoggettare a tassazione qualcuno è
necessario che si individui un legame tra il soggetto e il territorio (e quindi il soggetto e la comunità
statale) che sia rilevante in termine di forza economica espressa in questo legame. È necessario che
il soggetto rilevi un collegamento con il territorio a livello di capacità contributiva e forza economica
espressa su quel territorio: questa definizione è molto ampia, ma il legislatore deve declinare tale
principio in relazione ai singoli tributi e alle singole forze economiche espresse da quei tributi.
Un criterio importante nel nostro sistema è il criterio della residenza: la persona fisica o la società
residente fiscalmente in Italia è tassato in italia su tutti i redditi che produce.
Un altro criterio oltre alla residenza (per le imposte sul reddito) è il criterio del luogo di produzione
del reddito: un non residente in Italia che produce reddito in italia è comunque tassato in Italia.
Analogamente, la residenza può diventare irrilevante in altri tributi (es IVA) ...
Il criterio della cittadinanza in Italia, dal punto fiscale, è totalmente irrilevante, ma rilevano altri
criteri di collegamento.
Una volta individuato il collegamento rilevante ai fini fiscali, il legislatore deve identificare il
contribuente come colui che manifesta quella forza economica.
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Il presupposto del tributo è quell’atto/fatto al cui verificarsi sorge l’obbligazione tributaria: il
presupposto esprime la forza economica (capacità contributiva) colpita da quel tributo.
L’idea è che i singoli tributi, per essere in linea con l’art. 53 Cost., debbano avere come presupposto
la forza economica del singolo. La forza economica cioè la capacità economica di un soggetto è
unica, però può essere espressa da una pluralità di “fatti indice”: i tributi, per essere in linea con
l’art. 53, devono avere come presupposto un fatto indice espressione di forza economica del
soggetto. Questo è ciò che dice l’art. 53 Cost.: i fatti indice tradizionali sono il reddito, il patrimonio,
i consumi, le attività giuridiche dei singoli. Ciò che il legislatore NON può fare perché sarebbe
incostituzionale ai sensi dell’art. 53 Cost. è costruire tributi che non hanno come presupposto fatti
economicamente rilevanti espressivi di forza economica (es: tributo per chi è più alto di 1.80 m,
tributo sulla barba in Russia, tributo per chi non si sposava nel ventennio fascista, tributo provinciale
per chi possiede cani fino al 1970). Il problema che gli Stati hanno è quello di individuare nuovi fatti
indice espressivi di forza economica oltre quelli tradizionali: tale esigenza è manifestata dagli Stati
moderni innanzitutto perché quasi tutti gli Stati hanno sempre l’esigenza di avere del denaro e
necessitano di diversificare i fatti indice. Inoltre, spesso vi è l’esigenza di sottoporre a tassazione
fenomeni economici cosiddetti “nuovi” che con la fiscalità tradizionale sfuggirebbero
dall’imposizione (ad esempio la tassazione dei colossi del web).
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questo si spiega perché ad esempio chi non inquina spende più soldi e quindi non merita una
maggiore imposizione fiscale, e analogamente l’ambiente è una forza economica, e quindi
se lo inquina è giusto pagare una tassa per questo.
Un altro esempio è la sugar tax, in ragione di scelte alimentari (fiscalità alimentare): il
contribuente è orientato a prediligere uno stile di vita più sano perché le scelte alimentari
meno sane sono più tassate (per la sugar tax, ad esempio, sono più tassate le aziende che
tassano le bibite gassate con zucchero, oppure la chips tax...). Chi consuma questi beni ha
un’imposizione fiscale maggiore.
Ci si deve chiedere se questo è costituzionale in termine di forza economica: la giustificazione
classica che si dà a questi tributi è quella che uno stile di vita poco sano può determinare dei
costi alti per la collettività (sanità ecc). Il tributo deve però colpire una forza economica, e a
questo punto si può dire che non c’è una forza economica differenziale, ma anzi i beni
maggiormente dannosi sono quelli più accessibili alla popolazione con una forza economica
minore. Questi tributi però non hanno dimostrato avere efficacia perché il contribuente
andrebbe a diversificare i suoi acquisiti (non compra più Coca Cola ma la Cola del Lidl).
Se il tributo persegue delle finalità morali ed etiche è invece illegittimo ai sensi dell’art. 53:
la tassazione dei cibi spazzatura è un po’ al limite con questo discorso, e si salva solo per
l’affermazione che il cibo spazzatura impatta in sistema sanitario. Un tributo con finalità
morali ed etiche, ancora attualmente in vigore, è l’addizionale Irpef/Ires che tassa con un
ulteriore 25% rispetto alle imposte ordinarie per le imprese che operano nei settori della
produzione e vendita di materiale pornografico, di incitamento alla violenza o che sfrutta
l’incredulità popolare (maghi, cartomanti ecc)
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L’art. 53 comma 2 dice che il sistema tributario deve essere progressivo nel complesso, NON che
tutti i tributi sono progressivi (infatti, solo l’IRPEF è progressivo, tutti gli altri sono tributi
proporzionali). Questo è costituzionale perché l’IRPEF rappresenta la maggiorparte del gettito delle
casse dello Stato, che colpisce la ricchezza globale delle persone fisiche. Finchè l’IRPEF è progressiva,
il sistema può dirsi progressivo, e quindi è rispettato l’art. 53 comma 2.
Se l’IRPEF perdesse la progressività (e diventasse una Flat Tax) il nostro sistema diventerebbe
sicuramente un sistema incostituzionale perché il sistema non sarebbe più progressivo.
Ciò detto, il 53 comma 2 non impone al legislatore tributario una forte progressività, perché la
Costituzione dice che il sistema deve essere progressivo, non “tanto progressivo”: viene quindi
lasciata grande discrezionalità al legislatore decidere se la progressività deve essere spinta, blanda,
media...
Quindi, se l’IRPEF diventasse non una Flat Tax ma una Dual Tax (due aliquote), la progressività
rimarrebbe, sarebbe una progressività blanda, ma pur sempre costituzionale.
Art. 75/2 Costà L’art. 75 comma 2 della Costituzione vieta il referendum abrogativo per alcune
materie, tra cui la materia tributaria. Il referendum abrogativo non è previsto per la materia
tributaria per ragioni di protezione.
Art. 81 Costà L’art. 81 della Costituzione richiede un tendenziale equilibrio tra entrate e uscite e
concerne la materia tributaria come parte delle entrate.
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Dall’art. 53 non deriva un divieto della retroattività, ma deriva un limite che riguarda l’attualità della
forza economica attuale. Possono esserci ipotesi di leggi tributarie retroattive costituzionali (legge
che entra in vigore oggi che colpisce una forza economica di ieri, anche se è passata, ma questa è
ancora sussistente, cioè esplica gli effetti nel presente, cioè la forza economica è attuale). Es.: Legge
tributaria 1992: la Corte costituzionale si chiede se questa è una legge retroattiva, e lo fa utilizzando
un criterio di ragionevolezza. La legge del 1992 colpisce una forza economica attuale perché è
ragionevole considerare che essendo passati pochi giorni sia attuale (il fattore del tempo e della
prevedibilità è molto importante nell’ambito tributario).
Il valore dei principi statutari è un valore interpretativo, ossia qualora ci siano dei dubbi non vale
come regola cogente, ma vale nel caso di interpretazione di un’altra legge e come criterio guida in
ambito interpretativo e lo interpretiamo per escludere la retroattività. I principi statutari vengono
utilizzati come criteri interpretativi.
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La tipologia dell’obbligazione tributaria è quella di diritto pubblico, perché il tributo è un atto di
imperio che impoverisce il singolo senza corrispettività, lo Stato così esplica la sua sovranità, (questa
è una esigenza dello Stato).
L’aspetto pubblicistico si manifesta in diversi momenti: l’aspetto più rilevante è nell’attuazione, cioè
l’adempimento dell’obbligazione tributaria che segue regole che si allontanano da quelle
privatistiche e che riguardano quelle pubblicistiche: l’attuazione del tributo segue un procedimento
amministrativo che evidenzia il carattere pubblicistico.
Il rapporto tra soggetto attivo e soggetto passivo è complesso ed è una complessità soggettiva che
riguarda i soggetti coinvolti nel rapporto.
Soggetto passivo
I soggetti passivi possono essere più di uno.
Quello che non può mai mancare è il contribuente che realizza il presupposto del tributo e manifesta
la forza economica: in alcuni modelli tributari accanto al contribuente vi possono essere altri
soggetti e sono il sostituto d’imposta e il responsabile d’imposta (es. il sostituto è il datore di lavoro
per le imposte sui redditi del lavoratore e il responsabile è il notaio quando si vanno a stipulare atti).
C’è anche una complessità oggettiva e cioè abbiamo l’obbligazione tributaria e altri obblighi, ovvero
non c’è solo la prestazione pecuniaria a titolo di tributo ma ci sono altri obblighi passivi
(assoggettamento ai poteri dello Stato quando va ad accertare i contribuenti in cui il contribuente
ha una posizione passiva e subisce la posizione attiva dello stato), così come i soggetti passivi
possono essere titolari a loro volta di situazioni attive nei confronti dello stato e i soggetti passivi
diventano creditori di tributi nei confronti del soggetto attivo e vantano diritti di credito nei
confronti dello stato.
Il rapporto obbligatorio può avere una duplicazione, ossia alcuni tributi possono creare una
divaricazione tra il contribuente di diritto e quello di fatto. Il primo realizza il presupposto del tributo
e nella singola legge di imposta è considerato il debitore; mentre il secondo è quel soggetto estraneo
al rapporto tributario che non ha nessun rapporto giuridico con lo Stato ed è colui che sopporta il
peso economico del tributo (in altre parole, è colui a cui viene traslato il peso economico del tributo).
La traslazione può essere di due tipi: può essere traslazione normativa giuridica, per cui la legge
impone la traslazione, oppure può essere pattizia, negoziale tra contraente di fatto e di diritto,
facendo sì che un soggetto abbia un debito e lo trasla ad un altro soggetto (è l’accollo del debito di
imposta).
Soggetto attivo
Il soggetto attivo è l’ente pubblico territoriale (comuni/province/regioni) ed è titolare del credito
tributario; il soggetto attivo ha il diritto e il dovere di incassare il quantum del tributo e può
esercitare i poteri di accertamento e ha il rapporto giuridico con il contribuente. Vi sono soggetti
(che possono essere sia pubblici che privati) a cui parte del gettito viene devoluto: infatti, può essere
prevista legislativamente una destinazione finanziaria diversa. In proposito, il rapporto giuridico
tributario non è alterato (es. gettito dell’IRPEF (5/8x1000) a soggetti privati, perché i soggetti non
diventano titolari del credito del contribuente (il rapporto è direttamente con lo Stato).
Con il termine Amministrazione finanziaria si intende il complesso degli organi e degli uffici del
soggetto attivo del tributo che ha il compito istituzionale di curare l’attuazione dei tributi.
Il soggetto attivo è lo Stato ma l’insieme degli organi che hanno il compito di attuare il rapporto
giuridico finanziario è l’amministrazione finanziaria. Il ruolo più importante è rivestito dalle agenzie
fiscali che sono degli enti di diritto pubblico che hanno autonomia organizzativa e patrimoniale e
che sono sottoposti alla vigilanza e all’indirizzo del MEF (Ministero Economia e Finanze); la specifica
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competenza fiscale però è nelle mani delle agenzie fiscali (agenzia delle entrate, agenzia dogane,
agenzia del demanio e territorio assorbita da quella delle entrate...).
L’Agenzia delle entrate ha una struttura centrale a Roma (con compiti di programmazione e indirizzo
delle singole entità territoriali), una struttura regionale (con compiti di coordinamento dei singoli
uffici) e una struttura provinciale (con lo specifico compito di curare l’attuazione e lo svolgimento
del rapporto tributario con riferimento a quei contribuenti che in quelle province hanno il domicilio
fiscale).
L’Agenzia delle entrate ha il ruolo diretto di riscossione del tributo, ma fanno parte
dell’amministrazione tributaria dello Stato anche altri enti:
- Guardia di Finanza: ha compiti di verifica e di controllo
- Equitalia: ha il compito di riscossione coattiva dei tributi che è dell’agenzia delle
entrate/riscossione;
- Garante del contribuente, appartiene all’amministrazione finanziaria solo in senso lato, aiuta
il contribuente quando ha problemi amministrativi, non ha veri poteri, non può sanzionare
e non ha poteri autoritativi, non può intervenire sull’efficacia di atti.
Il sostituto d’imposta è definito dall’art. 64/1 del D.p.R 600/1973: è il soggetto che in forza di una
disposizione di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, con obbligo di rivalsa: si
ha sostituzione tributaria quando vi è un contribuente che ha realizzato un presupposto d’imposta
e quindi ha capacità contributiva. A tal punto, la Legge decide di innestare una obbligazione
tributaria autonoma in capo al sostituto che tende a sostituire l’obbligazione tributaria del
contribuente, nel senso che l’adempimento da parte del sostituto libera l’adempimento del
contribuente. Nella sostituzione tributaria colui che mostra la capacità contributiva è il
contribuente, mentre il sostituto è titolare sul lato passivo di un debito di imposta su un presupposto
manifestato da altri. Per fare in modo che questa situazione non diventi patologica la legge prevede
che questa situazione venga risolta attraverso la rivalsa obbligatoria tra sostituto e sostituito
(contribuente).
Le ipotesi di sostituto di imposta sono di due tipi:
1) Sostituzione di imposta parziale che corrisponde alle ipotesi di ritenute a titolo di acconto,
un esempio è il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore e la base è che vi è un soggetto
(datore) che ha un obbligo privatistico di corrispondere un reddito (lo stipendio) a un
lavoratore e dal punto di vista fiscale il contribuente (colui che realizza il presupposto ed è
soggetto passivo del tributo) è il lavoratore perché produce un reddito. La legge però
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prevede che il datore di lavoro nel momento in cui eroga al lavoratore lo stipendio abbia
l’obbligo fiscale di trattenere parte dello stipendio e versarlo allo Stato. È una sostituzione
parziale perché la ritenuta è a titolo di acconto, cioè non esaurisce il rapporto tributario tra
contribuente e soggetto attivo, le somme prelevate dal sostituto a titolo di acconto sono
acconti che sarò il contribuente a dover consolidare nei confronti dello Stato.
Il sostituto non manifesta forza economica, ma è il contribuente (lavoratore) a manifestarla.
Esempio di sostituto parziale: Tizio è datore di lavoro e Caio è lavoratore. Caio ha diritto a
100€ di retribuzione ma deve pagare 20 di imposta. Tizio paga i 20 come sostituto di Caio e
quindi Caio percepisce 80 e non 100. I 20 che Tizio paga per Caio sono solo a titolo di acconto!
Si parla di sostituzione parziale perché il lavoratore non è completamente liberato
dall’obbligazione: il lavoratore ha ancora degli obblighi fiscali, perché quando farà la
dichiarazione dei redditi verranno calcolate le altre imposte (IRPEF) e se deve altri soldi dovrà
darli all’Amministrazione finanziaria.
2) Sostituzione integrale di imposta che corrispondono alle ipotesi di ritenute a titolo di
imposta, il soggetto eroga un reddito ad un altro soggetto con obbligo di trattenere una
parte e darla allo Stato, la sostituzione è integrale nel senso che il contribuente che viene
sostituito viene totalmente estromesso dal rapporto giuridico e non ha nessun dovere nei
confronti dello Stato. Un esempio è quel del deposito bancario che produce interessi che
sono redditi di capitale e su questi interessi il correntista deve pagare i tributi, la banca deve
trattenere una parte di questi interessi che eroga e versarli allo Stato.
Esempio di sostituto integrale: una banca eroga 100€ come interessi di deposito (reddito
capitale): Il reddito lo produce Tizio correntista, ma è la banca (sostituto integrale) a dover
trattenere il 20€ di tassa allo Stato. Quando Tizio riceve queste somme al netto e subisce la
ritenuta, la sua obbligazione di sostituisce integralmente con l’obbligazione nei confronti
dello Stato della banca. Tizio correntista non deve fare altro, non ha altre obbligazioni.
Può capitare che il sostituto non adempia all’obbligo di effettuare la ritenuta o la effettua e non la
versa: nel primo caso lo Stato può rivalersi sia sul sostituto che sul sostituito, se invece ci si trova nel
secondo caso lo Stato può chiedere il pagamento del dovuto solo al sostituto.
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Nell’art. 63/3 il responsabile di imposta è colui che è obbligato all’adempimento dell’imposta
insieme ad altri per fatti o situazioni a questi riferibili. Il responsabile con la forza economica non
c’entra niente, non realizza il presupposto perché quest’ultimo si manifesta con il contribuente, il
responsabile è obbligato al pagamento del tributo insieme al contribuente (solidarietà passiva).
Attraverso la responsabilità tributaria si vuole evitare l’evasione, un esempio è il notaio che redige
atti pubblici, questo ha la responsabilità di imposta e prevede che un autonomo obbligo si affianca
a quello del contribuente e se il tributo non viene versato si può procedere con l’esecuzione forzata
indifferentemente in capo al notaio o alle parti dell’atto. Concretamente, il notaio non ha il
vantaggio a evadere perché ha una responsabilità, così con questa figura si crea una garanzia
affinché il tributo sia versato nei modi e nei tempi giusti.
Il fatto che esista un responsabile d’imposta fa nascere un’obbligazione solidale: il creditore può
chiedere l’intero a qualunque dei condebitori. La solidarietà, ovvero l’obbligazione solidale, in
materia tributaria può essere di due tipi:
- Solidarietà dipendente: è l’obbligazione solidale tipica del responsabile d’imposta: il
contribuente e il responsabile (es. notaio) sono legati da una solidarietà dipendente. Ci sono
due obbligazioni, ovvero quella del contribuente e quella del responsabile:
o obbligazione del contribuente: è l’obbligazione principale, e quindi il contribuente è
l’obbligato/debitore principale.
o obbligazione del responsabile: è l’obbligazione dipendente, perché la fonte della
legittimazione dell’obbligazione del responsabile d’imposta dipende dalla
sussistenza dell’obbligazione principale.
- Solidarietà paritetica: non ci sono una principale e una dipendente, ma i condebitori hanno
un rapporto paritetico tra di loro (es: due comproprietari di una casa sono entrambi
contribuenti in modo solidale, cioè lo Stato può andare da uno dei due indifferentemente
per riscuotere un tributo)
La successione nel debito d’imposta per estinzione delle societàà la Cassazione e il Codice civile
prevedono la successione dei soci nelle posizioni giuridiche attive e passive dell’ente. Se residua un
debito fiscale della società, questo debito si trasferisce ai soci senza limitazione quantitativa (per le
società di persone) o nel limite del quantum che i soci hanno percepito al termine della liquidazione
(per le società di capitali). È anche questo un fenomeno di successione universale, ma è un evento
molto simile a ciò che accade per la morte di una persona fisica come spiegato sopra.
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L’estinzione dell’obbligazione tributaria
1. Modi di estinzione satisfattivi: è la modalità ordinaria, e prevede l’adempimento
dell’obbligazione tributaria. Il contribuente adempie pagando il tributo seguendo le norme
procedimentali del procedimento amministrativo tributario (ed entro i tempi previsti!). si può
adempiere in diversi modi:
- Adempimento spontaneo: avviene con il versamento diretto (con canali tracciabili/bancari,
con moneta contante tramite intermediari...), con la compensazione (utilizzo delle posizioni
di credito verso l’amministrazione finanziaria) oppure con la ritenuta diretta (ipotesi
marginale che vedremo più avanti).
- Prestazione in luogo dell’adempimento: se il creditore acconsente, il debitore sostituisce
l’adempimento dell’obbligazione tributaria con un dare o un fare: è possibile nell’imposta
sulle successioni e nelle imposte dei redditi, dove il contribuente che possieda certi requisiti
e certi iter amministrativi, può adempiere ai propri debiti di imposte trasferendo allo Stato
beni culturali.
- Confusione: la posizione del debitore e del creditore combacia nella stessa persona. Es:
imposta sulle successioni: se non ci sono eredi o testamento lo Stato subentra per
successione mortis causa nelle posizioni attive. Se ciò accade e lo Stato eredita un debito
fiscale, questo si estingue per confusione. È un’ipotesi molto marginale
2. Modi di estinzione non satisfattivi: non comportano una soddisfazione delle ragioni di credito
dello Stato. Non trovano ingresso nel diritto tributario certi istituti in quanto non compatibili con
l’obbligazione pubblica e/o con i principi costituzionali in materia tributaria:
- Remissione: si parla di remissione quando il creditore può estinguere o rinunciare al credito.
Ciò non può accadere nel rapporto tributario. Diverso è quando si parla di rottamazione delle
cartelle esattoriali o condoni vari: in tali casi è il legislatore a prevedere certe ipotesi
- Novazione: non è possibile nel rapporto giuridico tributario
- Impossibilità definitiva o temporanea della prestazione: non è mai una causa di estinzione
perché l’obbligazione tributaria è pecuniaria, e quindi non è mai una prestazione
giuridicamente impossibile.
L’estinzione può tuttavia avvenire mediante modi di estinzione eccezionali: tra questi ricordiamo il
condono. Non esiste una definizione di condono perché in nessun provvedimento di legge vi è tale
definizione. Si può tentare di individuare dei caratteri comuni che nel tempo hanno caratterizzato il
nostro sistema. Il condono è un’ipotesi di estinzione dell’obbligazione tributaria tendenzialmente
incostituzionale se ripetuto periodicamente (viola la riserva di legge e la capacità contributiva). Nel
nostro paese quasi ogni governo prevede dei condoni, strappando i principi costituzionali in materia
tributaria. Spesso, di fronte ad un’esigenza politica o molto più spesso di cassa, i vari governi hanno
cercato di nascondere il fatto che si trattasse di un vero condono dando nomi diversi a quelli che in
realtà sono condoni: rientri di capitali, rottamazione delle cartelle, scudo fiscale, pace fiscale, saldo
e stralcio...
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Possiamo definire gli istituti di condono come delle discipline temporanee che consentono ai
contribuenti di definire i propri rapporti tributari in modo agevolato, conseguendo il risultato di
estinguere in tutto o in parte un’obbligazione tributaria non adempiuta e ottenere un annullamento
o una riduzione delle sanzioni applicabili. In pratica il contribuente paga solo in parte o paga tutto
subito, con poche o nessuna sanzione per il ritardo... Lo Stato vuole incassare subito, e piuttosto
che utilizzare l’Agenzia delle entrate per far pagare tutti tra molti anni (e forse...) preferisce far
pagare, magari non tutto, per sanare la situazione.
Questo è uno strappo al principio di capacità contributiva perché in questo modo non viene
rispettato il principio di uguaglianza: ci saranno certi contribuenti che pagano di più o di meno, o
ancora, verranno premiati con l’eliminazione delle sanzioni pur avendo pagato in ritardo. Esistono
diversi tipi di condoni: i condoni più gravi sono quelli che ti permettono di pagare molto meno
rispetto all’imposta originaria (mi dovevi 100 ma dammi 20 e siamo a posto); meno gravi sono i
condoni recenti proposti dai governi Conte, che si basano sulle sanzioni (mi dovresti 100 + le
sanzioni, ma dammi solo 100). Diversi sono i condoni processuali, dove versando una parte della
parte controversa si chiude il processo con la finalità di estinguere i processi in corso. Ci possono
essere anche forme di condono miste.
Il motivo principale dei condoni è un motivo di cassa: quando lo Stato ha esigenze finanziarie
immediate, il modo più semplice per ottenere un afflusso di denaro immediato è un provvedimento
di condono. Il cittadino è molto interessato, perché è un modo facile per sanare la propria posizione
tributaria. La conflittualità tributaria determinata dall’incertezza normativa è molto alta: certe volte
per evitare ulteriori controlli si accetta di pagare una somma, per una sorta di tranquillità tributaria
del cittadino. Inoltre, quando vi è una forte crisi economica molti cittadini si possono trovare in una
posizione di difficoltà a pagare i debiti tributari (una sorta di evasione necessitata) e in queste ipotesi
i condoni potrebbero consentire di dare un aiuto a questi soggetti.
Altra finalità del condono è il caso di una nuova riforma fiscale, per riallineare le situazioni il condono
può permettere di chiudere le posizioni pendenti e aprire un nuovo modello fiscale (questa è solo
una finalità teorica...)
La forza economica
Tizio ha un reddito annuo di 2.000€, tassato (IRPEF), vengono circa 13.000 euro. 5.000 euro li spende
in consumi (tassati con l’IVA). 8.000 li risparmia in un conto corrente (tassato, es. con IVAFE). Se
acquista un immobile, l’acquisto è tassato con l’imposta di registro, ed anche il possesso dello stesso
è tassato.
La capacità economica di Tizio è unica, dipende dal suo reddito, che è tassato in molteplici fati
(quando è incassato, accantonato od utilizzato). Il legislatore però prevede di colpire le diverse
manifestazioni dell’unica forza economica del soggetto con diverse tassazioni.
Perché quindi non prevedere un unico tributo? Il motivo principale è quello “dell’illusione
finanziaria” (fenomeno elaborato dagli economisti): se i tributi sono molteplici (“parcellizzati”), in
diversi momenti, il soggetto non realizza concretamente quanto è davvero tassato dallo Stato.
Inoltre, se i tributi sono una pluralità, il legislatore riesce meglio a muoversi negli interventi di
politica fiscale (es. intervenire solo sugli immobili, o sulle pensioni). Ultima ragione è che così può
tassare diversamente in base al tributo le diverse fasce di popolazione. Così si evita anche
“l’evasione totale”: i grandi evasori difficilmente evadono tutti i tributi, ma se ce ne fosse solo uno,
solo quello potrebbe essere omesso.
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1. IRPEF e IRES
IRPEF e IRES sono imposte che prevedono una tassazione generale sul reddito, una per le persone
fisiche, una per le persone giuridiche. Alle persone fisiche si aggiungono quelle addizionali (regionali
e comunali).
Imposte generali sul patrimonio nel nostro ordinamento non ce ne sono: ciò non significa che il
patrimonio non sia colpito, ma vengono aggrediti specifici beni patrimoniali con singole imposte (es.
IMU per immobili, IVE per conto corrente, IVAFE per conto corrente all’estero ecc.). La motivazione
è sempre quella dell’illusione finanziaria.
Le imposte che colpiscono il patrimonio o il reddito sono dette imposte dirette (perché colpiscono
le manifestazioni dirette della forza economica).
Le altre imposte invece sono dette indirette, perché colpiscono indirette manifestazioni di forza
economica, ad esempio l’IVA per i consumi (che derivano dal reddito o dal patrimonio)
Altre imposte indirette degne di nota sono l’IRAP (imposta regionale attività produttive), imposte
sulla fabbricazione e sul consumo (accise), imposte di deposito e imposte catastali ed ipotecarie per
gli immobili. Ce ne sono numerose altre ma non le analizzeremo in questo corso (es. Tobin tax, tasse
universitarie, TARI, ecc.)
Tornando alla tassazione sul reddito, IRPEF e IRES hanno un ambito applicativo diverso per la natura
soggettiva, a seconda che siano persone fisiche oppure società ed enti (pubblici, privati, commerciali
e non commerciali). Sono due tributi anche strutturalmente diversi: in primo luogo cambiano le
aliquote e l’entità della tassazione. IRPEF è progressiva (aliquote che aumentano all’aumentare del
reddito – per scaglioni-), IRES è proporzionale (un’unica aliquota). IRPEF è poi una imposta personale
(da rilievo alle condizioni personali e familiari del soggetto), mentre IRES per sua stessa natura non
può esserlo. Una imposta personale, ad esempio, può essere ridotta se il contribuente ha persone
a carico, o ha dovuto sostenere spese mediche importanti nell’anno ecc.
Uguali invece per i due tributi sono il presupposto e la base imponibile. Il presupposto è dato dal
testo unico sulle imposte sui redditi (TUIR – D.p.R 917/1986). Il TUIR è stato modificato comunque
nel tempo, il più importante intervento è stato nel 2003.
Il presupposto (concetto fiscale di reddito) è in particolare agli artt. 1 (persone) e 72 (società):
“Possesso di redditi in denaro o in natura rientranti in una delle categorie indicate all’art. 6”.
Cos’è quindi il reddito fiscale?
• Incremento di patrimonio
• Incremento patrimoniale misurato in un determinato periodo di tempo convenzionalmente
indicato con l’anno solare (flusso reddituale)
• Incremento del patrimonio che deriva da una specifica fonte produttiva tassativamente
indicata dal legislatore all’art.6
• Possesso: relazione giuridica fra reddito, disponibilità giuridica e capacità contributiva.
Incremento del patrimonio
Un reddito fiscale è tale solo se comporta un incremento patrimoniale.
Caso 1
Tizio ha un incidente automobilistico. Sta sfrecciando con il suo monopattino elettrico e viene
investito da un’auto, che ha torto. Tizio si fa versare 5.000 euro dall’assicurazione per il
monopattino, 3.000 euro per la fisioterapia, 10.000 euro per il negozio che è rimasto chiuso e non
ha prodotto reddito. Nel 2020 la compagnia assicurativa versa a Tizio 18.000 euro, che ne
incrementano il patrimonio. Ma sono un incremento patrimoniale? I primi 8.000 sicuramente no,
sono somme che hanno la funzione e l’effetto di equilibrare una perdita patrimoniale che il soggetto
ha subito.
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La domanda da farsi è: copre un danno emergente o un lucro cessante? I risarcimenti di danni
emergenti NON sono mai incrementi di reddito. Mentre i 10.000 sono una somma che copre il
mancato reddito (lucro cessante), quindi costituiscono un incremento patrimoniale. Devono perciò
essere tassati.
Caso 2
Tizio nel 2020 subisce mobbing sul posto di lavoro a seguito delle quali viene licenziato. Tizio
impugna il licenziamento ed ottiene un risarcimento di 50.000 euro dal datore di lavoro. 25.000 per
il mobbing e 25.000 per il licenziamento illegittimo. Sono reddito? Il risarcimento per il mobbing,
anche se non c’è un danno economico in senso stretto, è comunque un risarcimento per un danno
emergente. Mentre il risarcimento per le mensilità perse, è reddito e come tale viene tassato.
Incremento del patrimonio che deriva da una specifica fonte produttiva tassativamente indicata
Il legislatore non assoggetta a tassazione tutti gli incrementi reddituali dell’anno, ma solo quelle che
derivano da specifiche fonti produttive, ovvero quelle individuabili nelle 6 categorie di reddito (fonti
produttive) indicate all’art.6 dei TUIR (VEDI ULTIMO CAPITOLO!):
• Redditi fondiari (immobili)
• Redditi di capitale (investimenti mobiliari)
• Redditi da lavoro dipendente
• Redditi da lavoro autonomo
• Redditi d’impresa
• Redditi diversi
Caso 1
La zia Mevia muore. Tizio è erede e riceve per successione testamentaria un immobile (1milione di
euro) e una cifra di 100.000 euro. Ma è un incremento produttivo inquadrabile in una delle sei
categorie legislative? No, non c’è una attività del soggetto. Dopo sarà tassato per altre vie, ma non
come reddito.
Caso 2
Tizio nel 2021 svolge una attività di accompagnatore. Accompagna a serate galanti persone di vario
genere, con conseguenti prestazioni sessuali. Nell’anno riceve compensi per 500.000 euro. Questa
somma è reddito?
Caso 3
Mevio nel 2021 esercita una attività di traffico di organi umani. Percepisce nell’anno compensi per
1milione di euro. Sono tassabili come reddito?
Alla base c’è un dilemma morale: È giusto o non è giusto tassare i proventi delle attività illecite?
*non è giusto: opzione a) tassandole le considero legittime anche solo fiscalmente
opzione b): non è corretto che lo Stato si appropri di un provento di un reato
Esempio: i proventi della mafia riceve dal fisco: abbiamo la confisca, lo Stato non deve tassare ma
confiscare con un’ablazione totale. Rispetto ai risultati delle attività illecite rispetto alle quali c’è un
maggior disvalore sociale l’ordinamento giuridico prevede la confisca con il sequestro preventivo.
Se il singolo che ha commesso un reato e che ha un ottenuto un provento del reato e questo li viene
confiscato, non c’è possesso di reddito quindi la risposta coerente è la confisca quando quest’ultima
è prevista.
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C’è una disposizione del 2006 (D.L n. 223 che ha previsto che i proventi che derivano da atti illeciti,
salvo che non siano sottoposti a confisca, sono sempre assoggettati ad imposizione sui redditi e
devono essere collocati in una categoria reddituali e se questo non c‘è, si considerano “redditi
diversi”.
C’è una tassazione generalizzata, questo perché altrimenti non ci sarebbe equità sociale ovvero chi
ha proventi di attività lecite viene tassato invece chi compie attività illecite no.
Individuare una categoria reddituale vuol dire cambiare le modalità di tassazione, quindi è
importante capire dove collocare tale attività.
Negli ultimi anni al confine dell’illecito sono oggetto di accertamento fiscale.
Altro punto: un reddito è misurato in un arco temporale (365 gg), cioè ad ogni anno corrisponde un
reddito diverso e un automa obbligazione tributaria. Viene separato anno per anno in quanto può
essere che c’è un anno in cui sorge il reddito e un anno in cui viene percepito.
Tra questi due momenti e tipologie c’è la distinzione di due principi:
- Principio di competenza: prende in considerazione come anno rilevante quello in cui sorge il
diritto
- Principio di cassa indipendente: prende in considerazione l’anno dell’effettiva percezione
Vi sono categorie di redditi dove vige il principio di competenza e alcuni principi di cassa,
indipendente come ad esempio reddito autonomo.
Questi principi sono importanti perché c’è una separazione convenzionale per anno per anno.
Il sistema delle imposte sui redditi va a colpire il presupposto di imposta definito in termini identici
come il possesso di reddito, all’intero delle categorie reddituali ci sono le modalità in cui si
determina la base imponibile.
Le regole della base imponibile sono diverse a seconda delle categorie, questo perché diversificando
le regole si potesse dare una valutazione precisa della forza economica. Queste regole importanti
sono quasi uguali per Irpef e Ires.
Il soggetto attivo è sempre lo Stato, mentre i soggetti passivi sono diversi (a seconda che siano
persone fisiche o giuridiche, si applica l’IRPEF o l’IRES) ...
I soggetti passivi sono tecnicamente sia i soggetti residenti che i soggetti non residenti, e questo è
definito dall’art. 2 del TUIR à”soggetti passivi dell'imposta sono le persone fisiche, residenti e non
residenti nel territorio dello Stato.’’
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- Molti Stati, anche quello italiano, prevede (in via residuale) un credito di imposta per i
soggetti residenti in Italia che possono portarsi in detrazione italiana, le imposte pagate
all’estero.
Residenza fiscale
Vi sono una serie di criteri normativi per collocare la residenza di un soggetto in Italia oppure no.
La residenza è diversa se è una persona o un ente.
Per quanto riguarda l’onere della prova, di ciò se ne occupa l’agenzia delle entrate – salvo un’ipotesi:
disposizione anti-evasiva contenuta nell’art. 2 c. 2 bis. Questa disposizione prevede un’inversione
dell’onere della prova. Il contribuente deve dimostrare che non ha più l’effettiva residenza italiana.
*caso =quando un cittadino italiano si cancella dalle anagrafi della popolazione residente in Italia e
trasferisce la sua residenza in un paradiso fiscale si presume ancora residente in Italia se questo
soggetto non riesce a dimostrare che ha trasferito il domicilio e residenza all’estero.
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può scegliere di far tassare i redditi prodotti all’estero per soli 100.000€. Se questi soggetti hanno
dei familiari, questo regime è esteso anche ai familiari il cui importo si abbassa da 100.000€ a
25.000€. Questo regime agevolativo può durare al massimo 15 anni ed è ovviamente conveniente
per chi produce redditi milionari all’estero.
Es: CR7 è un calciatore professionista e si trasferisce dalla Spagna all’Italia ed usufruisce dell’art. 24
bis del TUIR. In Italia, CR7 produce redditi di lavoro dipendente in Italia pari a 3 milioni di euro. In
Inghilterra, tuttavia, vengono corrisposti a CR7 10 milioni di euro di royalty per diritti d’immagine.
Se fosse un contribuente ordinario, quei 10 milioni di euro incassati da CR7 sarebbero tassati dallo
Stato di residenza del soggetto (i 10 milioni si sommerebbero ai 3 milioni e quindi CR7 pagherebbe
imposte sui 13 milioni). Con il regime sostitutivo, la tassazione su questi 10 milioni è 100.000€. Se
poi il soggetto ha altri redditi in Francia, Belgio ecc, è sempre e solo 100.000€. Questa agevolazione,
quindi, si rivolge solo ai soggetti ricchi e cerca di attrarre la residenza di soggetti che producono
redditi milionari. Questo vale anche per i familiari: se Georgina produce redditi di 2 milioni euro
l’anno, Georgina pagherà 25 mila euro l’anno in quanto familiare.
Molti pensano che questo sarebbe incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 53 Cost., in quanto
imposta regressiva. Altri, ritengono che nonostante vi sia un rilevante problema in termini di
uguaglianza, questa norma serva a far venire in Italia questi soggetti milionari: se non vi fosse questa
norma l’Italia non incasserebbe nemmeno quei 100.000€.
Analogamente, vi sono norme simili anche in Portogallo, per attirare pensionati ricchi...
Un’agevolazione di questo genere è rappresentata dall’agevolazione sulle imposte di successione e
donazione (agevolazione fortissima in Italia), oppure le numerose agevolazioni per le imprese e le
società.
Soggetti
L’ambito di applicazione dell’IRPEF e dell’IRES è diverso: da un lato abbiamo le persone fisiche,
dall’altra le persone giuridiche (enti e società).
Per quanto riguarda i soggetti passivi IRES abbiamo:
- le società di capitali residenti
- enti commerciali residenti (pubblici e privati, compreso il trust commerciale)
- enti non commerciali residenti
- società di qualunque tipo e gli enti (commerciali e non), non residenti (solo per quanto
riguarda, ovviamente, il reddito prodotto in Italia)
Per quanto riguarda i soggetti passivi IRPEF, questi sono le persone fisiche (residenti e non residenti).
Mancano le società di persone: per queste, esiste un regime speciale tradizionale nel sistema
italiano, chiamato regime di trasparenza fiscale. Questo regime per le società di persone è previsto
dall’art. 5 del TUIR, e prevede che i redditi delle società di persone (SS, SNC, SAS) sono imputati e
tassati direttamente in capo ai soci della società indipendentemente dalla percezione da parte dei
soci di questi redditi. Quindi, i redditi delle società di persone non sono imputati e tassati come
redditi delle società di persone, ma come redditi dei soci che la costituiscono. L’imputazione dei
redditi è direttamente in capo ai soci indipendentemente dalla percezione.
Es: una SNC nel 2020 ha prodotto un reddito di 100. I soci sono 2: Tizio e Caio, soci paritari al 50%.
Tizio e Caio sono soggetti passivi IRPEF e pagano imposte sui 50 percepiti rispettivamente. La società
di persone NON è un soggetto passivo IRES, ma i 100 prodotti dalla società sono diventati 50 e 50
tassati in quanto IRPEF: questo è il principio di trasparenza.
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Ipotizziamo che Tizio e Caio decidano di non distribuirsi il reddito ma di costituire una riserva di 20
e 80 vengono distribuiti. Tizio percepisce dividendi per 40 e Caio percepisce dividendi per 40.
Tizio e Caio devono pagare di imposte per quanto percepito dalla società sempre 50 perché
l’imputazione prescinde dalla percezione di quel denaro da parte dei soci. Questo non è molto
conveniente per i soci, perché devono pagare imposte per 50 quando se ne sono messi in tasca 40.
È però anche vero che quando verranno distribuite le riserve, queste non saranno tassate perché lo
sono già state prima.
Rispetto alla residenza, cambia la questione per quanto riguarda i redditi tassabili: mentre la
persona fisica residente paga IRPEF su tutti i redditi prodotti, la persona fisica non residente paga
l’IRPEF solo sui redditi prodotti in Italia. Un reddito si può dire prodotto in Italia quando vengono
soddisfatti i requisiti previsti dall’art. 23 del TUIR...
Il presupposto dell’IRPEF è il possesso di redditi in denaro e in natura. Ogni categoria di reddito
(fondiari, di capitali, ecc.…) ha delle regole diverse per la determinazione della base imponibile
(N.D.R.: questo non viene affrontato a lezione, ma bisogna farlo dal manuale...).
Una volta che abbiamo determinato le regole di funzionamento delle singole categorie reddituali,
per determinare la base imponibile IRPEF devo definire il reddito complessivo del soggetto. Questo
è dato dalla somma di tutti i redditi del soggetto. La somma è algebrica: alcuni fattori hanno un più
e altri potrebbero avere un meno. Infatti, per quanto riguarda i redditi di impresa e i redditi di lavoro
autonomo, è possibile che nell’anno abbiamo prodotto un reddito positivo o negativo (se hanno
chiuso in perdita). In questo caso, a certe condizioni, il reddito in negativo può andare a ridurre il
reddito complessivo.
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Una volta determinata la base imponibile sommando i redditi, la base imponibile costituita dal
reddito complessivo deve trasformarsi in imposta.
Il TUIR distingue due concetti, reddito complessivo lordo e reddito complessivo netto.
- Reddito complessivo lordoà è la somma di tutti i redditi delle categorie, cioè tutti redditi
prodotti nell’anno
- Reddito complessivo nettoà il contribuente può abbassare il reddito complessivo lordo
deducendo da questo una serie di oneri: il reddito diminuisce, cioè la base imponibile
diminuisce, passando quindi ad un reddito complessivo netto. Questi oneri deducibili sono
una serie di spese che il soggetto ha effettivamente sostenuto, che la legge considera
rilevanti per definire la personalità della tassazione, e quindi sono un elenco di spese previste
dall’art. 10 del TUIR e spesso aggiornate. Ricordiamo ad esempio contributi previdenziali e
assistenziali, gli assegni corrisposti al coniuge...
A questo punto abbiamo un reddito complessivo netto. Applico alla base imponibile le
corrispondenti aliquote progressive IRPEF. CI sono ben 5 aliquote: 23%, 27%, 38%, 41%, 43%. Queste
aumentano, nella logica della progressività. Più aumenta il reddito, più aumentano le aliquote.
L’applicazione delle aliquote è per scaglioni, quindi chi produce 100: i primi 15 vengono tassati al
23%, gli ulteriori tra 15 e 28 mila vengono tassati al 27%, da 28 a 55 al 38%, 55 a 75 mila al 41% e
solo i restanti (da 75 a 100) è tassata al 43%. Ad ogni scaglione corrisponde un’aliquota. La curva
della progressività va subito molto in alto ma poi diventa regressiva, perché i redditi molto alti (da
75 mila) l’aliquota non cresce più. Il ceto medio, che produce redditi medi, è tartassato in maniera
indecorosa (non solo ai fini IRPEF, ma aggiungendo tutti gli altri tributi...).
Per calcolare l’imposta netta, oltre alle detrazioni, vanno prese in considerazione:
- Acconti: se il soggetto ha subito una ritenuta d’acconto, attraverso una sostituzione di
imposta parziale, allora il momento in cui farlo valere è quando si va a determinare l’imposta
netta.
- Crediti di imposta: alcune sono vere e proprie agevolazioni, altre sono agevolazioni non in
senso stretto, ma per evitare forme di doppia imposizione
Se davvero l’IRPEF arrivasse a tassare tutto il reddito complessivo con le aliquote progressive,
sarebbe bello... la tendenza italiana è quella di prevedere forme di regimi speciali che consentano a
certe tipologie di reddito di non essere tassati con le aliquote progressive, ma con forme sostitutive
proporzionali. Esistono una serie di regimi molto diffusi che prevedono una aliquota proporzionale
unica (e molto bassa). Es: redditi di prefabbricati (vi è la cedolare secca al 21% fisso), redditi
immobiliari (tassazione sostitutiva bassa), redditi di capitale (ritenute a titolo di imposta al 26%),
28
titoli di stato (12,5%), regimi forfettari agevolati per redditi di lavoro autonomo entro i 65.000€
(tassazione sostitutiva del 5% per i primi anni e poi il 20%...).
Questo risponde ad esigenze diverse (quasi tutte sono esigenze agevolative) con una loro ratio (ad
esempio la ratio della cedolare secca è quella di evitare gli affitti in nero, oppure i regimi forfettari
per agevolare l’apertura di partite IVA...). L’effetto complessivo è che l’IRPEF è un muro su cui si
regge la progressività fiscale. Ogni volta che si introduce una tassazione proporzionale, si toglie un
mattone a questo muro. Oggi la progressività è molto ridotta, perché sono sempre meno le imposte
progressive, tra regimi sostitutivi, regimi proporzionali, ecc.
2. IRAP
È l’acronimo di Imposta Regionale sulle Attività Produttive. È un tributo regionale derivato, perché
è istituito da una legge statale (D.Lgs n. 446/1997).
Soggetto attivo sono le regioni (creditori del tributo) e soggetto passivo sono invece i contribuenti.
Le regioni possono apportare delle modifiche sulla aliquota e sulla base imponibile rispetto al
dettato statale, esercitando la propria autonomia regionale in materia.
Soggetti passivi sono coloro che hanno il dominio su una organizzazione, dominio e controllo sui
fattori produttivi.
Ci sono fatti indice di capacità contributiva ulteriori rispetto alla disciplina statale? (no). Sono tributi
costituzionali? (La questione di costituzionalità sollevata per la violazione art.53 cost.)
- Risposta: secondo il professore questo è un tributo incostituzionale ma non è stato riconosciuto
tale perché la questione di legittimità è stata sollevata erroneamente.
Il presupposto del tributo (art.2 del decreto) è l’esercizio abituale di una attività finalizzata allo
scambio di beni o servizi.
Base imponibile nella logica dell’IRAP è il valore della produzione netta (tassato il risultato
economico dell’attività esercitata dal contribuente nel territorio regionale).
Si sovrappone all’IRPEF o IRES? No. L’IRAP colpisce quelle strutture organizzative che producono
valore inteso non come solo ricavi meno costi, ma valore nel senso di somma dei valori delle risorse
impiegate nell’impresa.
Aliquota ordinaria è del 3.9% ed è proporzionale. Le regioni possono cambiarla entro lo 0.92.
Caso1
Tizio è imprenditore e paga 100 ai suoi dipendenti. Ottiene finanziamenti dalle banche e paga per
questo degli interessi (100). Ha anche dei collaboratori retribuiti (100).
Tizio ha anche dei ricavi per 1000. I costi che sostiene sono 700. Il ricavo netto è 300.
L’IRPEF colpisce i 300, mentre il valore della produzione netta (insieme valore fattori produttivi) è
300 + 100 + 100 + 100. L’IRAP tassa i 600 (base imponibile).
Ma chi è il soggetto passivo/debitore? È l’imprenditore, che paga le tasse su un importo di cui la
metà è per lui un costo (entrata per altri soggetti). La giustificazione è che l’imprenditore è colui che
ha il dominio gestionale, è al vertice e coordina i fattori produttivi, e questo è (secondo l’ideatore
dell’IRAP) espressione di forza economica e capacità contributiva ai sensi dell’art.53 cost.
Se poi l’imprenditore chiude l’anno in perdita, comunque sarà tassato per i 300 (valore fattori
produttivi).
3. IVA
L’IVA – Imposta sul Valore Aggiunto - è un’imposta europea, perché è un tributo armonizzato in
ambito europeo. Tutti i paesi dell’UE hanno nel proprio ordinamento l’Imposta sul Valore Aggiunto:
questo perché l’IVA trova la propria disciplina fondamentale in fonti di diritto europeo (in particolare
direttive europee, a partire dagli anni Settanta). Oggi, la disciplina dell’IVA è contenuta nella
29
Direttiva n. 112/2006: viene concesso agli Stati membri la possibilità di attuare questo sistema con
uno spazio di discrezionalità apprezzabile (ad esempio sulla base imponibile, sulle aliquote...).
Da un punto di vista strutturale, in ogni paese dell’UE la direttiva 112 è una fonte gerarchicamente
sovraordinata, ma vi sono poi le singole leggi nazionali attuative della direttiva (in Italia, è il D.p.R n.
633/1973: qui troviamo la disciplina dell’IVA in Italia, mutuata dalla direttiva europea, ma in parte
modificata).
L’Imposta sul Valore Aggiunto, quindi, è quasi disciplinata identicamente nei paesi europei. Il
soggetto attivo però NON è l’Unione Europea, cioè non vi è una unica IVA incassata dall’UE, ma la
fonte legislativa è l’UE, ed esistono tante discipline Iva quanti sono gli Stati membri. Lo Stato singolo
è il soggetto attivo ovviamente, cioè rimane comunque in tributo nazionale sotto questo aspetto.
L’IVA è un’imposta sul consumo. Abbiamo un meccanismo tale per cui abbiamo un soggetto passivo
che è l’operatore economico, che ha l’obbligo di applicare il tributo e con la cessione di beni/servizi
fa nascere il presupposto e quindi l’obbligazione tributaria.
Per come è strutturata l’IVA, il soggetto che subisce il prelievo, cioè che rimane inciso dal peso del
tributo, è il contribuente di fatto, che nell’IVA prende il nome di consumatore. Il consumatore finale
è un contribuente di fatto, in quanto estraneo al rapporto giuridico tributario: il soggetto attivo
rimane il contribuente di diritto, cioè l’operatore economico. L’IVA è quindi un’imposta sul
consumo, perché l’IVA colpisce il consumo (è l’indice di forza economica). La traslazione economica
del tributo dal soggetto di diritto al soggetto di fatto, e quindi dall’operatore economico al
consumatore, si realizza attraverso due istituti giuridici: dovere di rivalsa e diritto di detrazione.
Principio di neutralità dell’IVA: l’IVA deve essere neutrale per l’operatore economico, cioè non deve
essere inciso/toccato dal peso economico del tributo. L’unico soggetto ad essere gravato è il
consumatore finale.
Il tributo si applica, anche in termini quantitativi, sul complessivo valore aggiunto che si crea nel
corso della produzione e distribuzione del bene/servizio.
Fattispecie impositiva
Il presupposto dell’IVA si scompone in tre sotto presupposti (tre momenti diversi) che se si
realizzano insieme vi è il presupposto del tributo (art. 1 del D.p.R 633/73). L’imposta si applica sulla
cessione di beni e prestazioni di servizi (presupposto oggettivo) effettuate nel territorio dello Stato
(territoriale) nell’esercizio di imprese o arti/professioni (presupposto soggettivo). Questi presupposti
devono esserci tutti affinchè nasca l’obbligazione tributaria.
Quindi l’IVA si applica (cioè nasce il presupposto IVA) se un imprenditore o autonomo, cede un bene
o presta un servizio verso corrispettivo, e tale prestazione è effettuata nel territorio dello Stato.
Se io, persona fisica, vendo un Codice civile, e mi faccio pagare 10€, è una cessione di beni, nel
territorio dello Stato, ma non c’è il presupposto soggettivo, quindi non si deve l’IVA: quindi, sugli
scambi tra privati, NON si deve l’IVA. Se io vendo la mia auto su subito ad un Tizio, non viene pagata
l’IVA, perché manca presupposto soggettivo.
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ad esempio con il conferimento in società di un bene, oppure la permuta (vi è una
controprestazione e onerosità anche in assenza di scambio di denaro). Vi deve essere
quindi onerosità e trasferimento di diritti reali di godimento.
Nei commi successivi, il legislatore specifica cosa NON è cessione di beni e quali sono
quelle operazioni che pur non essendo cessioni di beni dobbiamo comunque
considerarle come cessioni di beni. Le scelte di esclusione e di assimilazione
rispondono a scelte di chiarezza applicativa, per rendere facile l’applicazione del
tributo; altre volte, sono vere e proprie scelte di agevolazione in rapporto con altri
tributi.
Es di assimilazione: non sarebbe una cessione di beni ma è comunque inclusa, è la
locazione di beni con clausola finale di trasferimento della proprietà
Es di esclusione: conferimento di azienda: anche se vi è una cessione onerosa di beni,
vi è l’imposta di registro e non l’IVA... non è in realtà un’agevolazione perché l’IVA
potrebbe essere scaricata, l’imposta di registro no...
o Prestazione di servizià è definita come la prestazione verso corrispettivo dipendente
da un’obbligazione di fare, di non fare, di permettere. Anche in questo caso, il
legislatore definisce le prestazioni di servizi escluse da tassazione e quelle assimilate
anche se non formalmente prestazioni di servizi.
- Presupposto soggettivoà colui che cede il bene o presta il servizio e riceve un compenso o
controprestazione, deve essere un imprenditore o un lavoratore autonomo (esercente arti
o professioni). I soggetti passivi IVA (soggetti di diritto IVA) sono proprio questi, cioè gli
imprenditori (collettivi o individuali, pubblici o privati.
Per quanto riguarda i profili transazionali, vi è un problema riguardo la cessione dei beni.
All’interno dell’Unione Europea vi sono delle regole specifiche che disciplinano le cd.
operazioni intracomunitarie, ovvero gli acquisti e le cessioni di beni che intercorrono tra
operatori economici dei diversi stati membri dell’Unione Europea. L’idea è che:
Quando la vendita del bene è effettuata da soggetti di paesi diversi UE, abbiamo una
disciplina ad hoc sulle operazioni intracomunitarie. Questo permette di evitare distorsioni
concorrenziali tra le aliquote differenti nei vari paesi. Questa regola prevede che se la
cessione di beni è effettuata da un operatore economico di un paese a un operatore
economico di un altro paese UE, questa cessione di beni non è tassabile nello stato del
cedente mentre è imponibile nello Stato del cessionario (di destinazione). Se invece
l’operazione di cessione di beni è effettuata da un operatore economico stabilito in un paese
UE nei confronti di un consumatore finale, si applica la regola del paese di origine:
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l’imponibilità l’abbiamo nello Stato del cedente. L’operatore economico italiano che effettua
un acquisto intracomunitario, questa operazione è un’operazione IVA territorialmente
tassata in Italia. L’operatore economico italiano che vende un bene ad un altro operatore
economico, questa cessione di beni NON è imponibile in Italia (ma nell’altro paese UE). Solo
l’acquisto intracomunitario è un’operazione.
Per quanto riguarda le operazioni Italia-extra UE: se il bene è venduto o acquistato all’interno
dell’UE, vi è un’operazione intracomunitaria, mentre se il bene è venduto o acquistato ad un
soggetto o da un soggetto extra UE, vi è l’ambito delle importazioni-esportazioni. La regola
è che: l’importazione (acquisto di un bene) da un soggetto al di fuori del territorio europeo,
è sempre operazione tassate a fini IVA in Italia, da chiunque effettuate (è una deroga alla
regola generale sul presupposto soggettivo!!!!). L’esportazione (vendita da un soggetto
italiano a un soggetto extra-Ue) è un’operazione non imponibile in italia, perché si presume
possa essere imponibile nel paese di destinazione con un’altra imposta, magari non l’IVA,
ma con un’altra imposta sul consumo...
Base imponibile
La base imponibile dell’Iva è definita dall’art. 12, ed è rappresentata dall’ammontare dei
corrispettivi (prezzo) dell’operatore economico.
L’aliquota nel nostro paese è sempre salita e mai scesa: abbiamo tre aliquote, ma l’imposta è
proporzionale, con aliquote diverse che si applicano a prodotti/servizi diversi.
- Aliquota minima del 4%: beni di prima necessità, immobili abitativi venduti che per
l’acquirente costituisce la prima casa.
- Aliquota ridotta del 10%: alcuni prodotti alimentari, servizi alberghieri, settore edilizio...
- Aliquota ordinaria del 22%
Quando il legislatore sceglie l’aliquota del 4% o del 10%, lo fa perché lo ritiene dei beni base.
Aspetto dinamico
Vi è un rapporto molto peculiare tra operatore economico e consumatore.
L’operatore economico può detrarsi l’IVA per gli acquisti a monte. L’operatore che vende può far
pagare l’IVA a chi acquista (e questo lo si realizza con la rivalsa).
Abbiamo due situazioni giuridiche che fanno capo ai soggetti passivi di diritto
1. Rivalsaà è un istituto che consente la traslazione normativa dell’IVA. È disciplinata dall’art.
18 del decreto IVA, e prevede che l’operatore economico, quando realizza il presupposto
(cessione di beni e servizi) abbia l’obbligo di addebitare l’imposta a titolo di rivalsa al
cessionario o committente. La rivalsa è descritta come un diritto-dovere del soggetto passivo
IVA: il soggetto passivo di diritto ha il diritto ma anche il dovere di rivalersi sul
committente/cessionario. Nello stesso momento in cui il presupposto si realizza con la
cessione di beni o prestazione di servizi, si pone la base giuridica per far sorgere in capo al
soggetto il diritto e dovere di rivalsa, cioè di addebitare il quantum del tributo a colui che ha
acquistato il bene o servizio. Se colui che ha acquistato il bene, a sua volta vende quel bene
o servizio, ha automaticamente quel diritto-dovere di rivalsa verso gli operatori che
intervengono alla produzione o commercializzazione del prodotto. L’unico soggetto che non
ha diritto di rivalsa è il consumatore finale. La rivalsa si esercita con la fattura: quando il
soggetto emette fattura nei confronti del committente o cessionario, viene indicato il prezzo
del bene e l’IVA addebitata per rivalsa. Questo fa si che il soggetto che realizza il presupposto
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addebita l’IVA in fattura per rivalsa al committente/cessionario, con l’obbligo di versare l’IVA
stessa.
2. Diritto di detrazioneà è regolato dall’art. 19 del D.p.R 633/1972: consiste nel diritto che
l’operatore economico ha, di detrarre dall’imposta relativa alle operazioni effettuate,
l’imposta che lui stesso ha pagato o che gli è stata addebitata a titolo di rivalsa. L’operatore
economico a cui è stata addebitata per rivalsa l’IVA, può portare in detrazione l’IVA, cioè
matura un credito verso lo Stato. Lo Stato glie la restituirà in meccanismo di compensazione
(o attraverso un rimborso cash eventuale).
Chi vende un bene o servizio, addebita l’IVA per rivalsa a chi acquista il bene e servizio.
Quando l’operatore economico acquista un bene o riceve un servizio, all’operatore
economico viene addebitata l’IVA, e quest’IVA fa nascere un diritto di credito dallo Stato. È
un diritto esclusivamente in mano dell’operatore economico.
Esempio di rivalsa: Abbiamo un operatore economico A che crea il bene in industria, lo vende al
dettagliante B, che a sua volta vende il bene al consumatore finale. Il soggetto A realizza un
presupposto perché fa una cessione di un bene. Il soggetto A, emettendo fattura, chiede che B gli
paghi il corrispettivo 1000 più il 22% cioè totale 1220€. B paga 1220€ ad A.
A sua volta, B vende il bene al consumatore finale con un corrispettivo di 2000€, ma lo vende a
2000€ + IVA al 22%, cioè il consumatore paga 2440€. Il consumatore finale non trasla più l’IVA a
nessuno.
Per rientrare nella logica dell’IVA che si applica solo al consumo, dobbiamo fare in modo che l’IVA
pagata da B non gravi su di lui! Allora entra in gioco la detrazione.
B deve versare l’IVA ad A; A a sua volta deve versare l’IVA allo Stato. B, in relazione all’IVA che gli è
stata addebitata, ha diritto di detrarre questa IVA dall’IVA che lui stesso incassa (quella pagata dal
consumatore finale). B verserà allo Stato l’IVA versata dal consumatore, ma detratta da quella che
ha già pagato ad A. In questa situazione, B ha un obbligo di 220€ allo Stato (440€-220€).
Lo Stato incassa da A e da B, per un totale di 440€, che è proprio pari all’IVA pagata dal consumatore
finale: quindi, il peso del tributo è solo ed esclusivamente sulle spalle del consumatore finale.
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Il diritto di detrazione è importante perché è un diritto di credito che il singolo operatore economico
vanta nei confronti dello Stato.
Se sussistono certi requisiti normativi, il diritto di detrazione sussiste mentre viceversa se non
sussistono non vi è alcun diritto di detrazione. La detrazione spetta solo all’operatore economico e
non al consumatore.
Il diritto di detrazione spetta solo se il soggetto può documentarlo tramite la fattura.
In materia di detrazione, vige una regola di inerenza: è detraibile solo l’IVA che si riferisce ad acquisti
di beni o servizi che sono strumentali all’attività economica: se ho una panetteria e acquisto una
Maserati non posso detrarmi l’IVA pagata dal concessionario... l’agenzia delle entrate è abbastanza
restrittiva per valutare questo, mentre ovviamente il contribuente avrà l’interesse a detrarsi tutto
(es: pranzi o cene in ristoranti...)
Altro aspetto da prendere in considerazione è che l’IVA è detraibile solo se, oltre ad un acquisito
inerente, il bene si riferisce a un utilizzo del bene acquistato per operazioni imponibili cioè soggette
alle imposte. Se questo manca, l’acquisto, anche se inerente, non produrrà un’IVA detraibile.
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ha pagato ai propri fornitori, che è poi confluita nel realizzare operazioni esenti.
Lo Stato, in questo caso, incassa l’IVA da B che non riceverà niente. In questo modo viene
favorito il consumatore finale, mentre al soggetto passivo B si nega la detrazione.
Il legislatore sceglie questo anziché la non imponibilità per le operazioni intracomunitarie
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un trasferimento non oneroso, abbiamo invece un impoverimento di uno e l’arricchimento di un
altro: in una donazione, infatti, non vi è un trasferimento oneroso, e quindi non c’è un mutamento
qualitativo nel patrimonio dei soggetti, ma un mutamento quantitativo.
Le vicende patrimoniali sono quindi totalmente diverse tra l’imposta di registro e l’imposta di
successione o donazione.
Per quanto riguarda invece le imposte ipotecarie e catastali, queste si applicano per ogni
trasferimento di beni immobili, a prescindere dal titolo oneroso o titolo gratuito dell’atto. Sono
imposte che si aggiungono all’imposta di donazione/successione o imposta di registro.
L’unica vera alternatività è tra registro e donazione, che non possono MAI sommarsi tra loro.
Imposta di registro
L’imposta di registro è disciplinata dal Testo Unico di Registro (T.U.R) ovvero il D.p.R n. 131/1986.
Il presupposto dell’imposta di registro si caratterizza per il compimento di atti giuridici idonei a
produrre trasferimenti onerosi di beni e di diritti. È una imposta d’atto, cioè consegue al
compimento di un atto giuridico.
Abbiamo tre tipologie di atti, a cui corrispondono regole di imposizione differenti:
1. Atti soggetti a registrazione in termine fissoà sono atti che, una volta stipulati, debbono
essere presentati alla registrazione entro un termine di 20 giorni. La registrazione si effettua
presso gli uffici dell’agenzia delle entrate.
Il TUR prevede che debbano essere portati a registrazione entro 20 giorni tutti gli atti formati
per iscritto nel territorio dello Stato e che siano indicati nella tariffa. La tariffa è una parte
(un elenco) allegata al TUR stesso, che contiene un’elencazione di atti (locazioni,
compravendite, ecc). Per sapere se l’atto è soggetto a registrazione bisogna proprio avvalersi
di ciò che c’è scritto nella tariffa. SI può dire brevemente che tutti gli atti pubblici e le
scritture e private autenticate (formate nel territorio italiano da un notaio o Pubblico
Ufficiale) sono soggette alla registrazione in termine fisso.
2. Atti soggetti a registrazione in caso d’usoà l’obbligo di registrazione scatta solo quando si
realizza la fattispecie del caso d’uso, ovvero quando gli atti devono essere acquisiti dalla
pubblica amministrazione per l’esplicazione di procedimenti amministrativi. La registrazione
è solo eventuale (possono anche non essere mai registrati).
Sono gli atti formati per corrispondenza (contenuti nella parte seconda della tariffa) e le
scritture private non autenticate che hanno già una rilevanza ai fini IVA).
3. Atti non soggetti a registrazioneà non c’è obbligo di registrazione. Sono gli atti non
menzionati nelle due categorie precedenti: gli atti che non rientrano nei requisiti sopra
indicati sono atti non soggetti a registrazione. La tabella elenca una serie di atti che in ogni
caso non sono soggetti a registrazione. Anche gli atti non soggetti a registrazione, in ogni
caso, possono essere registrati su volontà delle parti: si parla di registrazione volontaria. Le
parti contraenti possono scegliere di registrare tale atto volontariamente, in quanto la
registrazione ha l’effetto di assegnare all’atto una data certa, provando che l’atto esiste e
conservandolo nel tempo.
L’imposta di registro si applica per un presupposto che dipende dalla registrazione dell’atto: solo gli
atti per i quali vi è l’obbligo di registrazione o per i quali vi è una registrazione volontaria, scontano
l’imposta di registro. Per determinare se si deve pagare l’imposta di registro, si deve capire se vi è
un trasferimento di un atto, per il quale sussiste l’obbligo di registrazione (o vi è la registrazione
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volontaria). La registrazione, come obbligo o come volontario, è un requisito fondamentale per
determinare l’applicazione del tributo stesso.
Per quanto riguarda il quantum del tributo, il tributo di registro si distingue in due tipologie:
1. Tributo di registro in misura fissa: l’importo è predeterminato (la misura fissa ordinaria è di
200€).
2. Tributo di registro in misura proporzionale: si applica un’aliquota, e vi sono diverse aliquote
(9,21,15,3%...)
Per quanto riguarda i soggetti passivi del tributo, vanno distinti i soggetti obbligati alla registrazione
e i soggetti obbligati al pagamento del tributo. Nei vari atti che possono essere stipulati, c’è sempre
una serie di soggetti coinvolti: a seconda della tipologia dell’atto ci sono dei soggetti che o sono
obbliati a registrare, o obbligati al pagamento del tributo.
Nella compravendita, sono i due soggetti compratore e venditore ad essere assoggettati al tributo,
ovvero sono i contribuenti: i notai, cancellieri, impiegati, mediatori, pubblici ufficiali, ecc, assumono
il ruolo di responsabili di imposta.
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subito i beni, ma se i figli sono minori, non è uno strumento adeguato, perché non possono
gestire i beni adeguatamente... a questo punto, Tizio può decidere di costituire un Trust
facendo in modo che questi beni che vuole trasferire ai figli vengano segregati nel Trust.
Questo trust è costituito dagli immobili e le partecipazioni societarie. Tizio si spoglia del
patrimonio e lo conferisce al Trust (la proprietà formale passa al Trustee). Caio e Tizia
diventeranno titolari dei beni solo in futuro. È il trustee il proprietario dei beni. Questo è un
patrimonio segregato/separato, cioè questi beni non sono più di Tizio ma non ancora di Caio
e Tizia, e non sono nemmeno nel patrimonio del Trustee (i creditori del Trustee non possono
aggredire i beni). Per questo si dice che sia un patrimonio segregato, non aggredibile da
nessuno, con una futura destinazione. È questo che il TUR prevede quando parla di vincoli di
destinazione.
Il tributo è segnato dal criterio della territorialità, in modo simile a ciò che avviene per le imposte
sui redditi. Sono assoggettate ad imposta sulle successioni e donazioni, qualora il de cuius o il
donante sia residente in Italia, tutti i beni ovunque esistenti nel mondo. Se Tizio ha un patrimonio
immobiliare sparso tra Francia e Italia e muore in Italia, l’erede diventa proprietario di tutto il
patrimonio del defunto: l’imposta di successione italiana si applica per tutti i beni, non solo quelli in
Italia, ma in tutto il mondo.
Se il soggetto non è residente in Italia, l’imposta si applica solamente per i beni presenti nel territorio
italiano. Se Tizio ha la residenza in Francia, ma ha un immobile in Italia, quando Tizio muore, l’erede
dovrà pagare l’imposta di successione e donazione per quel bene situato in Italia. È molto facile che
ci sia una doppia imposizione, perché l’Italia ha firmato pochissime convenzioni con altri paesi per
evitare le doppie imposizioni (circa 7...).
Per la base imponibile del tributo, si distingue la base imponibile in caso di successione mortis causa
e dall’altra parte la base imponibile per vincoli di destinazione o donazioni.
- Per la successione mortis causa, la base imponibile è il valore globale netto dell’asse
ereditario: a questo valore si permette lo scomputo di alcune spese (come le spese funebri
entro certi ammontari...).
- Per gli atti inter vivos (donazioni e vincoli destinati), la base imponibile è il valore globale dei
beni e di diritti, al netto degli oneri che gravano su questi beni e diritti.
Determinata la base imponibile, il tributo viene calcolato applicato delle aliquote. Vi sono
determinate esclusioni ed esenzioni, come norme di tipo agevolativo (es: qualora l’oggetto della
successione o donazione o vincolo di destinazione siano aziende o partecipazioni societarie, vi sia a
certe condizioni una non tassazione per favorire il passaggio generazionale dell’impresa).
Il tributo si determina in un modo molto particolare, applicando due istituti ossia la franchigia e
l’aliquota. Prima di tutto, il TUR prevede che determinata la base imponibile, si determini il quantum
di imposta applicando alla base imponibile le franchigie. Le franchigie sono degli ammontari
predeterminati dal legislatore, entro i quali non c’è tassazione. Queste franchigie lavorano insieme
alle aliquote.
- Se il trasferimento avviene a favore del coniuge o dei parenti in linea retta, l’imposta si
applica sull’importo eccedente la franchigia di un milione di euro, con aliquota del 4%.
- Se il trasferimento avviene a favore di altri parenti fino al 4° grado e affini in linea retta,
l’aliquota è del 6% e vi è una franchigia di 100.000€ per i soli trasferimenti tra fratelli e
sorelle.
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- Se il trasferimento avviene in favore di altri soggetti, non ci sono franchigie e l’aliquota è
dell’8%. Se il trasferimento in favore di un disabile, c’è la franchigia di un milione e mezzo di
euro.
Es: Tizia dona 3 milioni di euro in immobili. Il primo figlio Caio riceve un immobile di un milione, la
seconda figlia Caia riceve un immobile di un milione, Mevio (non figlio e non parente) un immobile
da un milione di euro.
Caio riceve un immobile e non deve pagare niente di imposta perché siamo entro il milione; se il suo
immobile fosse stato da un milione e mezzo, avrebbe dovuto pagare il 4% ma non sul milione, il 4%
di 500.000€ (che eccedono dal milione di franchigia). Anche Caia stessa cosa. Mevio, invece, dovrà
pagare 8% su un milione, perché non c’è franchigia.
Se Tizia lasciasse 500.000€ al fratello Mevio, pagherà il 6% su 400.000€, cioè quello che eccede i
100.000€ di franchigia.
Questa imposta è considerata da paradiso fiscale dagli altri paesi, perché i paesi a fiscalità avanzata
hanno franchigie molto più basse e aliquote molto più alte (in Francia si arriva anche al 40% in alcuni
casi, con franchigie molto basse)
Con il concetto di attuazione del tributo si fa riferimento alla fase attuativa del procedimento
dell’obbligazione tributaria.
È un rigido procedimento di attuazione, disciplinato dalla legge e da atti subordinati. Lo scopo è
quello di avere un procedimento legale che scandisce il tributo, con la finalità di garantire allo Stato
un’attuazione il più possibile sicura ed efficace, uguale per tutti i consociati.
Per questo motivo tale disciplina disegna un procedimento amministrativo tributario e questo
procedimento si ritiene essere disciplinato dalla Legge 241/90, ovvero la legge generale del tributo.
Tuttavia, tale procedimento ha delle peculiarità che lo caratterizzano:
1. Nel rapporto giuridico tributario vengono coinvolti dei soggetti diversi delle due parti delle
obbligazioni: generalmente vi è un soggetto attivo e il contributo che sono coinvolti in tutte le
fasi; in questo caso troviamo soggetto attivo/passivo + soggetti passivi ulteriori (es istituti
finanziari)
2. La caratteristica peculiare è che non vi è un unico procedimento tributario ma una serie di
possibili procedimenti: l’attuazione del tributo si può realizzare diversamente a seconda delle
situazioni, quindi si delineano più procedimenti disciplinati dalla legge;
Es: procedimenti collaborativi funzionali del fisco: accertamento tributario diviso in
subprocedimenti.
Ciò detto, possiamo considerare il procedimento tributario secondo alcune linee fondamentali.
Le linee guida definiscono una diversità di ruoli del contribuente all’interno del procedimento.
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La fase di attuazione ha come momento fondamentale il sorgere del dovere del contribuente,
che fa sorgere l’obbligazione tributaria: il contribuente, quindi, deve dichiarare al fisco tutte le
caratteristiche del suo tributo.
Il ruolo del contribuente è un ruolo fondamentale perché l’attuatore del tributo.
LE FASI:
1) DICHIARAZIONE TRIBUTARIA
2) POTERI DI VERIFICA E DI ACCERTAMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
3) PROCEDIMENTI COLLABORATIVI
DICHIARAZIONE TRIBUTARIA
Nei sistemi a fiscalità avanzata, la dichiarazione tributaria risponde all’esigenza di una pluralità di
contribuenti e quindi si cerca di responsabilità sanzionata del contribuente e in contemporanea
vengono presi in considerazione i poteri di controllo.
Ovviamente, l’agenzia dell’entrate non controlla tutti i contribuenti, perché sarebbe impossibile
fattualmente; tali controlli avvengono sulla base di diversi indici.
La dichiarazione tributaria è la forma più importante di una partecipazione forzosa del contribuente
del procedente di attuazione del tributo.
Il contribuente è sostanzialmente l’attore principale in questa fase, in quanto la dichiarazione viene
fatta perché il contribuente accerta o auto accerta un presupposto, determina la base imponibile e
calcola l'imposta dovuta.
Tale dichiarazione è un obbligo, è un atto formale che deve essere redatto con dei requisiti stabiliti
dalla legge e si presenta con una modalità telematica;
Per quanto riguarda le tempistiche della dichiarazione, va fatta una distinzione in base al tipo di
imposta:
- imposte periodiche (IVA e IRAP)
- imposte d’atto: ‘’una tantum’’ la dichiarazione non si ripete anno per anno, legata al
compimento di un atto specifica. Es: imposta di registro.
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Il contenuto si ritiene essere un contenuto dichiarativo: è una dichiarazione di scienza, anche se in
alcuni casi la dichiarazione può avere dei contenuti che riflettono una manifestazione di volontà.
Riconoscere nella dichiarazione tributaria che il contribuente invia formalmente una dichiarazione
di scienza, consente il fatto che il contribuente può modificare la dichiarazione à l’emendabilità è
un tema molto importante e molto frequente, e vi sono due tipi di emendabilità:
a) Modificata a favore: ciò accade quando il contribuente si accorge che la dichiarazione porta a
liquidare un tributo in eccesso rispetto a quello che possiede con la presentazione della
dichiarazione; è a suo favore, nel senso che il contribuente va a diminuire l’obbligo tributario.
Lo scopo della modifica è quello di avere indietro il tributo che si è versato in eccesso.
b) Modificata a sfavore: è integrativa a sfavore del soggetto passivo, in quanto il contribuente
rettifica la dichiarazione comunicando ulteriori elementi (ovvero che il tributo in questione è
maggiore rispetto a quella della precedente dichiarazione); il contribuente comunque è soggetto
a sanzione. Il contribuente che si ravvede rimane sanzionabile ma la sanzione è tanto minore
quanto il contribuente si ravvede in termini più brevi.
La disciplina normativa dei termini della dichiarazione integrativa è prevista dalla legge a partire dal
2016, con la modifica del D.L 322/98, che ha generalizzato i termini: La dichiarazione a favore o a
sfavore del contribuente può essere attuata entro il 31/12 del 5° anno successivo a quello della
presentazione originale – corrisponde al periodo di tempo che l’agenzia dell’entrate ha per emanare
l’atto di accertamento del tributo versato dal contribuente.
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Il contribuente, quindi, dichiara e successivamente paga quanto ha dichiarato à fisiologia del
rapporto giuridico tributario
Quando si parla di adempimento del tributo (versamento) si parla di riscossione spontanea del
tributo: quando l’imposta liquidata è versata dal contribuente in termini di legge.
3. Ritenuta diretta: marginaleà è disciplinata dal D.L n. 602/1973, e si applica solo nei casi in cui
abbiamo somme erogate a determinati soggetti...
1. Controllo Formale
• Controllo cartolare di tipo automatico e automatizzato: è il controllo che viene effettuato
tramite strumenti informatici che controllano tutte le tipologie di dichiarazioni presentate
dai contribuenti. Non controlla tutti i contribuenti, sono infatti esclusi coloro che non hanno
presentato nessuna dichiarazione.
È una prima forma di controllo (superficiale). Il controllo è infatti su eventuali errori
intrinsechi, interni (es. errori di calcolo, campi omessi, mancato pagamento del tributo
risultante) facilmente individuabili. Ne consegue una liquidazione automatica dell’imposta.
La fonte legislativa per questo tipo di verifica iniziale è il D.p.R n. 600/1973 (per la
dichiarazione dei redditi) e il D.p.R n. 633/1972 (IVA). Non c’è una verifica sostanziale, ma
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solo materiale (eventuali incongruenze). Deve essere fatto entro un tempo limitato (31
dicembre del primo anno successivo alla presentazione).
2. Controllo Sostanziale
• Fase di verifica ed accertamento: l’agenzia delle entrate va a sindacare, esercitando poteri
di accertamento, entrando nel merito della dichiarazione. Verifica quindi l’esattezza, la
correttezza e la fedeltà della dichiarazione.
Entrare nel merito implica che venga verificato che il contribuente non abbia realizzato
tecniche elusive o eversive, e non ha limiti nel farlo. Si supera l’apparenza documentale
entrando nella “sostanza” del comportamento del contribuente.
Può essere molto invasiva nel farlo, anche mandando funzionari all’interno della casa del
contribuente sospetto per compiere le verifiche opportune. Ciò comporta un impiego di
risorse umane e finanziarie notevoli, per questo solo alcuni contribuenti ed alcune
dichiarazioni sono oggetto di questo tipo di controllo finanziario (non è possibile entrare nel
merito di ogni dichiarazione presentata). Solitamente i soggetti di un controllo così rigoroso
sono scelti tramite criteri interni all’agenzia stessa. Non sono previsti legislativamente, ma
interni all’amministrazione (es. mezzi statistici, intelligenza artificiale tramite i quali
individua una lista di contribuenti che presentano dei cd. “fattori di rischio”. Sulla base di
questi criteri selettivi, le singole amministrazioni andranno a verificare poi le singole
posizioni fiscali).
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bancario per i contribuenti nei confronti nell’amministrazione finanziaria. Se la banca non
collabora, l’Agenzia può prelevare coattivamente tali dati)
• Poteri di accesso, ispezione e verifica: entrare nei locali di cui il contribuente ha la
disponibilità per raccogliere documenti ed effettuare verifiche di tipo materiale, personale,
di ciò che si trova all’interno del locale (sia ad uso privato che professionale/d’impresa). È la
tipologia di potere che crea più problemi nei rapporti fra fisco e contribuente. Entrano in
contrasto due interessi e valori di rango costituzionale (interesse fiscale - accertamento dello
stato nel modo più preciso possibile che i cittadini siano “fedeli” e concorrano alle spese
pubbliche (art.53 Cost.) e i singoli diritti del cittadino quale il diritto all’inviolabilità del
domicilio, diritto alla privacy, diritto alla segretezza della corrispondenza, diritto al libero
esercizio dell’attività economica). La soluzione di tale conflitto si ha tramite un equilibrio
trovato dalla legge: regole e strumenti che pongono limiti all’attività di verifica sostanziale
da parte dell’amministrazione finanziaria (es. istituto dell’autorizzazione), assieme alla
conseguenza della sanzione (per l’amministrazione) dell’inutilizzabilità dei dati e prove
raccolti violando le regole di condotta.
La fase di controllo sostanziale può essere svolta anche dalla Guardia di Finanza. L’elaborazione
dei dati ai fini di irrogare l’avviso di accertamento è invece compito esclusivo dell’agenzia delle
entrate.
Autorizzazione
Può essere di due tipi, a seconda che l’amministrazione voglia accedere ad un locale destinato
all’attività d’impresa o professionale, oppure qualora voglia accedere ad un locale diverso, ad
esempio dove il contribuente svolge la sua vita privata e familiare.
• Nel primo caso il regime autorizzatorio è leggermente più blando. Deve esserci una
autorizzazione, rilasciata e concessa dal proprio capo ufficio (da cui il soggetto che svolge
l’accertamento dipende. È una autorizzazione interna, concessa dallo stesso organo che svolge
l’accertamento).
• Nel secondo caso, essendo una attività più invasiva, serve l’autorizzazione di un magistrato
(procuratore della repubblica competente). Questo la concede solo se l’ufficio fiscale è riuscito
a dimostrare l’esistenza di indici di grave sospetto di evasione in capo al soggetto.
Nei locali ad uso promiscuo (dove il soggetto vive ed esercita simultaneamente l’attività d’impresa)
è necessario il secondo regime autorizzativo.
Sono poi previsti dalla Legge n. 212/2000 (statuto del contribuente) ulteriori garanzie in capo al
contribuente.
Ad esempio, all’art.12 è previsto che “tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati
all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati
sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo. Essi si svolgono, salvo casi
eccezionali e urgenti adeguatamente documentati, durante l’orario ordinario di esercizio delle
attività e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività
stesse nonché alle relazioni commerciali o professionali del contribuente”.
Ha poi diritto ad essere assistito da un legale rappresentate e che gli venga rilasciato il PVC.
Caso (1) sulla raccolta delle prove (Corte Cass. anni ’90)
C’è una azienda in cui si svolge una attività d’impresa. Arrivano due verificatori fiscali, autorizzati
dal capo ufficio. All’interno dell’azienda, incontrano il datore assistito dal suo legale, e cominciano
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una attività di verifica. C’è fuori dal perimetro dell’azienda un parcheggio con una serie di
autoveicoli. Ad un certo punto esce dalla porta di un locale una persona impiegata con una seri di
documenti sotto il braccio che a passo svelto entra nella propria autovettura. Gli investigatori la
seguono, ma lei si barrica all’interno della macchina con la musica a tutto volume. Alla fine, la
convincono ad uscire, entrano nella macchina e prelevano i fascicoli (in cui erano annotati i
pagamenti in nero).
È stato un controllo regolare? No. Lo sarebbe stato solo se l’autovettura fosse stata aziendale,
mentre essendo di proprietà dell’impiegata era necessaria l’autorizzazione del procuratore della
repubblica.
Importante perché:
- Con “locale” ai fini autorizzativi infatti si intende non solo l’immobile, ma ogni luogo chiuso o
parzialmente sottratto alla disponibilità di terzi di cui il soggetto ha la disponibilità esclusiva a
qualsiasi titolo.
- Conseguenza della condotta è la radicale invalidità delle prove. Non diventa invalido l’avviso di
accertamento, ma la prova in sé per sé.
Caso (2)
Tizia subisce un accesso dei verificatori nella sua abitazione senza che questi abbiano
l’autorizzazione del procuratore (è illegittimo). Qui trovano prove dell’evasione fiscale di Caio, ex
marito di Tizia. Chi ha subito l’accesso illegittimo è Tizia, non Caio. L’inutilizzabilità delle prove tutela
Caio, non Tizia.
Esiste per questo un altro mezzo di tutela per Tizia: la Corte di Cassazione afferma che rimane in
capo al contribuente il diritto di azionare l’azione di risarcimento del danno. Deve però provare
l’illegittimità del controllo e il danno. È un mezzo di tutela extra-tributario, successivo.
Attività di accertamento
L’attività di accertamento è quell’attività compiuta dall’Amministrazione Finanziaria diretta a
determinare, nel modo il più preciso possibile, l’entità del presupposto, della base imponibile e
quindi dell’imposta da versare, sulla base degli elementi strutturali raccolti. In questa fase, quindi,
l’Amministrazione finanziaria, raccolti gli elementi istruttori nelle fasi precedenti, elabora tali dati in
modo critico per riscostruire l’esatta dimensione del tributo che il contribuente doveva versare.
È quindi la fase in cui l’Amministrazione Finanziaria elabora i risultati istruttori raccolti: solo
attraverso l’attività di accertamento, l’Amministrazione Finanziaria può dire se il contribuente ha
evaso o eluso oppure no, e nel caso in cui l’abbia fatto, l’Amministrazione Finanziaria può dire
esattamente quanto il contribuente ha evaso o eluso (e quindi quanto è dovuto dal contribuente
anche in termini di sanzioni ecc).
In termini logici, la fase di raccolta delle prove e la fase di accertamento critico, sono due momenti
distinti. Nello svolgere tale fase, forse la fase più importante che l’Amministrazione Finanziaria
svolge, il procedimento può confluire in un provvedimento amministrativo (avviso di accertamento).
L’Agenzia delle entrate, nello svolgere tale attività, deve seguire i cd. metodi di accertamento,
predeterminati dalla Legge: quelli di cui ci occupiamo sono metodi accertativi su imposte quali IVA
e IRAP. Le fonti normative di riferimento sono il D.p.R 600/73 e D.p.R 633 (decreto IVA).
Non esistono metodi di accertamento validi per ogni iter procedimentale, ossia l’Agenzia delle
entrate deve usare metodi accertativi diversi a seconda di diverse variabili:
- Il tipo di imposta (per IRAP e IVA vi sono metodi di accertamento, per altri tributi altri metodi...).
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- Il soggetto oggetto di accertamento: a seconda del tipo di contribuente accertato, abbiamo
metodi accertativi diversi: si distinguono metodi accertativi in base ai contribuenti imprenditori
e lavoratori autonomi, e dall’altra parte le persone fisiche ossia i contribuenti che non sono enti
o società o imprenditori/professionisti. I primi, sono soggetti che hanno l’obbligo di tenere le
scritture contabili, mentre le persone fisiche (privati) no. Per questo, vi sono metodi accertativi
diversi.
- La presentazione o meno della dichiarazione fiscale
L’Amministrazione Finanziaria, una volta presentata una dichiarazione da parte del contribuente,
può rettificarla: in particolare, la distinzione più importante riguarda i metodi di accertamento in
rettifica: esistono metodi di accertamento diversi a seconda che la rettifica si rivolga ai soggetti
tenuti alle scritture contabili o a privati.
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Per quanto riguarda le presunzioni, l’Agenzia delle Entrate potrebbe dire che:
o Il valore di mercato del bene venduto era molto superiore a 200.000€, e indirettamente
si potrebbe presumere un’evasione fiscale...
o Osservazione del mutuo contratto dall’acquirente: se Caio per comprare quella casa ha
contratto un mutuo di 230.000€, si può presumere che si è evaso...
La capacità probatoria dipende dal grado di convincimento: più le presunzioni sono blande,
più c’è spazio per una contestazione delle stesse. Le presunzioni in diritto tributario, per
essere elementi di prova, devono essere gravi, precise e concordanti, ma devono essere
sempre presunzioni relative: è ammessa la prova contraria, cioè possono provare che il
mutuo maggiore era dovuto all’acquisto di mobili, che il bene è stato venduto ad un prezzo
basso perché Tizio aveva fretta di vendere, ecc... Difficilmente queste presunzioni sono
legali, ma sono create dagli uffici in modo libero: se poi sono gravi, precise e concordanti, lo
deciderà il giudice una volta che il contribuente si oppone in giudizio...
Metodi di accertamento nei confronti dei soggetti tenuti alle scritture contabili
Per questi soggetti (professionisti e imprenditori) l’accertamento in rettifica può essere:
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1. Accertamento in rettifica contabileà corrisponde grosso modo all’accertamento in rettifica
analitico: l’agenzia delle entrate ricostruisce le singole voci della contabilità e quindi della
dichiarazione presentata dai soggetti imprenditori/professionisti. Questo accertamento parte
dalla contabilità, cioè verifica che i singoli risultati della contabilità confluiti nelle dichiarazioni
siano corretti e fedeli. Questo è una garanzia per il contribuente, perché se ha tenuto una buona
contabilità (fedele e dettagliata) sarà in grado di opporsi facilmente ad un accertamento fiscale
contabile. L’Agenzia delle Entrate contesta il risultato delle singole voci della contabilità e della
dichiarazione se ha in mano elementi istruttori che portano a prove documentali o presunzioni
gravi, precise e concordanti.
Es: se Alfa spa vendesse l’immobile a Caio, l’agenzia delle entrate potrebbe disconoscere il
prezzo di compravendita dichiarato dalle parti affermando che c’è stato un prezzo corrisposto
in misura maggiore in nero, e può farlo se ha prove documentali o elementi presuntivi (come
sopra).
Una tipologia accertativa contabile molto diffusa è il “tovagliometro”: se un ristoratore dichiara
redditi per 100.000€, e ha pagato la lavanderia per 5.000 tovaglioli in un anno, e un cliente medio
spende 25€ a pasto, l’Agenzia delle entrate può constatare che i redditi non erano 100.000€ ma
125.000€ (5.000 tovaglioli x 25€) e che quindi il ristoratore ha evaso. A questo punto, il
ristoratore può difendersi dicendo che vengono usati più tovaglioli per cliente, o che anche i
dipendenti usano i tovaglioli, o che i tovaglioli vengono usati per fare i cigni sulla tavola, o ancora
che la media statistica non è precisa... in effetti, questa presunzione può non sembrare grave
precisa e concordante, è una prova che non regge più di tanto secondo la dottrina, eppure la
giurisprudenza prevalente ritiene che tale presunzione è effettivamente grave precisa e
concordante.
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in rettifica, mentre se lo fa dopo i 90 giorni, la dichiarazione si considera omessa. L’omissione
dichiarativa è molto importante perché attiva l’accertamento d’ufficio, e perché le sanzioni
amministrative e penali sono molto più gravi che per una dichiarazione infedele.
L’accertamento d’ufficio per dichiarazione omessa è molto simile all’accertamento extra contabile,
cioè fa si che l’agenzia delle entrate ricostruisca il reddito avvalendosi di dati e notizie, comunque
venuti a conoscenza dell’agenzia, e di presunzioni anche se non gravi, non precise e non
concordanti, abbassando le tutele del contribuente. Questa è una sanzione giustificata al fatto di
non aver presentato la dichiarazione o averlo fatto con molto ritardo...
Ad oggi ci sono tutti gli elementi per ritenere questo principio anche valido nel diritto tributario: ci
sono tutti i presupposti, anche a livello europeo, e questo è un tema molto dibattuto dagli studiosi.
Se questo principio fosse davvero riconosciuto e generalizzato, sarebbe presente in ogni istituto di
diritto tributario, per ogni provvedimento autoritativo, per ogni accertamento, per ogni tributo: oggi
non è così, e quindi questo principio non è ancora totalmente generalizzato.
Il contraddittorio, quindi, è conosciuto anche nel diritto tributario, ma solo per specifiche imposte
o per specifici moduli accertativi:
1. Accertamento sintetico delle persone fisiche (vedi sopra): si basa su una presunzione che fa
sì che l’Agenzia delle Entrate ricostruisca la capacità di spesa e quindi presumere un
determinato reddito. In questo caso, l’Agenzia deve dare la possibilità del contribuente
(prima dell’avviso di accertamento) di presentare memorie e ricostruzioni. Se l’avviso viene
emanato senza contraddittorio precedente, questo sarà nullo!
2. Ipotesi in cui l’accertamento abbia ad oggetto l’abuso del diritto o elusione: quando il
contenuto dell’accertamento riguardi la specifica ipotesi di elusione fiscale o abuso di diritto,
deve essere data la possibilità al contribuente di presentare osservazioni.
3. Ipotesi in cui il contribuente subisca un accesso/ispezione/verifica (poteri istruttori in cui
l’Amministrazione Finanziaria entra nei locali...): quando l’accesso si conclude, ossia quanto
viene conclusa la verifica fiscale, l’Amministrazione finanziaria deve consegnare al
contribuente un verbale (PVC: processo verbale di constatazione) come riassunto delle
attività svolte durante la verifica, e il preview delle violazioni riscontrate. È un atto interno
all’amministrazione anche se una copia viene rilasciata al contribuente: l’art. 12 comma 7
dei diritti del contribuente prevede che con il rilascio di questo PVC si apra un contraddittorio
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tra contribuente ed amministrazione (entro 60 gg il contribuente può presentare memorie
e contestazioni, prima che venga emanato l’avviso di accertamento).
4. Accertamento per studi di settore (vedi nel libro: è un’ipotesi ormai marginale)
Avviso di accertamento
È l’atto emanato dopo un controllo e accertamento, quando l’Amministrazione Finanziaria vuole
contestare un maggior imponibile e quindi un maggior tributo. È un provvedimento amministrativo,
cioè è un atto che ha natura provvedimentale, e quindi ha la capacità di incidere sulla sfera giuridica
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del soggetto: produce effetti che diventano definitivi trascorsi 60 giorni. L’Avviso deve essere
notificato al contribuente: l’agenzia delle entrate accerta il maggior tributo (e a monte la base
imponibile e il presupposto) e irroga le sanzioni. Questo accertamento e l’irrogazione, ha
un’efficacia nei confronti del contribuente che diventa definitiva trascorsi i 60 giorni. In questi 60 gg
il contribuente può impugnare l’avviso di accertamento, ma se lascia trascorrere i 60 gg l’atto
diventa definitivo e il contribuente non può più farci niente (riscossione coattiva).
Nella sequenza procedimentale del tributo, l’avviso di accertamento è il primo atto
provvedimentale (gli atti precedenti, tipo il PVC, sono atti endoamministrativi): l’avviso di
accertamento è il primo atto che il contribuente deve impugnare.
Qual è la differenza tra avviso di accertamento e cartella esattoriale?à La cartella esattoriale, è un
atto impositivo, ma è un atto della riscossione, cioè di una fase successiva ed eventuale.
Se dopo l’avviso di accertamento il contribuente non paga, e non impugna, si apre la fase di
riscossione: l’agenzia delle entrate emana una cartella esattoriale (quindi è solo dopo).
L’avviso di accertamento chiude quindi l’atto di accertamento, mentre la cartella esattoriale è un
procedimento successivo ed eventuale che riguarda la riscossione.
L’avviso di accertamento è un atto di competenza dell’Agenzia delle Entrate (per i tributi che
studiamo noi, cioè IRPEF, IRES, IRAP, ecc); per i tributi doganali la competenza è dell’Agenzia delle
dogane, mentre per altri tributi locali è del comune...
La direzione provinciale competente dell’Agenzia delle Entrate si basa sul domicilio fiscale del
contribuente: per i contribuenti residenti, deve emanare l’avviso di accertamento l’ufficio della
direzione provinciale dell’Agenzia della provincia in cui il soggetto residente ha il proprio domicilio
fiscale (corrisponde al comune in cui il soggetto ha l’iscrizione anagrafica oppure, per le società, il
comune della sede legale).
Dal punto di vista contenutistico, l’avviso di accertamento è composto da due elementi distinti:
1. Motivazioneà è previsto espressamente dalla Legge e dallo stesso art. 97 Cost (ogni atto
amministrativo deve essere motivato), in modo che il soggetto possa comprendere il
fondamento dell’atto, per trasparenza e per garantire il diritto di difesa del contribuente.
L’obbligo di motivazione nell’avviso di accertamento è l’obbligo da parte dell’ufficio di
evidenziare ed esternare l’iter logico-giuridico che costituisce il fondamento dell’accertamento
stesso (della pretesa impositiva). L’ufficio, per rispettare l’obbligo di motivazione, deve:
o Indicare i presupposti di fatto alla base dell’accertamento stesso
o Indicare il metodo accertativo utilizzato (sintetico, analitico...)
o Indicare l’esito giuridico dell’accertamento, ossia la qualificazione giuridica data della
fattispecie applicando quel metodo accertativo: si deve quindi indicare qual è il risultato
accertativo sul piano giuridico realizzato.
o Qualora l’Amministrazione Finanziaria utilizzi il rinvio ad altri atti o documenti, è
necessario che l’avviso alleghi questi atti o documenti se già non sono conosciuti o
conoscibili dal contribuente (es: il PVC precedentemente redatto, non deve essere
obbligatoriamente allegato perché il contribuente già lo conosce, ma comunque per
prassi normalmente vengono allegati lo stesso). Se l’Agenzia ha utilizzato degli atti non
conosciuti dal contribuente, deve necessariamente allegarli.
Quando c’è la motivazione rafforzata, questa deve essere maggiormente strutturata: vi è
obbligo di motivazione rafforzata quando il sistema prevede l’obbligo del contraddittorio (cioè
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vi deve essere una motivazione rafforzata quando, dopo aver sentito il contribuente, l’Agenzia
ritiene di non dover accogliere le sue osservazioni e decide di emanare comunque l’avviso di
accertamento).
2. Parte dispositivaà è la parte dell’avviso di accertamento con cui l’ufficio indica l’imponibile
accertato (normalmente vi è il raffronto di quanto dichiarato dal contribuente e quanto calcolato
dall’Agenzia stessa)
È bene analizzarli ora perché da un punto di vista pratico coesistono con l’attività di accertamento.
Questi vengono infatti attivati prima o subito dopo l’emanazione dell’avviso di accertamento da
parte dell’Agenzia delle entrate.
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Sono strumenti che si inseriscono nella fase di attuazione del tributo. Tuttavia, non sono
necessariamente sempre presenti, ma sono strumenti cd. “eventuali”, a contrario invece della fase
di controllo che è strutturalmente integrata per ogni contribuente.
Anche se non sempre vengono utilizzati, possono essere attivati ad istanza dello stesso contribuente
(più frequentemente) o su istanza della stessa amministrazione finanziaria.
Sono moduli estremamente importanti (e nella pratica anche molto diffusi) perché consentono
incontro, confronto e collaborazione fra contribuente e amministrazione finanziaria, al fine di
prevenire un contenzioso o risolverne uno già attivo (contenzioso non per forza processuale. Può
essere anche una situazione di attrito fra situazione potenziale e situazione attuale).
Il legislatore ha progressivamente creato questi strumenti per perseguire diverse finalità:
- la finalità principale è quella di creare situazioni di certezza giuridica (in particolare, di certezza
dei rapporti).
- Non di meno, tali moduli sono strumentali a deflazionare il contenzioso, dato che
l’amministrazione finanziaria e il contribuente si accordano prima di giungere ad un processo.
- Esiste poi da ultimo l’esigenza dello Stato di “fare cassa” (preferenza di incassare subito quanto
dovuto dal contribuente anche se in misura ridotta piuttosto che complessivamente ma dopo
lungo tempo (tempi processuali lunghi). Si prediligono le “risorse immediate”).
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• Su istanza dell’Agenzia delle entrate. Formalmente vige un obbligo in capo all’Agenzia delle
Entrate di invitare il contribuente per avviare il procedimento di adesione prima di emanare
l’atto dell’avviso di accertamento (per evitare il contenzioso). Tuttavia, non è un obbligo
generalizzato, perché sono numerosi i casi in cui può in realtà non farlo (es. non è previsto per
avviso di accertamento parziale). Se l’agenzia avvia l’accertamento per adesione, e questo non
si chiude perché non c’è accordo, viene emanato l’avviso di accertamento normale al seguito
del quale il contribuente però non può più avviare la procedura di accertamento per adesione.
Dopo che c’è stata l’iniziativa di dare avvio alla procedura di accertamento con adesione, la Legge
poi non disciplina come debba avvenire la procedura di contrattazione fra le parti vera e propria.
La prassi, perciò, stabilisce che le parti debbano incontrarsi (o fisicamente, o tramite contatto per
mail, o tramite strumenti virtuali, o telefonicamente) un numero imprecisato di volte, basta che sia
funzionale a trovare una soluzione. Va sottolineato che l’agenzia sa già il quantum di evasione o
elusione del soggetto, gli incontri esprimono il tentativo di stabilire l’esatto maggior tributo (a cui
corrisponde la maggior sanzione) che il contribuente accetta di versare. Il contribuente ammette di
aver evaso/eluso un tot e che pagherà sanzioni solo per quel tot.
Come si realizza l’incontro fra contribuente e amministrazione? Su che piano (istruttorio, di accordo
ecc.)? può essere una scelta arbitraria di una o dell’altra parte?
Siamo in presenza di una obbligazione pubblica che sottostà al principio di legalità e di parità di
trattamento. Sono obblighi costituzionali e perciò indisponibili. Non è lecito risolvere una
obbligazione pubblica tramite un accordo privatistico fra le parti sull’ammontare dovuto. Il
confronto fra contribuente e amministrazione finanziaria si deve infatti svolgere su un piano
istruttorio.
L’accertamento con adesione deve essere l’occasione per le parti di valutare insieme gli elementi
provatori e istruttori raccolti, ed eventualmente portane di nuovi (specialmente il contribuente). Il
contribuente può infatti portare elementi di prova che convincano l’agenzia delle entrate che il
debito reale è minore di quello accertato.
Nella prassi con i contribuenti più virtuosi si valutano le prove, si interpretano le norme (è possibile,
infatti, “giocare” sull’interpretazione delle norme in materia) e si fa una valutazione oggettiva. Non
c’è nessuna trattativa in senso privatistico (es. ti devo 100, ma ho solo 60 che ti darei però subito.
Concludiamo l’accordo così che otteniamo qualcosa entrambi).
Una volta conclusa la trattativa, come già detto, viene emanato l’avviso di accertamento per
adesione. Questo viene firmato dal contribuente che per questo paga meno di quando avrebbe
dovuto pagare con il normale avviso di accertamento. Il vantaggio per l’Agenzia delle Entrate è
quello che incassa subito (win-win. Vincono tutti).
Dopo la firma però, il contribuente può non pagare? No. Questo perché l’accertamento per
adesione si perfeziona con il pagamento. Se non avviene il pagamento è come se non fosse mai
stato attuato, e torna in vigore quanto disposto dal primo avviso di accertamento. La logica
sottostante è di tutela dell’amministrazione finanziaria, cioè che il contribuente abbia un vantaggio
solo se lo ha simultaneamente l’amministrazione finanziaria.
Altri strumenti
Vi sono poi altri strumenti simili all’accertamento per adesione poiché vi è sempre un accordo fra le
parti, ma questi strumenti sono istituti processuali. Sono:
• Mediazione giudiziale: quando è già stato notificato il ricorso.
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• Conciliazione giudiziale: durante il processo, le parti raggiungono un’intesa sul quantum da
versare.
Questi strumenti (tutti e tre) sono cumulabili. Il legislatore preferisce sempre evitare la via
processuale.
Vi è inoltre un ultimo strumento, anche se poco utilizzato: la transazione fiscale.
Questo strumento vive nel diritto concorsuale ed è infatti disciplinato dalla legge fallimentare. In
questo tipo di procedimento, l’Agenzia delle Entrate può eliminare, ridurre o dilazionare dei debiti
tributari in relazione a concordati preventivi o accordi di ristrutturazione del debito.
La rinuncia è una ipotesi estrema (remissione), infatti è una delle poche ipotesi in cui è ammesso
che l’Amministrazione Finanziaria disponga del debito tributario. Siamo però in una situazione al
limite, che privilegia la conservazione dell’impresa permettendo di evitare la procedura fallimentare
(a seguito della quale magari comunque non prenderebbe nulla, ma almeno non ha gravato
ulteriormente su una situazione già di crisi).
Ravvedimento operoso
È un istituto che opera quando, dopo aver presentato la dichiarazione tributaria e scaduti i termini
di presentazione della stessa, il contribuente si accorge di aver presentato una dichiarazione
infedele. Può perciò sempre presentare una dichiarazione integrativa con cui “si autodenuncia”.
Perché farlo? Può essere che nessuno se ne accorga e non venga perciò sanzionato.
Questo istituto permette quindi al contribuente di correggere i propri errori dichiarativi o di
versamento procedendo a rettificare l’errore o versare il dovuto, corrispondendo i tributi nel modo
corretto ottenendo un abbattimento delle sanzioni (che il contribuente deve auto-calcolarsi e
versare assieme a quanto dovuto). Più trascorre il tempo, maggiori saranno le sanzioni applicabili
(quanto? Vedi manuale).
Il contribuente è premiato perché si autodenuncia spontaneamente. Il ravvedimento non è possibile
nel momento in cui viene emanato un avviso di accertamento. La spontaneità è comunque fatta
salva anche quando il soggetto è a conoscenza che l’Agenzia delle Entrate stia effettuando dei
controlli sulla sua situazione.
Oltre a quelli già visti sopra, esistono altri istituti cooperativi che vanno presi in considerazione sono:
Acquiescenza
È il comportamento del contribuente che, entro i 60 gg in cui l’avviso deve essere impugnato per
contestarlo, rinuncia all’impugnazione prestando acquiescenza all’avviso stesso, tramite il
pagamento integrale del tributo oggetto di accertamento. Va dimostrata per fatto concludente,
ovvero il pagamento. L’acquiescenza dà il beneficio di una riduzione sanzionatoria ad 1/3 del
minimo edittale (simile a ciò che avviene per la multa).
Oggi è un istituto comunque abbastanza residuale, perché un contribuente avveduto può adottare
altre scelte:
- Nel ravvedimento operoso la riduzione sanzionatoria è maggiore rispetto all’acquiescenza e
quindi potrebbe risultare più conveniente;
- Il contribuente potrebbe adottare l’accertamento per adesione: se il contribuente avvia
l’accertamento per adesione e non si raggiunge l’accordo, il contribuente può o impugnare l’atto
o pagare, senza avvalersi dell’acquiescenza (che si può realizzare solo se nei 60 gg il contribuente
rinuncia a tutto e paga). Se il contribuente paga il 61esimo giorno, non c’è più riduzione
sanzionatoria, e anzi, se inizia la fase di riscossione coattiva, ci saranno gli interessi e l’aggio della
riscossione (surplus aggiunto che va ad aumentare ancora il debito fiscale-vedi dopo).
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Autotutela
È un istituto di diritto amministrativo che consente all’Agenzia di rimediare ad un proprio errore: si
applica quando l’Amministrazione Finanziaria emette un atto impositivo (tipicamente un avviso di
accertamento) che riconosce essere viziato/illegittimo per motivi formali o sostanziali (es: carenza
di motivazione, vizio di notifica, errore sul soggetto dell’avviso di accertamento, errore sulla base
imponibile...).
Tale istituto, nel diritto tributario, è disciplinato da un Regolamento Ministeriale (DM n. 37/97 in
materia di autotutela tributaria) come potere discrezionale dell’Amministrazione, sia
nell’attivazione che nella scelta se annullare o non annullare;
Tale decreto, tuttavia, riconosce anche la facoltà del contribuente di chiedere l’avvio del
procedimento di autotutela (potere che è in capo anche al garante del contribuente).
Quindi, tale procedimento può essere avviato:
- dall’Agenzia stessa
- dal contribuente
- dal garante
Ciò non significa obbligare l’agenzia ad annullare l’atto, ma l’Agenzia può discrezionalmente
valutare se andare avanti con l’autotutela o meno (cioè non vi è un diritto all’autotutela per il
contribuente). Se il contribuente vuole far annullare l’atto per un vizio dell’atto, può andare davanti
al giudice se impugnato entro 60 gg. Se il contribuente riceve l’avviso di accertamento ed ha 60 gg,
e in questo tempo presta istanza di autotutela, se i 60 gg decorrono l’atto diventa definitivo.
Se l’atto è palesemente viziato non c’è un diritto del contribuente all’annullamento dell’atto (questo
è molto chiaro in giurisprudenza), in quanto se si riconoscesse un diritto illimitato all’autotutela,
sarebbero scardinati i termini per impugnare e questi non esisterebbero più.
Interpello
La collaborazione, negli altri istituti visti, va a chiudere una lite potenziale sorta su una fattispecie,
mentre l’interpello si situa in un momento anteriore, ancora prima che il contribuente realizzi il
presupposto e/o presenti la dichiarazione.
Per sua fisiologia, quindi, l’interpello opera sulla scelta del contribuente o prima che il contribuente
compia un’operazione (es: prima di una fusione), oppure quando il presupposto è stato realizzato
MA non ha ancora presentato la dichiarazione, formulando l’interpello per capire come porre in
essere i comportamenti fiscali. In questo modo, si fa sì che contribuente e agenzia collaborino per
evitare in radice ogni possibile successiva contestazione.
L’interpello è un istituto disciplinato dallo Statuto dei diritti del contribuente (art. 11 della L.
212/2000): consiste nel diritto del contribuente di rivolgere all’Agenzia delle entrate una istanza al
fine di chiedere un parere qualificato per applicare le norme di legge ad una specifica fattispecie.
L’interpello è una sorta di consulenza giuridica specifica in relazione a quel caso di quel
contribuente: questo istituto si caratterizza per il fatto che la risposta che l’Amministrazione
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Finanziaria darà (espressa o tacita) è una risposta che vincola tutti gli uffici dell’Agenzia delle Entrate
d’Italia e quindi è direttamente vincolate. È una totale certezza giuridica e un affidamento totale nei
confronti del fisco.
Es: un contribuente vuole ristrutturare un immobile e si chiede se può avvalersi del superbonus, e il
contribuente fa un interpello all’Agenzia delle Entrate per chiederglielo. La direzione regionale gli
risponde di sì. Dopo che la ristrutturazione è avvenuta, l’Agenzia va a negare la detrazione per il
superbonus. Il contribuente, a tal punto, può far valere la risposta all’interpello: ogni avviso di
accertamento che contrasta con l’interpello è nullo (il giudice non deve nemmeno scendere nel
merito).
Se si chiede un interpello significa che c’è un dubbio, tra una soluzione favorevole al fisco e una
sfavorevole al fisco: se l’agenzia dà una risposta a me sfavorevole e a lui favorevole (e capita spesso)
negandomi il superbonus, il contribuente può anche procedere con la richiesta del superbonus, ma
ha acceso la lucina rossa all’Agenzia che potrà eseguire un accertamento fiscale in futuro...
In alcuni casi, è sconsigliabile richiedere l’interpello; è comunque uno strumento molto utilizzato
perché dà certezza e vincola l’agenzia (solo l’agenzia, e non il contribuente).
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- L’agenzia ha 90 gg di tempo per rispondere
all’interpello ordinario, o 120 gg per gli altri
interpelli. Qualora l’agenzia delle entrate non
risponda nel termine, la Legge prevede che si formi
il silenzio assenso: il silenzio equivale all’accettazione della soluzione proposta dal contribuente
(per questo è importante che il contribuente dia una propria soluzione al dubbio oggetto di
istanza di interpello)
- La risposta dell’Agenzia delle entrate è vincolante per tutti gli uffici italiani dell’Agenzia delle
Entrate: qualunque atto impositivo emesso dagli uffici dell’Agenzia delle Entrate che contrasti
con la risposta fornita a seguito dell’istanza di interpello, è automaticamente nulla, senza dover
entrare nel merito della questione. In alcune ipotesi eccezionali, l’Agenzia potrebbe però
rettificare successivamente la risposta all’interpello, dopo qualche mese: se il contribuente ha
però ha eseguito l’operazione, la sua tutela è piena e non può essere attaccato.
Oltre a quelli già visti, il legislatore ha previsto altre tecniche di compliance, come veri e propri
procedimenti che fanno sì che soggetti che vogliono operare nel nostro paese abbiano la possibilità
di definire alcune questioni preventivamente con l’Amministrazione Finanziaria. Sono modelli
previsti a partire dal 2015:
- Interpello su nuovi investimenti (interpello speciale): si rivolge ai soggetti che vogliono investire
almeno 30 milioni di euro in Italia. Vi è una disciplina ad hoc, anche se la struttura è simile al
normale interpello visto sopra.
- Interpello internazionale: è rivolta alle imprese residenti o stabili in Italia ma che lavorano in
contesti internazionali. Hanno la possibilità di procedere ad un interpello per una forma di
compartecipazione, con una sorta di dialogo (e non semplicemente domanda e risposta).
- Modelli di adempimento collaborativo (i cd. coperative compliance): sono modelli avanzati di
compliance fiscale, riservati oggi alle imprese che hanno grandi dimensioni (con fatturato non
inferiore a 10 miliardi di euro). La prima azienda che ha presentato un interpello di questo tipo
è la Ferrero. Vi è un dialogo quotidiano tra fisco e impresa, con un monitoraggio e una
trasparenza totale dei documenti e accessi. È un modello un po’ controverso che prevede un
dispendio enorme di risorse per l’Agenzia stessa (inoltre, non tutte le imprese sono disposte ad
una trasparenza così grande nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria).
Il momento di accertamento del tributo può anche essersi già concluso, se l’Agenzia non ha trovato
nulla, oppure se c’è stato ravvedimento operoso, acquiescenza, accertamento per adesione, ossia il
soggetto ha assolto al debito tributario.
Se invece non si è ancora giunti ad un adempimento del contribuente, l’obbligazione non è stata
assolta: se il contribuente non fa nulla dopo l’avviso di accertamento (non lo paga, non lo impugna),
il procedimento non ha motivo di concludersi, e quindi va avanti. Da questo momento in poi, chiusa
la fase di accertamento, si parla di fase di riscossione coattiva. Si chiama riscossione coattiva perché
non è più spontanea. Il contribuente può ancora pagare senza avere un’esecuzione forzata
(sicuramente con interessi e sanzioni), ma siamo sempre in una fase di riscossione coattiva.
Questa è l’ultima fase procedimentale. Il protagonista di questa fase è l’Agenzia delle Entrate
Riscossione: è un ufficio diverso rispetto all’Agenzia delle Entrate.
La fase della riscossione può essere attivata sulla base di tre possibili procedimenti alternativi:
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1. Procedimento tradizionale: riscossione tramite iscrizione a ruolo. Le somme contenute
dell’avviso di accertamento confluiscono in un ruolo, consegnate dall’Agenzia delle Entrate
all’Agenzia delle entrate-riscossione, prendendo il nome di cartella di pagamento. Ricevuta
la cartella di pagamento, il contribuente sa che se non pagherà si procederà all’esecuzione
forzata. Il contribuente quindi riceve due atti, prima l’avviso di accertamento, poi la cartella
esattoriale (anche chiamata cartella di pagamento, è la stessa cosa)
2. Concentrazione della riscossione nell’accertamento: secondo procedimento alternativo: Vi
è la saldatura tra accertamento e riscossione in quanto l’avviso di accertamento funge da
atto di precetto ed intimazione ad adempiere. Non vi sono due atti distinti (avviso di
accertamento e cartella di pagamento) ma uno solo, e dopo questo unico atto, vi può essere
l’esecuzione forzata.
3. Ingiunzione fiscale: ipotesi praticamente non più esistente in quanto residuale, applicato
attualmente per qualche tributo locale.
- Iscrizione a ruolo a titolo provvisorioà consiste in una iscrizione a ruolo di natura provvisoria,
ovvero il debito (nell’an e nel quantum) può essere messo in discussione in future evoluzioni del
rapporto tra contribuente e amministrazione finanziaria; la principale ipotesi è quella che deriva
da un atto impositivo (es: avviso di accertamento o avviso di liquidazione) e questo atto viene
impugnato dal contribuente, e la validità/legittimità/fondatezza del debito sono sub-iudicem in
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quanto sarà la commissione tributaria a decidere se è dovuto il tributo e in che ammontare.
L’impugnazione dell’atto impositivo non sospende l’esecutorietà dell’atto, perché l’Agenzia in
ogni caso è legittimata a procedere con la riscossione del tributo (non di tutto, ma solo di una
parte): è la regola della riscossione frazionata del tributo. Se il contribuente impugna l’avviso di
accertamento, l’impugnazione non sospende l’atto e autorizza l’Agenzia a procedere con
l’esecuzione e il contribuente dovrà pagare 1/3 della somma oggetto dell’avviso di accertamento
(mentre le sanzioni non si pagano in riscossione frazionata). Se il contribuente vince in primo
grado l’Agenzia glie li restituisce. Se il contribuente perde in primo grado dovrà dargliene ancora.
Se il contribuente perde anche in secondo grado, un altro po’, fino ad arrivare in cassazione. Se
in Cassazione vince il contribuente, l’Agenzia gli verserà tutto ciò che ha versato, viceversa dovrà
pagare tutto. È proprio per questo che si parla di iscrizione a ruolo a titolo provvisorio, a seconda
delle future vicende processuali. Si può evitare l’applicare di questa regola, ossia se l’Agenzia
vuole tentare di riscuotere tutto subito (non solo 1/3), oppure il contribuente non voglia pagare
niente (e non 1/3) fino alla fine del processo, si possono utilizzare due strade differenti.
o L’Agenzia che voglia ottenere tutto e subito può iscrivere le somme nel cd. ruolo
straordinarioà qui vengono iscritti i debiti fiscali rispetto ai quali vi è un fondato pericolo
per la riscossione (rischio che il contribuente disperda le proprie garanzie patrimoniali):
in questi casi l’Agenzia può iscrivere a ruolo il 100% dei debiti fiscali anche se l’atto è
stato impugnato. È il massimo della tutela dell’Agenzia delle Entrate. Non c’è
discrezionalità: l’Agenzia può iscrivere a ruolo straordinario solo se il pericolo è provato,
ossia l’Agenzia deve motivare l’iscrizione a ruolo straordinario. Il contribuente iscritto nel
ruolo straordinario può però contestare questo, impugnando la cartella di pagamento
(Vedi dopo). In tal caso ci sarà un doppio contenzioso (avviso di accertamento e iscrizione
a ruolo straordinario). Un esempio in cui l’Agenzia può provare tale rischio è il caso in cui
una società sia già in liquidazione, oppure se si dimostra che il contribuente ha
cominciato a disperdere il patrimonio con donazioni a familiari... in alcuni casi l’Agenzia
non motiva l’iscrizione: questo è causa di nullità di iscrizione al ruolo straordinario.
o Il contribuente che non vuole pagare nemmeno 1/3, può rivolgersi alla commissione
tributaria. Se il contribuente ha impugnato un avviso di accertamento, può, quando
redige il ricorso, chiedere la sospensione dell’esecutorietà dell’atto impugnato. La
commissione fissa un’udienza riguardo la richiesta cautelare e in questa udienza (decisa
con ordinanza non impugnabile) viene deciso se concederlo o no. Il contribuente, per
ottenerlo, deve provare che la riscossione frazionata determinerebbe un danno grave e
irreparabile, cioè provare che sborsare quelle somme gli creerebbe un danno non più
riparabile, ad esempio obbligarlo a svendere i propri beni, o a chiudere l’azienda... questo
viene spesso concesso dalla commissione tributaria, ma devono esserci ragioni
verosimili. La stessa richiesta può essere fatta anche dopo che il contribuente perda in
primo grado oppure perda in secondo grado (impedendo quindi che si vada avanti con
la riscossione frazionata fino alla fine del processo), ma più si va avanti più è difficile
ottenere questo beneficio da parte della commissione tributaria.
La cartella di pagamento
I ruoli sono periodicamente messi a disposizione all’Agenzia delle Entrate-riscossione, che estrapola
le singole posizioni (dati contribuente, tributo da versare, titolo dell’iscrizione, motivo
dell’iscrizione...). Questi contenuti vengono trasferiti in un atto individuale, destinato ad essere
notificato al contribuente, che prende il nome di cartella di pagamento: altro non è che un estratto
del ruolo, ma mentre il ruolo è un atto collettivo, la cartella di pagamento è un atto individuale.
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La cartella di pagamento è un atto di precetto, perché contiene l’intimazione del contribuente a
versare la somma richiesta entro 60 gg e l’avviso che, in mancanza del pagamento, si procederà
all’esecuzione forzata.
- Se nei 60 gg il contribuente paga, si estingue l’obbligazione tributaria (le somme ormai sono
piene, senza riduzioni premiali, ma anzi è compresa di sanzioni e interessi legali).
- Se invece nei 60 gg non paga, iniziano a decorrere gli interessi moratori e si applica il cd. aggio
di riscossione (circa 3-4%) ovvero una somma percentuale del tributo che costituiva,
anticamente, la remunerazione dell’esattore. Oggi si pensa che questa somma non abbia più
senso di esistere in quanto non esiste più un esattore privato ma pubblico. Prima che gli vengano
pignorate le varie cose, o anche dopo, il contribuente potrà ancora pagare cash, ma sempre con
gli interessi moratori e l’aggio.
Questo ha portato il legislatore a creare un nuovo sistema, alternativo rispetto all’iscrizione a ruolo:
a partire dal 1° ottobre 2011, per i tributi più importanti (Ires, Irpef, Iva e Irap) la riscossione in base
al ruolo è stata sostituita dal sistema della riscossione in base al cd. accertamento esecutivo. In tal
modo, si concentra nell’avviso di accertamento sia l’avviso accertativo che l’avviso di riscossione.
Vi è quindi un normale avviso di accertamento, ma con due anime: vi è un’anima accertativa (con
tutto ciò che ne deriva) ma quell’atto contemporaneamente è anche precetto, perché contiene
l’intimazione ad adempiere in 60 gg con l’avvertenza che dopo i 60 gg potrebbero iniziare le fasi
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esecutive. Viene quindi eliminata la fase intermedia del ruolo, accelerando i tempi, diminuendo le
possibilità di vizi formali. Il contribuente impugnerà eventualmente solo questo unico atto.
È stato previsto che, notificato l’avviso di accertamento, il contribuente ha 60 gg per impugnare (si
può arrivare anche alla richiesta di sospensione dell’atto); poi, l’Agenzia deve aspettare almeno 30
gg per affidare il titolo esecutivo all’Agenzia delle entrate riscossione (che riceve l’avviso di
accertamento diventato esecutivo). L’Agenzia delle Entrate riscossione a tal punto notifica una
comunicazione (non è un atto ma solo un avviso), e questo è l’ultimo momento per il contribuente
di pagare (ed eventualmente di rateizzare). L’Agenzia riscossione deve poi aspettare 180 gg prima
di iniziare l’esecuzione forzata: in questo tempo, può porre in essere delle misure cautelari del
proprio credito.
Le imposte sui trasferimenti continuano ad essere riscosse con il sistema del ruolo, così come
l’irrogazione di sanzioni che continuano a essere riscosse con il ruolo; dal 2020, invece, i tributi locali
sono riscossi con accertamento esecutivo.
Misure cautelari
Le misure cautelari sono strumenti che l’Amministrazione Finanziaria può porre in essere per
garantire la conservazione del proprio credito. Qualunque sia l’iscrizione a ruolo o l’accertamento
esecutivo, può iniziare l’esecuzione forzata, ma non inizia subito, per motivi operativi e di ordine
legale (c’è un iter specifico che subordina l’inizio della fase dell’esecuzione). In questo lasso di
tempo, ci può essere l’esigenza dell’AF di porre in essere delle misure (non ancora esecuzione
forzata) che mirano a bloccare i beni, per evitare che questi vengano venduti o il denaro fatto sparire
in conti esteri, ecc.
Quindi, lo scopo principali delle misure cautelari è proprio quello di evitare di rendere
potenzialmente infruttuosa l’esecuzione forzata; inoltre, alcune misure cautelari hanno anche la
funzione di creare pressione psicologica al contribuente (una sorta di stalking fiscale) e per questo
sono da alcuni ritenute incostituzionali.
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trascorrere dei 60 gg dalla cartella di pagamento. Il contribuente, prima che avvenga ciò,
riceve un avviso di iscrizione ipotecaria; se il contribuente vuole evitarlo, allora paga
l’imposta.
2. Fermo amministrativo: è molto criticato dalla dottrina. L’Agenzia delle entrate ha la
possibilità di disporre il fermo amministrativo dei beni mobili del contribuente iscritti nei
pubblici registri. Questo fa sì che il veicolo sottoposto a fermo amministrativo non possa
circolare. A differenza dell’ipoteca, che determina la possibilità dell’Agenzia di essere
privilegiata quando il bene verrà sottoposto ad esecuzione forzata, il fermo non dà alcuna
garanzia all’Agenzia, ma è una semplice forma di pressione fiscale, una cattiveria, per questo
è uno strumento ritenuto da molti incostituzionale e irrazionale legislativamente.
Nonostante ciò, funziona, perché in diversi casi il contribuente piuttosto che rimanere a piedi
paga.
Esecuzione forzata
L’esecuzione forzata è l’ultima fase di tutto, fase che ovviamente può anche non esserci se il
contribuente paga prima. I termini per l’avvio della fase di esecuzione forzata sono diversi, a
seconda che ci sia stata iscrizione a ruolo o accertamento esecutivo:
- Nel caso di iscrizione a ruolo, l’Agenzia non può avviare la fase di esecuzione forzata prima di 60
gg dalla notifica della cartella
- Nell’accertamento esecutivo, l’Agenzia deve invece attendere 180 gg (prima può solo fare
ipoteche o fermi di veicoli).
Se l’esecuzione non inizia entro un anno, al contribuente deve essere notificato un nuovo atto
(avviso di mora) che rinnova l’atto di precetto. Se il contribuente ancora non adempie, si prosegue.
La disciplina dell’esecuzione forzata è dettata sia dalle norme di diritto tributario che dalle norme
dettate dal Codice di procedura civile: i vari passaggi sono molto dettagliati (e non ci interessano ai
fini del nostro esame)
In ogni caso, il contribuente si può ancora tutelare: in questa fase possono essere compiuti errori
clamorosi dall’Agenzia, con violazioni o vizi non irrilevanti. Il contribuente, quindi, può far valere i
propri diritti di fronte al giudice: se il contribuente contesta la regolarità/legittimità, sostanziale o
formale, del titolo esecutivo, l’atto deve essere impugnato di fronte al giudice tributario. Viceversa,
se il vizio attiene alle modalità con cui viene eseguito un singolo atto esecutivo (il titolo c’è ma il
pignoramento è stato eseguito in violazione delle norme di procedura civile), la competenza è del
giudice ordinario.
Le sanzioni amministrative vengono irrogate sulla base di tre possibili procedimenti, distinti da
punto di vista normativo, ma così denominati dalla dottrina:
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• Procedimento semplificato: disciplinato all’art.17 del Decreto Legislativo n. 472/1997. È il
procedimento più utilizzato e ricorrente perché si applica alle sanzioni amministrative irrogate
contestualmente al maggior tributo accertato. Quando la sanzione è contestata nell’ambito
dello stesso procedimento, nello stesso atto con cui è accertata la maggior imposta, siamo
nell’ambito di un procedimento “di irrogazione immediata delle sanzioni” (quindi appunto
semplificato) perché nel medesimo avviso di accertamento l’Agenzia delle Entrate accerta e
contesta il quantum del maggior tributo e applica le sanzioni.
Essendo la contestazione contenuta in un atto, la sorte dell’atto segna anche la sorte della
ripresa sanzionatoria (es. quiescenza dell’atto, pagamento entro sessanta giorni con
abbattimento dei costi di un terzo. Col calare dell’imposta cadono anche le sanzioni). La sorte
dell’atto segna la definitività giuridica anche della sanzione. L’Agenzia delle Entrate è obbligata
ad utilizzare questo procedimento se contesta una sanzione che è strettamente collegata al
maggior tributo che viene accertato (es. dichiarazione infedele o omessa (violazione
sostanziale)). Così anche il contribuente può contestare (e impugnare) un unico atto invece che
due atti separati che fanno riferimento alla stessa cosa (rif. principio di trasparenza ed
economicità che vige nella PA). Se l’Agenzia non lo fa ed emana due atti distinti, c’è una
violazione (che non succede quasi mai, di solito nelle imposte di donazione e di registro) e
illegittimità (nullità) dell’atto di irrogazione delle sanzioni. Ci sono quindi dei presupposti che
vincolano l’agenzia delle entrate nella scelta del procedimento.
Nel momento in cui l’atto viene emanato (avviso di accertamento, maggior tributo e sanzione
correlata), la pretesa sanzionatoria e la pretesa accertativa è unica (se impugno l’atto, impugno
tutto. Se accetto, accetto tutto ecc.). L’unica eccezione deriva dalla quiescenza alle sole sanzioni.
Istituto introdotto non da molto nel nostro ordinamento che consente al contribuente entro il
termine di impugnazione dell’atto per la sola parte che si riferisce al tributo, pagando però
direttamente le sanzioni ridotte di un terzo (ibrido poco diffuso. Usato solitamente dai
contribuenti che non sono sicuri che sia legittimati a ricorrere).
• Procedimento super semplificato: meno importante dal punto di vista operativo. Riservato alle
sanzioni che emergono dai procedimenti di liquidazione e controllo formale (artt. 36bis, 36ter
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del D.p.R 600/1963). Dato che l’accertamento è automatico e semplificato, l’Agenzia iscrive
direttamente queste somme a ruolo, e il contribuente riceve direttamente una cartella di
pagamento che potrà impugnare.
Il termine generale di decadenza del potere sanzionatorio della agenzia delle entrate è di 5anni.
All’art. 20 del decreto legislativo 472/1997 è previsto il termine del 5 anno successivo rispetto a
quando la violazione è stata commessa (per la violazione formale). Le violazioni sostanziali invece
hanno il termine di decadenza uguale a quello a quello di accertamento dei tributi relativi.
Le violazioni più importanti sono quelle relative alle dichiarazioni periodiche (dichiarazioni dei
redditi, dichiarazione IVA, dichiarazione IRAP ecc.):
• Omessa dichiarazione: la sanzione va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta.
• Dichiarazione infedele: la sanzione va dal 90% al 180% dell’imposta evasa.
• Omesso o ritardato pagamento del tributo: 30% del tributo.
Sanzioni penali tributarie
I reati tributari non sono disciplinati all’interno del Codice penale ma in una legislazione speciale, il
Decreto Legislativo n. 74/2000. Il decreto è strutturato secondo l’idea che il legislatore non ritiene
penalmente sanzionabili tutte le violazioni fiscali. Innanzitutto, viene ristretto il campo del
penalmente rilevante solo alle imposte sull’IVA e sulle dichiarazioni sui redditi. All’interno di questo
di questi due comparti rilevano solo le fattispecie con una certa soglia di pericolosità. La rilevante
offensività è data da attività fraudolente (fatture false) oppure quando superano un quantum di
evaso. Tutti i reati sono puniti a titolo di dolo.
I vari delitti che si possono configurare in materia tributaria sono:
• Delitti in materia di dichiarazione
• Delitti in materia di documenti
• Delitti in materia di omessi versamenti del tributo
Le fattispecie rilevanti per il diritto penale tributario possono dare luogo a provvedimenti di
sequestro e di confisca. Sul piano procedimentale c’è un problema: ciò che viene confiscato nel
diritto penale, in generale, è il frutto del reato (che nella materia fiscale è il tributo evaso). Il
quantum evaso è la somma che potenzialmente è confiscabile. Se negli altri settori del diritto penale
questo principio causa pochi problemi, in materia fiscale il quantum confiscabile può essere sia
oggetto di sequestro preventivo e confisca, sia di una azione di accertamento finalizzata a
recuperare quelle somme. Quindi spesso coesistono procedimenti di tipo ablatorio che mirano a
sottrarre quelle somme al contribuente sia dal punto di vista fiscale che dal punto di vista penale.
In termini generali, il procedimento penale e il processo penale vivono in una dimensione parallela
rispetto all’accertamento amministrativo. Si parla infatti di “doppio binario”: se l’Agenzia delle
Entrate sta effettuando un accertamento fiscale e scopre una violazione penalmente rilevante,
presenta denuncia, avvisa quindi la procura, che inizierà un procedimento penale, che si svolgerà
autonomamente da quello amministrativo. I due procedimenti possono quindi entrambi sfociare in
due vicende processuali.
Ma come convivono questi procedimenti? In che modo uno influenza l’altro? La regola è appunto
quella del doppio binario, i due processi procedono parallelamente, senza connessione ed
automatismi. La sorte e l’esito di uno non condiziona la sorte e l’esito dell’altro. Non ci sono effetti
del giudicato penale nel processo amministrativo e viceversa. Questo perché i presupposti che
portano alla sanzione penale non sono gli stessi che rilevano in sede tributaria. E poi anche le
modalità di svolgimento del procedimento differiscono, per una serie di motivi, ad esempio in sede
tributaria non è ammessa la testimonianza mentre in sede penale si, oppure in sede penale non
rilevano le presunzioni mentre in sede tributaria si ecc.
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Le uniche eccezioni (condizionamenti fra i processi) a questa regola sono quelle previste dallo stesso
decreto 74/2000, nel caso in cui il contribuente prima che inizi il procedimento penale estingua
completamente il proprio debito. Questo caso può eccepire durante lo stesso le cause di non
punibilità oppure godere di attenuanti molto consistenti (dovute al ravvedimento del contribuente).
Nei casi più importanti è necessario e consigliabile che il contribuente si faccia assistere da due
avvocati, uno penalista ed uno tributarista.
• Situazione di credito fisiologica: la posizione attiva non nasce da una situazione di indebito
ma dal normale funzionamento del rapporto tributario. Un esempio classico è l’IVA. Questa,
infatti, funziona in modo che riesca a tassare il consumatore finale tramite un equilibrio fra
situazioni attive e passive in capo agli operatori economici (soggetti passivi di diritto- diritto
di detrazione). Oppure nel caso delle imposte sul reddito in cui il contribuente paghi un
acconto (che è il 100% del tributo, basato sull’anno precedente, che però può essere
superiore all’anno in corso, e quindi l’acconto è in eccesso).
Esistono due strumenti legislativi per monetizzare il credito che si ha presso l’agenzia delle entrate:
• Compensazione: è uno strumento attraverso il quale il contribuente nel momento in cui va
a pagare il tributo, lo compensa con il credito che vanta presso lo Stato. È lo strumento più
veloce e si realizza attraverso una attività del contribuente senza bisogno di un previo
controllo della amministrazione finanziaria. Si presta tuttavia a delle situazioni di abuso, in
cui il contribuente vanta dei crediti inesistenti (mancando il controllo preventivo, e perché
sono difficili da scovare). La sanzione in questo caso però è molto alta, con la possibilità di
essere sanzionati anche penalmente.
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Le procedure di rimborso possono poi essere di due tipi:
• Rimborso d’ufficio: è lo stesso ufficio fiscale che svolgendo una verifica nei confronti del
contribuente, vede che ha pagato in eccesso e procede con il rimborso. Si verifica
solitamente nei controlli automatizzati, oppure quando l’Agenzia delle entrate risulta
definitivamente soccombente in giudizio (anche se solitamente è il contribuente che si attiva
per richiedere l’ottemperanza). Nelle restanti ipotesi è una procedura estremamente
residuale.
• Rimborso su istanza di parte: ci deve essere una domanda di rimborso motivata (in fatto e in
diritto) alla Agenzia delle entrate, con un quantum definito e le posizioni giuridiche che lo
legittimano. Il principale limite che i contribuenti hanno nel presentare istanza di rimborso
è un limite temporale, perché le singole leggi di imposta prevedono dei termini decadenziali
per il rimborso (dopo i quali non è più possibile rendere esigibile il credito). Ad esempio, le
imposte sul reddito prevedono un termine decadenziale di 4anni, in materia di imposte
generali sui trasferimenti c’è un limite di 3 anni. Il termine generale che opera in via
residuale, previsto dal 546/1992, che è due anni. Il problema dei termini decadenziali si ha
in particolare quando la situazione di credito del contribuente sorge a seguito di
provvedimenti giurisdizionali successivi (es. tributo dichiarato illegittimo dalla corte
europea). Se si sono superati i 3anni, non è più possibile avere il rimborso del proprio credito
(non si possono derogare i termini decadenziali).
- Rimborsi richiesti direttamente nella dichiarazione: Ad esempio all’interno della
dichiarazione integrativa fatta dal contribuente a suo favore.
L’Agenzia delle entrate verifica quindi la situazione di credito del contribuente (verifica
sostanziale). Il termine per rispondere alla istanza di rimborso è di 90gg, in cui l’agenzia può
rispondere con risposta espressa (positiva o negativa) oppure non rispondere (e vale il
principio silenzio-rifiuto).
Il contribuente in caso di risposta espressa-negativa può impugnare l’atto entro 60gg. Se
invece la risposta negativa è tacita il contribuente può impugnarlo ma entro il termine
prescrizionale ordinario (10anni).
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Il processo tributario
Il contenzioso tributario ha avvio con il ricorso del contribuente, che deve essere fatto entro il
termine generale di 60gg. Il ricorso tributario è disciplinato dall’art. 18 decreto legislativo 546/1992.
Contenuto
Il ricorso deve innanzitutto indicare il giudice adito (commissione tributaria provinciale competente).
È importante poi dare il nome corretto all’atto (“ricorso”). Può essere chiesto nella stessa sede
anche che si tenga il processo nella forma della pubblica udienza.
Vanno indicate anche poi le parti e le loro generalità, solitamente il ricorrente è il contribuente e il
resistente è l’agenzia delle entrate.
Si devono poi indicare gli elementi che identificano il ricorrente (es se è una società il nome, la sede
ecc. oppure se persona fisica il codice fiscale), di chi sta in giudizio per la parte (il codice fiscale del
legale rappresentante) e un indirizzo di posta certificata (PEC) e fax per le comunicazioni inerenti al
processo.
Deve esserci un difensore (tranne sotto i 3000 euro) che sottoscrive il ricorso. La sottoscrizione è
obbligatoria pena l’invalidità dell’atto.
Va poi indicato qual è l’atto impugnato, ovvero quale atto si intende contestare nel ricorso.
È necessario inoltre indicare l’oggetto della domanda (il petitum) e i motivi (la causa petendi) che
giustificano una determinata domanda. Questi possono essere vizi formali (che portano
all’illegittimità per nullità o per inesistenza) o vizi sostanziali (illegittimità perché infondato nel
merito). La parte riguardante l’oggetto si trova dopo la dicitura “P.Q.M.”.
C’è sempre anche una clausola che chiede la condanna dell’Agenzia delle Entrate in caso di vittoria
del contraente alle spese che nel frattempo il contribuente ha dovuto sostenere (le varie frazioni
della sanzione che devono essere irrogate alla Agenzia prima della sentenza nei vari gradi di
giudizio), e alle spese processuali.
Oltre alle domandi principali, ci possono essere anche delle domande secondarie.
Devono essere espressi i motivi di fatto e di diritto che motivano il ricorso. Se il ricorso non contiene
l’indicazione delle parti, commissioni tributaria o un altro dei dati essenziali sopra indicati (tranne il
codice fiscale che può eventualmente essere indicato in un secondo momento), il ricorso è
inammissibile.
Se il ricorso viene dichiarato inammissibile, il contribuente non può più fare ricorso perché
inevitabilmente sono decorsi i 60gg e l’atto impugnato diviene definitivo.
Una volta scritto il ricorso, questo deve essere notificato all’Agenzia delle Entrate presso l’ufficio
provinciale che ha emesso l’atto impositivo. La notifica può essere fatta solo tramite PEC.
Solitamente le PEC degli uffici dell’Agenzia delle Entrate sono contenute in pubblici registri (anche
se è facile desumere perché hanno sempre la stessa forma). Alla PEC va necessariamente allegata
la procura e il ricorso. Entro le 24.00 del 60esimo giorno è possibile effettuare la notifica.
Il ricorso viene formato digitalmente in pdf dal difensore del contribuente e firmato digitalmente (il
ricorso “nativo digitale” e provvisto di firma digitale). Non deve essere stampato e scansionato. Lo
stesso ricorso, lo stesso atto (l’originale) è quello che viene notificato e depositato. Non deve essere
una copia.
La procura può invece non essere nativa digitale. È infatti il mandato che il contribuente conferisce
al difensore per difenderlo in sede giudiziale, ha valenza fra le parti. Può essere anch’essa nativa
digitale ma si può anche stampare e far firmare fisicamente ai due soggetti oggetto del contratto e
poi scansionato.
Entro 30gg il contribuente si costituisce parte del processo, altrimenti è inammissibile il ricorso (e
non è in alcun modo sanabile). Vanno quindi depositati gli atti del ricorso alla segreteria della
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commissione tributaria, assieme alle attestazioni della notifica effettuata all’Agenzia delle Entrate
(ricevuta di accettazione e di consegna della PEC). La costituzione deve avvenire in via telematica.
Si accede al SIGIT (sito del processo tributario) e si deposita tutto ciò che è richiesto ai fini del ricorso.
Tutti gli atti devono essere firmati digitalmente dal difensore.
L’Agenzia si deve costituire e deposita alla segreteria della commissione entro 60gg l’atto di
controdeduzione sostenendo la propria posizione, contro il ricorrente, confermando la legittimità
dell’atto che questo impugna. Il termine dei 60 giorni non è un termine perentorio e nemmeno
decadenziale: la costituzione da parte dell’Agenzia rimane valida anche se tardiva. Si ritiene che sulla
base di una costituzione tardiva, tuttavia, non possa sollevare alcune eccezioni, chiamare terzi in
causa ecc. (quindi vengono poste a suo carico solo delle limitazioni all’interno del processo).
Reclamo e mediazione
Sono due istituti che si pongono come ultimi filtri deflattivi al processo tributario. Sono disciplinati
nel Decreto Legislativo n. 546/1992 agli artt. 17 e 17 bis.
Qualora la controversia non superi i 50mila euro, pena improcedibilità del ricorso, è necessario
espedire il procedimento di reclamo/mediazione.
Il contribuente deve avere già notificato il ricorso all’Agenzia delle Entrate, ma prima di depositare
il ricorso deve/può esperire il procedimento di reclamo/mediazione. Se questa fase non viene
inserita qualora sia obbligatoria, una volta che viene depositato il ricorso, il giudice blocca la
procedura.
Il reclamo è una istanza di riesame in via di autotutela (estrema istanza di autotutela) che si attiva
con il ricorso stesso. È ultima possibilità che concede il contribuente all’Agenzia delle Entrate per
risolvere la controversia al di fuori di un tribunale. Il reclamo è obbligatorio pena improcedibilità per
le cause con oggetto sanzioni di importo inferiore ai 50mila euro.
Il deposito ordinario è entro 30gg, ma se contiene anche l’istanza di reclamo obbligatoria viene
sospeso tale termine di 90gg. Questo perché l’Agenzia deve valutare la fondatezza del reclamo ed
eventualmente ricorrere alla mediazione.
Se il reclamo è obbligatorio, la mediazione è invece facoltativa.
Il mediatore in ambito civilistico è solitamente un terzo che pone un accordo a “via di mezzo” fra le
parti, mentre nel processo tributario il mediatore è la stessa agenzia delle entrate.
La mediazione oggi è un istituto che non viene mai quasi utilizzato (in quanto viene usata solamente
in casi eccezionali come, ad esempio, l’intervento di sentenze della Corte di cassazione che
stravolgono l’orientamento fino a quel momento seguito), mentre è importante solo il reclamo per
le cause sotto 50mila euro in quanto obbligatorio.
Una volta che le parti si sono costituite, il giudizio è in mano al giudice e alla commissione tributaria.
Bisogna distingue quando il ricorso contenga anche una istanza cautelare e quando invece no.
L’istanza cautelare è una fase preliminare funzionale alla sospensione dell’atto impugnato. È una
richiesta che normalmente viene fatta all’interno del ricorso stesso. Se il giudice la concede, l’atto
impugnato non ha effetti esecutivi (non si può procedere con la riscossione coattiva da parte
dell’agenzia delle entrate). La presentazione del ricorso di per sé, infatti, non sospende l’esecutività
dell’atto, anzi, il contribuente solitamente deve versare 1/3 della somma contestata. Se non vuole
versarla, deve richieder la sospensione dell’atto.
La richiesta di sospensione dell’atto deve esser motivata. Il contribuente deve provare l’estremo del
periculum in mora (il pagamento e esecutorietà dell’atto provocherebbe un danno grave e
irreparabile al contribuente) e del fumus boni iuris (il ricorso deve apparire verosimilmente fondato).
Prima di entrare nel merito dell’atto, la prima cosa che la commissione tributaria decide è in merito
alla richiesta cautelare. Fissa quindi una data per discutere la sospensione e si esprime con
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ordinanza. In “audita altera parte”, con decreto motivato, può decidere anche il solo giudice senza
il parere della commissione (in casi di necessità ed urgenza) su richiesta della parte.
Successivamente alla fase cautelare (o se la fase cautelare non c’è stata), la commissione tributaria
crea un fascicolo identificato con un numero univoco. Il presidente di sezione svolge un esame di
sessione per evitare cause manifeste di inammissibilità (nel caso dichiarata con decreto), o cause di
sospensione del giudizio.
Viene poi fissata una udienza per la trattazione della causa e ne viene data comunicazione almeno
30gg prima alle parti.
Può essere nella forma della pubblica udienza (deve essere espressamente richiesta) o in camera di
consiglio (solo la commissione tributaria si riunisce per decidere sul ricorso, senza la presenza delle
parti e dei loro difensori). Se c’è pubblica udienza il presidente deve nominare un giudice relatore,
e possono essere presente le parti e i difensori delle parti per fornire le loro versioni.
Dopo aver sentito le parti, la commissione si ritira e delibera. Dispositivo e sentenza vengono poi
comunicati telematicamente (sempre tramite posta certificata).
La conciliazione giudiziale
L’istituto processuale della conciliazione giudiziale (e stragiudiziale) è disciplinato agli artt.48 e 48bis
del decreto legislativo 456/1992: può essere richiesta in qualsiasi momento del processo, oppure
prima dello stesso (in questo caso prende il nome di conciliazione appunto stragiudiziale).
La sentenza
La sentenza (motivata) contiene la data in cui si è svolta l’udienza e di quando è avvenuta la
pubblicazione (quando viene depositata in cancelleria).
Per quanto riguarda l’impugnazione delle sentenze delle commissioni tributarie bisogna distinguere
in:
• Mezzi di impugnazione ordinaria: appello, ricorso in cassazione e revocazione.
• Mezzi di impugnazione straordinaria: revocazione straordinaria.
I termini per l’impugnazione sono 60gg per la parte soccombente (termine breve) dalla notifica. Se
non c’è però stata la notifica, allora il termine per l’impugnazione è 6mesi (temine lungo) dal
deposito e pubblicazione della sentenza.
Appello
Il giudizio di appello è un mezzo di impugnazione devolutivo, perché il giudice non ha alcuna
limitazione di cognizione. Ha il potere di esaminare ogni aspetto della controversia, questo perché
ha come finalità quella di riesaminare nel merito la controversia già oggetto della precedente
sentenza di primo grado. È una nuova sentenza di merito (diverso in questo dall’impugnazione per
specifici vizi della sentenza in cassazione). Vale il principio dispositivo, quindi vanno ripresentati tutti
gli atti depositati nel primo processo.
Il ricorso in appello ha le stesse forme e tempi di quello in primo grado (vi è un rimando esplicito
alle stesse norme).
In questa sede non possono essere presentate nuove domande. Alcune delle domande presentate
in primo grado devono invece essere ripresentate. Possono però sempre essere portati nuovi
documenti dalla parte.
La controparte, la parte resistente in appello, può nei 60gg difendersi o con atto di controdeduzioni
rispetto alle pretese fatte valere dal ricorrente difendendo la sentenza di primo grado, oppure può
a sua volta presentare un atto di controdeduzioni e appello incidentale chiedere per l’appunto un
appello incidentale (nel caso in cui entrambi le parti siano “soccombenti”, una reale e una virtuale).
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Esempio
Il contribuente presenta un riscorso per vizio formale e immotivazione nel merito. Gli danno ragione
in primo grado, ma solo per mancanza di merito. Non si esprimono sul vizio formale. Se l’Agenzia
delle Entrate soccombente impugnasse l’atto, il contribuente potrebbe avere interesse a proporre
appello incidentale facendo valere la prima pretesa (vizio formale) che non era stata valutata in
primo grado (soccombenza virtuale). Entrambi, quindi, hanno un interesse ad agire in appello.
Il soccombente in primo grado, anche in secondo grado può chiedere la sospensione dell’atto con
gli stessi requisiti e modalità del primo grado.
**se l’agenzia ha già riscosso il primo 1/3 può dopo la sentenza chiedere il 2/3 della sanzione. Per
questo deve richiedere la sospensione anche in secondo grado.
Revocazione: è prevista dall’art. 395 cpc e vale come revocazione anche per le sentenze tributarie.
Anche il principio del giudicato vale anche in materia tributaria, ma con qualche elemento di
specificità. Può infatti fare stato fra le parti anche per annualità diverse rispetto a quando la
sentenza è passata in giudicato (giudicato esterno: la definizione giudiziale fa stato per questioni
diverse per quelle della sentenza stessa).
Le sentenze di primo e secondo grado sono immediatamente esecutive a meno che non sia stata
accolta una richiesta di sospensione dell’esecutività. Se l’Agenzia delle Entrate non dà esecuzione
alla sentenza, esiste un mezzo processuale (giudizio di ottemperanza) che i singoli hanno a
disposizione per pretendere l’adempimento delle sentenze nei confronti del settore pubblico (non
solo tributario).
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Problema: le competenze in materia tributaria sono quindi dubbie. È un sistema molto criticato,
specialmente per quanto riguarda le modalità di selezione, ed il forte conflitto di interessi che può
sorgere in capo ai soggetti (spesso avvocati sono a volte difensori altre volte giudici). Il sistema del
processo tributario è efficiente in termini di tempo, ma non altrettanto in termini di giustizia e
correttezza delle decisioni. Il problema è che giudici tributari maneggiano ogni giorno cause che
ruotano intorno a milioni di euro, che possono provocare il fallimento di aziende ecc.
Da molto tempo dovrebbe esserci una riforma in materia, al fine di renderla una magistratura come
le altre (es. accesso tramite concorso, competenza in materia tributaria dei giudici ecc.) ma non si è
ancora fatto perché è troppo costoso per lo Stato. Secondo i rumors recenti dovrebbe comunque
essere proposta a breve.
I giudici sono nominati da un consiglio di presidenza, il cosiddetto “CSM della giustizia tributaria”,
ogni tot anni, su una apposita proposta del ministero dell’economia e del commercio, pubblicati e
formalizzati tramite D.P.R.
Giurisdizione e competenza
Con giurisdizione si intende individuare quali sono le aree che sono sottoposte all’esclusiva
competenza del giudice onorario tributario e sottratte quindi alla giurisdizione civile, penale,
amministrativa.
La giurisdizione del settore tributario è definita all’art.2 del Decreto Legislativo n. 546/1992.
Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni
genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali (qualunque
sia la natura) e il contributo per il Servizio sanitario nazionale (le sovrimposte e le addizionali, le
relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro accessorio (ad esempio l’aggio esattoriale). Restano
escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione
forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui
all'articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali
continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica.
Ma non è solo il tributo a definire la giurisdizione tributaria (limite esterno) ma esiste un ulteriore
elemento (limite interno), che è l’instaurazione del giudizio tramite l’impugnazione di un atto
cosiddetto impositivo. Non bisogna quindi che si discuta solo di tributi, ma perché sia competente
la giurisdizione tributaria deve esserci anche l’impugnazione dell’atto.
Esempio
Ho pagato le imposte l’anno scorso ma non sono sicuro di averlo fatto bene, anche se non ho
ricevuto nulla dall’Agenzia delle Entrate. Non posso richiedere l’accertamento al giudice tributario,
perché è illegittimo mancando l’impugnazione di un atto. Non basta che la lite sia potenziale o
attuale sulla base di un “non atto”.
Atti impugnabili
Gli atti impugnabili sono disciplinati all’art.19 del Decreto Legislativo n. 546/1992: un tempo era un
elenco tassativo, oggi tuttavia si ritiene che non sia tassativo, ma sia sufficiente l’emanazione (e
impugnazione) di un atto amministrativo che abbia natura provvedimentale idoneo ad incidere sulla
natura patrimoniale del soggetto ma che riguardi in senso lato an e quantum del tributo.
Il ricorso può essere proposto avverso:
• l'avviso di accertamento del tributo;
• l'avviso di liquidazione del tributo;
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• il provvedimento che irroga le sanzioni;
• il ruolo e la cartella di pagamento;
• l'avviso di mora;
• ecc.
La disciplina si è evoluta nel tempo, grazie alla giurisprudenza, facendo rientrare nel novero degli
atti impugnabili molti atti non rientranti nell’elenco all’art.19.
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• Amministrazione finanziaria o il suo ufficio: nella parte del resistente, è colui che ha emesso
l’atto impugnato dal ricorrente. Può essere l’ufficio della Agenzia delle entrate (direzione
provinciale), oppure uffici delle dogane e dei monopoli, oppure i singoli uffici (come l’ufficio
riscossione), oppure gli enti locali (ad esempio per cause con ad oggetto l’IMU).
Oggetto del processo tributario
A differenza del processo amministrativo, non inizia con una impugnazione di tipo “impugnazione-
annullamento” ma invece ha una impugnazione di tipo “impugnazione-merito”. Questo significa che
oltre al profilo di valutazione del vizio dell’atto il giudice si pronuncia sul merito della controversia,
cioè sul rapporto giuridico tributario, con una pronuncia (sentenza) che giudica nella sostanza qual
è l’accertamento corretto del tributo (corretto accertamento fiscale).
Ci deve essere l’impugnazione dell’atto. Solo successivamente il giudice effettua una doppia
valutazione:
Una via preliminare e valuta i vizi formali dell’atto impositivo (se sul piano formale l’atto è legittimo).
Se l’atto ha dei vizi formali tali da poterne decretare nullità o inesistenza, il processo non prosegue
e il contribuente ha direttamente vinto la causa.
Se i vizi formali non ci sono, il giudice valuta la fondatezza nel merito. Nel merito delle pretese il
giudice compie una valutazione sostanziale che può sostituire quella contenuta nell’atto impositivo.
Esempio
È stato impugnato un avviso di accertamento in cui si determina un maggior tributo in materia di
IVA. In via preliminare il contribuente chiede l’annullamento perché manca la motivazione
rafforzata a seguito del dibattimento precedente.
Se il giudice ritiene che non ci siano vizi formali dichiarati, allora entra nella valutazione del merito,
non prima.
**la corte di cassazione si pronuncia solo sulla legittimità della sentenza impugnata.
In materia tributaria vige il principio di corrispondenza tra “chiesto e pronunciato”, disciplinato
all’art.112 del cpc (il giudice è tenuto a pronunciarsi solo su quanto richiesto in giudizio dalle parti).
Fatti
In linea generale il resistente ha l’onere di provare i fatti su cui si basa la ripresa fiscale (es. provare
il maggior reddito, evasione dell’IVA ecc.) generalmente già contenuti nell’avviso di accertamento
(atto impositivo). L’amministrazione finanziaria ha raccolto i fatti durante la fase di verifica
(soprattutto quella sostanziale). Tutto il materiale istruttorio poi diventerà materiale processuale (il
contribuente è attore in termini processuali ma resistente in termini sostanziali. Il contrario invece
è per l’Agenzia delle entrate.)
Presunzioni
Emergono nella fase istruttoria e sono elementi di prova (elementi di prova sono quindi sia le prove
documentali che le presunzioni). L’Agenzia delle Entrate può utilizzare solamente le presunzioni
qualificate. Lo stesso vale per il contribuente, che può provare alcuni fatti sulla base di presunzioni.
Giuramento e testimoni
In materia tributaria non sono ammessi giuramento e prove testimoniali. In particolare,
quest’ultima è una importante limitazione. Uno dei motivi per cui non vengano ammessi è che il
processo tributario nasce come un processo sostanzialmente documentale. Oggi il vantaggio è che
la mancanza di questi elementi probatori rendono più celere il procedimento.
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Approfondimento sulle categorie reddituali
Irpef e Ires hanno in comune le regole di determinazione della base imponibile: tali regole sono le
regole per la determinazione delle singole categorie reddituali (in quanto si prende in
considerazione il reddito complessivo del soggetto persona fisica o ente/società). Il reddito
complessivo è formato dalla somma algebrica dei redditi e delle perdite delle singole categorie
reddituali. Quelle elencate e definite in modo generale sono le sei categorie dei redditi fondiari, di
capitale, di lavoro dipendente/autonomo/impresa e di redditi diversi. Queste voci hanno regole
diverse per la determinazione della base imponibile.
In primo luogo, bisogna prendere in considerazione la collocazione dei singoli proventi all’interno
delle categorie reddituali, e poi determinare il quantum di quel provento applicando le singole
regole di determinazione previste in ognuna delle categorie reddituali. Ciò che cambia nelle
categorie reddituali non è solo l’aspetto nominalistico, ma cambiano proprio le regole di
determinazione. Ad ogni categoria di reddito corrispondono regole normative di determinazione
del reddito diverse. Le categorie del reddito servono per operare un doppio procedimento logico-
giuridico: prima di tutto è necessario che il provento che il soggetto riceve possa essere classificato
in una delle sei categorie (se non entra in nessuna delle sei categorie, allora non è reddito, e quindi
non è tassabile), e poi, a seconda delle categorie, applicherò le singole regole previste per quella
categoria reddituale.
Ciò che analizziamo noi sono quindi le regole per la determinazione delle categorie reddituali.
1. Redditi fondiari
I redditi fondiari sono individuati dall’art. 25 del Testo Unico dell’Imposta sui redditi: sono redditi
fondiari quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono
essere iscritti nel catasto con l’attribuzione di rendita. Già possiamo individuare nella definizione di
redditi fondiari la fonte reddituale: la categoria di redditi “redditi fondiari” è definita in base la fonte
dei redditi, e la fonte dei redditi è il terreno o il fabbricato (immobile). I redditi che provengono da
terreni o fabbricati, si qualificano come redditi fondiari. La fonte produttiva è il possesso del terreno
o del fabbricato; il provento che si produce prende il nome di reddito fondiario.
I terreni/prefabbricati, per poter assumere la natura di fonte di reddito devono avere due
caratteristiche:
1) I terreni/fabbricati devono essere situati nel territorio dello Stato
2) I terreni/fabbricati devono essere iscritti in Catasto (catasto dei terreni e catasto
edilizio/urbano) o potenzialmente iscrivibile. L’iscrizione in catasto di questi beni è
importante anche perché quando si iscrive un terreno/fabbricato in Catasto, l’iscrizione
determina l’attribuzione all’immobile della cd. rendita catastale (ovvero la redditività media
stimata per quel determinato immobile iscritto, sulla base delle sue caratteristiche, cioè
quanto reddito può creare se immesso nel mercato; sono valori molto bassi normalmente,
motivo per cui molti auspicano una riforma del catasto).
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Non serve l’iscrizione ma la semplice iscrivibilità: se ho un immobile abusivo e non lo registro,
questo immobile comunque crea un reddito fondiario perché dovrebbe essere iscritto
comunque. Questi immobili abusivi sono un problema molto rilevante perché sfuggono
all’Agenzia delle Entrate (e in questi anni l’Amministrazione Finanziaria li sta cercando molto,
utilizzando anche semplicemente Google Earth).
Ci sono poi degli immobili che non devono essere iscritti al Catasto, o beni non situati in Italia: questi
beni non producono redditi fondiari, ma redditi diversi: i beni non iscrivibili al catasto o viceversa
beni situati all’estero, producono redditi diversi. L’iscrivibilità e la rendita catastale è importante
perché i redditi fondiari hanno una caratteristica peculiare: i redditi fondiari sono determinati (salvo
alcune eccezioni che vedremo dopo) non sulla base del provento effettivo che colui che è titolare
del bene percepisce, ma sulla base della stessa rendita catastale. La rendita catastale costituisce
normalmente il punto di riferimento per determinare il reddito fondiario stesso (il reddito fondiario
normalmente coincide con il reddito catastale). Il reddito fondiario, quindi, non è un reddito
effettivo, ma è un “reddito medio ordinario” ricavato applicando le tariffe stabilite dalla legge
catastale in base alla classe di immobile. È un reddito medio, stimato sulle caratteristiche
dell’immobile, e quindi non è un reddito effettivo. Questo è molto contestato in quanto ritenuto da
alcuni incostituzionale, in particolare per l’effettività della forza economica (art. 53 Cost) che
richiede che la forza economica sia vera e reale. La Corte costituzionale si è pronunciata in proposito
sia negli anni ’60 che negli anni ’90, respingendo i dubbi di legittimità costituzionale, per due motivi:
- Le rendite catastali sono molto al di sotto di quella che è la reale redditività dei beni, in quanto
il catasto non è sufficientemente aggiornato. Utilizzando la regola della rendita catastale, i
singoli contribuenti vengono tassati meno di quanto dovrebbero essere, e quindi questa regola
si risolve ad una forma di incentivo e agevolazione dei titolari dei redditi fondiari e degli
imprenditori agricoli.
- Sono comunque previste molte eccezioni, ad esempio per quanto riguarda i prefabbricati iscritti
nel catasto (vedi dopo)
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attribuibile al reddito dominicale, e il quantum attribuibile al reddito agrario: il reddito
dominicale è imputato al proprietario (Tizio) mentre il reddito agrario a Caio.
Se il terreno fosse invece di proprietà di Tizio e sempre Tizio svolge attività agricola, allora
sia il reddito dominicale che il reddito agrario sono imputati allo stesso soggetto Tizio.
Come abbiamo detto, questi sono redditi stimati: se le condizioni del terreno mutano, allora
è corretto anche mutare la rendita catastale, e quindi varieranno in aumento o in
diminuzione il reddito dominicale o agrario (il proprietario ne fa denuncia al catasto e poi
l’Amministrazione Finanziaria controllerà). Analogamente, possono verificarsi eventi
straordinari tali per cui vi sia una perdita significativa di redditività del terreno: in questo
caso assolutamente straordinario se la redditività scende sotto il 30%, il reddito si può
considerare inesistente (con un’esenzione fiscale in virtù dell’evento)
L’art. 32 del Testo Unico sull’imposta sui redditi parla sia di attività agricole essenziali che di
attività agricole connesse (accessorie): le attività agricole sono definite come attività dirette
alla coltivazione del terreno, alla silvicoltura, all’allevamento di animali e alla produzione di
vegetali, oltre che le attività accessorie dirette alla manipolazione, conservazione,
trasformazione e commercializzazione dei prodotti ottenuti grazie ad attività essenziali.
Sicuramente le attività di coltivazione diretta e silvicoltura vanno a costituire reddito
fondiario, mentre per le altre attività, queste producono reddito agrario solo se sono
rispettati alcuni limiti quantitativi. Se si rispettano determinati limiti, queste attività sono
comprese nel reddito agrario e tassabili nei limiti della rendita catastale. Se si superano
determinati limiti, queste attività di allevamento, commercializzazione ecc, non sono più
reddito agrario (stimato sulla base della rendita catastale) ma produrranno reddito di
impresa (non stimato, ma effettivo, perdendo l’agevolazione della rendita catastale). I limiti
non attengono ai quantum di provento prodotto dal soggetto imprenditore agricolo, ma
attiene alle attività concrete esercite (es. mangimi devono derivare dal fondo stesso…).
L’imprenditore agricolo (ex art. 2135 cc) non produce reddito di impresa ma reddito
fondiario agrario, a meno che non si superino certi limiti quantitativi. Al di fuori di queste
ipotesi di superamento di limiti, l’imprenditore agricolo normalmente produce reddito
fondiario e NON reddito di impresa (e questa è un’agevolazione enorme per l’imprenditore
agricolo!). L’imprenditore commerciale invece produce reddito di impresa.
Può accadere che l’attività agricola sia prodotta tramite una società commerciale: può essere
costituita una SPA o una SRL con oggetto di coltivazione o silvicoltura: qualora l’attività
agricola sia svolta dalla società e non dall’imprenditore individuale, quella società produce
reddito di impresa (con regole di determinazione molto particolari, con molti incentivi e
agevolazioni)
- Redditi fondiari dei fabbricatià il reddito da fabbricati deriva dagli immobili iscritti o iscrivibili
nel catasto edilizio urbano. Il soggetto a cui imputare questo reddito è colui che risulta essere
proprietario o titolare di altro diritto reale; anche qui vige la regola della rendita catastale
(redditività media stimata del fabbricato). Abbiamo però un’eccezione: quando il fabbricato sia
dato in locazione e il canone effettivo risultante dal contratto di locazione sia, applicando una
riduzione del 5%, superiore alla rendita catastale, il reddito da fabbricato è determinato in
misura pari al canone di locazione ridotto del 5%. Visto che le rendite catastali sono molto basse,
accade quindi molto spesso che la determinazione dei redditi da fabbricati avvenga
considerando il canone di locazione ridotto del 5%.
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Vi sono poi riduzioni per immobili in locazione con interesse storico/artistico o per territori
disagiati, oppure viceversa una maggiorazione di 1/3 per le unità immobiliari non locate: se un
proprietario ha dei fabbricati ma non li vuole dare in locazione e li lascia sfitti, l’ordinamento li
punisce aumentandogli le imposte da pagare; analogamente, se quell’immobile è la prima casa
del contribuente, il soggetto produce un reddito fondiario pari alla rendita catastale, ma gli è
data la possibilità di dedurre dal reddito complessivo pari alla rendita che deve dichiarare. Es: la
rendita catastale della mia prima casa è 100, ma posso dedurre 100 dalla mia dichiarazione,
quindi è come se non pagassi redditi fondiari per la prima casa.
C’è un sistema sostitutivo alla normale tassazione ovvero la cedolare secca, da applicare a chi
percepisce redditi derivanti da locazioni per immobili ad uso abitativo: al posto dell’ordinaria
tassazione IRPEF si può applicare un’imposta sostitutiva del 21% (che sostituisce sia l’IRPEF che
l’imposta di bollo e di registro). È un’agevolazione fiscale per gli immobili ad uso abitativo, che
trova come finalità quella di evitare o diminuire l’evasione sulle locazioni (molte volte si
preferisce pagare un 21% piuttosto che non pagare nulla ma rischiare l’accertamento
dall’Agenzia delle Entrate). Il professore ritiene che queste forme di agevolazione debbano
essere abolite, preferendo piuttosto la scelta di perseguire gli evasori direttamente, cercando
gli immobili dati in locazione in nero; inoltre, sempre secondo il professore, queste misure
sostitutive eliminano del tutto la progressività, favorendo invece imposte flat (questo si osserva
nella cedolare secca: si paga il 21% e basta, senza scaglioni progressivi in base al reddito).
2. Redditi di capitale
È una categoria reddituale individuata dall’art. 44 del TUIR: non è una categoria direttamente
definita, ma viene fatta una elencazione di fattispecie. Se vogliamo dare una definizione generale,
questa è di tipo dottrinale e non normativa: i redditi di capitale sono i proventi che rappresentano
la remunerazione di una forma di impiego del capitale. In particolare, volendo fare delle
classificazioni, abbiamo due macro aree di redditi di capitale:
1) Redditi di capitale che costituiscono i frutti dell’investimento di capitale che maturano sulla base
del decorso del tempo (interessi): rendite finanziarie
2) Redditi di capitale che rappresentano i proventi che derivano dalla partecipazione in società ed
enti: redditi da partecipazione
I redditi da capitale sono determinati al lordo, senza poter dedurre le spese per produrlo. Sono poi
redditi tassati sulla base del principio di cassa, nel periodo di imposta in cui vi è l’effettiva
percezione. L’elemento distintivo di questi redditi, è che sono assoggettati a regimi di ritenute alla
fonte (a titolo di acconto o imposta) e a regimi di imposte sostitutive, per ragioni di semplicità e per
ridurre al minimo fenomeni di evasione. La tassazione è bassa, perché vi sono imposte sostitutive
(del 26%) e ritenute alla fonte. Per i titoli di Stato, il reddito che mi deriva anno per anno è tassato
in via sostitutiva con un’aliquota del 12,5% (molto bassa rispetto alle altre rendite pari al 26%). Si
deroga alla progressività in questo caso. Vi è una grande diseguaglianza in tal senso, perché i redditi
da capitale sono tassati meno rispetto ai redditi da lavoro (tassati anche del 40%): questo si giustifica
per favorire gli investimenti in Italia ed evitare o ridurre gli investimenti all’estero (che hanno
normalmente aliquote più basse).
Per i redditi da capitale per partecipazione a società o enti, anche in questi casi i dividendi distribuiti
e percepiti hanno una tassazione non ordinaria Irpef ma il dividendo percepito da una persona fisica
non imprenditore per il fatto di essere socio, è assoggettato ad una ritenuta a titolo di imposta del
26% (pari a quella degli interessi o proventi assimilati). Per i redditi da partecipazione, la tassazione
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sostitutiva del 26% ha una finalità di ridurre la doppia tassazione economica, e quindi non per
esigenze di agevolazione o per esigenze di fuga di capitali dall’Italia.
3. Redditi di lavoro
I redditi di lavoro non esistono come categoria effettiva, ma è una qualificazione dottrinale ed
espositiva: mentre le varie categorie reddituali viste precedentemente (come i redditi fondiari e di
capitale) si riferiscono a proventi tassabili che provengono da un’attività passiva (che non comporta
uno sforzo per il contribuente) e sono categorie reddituali effettive previste dalla legge, i redditi da
lavoro dipendente/autonomo/di impresa sono caratterizzati da un’attività fondamentale del
contribuente. In effetti, buona parte della dottrina evidenzia la necessità di una discriminazione
qualitativa dei redditi, tassando meno (e quindi premiando) quei redditi (come quelli da lavoro) che
derivano da una fatica psico-fisica del soggetto, tassando di più invece gli altri redditi dove
l’elemento umano è meno rilevante. Nel nostro sistema avviene praticamente il contrario: mentre
per i redditi da capitale e quelli fondiari hanno una tassazione bassissima e in alcuni casi flat (come
per la cedolare secca), i redditi di lavoro al contrario sono quelli che subiscono la tassazione
maggiore possibile (in piena progressività), colpendo duramente il contribuente.
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Ci sono molte discipline ad hoc sulla determinazione della base imponibile: ci sono molte
agevolazioni per i premi di produttività e altre modalità di agevolazione.
In termini strutturali, questo reddito è determinato al lordo (senza poter dedurre le spese per la
produzione del reddito) e si determina secondo il principio di cassa (le remunerazioni costituiscono
reddito imponibile nell’anno in cui sono state percepite effettivamente).
Il reddito da lavoro dipendente è oggetto di una specifica detrazione: sotto determinate soglie si
può godere di certe determinate detrazioni; questi redditi sono poi soggetti a ritenute d’acconto
alla fonte: il datore di lavoro, quando eroga lo stipendio, trattiene a titolo d’acconto una parte del
reddito sulla base delle aliquote presumibili dell’anno in corso del soggetto, basate sull’anno
precedente.
- Redditi di impresa
Il reddito di impresa è la categoria reddituale più importante, in termini di gettito e di complessità
giuridica nella costruzione normativa e legislativa di tassazione dei redditi.
L’art. 55 del TUIR definisce la fonte della categoria reddituale dei redditi di impresa, e qualifica i
redditi di impresa come quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di
imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle
attività indicate dall’art. 2195 c.c.
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L’art. 55 quindi afferma che il reddito di impresa è prodotto tendenzialmente solo dall’imprenditore
commerciale, mentre il reddito che deriva dall’impresa agricola è reddito agrario (sottocategoria dei
redditi fondiari): abbiamo visto poi che se l’imprenditore agricolo supera certi limiti arriva anche lui
a creare reddito d’impresa, ma questa è un’eccezione.
Pertanto, le attività che danno vita a redditi di impresa sono quelle definite dall’art. 2195 del Codice
civile, ossia attività industriale, intermediaria, di trasporto, bancaria, assicurativa e altre attività
ausiliarie. Questo articolo definisce quindi l’oggetto commerciale dell’imprenditore e il reddito di
impresa.
L’impresa commerciale (art. 2195 c.c) crea il reddito d’impresa (art. 55 TUIR), ma ai sensi del Codice
civile l’imprenditore svolge un’attività economica organizzata e se questa organizzazione non c’è,
non c’è impresa. Ai fini fiscali, invece, se il soggetto svolge un’attività abituale di cui all’art. 2195, i
proventi sono di impresa anche l’attività NON è organizzata in forma di impresa: l’elemento
dell’organizzazione NON è rilevante ai fini fiscali, e per questo l’ambito di impresa è più ampio nel
TUIR rispetto che al Codice civile.
Il reddito di impresa varia cioè è assoggettato a regimi diversi a seconda del soggetto che svolge
l’attività di impresa. Il reddito di impresa può essere prodotto da un soggetto imprenditore-persona
fisica (imprenditore individuale), un imprenditore collettivo (società commerciali di persone o di
capitale), gli enti (commerciali e non commerciali).
La persona fisica, per produrre reddito di impresa, deve svolgere concretamente un’attività
compresa nell’art. 2195 cc, mentre le società per assumere lo status fiscale di impresa (destinatari
delle regole del TUIR in materia di impresa) è necessario che esistano. Gli artt. 6 e 81 del TUIR
prevedono una qualificazione normativa (una sorta di presunzione) di impresa collegata alle società
commerciali: il fatto stesso che la società sia costituita ed esista nell’ordinamento giuridico, trova
applicazione lo status di impresa, senza che sia necessario indagare se venga svolta effettivamente
l’attività economica.
Altro aspetto importante da considerare è che le società commerciali (e gli enti commerciali)
producono sempre redditi di impresa: la società produce solo una categoria di reddito, ossia quella
di impresa, e non può produrre categorie diverse di redditi. Tutti i costi e gli introiti sono valutati
nell’ambito dell’unica categoria reddito di impresa. Ciò non accade per le persone fisiche: una
persona fisica imprenditore individuale può invece produrre reddito di impresa, reddito fondiario e
reddito di capitale. L’ente non commerciale invece, come la persona fisica, può produrre anche
redditi diversi da quelli di impresa.
Il reddito di impresa è un reddito che si determina al netto (è dato dalla differenza algebrica tra
ricavi e costi, ossia tra i componenti positivi e negativi di reddito); inoltre, vi è uno stretto legame, il
c.d. “nesso di derivazione” con il conto economico civilistico: per calcolare il reddito di impresa si
parte dall’utile o dalla perdita risultante dal conto economico, apportando le variazioni previste
dalle norme fiscali, arrivando ad aumentare o diminuire il risultato. Questo nesso di derivazione
rende evidente come sia fondamentale l’obbligo di tenuta della contabilità per questi soggetti.
Vanno poi citati tre principi generali per individuare la categoria reddituale dei redditi di impresa:
- Principio di inerenzaà è espresso dall’art. 109 c. 5 del TUIR: esige che le spese (componenti
negativi) possano essere dedotte algebricamente nella determinazione del reddito di impresa
solo se si riferiscono ad attività o beni da cui derivano proventi che concorrono a formare redditi.
Questa valutazione viene fatta ex ante e non ex post: se quest’attività è legata all’attività di
impresa è deducibile, a prescindere dal fatto che abbia inciso positivamente o meno sui
guadagni del soggetto.
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- Principio di competenzaà i componenti reddituali vanno a comporre il reddito nell’esercizio in
cui sorge il diritto o l’obbligo (e non quando vengono materialmente erogati)
- Principio di attrazioneà i proventi di immobili e investimenti che potrebbero condurre
autonome categorie reddituali, subiscono un’attrazione, perché vengono riqualificati come
redditi di impresa.
Inoltre, sono poi previste normative ad hoc sui redditi di impresa e vi sono (come sempre) anche
grandi misure di agevolazione: come abbiamo già detto, sotto i 65.000€ di utile, vi è il regime
forfettario (o dei minimi) per incentivare le piccole imprese, oppure la misura della ACE (Aiuto alla
Crescita Economica) per non tassare gli utili reinvestiti nell’impresa e favorire l’autosostentamento
dell’impresa senza che debba ricorrere a finanziamenti bancari ecc.
4. Redditi diversi
La categoria dei redditi diversi è una categoria residuale, in quanto il legislatore nelle altre categorie
reddituali ha individuato una fonte produttiva di quel reddito, mentre nella categoria dei redditi
diversi non c’è una unica fonte produttiva. I redditi diversi hanno varie fonti produttive, molto
variegate ed eterogenee, e l’art. 67 del TUIR elenca specifiche tipologie reddituali cui fanno capo
autonome fonti produttive che costituiscono redditi diversi.
L’elenco dei redditi diversi previsto dall’art. 67 è un elenco tassativo: se un provento non è
classificabile in nessuna categoria reddituale, e nemmeno nell’elenco dei redditi diversi, non è
reddito, e quindi non è proprio tassabile. C’è, comunque, una tendenza legislativa a colmare tutti i
buchi per introdurre ipotesi di tassazione in modo che tutti i proventi siano tassati.
Per i nostri studi non è fondamentale conoscere tutte le voci dei “redditi diversi”, ma solo le più
importanti, e tra queste vi sono sicuramente le plusvalenze, che possono essere:
- Plusvalenze immobiliarià si realizzano attraverso la vendita di beni immobili (terreni o
fabbricati). Chi detiene beni immobili realizza dei redditi fondiari, ma quando il soggetto va a
vendere quei beni immobili, può produrre una plusvalenza, ossia un differenziale tra il prezzo di
vendita e il costo di quel bene. Se il bene è venduto ad un prezzo superiore del suo costo a cui è
stato acquistato, c’è una plusvalenza, mentre se è venuto ad un prezzo inferiore c’è una
minusvalenza. Non tutte le plusvalenze sono tassabili, ma solo alcune: sono sempre tassabili le
plusvalenze che derivano dalla lottizzazione dei terreni e successiva vendita, le plusvalenze dei
beni immobili acquistati e costruiti da non più di cinque anni (salvo successione o immobili
urbani prima casa), le plusvalenze di cessione di aree urbane...
- Plusvalenze mobiliarià sono i c.d. capital games, ossia le plusvalenze che si determinano dalla
cessione di partecipazioni societarie e altri strumenti finanziari. I redditi derivanti dai dividendi
sono redditi da capitale, ma quando io vendo la mia partecipazione e creo una plusvalenza,
questi sono redditi diversi (plusvalenze mobiliari) tassati al 26% (come i dividendi).
Oltre alle plusvalenze, altri redditi diversi potrebbero essere le vincite ai concorsi a premi, alla
lotteria...
Per queste categorie reddituali abbiamo regole diverse per la determinazione della base imponibile,
con regimi sostitutivi di ritenuta alla fonte: nei capital games abbiamo visto il 26%, mentre per le
plusvalenze immobiliari è possibile su scelta delle parti la tassazione non con l’ordinaria IRPEF ma
un’aliquota sostitutiva proporzionale (flat) del 20%.
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